il manuale di epitteto

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Il Manuale di EpittetoIntroduzione, note e appendici storiche di S. SoleriTraduzione di M. Falco

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Page 1: Il Manuale di Epitteto

Bibliotec@SWIF

Introduzione, note e

appendici storiche di S. Soleri

Traduzione di M. Falco

Il Manuale di Epitteto

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Page 2: Il Manuale di Epitteto

Il Manuale, scritto da Arriano di Nicomedia, è un classico della storia della filosofia. Si tratta di un testo breve e di agevole lettura. Esso fu concepito allo scopo di presentare in forma sintetica il pensiero di Epitteto, filosofo di origine frigia il quale, condotto a Roma come schiavo, aderì allo Stoicismo ed in seguito fondò una scuola che divenne fa-mosa in tutto l’Impero. La sua natura di «prontuario filo-sofico» fa del Manuale un testo estremamente efficace per chi è alla ricerca di un criterio di orientamento etico nelle questioni della vita quotidiana. Il lettore moderno troverà sicuramente interessante il tentativo, che è poi lo scopo principale della filosofia di Epitteto, di fornire gli strumenti per una corretta valutazione delle nostre rappresentazio-ni. In una civiltà dominata dal culto dell’immagine, appare di straordinaria attualità il richiamo costante di Epitteto a considerare ciò che ci appartiene veramente e ciò che inve-ce ci è estraneo.

IL MANUALE DI EPITTETO

Monica Falco è laureata in Let-tere Classiche all’Università di Pisa, con una tesi su Esiodo. Insegna greco e latino al liceo classico di Ventimiglia (Imperia).

Sandro Soleri è laureato in Filosofia ed insegna nei licei di Sanremo e Ventimiglia. Si occupa di te-matiche logico-gnoseologiche e di recente ha pub-blicato uno studio su Wittgenstein (Note al Tracta-tus logico-philosophicus, Bibliopolis, 2003).

Page 3: Il Manuale di Epitteto

Bibliotec@SWIF - Readings/ClassiciCollana diretta da Enzo Rossi, Gian Maria Greco, Luciano Floridi

Il Manuale di Epitteto, introduzione, note e appendici stori-che di Sandro Soleri, traduzione di Monica Falco, SWIFReadings/ Classici, 2004, ISSN 1126- 4780,http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/epitteto_SWIF.pdf/

Introduzione, note e appendici storiche: © Sandro Soleri2004. Traduzione: © Monica Falco 2004. Realizzazione edi-toriale: © SWIF 2004.

SWIF - Sito Web Italiano per la FilosofiaEdizioni Digitali di Filosofia URL: http://www.swif.it/Registrazione ISSN n. 1126-4780

Tutti i diritti riservati. È consentita la copia per uso esclusivamente personale.Ciascuna copia dovrà riportare la presente pagina, contenentele indicazioni sul copyright. Sono consentite, inoltre, le copie a titolo di cronaca, studio, inse-gnamento, critica o recensione, purché accompagnate dall’ido-neo riferimento bibliografico. Per ogni ulteriore uso del mate-riale presente nel sito, è vietato l’utilizzo senza il permesso diautori o autrici. Si rimanda alle più estese norme sui dirittid’autore presenti sul sito Bibliotec@SWIF: http://www.swif.it/biblioteca/info_copy.php.

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Fabrizio Martina
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Page 4: Il Manuale di Epitteto

SWIF Readings/Classici

Epitteto

MANUALE

Traduzione di Monica Falco

Introduzione, note e appendici storiche di Sandro Soleri

2005SWIF - Edizioni Digitali di FilosofiaRegistrazione n. ISSN 1126-4780

Volume Supplementare 1

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Page 6: Il Manuale di Epitteto

INDICE

INTRODUZIONE AL TESTO 7

Note all’introduzione 28

Rigraziamenti e nota alla presente edizione 32

MANUALE (ENCHEIRIDION) 33

Note critiche 58

APPENDICI STORICHE 73

1. Vita e opere di Epitteto 73

2. Le origini della dottrina di Epitteto 77

2.1. Socrate 78

2.2. Antistene e la tradizione cinica 82

2.3. Lo stoicismo antico 86

2.4. La diffusione della filosofia a Roma 95

Note alle appendici storiche 104

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA 109

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Page 7: Il Manuale di Epitteto

INTRODUZIONE AL TESTO

Il Manuale (in greco: Encheiridion) è una raccol-ta che condensa in 53 brevi capitoli il nucleoessenziale del pensiero di Epitteto che troviamo

esposto, in modo più ampio e ragionato, nei quat-tro libri superstiti delle Diatribe redatti da Arrianodi Nicomedia. Lo scopo di quest’opera (anch’essa scritta da

Arriano) era probabilmente quello di fornire ai se-guaci della filosofia di Epitteto una serie di precettida fissare nella memoria e da utilizzare come guidadei nostri giudizi sulle vicende della vita quotidiana. Sappiamo che Epitteto raccomandava ai propri

discepoli una sorta di esame di coscienza allo scopodi inquadrare ogni azione compiuta nel corso dellagiornata alla luce dei principi appresi: «Bisognaavere sottomano ogni giudizio di cui si abbia biso-gno […] Non accogliere il sonno sui delicati occhi /prima di aver ben riflettuto a ciascuna delle azionicompiute durante la giornata/ In che cosa ho erra-to? Che cosa ho fatto? A quale dovere ho mancato?/ Comincia da lì e prosegui l’esame; e, poi, / biasi-ma quel che hai fatto di basso, e gioisci per ciò chehai fatto di buono1». A questa esigenza risponde ap-punto il Manuale, che già nel titolo richiama la suanatura di prontuario filosofico: Encheiridion signifi-ca infatti letteralmente: «ciò che sta in mano o ciòche è a portata di mano2».Nella redazione dell’opera Arriano non seguì un

criterio sistematico ma si limitò a selezionare alcu-ni degli elementi più significativi delle Diatribe e adesporli in forma sintetica senza troppo badare al-l’ordine logico delle osservazioni. Il risultato è unpercorso che privilegia le questioni di natura etica elascia sullo sfondo alcune premesse che nelleDiatribe avevano invece maggior risalto (ad esem-pio i temi di natura religiosa, le analisi riguardantil’anima e l’ordine della natura, le questioni logiche).

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Page 8: Il Manuale di Epitteto

Il Manuale possiede comunque una compiutezzaformale e una dignità letteraria di cui è testimo-nianza lo straordinario successo di pubblico godu-to nel corso dei secoli. In questa introduzione cer-cheremo di illuminare alcuni temi centrali dell’ope-ra ricostruendo il loro nesso con le analisi contenu-te nelle Diatribe. Il Manuale potrebbe essere descritto come un trat-

tato di difesa personale che mira a garantire all’in-dividuo la felicità e la libertà per mezzo dell’elimina-zione delle passioni. In questo senso, la filosofia chein esso è esposta va intesa come una medicina(pharmakon) che preserva l’anima da ogni turba-mento che potrebbe derivarle dall’influenza delmondo esterno. Lo scopo fondamentale delManuale di Epitteto consiste nell’insegnare a stabi-lire un corretto punto di vista sulle cose, vale a direa trovare la giusta prospettiva secondo la quale in-quadrare i fatti del mondo. Se si è in grado di rag-giungere tale punto di vista si è liberi, altrimenti si èschiavi.

«L’anima è come un catino pieno d’acqua; e il rag-gio di luce che cade sopra l’acqua sono le rappre-sentazioni. Quando, dunque, l’acqua è mossa, sembra cheanche il raggio di luce sia mosso, ma, in realtà,non lo è3».

Il mondo esterno ha una rilevanza per noi soltan-to in quanto immagine presente alla coscienza. Noi,infatti, non conosciamo le cose in se stesse, ma ab-biamo a che fare solo con le nostre rappresentazio-ni delle cose; e le rappresentazioni possono essereadeguate o inadeguate, corrette o scorrette, a se-conda delle condizioni in cui si trova la superficie ri-flettente sulla quale esse prendono forma: il nostrocompito consiste nel mantenere l’anima in unacondizione di serenità e di calma che le consenta di

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rispecchiare in modo neutrale quanto le provienedall’esterno sotto forma di immagine. Come possia-mo raggiungere questo obiettivo? Scegliendo di giu-dicare ogni evento per mezzo della parte egemonedella nostra anima, vale a dire la ragione4.La gnoseologia stoica aveva individuato nell’as-

senso la fonte dell’unica forma di libertà concessaall’uomo. Il soggetto conoscitivo si rappresenta ilmondo per mezzo di immagini, e il mondo è una to-talità ordinata dominata in ogni sua parte da unaconcatenazione necessaria di cause ed effetti deter-minata da un Fato immutabile. Sembrerebbe dun-que che in nessun caso e a nessun livello sia possi-bile inserire una via di fuga dal legame necessarioche lega un evento all’altro. Ma noi abbiamo il pote-re di sospendere l’assenso alle nostre rappresenta-zioni spezzando di fatto, almeno a livello psicologi-co, la catena delle cause. In questo, appunto, risie-de la libertà di cui gode il soggetto conoscitivo. Se laconcessione dell’assenso alle rappresentazioni nonfosse in potere dell’uomo, anche a livello conosciti-vo si realizzerebbe quel rigido ingranare degli even-ti tra loro che caratterizza i fatti del mondo; la li-bertà dell’assenso consente invece di porre gli in-granaggi della nostra facoltà conoscitiva in posizio-ne di folle in attesa di collegarli nel modo più conve-niente ed adeguato. Due sono le possibilità che aquesto punto si pongono di fronte al soggetto: inse-rire le rappresentazioni in collegamento con la ra-zionalità oppure lasciarsi dominare da esse inne-scando una reazione immediata di tipo emotivo. Sescegliamo il secondo tipo di circuito saremo travol-ti dalle nostre rappresentazioni e soffriremo di pas-sioni come la paura, l’odio, l’amore, l’invidia, ecc(che sono, nella loro essenza, null’altro che giudiziinadeguati). Se invece attiveremo il controllo dellarazionalità allora giudicheremo in modo obiettivo lerappresentazioni e realizzeremo quella condizionedi serenità dell’anima indispensabile alla vita sere-

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na ed equilibrata5.L’atto fondamentale mediante il quale la ragione

pone le premesse per l’esercizio di una condotta divita virtuosa è la distinzione (diairesis) tra ciò che èpropriamente nostro e ciò che invece non ci appar-tiene ed è perciò estraneo. Il Manuale di Epitteto siapre appunto ricordando che esiste una partizioneessenziale tra due livelli della realtà: quello dell’in-teriorità del soggetto, cui appartengono tutte le sueoperazioni interne (giudizi, desideri, volizioni, etc.),e quello degli accadimenti esterni, su cui il soggettonon ha alcun potere.

«Tra le cose che esistono al mondo, alcune sono innostro potere, altre no. Dipendono da noi un’opi-nione, un desiderio, un impulso, un rifiuto e, inuna sola parola, quanti sono i nostri atti. Non so-no invece in nostro potere il corpo, i beni, la repu-tazione, le cariche e, per dirlo in una parola, quan-te non sono nostre azioni. Le cose che dipendonoda noi sono per natura libere, non impedite, lim-pide, quelle che invece non sono in nostro poteresono prive di forza, schiave, piene di ostacoli,estranee».

Nel momento in cui tale distinzione viene fatta no-stra per mezzo di una scelta consapevole noi gua-dagniamo il fondamento della corretta valutazionedi ogni rappresentazione: ogni cosa esterna all’iodovrà infatti essere considerata da questo momen-to come indifferente perché estranea e immodifica-bile per mezzo del proprio volere. Gli eventi di cui sicompone il mondo andranno perciò valutati nel lo-ro valore di semplici immagini (rappresentazionipresenti alla coscienza) neutre rispetto a qualsiasiprospettiva di valore. Interpretati così, la morte, lemalattie, i giudizi altrui e in generale ogni accadi-mento che ci occorra nella vita quotidiana non sca-teneranno automaticamente una reazione emotiva

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di avversione o di desiderio ma saranno congelatinella coscienza come semplici rappresentazioni sucui esercitare il giudizio razionale.

«Dunque senz’altro di fronte ad ogni rappresenta-zione che ti colpisca per la sua asprezza allenati adire: “Sei solo una rappresentazione e non sei af-fatto ciò che sembri in apparenza”. Poi esaminalamolto attentamente con i criteri che hai, e soprat-tutto con questo come primo: è in relazione con lecose che sono in nostro potere o con quelle chenon lo sono; e se è in relazione con qualcosa fraquelle che non sono in nostro potere, sia subitochiaro questo: “Non mi riguarda”6».

Il bene ed il male, insomma, non riguardano le co-se in sé ma solo ed esclusivamente i nostri giudizisu di esse. Epitteto può così affermare che non so-no i fatti in sé a turbare gli uomini, bensì i giudiziche essi esprimono sui fatti7. E questi giudizi sa-ranno adeguati o inadeguati (corretti o scorretti) aseconda della prospettiva che scegliamo di assu-mere in merito ai fatti, vale a dire in funzione dellascelta di giudicare gli eventi tenendo conto delladiairesis oppure facendone a meno. Questa scelta prospettica è chiamata da Epitteto

prohairesis, termine che significa appunto «scelta»,«preferenza», «proposito», «motivo», ma che può an-che essere inteso più in generale come «modo dicomportarsi nella vita», «modo di pensare», «linea dicondotta». La scelta cui si riferisce la nozione diprohairesis non va dunque identificata con la voli-zione particolare di questa o di quell’altra cosa ben-sì con la scelta fondamentale che è a condizione ditutte le altre che possono essere compiute nel corsodell’esistenza. La prohairesis (usualmente tradottacon l’espressione: «scelta morale») è perciò da in-tendersi come una pre-scelta, un orientamento difondo che consiste nella decisione di adottare una

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determinata prospettiva di giudizio sul mondo esulla vita8. Nelle Diatribe, la prohairesis viene descritta come

una facoltà gerarchicamente superiore a tutte le al-tre, assolutamente libera e indipendente, cui ognialtra facoltà è sottomessa.

«Tu non sai che il giudizio si vince da se stesso enon è vinto da altro: la scelta morale niente puòvincerla; essa sola può vincersi9».

La prohairesis è precisamente la «facoltà che usale rappresentazioni» (afferenti alla coscienza attra-verso i cinque sensi): «Essa sola ha la vista acuta eabbraccia con lo sguardo tutte le altre nel loro sin-golo valore e se stessa10». Questi caratteri (in parti-colare, la preminenza gerarchica e la capacità diautoesaminarsi) sono quelli tradizionalmente attri-buiti all’egemonico, vale a dire alla facoltà razionale,e ci inducono ad identificare la prohairesis con laragione. In questo senso Epitteto può presentare laprohairesis come l’essenza stessa dell’uomo, ciòche lo caratterizza più intimamente quale esserepensante: «Esamina chi sei. Innanzitutto un uomo,cioè un essere che non ha in suo possesso nientesuperiore alla scelta morale, che ad essa sottomet-te tutto il resto e che mantiene la scelta morale al ri-paro dalla servitù e dalla sottomissione11». Anteriormente alla scelta morale (prohairesis) non

è nemmeno possibile stabilire una distinzione tra ilbene ed il male: «L’essenza del bene consiste in uncerto orientamento della scelta morale; quella delmale consiste, anch’essa, in un certo orientamentodella scelta morale12»; «Dove si trova il bene? Nellascelta morale. Dove si trova il male? Nella sceltamorale. Dove si trova ciò che non è né l’uno nél’altro? Negli oggetti che non dipendono dallascelta morale13».Che cosa sono dunque, il bene ed il male? Essi

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non sono proprietà degli oggetti o dei fatti di cui sicompone il mondo perché nel mondo tutto è come èe tutto risponde alle finalità stabilite dalla divinitàcon la sua provvidenza. Bene e male sono riferibilisoltanto ai nostri atti. La nostra prohairesis, allora,può essere buona o cattiva a seconda che aderiscae si conformi alla diairesis oppure assuma comeprincipi dell’agire scopi mondani quali gli onori, laricchezza, i piaceri, e via dicendo. La cattiva dispo-sizione della prohairesis, secondo Epitteto, dipendedalla prohairesis stessa: «E la scelta morale, che co-sa può per natura impedirla? Nessuno degli ogget-ti che non dipendono dalla scelta morale: essa stes-sa si impedisce quando è fuorviata. Perciò, da soladiventa vizio o virtù14». L’identificazione tra prohairesis e facoltà razionale

trasforma così l’opposizione tra virtù e vizio, e tra ilbene e il male, in un fatto interno alla ragione, di-pendente dalla qualità del suo orientamento di fon-do e conseguentemente dei suoi giudizi. In sé, il vi-zio è nient’altro che un giudizio inadeguato e consi-ste nel fatto che la ragione non compie tutti i passinecessari a chiarire l’essenza delle cose.

«Che cosa vuol dire “ladri” e “delinquenti”? Che so-no fuori strada riguardo ai beni e ai mali. Bisognadunque adirarsi con loro o non piuttosto com-piangerli? Mostra loro l’errore, e vedrai come si al-lontanano dalle loro colpe. Ma, se non hanno gliocchi ben aperti, non hanno niente di superiore aquel che pare loro15».

Questa impostazione segna un’adesione marcataai motivi dell’intellettualismo etico socratico: il malederiva sempre da un uso scorretto della nostra fa-coltà di giudicare, è l’assenso erroneamente conces-so ad una certa rappresentazione. Chi compie il ma-le agisce dunque seguendo una rappresentazioneerrata, compie cioè il male credendo di fare il bene.

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«Quando, dunque, uno assente al falso, sappi chenon voleva assentire al falso; ogni anima, infatti,come dice Platone, è privata della verità suo mal-grado; il fatto è che quello ha preso il falso per vero. Orsù, nella sfera delle azioni, che cos’abbiamo dianalogo a quel che, in questo caso, è il vero e il fal-so? Il dovere e il contrario del dovere, l’utile e il di-sutile, ciò che mi concerne e ciò che non mi con-cerne […]. Un uomo, pertanto, non può ritenere che una co-sa gli sia utile, senza sceglierla? Non può. E comesi spiegano le parole di Medea: So bene quali malisto per fare, ma il tumulto del mio cuore è più fortedel mio volere?16

Il fatto è proprio questo, compiacere il suo animoin tumulto e vendicarsi dello sposo, Medea credepiù utile che salvare i figli. Sì, ma si è sbagliata. Mostrale con evidenza che siè sbagliata, e non lo farà; ma, finché non glielo mo-stri, a cos’altro può andar dietro, se non a quel chele pare vero?17».

Nell’uomo è presente un’idea innata (prolessi, pre-nozione) di ciò che è bene e nessuno sceglie il malevolontariamente. Il disaccordo tra gli uomini sullequestioni riguardanti il bene ed il male nasce sem-plicemente perché non si applicano uniformemen-te le prenozioni innate ai casi particolari che di vol-ta in volta si presentano al giudizio:

«Le prenozioni sono comuni a tutti gli uomini; e tradi esse non c’è contraddizione. Chi di noi, infatti,non riconosce che il bene è utile, che è degno d’es-sere scelto e che bisogna ricercarlo e perseguirlo inogni occasione? Chi di noi non riconosce che ilgiusto è bello e conveniente? Quando, allora, na-sce la contraddizione? Quando si applicano le pre-nozioni ai casi particolari; se uno dice: Si è com-portato bene, è un prode, e un altro: No, è uno scer-

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vellato. Da questo deriva che gli uomini si con-traddicono reciprocamente. In tal modo si con-traddicono Ebrei, Siri, Egiziani e Romani, non giàsul fatto che il santo deve essere onorato più diogni altra cosa e ricercato in ogni circostanza, masulla questione se sia santo o meno il mangiarecarne di porco18».

Il richiamo continuo alla necessità di fornire giu-dizi adeguati sulle rappresentazioni chiama inevi-tabilmente in causa il ruolo della logica. «Il primo emaggior compito del filosofo consiste nel sottopor-re a prova le rappresentazioni, nel discernerle e nonaccettarne nessuna che non sia stata sottoposta aprova19». La logica è lo strumento per connetterecorrettamente le rappresentazioni (in sé né vere néfalse: verità e falsità risiedono nei nostri giudizi). Èin questa sua opera di sorveglianza critica sul lògose di strutturazione del giudizio che la logica dimo-stra la propria indispensabilità20. Epitteto mostradunque un interesse per le questioni logiche chesegna un netto distacco rispetto alla tradizione ci-nica. La logica fissa le regole e le misure di riferi-mento in base alle quali diviene possibile distin-guere le cose e separare il vero dal falso:

«È per questo motivo, credo, che si prepone la logi-ca alle altre discipline; e, allo stesso modo, se sitratta di misurare del grano, si comincia con l’esa-minare la misura. Perché, se non definiamo in-nanzitutto che cosa è un moggio e, poi, che cos’èuna bilancia, come potremo riuscire a misurare oa pesare qualcosa? E, in questo caso, se non avremo imparato conprecisione il criterio che serve a misurare le altrecose e con cui le conosciamo tutte, potremo avereuna conoscenza precisa di qualcuna di esse? Ecome sarebbe possibile? Sì, ma il moggio è un pez-zo di legno, ed è infecondo. Ma consente di misu-

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rare il grano. Anche la logica è infeconda. Questo,poi, lo vedremo. E anche se lo si concedesse, è suf-ficiente che essa sia in grado di distinguere e diesaminare tutte le altre cose e, per così dire, di mi-surarle e di pesarle. Chi dice queste cose? SoloCrisippo, Zenone e Cleante? Antistene non le di-ce? E chi è l’uomo che ha scritto: Il principio dell’e-ducazione consiste nell’esame delle parole? Nondice così anche Socrate? E a proposito di chiSenofonte scrive che cominciava dall’esame delleparole per cercare cosa ciascuna significasse?21».

Senza la logica non saremmo in grado di valutarele nostre rappresentazioni e allora agiremmo a casosenza poter distinguere il vero dal falso, il bene dalmale. È pur vero, però, che la logica dev’essere fun-zionale al progresso morale e dunque essa va stu-diata non per se stessa ma solo in quanto è condi-zione del discorso etico. Se perciò qualcuno tentas-se di sostituire una dimostrazione logica all’esem-pio di una vita buona dovrebbe sentirsi rispondere:«Questo è lo strumento di misura, schiavo; non èl’oggetto da misurare22». Nei termini dell'indagine contemporanea, si può

osservare a questo proposito che la posizione diEpitteto tende a delegittimare ogni indagine di na-tura meta-etica e a concentrarsi esclusivamentesull’aspetto normativo dell’etica. A rendere super-fluo il costituirsi di un livello autonomo di indaginesui principi primi della morale vale certamente l’i-dea che i principi in questione, come s’è detto, sonoinnati e comuni ad ogni individuo. È inoltre rile-vante il fatto che Epitteto indichi nella logica for-male lo strumento operativo che consente di defini-re le questioni di natura morale: in contrasto conuno degli assunti più tipici delle teorie contempora-nee, Epitteto ritiene che l’etica non costituisca unaforma di sapere separato e autonomo, dotato di unproprio paradigma di razionalità distinto da quello

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che caratterizza altri campi d’indagine (ad esempio,la descrittività propria del sapere scientifico). Inquesto senso, la posizione di Epitteto risulta con-flittuale non soltanto con il rifiuto di attribuire all’e-tica lo status di scienza (si pensi all’emotivismo diAyer, secondo cui le proposizioni etiche non comu-nicano un sapere ma si limitano a veicolare le emo-zioni e i sentimenti del soggetto che le enuncia); maaltresì con quegli orientamenti che tentano di asse-gnare alle riflessioni di natura morale una formapeculiare di razionalità «depotenziata» che ne ga-rantisca la legittimità distinguendola da altre formedi sapere «forte» (è il caso dell’intuizionismo diMoore e del recupero della distinzione aristotelicatra scienze teoretiche e scienze pratiche che carat-terizza un ampio settore degli studi contempora-nei). La logica, secondo Epitteto, definisce i criteriche valgono per il giudizio sia riguardo al vero e alfalso, sia riguardo al bene ed al male; ed essa esau-risce il suo compito nel momento in cui forniscel’indispensabile strutturazione al nostro giudizioconsentendoci di articolare in forma sistematica econsequenziale i principi innati riguardanti il beneed il male. Se dunque accettiamo che compito del-la meta-etica sia: 1. l’analisi della «logica» degli enunciati morali; 2. l’analisi delle «condizioni di possibilità dell'argo-

mentazione razionale in etica»; 3. l’identificazione preliminare di «ciò che è comu-

ne a tutti i punti di vista etici in quanto etici, pereventualmente passare a sottoscrivere una deter-minata etica a preferenza di tutte le altre23»

allora la posizione di Epitteto rende superflual’accezione 1 perché la logica che governa gli enun-ciati morali è la stessa che governa ogni altro enun-ciato; rende superflua 2 perché, in generale, le con-dizioni di possibilità dell’argomentazione razionale(le regole logiche) sono ingiustificabili (vedi a questoproposito quanto esposto in Appendici storiche 2.3

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Page 18: Il Manuale di Epitteto

ed in particolare la nota 149); vanifica l’accezione 3perché, essendo le nozioni morali innate, esse nonnecessitano di fondazione né sono concepibili eti-che alternative l’una all'altra.Se appare chiaro il ruolo della logica nel suo rap-

porto con il campo dell’etica, rimane ancora dachiarire quali proprietà possiedano i giudizi ade-guati sulle rappresentazioni. È possibile indicareuna forma caratteristica comune ad ognuno diessi? Se prendiamo gli esempi contenuti nel § 44del Manuale possiamo notare che Epitteto racco-manda un’analisi degli enunciati che tende a ri-durre un giudizio di valore sulle cose esterne aduna semplice descrizione di fatti.

«Sono incoerenti queste affermazioni: Sono piùricco di te, quindi sono superiore a te, Sono piùeloquente di te, quindi sono superiore a te.Queste affermazioni invece sono maggiormentepersuasive: Sono più ricco di te, quindi il mio pa-trimonio è superiore al tuo, Sono più eloquente dite, quindi il mio modo di parlare è superiore altuo. Tu, invero, non sei né patrimonio, né modo diparlare».

La proposizione: «Sono più ricco di te, quindi ti so-no superiore» contiene implicitamente un giudiziodi valore che assegna alla ricchezza un grado ge-rarchico superiore alla povertà; nella forma in cuiè espressa essa risulta «incoerente» perché la con-clusione contiene più di quanto è consentito infe-rire dalla premessa. Se analizzata correttamente,però, la proposizione si riduce ad una descrizioneche stabilisce una semplice equivalenza di signifi-cato tra il primo enunciato («Sono più ricco di te») el’asserzione: «Il mio patrimonio è superiore al tuo»; inquesta forma, essa non contiene nulla che assomi-gli ad una valutazione e il suo contenuto non risul-ta più sviante. Un altro esempio: anche il giudizio

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che vuole la morte terribile è un giudizio di valore. Esso perde però ogni connotazione negativa

quando ci si chiarisce il «che cos’è» della morte e sifornisce una definizione di essa. «È venuto il mo-mento di morire. Perché dici "di morire?" Non far-ne una tragedia, ma di’ le cose come stanno: è ve-nuto il momento per la materia di ritornare nuo-vamente agli elementi di cui è costituita. E che c’èdi tremendo in ciò?24». Se dunque definiamo e de-scriviamo la morte come una naturale separazio-ne degli elementi corporei la nostra considerazionedi essa si spoglia di quegli elementi emotivi che cela facevano giudicare negativamente. Ancora unesempio: «Uno si lava velocemente: non dire che silava male, ma che si lava in fretta. Un altro bevemolto vino: non dire che beve male, ma che bevemolto. Infatti prima di discernere la sua opinione,come sai se è male? Così non ti accadrà di riceve-re le rappresentazioni catalettiche di una cosa edesprimere assenso ad un’altra25». Anche in questo caso, il giudicare correttamente

implica che alla valutazione debba sostituirsi lapura e semplice descrizione. In modo analogo sisarebbe espresso Marco Aurelio:

«Come le vivande cotte e altri commestibili del ge-nere bisogna rappresentarli quali il cadavere diun pesce, di un uccello o di un porcellino; e ilFalerno quale succo d’uva; e la porpora qualepeli di pecora bagnati nel sangue d’una conchi-glia; e il coito quale lo sfregamento d’un budelli-no e l’emissione di un po’ di muco accompagna-to da uno spasimo; e queste rappresentazioni,così come sono, colgono a fondo l’essenza dellecose e le mostrano nella loro realtà: così bisognacomportarsi in ogni occasione della vita, ponen-do le cose a nudo, quando ci si presentano trop-po seducenti, scorgerne la bassezza e spogliarledi quella popolarità di cui si fan belle26».

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Un giudizio adeguato sulle nostre rappresentazio-ni è sempre caratterizzato da una forma di questotipo: esso è una descrizione o una definizione dellecose così come si presentano al nostro sguardo nel-la loro nudità, indipendentemente da quel coloreche si aggiunge alla rappresentazione quando giu-dichiamo gli eventi esterni nella prospettiva del be-ne e del male. Si può osservare che questa traducibilità degli

enunciati valutativi in forma descrittiva sarebbe di-venuta, nella filosofia del Novecento di orientamen-to analitico, lo strumento per mostrare l’irrilevanzaetica di un mondo ridotto ad un puro insieme di fat-ti. Si prenda ad esempio la seguente affermazionedi Wittgenstein:

«Ogni giudizio di valore relativo è una pura asser-zione di fatti e può quindi essere espresso in unaforma tale da perdere del tutto l’aspetto di un giu-dizio di valore. Invece di dire: “Questa è la via giu-sta per Granchester”, avrei potuto dire altrettantobene: “Questa è la via giusta che dovete percorre-re se volete raggiungere Granchester nel più bre-ve tempo possibile”. “Quest'uomo è un buon corri-dore” significa solo che percorre un certo numerodi chilometri in un certo numero di minuti, ecc.Ora, io voglio affermare che, mentre si può mo-strare come tutti i giudizi di valore relativo sianopure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fat-ti può mai essere, o implicare, un giudizio di valo-re assoluto27».

L’idea di Wittgenstein è che un enunciato di valo-re, una volta ridotto alla sua vera forma (che è ap-punto quella descrittiva) perde la sua connotazioneoriginaria e diventa inservibile per l’etica. La tesi diEpitteto è invece diametralmente opposta: la ridu-zione del giudizio al paradigma descrittivo, infatti,possiede una rilevanza etica fondamentale perché

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consente di guadagnare nei confronti delle coseesterne quella imperturbabilità che costituisce il fi-ne principale della valutazione morale. La rappresentazione delle cose esterne richiede

dunque, per essere adeguata, di non caricare la raf-figurazione di elementi ad essa estranei. Questo ac-cade però inevitabilmente quando trascuriamo diaffidare il giudizio sulle cose esterne alla ragione. Inquesto caso noi siamo travolti dal significato imme-diato delle rappresentazioni e subiamo le passioniche si accendono nei confronti delle cose, prime fratutte il desiderio e l’avversione. In questo senso, lepassioni sono vere e proprie malattie dell’anima chebisogna estirpare. «Quando, dunque, vedi unosbiancare in volto, come il medico in base al colori-to del malato conclude: Quest’uomo soffre di bile,quest’altro di fegato, ugualmente concludi anchetu: Quest’uomo soffre di desideri e di avversioni,non sta bene, ha un’infiammazione28». Da cosa sioriginano le passioni? Dal fatto che tentiamo di mo-dificare il corso degli eventi dimenticando che le co-se esterne non sono in nostro potere bensì sono re-golate da una necessità con la quale non possiamointerferire. «L’affezione non si verifica altrimenti chequando si è frustrati nei propri desideri o si incorrein ciò che si avversa29». E l’affezione è uno stato dipassività dell’anima e di turbamento continuo do-vuto all’impossibilità che il mondo esterno si adeguialla nostra volontà. L’unico rimedio a questo statodi cose è tornare a far prevalere i giudizi della ragio-ne, vale a dire sostituire la descrizione alla valuta-zione; come avrebbe detto Spinoza, infatti, «un af-fetto che si presenta come passione cessa di esseretale non appena ci formiamo di esso un’idea chiarae distinta30». Spegnere la facoltà desiderativa è anche l’unico

mezzo per realizzare la nostra libertà: infatti «non ècon l’ottenimento di ciò che si desidera che si con-segue la libertà, bensì con la rimozione del deside-

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rio31». Non desiderando le cose che non sono in no-stro potere, giudicandole indifferenti, non saremoturbati e allo stesso tempo ci sganceremo dal con-trollo che gli altri individui esercitano su di noi: colo-ro i quali possiedono i beni materiali, infatti, diventa-no nostri padroni nel momento in cui noi desideria-mo quei beni32.

«Volete vivere in preda al timore, in preda alla pe-na, in preda al turbamento? Per Niente!. Dunque,né nel timore, né nella pena, né nel turbamento siè liberi; ma chi si è distaccato dalle pene, dallepaure e dal turbamento, costui per la medesimavia, si è pure staccato dalla servitù33».

A testimonianza dell’importanza attribuita daEpitteto al tema della libertà, è stato notato che itermini "libero" e "libertà" compaiono nelleDiatribe per ben 130 volte34. Epitteto, però, inten-de sempre questi termini nell’accezione dell’as-senza di impedimenti e di coazioni esterne, noncome libertà di fare quel che si vuole. Ciò è in fon-do inevitabile dato che l’affermazione della libertàdi indifferenza risulterebbe in contrasto con quel-la di un mondo regolato dalla legge del Fato e dalquale sono perciò banditi il caso e la contingenza.Si potrebbe dire, ribaltando un celebre motto, chenell’universo quale è concepito dalla tradizionestoica nessuno è artefice del proprio destino. La li-bertà di cui parla Epitteto consiste semplicementenel dominio di sé e nella serena accettazione dell’i-nevitabile: l’unica iniziativa concessa all’uomo, in-fatti, è quella di riconoscere razionalmente la neces-sità del tutto e di adeguarvisi nei giudizi e nell’agire. Per la sensibilità moderna, tale concezione può

forse apparire eccessivamente limitante e ridutti-va, ma è l’unica coerente con le premesse assunteda Epitteto. L’individuo, nel cosmo stoico, è sem-plicemente una parte della totalità e svolge un

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ruolo solo in quanto membro di questo insiemeordinato. La libertà di cui ci parla Epitteto asso-miglia in questo senso a quella di un ingranaggioche prende coscienza di sé e, comprendendo chenon può impedire il suo movimento solidale contutti gli altri ingranaggi della macchina cui appar-tiene, accetta il proprio ruolo senza aspirare adun’autonomia che di fatto risulta impossibile edimpensabile. Detto altrimenti: nessuno può modi-ficare l’ordine del mondo, ma ognuno ha in pro-prio potere la capacità di modificare il suo giudiziosu di esso. Perciò Epitteto raccomanda:

«Non desiderare che gli avvenimenti accadanocome vuoi, ma desidera che avvengano come siverificano e sarai sereno35». «Non bisogna dirigere gli eventi, ma seguirli36». «Se vuoi sei libero; se vuoi, non rimprovererainessuno, non ti lamenterai di nessuno, e tuttoavverrà secondo il tuo volere e, contemporanea-mente, secondo il volere di Dio37».

L’accettazione del Fato viene così a caricarsi diun forte sentimento religioso: adeguarsi all’ordinenecessario delle cose significa adeguarsi alla vo-lontà di Dio, identificarsi con quanto da lui stabi-lito per mezzo della sua Provvidenza. «Schiavo,vuoi qualche altra cosa, se non ciò che è meglio?E c’è qualche altra cosa migliore di quel che Diovuole?38». Da questo punto di vista, il tentativo disottrarsi al proprio destino trasforma automatica-mente la propria condizione esistenziale in unaprigione: «E qual è dunque la punizione per quelliche non sanno accettare le situazioni? Il trovarsiappunto nello stato in cui si trovano. Uno è scontento di essere solo? Rimanga nel suo

isolamento. Un altro è scontento dei genitori? Siaperciò un figlio cattivo e si affligga. Un altro anco-ra è scontento per i figli? Sia un cattivo padre.

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«Caccialo in prigione». Quale prigione? Il luogo incui si trova ora, perché vi si trova suo malgrado.Infatti, dove uno si trova suo malgrado, lì è la suaprigione. Così, nel caso di Socrate, non era in pri-gione, perché vi stava di buon grado39». Posto che bisogna rimuovere il concetto di bene

e di male dalle cose che non sono in nostro pote-re e trasferirlo alle cose che dipendono da noi, eunicamente a quelle40, rimane ancora da chiari-re a quale condotta di vita debba uniformarsi ilsaggio in relazione ai doveri sociali. Cariche,onori, patria, amici e famiglia sono tutte coseesterne sulle quali non abbiamo potere e chepertanto vanno considerate come indifferenti;ciò tuttavia non comporta che si debba adottareun atteggiamento passivo di rinuncia e di equi-valenza di tutte le scelte riguardo a questi beniapparenti. Epitteto raccomanda di usare tuttequeste cose con proprietà: «Le cose esterne so-no indifferenti, mentre l’uso di esse non è indif-ferente41». È necessario, cioè, unire alla imper-turbabilità un atteggiamento di sollecitudineverso le cose esterne, badare ad usarle corret-tamente pur senza attaccarci ad esse o dipen-dere da esse. Lo stesso vivere è indifferente, manon è indifferente l’uso che si fa della vita (sipuò infatti vivere bene o male).

«E che, si deve usare di queste cose negligen-temente? Per niente! Tale atteggiamento, in-fatti, è a sua volta male per la scelta morale e,quindi, contrario a natura. Bisogna servirsidelle cose con sollecitudine, perché l’uso non èindifferente e, insieme, con fermezza e impertur-babilità, perché la materia non ci importa […].Bisogna, infatti, in tutto e per tutto, darsi da fa-re abilmente riguardo ad ogni cosa esterna, nonnel senso di aderirvi, bensì, quale che essa sia, didispiegare la propria abilità riguardo ad essa42».

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La proposta di Epitteto consiste nel figurare unmodello di esistenza in cui ognuno assume l’im-pegno di giocare nel modo più conveniente con lecarte che il destino gli ha messo in mano. «Ricordache sei attore di un dramma, ed è chi lo allestiscea stabilire di quale dramma: se lo desidera breve,di un dramma breve; se lo desidera lungo, di unolungo; qualora desideri che tu sostenga la parte diun mendicante, cerca di recitare con bravura an-che questa parte, e così per la parte di uno zoppo,di un magistrato, di un privato cittadino: infattiquesto è il tuo compito: impersonare bene il per-sonaggio assegnato; sceglierlo spetta ad un al-tro43». Su queste basi si possono giustificare comerazionali e naturali anche i doveri imposti all’uo-mo dalle relazioni che si instaurano nella vita as-sociata. «Non devo, infatti, essere impassibile comeuna statua, ma rispettare le relazioni naturali e ac-quisite, come un uomo pio, come un figlio, comeun fratello, come un padre e come un cittadino44». Tuttavia Epitteto non accetta di stabilire una di-

stinzione tra le cose esterne allo scopo di attribui-re ad alcune di esse il valore di beni (Epitteto rifiu-ta pertanto la dottrina dei preferibili sviluppatadalla media Stoà). Le cose esterne sono tutte in-differenti perché se così non fosse si verrebbe astabilire una dipendenza da esse e sacrificherem-mo la nostra tranquillità e felicità.

«Come si può affermare, allora, che degli oggettiesterni alcuni sono secondo natura ed altri con-tro natura? È come se fossimo indipendenti.Infatti, dirò, nel caso del piede, che è secondo na-tura che sia pulito; ma, se lo consideri come pie-de e come una cosa che non è indipendente, do-vrà andare anche nel fango, camminare sullespine, e a volte anche essere amputato per la sal-vezza del corpo tutto. Se no, non sarà più un piede. Una considerazio-

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ne analoga si deve fare anche per noi. Che cosasei? Un uomo. Se ti consideri come essere indi-pendente, è secondo natura vivere fino alla vec-chiaia, godere della ricchezza e avere buona sa-lute. Ma se ti consideri come uomo e come partedi un tutto, a causa di questo tutto ti conviene oraammalarti, ora navigare e correre pericoli, orasopportare la povertà e, a volte, anche morire an-zitempo. Perché ti adiri? Non sai che, preso indi-pendentemente dal resto, come quello non saràpiù un piede, così neppure tu sarai un uomo?45».

Nel pensiero di Epitteto sussiste insomma unconflitto tra l’esigenza di garantire all’individuouna salvezza guadagnata per mezzo dell’isolamentodalla realtà esterna e l’esigenza di giustificare la di-mensione sociale ed i legami naturali dell’uomo. Enon è difficile constatare che quando si tratta di sce-gliere tra questi due poli è sempre la prima esigenzaad avere il sopravvento a spese della seconda. È purvero che Epitteto include tra i doveri «di primaria im-portanza» azioni quali svolgere il proprio ruolo di cit-tadino, sposarsi, avere dei figli, prendersi cura dei ge-nitori46. Tuttavia su questo punto le oscillazioni so-no evidenti. Nel ritratto del filosofo cinico cui è dedi-cato il lungo capitolo III delle Diatribe, Epitteto af-ferma esplicitamente che famiglia, doveri privati erelazioni sociali sono d’impaccio al corretto svolgi-mento dell’attività di filosofo. La realizzazione dellavirtù impone infatti di essere pronti in qualsiasimomento ad abbandonare ogni cosa per salvare lapropria tranquillità interiore. «Così anche nella vi-ta, se ti sono dati, invece di una piccola radice o diuna conchiglietta, una moglie o un figlio, nulla tiimpedirà di tenerli; ma qualora il timoniere chiami,corri alla nave, dopo aver gettato tutte quelle cose,senza voltarti indietro47». Per preservare la propria tranquillità interiore si

dev’essere dunque disposti a sacrificare ogni legame

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– anche quelli più forti- con quanto appartiene allarealtà esterna. Del resto, l’insistenza con cui Epittetodescrive la distanza che deve separare il saggio dal-l’uomo comune ha spesso un accento di "aristocrati-co" disprezzo per il volgo (si veda ad esempio il § 33del Manuale) e rivela una scarsa adattabilità dei pre-cetti contenuti nel Manuale alla fondazione di unamorale sociale. In questo senso si misura tutta la di-stanza che corre tra la filosofia di Epitteto ed il mes-saggio cristiano: al precetto della carità e dell’amoredel prossimo, tipici del Cristianesimo, si sostituisco-no in Epitteto l’autosufficienza, l’imperturbabilità el’indifferenza del saggio, il quale è immune da senti-menti "negativi" come la compassione. A conti fatti, il modello etico proposto da Epitteto si

rivolge ad un soggetto considerato sempre nel suoindividuale isolamento; e la salvezza che ci viene pro-messa è sempre una salvezza individuale che risultadifficilmente conciliabile con la cura degli altri.

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NOTE

1 Diatribe, III, 10, 1-3. Epitteto cita un detto di Pitagora,Carmen Aur., in Mullach, Fragm. Phil. Graec., I, pp. 195-196. Le citazioni dalle Diatribe che compaiono in questotesto sono tratte dall'opera: Epitteto. Diatribe, Manuale,frammenti, Introduzione a cura di G. Reale, traduzione enote di C. Cassanmagnago, Rusconi, Milano, 1982.2 Angelo Poliziano, che tradusse in latino il Manuale,scrive nella sua dedica a Lorenzo de Medici: «E poichéè bene tenere sempre a portata di mano questo libro,[Arriano] lo intitolò Encheiridion, il nome di un piccolopugnale militare».3 Diatribe, III, 3, 20-21.4 Gli Stoici distinguevano nell'anima otto funzioni es-senziali: i cinque sensi, più la facoltà generativa, la fa-coltà della parola e la ragione. Quest'ultima era chia-mata «egemònikon» e costituiva l’elemento gerarchica-mente superiore e dominante rispetto agli altri. 5 Cfr. Marco Aurelio (XI, 12): «La sfera dell'anima con-serva inalterata la propria forma quando non si pro-tende verso qualcosa, né si ripiega al suo interno, né sidisperde, né si adagia, ma risplende della luce con cuivede la verità di ogni cosa e la verità che ha in sé».6 Manuale, § 1.7 Manuale, § 5.8 «La prohairesis è una pre-decisione: non riguardaperò il caso singolo, ma ha un valore di principio. Lagiusta decisione singola dipende dal fatto che noi appli-chiamo correttamente i concetti di bene e di male e, da-to che questi concetti […] hanno bisogno di essere chia-riti e analizzati dal logos, è necessaria una chiara pre-decisione, razionale e pregiudiziale, riguardo a ciò chedobbiamo ritenere buono e utile o meno. Questa deci-sione preliminare è appunto la prohairesis. Essa è lapremessa di ogni decisione singola, non come atto cheavviene una volta tanto, ma come coerente atteggia-mento spirituale da cui scaturisce, sul piano della pratica, ogni nostra singola azione» (M. Pohlenz, La stoa.

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Storia di un movimento spirituale, La Nuova Italia,Firenze, 1967, vol. 2, p. 115). Si noti, tuttavia, cheEpitteto (Diatribe, I, 17, 25-26) identifica la prohairesisanche con il giudizio (dogma). Così commenta G. Reale:«La prohairesis è l'atto fondamentale del logos o ragionedell'uomo e, dunque, è un giudizio di fondo che condi-ziona i vari giudizi particolari e, ad un tempo, si esprimee prende corpo nei medesimi. Di conseguenza, ben sicomprende come la prohairesis sia il fondamento delretto uso delle rappresentazioni e, insieme, coincida conquesto; infatti, essa si esplica appunto tramite questoretto uso» (Introduzione a: Epitteto, Diatribe, Manuale, fram-menti, Rusconi, Milano, 1982, p. 12.9 Diatribe, I, 29, 12.10 Diatribe, II, 23, 5-19.11 Diatribe, II, 10, 1.12 Diatribe, I, 29, 1.13 Diatribe, II, 16, 1.14 Diatribe, II, 23, 19.15 Diatribe, I, 18, 3-4.16 Euripide, Medea, 1078-1079.17 Diatribe, I, 28, 4-8.18 Diatribe, I, 22, 1-4. Cfr. II, 11, 3: «Del bene e del ma-le, del bello e del turpe, del conveniente e dello sconve-niente, della felicità, di quel che si addice e che ci ri-guarda, di quel che bisogna fare e di quel che non bi-sogna fare, chi è venuto al mondo senza averne il con-cetto innato?».19 Diatribe, I, 20, 7.20 Va ricordato che, in questo contesto, 'logica' (teoriadel lògos) ha una valenza duplice: la disciplina tratta sial'inferenza valida (come nell'accezione odierna del termi-ne), sia, più estesamente, le procedure per l'accerta-mento della verità.21 Diatribe, I, 17, 6-12 (Corsivo nostro).22 Diatribe, III, 26, 19.23 Le definizioni 1 e 2 sono di Carla Bagnoli, Etica, in L.Floridi (a cura di), Linee di Ricerca, SWIF, 2003, ISSN1126-4780, pp.179-180, www.swif.it/biblioteca/lr.; la

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definizione 3 è di E. Lecaldano, Etica, in P. Rossi (a curadi), La filosofia, Torino, Utet, 1995, vol. III, p. 328.24 Diatribe, IV, 7, 15.25 Manuale, § 45.26 Marco Aurelio, VI, 13.27 L. Wittgenstein, Conferenza sull'etica, in: Lezioni e

conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la cre-denza religiosa, Bompiani, Milano, 1987, p. 9.28 Diatribe, II, 13, 12.29 Diatribe, III, 2, 3.30 Spinoza, Ethica, V, prop. 3.31 Diatribe, IV, 175.32 Diatribe, IV, 1, 60.33 Diatribe, II, 1, 24.34 W. A. Oldfather, Epiktetus, Loeb, Londra, 1928, I, p. XVII.35 Manuale, § 8.36 Diatribe, III, 10, 18.37 Diatribe, I17, 28.38 Diatribe, II, 7, 13.39 Diatribe, I, 12, 21-23.40 Manuale, § 31.41 Diatribe, II, 5, 1.42 Diatribe, II, 5, 6-7; 20.43 Manuale, § 17.44 Diatribe, III, 2, 4.45 Diatribe, II, 5, 24-26.46 Diatribe, III, 7, 26.47 Manuale, § 7.

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RINGRAZIAMENTI

Ringraziamo i direttori di Bibliotec@SWIF-Readings, GianMaria Greco, Luciano Floridi ed Enzo Rossi, per gli utilisuggerimenti a proposito dell’introduzione, e per i consi-gli circa l’impostazione generale dell’e-book. Ringraziamoanche il referee anonimo e tutta la redazione di Readingsper aver seguito con impegno il nostro progetto, dalla faseiniziale fino alla pubblicazione.

NOTA ALLA PRESENTE EDIZIONE

Questa traduzione del Manuale è stata condotta sul testo del-la II edizione di Schenkl (Lipsia, 1916; ristampa anastaticaStuttgart, 1965) riveduto e corretto da Enrico V. Maltese nel-l’edizione Garzanti (Milano, 1990).

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MANUALE (ENCHEIRIDION)

1. Tra le cose che esistono al mondo, alcune sonoin nostro potere, altre no. Dipendono da noi un’o-pinione, un desiderio, un impulso, un rifiuto e, inuna sola parola, quanti sono i nostri atti. Non sonoinvece in nostro potere il corpo, i beni, la reputa-zione, le cariche e, per dirlo in una parola, quantenon sono nostre azioni. [2] Le cose che dipendonoda noi sono per natura libere, non impedite, lim-pide, quelle che invece non sono in nostro poteresono prive di forza, schiave, piene di ostacoli,estranee. [3] Ricorda, dunque, che qualora tu re-puti libere le azioni schiave per natura, e tue pro-prie quelle che non ti appartengono, allora saraiostacolato, piangerai, sarai sconvolto, incolperaidèi e uomini; qualora, invece, consideri che è tuosoltanto ciò che ti appartiene, mentre giudichiestraneo, come è in realtà, ciò che è estraneo, nes-suno ti costringerà mai, nessuno ti ostacolerà, nonrimprovererai nessuno, non accuserai nessuno,non compirai nulla contro la tua volontà, nessunoti danneggerà, non avrai nemici, infatti non subi-rai nulla di dannoso48. [4] Quindi, se desideri ardentemente beni così gran-

di, ricorda che non bisogna dedicarsi a questi pro-cedendo con moderazione, ma che occorre abban-donare del tutto certe cose, e differirne altre per ilmomento49. Ma qualora tu voglia anche queste co-se, ed esercitare cariche ed essere ricco, forse nonavrai in sorte neppure queste ultime, per il fat-to di desiderare anche le prime, e senza dubbionon raggiungerai quelle cose soltanto grazie al-le quali derivano libertà e felicità. [5] Dunquesenz’altro di fronte ad ogni rappresentazioneche ti colpisca per la sua asprezza allenati a di-re: «Sei solo una rappresentazione e non sei af-fatto ciò che sembri in apparenza50». Poi esami-nala molto attentamente con i criteri che hai, e

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soprattutto con questo come primo: è in relazio-ne con le cose che sono in nostro potere o conquelle che non lo sono; e se è in relazione conqualcosa fra quelle che non sono in nostro pote-re, sia subito chiaro questo: «Non mi riguarda51».

2. Ricorda che proprietà di un desiderio è ottene-re un successo in ciò a cui aspiri, proprietà invecedi un rifiuto è riportare un successo nel non incor-rere in quello che viene evitato, e colui che non rie-sce ad appagare un desiderio è infelice, come èsventurato colui che incorre nell’avversione.Pertanto se eviterai, soltanto, le cose contro natu-ra, fra quelle che dipendono da te, non incorreraiin nessuna delle cose che avversi; se invece scan-serai la malattia, o la morte, o la povertà, sarai indifficoltà. [2] Togli di mezzo dunque l’avversione da tutte

quelle cose che non sono in nostro potere e spo-stala su quelle cose contro natura che sono in no-stro potere. Elimina del tutto il desiderio per il mo-mento presente: infatti qualora desideri una diquelle cose che non sono in nostro potere è neces-sario che tu fallisca; e d'altra parte ancora nonpuoi disporre di alcune tra le cose che sono in no-stro potere, alle quali sarebbe bene rivolgere ildesiderio. Utilizza soltanto lo slancio e l’avver-sione, tuttavia in modo leggero, con riserva e li-beramente.

3. Di fronte a ciascuna delle cose che ti allettanoo che recano vantaggio o che sono amate, ricordadi indicare, inoltre, di quale specie sono, comin-ciando dalle più piccole; qualora ti piaccia unapentola, ricorda di dire: «Mi piace una pentola»; co-sì, se andasse in frantumi non ne sarai sconvolto;se baci teneramente tuo figlio o tua moglie, ricordadi dire che baci un essere umano, perché non nesarai turbato una volta che è morto52.

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4. Qualora tu stia per mettere mano ad una azio-ne, ricorda a te stesso, di quale natura sia l’azione.Se esci per lavarti, richiama a te stesso le cose cheavvengono in un bagno pubblico: quelli chespruzzano, quelli che urtano, quelli che oltrag-giano, quelli che rubano. E così intraprenderaila tua azione con più sicurezza se dirai subito:«Voglio fare un bagno e mantenere la mia li-bera decisione, che è secondo natura». E com-portati così per ciascuna azione. In questo modo, infatti, se qualcosa fosse di

ostacolo al lavarti, ci sarà a portata di mano que-sta riflessione: «Non volevo solo lavarmi, ma an-che osservare la mia scelta morale secondo natu-ra, ma non la manterrò qualora mi irriti per quel-lo che accade53».

5. Non i fatti turbano gli uomini, ma i giudizi suifatti54. Per esempio la morte non è nulla di terribi-le (poiché tale sarebbe sembrata anche aSocrate), ma il giudizio sulla morte, e cioè che siaterribile, quello è terribile. Dunque qualora sia-mo ostacolati o sconvolti, o addolorati, nondobbiamo mai ritenere responsabile nessunaltro, ma noi stessi, cioè i nostri giudizi. Èproprio di una persona ignorante incolparegli altri dei propri insuccessi; è proprio di chiha iniziato ad essere istruito incolpare sestesso; è proprio di chi si è educato alla filo-sofia non accusare né gli altri né se stesso.

6. Non esaltarti per un pregio altrui. Se il cavalloesaltandosi dicesse: «Sono bello», sarebbe soppor-tabile; ma tu, quando vantandoti dici: «Ho un belcavallo», sappi che ti esalti di un pregio del cavallo. Che cos’è dunque tuo? L’uso delle rappresenta-

zioni. Perciò, quando ti regoli secondo natura nel-l’uso delle rappresentazioni, allora esaltati: infat-ti ti esalterai per un pregio che è tuo55.

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7. Come in un viaggio per mare, dopo che la na-ve è arrivata in porto, se sbarcassi per procurartiacqua, cammin facendo ti potrà capitare di racco-gliere una conchiglietta o una piccola radice, e tut-tavia occorre che il tuo pensiero si rivolga alla navee che tu ti volti continuamente indietro, nel caso tichiamasse il timoniere, e qualora ti chiami, è ne-cessario che tu lasci perdere tutte quelle cose, af-finché tu non sia caricato legato come le pecore;così anche nella vita, se ti sono dati, invece di unapiccola radice o di una conchiglietta, una moglie oun figlio, nulla ti impedirà di tenerli; ma qualora iltimoniere chiami, corri alla nave, dopo aver getta-to tutte quelle cose, senza voltarti indietro. Se poisei vecchio, non allontanarti mai troppo dalla na-ve, per non mancare, quando sarai chiamato.

8. Non desiderare che gli avvenimenti accadanocome vuoi, ma desidera che avvengano come si ve-rificano e sarai sereno56.

9. Una malattia è impedimento del corpo, manon della scelta morale, a meno che non lo vogliaquesta stessa. Zoppicare è impedimento dellagamba, ma non della scelta morale. Ripeti questo concetto per ciascuna delle cose

che ti possono capitare; infatti troverai che è impe-dimento di qualcos’altro, non di te stesso57.

10. Per ciascuna delle cose che ti capitano, ricor-da, rivolgendoti a te stesso, di cercare quale facoltàhai in relazione ad essa. Qualora tu veda un bel-l’uomo o una bella donna, troverai che la facoltàper queste cose è la padronanza di sé; qualora sipresenti una fatica, troverai la costanza; per un’in-giustizia troverai la pazienza. Abituato così, le rap-presentazioni non ti travolgeranno58.

11. Non dire mai di nessuna cosa: «L’ho persa»,

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ma «L’ho resa». È morto tuo figlio? È stato resti-tuito. È morta tua moglie? È stata restituita.Sono stato privato del podere. Ebbene anchequesto è stato restituito. «Ma chi me l’ha porta-to via è un uomo malvagio»: ma che cosa ti im-porta per mezzo di chi abbia reclamato la resti-tuzione colui che te lo aveva dato? Finché te loconcede, occupatene come di un bene altrui, co-me gli avventori della locanda59.

12. Se vuoi far progressi, lascia perdere riflessio-ni di questo tipo: «Se trascurerò i miei beni, nonavrò mezzi per vivere», «Se non punisco il mioschiavo, diventerà malvagio». È preferibile, infat-ti, morire di fame, divenuto libero dal dolore edalla paura, che vivere nell’agiatezza, ma pienodi turbamenti. È meglio che il tuo schiavo siamalvagio che tu sventurato60. [2] Perciò comin-cia dalle piccole cose . Viene versato dell’olio, viene sottratto un po’ di vi-

no: di’ a te stesso: «A tanto è venduta l’apatia, atanto l’atarassia». Nulla si ottiene gratuitamente61.Ma qualora tu chiami il tuo schiavo pensa che puònon darti ascolto e, pur ascoltando, può non as-solvere a nessuno dei compiti che gli assegni;ma non ha certo il privilegio di avere la tua tran-quillità interiore in suo potere.

13. Se vuoi far progressi, accetta la reputazionedi persona del tutto stolta, non voler affatto appa-rire sapiente: e qualora tu sembri ad alcuni esserequalcuno, non credere a te stesso62. Sappi infatti che non è facile conservare la tua

scelta morale conforme a natura ed anche le co-se esterne, ma vi è assoluta necessità che se tipreoccupi dell’una trascuri le altre63.

14. Se vuoi che i tuoi figli, tua moglie e i tuoi ami-ci vivano per sempre sei stolto; infatti vuoi che le

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cose non in tuo potere siano in tuo potere e che lecose non tue siano tue64. Allo stesso modo se vuoiche il tuo schiavo non sbagli, sei pazzo; infatti vuoiche il vizio non sia vizio, ma qualcos’altro65. Ma senon vuoi fallire, quando aspiri a qualche cosa,questo puoi ottenerlo. Quindi esercitati in ciòche puoi. Padrone di ciascuno è colui che ha la facoltà di

procurare o di togliere all’uomo ciò che vuole onon vuole. Chi dunque vuole essere libero, né desideri né

fugga qualcosa che è in potere di altri; in casocontrario è necessario che sia schiavo66.

15. Ricorda che devi comportarti come a unbanchetto. Un piatto portato in giro è giunto a te: dopo aver

teso la mano prendi la tua parte con moderazio-ne; il piatto passa oltre; non trattenerlo; non èancora arrivato: non seguire troppo l’appetito,ma aspetta finché non sia di fronte a te. Così devi comportarti con i figli, con la moglie,

con le cariche pubbliche, così con la ricchezza;un giorno sarai un degno convitato degli dèi67. Ma poi, qualora tu non prenda le portate che ti

sono servite, ma le ignorerai, allora non solo sa-rai un convitato degli dèi, ma anche eserciterai ilpotere con loro. Infatti comportandosi cosìDiogene ed Eraclito e quelli come loro erano abuon diritto divini e così erano chiamati68.

16. Qualora tu veda che qualcuno piange per undolore o per la partenza di un figlio, o per la perdi-ta dei propri beni, bada che la rappresentazionenon ti trascini via, nel convincimento che si trovinella disgrazia a causa di fatti esterni, ma subi-to ci sia a portata di mano questa considera-zione: «Non ciò che è accaduto tormenta costui(infatti non tormenta un altro), ma la sua opi-

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nione su questo». Pur tuttavia non esitare, solo a parole, a

condividere con lui il suo dolore, e, se capi-ta, anche a gemere con lui: ma bada a nonpiangere anche dentro di te69.

17. Ricorda che sei attore di un dramma, ed è chilo allestisce a stabilire di quale dramma: se lo de-sidera breve, di un dramma breve; se lo desideralungo, di uno lungo; qualora desideri che tu so-stenga la parte di un mendicante, cerca di recitarecon bravura anche questa parte, e così per la par-te di uno zoppo, di un magistrato, di un privatocittadino: infatti questo è il tuo compito: imper-sonare bene il personaggio assegnato; sceglierlospetta ad un altro70.

18. Quando un corvo gracchia non in modo pro-pizio, non ti trascini la rappresentazione, ma subi-to devi distinguere dentro di te e devi dire:«Nessuno di questi auspici si manifesta per me,ma al mio piccolo corpo, o alla mia piccola pro-prietà, o alla mia povera reputazione, o ai figli o al-la moglie. Per me, se lo voglio, tutti i segni sono fa-vorevoli; infatti qualunque cosa accada tra quellepresagite, dipende da me trarne vantaggio71».

19. Puoi essere invincibile, se non ti cimenti inalcuna lotta in cui non è in tuo potere vincere72. [2]Dopo aver visto uno che riceve maggiori onori oche è molto potente o che è stimato per qualche al-tro motivo, bada a non considerarlo felice in nes-sun caso, trascinato dalla rappresentazione. Se in-fatti l’essenza del bene risiede nelle cose che di-pendono da noi, né l’invidia né la gelosia hannospazio: e d’altronde tu non vorrai essere stratego,o pritano, o console, ma un uomo libero. Un’unicastrada porta a questa meta: il disprezzo di ciò chenon dipende da noi73.

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20. Ricorda che non ti fa violenza chi ti insulta oti colpisce, ma il giudizio che queste azioni sianooffensive. Dunque quando uno ti provoca, sappiche è la tua opinione che ti ha provocato. In pri-mo luogo, quindi, cerca di non essere trascinatodalla rappresentazione: infatti una volta cheavrai ottenuto un po’ di tempo da dedicare allariflessione, dominerai te stesso più facilmente74.

21. La morte, l’esilio e tutto ciò che appare terri-bile siano davanti ai tuoi occhi ogni giorno, ma piùdi tutto la morte: e non penserai mai a nulla di me-schino né desidererai troppo qualcosa75.

22. Se aspiri alla filosofia, preparati subito adessere deriso, a che molti ti scherniscano e di-cano: «Improvvisamente ci è tornato filosofo» e«Da dove gli viene questa alterigia nei nostriconfronti?». Ma tu non mostrare alterigia; attie-niti, invece, a ciò che ti sembra il meglio, pen-sando di essere stato assegnato dal dio a questoposto. E ricorda che, se resterai fedele agli stes-si principi, quelli che prima ti schernivano que-sti poi ti ammireranno, ma se ti rivelerai inferioread essi riceverai una doppia derisione76.

23. Se mai ti accadesse di volgerti alle cose ester-ne per voler essere gradito a qualcuno, sappi cheavresti perduto la fermezza. Dunque acconten-tati di essere filosofo; in ogni circostanza, sevuoi anche sembrarlo, sembrarlo a te stesso e nesarai capace.

24. Non ti tormentino queste considerazioni:«Vivrò senza onore e non sarò nessuno in alcunluogo». Se infatti la mancanza di onore è un male,non puoi trovarti nel male a causa di un altro, eneppure nella vergogna. Allora, ottenere una cari-ca o essere invitato ad un banchetto forse sono co-

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se che dipendono da te? In nessun modo. Dunqueil non averli come può costituire una mancanza dionore? E come potrai non essere nessuno in alcunluogo, tu che devi essere qualcuno solo nelle coseche dipendono da te, nelle quali ti è possibile esse-re una persona degna di grandissima considera-zione? [2] I tuoi amici rimarranno privi di aiuti. Inche senso dici «privi di aiuti»? Non avranno da teun soldo, né li renderai cittadini romani. Ma chi tiha detto che queste cose sono in nostro potere, e nonazioni a noi estranee? Chi è in grado di offrire ad unaltro ciò che non possiede egli stesso? [3] «Procuratipertanto mezzi», dice uno, «affinché noi li possiamoavere». Se posso procurarli mantenendomi riservato,leale e magnanimo, mostrami la strada e li procu-rerò. Ma se pensate che io perda i miei beni perchévoi otteniate quelli che non sono beni, guardate voistessi quanto siete ingiusti e sconsiderati. Che cosa preferite? Del denaro, oppure un amico

fedele e riservato? Allora aiutatemi piuttosto a diven-tarlo e non pretendete che io compia azioni che mi fa-ranno perdere queste qualità. [4] «Ma la patria», diceuno, «per quanto dipende da me, resterà senza aiuti».Di nuovo, ma qual è questo aiuto? Grazie a te nonavrà portici, né bagni pubblici. E con questo?Neppure riceve calzature dal fabbro, né armi dal cal-zolaio: ma è sufficiente che ciascuno adempia al pro-prio compito. Se invece le procuri un altro cittadinoleale e rispettoso, forse che non le sei utile in nulla?«Sì». Quindi neppure tu saresti inutile ad essa.«Dunque», chiede, «quale posto avrò nella città?».Quello che potrai avere conservando nello stessotempo dentro di te la persona fedele e riservata. Mase volendo giovare alla patria getterai via queste qua-lità, quale utilità potrebbe derivarle una volta che tusia diventato sfrontato e sleale?

25. Qualcuno è stato onorato più di te in un ban-chetto o in un saluto, o nella richiesta di un con-

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siglio? Se questi sono beni, devi rallegrarti chequello li abbia ottenuti; se invece sono mali, nonirritarti per il fatto di non averli ottenuti. E ricorda che non puoi pretendere gli stessi risul-

tati se non ti comporti come gli altri per ottenerecose che non dipendono da noi. [2] Infatti comepuò ottenere lo stesso risultato colui che non va achiedere udienza a qualcuno, rispetto a chi va?Chi non accompagna, rispetto a chi accompagna?O ancora chi non loda, rispetto a chi loda? Saraipertanto ingiusto e insaziabile se, pur non pagan-do questa merce al prezzo al quale si vende, la vor-rai ottenere gratuitamente. [3] Quanto costa la lat-tuga? Un obolo, per esempio. Dunque se uno sbor-sa un obolo e prende la lattuga, mentre tu nonavendolo sborsato non la prendi, non pensare diavere meno di chi l’ha presa: infatti come quello hala lattuga, così tu hai l’obolo, che non hai speso. [4]Lo stesso vale anche in questo caso. Non sei stato invitato al banchetto di qualcuno?

Perché non hai corrisposto all’ospite il prezzo a cuivende la cena. La vende in cambio di lodi, di servi-gi. Paga dunque il prezzo che chiede, se ti convie-ne. Ma se vuoi non pagare quelle cose e prenderlelo stesso, sei insaziabile e stolto. [5] E allora nonhai nulla al posto della cena? Hai invece ottenutoquesto risultato: non hai elogiato la persona chenon volevi elogiare e non hai sopportato quanto av-viene all’ingresso della casa di costui77.

26. È possibile comprendere la volontà della na-tura da quelle circostanze in cui non siamo turba-ti gli uni con gli altri. Per esempio, quando lo schia-vetto di un altro rompe una coppa, subito sei pron-to a dire che sono cose che capitano. Sappi allo-ra che, quando si rompe la tua coppa, devi com-portarti allo stesso modo come quando si è rottala coppa di un altro. Trasferisci lo stesso comportamento anche a

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circostanze più gravi. Sono morti il figlio o lamoglie di un altro? Non c’è nessuno che non po-trebbe dire : «È il destino degli uomini»; maquando muore il figlio di qualcuno in particola-re, subito questo grida: «Ahimè, oh me infelice!».Sarebbe necessario ricordare che cosa proviamoquando sentiamo questo riguardo ad altri78.

27. Come un bersaglio non è posto per esseremancato, così neppure esiste nell’universo la na-tura del male79.

28. Se qualcuno affidasse il tuo corpo al primoche si è presentato, ti adireresti; ma tu, per il fattoche affidi la tua mente a chi capita cosicché, sequesto ti insulta, quella è turbata nel profondo,non te ne vergogni?80

29. Di ciascuna azione considera le premesse ele conseguenze, e solo così accostati ad essa.Altrimenti in un primo tempo ti avvierai di buonanimo, senza aver per nulla calcolato il seguito, mapiù tardi, essendosi manifestate alcune difficoltà,ti ritirerai in modo vergognoso. [2] Vuoi vincere igiochi olimpici? Anch’io, per gli dèi: infatti è un risul-tato prestigioso. Ma considera le premesse e le conse-guenze e solo così intraprendi l’azione. Devi esseredisciplinato, osservare una dieta, tenerti lontanodai dolci, allenarti per forza, a tempo debito, al cal-do, al freddo, non devi bere acqua fredda, non devibere vino come capita, in una parola devi affidartiall’allenatore come a un medico. E poi in gara do-vrai scavare la sabbia per la lotta; talvolta ti potraislogare un polso, o una caviglia, dovrai ingoiaremolta polvere, talvolta sarai frustato e dopo tuttociò sarai sconfitto. [3] Dopo aver riflettuto su questiaspetti, se ancora lo desideri dedicati alla lotta.Altrimenti ti comporterai come i ragazzini, che oragiocano a fare i lottatori, ora i gladiatori, ora suona-

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no la tromba, poi recitano. Così anche tu adesso fai l’atleta, poi il gladiato-

re, poi il retore, poi il filosofo, ma con tutta l’animanon fai nulla: tuttavia come una scimmia imiti,qualora tu lo veda, ogni aspetto della realtà e tipiacciono cose sempre diverse. Infatti non seigiunto a qualcosa dopo aver riflettuto e meditato,ma a caso e seguendo un vano desiderio. [4] Così alcuni dopo aver visto un filosofo e aver

ascoltato qualcuno che parla come Eufrate (machi è in grado di parlare così come lui?), voglionoanche loro praticare la filosofia81. [5] Uomo, con-sidera prima di tutto quale sia l’azione; poi esa-mina anche la tua natura, per capire se puoisollevare il peso. Vuoi gareggiare nel pentath-lon o nella lotta? Guarda le tue braccia, le co-sce, esamina la parte inferiore del dorso. Pernatura infatti uno è portato ad una attività,un altro a un’altra. [6] Pensi che praticandola filosofia tu possa mangiare, bere, cercare disoddisfare un desiderio ed essere scontento allostesso modo? Devi stare sveglio, sopportare fatiche, allontanarti

dai tuoi famigliari, essere deriso da uno schiavetto,essere schernito da coloro che ti incontrano, averedi meno in tutto: nell’onore, nelle cariche pubbli-che, in tribunale, in ogni piccola faccenda. [7]Considera questi aspetti, se vuoi ricevere incambio di queste cose la calma spirituale, la li-bertà, l’imperturbabilità. Altrimenti non ti avvici-nare alla filosofia, bada a non fare come i bambini:ora filosofo, in seguito esattore d’imposte, poi reto-re, poi ancora procuratore di Cesare. Queste atti-vità non si accordano. Devi essere un solo uomo: obuono o cattivo; devi lavorare o sulla parte domi-nante dell’anima o sulle cose esterne; devi eser-citarti o sulle cose che hai dentro di te o su quel-le esterne: insomma devi svolgere il ruolo o del fi-losofo o dell’uomo comune.

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30. I doveri si valutano in generale in base ai rap-porti interpersonali. Tuo padre: ti viene consiglia-to di prendertene cura, di rinunciare a tutto perlui, di sopportarlo mentre ti rimprovera, mentre tipercuote. «Ma è un padre cattivo». Forse che pernatura sei stato indirizzato verso un padre buono?No, semplicemente verso un padre. «Mio fratellosi comporta in modo ingiusto». Proprio perciòconserva il tuo ruolo nei suoi confronti e nonguardare cosa fa lui, ma che cosa tu debba com-piere perché la tua scelta morale sia conforme anatura; infatti nessuno ti danneggerà, qualoratu non lo desideri; ma allora subirai un danno,quando tu ritenga di subirlo. Così dunque se tiabituerai a considerare le relazioni interpersona-li, scoprirai quali siano i doveri che provengonodal vicino, dal cittadino e dallo stratego.

31. Per quanto riguarda la devozione verso glidei, sappi che più di ogni altra cosa è fondamenta-le avere opinioni corrette su di loro, nella convin-zione che essi esistono e che governano l’universocon equità e giustizia, essere disposti a obbedireloro, cedere a tutti gli eventi e assecondarli di buongrado, pensando che sono realizzati dalla miglioreintelligenza. Così infatti non ti lamenterai mai deglidèi né li accuserai di essere trascurato. [2] D’altraparte non è possibile che ciò avvenga qualora tunon elimini il concetto di bene e di male dalle coseche non sono in nostro potere e non lo trasferiscasolo a quelle cose che dipendono da noi. Perché se consideri una di quelle cose bene o ma-

le, vi è assoluta necessità che, quando non ottieniquello che desideri e ti imbatti in quello che nondesideri, tu biasimi e odi i responsabili. [3] Infattiogni essere vivente è portato per natura a fuggireed evitare le cose che gli appaiono dannose e le lo-ro cause e a ricercare, invece, e ad ammirare le co-se che gli appaiono utili e le loro cause. Pertanto è

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impossibile che uno che pensa di essere danneg-giato si compiaccia di colui che gli sembra danneg-giarlo, come pure è impossibile che gradisca il dan-no stesso82. [4] Quindi anche il padre è insultatodal figlio quando non lo rende partecipe di quelliche al figlio sembrano essere beni; e questo resenemici tra loro Polinice ed Eteocle: il fatto di crede-re un bene la tirannide83. Per questa ragione an-che il contadino, il marinaio, il commerciante, co-loro che perdono la moglie o i figli insultano gli dei.Dove infatti vi è l’utile, lì vi è anche la devozione.Cosicché, chi si preoccupa di nutrire aspirazioni eavversioni, come si conviene, nello stesso momen-to si preoccupa anche della devozione84. [5] È benein ogni occasione compiere libagioni, sacrificare eoffrire primizie secondo il costume dei padri, conpurezza e non con trascuratezza, né senza cura,né senza risparmio, né oltre le tue possibilità.

32. Quando ti accosti all’arte divinatoria, ricordache non sai che cosa accadrà, tanto è vero che seiandato dall’indovino per saperlo; ma sei andato dalui ben conoscendo quale sia la natura di un avve-nimento, se è vero che sei un filosofo. Se infatti èuna cosa di quelle che non dipendono da noi, vi èassoluta necessità che non sia né un bene né unmale. [2] Dunque non portare dall’indovino un de-siderio o un rifiuto, e non accostarti a lui treman-do, ma riconoscendo che ogni avvenimento futurosarà indifferente e nulla per te e che, qualunquesia la sua natura, sarà possibile servirsene bene, eche nessuno te lo impedirà. Quindi rivolgiti agli dèi con fiducia, come a consi-

glieri; e poi, quando sei stato consigliato, ricordaquali consiglieri hai accolto e di chi non terrai con-to disobbedendo85. [3] Rivolgiti all’arte profetica co-me Socrate riteneva giusto, nei casi in cui tuttal’indagine si riferisca all’esito e per comprendere laquestione in oggetto non sono forniti gli strumenti

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né dalla ragione né da un’altra arte86. E così, quando è necessario affrontare un perico-

lo insieme ad un amico o alla patria non consulta-re un indovino, per sapere se bisogna correre que-sto pericolo. Perché se l’indovino ti predice che gliauspici sono sfavorevoli, è chiaro che è annuncia-ta la morte o una menomazione di una parte delcorpo o l’esilio; tuttavia la ragione esige di aiutareugualmente l’amico e di affrontare il pericolo insie-me alla patria. Proprio perciò presta attenzione adun più grande indovino, ad Apollo Pizio, che scac-ciò dal tempio colui che non aveva prestato aiutoall’amico mentre veniva ucciso87.

33. Ora imponi a te stesso un carattere e un mo-dello, che osserverai sia trovandoti dinanzi a testesso sia imbattendoti negli altri uomini. [2] Per lopiù mantieni il silenzio o parla il minimo indispen-sabile e con poche parole88. Parla raramente,quando le circostanze richiedono che tu parli, manon riguardo ad argomenti banali: spettacoli digladiatori, corse di cavalli, atleti, cibi o bevande, ar-gomenti oggetto di conversazione in ogni luogo; so-prattutto non parlare degli uomini, per biasimare,lodare o mettere a confronto. [3] Pertanto, qualoratu sia in grado, indirizza con i tuoi discorsi anchequelli dei tuoi interlocutori verso ciò che è conve-niente. Se invece ti capita di essere stretto tra per-sone di altra natura, taci. [4] Non ridere molto, nédi molti argomenti, né senza freni [5] Cerca di evi-tare il giuramento, se è possibile, in ogni modo, al-trimenti a seconda delle circostanze. [6] Evita ibanchetti con persone ignare della filosofia e rozze;ma se mai si verifichi l’occasione, ci sia da partetua l’impegno a non scivolare in nessun modo inun discorso volgare. Sappi, infatti, che se il compagno è sporco, è ine-

vitabile che si sporchi anche colui che gli sta vici-no, anche se lui è pulito. [7] In relazione a ciò che

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riguarda il corpo, prendi nei limiti della pura ne-cessità: mi riferisco ai pasti, alle bevande, ai vesti-ti, alla casa, alla servitù; elimina tutto ciò che miraalla magnificenza o al lusso. [8] Quanto al sesso,prima del matrimonio, nei limiti del possibile, bi-sogna conservarsi casti; e chi lo pratica deve man-tenersi entro i limiti del lecito. Tuttavia non essere odioso né censorio nei con-

fronti di coloro che lo praticano; e non far riferi-mento ovunque al fatto che tu non ne abusi89. [9]Se uno ti riferisce che un tale parla male di te, nondifenderti dalle accuse che ti sono state riportate,ma rispondi: «Senza dubbio ignorava gli altri mieidifetti, perché altrimenti non avrebbe parlato solodi questi». [10] Non è indispensabile entrare spes-so nei teatri. Ma se una volta si presenta l’occasio-ne, dimostra che non ti interessi di nulla se non dite stesso; cioè desidera che avvengano solo le coseche avvengono e che vinca solo chi vince; infatti inquesto modo non sarai ostacolato. Trattieniti as-solutamente dal gridare, dal deridere qualcuno odall’agitarti troppo. E dopo essere uscito dal teatronon parlare molto di quello che è successo, a menoche non contribuisca al tuo miglioramento mora-le; infatti da questo comportamento risulterebbeevidente che ti sei entusiasmato per lo spettacolo.[11] Non recarti a pubbliche recitazioni di alcunoné senza ragione né con leggerezza; ma se vi assistimantieni la tua dignità, la tua fermezza e nellostesso tempo un atteggiamento non offensivo. [12]Quando devi incontrare qualcuno, soprattutto trale persone che sembrano illustri, immagina checosa avrebbero fatto in una simile occasioneSocrate o Zenone, e non avrai difficoltà a compor-tarti convenientemente nella circostanza che ti si èpresentata90. [13] Quando frequenti un potente,immagina che non lo troverai in casa, che saraichiuso fuori, che ti sarà sbattuta in faccia la porta,che non si darà pensiero per te.

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Ma se, con tutto ciò è opportuno che tu ci vada,vai e sopporta ciò che capita e non dire mai a testesso: «Non ne valeva la pena», perché è il com-portamento proprio di una persona comune, incontrasto con le circostanze esterne. [14] Nelleconversazioni evita di ricordare per molto tempo esmoderatamente alcune azioni che hai compiuto oalcuni pericoli che hai corso: perché se per te è pia-cevole ricordare i pericoli che hai corso non lo è pergli altri ascoltare le avventure che hai vissuto. [15]Evita anche di far ridere; infatti è un comporta-mento soggetto a scivolare nei modi delle personecomuni, e insieme può allontanare il rispetto neituoi confronti delle persone che ti stanno vicino.[16] È pericoloso anche spingersi al turpiloquio.Pertanto quando accade una cosa del genere, se èopportuno rimprovera pure chi vi si è spinto; altri-menti dimostra il tuo senso di fastidio col tacere,col diventar rosso e con l’avere l’aria adirata.

34. Qualora tu riceva la rappresentazione di unpiacere, come per le altre rappresentazioni, bada anon lasciarti trascinare da essa: ma fa che il piace-re ti aspetti e concediti un rinvio. Poi, ricordati dientrambi i momenti: quello durante il quale godraidel piacere e quello in cui successivamente, dopoaver goduto, ti pentirai e ti rimprovererai; e aquesti due momenti contrapponi il fatto che sa-rai felice e approverai te stesso, dopo essertiastenuto da quel piacere91. Ma se ti sembra un momento opportuno per

intraprendere la cosa, stai attento che il suoaspetto piacevole, dolce ed allettante non ti do-mini, ma considera, in contrapposizione, quan-to sia preferibile la coscienza di aver riportato lavittoria contro queste lusinghe92.

35. Quando compi un’azione, dopo aver capitoche deve essere compiuta, non evitare, mentre la

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compi, di essere visto, anche se i più dovesseroesprimere un’opinione diversa al riguardo. Infattise non agisci in modo corretto, evita l’azione stes-sa; se invece agisci in modo corretto, perché haipaura di coloro che ti rimprovereranno non giu-stamente?

36. Come le espressioni: «È giorno» e «È notte»prese distintamente hanno pieno valore, macombinate insieme non ne hanno, così anche loscegliere una porzione maggiore avrà valore peril corpo, ma non ne ha per la tutela del rispettodei convitati al banchetto, come conviene. Pertanto, quando mangi con un altro, ricorda di

non considerare solo il valore dei cibi serviti in rela-zione al tuo corpo, ma anche di osservare un com-portamento rispettoso nei confronti dell’ospite93.

37. Se assumi un ruolo al di sopra delle tuepossibilità, non solo ti sei comportato in modosconveniente, ma hai anche trascurato il ruo-lo che era alla tua altezza94.

38. Come nel passeggiare stai attento a noncalpestare un chiodo o a non slogarti la caviglia,così fai attenzione a non danneggiare la parte do-minante di te. Se manteniamo questo valore perogni azione, intraprenderemo l’azione con più si-curezza.

39. Per ciascuno il corpo è la misura dei suoipossessi, come il piede lo è della calzatura.Pertanto se segui questo principio, conserve-rai la misura; se invece vai oltre, di conse-guenza è necessario che tu venga trascinatocome in un precipizio. Come anche per la calzatura, se vai oltre la ne-

cessità del piede, ecco le calzature dorate, poiquelle di porpora e ricamate. Infatti una volta su-

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perata la misura non vi è alcun limite95.

40. Le donne appena compiuti i quattordici annisono chiamate «signore» dagli uomini. Proprio per-ciò vedendo che a loro non spetta nient’altro tran-ne di giacere insieme agli uomini, cominciano afarsi belle e a riporre in questo ogni speranza.Dunque conviene prestare attenzione affinché ca-piscano che non sono onorate per nessun altromotivo se non per l’apparire oneste e riservate96.

41. È segno di mancanza di qualità dedicaretroppo tempo alle cure del corpo, come allenarsi alungo, mangiare, bere, defecare e accoppiarsi inmodo eccessivo. Invece bisogna compiere questeattività in modo marginale: tutta l’attenzione sia ri-volta alla mente97.

42. Quando qualcuno ti fa del male o parla maledi te, ricorda che agisce o parla perché è convintoche gli convenga. Non è dunque possibile che siconformi a quello che sembra a te, ma si attienea quello che sembra a lui. Quindi se ha opinionierrate, viene danneggiato quello che appunto siè ingannato. Infatti se uno ritiene falso un sillo-gismo vero, non è danneggiato il sillogismo, machi si è ingannato. Dunque partendo da queste considerazioni sa-

rai indulgente nei confronti di chi ti insulta.Infatti per ogni insulto dì: «Così è parso a lui98».

43. Ogni cosa presenta due impugnature: unaper il trasporto, l’altra no. Se tuo fratello compie untorto nei tuoi confronti, non prendere la cosa dallato: «Mi fa un torto» (infatti questa non è l’impu-gnatura per il trasporto), ma piuttosto dal lato «Èmio fratello», «È cresciuto con me» e così prenderaila cosa per l’impugnatura con la quale si può tra-sportare.

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44. Sono incoerenti queste affermazioni: «Sonopiù ricco di te, quindi sono superiore a te», «Sonopiù eloquente di te, quindi sono superiore a te».Queste affermazioni invece sono maggiormentepersuasive: «Sono più ricco di te, quindi il mio pa-trimonio è superiore al tuo», «Sono più eloquente dite, quindi il mio modo di parlare è superiore altuo». Tu, invero, non sei né patrimonio, né modo diparlare.

45. Uno si lava velocemente: non dire che si lavamale, ma che si lava in fretta. Un altro beve moltovino: non dire che beve male, ma che beve molto.Infatti prima di discernere la sua opinione, comesai se è male? Così non ti accadrà di ricevere lerappresentazioni catalettiche di una cosa ed espri-mere assenso ad un’altra.

46. Non definirti in nessuna occasione filosofo enon parlare spesso tra gente comune di principifilosofici, ma fai quello che deriva da questiprincipi. Per esempio, in un banchetto nondire come si deve mangiare, ma mangia co-me si deve. Ricorda infatti che Socrate aveva del tutto

eliminato l’ostentazione, a tal punto che an-dando presso di lui delle persone che volevanoessere presentate da lui a dei filosofi, quello liaccompagnava: così sopportava di non essereconsiderato! [2] E se, tra gente comune, il discorso cade su

un principio filosofico, per lo più stai in silen-zio: è grande il rischio di vomitare subito ciòche non hai digerito99. E quando qualcuno ti dice che non sai nulla,

e tu non sei colpito, allora sappi che inizi la tuaattività di filosofo. Poiché anche le pecorenon portano il foraggio ai pastori per mostra-re quanto hanno mangiato, ma, dopo aver di-

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gerito, producono esternamente lana e latte;anche tu dunque non mostrare alla gente co-mune i principi filosofici, ma le azioni che deri-vano da quelli «ben digeriti100».

47. Qualora tu ti sia abituato a vivere con sem-plicità riguardo al tuo corpo, non vantarti per que-sto e, se bevi acqua, non dire in ogni occasione chebevi acqua. E se un giorno desideri sottoporti allafatica, fallo per te stesso e non per il mondo esterno.Non abbracciare le statue, ma se un giorno hai moltasete bevi un sorso d’acqua, poi sputalo e non dirlo anessuno101.

48. Condizione e carattere dell’uomo comune:non attende mai un beneficio o un danno da sestesso, ma dall’esterno. Condizione e carattere delfilosofo: attende ogni beneficio e ogni danno da sestesso. [2] Segni di chi compie progressi: non bia-sima nessuno, non loda nessuno, non si lamentadi nessuno, non incolpa nessuno, non parla di sécome se fosse qualcuno o uno che sa qualcosa102. Quando è impedito o ostacolato in qualche cosa,

accusa se stesso. E se qualcuno lo loda, lui stessoride dentro di sé di chi lo loda; e se qualcuno lobiasima non si difende. Va in giro come coloroche sono convalescenti, prestando attenzione anon muovere una delle parti che si stanno ri-stabilendo in buona salute, prima che diventi-no forti. [3] Ha allontanato da sé ogni desiderio;ha trasferito l’avversione solo alle cose che, traquelle in nostro potere, sono contro natura.Verso ogni cosa usa un impulso moderato. Seappare stupido o ignorante, non si preoccupa.In una parola, si guarda da se stesso come daun nemico insidioso.

49. Quando qualcuno si vanta di poter capire einterpretare i libri di Crisippo, dì a te stesso: «Se

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Crisippo non avesse scritto in modo oscuro, co-stui non avrebbe nulla di cui vantarsi». Ma io, checosa voglio? Conoscere la natura delle cose e se-guirla. Quindi cerco chi sia in grado di spiegarme-la; e avendo sentito che Crisippo è in grado di far-lo, ricorro a lui. Ma non comprendo quello che hascritto; dunque cerco un interprete. E fino a quinon c’è nessun motivo di vanto. Ma quando trovo l’interprete, tocca a me ser-

virmi degli insegnamenti ricevuti: solo questo èmotivo di vanto. Se invece ammiro l’interpretare in se stesso,

che cos’altro ho compiuto se non di fare ilgrammatico invece del filosofo? Tranne per ilfatto che sono esegeta di Crisippo invece chedi Omero. Piuttosto, quando qualcuno midice: «Leggimi Crisippo», dovrei arrossire,quando non sono in grado di mostrare azio-ni simili e in accordo con le parole103.

50. Attieniti a quanti proponimenti tu ti fissi, co-me fossero leggi, nella convinzione che sei empiose li trasgredisci. Invece qualunque cosa uno dica su di te, non

prestarvi attenzione: infatti questa non è piùcosa che ti appartenga.

51. A quale tempo ancora differirai il considerar-ti degno dei beni migliori e il non trascurare in nul-la la ragione che opera le distinzioni? Hai ricevutoi principi che dovevi comprendere, e li hai compresi. Dunque quale maestro attendi ancora, per affi-

dargli la realizzazione del tuo perfezionamento mo-rale? Non sei più un ragazzo, ma ormai sei un uo-mo maturo. Se ora sei negligente e pigro, e cambicontinuamente proposito e stabilisci un’altra dataper dedicarti a te stesso, non ti accorgerai di nonaver compiuto progressi, ma finirai col vivere emorire come un uomo comune. [2] Pertanto, or-

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mai, giudicati degno di vivere come un uomomaturo e che compie progressi; e tutto ciò cheappare il meglio sia per te una legge inviolabile. E se ti si presentano una fatica o un piacere, un

onore o un disonore, ricorda che la lotta è ora e chele Olimpiadi sono queste, e che non è più possibiledifferire e che in un solo giorno e in una sola azio-ne si perde o si salva il progresso morale104. [3]Così giunse Socrate alla perfezione morale, non ri-volgendo l’attenzione, tra tutte le cose che gli sipresentavano, ad altro se non alla ragione. Tu an-che se non sei ancora Socrate, devi però vivere co-me chi desidera essere Socrate.

52. Il primo e più necessario ambito in filosofia èquello che riguarda l’impiego dei principi filosofici,come ad esempio il non mentire. Il secondo quello relativo alle dimostrazioni¸ come

ad esempio per quale motivo non bisogna mentire.Il terzo è atto a garantire e a distinguere chiara-mente questi ambiti: per esempio da dove derivache questa sia una dimostrazione? Oppure che co-s’è una dimostrazione? Che cos’è una conseguen-za, una contraddizione, la verità e il falso? [2] Dunque il terzo ambito è necessario per il se-

condo, il secondo, invece, per il primo; ma quellopiù necessario e sul quale occorre soffermarsi è ilprimo. Noi invece operiamo al contrario: infatti in-dugiamo nel terzo e tutta la nostra cura è rivolta adesso; mentre trascuriamo del tutto il primo. Per questo da un lato diciamo il falso, dall’altro

abbiamo a portata di mano la dimostrazione chenon si deve mentire105.

53. In ogni occasione bisogna avere sottomanoquesti pensieri: «Conducimi, o Zeus, e anche tu,o Destino, alla meta che mi avete assegnato: poiché vi seguirò senza esitare; ma se anche

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non voglio, per viltà, non di meno vi seguirò106». [2] «Chi si è conciliato nobilmente con la necessità,presso di noi è un saggio e conosce le cose di-vine107». [3] «Ma, o Critone, se così è gradito agli dei, co-sì sia». [4] «Anito e Meleto possono uccidermi, ma non possono farmi del male108».

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NOTE

48 Cfr. Marco Aurelio (V, 19): «Le cose di per sé nonsfiorano in alcun modo l'anima, né hanno accessoalcuno all'anima, né possono modificare o muovere l'a-nima; essa soltanto modifica e muove se stessa, e rendeper sé le cose che la raggiungono dall'esterno tali quali sonoi giudizi che su di essa si ritiene degna di esprimere».49 Ciò che deve essere respinto e abbandonato defini-tivamente sono le cose esterne, le quali devono esseretrascurate come indipendenti da noi e dunque indiffe-renti; ciò che deve essere differito è il nostro desideriodi esse, in attesa che la ragione esprima un giudiziocorretto sulla loro vera natura.50 «Se alla rappresentazione contrapponi tutto questo,la vincerai e non ne sarai travolto. Ma, innanzitutto,non lasciarti sbigottire dalla celerità del suo apparire,ma di': 'Attendi un po', rappresentazione; dammi iltempo di vedere chi sei e che cosa rappresenti, dammiil tempo di sottoporti ad esame'. E poi, non consentirledi avanzare e di dispiegarti le scene che seguono. Se noti avrà in pugno e ti condurrà ovunque voglia» (DiatribeII, 18, 23-24).51 I «criteri» di giudizio cui fa riferimento Epittetosono quei pesi e misure (cioè i criteri della valuta-zione razionale) dei quali si parla diffusamente nelleDiatribe (II, 11; II, 18; III, 2).52 «Che altro, infatti, potrebbe morire, se non gli esserimortali?» (Diatribe, III, 24, 27).53 Cfr. Marco Aurelio (III, 11): «Definisci e descrivi ognioggetto che cade sotto la percezione dei tuoi sensi,affinché tu sappia, dall'esame delle singole parti e delloro insieme, quale ne sia la natura essenziale, qualene sia il nome, e quali i nomi delle cose donde risulta ein cui si risolverà. Giacché non v'è cosa che tanto valgaad accrescer grandezza all'animo, quanto il poter ren-dersi ragione di ciascuno degli eventi che accadononella vita e il saperli contemplare in modo da potercomprendere a che ordine di fatti una cosa appartengae quale ne sia l'uso e quale il suo valore relativamenteall'universo e all'uomo».54 Cfr. Marco Aurelio (VIII, 49; XII, 22): «Se soffri peruna cosa esterna, non è quella che ti disturba, ma il

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tuo giudizio su di essa. Ma è in tuo potere cancellaresubito questo giudizio»; «Tutto è opinione, e questadipende da te. Quando vuoi, quindi, sopprimi l'opinionee, come chi ha doppiato il promontorio, troverai bonac-cia, calma degli elementi e un golfo al riparo dai flutti».55 Antistene in Diogene Laerzio VI, 1, 9: «A un giovi-netto che si era dato a far da modello ad un artista[Antistene] chiese: -Dimmi, se il bronzo assumesse lavoce, di che cosa credi si vanterebbe?-. E quello rispo-se: -Della bellezza-. E Antistene: -Non ti vergogni dun-que di provare la stessa gioia di una statua?-». D'ora inpoi, le citazioni da Diogene Laerzio saranno indicatecon la sigla: «D.L.».56 Il nostro desiderio di modificare l'ordine necessariodegli accadimenti non può avere alcuna efficacia sullarealtà di fatto e dunque è causa di infelicità. Qualorainvece vogliamo semplicemente ciò che accade (amorfati) allora il nostro desiderio è in armonia con lavolontà di Dio e la nostra vita diviene felice. Il compitodi chi si dedica alla filosofia consiste nel «porre la suavolontà in armonia con gli avvenimenti, di guisa chenessun accadimento accada contrariamente al suovolere e, d'altra parte, nessuno manchi di accadere sevuole che accada» (Diatribe II, 14, 7).57 «‘Il tiranno mi metterà in ceppi’. Che cosa? La gamba.‘Ma me la taglierà’. Che cosa? La testa. Che cosa, invece,non ti incatenerà né ti taglierà? La scelta morale di fondo.Per questo motivo gli antichi prescrivevano: ‘Conosci testesso’» (Diatribe, I, 18, 17).58 «Invero, non avete ricevuto delle facoltà per soppor-tare ogni accadimento? Non avete ricevuto la grandez-za d'animo? Non avete ricevuto il coraggio? Non avetericevuto la sopportazione? E, avendo un animo grande,che cosa mi può ancora importare delle cose che pos-sono capitare?» (Diatribe, I, 6, 28-29). Da questo puntodi vista, gli eventi esterni possono essere consideraticome mezzi e occasioni per mettere alla prova e raffor-zare le nostre capacità (cfr. Diatribe, III, 20).59 Cfr. Marco Aurelio (X, 14): «Alla natura che dà eriprende ogni cosa l'uomo istruito e rispettoso dice:‘Dammi ciò che vuoi, riprenditi ciò che vuoi’. E non lodice con aria di sfida, ma soltanto perché è docile e bendisposto verso la natura».60 La felicità consiste nella liberazione dai timori e

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dalle paure, vale a dire nell'eliminazione della compo-nente passionale che tende a turbare la serenità dell'a-nima. Per raggiungere tale meta si dev'essere disposti arinunciare ai propri beni ed anche alla pretesa dimigliorare gli altri qualora si comportino in modo vizio-so (ad esempio, lo schiavo che ci deruba). 61 «Anch'io poco tempo fa avevo una lampada di ferrovicino ai miei Dei. Sentito rumore alla porta, accorsi: lamia lampada era stata rubata. Pensai che il ladro nonaveva commesso nulla di strano. Che farò ora? Domani-dissi- ne troverai una di coccio» (Diatribe I, 18).62 Antistene diceva: «È meglio capitare tra i corvi chetra gli adulatori: gli uni divorano i cadaveri, gli altri ivivi» (D.L. VI, 1, 4). «Uno gli disse: - Molti ti lodano-. Edegli: - Che cosa, allora, ho fatto di male?-» (D.L. VI, 1, 8).63 Epitteto ribadisce l'estraneità delle cose esterne allacondotta virtuosa dell'individuo. Tale concezione sfociain un accentuato rigorismo che separa nettamente ladimensione etica dall'ambito dei fatti; la realizzazionedella virtù è pertanto indipendente dal concorso dellecircostanze esterne dell'agire. «Queste cose non stannoin armonia: devi essere un uomo tutto buono o tuttocattivo; devi lavorare la parte dominante della tuaanima o gli oggetti esterni, dedicare i tuoi sforzi a quelche è dentro di te o a quel che è fuori di te; in altre paro-le, devi avere l'atteggiamento del filosofo o quello delprofano» (Diatribe, III, 15, 13).64 «Mortale è colui che tu ami, tu ami ciò che non tiappartiene […] Anche nel momento in cui godi di qual-cosa, mettiti innanzi immagini opposte. Che male c'èche, mentre baci il tuo bambino, tu dica balbettando: -Domani morirai -; e all'amico ugualmente: - Domaniandrai via tu o io, e non ci rivedremo più- ?» (Diatribe,III, 24). Cicerone ricorda che Anassagora, di fronte alfiglio morto, commentò: «Sapevo di averlo generatomortale» (Tusc. disp., III, 14).65 Cfr. Marco Aurelio (XII, 16): «Chi pretende che ilmalvagio non sbagli è come chi pretende che il fico nonproduca lattice nei suoi frutti, che i neonati non pian-gano, che il cavallo non nitrisca, e così via per tutti que-sti fenomeni necessari».66 Desiderando le cose esterne noi siamo schiavi duevolte: infatti ci troviamo a dipendere dai beni materialie allo stesso tempo da coloro i quali possiedono tali

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beni e che ci possono ricattare o asservirci alla lorovolontà. Perciò la vera libertà consiste nel sopprimereogni desiderio. 67 L'analogia tra la vita ed il banchetto (cfr. le analo-gie con il viaggio in nave, §7, con il dramma, §17) eragià stata utilizzata dal cinico Bione di Boristene (III sec.a.C.). «A quel modo, diceva Bione, che sgombriamo unacasa quando il locatore, non potendo riscuotere lapigione, toglie via la porta, toglie il tetto, chiude il pozzo,così -dice- io pure sgombro dal mio corpiciattolo, quan-do la natura, che me l'ha dato in affitto, mi porta via gliocchi, le orecchie, le mani, i piedi. Non istò ad aspetta-re; ma, come finito un banchetto me ne vado senzadispiacere, così dalla vita, quando è giunta l'ora. Comeil valente attore fa bene il prologo, bene le parti dimezzo del dramma, bene anche la catastrofe, così purel'uomo valente si comporta bene al principio della vita,bene nel mezzo, bene anche alla fine. E come un vesti-to, quando è logoro, lo lascio andare e non me lo tra-scino più dietro, così non sono pure troppo attaccatoalla vita, ma quando non posso più essere felice me nevado. Come appunto fece Socrate» (O. Hense, Teletisreliquiae, 1889, II).68 «Tu poni la felicità nelle delizie e nel lusso; io, invece,penso che il non avere alcun bisogno sia cosa divina, el'averne meno possibile sia ciò che più si avvicina al divi-no» (Senofonte, Memorabili, I, 6). Epitteto prende amodello Eraclito di Efeso ed il cinico Diogene di Sinope.69 Anche la compassione è motivo di turbamento perl'anima e pertanto, in quanto passione, dev'essere eli-minata. «Secondo gli Stoici le passioni sono giudizi […]La compassione è il dolore per un'immeritata sofferen-za altrui» (D.L. VII, 111). Lo spettacolo della sofferenzaaltrui impone un atteggiamento rispettoso che perònon deve far dimenticare al filosofo la vera essenzadella rappresentazione della morte (in sé priva di valo-re come ogni altro accadimento esterno). «Così diventa-mi affettuoso […]; ma se, a causa di questo affetto -quale che sia il sentimento che chiami così-, devi esse-re schiavo e sciagurato, non ti è profittevole essereaffettuoso» (Diatribe, III, 24, 59). Questa adesione pura-mente formale alle vicende che riguardano il prossimosegna chiaramente la distanza che intercorre con ilmessaggio cristiano, cui la filosofia di Epitteto è stata

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spesso accostata a causa della sua forte valenza mora-le e religiosa. Il compito dell'uomo istruito è ridursi adun puro occhio contemplante distaccato dalle coseesterne. Cfr. Marco Aurelio (VII, 48): «E parlando degliuomini occorre anche osservare le cose terrene comeda un luogo elevato si guarda verso il basso: mandrie,eserciti, campi coltivati, matrimoni, divorzi, nascite,morti, clamore di tribunali, terre deserte, popolazionibarbariche varie, feste, lamentazioni, mercati, tuttoquesto gran miscuglio e l'armonioso ordine che nascedagli opposti».70 Cfr. Marco Aurelio XII, 35: «Uomo, sei stato cittadi-no in questa grande città: che ti importa, se per cinqueanni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha perognuno pari valore. Che c'è di grave, allora, se dallacittà ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, mala natura che ti ci aveva introdotto? È come quando ilpretore che aveva assunto un attore lo congeda dallascena, ‘Ma non ho recitato i cinque atti, ne ho recitatosolo tre’. Giusto! Ma nella vita tre atti sono un drammaintero. A stabilire che il dramma è completo, infatti, è chiallora fu responsabile della composizione, ora del dissol-vimento; tu invece non sei responsabile né dell'una nédell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno».71 Sulla divinazione vedi § 32 e relative note. Si noti cheEpitteto non mette affatto in dubbio il valore e l'efficaciapredittiva di eventi quali il gracchiare del corvo, bensì silimita ad esprimere la raccomandazione di consideraregli auspici sfavorevoli come cose indifferenti che riguar-dano solo il corpo e non l'anima. 72 Il segreto dell'invincibilità risiede dunque nel sottrar-si alle competizioni nelle quali non è in nostro potere con-seguire la vittoria. Bisogna pertanto non impegnarsi a com-battere per ottenere le cose esterne, le quali sono tutte fuoridel nostro potere.73 Cfr. Marco Aurelio (IV, 49): «Sii come il promontorio,contro cui si infrangono incessantemente i flutti: restaimmobile, e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque».74 Cfr. § 42. Epitteto applica al caso delle offese il prin-cipio secondo cui a turbarci non sono mai le cose in sé,ma il giudizio che diamo su di esse. «Prendiamo il casodegli insulti: che cosa vuol dire essere insultati? Ponitivicino una pietra, e insultala. E che concluderai? Seuno ascolta come una pietra, che vantaggio ricava chi

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lo insulta? Ma se, invece, l'insultatore può contaresulla debolezza dell'insultato per fare breccia nel suoanimo, allora ottiene qualcosa» (Diatribe, I, 25, 29).«Uccidono, squartano, inveiscono con maledizioni: matutto questo in che cosa impedisce alla mente di resta-re pura, lucida, saggia, giusta? Sarebbe come se uno sifermasse ad una fonte d'acqua limpida e dolce e lainsultasse: la fonte, naturalmente, non smette di farsgorgare la sua acqua pura; e se anche quello vi gettadentro del fango o dello sterco, la sorgente in unmomento lo disperderà e lo porterà via, e non neresterà minimamente inquinata. Come potrai, dunque,avere in te una sorgente perenne? Se in ogni istante timanterrai libero, con benevolenza, semplicità e discre-zione" (Marco Aurelio, VIII, 51)».75 Cfr. Marco Aurelio (II, 11): «Conviene che tu agi-sca, dica e pensi ogni singola cosa come chi sa cheda un momento all'altro può uscire dalla vita». «Chiha imparato a morire ha disimparato a servire: è aldi sopra di ogni potere» (Seneca, Epistole, 26).76 Il filosofo che mostri un'espressione severa e cor-rucciata non si comporta come deve. «Non ho, infatti,ancora fiducia in quel che ho appreso e cui ho dato ilmio assenso; temo ancora la mia debolezza. […] Checosa pensate? Un altero cipiglio? Non sia mai! Lo Zeusdi Olimpia ha forse un'aria corrucciata? No, il suosguardo è fermo e calmo, quale dev'essere quello di chidice: ‘La mia parola è irrevocabile e non può inganna-re’» (Diatribe, II, 8, 24-26). Questa osservazione vainquadrata nel contesto della discussione riguardanteil mestiere del filosofo contenuta nel § 46. È degno delnome di filosofo solo colui che ha modificato la propriacondotta di vita ed i propri atteggiamenti in conse-guenza di un'attenta riflessione sugli insegnamentiricevuti, e non chi sostituisca a ciò solo i modi e gli abitidel filosofo.77 «Alcuni attribuiscono [a Diogene] anche il seguenteaneddoto. Platone lo vide mentre lavava la verdura e glisi avvicinò mormorandogli nell'orecchio: ‘Se tu corteg-giassi Dionisio, non laveresti la verdura’. Diogene glirispose ugualmente nell'orecchio: ‘E tu se lavassi la ver-dura, non saresti cortigiano di Dionisio’» (D.L. VI, 2, 58).78 Il modo corretto di giudicare una rappresentazioneconsiste nell'escludere ogni reazione emotiva: allora

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ogni immagine delle cose esterne si presenterà nel suovalore di semplice immagine ed ogni fatto rivelerà il suoessere un accadimento privo di valore in sé. Questo rie-sce più facile giudicando le situazioni che riguardanogli altri (delle disgrazie che non ci colpiscano diretta-mente siamo infatti pronti a dire che esse semplice-mente accadono senza che alcuno possa impedirlo) macostituisce il principio fondamentale su cui dobbiamogiudicare anche gli eventi in cui ci troviamo coinvolti. Ilgiudizio sul mondo deve dunque essere del tuttoimpersonale ed escludere ogni riferimento al soggetto:nel mondo tutto è come è e tutto avviene come avviene,ed il soggetto non ha alcuna rilevanza perché il suoatteggiamento non può modificare l'ordine dei fatti. 79 In estrema sintesi, Epitteto sostiene che il male nonha alcuna consistenza ontologica perché ogni cosa,nell'universo, ha una finalità stabilita dal Fato divino edunque è rivolta al bene in quanto parte di un proget-to di ordine universale. Se così non fosse, si dovrebbeipotizzare che nel progetto divino esistano delle lacune,cioè che Dio avrebbe mancato il bersaglio in alcune suedecisioni. Espresso in questa forma, l'argomento nonappare a prima vista convincente: se infatti è vero cheun bersaglio non è posto da chi scaglierà la freccia conl'intenzione di mancarlo, tuttavia non è in potere del-l'arciere centrare sempre il bersaglio; ma ciò vale solose ci riferiamo ad un essere umano finito, non se l'ar-ciere è identificato con un essere infallibile quale è Dio.Con ciò Epitteto schiva a priori il problema di valutarequanto nel mondo è in accordo con le intenzioni divinee quanto invece risulta imperfetto e non riuscito. Ognicosa avviene secondo necessità ed è buona in quantostabilita da Dio. «Tutto ciò che avviene, avviene giusta-mente: lo verificherai, se osservi con attenzione. Nondico soltanto che avviene in giusta conseguenza, mache avviene secondo giustizia e come per opera di qual-cuno che assegna quanto spetta secondo il merito».(Marco Aurelio, IV, 10). 80 Cfr. Platone (Menesseno, XX): «L'uomo che riponesolo in se stesso tutto ciò che porti alla felicità o vicinoad essa, che non rimane sospeso alla condizione altrui,dalla cui buona o mala vicenda debba oscillare anchela sua, questi si prepara l'ottima vita, questi è saggio,questi è valoroso e prudente».

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81 Il filosofo stoico Eufrate (morto nel 118 d.C.), origi-nario della Siria, fu maestro di Plinio il giovane, il qualene tracciò il seguente ritratto: «Egli discute con sotti-gliezza, solidità, bella forma e sovente raggiunge quel-l'elevatezza e pienezza d'espressione che sono propriedi Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo è il suoparlare […]. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nes-suna durezza nel tratto, una grande serietà; trattarecon lui ispira rispetto, non timore. Una grande purez-za di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gliuomini, e coloro che sbagliano non li punisce, ma cercadi correggerli» (Epistole, I, 10).82 Ogni essere vivente è dotato di un istinto innato(oikeìosis) che lo porta a desiderare come bene ciò cheè utile alla propria conservazione e a respingere comemale ciò che la ostacola. È impossibile che un indivi-duo apprezzi ciò che ritiene male e respinga ciò cheritiene bene. Questa tendenza propria dell'anima nonpuò essere eliminata, ma il filosofo può disattivarlachiarendo a se stesso che le cose esterne sono tutteindifferenti ed estranee. In questo modo, vale a direrimuovendo le nozioni di bene e di male dalle cose chenon sono in nostro potere ed attribuendole solo allecose che dipendono da noi, l'anima non sarà più spin-ta a desiderare o a odiare ma accetterà serenamentel'ordine degli eventi voluto dagli Déi. Il progresso mora-le dell'individuo viene così a dipendere da un giudiziorazionale che rende inoperanti le reazioni di tipo emo-tivo-passionale; colui che che desidera o avversa unacosa esterna segue una pulsione naturale ma sbagliaperché fonda il suo agire sul presupposto errato di tro-varsi di fronte ad un bene autentico. 83 Riferimento alla vicenda descritta da Eschilo nellatragedia «I sette contro Tebe». Eteocle e Polinice, i duefigli di Edipo, alla morte del padre stabiliscono diregnare su Tebe alternandosi sul trono per un annociascuno. Ma il rifiuto di Eteocle di cedere il potere sca-tena una guerra che si conclude con la morte dei duefratelli. «La vicenda di Eteocle e di Polinice non l'hadeterminata altro che il giudizio, ed esattamente il giu-dizio relativo alla tirannide e all'esilio: per essi, l'uno erail peggiore dei mali e l'altra il migliore dei beni»(Diatribe, IV, 29).84 La devozione verso gli Dèi non va disgiunta dal sen-

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timento dell'utilità. Ma ciò può intendersi in due modi:da una parte l'uomo incolto, assegnando un valore allecose esterne, tenderà a venerare gli Dèi per ottenerevantaggi materiali e imprecherà nel caso ritenga di nonessere ascoltato o esaudito; il saggio, comprendendoche la vera utilità risiede nella vita priva di turbamen-ti, venererà invece gli Dèi senza pretendere altro van-taggio che la serenità interiore derivante dal riconosci-mento dell'ordine voluto dalla provvidenza divina.«Dove, infatti, si trovano l'io e il mio, lì necessariamen-te piega l'essere vivente: se si trovano nella carne, lì sitrova ciò che ci domina; se sono nella scelta morale, ilpotere dominante è lì; se sono negli oggetti esterni, saràin essi. Pertanto, solo se il mio io coincide con la sceltamorale sarò un amico, un figlio e un padre qualedev'essere» (Diatribe II, 22,19-20).85 «E allora? Bisogna andare dall'indovino senza desi-derare né avversare alcunché, come il viaggiatore ches'informa da chi incontra quale di due strade porta adestinazione, senza desiderare che sia quella di destrapiuttosto che quella di sinistra; non vuole, infatti, per-correre una di esse, ma quella che porta alla meta. Cosìdovremmo andare anche dal dio come da una guida,servircene come ci serviamo degli occhi; e ad essinon domandiamo che ci mostrino certe cose piutto-sto che altre, perché riceviamo le rappresentazionidi tutti gli oggetti che gli occhi ci mostrano»(Diatribe, II, 7, 10-11).86 Socrate asseriva di essere ispirato nelle sue sceltee nella sua condotta di vita da un demone di naturadivina. Secondo la testimonianza di Senofonte, Socratenon faceva segreto della sua credenza nella divinazio-ne. Tuttavia, lo stesso Socrate distingueva tra ciò chegli uomini possono conoscere autonomamente permezzo della propria ragione e ciò che invece può esse-re rivelato, per mezzo della divinazione, soltanto daglidèi: «Così pure diceva folli quanti chiedevano all'oraco-lo quel che gli déi hanno concesso agli uomini di risol-vere mediante lo studio […] oppure quel che è possibi-le sapere ricorrendo al calcolo, alle misure, ai pesi. […]Diceva, insomma, che bisognava studiare quel che,solo dopo averlo studiato, gli déi hanno concesso difare, mentre, quel che non è manifesto ai mortali, biso-gnava cercare di apprenderlo dagli déi mediante la divi-

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nazione: e, in genere, gli déi sogliono manifestarlo a quan-ti sono nelle loro grazie» (Senofonte, Memorabili, I, 1).87 Eliano (Var. Hist., III, 44) narra la storia di dueuomini i quali, mentre si recavano a Delfo, caddero inun'imboscata di briganti. Uno dei due fu ucciso, mentrel'altro riuscì a fuggire ed arrivò a Delfo per consultare l'o-racolo. Ma il dio Apollo lo scacciò dal santuario rimpro-verandolo perché non aveva soccorso l'amico morente.88 «[Zenone di Cizio] rimbeccò un giovinetto che dice-va sciocchezze con queste parole: - La ragione per cuiabbiamo due orecchie ed una sola bocca è che dobbia-mo sentire di più, parlare di meno» (D.L. VII, 23).89 Le raccomandazioni di Epitteto paiono qui rivoltecontro gli atteggiamenti eccessivamente disinibiti eliberi dei Cinici in materia di rapporti sessuali.«[Diogene di Sinope] era solito masturbarsi in luogo pub-blico e considerare: ‘Magari potessi placare la fame, stro-picciandomi il ventre’» (D.L. VI, 2, 69). Cratete eIpparchia, riferisce Diogene Laerzio (VI, 7, 96) facevanoabitualmente l'amore in pubblico.90 «Perciò Zenone, dovendo incontrare [il re] Antigono,non era ansioso. Infatti, su nessuna delle cose cui davavalore quello aveva potere e, quanto a quelle su cuiAntigono lo aveva, non si dava pensiero. Antigono,invece, dovendo incontrare Zenone, era ansioso, e sicapisce: perché voleva piacergli, e ciò era fuori del suopotere. Dal canto suo, Zenone non voleva piacergli,come è vero che un artista non vuole piacere a chi igno-ra la sua arte» (Diatribe, II, 13, 14-15).91 «[Diogene di Sinpe] lodava quelli che stavano persposare e non sposavano, quelli che stavano per intra-prendere un viaggio marittimo e vi rinunciavano, quelliche stavano per dedicarsi alla vita politica e non vi si dedi-cavano, quelli che volevano crearsi una famiglia e non sela creavano, e quelli che si accingevano a vivere insiemecon i potenti e poi se ne astenevano» (D.L., VI, 2, 29).92 Nel Gorgia (493e-494a), Socrate attacca l'identifica-zione tra bene e piacere paragonando la vita del disso-luto alla condizione di chi possiede botti «forate e putri-de, in modo da essere costretto a riempirle giorno enotte perché, se così non facesse, patirebbe i dolori piùgrandi». Poco oltre, all'obiezione di Callicle secondo cui«vivere senza piaceri e senza dolori è vivere come isassi» e «vivere piacevolmente consiste in ciò, che il

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liquido [scorra nella botte] in gran quantità», Socrateribatte: «ma se molto vi fluisce, necessariamente moltone esce e bisogna che i fori siano molto grandi […] Tumi descrivi la vita del karàdrios, non quella d'un mortoo d'un sasso». Il karàdrios era un uccello simile al pivie-re del quale si credeva che espellesse il cibo mentremangiava e che perciò si vuotasse nell'atto stesso diriempirsi. La vita di chi vuole solo il piacere è pertantouna continua e insensata ricerca di un equilibrioimpossibile da realizzare.93 Le proposizioni: «È giorno» - «È notte», se uniteper mezzo della congiunzione ‘e’, danno luogo aduna contraddizione («È giorno ed è notte»). Allo stes-so modo, non è possibile tentare di congiungeresenza contraddizione le esigenze dello spirito e quel-le del corpo.94 Cfr. §17: ognuno deve recitare la parte asse-gnatagli dal Fato come un attore drammatico.95 Nel Gorgia (508 a) Platone collega la possibilitàdella giustizia alla misura ed alla proporzione esistentinell'universo: «Dicono i saggi che anche il cielo, la terra,gli dèi, gli uomini sono tenuti insieme dall'affetto, dallacostumatezza, dalla temperanza, dalla giustizia, e cheappunto per questo l'universo è detto kosmos, cioèordine, e non già disordine e dissolutezza. A me pareche tu, pur così colto, non ponga attenzione a questo, eche l'eguaglianza proporzionale molto può fra gli uominie fra gli dèi; tu credi invece che bisogna coltivare lasoperchieria, e trascuri la matematica». Simone Weil(Cahiers, 125) commenta: «Senso del famoso passaggiodel Gorgia sulla geometria (tu dimentichi…). Nella natu-ra delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato; ilmondo (kosmos!) riposa interamente sulla misura e l'e-quilibrio (da qui l'uguaglianza geometrica) e lo stessoaccade nella città. Ogni ambizione è dismisura».96 Il maestro di Epitteto, Musonio Rufo, aveva soste-nuto la necessità di educare le ragazze in modo simile agliuomini (compreso l'insegnamento della filosofia) ed avevacriticato la disparità di trattamento che viene usualmen-te adottata quando si giudica il comportamento delladonna e quello dell'uomo nell'etica coniugale. 97 «Quando agiamo per il ventre o per il sesso, quan-do agiamo a caso, in modo sconcio, per trascuratezza,in quale direzione abbiamo piegato? In quella delle

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pecore. Che cosa abbiamo mandato in rovina? Laragione» (Diatribe, II, 9, 4). Epitteto polemizza con l'i-dentificazione epicurea del bene con il piacere: «Se,infatti, le cose stanno così, va' a sdraiarti e dormi, fa'la vita del verme, quella della quale ti sei giudicatodegno: mangia, bevi, accoppiati, va di corpo e ronfa»(Diatribe, II, 20, 10). «[Zenone di Cizio] diceva che lacosa più sconveniente di tutte è la lussuria, special-mente nei giovani» (D.L. VII, 22).98 Il male deriva sempre da un falso giudizio su unarappresentazione, e dunque colui che agisce da mal-vagio è in realtà sviato da un errore di tipo conosciti-vo. Cfr. Marco Aurelio (VII, 26): «Quando uno sbaglianei tuoi confronti, considera subito quale opinione sulbene o sul male l'ha spinto all'errore: se riuscirai acapirlo proverai compassione per lui e non sarai piùsorpreso né adirato. Infatti, se hai ancora, anche tu, lasua stessa opinione del bene, o ne hai una simile, deviscusarlo; se invece la tua opinione del bene e del malenon è più di questo genere, ti sarà più facile essereindulgente con chi sbaglia».99 Cfr. § 22. «Ora basta che uno si senta invogliatoalla filosofia, come i malati di stomaco a qualche pie-tanzuccia di cui poco dopo avranno nausea, e subitosi dà arie di caposcuola e di maestro. Si lascia cresce-re la barba, indossa il mantelluccio lasciando scoper-ta una spalla, litiga con quelli che incontra, e, se vedeuno con una mantellina elegante, lo aggredisce. Primadi ciò, esercitati a sopportar le intemperie, o valentuo-mo, e guarda bene la tua vocazione, che non sia comela voglia di un malato di stomaco e di una donnaincinta!» (Diatribe, IV, 8).100 Epitteto attacca l'atteggiamento di chi si dichiarafilosofo solo perché ha appreso superficialmente qual-che nozione teorica. La pratica filosofica comporta unmutamento morale nell'individuo e non una sempliceadesione intellettualistica ai principi filosofici generali(in questo senso si confronti quanto asserito nel § 52).«Quelli che hanno ricevuto solamente e semplicemen-te i principi della filosofia, vogliono subito vomitarli,come fanno i malati di stomaco con il cibo. Cominciaa digerirli, poi a non vomitarli in tal modo […]. Ma, unavolta assimilati, mostraci, di conseguenza, qualchemutamento nella parte dominante della tua anima,

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come gli atleti mostrano come sono cambiate le lorospalle con gli esercizi e il cibo che hanno preso,come quelli che hanno appreso un'arte mostrano irisultati dell'insegnamento che hanno ricevuto»(Diatribe, III, 21, 1-4).101 Diogene di Sinope «d'estate si rotolava sullasabbia ardente, d'inverno abbracciava le statuecoperte di neve, volendo in ogni modo temprarsialle difficoltà» (D.L. VI, 2, 23). 102 «L'uomo virtuoso non disputa con nessuno e, perquanto può, impedisce agli altri di disputare. Ci è diesempio in questo, come in ogni altra cosa, la vitadi Socrate, il quale non solo rifuggiva egli stesso,in ogni circostanza, di disputare, ma neppureconsentiva che altri lo facessero. […] Il fatto è cheera perfettamente consapevole che nessuno puòessere padrone della parte dominante dell'anima diun altro, Pertanto non voleva nient'altro che quelloche era suo proprio» (Diatribe, IV 5, 1-4).103 «Noi, infatti, non abbiamo bisogno di Crisippo perse stesso, ma perché pensiamo di arrivare, grazie a lui,a comprendere la natura» (Diatribe, I, 17, 18). Epittetopolemizza contro ogni forma di sapere che non produ-ca un miglioramento morale e contro ogni apprendi-mento mnemonico di libri cui non segua un effettivoprogresso interiore dell'individuo (cfr. §52). NelleDiatribe (I, 4, 13-15) troviamo la seguente analogia conil caso dell'atleta: «Tu, dunque, mostrami il tuo pro-gresso nelle tue azioni. Supponiamo che io dica, peresempio, ad un atleta: ‘Fammi vedere le tue spalle’, equello mi risponda: ‘Guarda i miei manubri’. I manu-bri sono affar tuo! Io voglio vedere l'effetto che i manu-bri hanno prodotto. ‘Prendi il trattato Sull'impulso eguarda come sono stato capace di leggerlo’. Schiavo,non è questo che io cerco, ma come ti comporti neituoi impulsi e nelle tue ripulse, nei tuoi desideri e nelletue avversioni, come sono i tuoi progetti, i tuoi propo-siti, come ti prepari, se in armonia con la natura o no;perché, se in armonia, mostramelo, e ti dirò che pro-gredisci; ma se in disarmonia, vattene, e non limi-tarti a commentare libri». «L'uomo si appoggi unpoco su se stesso; non esponga cose d'altri ma cidica qualche cosa lui. A chi è vecchio o si volgeverso la vecchiaia fa vergogna non avere altra sag-

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gezza che quella che deriva da ricordi di libri.Questo l'ha detto Zenone. E tu? Quest'altroCleante. E tu? Fin quando ti servirai delle parolealtrui?» (Seneca, Epistulae, 33). 104 «Se solo sonnecchi un po', tutto quel che hai rac-colto finora svanisce. Fa dunque attenzione alle rap-presentazioni, e veglia su di esse. Perché non è pocacosa ciò che custodisci: è il pudore, la fedeltà, la costan-za, l'impassibilità, l'assenza di dolore e di paura, l'im-perturbabilità e, insomma, la libertà». (Diatribe, IV, 6-7). 105 Epitteto afferma la prevalenza dell'etica, vale adire il livello della «applicazione dei principi» qualecampo d'indagine fondamentale della riflessione filo-sofica. La logica fornisce all'etica gli strumenti perdimostrare la validità delle norme morali (fermorestando che Epitteto considera tali norme un patri-monio innato comune ad ogni uomo, come abbiamovisto nel'Introduzione). Tuttavia lo studio della scienzalogica può degenerare in un'analisi fine a se stessadelle regole che governano il ragionamento determi-nando una separazione improduttiva di tale saperedalla vita pratica, col risultato paradossale di aver sot-tomano la dimostrazione che non si deve agire male edi non essere in grado di uniformare il nostro compor-tamento a tale principio. L'attacco di Epitteto puòestendersi ad ogni forma di apprendimento scolasticoche sia incapace di trovare un punto di contatto conla vita. «Anche in filosofia ci perdiamo in cose inuti-li […], impariamo per la scuola anziché per la vita»(Seneca, Ep. A Luc., 106, 12).106 Versi di Cleante (fr. 527 Arnim) riportati daStobeo (Florilegium, VI, 19). Seneca (Epist., 107,11) aggiunse la frase: «Ducunt volentem fata,nolentem trahunt». «Conducimi o Padre, domina-tore dell' alto cielo / dovunque tu voglia; non esi-terò ad ubbidirti. / Vengo sollecito. Se mi oppo-nessi, ti dovrei comunque seguire, ma fra i gemi-ti / e subirei da uomo malvagio, quello che eragiusto sopportare da virtuoso. / I fati conduconochi li vuole, trascinano chi non li vuole».107 Versi di Euripide (fr. 956 Nauck).108 Anito e Meleto erano gli accusatori di Socratenel processo che si concluse con la condanna amorte del filosofo (399 a.C.). L'atteggiamento di

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Socrate davanti ai giudici conferma la distinzioneche sussiste tra la sfera morale e le cose esterne (cfr.Diatribe II, 2, 15: «Ritieni tu che se Socrate avessevoluto conservare i beni esteriori avrebbe detto, pre-sentandosi ai giudici: -Anito e Meleto possono certouccidermi, ma non recarmi danno-?»). Le frasi citatesono quelle attribuite a Socrate da Platone nel Critone(54e) e nell'Apologia (18a). «Sappiate dunque che secondannate a morte me, che così vi parlo per il vostrobene, più che a me recherete danno a voi stessi. A me,infatti, nessun danno possono recare Meleto e Anitoperché non potrebbero, convinto come sono che unuomo migliore non può ricevere danno da uno peggio-re. Essi potrebbero bene uccidermi, mandarmi in esi-lio, privarmi dei diritti politici, reputando tali cose, ipiù grandi mali; ma io non li reputo tali. Per me maleè fare quello che fa costui: tentare di uccidere ingiu-stamente un uomo» (Apologia, 18a).Cfr. Critone, 43d:«Critone - Ma tu vedi, Socrate, che dell'opinione dellagente è pur necessario curarsi. Proprio la situazione incui siamo dimostra che la gente è in grado di fare nonpoco male, per non dire il peggiore, a chi vede calun-niato. Socrate - Magari, Critone, la gente fosse capacedi fare i mali peggiori! Sarebbe allora capace anche delpiù gran bene, e sarebbe bello. Ma non sono capaci nédell'una né dell'altra cosa, non sanno far diventare unuomo né saggio né stolto, e si muovono invece comecapita».

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APPENDICI STORICHE

1. VITA E OPERE DI EPITTETO

Epitteto nacque a Ierapoli (hierà pòlis, "cittàsanta"), in Frigia, intorno al 50 d.C.. Nulladi preciso è stato tramandato riguardo alla

sua prima giovinezza (un’iscrizione lo definisce fi-glio di schiavi; lo stesso nome Epìktetos significa"acquistato", il che rimanda appunto alla sua con-dizione servile). Ierapoli era a quei tempi una cittàmolto ricca ed era uno dei centri principali del cul-to di Cibele, dea della fecondità chiamata anche«Gran Madre», che era venerata con cerimonie dinatura orgiastica particolarmente sfrenate (i suoisacerdoti giungevano a mutilarsi in ricordo diAttis, dio della vegetazione, eviratosi per Cibele eda lei riportato alla vita strappandolo dal regno deimorti; le grotte con le sorgenti d’acqua calda che sitrovavano nei pressi di Ierapoli erano tradizional-mente considerate come porte degli Inferi). In cittàabitava una nutrita colonia di ebrei e un accennodi San Paolo, il quale nomina la città di Ierapolinella Lettera ai Colossesi (IV, 12), testimonia cheanche il culto cristiano poteva contare numerosiseguaci in quella regione. L’ambiente culturale incui crebbe Epitteto era dunque caratterizzato dauna forte sensibilità religiosa, e ciò dovette influirein modo marcato sulla sua educazione influenzan-do anche gli sviluppi successivi della sua riflessio-ne filosofica, ispirata da un forte sentimento di di-pendenza del mondo da Dio.Ancora in giovane età, Epitteto fu condotto a

Roma e venduto come schiavo ad Epafrodito, li-berto di Nerone109. I rapporti di Epitteto con il suonuovo padrone non furono facili, se ci fidiamo del-le testimonianze che fanno dipendere l'infermità fi-

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sica del filosofo (Epitteto era zoppo) dai maltratta-menti cui egli fu sottoposto da Epafrodito. Ungiorno, racconta Celso, Epafrodito tormentòEpitteto fino a rompergli una gamba rendendolocosì invalido per il resto dei suoi giorni. «Questagamba finirà per spezzarsi» avrebbe commenta-to Epitteto durante il supplizio, per concludere dilì a poco: «Ti avevo detto che si sarebbe spezza-ta110». Questo aneddoto, il cui intento palese è diesaltare la figura di Epitteto quale erede dellatradizionale impassibilità di matrice cinico-stoi-ca, contrasta però con la testimonianza diSimplicio, il quale riferisce che Epitteto fu «debo-le di fisico e zoppo fin da tenera età111». Al di là dei contrasti, Epafrodito dovette co-

munque riconoscere ed apprezzare le doti intel-lettuali di Epitteto perché gli concesse di fre-quentare, nonostante la sua condizione di schia-vo, le lezioni del filosofo Musonio Rufo (30 – 102d.C. circa), uno dei rappresentati più insigni del-lo stoicismo romano. Così Epitteto ricorda il pe-riodo trascorso alla scuola di Musonio: «QuandoMusonio parlava, noi, seduti accanto a lui, cre-devamo davvero, ognuno per sé, che qualcunogli avesse parlato dei nostri difetti: così forte-mente egli era legato alla realtà, così vivida-mente poneva davanti agli occhi di ciascuno lesue debolezze. È una clinica, uomini, la scuo-la di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi,ma pieni di dolori112». Epitteto apprese daMusonio Rufo i principi fondamentali della filo-sofia stoica e imparò a riconoscere nell’uso dellaragione l’origine di quella libertà interiore che ca-ratterizza il saggio e lo distingue dall’uomo co-mune. Musonio poneva a fondamento di unacondotta di vita virtuosa la corretta valutazionedelle rappresentazioni e la distinzione tra ciò cheè in nostro potere e ciò che non dipende da noi,principi che sarebbero poi diventati il cardine del-

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la riflessione filosofica di Epitteto. Non sappiamo con precisione quando Epafrodito

decise di affrancare Epitteto, ma possiamo collo-care con una certa approssimazione intorno all' 80d.C. l'inizio dell'attività di Epitteto, ormai uomo li-bero, come maestro di filosofia. Racconta Simplicioche Epitteto «ebbe talmente care le forme della piùaccentuata povertà che la sua casupola di Romanon ebbe mai bisogno di chiavistelli, giacché nonconteneva altro che un lettuccio e la coperta su cuiegli dormiva113». Le lezioni di Epitteto, sulla scortadell'insegnamento socratico, si svolgevano attra-verso la forma del dialogo e per mezzo di discorsicomprensibili a tutti (diatribe). «Sia che con diatri-ba s'intendesse la discussione il dialogo in sensosocratico, sia la dissertazione e la lezione su argo-menti diversi, sia la predica popolare, la diatribaha sempre indicato un rapporto diretto e concretotra maestro e discepoli, indipendentemente daqualsiasi forma di insegnamento professorale, si-stematico, in organizzazione scolastica114». Fedeleal suo programma di educazione per mezzo diun'attività di tipo maieutico, Epitteto non lasciònulla di scritto. La trascrizione dei suoi insegna-menti fu opera del discepolo Arriano diNicomedia115, al quale dobbiamo la redazione deiquattro libri superstiti delle Diatribe (originaria-mente in otto libri) ed il Manuale. Nel 94 d.C. Epitteto dovette lasciare Roma a cau-

sa del decreto di espulsione dei filosofi voluto dal-l'imperatore Domiziano (81–96 d.C.). La ragione diquesto provvedimento (che colpiva anche mate-matici e astrologi) risiedeva nel timore che le scuo-le filosofiche (e in particolare quella stoica) potes-sero costituire un centro di resistenza al potere im-periale o potessero turbare la vita sociale con i loroprogrammi educativi miranti a formare uomini li-beri in luogo di sudditi devoti. La diffidenza degliimperatori nei confronti dei filosofi aveva del resto

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già fatto vittime illustri (è il caso di Seneca) edespulsioni e bandi si erano susseguiti per tutto il Isecolo d.C.. Alcuni accenni di Epitteto nelleDiatribe testimoniano che il clima politico nellaRoma imperiale rendeva malsicura la vita del filo-sofo (Simplicio riferisce che, nonostante i rischi,Epitteto aveva preso un’esplicita e coraggiosa po-sizione di condanna della tirannia di Domiziano).Neppure la semplice discussione filosofica di tiposocratico pareva trovare interlocutori ben dispostia Roma: nell’interrogare qualcuno, raccontaEpitteto, «c’è sempre pericolo che l’interlocutore pri-ma sbotti: "Che t’importa, buon uomo? Chi sei perme?", e poi, se seguiti a dargli fastidio, che alzi il pu-gno e ti colpisca116». La notizia del bando ci porta comunque a conclu-

dere che all’epoca dei fatti Epitteto doveva goderedi una certa fama negli ambienti filosofici romani edi un discreto numero di seguaci. Lasciata Roma,Epitteto si trasferì a Nicopoli in Epiro (la «città del-la vittoria»), fondata da Augusto dopo la vittoria diAzio (31 d.C.). Qui Epitteto riprese l'insegnamentoe si circondò di nuovi discepoli, vivendo in povertàe dedicando tutto il suo tempo alla scuola e alle le-zioni. La sua fama crebbe col passare del tempo eattirò nella sua scuola un gran numero di allievi.La base delle lezioni era costituita dalla lettura deiclassici dell’antica Stoà (Zenone, Cleante,Crisippo), delle opere di Platone, di Senofonte e diDiogene di Sinope. Epitteto non volle mai sposar-si, scegliendo il celibato nonostante il precetto delsuo vecchio maestro Musonio (il quale considera-va il matrimonio un dovere che realizza la parte-cipazione attiva dell’individuo alla comunità).Ormai in tarda età, però, Epitteto adottò un or-fanello ed accolse in casa sua una donna perchélo accudisse. La scuola di Epitteto divenne cele-bre in tutto il mondo e sembra che lo stesso im-peratore Adriano (117-138 d.C.) si sia recato a

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Nicopoli per chiedere consiglio al vecchio filo-sofo. La data della morte di Epitteto va collocataintorno all'anno 130 d.C..

2. LE ORIGINI DELLA DOTTRINA DI EPITTETO

La filosofia di Epitteto si inscrive nel quadrodello Stoicismo (con una decisa accentua-zione dei temi più caratteristici dell’antica

Stoà a dispetto delle innovazioni dottrinali intro-dotte da autori di ispirazione eclettica comePanezio e Posidonio), ma risente anche di forti in-fluenze socratiche, sia perché si collega ideal-mente ai motivi fondamentali che avevano ispi-rato il pensiero originale di Socrate, sia perchérecupera temi e spunti propri di alcuni «socrati-ci minori», primi tra tutti gli esponenti delCinismo. Tra gli autori più citati da Epitteto nelleDiatribe e nel Manuale si trovano appunto Socrate,gli antichi stoici Zenone di Cizio, Cleante di Asso(suoi i versi sul fato nell’ultimo paragrafo delManuale) e Crisippo; quindi Antistene, Diogene diSinope, Platone, Senofonte. Il legame storico di pa-rentela tra l’antico stoicismo e Socrate è accredita-to da Diogene Laerzio nelle sue Vite dei filosofi (VII,2): Zenone di Cizio, fondatore della Stoà, fu disce-polo sia di Cratete cinico che di Stilpone diMegara117. Nella scuola stoica sarebbero pertantoconfluite due tradizioni di pensiero che avevanoavuto origine direttamente dall’insegnamento diSocrate: la scuola cinica (secondo la linea di suc-cessione: Antistene - Diogene di Sinope - Cratete),e la scuola Megarica (secondo la linea di succes-sione: Euclide di Megara – Eubulide di Mileto –Stilpone di Megara). Questa sorta di albero genea-logico della scuola stoica potrebbe essere una rico-struzione a posteriori voluta dagli stessi Stoici pernobilitare se stessi, ma al di là della sua atten-dibilità storica rimane il fatto che nello stoici-

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smo sussistono indubbi legami dottrinali con ilpensiero di Cinici e Megarici (con i primi perquanto riguarda l’etica, con i secondi per le teo-rie logiche). Il «ritorno a Socrate» che caratterizzamolti aspetti della riflessione di Epitteto può esse-re interpretato come una valorizzazione di alcunielementi teorici che già si trovavano incorporatinello Stoicismo antico e che era necessario re-cuperare per ridare alla riflessione teorica quelcarattere rigoroso che era stato tradito dagli au-tori della media Stoà. Analizzeremo ora, parten-do proprio da Socrate, alcuni tratti essenzialidelle dottrine che maggiormente influenzaronoil pensiero di Epitteto o alle quali l’autore delManuale si richiama esplicitamente.

2.1. Socrate

Ciò che Epitteto ammira in Socrate è in-nanzitutto uno stile filosofico fondato sulconfronto dialogico con finalità maieuti-

che e sull’analisi razionale dei problemi. Socrateè il filosofo che non possiede un contenuto di ve-rità precostituito da comunicare nella forma del-la lezione scolastica ma che professa apertamen-te la propria ignoranza e ricerca la verità per mez-zo del dibattito orale. Epitteto rimarrà per tutta lavita fedele all’esempio socratico rifiutando la pa-rola scritta come mezzo per veicolare i propri in-segnamenti e impostando le proprie lezioni nellaforma del dialogo, del dibattito con finalità esor-tative e della predica popolare (diatriba).

«Come si comportava Socrate? Induceva il suostesso interlocutore a testimoniare in suo favore,e non aveva bisogno di nessun altro testimone.Quindi poteva ben dire: Lascio perdere tutti gli al-tri; in tutti i casi, mi basta la testimonianza del miocontraddittore; non chiedo il suffragio degli altri,

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ma solo del mio interlocutore. E infatti evidenziavacosì chiaramente le conseguenze dei concetti chechiunque, rendendosi conto della contraddizione,poteva allontanarsene118».

Socrate è anche il filosofo che per primo ha postol’accento sull’analisi della propria interiorità, ovve-ro, per usare la terminologia del Manuale (§ 29), co-lui che si è concentrato sulla parte dominante del-la propria anima piuttosto che sulle cose esterne. Il «conosci te stesso» socratico costituisce il fon-

damento e la condizione della stessa distinzionemorale perché consente una comprensione auten-tica di quanto ci appartiene essenzialmente (ciòche è veramente nostro, avrebbe detto Epitteto)e di quanto invece non ci appartiene (ciò che è anoi estraneo). Questa distinzione, che sarà riela-borata da Antistene e diventerà centrale nella ri-flessione di Epitteto (l’incipit del Manuale riguardaproprio la differenza tra le cose che sono in nostropotere e quelle che non sono in nostro potere), èbene esemplificata, nel suo legame con l’indaginesu se stessi, in un brano dell’Alcibiade I :

«Socrate - Quindi senza conoscere se stessi e sen-za essere saggi non saremmo in grado di sapereciò che è male e ciò che è bene per noi. Alcibiade –Come sarebbe mai possibile, Socrate? […] Socrate – E come potremmo sapere che le cosenostre sono nostre se non conosciamo noi stessi? Alcibiade – Già, come? Socrate - E se non conosciamo le nostre cose,neppure quelle che appartengono ad esse? Alcibiade – Pare di no. Socrate – Noi eravamo dunque del tutto scorrettipoco fa, quando ci siamo trovati d’accordo che visono persone che, senza conoscere se stesse, co-noscono tuttavia le cose che loro appartengono eche altri conoscono ciò che appartiene alle loro

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cose. Perché pare che sia compito di un’arte uni-ca discernere queste tre cose: se stessi, le propriecose e ciò che a queste cose appartiene119».

Una delle conseguenze più significative che sca-turiscono dalla conoscenza di sé è il dominio dellepassioni: «Il primo tratto e massimamente peculia-re di Socrate era quello di non lasciarsi mai an-dare alla collera nel corso di una discussione, dinon proferire mai alcun insulto, di non esseremai aggressivo, ma di essere paziente con chi loinsultava e di porre fine alle dispute120». Nel giu-dizio di Epitteto, Socrate incarna così la figura delsaggio che è indifferente alle circostanze esteriori, cheha eliminato ogni ostentazione dal suo atteggiamen-to, che è cosciente della propria ignoranza e «non bia-sima nessuno, non loda nessuno, non si lamenta dinessuno, non incolpa nessuno, non parla di sé comese fosse qualcuno o uno che sa qualcosa121». Epitteto esalta dunque un Socrate come maestro

ed esempio di moralità, si sofferma prevalente-mente sul lato pratico del suo insegnamento e sul-la sua condotta di vita virtuosa come già avevanofatto Senofonte e i Cinici122; ma non dimenticache per Socrate la possibilità di essere virtuosi di-pende dalla conoscenza e che la sfera morale è in-dissolubilmente legata a quella teoretico-conosci-tiva (intellettualismo etico). Socrate mantenne unatteggiamento sprezzante davanti ai giudici e ri-mase sereno al momento della morte perché go-deva di quella libertà interiore che deriva dallacapacità di valutare razionalmente ogni evento edi giudicarlo secondo una prospettiva adeguata.Dalla filosofia di Socrate si ricava pertanto quella di-pendenza della moralità dalla conoscenza razionale(ciò che nel pensiero di Epitteto diventa la valutazio-ne adeguata delle proprie rappresentazioni) che co-stituisce uno dei presupposti fondamentali degli in-segnamenti contenuti nel Manuale. Socrate inse-

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gnava che la possibilità di un’esistenza virtuosa è le-gata alla ricerca della definizione di virtù, vale a direal tentativo di rispondere alla domanda: «Che cos’èla virtù?». Epitteto attribuisce un’importanza decisi-va all’indagine logico-linguistica socratica:

«Compito della logica è discernere ed esaminare il restoe, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo […]. E Socratenon l’afferma? Di chi scrive Senofonte che incominciavadall’osservazione dei termini, quale fosse il significato diognuno?123».

È la ricerca della definizione che consente aSocrate, in opposizione al relativismo sofista, dielevarsi al piano del concetto e di scoprire che lavirtù non coincide con gli esempi particolari che diessa possono essere di volta in volta esibiti comesue esemplificazioni fattuali. La virtù è dunqueunica. Nell’interpretazione di Epitteto, il significatoessenziale di questa operazione era quello di de-contestualizzare la nozione di virtù, vale a dire direndere il dover-essere indipendente dalle circo-stanze esterne sganciandolo dal legame con i fatti.Si apriva così la porta ad un altro dei temi fonda-mentali del Manuale, vale a dire l’estraneità dellamorale alla sfera degli accadimenti fattuali ed ilconfinamento della scelta morale esclusivamenteall’ambito dell’interiorità del soggetto: «Così infattinon ti lamenterai mai degli dèi né li accuserai diessere trascurato. D’altra parte non è possibile checiò avvenga qualora tu non elimini il concetto dibene e di male dalle cose che non sono in nostropotere e non lo trasferisca solo a quelle cose che di-pendono da noi124». Questa posizione portava ine-vitabilmente ad un accentuato rigorismo etico: ildover-essere morale va realizzato senza tenere inalcun conto le disposizioni particolari del sogget-to individuale o le circostanze esterne che posso-no costituire un impedimento all’azione. E dato

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che la scelta morale dipende dalla valutazione ra-zionale degli eventi, Epitteto accettava l’identifi-cazione socratica di virtù e conoscenza e potevaconcludere che solo chi conosce il bene può com-pierlo e che chi pecca lo fa a causa della propriaignoranza125.

2.2. Antistene e la tradizione cinica

Il contrassegno principale del Cinismo è unasensibile svalutazione della conoscenza qualefattore decisivo per la realizzazione di una con-

dotta di vita virtuosa. Già in Antistene, considera-to l’ispiratore della scuola cinica, troviamo l’asser-zione che «la virtù è sufficiente alla felicità e che dinulla ha bisogna se non della forza di Socrate; chela virtù è nelle azioni e non ha bisogno di moltissi-me parole né di moltissime cognizioni126». Questatendenza a concentrare l’attenzione sulla vita pra-tica e sull’esempio, relegando ai margini le temati-che di ordine logico-gnoseologico, si andò progres-sivamente accentuando nei seguaci del Cinismo fi-no a determinare un’ideale di saggezza fondatosull’autosufficienza (autarchia) del saggio e sulla li-berazione dai bisogni. Il filosofo cinico conduceuna vita povera ma dignitosa, adotta lo stile di vitadel cane randagio (di qui il nome della scuola) ri-fiutando tutto ciò che è superfluo, si concentraesclusivamente sul proprio progresso morale at-traverso l’esercizio, la fatica e la rinuncia. Il temadel «conosci te stesso» socratico viene così inter-pretato nel senso di un distacco del saggio da tut-te le circostanze esterne che potrebbero distrarrela sua attenzione dal compito di realizzare la virtù.Il cinico rifiuta il piacere perché rende l’uomoschiavo e tende a polemizzare di continuo contro leconvenzioni che regolano la vita sociale perché co-stituiscono inutili sovrastrutture che impedisconoun’autentica conoscenza di sé. Da ciò deriva anche

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il rifiuto dell’impegno politico, gli atteggiamenti«anarchici» e provocatori, i toni esasperati e pole-mici tipici della predicazione cinica. Il cinico vive«senza città, senza tetto, bandito dalla patria, men-dico, errante, alla ricerca quotidiana di un pezzo dipane127». Preferisce considerarsi cittadino delmondo piuttosto che di una particolare pòlis e ten-de ad assumere anche nel vestiario tratti distintiviche ne segnalano la scelta di vita: il mantello rad-doppiato per dormirci dentro, il bastone da vian-dante e la bisaccia in cui conservare il minimo in-dispensabile alla sopravvivenza, un aspetto tra-scurato e sudicio128. Ecco come Epitteto fa parlareil filosofo cinico in un brano delle Diatribe:

«Guardatemi: non ho casa, né patria, né posse-dimenti né servi: dormo sulla nuda terra, nonho moglie né figli né pretorio, ma solo la terra, ilcielo e un solo logoro mantello. Nondimeno, co-sa mi manca? Non sono privo di dolori, non sono privo di pau-re, non sono libero? Quando uno di voi mi ha vi-sto frustrato nei miei desideri, o vittima delle mieavversioni? Quando mi sono lamentato di Dio odi un uomo, quando ho accusato qualcuno?Qualcuno di voi mi ha forse visto scuro in volto?Come incontro quelli che voi temete e ammirate? Non come schiavi? Chi, vedendomi, non crede divedere il suo re e il suo padrone?129».

Epitteto trova parecchi motivi ispiratori nella filo-sofia dei cinici: l’esaltazione della virtù come eser-cizio eroico; il ripiegamento sulla dimensione sog-gettiva ed il rifiuto delle cose esterne; l’etica della ri-nuncia e la conseguente polemica contro il piaceree la passionalità; l’ideale dell’autosufficienza delsaggio, ed anche una certa svalutazione della sferateoretico-conoscitiva di cui troviamo traccia nelManuale. Ma Epitteto non è disposto a seguire il

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Cinismo nei suoi aspetti più folkloristici, vale a direin quell’ostentazione bizzarra di atteggiamenti an-ticonvenzionali che già avevano attirato suAntistene i rimproveri di Socrate130 e che avevanoportato Platone a definire Diogene di Sinope «unSocrate diventato pazzo131». A ciò Epitteto contrap-poneva un ideale etico (proprio dello Stoicismo) cherendeva il saggio capace di mostrare in ogni occa-sione austerità, misura, dignità e autocontrollo.Alcuni dei precetti contenuti nel § 33 delManuale sembrano diretti proprio a contrastarealcuni ‘sviamenti’ tipici del Cinismo quali l’usodel linguaggio osceno e la battuta mordace chescatena il riso della folla132.Un discorso a parte va fatto per Antistene, del

quale Epitteto sottolinea la continuità con Socratedicendo che per entrambi l’educazione filosoficainiziava con l’indagine sui nomi (epìskepsis tononomàton)133. Molte testimonianze attribuisconoad Antistene un significativo interesse per le pro-blematiche d’ordine logico ed in particolare per ladefinizione, da lui intesa come «discorso appro-priato» (oikèios lògos). Secondo Diogene Laerzio,Antistene fu il primo a dire che il lògos «manifestacosa era o è una cosa134» e Aristotele aggiunge chesecondo Antistene «non è possibile esprimere nul-la se non con il lògos proprio, uno per ciascuna co-sa135». Si è sovente identificato questo «lògos pro-prio», che predica «uno di uno», con la tautologia,attribuendo ad Antistene un’interpretazione co-sì rigida del «ti ésti» socratico da paralizzare lapredicazione e consentire solo giudizi di identitàdel tipo: «l’uomo è l’uomo», «il buono è il buono»ecc136. Più verosimilmente, l’oikéios lògos anti-stenico doveva costituire una definizione alter-nativa a quella platonica e aristotelica basatasul genere e sulla specie, ed è in questo sensoche devono interpretarsi gli attacchi diAristotele contro gli «antistenici»137.

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Un esempio di predicazione «uno a uno» potrebbeessere costituito dal giudizio che Diogene Laerzioattribuisce ad Antistene: «Ciò che è buono è bello,ciò che è male è turpe138». Il punto che più ci in-teressa è che Antistene affrontava la questio-ne del lògos definitorio nei termini dell’oppo-sizione tra «oikéios» e «allòtrios» («proprio» - «estra-neo»): egli era mosso dalla convinzione «che soloun certo tipo di discorso possa esprimere una da-ta cosa e sia perciò discorso della cosa. Il proble-ma non è posto in termini di vero-falso, ma di pro-prio-estraneo139». Le categorie del «proprio» e dell’«estraneo» si pre-

stavano ad assumere una valenza decisiva anchein ambito morale, connotando la ricerca antisteni-ca della definizione in senso marcatamente etico(sulla scia dell’insegnamento socratico). In altritermini, individuare l’oikèios logos consentiva adAntistene di definire con esattezza l’ambito dellecose che hanno davvero valore ai fini della realizza-zione della virtù e di separare da esse l’ambito dellecose estranee e indifferenti. Ad Epitteto sarebbebastato "tradurre" la ricerca antistenica del lò-gos «proprio» nei termini dell’uso «proprio» dellerappresentazioni per fare di Antistene l’ispira-tore di una delle tesi centrali del Manuale:

«In tal modo si ottiene la libertà. Perciò [Diogene] di-ceva: -Da quando Antistene mi ha liberato non hopiù patito la schiavitù-. Come lo liberò? Ascolta checosa dice: -Mi insegnò quel che è mio e quel chenon è mio. I possedimenti non sono miei, i paren-ti, i servi, gli amici, la reputazione, i luoghi fami-gliari, la compagnia della gente, tutto ciò mi èestraneo.- Che cosa dunque è tuo? –L’uso dellerappresentazioni. Egli mi mostrò che quest’uso lo posseggo incoerci-bile e non soggetto ad impedimenti. Nessuno puòimpacciarmi o costringermi con la violenza ad

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usare le rappresentazioni altrimenti che co-me voglio-»140.

Il giudicare con chiarezza cui spesso invitaEpitteto («Di fronte a ciascuna delle cose che ti allet-tano […] ricorda di indicare, inoltre, di quale speciesono», Manuale § 3) diviene insomma la condi-zione per poter agire in modo virtuoso; e i giu-dizi che conseguono da questa attività di defin-zione (le equivalenze del tipo: «amare una don-na = amare un mortale») potrebbero verosimil-mente essere intesi quali esempi di oikéios lògosin senso antistenico.

2.3 Lo stoicismo antico

La scuola stoica fu fondata da Zenone diCizio, il quale ebbe come successori Cleantedi Asso e Crisippo di Soli. Dal punto di vista

dell’evoluzione storica della scuola si possono di-stinguere tre fasi:

ANTICA STOÀIII sec. a.C.Zenone di Cizio (332-262 a.C.)Cleante di Asso (312-232 a.C.)Crisippo di Soli (277-204 a.C.)

MEDIA STOÀII / I sec. a.C.Panezio di Rodi (185-100 a.C.)Posidonio di Apamea (135-51 a.C.)

NUOVA STOÀI / III sec. d.CSeneca (4 a.C. - 65 d.C.)Epitteto (50 d.C. - 130 d.C.)Marco Aurelio (121-180 d.C.)La filosofia stoica si articolava in tre campi d’in-

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dagine (logica, fisica ed etica) in rapporto di strettadipendenza funzionale: «Gli Stoici paragonano lafilosofia ad un essere vivente: alle ossa ed ai nervicorrisponde la Logica, alle parti carnose l’Etica, al-l’anima la Fisica. […] E nessuna parte è separatadall’altra […] ma sono tutte piuttosto stretta-mente congiunte fra loro141». A differenza del-l’impostazione cinica, caratterizzata da una po-lemica svalutazione della conoscenza, gli Stoiciritenevano dunque che le norme etiche dovesse-ro esser fondate e giustificate sulla base di un’e-satta comprensione delle regole del ragionamen-to e sull’indagine della realtà naturale.La gnoseologia stoica era caratterizzata da un’im-

postazione accentuatamente empirista: la fonte diogni conoscenza è la sensazione (àisthesis), la qua-le veicola nell’anima rappresentazioni (phantasìai)della realtà esterna142. Registrate dalla memoria,le rappresentazioni danno origine ai concetti o pro-lessi (anticipazioni), così chiamati perché consen-tono di anticipare i dati della conoscenza sul mo-dello delle esperienze passate143. Criterio di veritàè l’evidenza, cioè la forza con la quale una rappre-sentazione sollecita il nostro assenso determinan-dosi come «rappresentazione comprensiva» o «ca-talettica»(dal verbo katalambàno, afferro). Da que-ste premesse, però, gli Stoici (in polemica con gliEpicurei) non concludevano che la scienza doves-se giustificare le proprie asserzioni sulla base di unprocedimento di generalizzazione induttiva.Perché si produca autentica conoscenza, infatti, ènecessario che i dati della sensazione, ovvero lerappresentazioni, siano connessi tra loro secondorapporti logici. «Gli Stoici, sebbene empiristi ingnoseologia, richiedevano che tra il ‘segno’ e ciòche è designato vi fosse non già un semplice lega-me empirico, ma una connessione logica144». Adesempio, non basta che la rappresentazione chemi attesta la presenza di fumo sia dotata di evi-

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denza, ma è necessario connettere tale rappresen-tazione alla sua conseguenza necessaria (la pre-senza del fuoco) in uno schema inferenziale del ti-po: «p … q» («se c’è fumo allora ci dev’essere del fuo-co»145). Nella gnoseologia stoica, insomma, «mal-grado le certezze della ‘rappresentazione cataletti-ca’, [le rappresentazioni vanno] verificate alla pro-va dell’inferenza logico-concettuale. La rappresen-tazione catalettica propone la presenza di qualcosache potrebbe essere fumo (salvo inganno dei sen-si): solo dopo la verifica inferenziale, solo dopo chesi è verificata estensionalmente la conseguenza delfumo, il fuoco, si è sicuri della certezza della perce-zione. La logica-semiotica stoica è lo strumento diverifica della percezione146». Da questa impostazione deriva che verità e falsità

non sono proprietà attribuibili alla singola rappre-sentazione, ma caratterizzano solo il giudizio, valea dire la connessione delle rappresentazioni. Taleprincipio trova costante applicazione nella filosofiadi Epitteto: le rappresentazioni in sé, in quanto im-magini, sono né vere né false; veri o falsi (adeguatio inadeguati) sono i giudizi che esprimiamo connet-tendo quelle rappresentazioni ad altre (ciò che acca-de,ad esempio, con l’idea della morte quando la giu-dichiamo un evento terribile, Manuale § 5). E datoche il giudizio va interpretato nella forma dell’im-plicazione: «se…allora», giudicare una rappre-sentazione (vale a dire un’azione, un evento,etc.) significa tenere conto di tutto ciò che da es-sa segue logicamente. Di qui l’insistenza con laquale Epitteto raccomanda: «Osserva gli antece-denti e le conseguenze. […] Innanzitutto di a testesso chi vuoi essere; poi fa ogni cosa di conse-guenza147». Il corretto giudizio sulle rappresentazioni si espri-

me mediante un calcolo razionale di tutto ciò cheda esse consegue logicamente (nel Manuale questoprincipio trova esplicita applicazione al caso di chi

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intenda recarsi ai bagni pubblici, § 4, e a quello dichi voglia intraprendere la carriera dell’atleta, §29); in questo senso la logica può insegnarci ad at-tuare comportamenti coerenti con le premesse as-sunte e si costituisce perciò come indispensabilecomplemento dell’indagine etica. «Mentre uno leg-geva dei sillogismi ipotetici, Epitteto osservò: è unalegge del sillogismo ipotetico anche questa, che bi-sogna accettare quel che discende dall’ipotesi. Madi gran lunga più rilevante è questa legge della vi-ta, secondo cui bisogna fare quel che discende dal-la natura148». Nonostante lo scarso spazio riservato alle temati-

che logiche, Epitteto mostra una conoscenza nonsuperficiale degli insegnamenti fondamentali del-lo Stoicismo nel campo della logica (si veda adesempio l’accenno alla disgiunzione ed alla con-giunzione di due proposizioni contraddittorie nel§ 36 e quello al sillogismo nel § 42). Nelle Diatribesono rintracciabili riferimenti che mostrano unachiara consapevolezza della natura a priori dellalogica e dei suoi principi149. La prevalenza accor-data all’etica non deve perciò essere fraintesa nelsenso di una generica svalutazione della raziona-lità. Epitteto si limita infatti ad esprimere una ri-serva critica nei confronti di un sapere che puòchiudersi su se stesso generando ricerche sterili edistogliendoci dai problemi fondamentali dell’esi-stenza, come suggerito nel § 52 del Manuale: lalogica si rivela in tutta la sua importanza quandoviene utilizzata per giustificare un principio mo-rale (nell’esempio, la norma che vieta di mentire);ma quando concentriamo la nostra attenzioneesclusivamente su problematiche di natura logi-ca (domandandoci cosa sia una dimostrazione, ouna contraddizione, ecc.) e sganciamo la logicadal suo rapporto funzionale con l’etica, allora es-sa diventa una scienza improduttiva. Sulla scor-ta della tradizione socratica e antistenica, la pre-

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cisazione del significato delle espressioni, che èresa possibile dalla logica, è la condizione impre-scindibile per assegnare alle rappresentazioni ilgiusto valore dal punto di vista etico. La logica,dunque, rimane «sullo sfondo» del Manuale sem-plicemente perché essa è costantemente presup-posta, non per il fatto che Epitteto ne prescinda.Analogo discorso può farsi per quanto riguarda la

Fisica e la Cosmologia, riguardo alle quali Epittetosi muove nel quadro di un’accettazione di fondodella dottrina elaborata dalla scuola stoica. LoStoicismo interpretava la natura come un grandeorganismo vivente prodotto dall’interazione di dueprincipi corporei: uno passivo, la materia, ed unoattivo, il lògos (chiamato anche pneuma, soffio vi-tale, identificato sulla scorta della filosofia diEraclito con il fuoco). Il lògos, principio razionale eragione ordinatrice dell’universo, vivifica la mate-ria conferendo al cosmo nella sua interezza e adogni sua singola parte una tensione (tònos) checostituisce la forza di coesione interna di ogni co-sa esistente. La fisica stoica era così caratterizza-ta da un rigoroso immanentismo (la spiegazionedella natura, in polemica con la dottrina platoni-ca, non faceva ricorso a principi trascendenti) eda un panteismo conseguente all’identificazionedel principio attivo, o lògos, con la divinità (Zeus).Di qui derivava anche l’idea di una profondaunità del cosmo e di un ordine razionale, determi-nato dal lògos, che regola la catena degli eventi se-condo una legge necessaria e immodificabile (Fato)assegnando ad ogni ente una precisa finalità. L’etica stoica assumeva come suo motivo fonda-

mentale il riconoscimento e l’accettazione di ogniaccadimento in quanto determinato da una leggedi sviluppo assolutamente necessaria. Seppurecon significative differenze da un autore all’al-tro, il senso della scelta morale assumeva cosìper gli Stoici il valore di un’adesione razionale

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all’ordine del tutto, al «vivere secondo natura»(vale a dire, in accordo con la necessità del Fato).

«Per questo motivo il fine è costituito dal viveresecondo natura, cioè secondo la natura singolae la natura dell’universo, nulla operando di ciòche suole proibire la legge a tutti comune, che èidentica alla retta ragione diffusa per tutto l’uni-verso ed è identica anche a Zeus, guida e capodell’universo. Ed in ciò consiste la virtù dell’uo-mo felice e il facile corso della vita, quando tuttele azioni compiute mostrino il perfetto accordodel demone che è in ciascuno di noi col voleredel signore dell’universo150».

Il compito dell’uomo consiste semplicemente nelvolere il proprio destino (amor fati). Tuttavia, lascelta morale di conformarsi all’ordine del cosmopresuppone un principio di libertà, e l’inserimen-to della libertà in un sistema costruito sull’as-sunto della necessità assoluta del Tutto risultaevidentemente problematico. Lo Stoicismo, insintonia con le dottrine dei Megarici, metteva albando le idee di possibilità, di casualità e di con-tingenza a favore della inviolabile necessità dellacatena causale. Ogni tentativo di conciliare l’ordi-ne immutabile del Fato con la nozione modale delpossibile offriva in questo senso il fianco a com-prensibili accuse di contraddittorietà151. Comepoteva dunque giustificarsi l’idea di una scelta daparte del soggetto individuale?La soluzione prospettata dagli Stoici consisteva

nell’isolare la facoltà del giudizio dalla catena ne-cessaria delle cause attribuendo all’individuo il li-bero uso della capacità di assentire o meno allerappresentazioni fornite dai sensi. L’unico spira-glio di libertà che si apre nel cosmo stoico riguar-da dunque l’uso delle nostre rappresentazioni.«Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la

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spinta a un cilindro gli ha dato l’inizio del movi-mento, ma non la capacità di girare, così la rap-presentazione imprime sì l’oggetto, ma l’assensosarà in nostro potere152». Ed Epitteto, sulla stes-sa linea di pensiero, ribadisce che «la speciale co-stituzione del nostro intelletto […] ci consentenon solo di ricevere le impressioni dagli oggettisensibili, quando veniamo in contatto con essi,ma anche di scegliere tra questi oggetti, di toglie-re, di aggiungere, di combinare insieme alcuni diessi da noi stessi e di passare […] dagli uni aglialtri che sono in qualche modo somiglianti153».La dottrina del libero assenso consentiva così dicreare una sorta di zona franca nel processo ditrasmissione delle rappresentazioni alla co-scienza che senza questo correttivo avrebbe de-terminato uno stato di pura passività nel sog-getto conoscitivo.La volontarietà e libertà dell’assenso si configu-

rava, secondo gli stoici, come capacità di deter-minare l’agire secondo norme razionali. Tutti gliesseri viventi (vegetali, animali, uomini) sono ca-ratterizzati dalla tendenza all’autoconservazione(oikeìosis), e dunque a dirigere le proprie sceltesulla base di un’elementare distinzione tra ciòche è utile e ciò che è dannoso a questo scopo. Mamentre nelle piante tale tendenza è inconsapevo-le e negli animali è guidata dall’istinto, l’uomostabilisce una partizione tra le varie possibilitàseguendo la propria ragione: «E poiché gli esse-ri razionali hanno ricevuto la ragione per unacondotta più perfetta, il loro vivere secondoragione coincide rettamente col vivere secon-do natura, in quanto la ragione si aggiungeper loro come plasmatrice ed educatricedell’istinto154». Ne consegue che la virtù coincide sempre

con l’agire motivato da una valutazione razio-nale, mentre il vizio risulta da un falso giudizio

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della ragione determinato da un assenso troppofrettolosamente concesso a una qualche rappre-sentazione. Anche le passioni devono sempre es-sere interpretate come falsi giudizi e vanno perciòestirpate. Le passioni si generano da una «perver-sione del pensiero» che è causa dell’instabilitàdell’anima155. Il saggio deve raggiungere la condi-zione dell’apatia (impassibilità, assenza di pas-sione) come presupposto indispensabile alla se-rena valutazione delle rappresentazioni. Gli Stoici potevano così recuperare, da un lato,

l’ideale cinico dell’autosufficienza del saggio, ilquale realizza la propria felicità in assoluta indi-pendenza dall’influenza del mondo esterno; e,dall’altro, i motivi dell’intellettualismo etico so-cratico: la virtù scaturisce dal sapere e chi peccalo fa sempre per ignoranza del bene; dunque be-ne e male coincidono, rispettivamente, col saperee col non sapere. Bene e male non sono proprietàdei fatti (l’ordine razionale del cosmo impone in-fatti di valutare come buoni tutti gli accadimenti)bensì, ancora una volta, dei giudizi che formiamosui fatti, che possono essere adeguati o inade-guati, e delle nostre scelte, che possono esserebuone o cattive. Il saggio realizza la vera libertànel momento in cui riconosce l’ordine razionale delFato e aderisce ad esso: «Se vuoi sei libero; se vuoi,non rimprovererai nessuno, non ti lamenterai dinessuno, e tutto avverrà secondo il tuo volere e,contemporaneamente, secondo il volere di Dio156».La dichiarata indipendenza della scelta virtuosa

dalle circostanze esterne e la sua riduzione ad ungiudizio di tipo conoscitivo determinava il caratte-re rigoristico dell’etica stoica. Come non c’è via dimezzo tra il vero ed il falso, così «non c’è via dimezzo tra la virtù e il vizio157». La perfezione mo-rale raggiungibile dal saggio non ammette alcunagradazione, e quindi l’alternativa si pone tra larealizzazione perfetta della virtù e il rimanere nel

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vizio. «Come chi è sommerso nell’acqua, sebbe-ne poco distante dalla superficie così da poter-ne quasi emergere, non può respirare affattomeglio che se fosse nel profondo […]; così chisi sia alquanto avanzato nell’abito della virtùnon è punto meno in miseria di chi non siaavanzato affatto158». Da questo punto di vista, ilsaggio deve realizzare la virtù disinteressandosidi tutto ciò che è estraneo e non contribuisce alsuo perfezionamento morale: i beni e le circo-stanze esterne (come la ricchezza, la salute, labuona reputazione, ecc.) devono essere conside-rati come cose indifferenti (adiafora)159.

«Gli Stoici affermano che tutti i beni sonoeguali e che ogni bene è desiderabile in altis-simo grado e non suscettibile né di diminuzio-ne né di accrescimento. Delle cose che sonoessi dicono che alcune sono buone, altre cat-tive; altre ancora né buone né cattive. Buonesono le virtù, prudenza, giustizia, fortezza,moderazione, ecc.; cattive sono i vizi, stoltez-za, ingiustizia, ecc.; indifferenti sono tutte lecose che non portano né vantaggio né dan-no: per esempio vita, salute, piacere, bellezzaforza, ricchezza, buona reputazione, nobiltàdi nascita e i loro contrari, morte, infermità,pena, bruttezza, debolezza, povertà, ignomi-nia, oscura nascita e simili […]. Questi dun-que non sono beni, ma sono cose indifferentie degne di essere desiderate in senso relativo,non assoluto160».

Aristone di Chio, discepolo di Zenone, pote-va allora concludere che «il fine è il vivere per-fettamente indifferente a tutto ciò che non è névirtù né vizio, non ammettendo alcuna distin-zione fra cose indifferenti, ma considerandoletutte uguali161».

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2.4. La diffusione della filosofia a Roma. LaMedia Stoà. La filosofia a Roma in età imperiale.

Iprimi contatti del mondo romano con la cultu-ra e la filosofia greca risalgono probabilmenteal periodo dell’espansione in Magna Grecia (la

conquista di Taranto avviene nel 272 a.C.) e si in-tensificano progressivamente dopo la conquistadella Grecia (battaglia di Pidna, 168 a.C.). Lacultura greca iniziò a diffondersi grazie all’inse-gnamento di schiavi e liberti provenienti dai ter-ritori conquistati (è il caso di Livio Andronico,giunto a Roma dopo la presa di Taranto) e, in se-guito, per iniziativa di filosofi - come Panezio diRodi - che soggiornarono a Roma svolgendo atti-vità di insegnamento ed entrando in contatto conpersonalità di rilievo nel campo della politica.Il primo incontro «ufficiale» dei Romani con la fi-

losofia avvenne in occasione della famosa amba-sceria inviata da Atene a Roma nel 155 a.C., chevide come protagonisti l’accademico Carneade diCirene, lo stoico Diogene di Babilonia ed il peripa-tetico Critolao. In attesa di essere ricevuti dalSenato, presso il quale dovevano perorare la cau-sa di Atene (condannata ad una forte multa peraver saccheggiato Oropo), i tre filosofi tennero pub-bliche lezioni attirando un gran numero di giovaniromani. A destare la maggiore impressione sull’u-ditorio fu Carneade, il quale in due giornate suc-cessive tenne dapprima un discorso a favore dellavirtù, e poi, con argomenti altrettanto convincenti,un discorso che dipingeva la virtù come una formadi stoltezza. Uno degli effetti collaterali di questo in-contro fu quello di destare viva preoccupazione ne-gli ambienti più conservatori di Roma, che, veden-do nella filosofia greca una pericolosa forma di per-versione delle virtù romane, agirono in modo dacontrastarne la diffusione. Esemplare, in questosenso, la posizione di Catone il Censore: «Razza

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cattivissima e indocile è quella dei Greci, e fa’ con-to che sia un profeta che ti dice questo: se, quandoche sia, codesta gente ci darà la sua scienza, man-derà tutto in rovina162». A riprova delle difficoltà che il pensiero filosofico

incontrò nel suo approccio con la mentalità dei ro-mani, nel 161 a.C. il Senato romano giunse a proi-bire la residenza a Roma per tutti i retori e i filoso-fi greci. Le proibizioni dell’insegnamento e le espul-sioni di filosofi e retori continuarono, come vedre-mo, anche nel periodo imperiale; tuttavia, la diffu-sione della cultura greca risultò inarrestabile ecoinvolse strati sempre più ampi della classe diri-gente romana. Fu in particolare la filosofia stoica,con i suoi ideali di austerità e l’accento posto sull’i-dea di dovere, a rivelare le maggiori doti di compa-tibilità con le esigenze etico-politiche dei romani econ gli ideali tradizionali della virtus. Ma l’assimi-lazione da parte della società romana dei modellietici proposti dallo Stoicismo richiedeva un’atte-nuazione di quel rigorismo che aveva contraddi-stinto l’antica Stoà. All’ideale eroico del saggio checonquista la virtù in solitudine, per mezzo di uncammino individuale che esclude ogni influenzadelle cose esterne, doveva sostituirsi un modello diesistenza più adeguato alle esigenze dell’uomo co-mune ed ai doveri che caratterizzano la vita socia-le e la dimensione politica. Non più, quindi, l’im-mobilità spirituale e la perfezione apatica del sag-gio che respinge come «estranei» e «indifferenti» ivalori su cui si regolano di fatto le società storiche(nobiltà di nascita, ricchezza, amicizia, ecc.), maun’ideale di vita che tiene in conto e giustifica lescelte ed i valori propri del vivere associato in unprocesso di graduale perfezionamento dell’indivi-duo in direzione della virtù.Per raggiungere questo scopo bastava recupera-

re ed accentuare l’indicazione, già presente nellafase antica della Stoà, secondo la quale è possibile

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stabilire una classificazione gerarchica degli indif-ferenti e quindi raccomandare alcune delle «coseesterne» come più desiderabili rispetto ad altre.Posto che esistono azioni «doverose» in senso asso-luto, perché dettate dalla ragione, ed altre nonconformi al dovere e perciò cattive, sussiste tutta-via un’ampia gamma di azioni intermedie che pos-sono recare «un certo contributo alla vita equili-brata della ragione» e che pertanto sono degne diessere scelte in quanto dotate di valore163. Taliazioni coincidevano in gran parte con i doveri piùgenerali del cittadino, ad esempio «onorare i geni-tori, i fratelli, la patria, avere buoni rapporti con gliamici164». In questo modo al rigore della distinzio-ne etica si sostituiva una concezione più articolatadei doveri, che consentiva una rivalutazione diquegli aspetti della vita materiale che in preceden-za venivano giudicati estranei al perfezionamentomorale dell’individuo.

«Dunque è degno di essere scelto tutto ciò cheha un valore: nel campo spirituale la dote natu-rale dell’ingegno, la capacità tecnica, il progre-dire e simili; nel campo materiale la vita, lasalute, la forza, la buona complessione fisi-ca, l’integrità degli organi, la bellezza e simi-li; nel campo dei beni esterni la ricchezza, lagloria, la nobiltà di natali e simili165».

Furono Panezio di Rodi ed il suo allievo Posidoniodi Apamea ad introdurre e diffondere a Roma que-sta versione trasformata dello Stoicismo. Panezio,amico e consigliere di Scipione Emiliano, sog-giornò a lungo nella capitale e nel 129 d.C. divennescolarca della Stoà (succedendo ad Antipatro diTarso). Con Panezio la dottrina stoica subì l’in-fluenza di elementi della filosofia platonica ed ari-stotelica inaugurando quell'impostazione ecletticache fu poi caratteristica delle filosofie di que-

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st'età166. Il contributo aristotelico alla visione eticadi Panezio si concretizzava proprio nella rivaluta-zione delle circostanze che accompagnano l’azionevirtuosa. Secondo Aristotele, la felicità «ha biso-gno, in più, dei beni esteriori […]: è impossibile, in-fatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si èprivi di risorse materiali. Infatti, molte azioni sicompiono per mezzo degli amici, della ricchezza,del potere politico, come per mezzo di strumenti. Ecoloro che sono privi di alcuni di questi beni si tro-vano guastata la felicità: per esempio, se mancanodi nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; nonpuò essere del tutto felice chi è affatto brutto d’a-spetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza fi-gli; e certo lo è meno ancora chi ha figli o amici irri-mediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni,li ha visti morire167». Su questa linea, Panezio ePosidonio potevano classificare ricchezza e salutecome beni ed affermare che «la virtù non è suffi-ciente, ma che occorrono anche buona salute, ab-bondanza di mezzi e forza168». A questo ribaltamento di prospettiva si accompa-

gnava anche una diversa considerazione delle pas-sioni, considerate non più come falsi giudizi dellaragione ma come pulsioni che si originano nell’a-nima in modo autonomo rispetto alla sua compo-nente razionale. Riconoscere l’esistenza di un livel-lo emotivo irrazionale nell’anima umana (livelloche può essere controllato e dominato dalla ragio-ne ma non eliminato) determinava un nuovo idea-le etico che non escludeva dalla sfera della virtùcomponenti quali il piacere e la gioia e che al-l’apatia sostituiva l’obiettivo di un’armonizza-zione delle diverse esigenze della ragione e delcorpo. Il rilievo concesso alle disposizioni indi-viduali ed alle circostanze in cui agisce il sog-getto determinava così una minore rigidità deldover essere morale: le norme, dovendo esseredi volta in volta adattate alle singole situazioni,

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finivano così per assomigliare ai regoli di piom-bo utilizzati per le misurazioni a Lesbo (l’esem-pio è di Aristotele), i quali, in virtù della mallea-bilità del materiale, si adattavano alle superficiirregolari modificando di volta in volta la pro-pria forma169. Se questa umanizzazione degli ideali etici veniva

incontro all’esigenza di fornire precetti adeguati al-l’uomo comune, d’altro lato il classico tema stoicodell’ordine razionale del cosmo, propugnato daPanezio, poteva agire come una potente base teo-rica di giustificazione degli assetti e delle gerarchiesociali. L’ordine universale determinato dal lògos,che assegna a ciascun ente un compito ed unaprecisa finalità organica al Tutto, si specchia nel-l’ordine della comunità politica, all’interno dellaquale ogni membro deve restare al proprio posto esvolgere il compito assegnatogli dalla sorte.L’attività politico-sociale, non più relegata tra le co-se estranee, poteva così esser considerata occasio-ne di realizzazione e perfezionamento della virtù. Eproprio nel quadro di questa accettazione dell’or-dine gerarchico del cosmo Cicerone poteva allorasvolgere la sua difesa della proprietà privata:«Come il primo dovere della giustizia è di non of-fendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria,così dovere della giustizia è di usare delle cosecomuni e delle cose private come proprie. Non visono però cose private per natura, ma per anticopossesso […]. Tuttavia, poiché quei beni comuniper natura diventano di proprietà privata, ognu-no si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcunodesidererà per sé l’altrui, violerà il diritto dell’u-mana società170». Il rapporto tra filosofia e politica, tuttavia, tornò a

complicarsi nel periodo imperiale, come testimo-niano i ripetuti bandi di espulsione dei filosofi daRoma (come quello del 71 d.C., sotto Vespasiano, equello del 94 d.C., voluto da Domiziano, di cui fece

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le spese anche Epitteto). Lo Stoicismo si era affer-mato presso l’aristocrazia senatoria che si oppone-va al potere degli imperatori in nome della difesadelle antiche prerogative del Senato, e con i nomidi filosofi e Stoici si vennero gradualmente ad iden-tificare coloro che appartenevano al partito di op-posizione alla politica imperiale. Tacito cita a que-sto proposito «l’arrogante setta degli stoici, cherende turbolenti e desiderosi di disordini171» eDione di Prusa, nel suo Discorso contro i filosofi,definisce i filosofi «peste della città e dei governi».Gli imperatori agirono con spietata determinazio-ne contro i loro avversari. Sotto Tiberio (14-37 d.C.)fu esiliato lo stoico Attalo e venne messo a morteCremuzio Cordo; Caligola (37-41 d.C.) ordinò lamorte di Giulio Cano; Seneca, esiliato da Claudio(41-54 d.C.), fu condannato a morte da Nerone(54-68 d.C.) nel 65 d.C.; sempre sotto Neronevennero messi a morte Rubellio Plauto (62 d.C.),e Trasea Peto (67 d.C.); sotto Vespasiano perse lavita Elvidio Prisco (70 d.C.).Questo conflitto con il potere mostra che la dot-

trina stoica era suscettibile di essere interpretatasecondo due opposte prospettive. Da una parte,abbiamo visto che il quadro teorico della filosofiastoica, grazie alla sua concezione di un ordine co-smico che si specchia nell’ordine della polis, pote-va autorizzare un atteggiamento conservatore diaccettazione dell’assetto politico vigente e dellastratificazione gerarchica dei ruoli all’interno dellasocietà. Da questo punto di vista la filosofia stoicapoteva adeguarsi alle esigenze della Roma repub-blicana (come nelle intenzioni di Cicerone) ma po-teva risultare efficace anche come ideologia funzio-nale al disegno imperiale giustificando il potere delprincipe in nome di quella ragione universale cheassegna ad ognuno la propria posizione nella ge-rarchia del cosmo. Non è forse un caso cheAugusto avesse eletto a proprio consigliere appun-

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to un filosofo stoico, Ario Didimo di Alessandria.D’altra parte, nelle radici ciniche della dottrinastoica erano rintracciabili alcune istanze che pote-vano agire in senso diametralmente opposto all’u-so che dello Stoicismo era stato fatto da Panezio,Posidonio e Cicerone. Il principio dell’uguaglianzae della fratellanza degli uomini, così come il motivodella libertà interiore che il saggio oppone alla nor-me della vita sociale ed alla sfera politica, conte-nevano infatti un messaggio eversivo che potevaessere utilizzato, come di fatto accadde, in sensoantagonista al tentativo di subordinazione dellasocietà e delle istituzioni messo in atto dagli impe-ratori nel I secolo d.C.. L’azione repressiva contro ifilosofi dimostra come gli imperatori intuissero conchiarezza il pericoloso risvolto politico contenutonegli ideali di libertà propugnati dagli Stoici.Significative, a questo riguardo, sono le parole diSeneca: «Che significa cavaliere, liberto, schiavo?Sono parole nate dall’ingiustizia. Da ogni angolodella terra è lecito slanciarsi verso il cielo172». Il partito dei filosofi non aveva forza suffi-

ciente per vincere il suo braccio di ferro con-tro l’imperatore e finì per modificare il sensodelle sue proposte etiche. La libertà interiore delsaggio, che in un primo tempo aveva rappresenta-to la condizione per giudicare e criticare la sferapolitica, si trasformò in un rifugio nel quale il sag-gio poteva godere di quell’autonomia che ormai gliera negata, nella sfera dell’agire, da un potere di-spotico che aveva annullato le libertà personali.«Ritirati in te stesso quanto puoi!» scrivevaSeneca173. Lo Stoicismo in età imperiale, ricono-scendo il divorzio insanabile con la politica, con-centrò la propria attenzione sull’interiorità dellacoscienza tornando a sottolineare con forza quel-l’opposizione tra l’io e le cose esterne che la mediaStoà aveva tentato di conciliare nel suo tentativo diarmonizzare etica e politica.

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Di qui alcuni tratti tipici della filosofia di questoperiodo: la restrizione dell’indagine ai temi di na-tura etica (e il disinteresse per la logica e la fisica),l’analisi psicologica dell’interiorità, la ricerca diuna salvezza tutta individuale guadagnata in op-posizione alle influenze perturbatrici della realtàesterna (ricchezza, onori, posizione sociale, ecc.), laforte carica religiosa di cui si colora la rivalutazione del-la sfera interiore. Con Seneca la filosofia diventa collo-quio intimo dell’anima con se stessa ma anche stru-mento pedagogico, esortazione alla virtù e al bene. A questo fine si affermò una forma di comunica-

zione filosofica (il dialogo, l’epistola) che ricercavaun rapporto diretto con l’interlocutore e che man-teneva un tono divulgativo, popolare, privo di tec-nicismi inutili. Arriano si manterrà fedele a questa impostazione

scegliendo di tramandare gli insegnamenti diEpitteto nella forma della diatriba («conversazio-ne», «dialogo») la quale richiama direttamente lostile comunicativo di Socrate e del Cinismo. La dia-triba, cui i cinici Bione di Boristene e Telete (III sec.a.C.) avevano per primi conferito dignità di stile fi-losofico, era una sorta di dialogo o di predica rivol-ta ad un pubblico non specializzato. Essa affron-tava i temi filosofici (prevalentemente di carattereetico) in un linguaggio semplice che presupponevaun costante riferimento del maestro all’uditorio.Ecco come Musonio Rufo, maestro di Epitteto, sin-tetizzava il compito del maestro di filosofia: «Dicoche il maestro, quand’è un vero filosofo, non devecercare di portare un mucchio di parole o di dimo-strazioni ai suoi discepoli, ma toccare ogni puntoquanto è opportuno, colpire la mente dell’ascolta-tore, presentare argomenti persuasivi, evitarequelli non facili, e soprattutto attirarsi gli ascolta-tori facendo vedere che parla delle cose più utili eagisce in modo conforme a quel che sostiene174». Una filosofia che in un’epoca di importanti muta-

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menti politici si concentra sulle tematiche di ordi-ne etico e che pone perciò in secondo piano legrandi questioni logiche e ontologiche che avevanocaratterizzato l’antica Stoà; una forma di comuni-cazione a carattere esortativo e dialogico, che ten-ta di fornire risposte ad un uditorio più vasto e me-no qualificato di quello delle antiche scuole; un’im-postazione di fondo che tende a privilegiare la di-mensione interiore dell’individuo e che rivaluta ladistinzione tra la dimensione privata e quella pub-blica. È in questo clima culturale che si avvia eprende forma la riflessione di Epitteto.

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NOTE

109 Epafrodito, entrato a far parte della guardia delcorpo di Nerone, avrebbe in seguito aiutato il suo impe-ratore a suicidarsi (68 d.C.) e fu per questo condanna-to a morte da Domiziano (Svetonio, Nerone, 49, 5;Domiziano, 14, 2). 110 Celso in Origene, Contro Celso, VII, 53. 111 Simplicio, Commento al Manuale, IV, in: Schenkl,p. VII, test. XLVII.112 Diatribe, III, 23, 29-30. 113 Simplicio, Commento al Manuale, IX.114 F. Adorno, La filosofia antica, Feltrinelli, Milano,1983, vol. 2, p. 323.115 Arriano di Nicomedia (95-175 d.C. circa) fu disce-polo di Epitteto intorno agli anni 117-120. Fece unabrillante carriera politica sotto l'imperatore Adrianoraggiungendo le cariche di console e legato imperiale.Quando abbandonò la vita politica si dedicò alla stesu-ra delle sue opere filosofiche e letterarie. Oltre alleDiatribe ed al Manuale, scrisse l'opera: Anabasi diAlessandro, in sette libri.116 Diatribe II, 12, 17-25.117 Diogene Laerzio riferisce anche che Zenone fualunno dei platonici Senocrate e Polemone. 118 Diatribe II 12, 5. Cfr. Platone, Gorgia, 474a: «Diquel che affermo io so recare un solo testimone, e pre-cisamente colui col quale discuto, e lascio da parte tuttigli altri; so far votare uno, e con tutti gli altri non parlo».119 Platone, Alcibiade I, 29 c-e.120 Diatribe II 12, 14.121 Manuale § 48.122 «Egli fu il più temperante di tutti gli uomini neipiaceri d'amore e della gola, poi, fu il più tollerante delfreddo, del caldo, e di ogni altra fatica, inoltre fu edu-cato ad usare d'ogni cosa con tanta misura che, purpossedendo molto poco, molto facilmente si procuravail necessario» (Senofonte, Memorabili, I, 2, 1-2).123 Diatribe, I, 17, 6-12. Cfr. Senofonte (Memorabili,IV, 6, 1): «Socrate riteneva che quanti conoscono checosa sia ciascun oggetto, possono spiegarlo anche aglialtri, ma, quanti non lo conoscono, diceva che nonera strano che s'ingannassero e ingannassero gli

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altri. Per ciò, stando con gli amici, non cessava maidi esaminare che cosa sia ciascun oggetto». 124 Manuale, § 31.125 Cfr. Manuale, § 42.126 D.L. VI, 1, 11.127 D.L. VI, 2, 38.128 «Una volta [Diogene] vide un fanciullo che bevevanel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la cioto-la dicendo: -Un fanciullo mi ha vinto nel fare conpoco-» (D.L. VI, 2, 37). «Una volta [Diogene] avevaordinato ad un tale di procurargli una casetta; poi-ché quello tardava, egli si scelse come abitazioneuna botte» (D.L. VI, 2, 23).129 Diatribe III, 22, 47-49.130 «Volgendo Antistene la parte lacera del suo man-tello in modo che fosse visibile a tutti, Socrate vide edisse: -Attraverso i fori del tuo mantello vedo il tuodesiderio di gloria-» (D.L. VI, 1, 8).131 D.L. VI, 2, 54.132 Dione Crisostomo (Oraz., 32, 10) scrive: «Deicosiddetti cinici v'è gran numero nella città; […] ai cro-cevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questiuomini radunano e traviano schiavi e marinai edaltra simile gente, snocciolando scherzi e grandevarietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtàessi non fanno alcun bene, ma gran male».133 Diatribe, I, 17, 6-12.134 D.L. VI, 1, 3.135 Metafisica, 1024b 26-32. 136 Cfr. Platone, Sofista 251b: «Abbiamo preparato unbel pasto ai giovani e a quei vecchi che comincianotardi a imparare; perché subito han pronta per chiun-que l'obiezione che è impossibile che i molti siano unoe l'uno molti. E se la godono a non ammettere che sidica buono l'uomo, ma solo buono il buono e uomol'uomo». Aristotele (Metafisica 1024b 26-32) attribuiscead Antistene, come conseguenza della predicazione «unodi uno» anche la tesi sofistica che non si può contraddi-re e dire il falso (cfr. Platone, Eutidemo 285e-286b).137 Aristotele, Metafisica, 1043b 23-25. Per una trat-tazione esauriente dell'argomento si veda: VincenzaCelluprica, Antistene: logico o sofista?, in: Elenchos,Rivista di studi sul pensiero antico, fasc.2, Bibliopolis,1987, pp. 285-328.

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138 D.L. VI, 1, 12. 139 Vincenza Celluprica, op. cit., p. 327.140 Diatribe, III, 24, 67.141 D.L. VII, 1, 40.142 Le rappresentazioni furono intese da Zenone eCrisippo come 'modificazioni' dell'anima, mentreCleante le interpretò come «l'impronta che si fa con isigilli sulla cera» (Sesto Empirico, Contro i matematici,VII, 228, 372).143 Per gli Stoici, in opposizione alla tradizione plato-nico-aristotelica, i concetti avevano una realtà esclu-sivamente mentale e non possedevano alcuna consi-stenza ontologica.144 V. Celluprica, La logica antica, Torino, 1978, p. 173. 145 In questo senso, gli Stoici potevano affermare che«il segno è una proposizione che fa da antecendente inuna proposizione ipotetica valida ed è rivelatore delconseguente» (Sesto Empirico, Contro i logici, II, 244).146 U. Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio,Einaudi, Torino, 1996, p.32. L'interesse degli Stoiciper la logica era mediato dai Megarici, che avevanoconcentrato la propria attenzione sulle tecnichedialettiche e confutatorie di Socrate, studiando lastruttura dell'argomentazione. Di qui l'originaleimpostazione della logica degli Stoici, i quali fonda-rono una logica proposizionale in alternativa allalogica terministica di Aristotele. Particolare impor-tanza assumeva lo studio del condizionale ("p q","se p allora q") e l'individuazione dei cinque schemifondamentali dell'argomentazione (ad esempio: "sep allora q; ma p; quindi q") chiamati «indimostrabi-li» perché non hanno bisogno di dimostrazione inquanto di per sé evidenti.147 Diatribe III,15, 2; III, 23, 1. 148 Diatribe I, 26, 1.149 Si vedano ad esempio i passi in cui Epitteto dimo-stra la necessità delle leggi logiche evidenziando la cir-colarità cui mette capo ogni tentativo di fondazione:«Uno dei presenti gli domandò: ‘Fammi vedere come lalogica è necessaria’. ‘Vuoi che te lo dimostri?’. ‘Sì’. ‘Èdunque necessario che ti faccia una dimostrazione’.‘Sicuro!’. ‘Come capirai se ti faccio un falso ragiona-mento?’. Il nostro uomo stava zitto. ‘Vedi -disse- cometu stesso dimostri la necessità della logica, una volta

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che, senza di questa, non puoi neppur capire se ènecessaria o no’» (Diatribe, II, 25). Cfr. Diatribe II, 20, 1:«Le proposizioni vere ed evidenti le adoperano di neces-sità anche quelli che le contraddicono: anzi, la provapiù grande dell'evidenza di un'affermazione è, sipuò dire, il fatto che sia trovata necessaria e utiliz-zata da quello stesso che la contraddice».150 D.L. VII, 88.151 Si veda ad esempio la definizione del possibile for-nita da Crisippo: «Possibile è ciò che né è né sarà vero»,attaccata da Cicerone nel De fato VI-VII. Nella scuolaMegarica si erano confrontati sull'argomento DiodoroCrono e Filone di Megara. «La nozione di potenza - cheè in certo modo qualcosa di intermedio tra l'essere e ilnon essere […]- non poteva essere accettato dagli elea-tizzanti Megarici, i quali identificano il possibile con ciòche è, ossia, in termini aristotelici, con ciò che è già inatto» (Celluprica, La logica…cit. p. 171). Di qui la defi-nizione di Diodoro: «Possibile è ciò che è o sarà». «Filone,invece, definiva il possibile mediante il concetto di‘disposizione naturale’, di quella ‘capacità’ che ciascunacosa ha di realizzarsi, anche se non si realizzerà mai,come nel caso di un filo di paglia che ha la possibilità dibruciare anche se si trova in fondo al mare» (ibidem).152 Cicerone, De fato, 4-43.153 Diatribe I, 6, 10.154 D.L. VII, 86.155 D.L. VII, 110. «Secondo gli Stoici le passioni sonogiudizi. […] Infatti l'avidità presuppone che il denarosia bello ed analogamente l'ubriachezza e l'intempe-ranza e altre passioni» D.L. VII, 111.156 Diatribe I, 17, 28.157 Stobeo, Egloghe, II, 65.158 Cicerone, De finibus, III, 48. 159 «Il termine indifferente ha un duplice significato.In primo luogo designa ciò che non contribuisce né allafelicità né all'infelicità, per esempio ricchezza, gloria,salute, forza e simili; infatti anche senza queste è pos-sibile conseguire la felicità, dal momento che secondol'uso che di esse si fa possono apportare felicità o infe-licità. In secondo luogo il termine indifferente designaciò che non desta né propensione né avversione, peresempio l'avere sulla testa un numero di capelli pari odispari o tenere il dito disteso o contratto. Non in que-

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sto senso sono definite indifferenti le cose prima men-zionate, perché esse possono generare sia propensionesia avversione» (D.L. VII, 104).160 D.L. VII, 101-102.161 Aristone di Chio in D.L. VII, 160. 162 In Plinio, Natur. hist., 29, 7.163 D.L. VII, 105.164 D.L. VII, 108. 165 D.L. VII, 106.166 La filosofia greca, trapiantata in Roma, non diedeorigine a contributi innovativi rispetto alla tradizione,ma ad una contaminazione reciproca delle dottrinenota come ‘eclettismo’ (dal verbo greco eklègo, ‘selezio-no’, ‘scelgo’). «Pensi ciascuno come vuole: vi dev'esserelibertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostriprincipi: ricercheremo cioè sempre in ogni questionequello che abbia maggior carattere di probabilità, senzaessere vincolati a regole di nessuna scuola, alle qualiubbidire di necessità» (Cicerone, Tusc. disp., IV, 4). Cfr.Seneca: «Che male c'è a utilizzare i filosofi delle altrescuole nella misura in cui sono nostri?» (De Ira, I, 65);«Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade,riposarci con Epicuro, vincere l'umana natura con gliStoici, oltrepassarla con i Cinici» (De brev. vit., XIV, 2).167 Etica Nicomachea, I, 1099a 30-1099b 5.168 D.L. VII, 128, 103.169 «Infatti, di ciò che è indeterminato anche la normadeve essere indeterminata, come è il regolo di piomboche si usa nell'edilizia di Lesbo: esso infatti si piega allaforma della pietra e non rimane rigido, e altrettanto èdel decreto rispetto ai fatti» (Aristotele, EticaNicomachea, 10, 1137b 29-31.170 Cicerone, De officiis, I, 7, 20-21.171 Tacito, Ann., XIV, 57.172 Seneca, Epist., 31.173 Seneca, Epist., 7.174 Musonio, Diatribe, I (pp. 5, 11 -6, 4 Hense).

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BIBLIOGRAFIA RAGIONATA

1. TESTI ESSENZIALI SULLO STOICISMO

Sullo Stoicismo ricordiamo due opere fondamentali: Radice R. (a cura di) (1998), Stoici Antichi: Tutti iframmenti, raccolti da H. von Arnim, Rusconi,Milano; Pohlenz M. (1967), La stoa. Storia di un movimentospirituale, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1967.

2. EDIZIONI DELLE OPERE DI EPITTETO

Alla fine del Settecento comparve la fondamentaleopera di J. Schweighauser: Epicteteae philo-sophiae monumenta (Lipsia, 1799-1800), in cinquevolumi: il primo ed il secondo libro contenevano,rispettivamente, le Diatribe e relative note; il terzolibro conteneva il Manuale, i Frammenti e gli indici;il quarto, il Commentario di Simplicio al Manuale(l’unico commentario antico pervenutoci integro); ilquinto, la Parafrasi cristiana del Manuale ad opera diSan Nilo e le note al Commentario di Simplicio. Tra le successive edizioni critiche dell’opera diEpitteto segnaliamo due fondamentali lavori: H. Schenkl, Epicteti Dissertationes ab Arriano dige-stae. Ad fidem codicis Bodleiani recensuit HenricusSchenkl. Accedunt fragmenta, Encheiridion ex recensioneSchweighauseri, Gnomologiorum Epicteteorum reliquiae,Indices, coll. Teubner, Lipsia 1894 [1916, 1965]; W. A.Oldfather, Epiktetus. The Discourses as Reported byArrian, the Manual and the Fragments, coll. Loeb,Londra, 1928.In lingua italiana segnaliamo: Epitteto, Le Diatribe e i Frammenti, a cura di R.Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 1960 [1989]; Epitteto,Diatribe, Manuale, frammenti, Introduzione a cura diG. Reale, traduzione e note di C. Cassanmagnago,Rusconi, Milano, 1982.

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3. TRADUZIONI ITALIANE DEL MANUALE

Il Manuale è uno dei testi filosofici che in Italia hagoduto di maggior fortuna presso il pubblico (an-che non specializzato) ed è stato proposto in unnumero elevatissimo di edizioni. Una parte rile-vante delle pubblicazioni presenta la famosa e pre-gevole traduzione di Giacomo Leopardi, databileintorno al 1825. Tra le versioni più recenti in lingua italiana ricordiamo: Epitteto, Il Manuale, a cura di G. De Ruggiero, traduz.italiana di Giacomo Leopardi e traduz. latina diAngelo Poliziano, Mursia, Milano, 1971 [1985]; Epitteto, Manuale, a cura di Enrico V. Maltese, con laversione latina di Angelo Poliziano e il volgarizzamen-to di Giacomo Leopardi, Garzanti, Milano 1990; Il Manuale di Epitteto, nella versione di GiacomoLeopardi, a cura di Claudio Moreschini, Salerno,Roma 1990; Il Manuale di Epitteto, presentato e riletto da DinoBasili nella traduzione di Giacomo Leopardi,Mondadori, Milano 1994; Epitteto, Manuale, introduzione, traduzione e notedi Martino Menghi con la versione di GiacomoLeopardi, Rizzoli (Bur), Milano 1996.

4. STUDI CRITICI SU EPITTETO

4.1. VolumiBonhöffer A. (1890 [1968]), Epictet und die Stoa.Untersuchungen zur stoischen Philosophie, F.Enke, Stuttgart.Bonhöffer A. (1894 [1968]), Die Ethik des StoikersEpictet, F. Enke, Stuttgart.Bonhöffer A. (1912 [1964]), Epictet und das NeueTestament, A. Topelmann, Giessen.Colardeau T. (1903), Etude sur Epictète, A.Fontemoing, Paris, 1903.Germain G. (1964), Epictète et la spiritualité stoï-

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Fabrizio Martina
timbro biblioteca
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Bibliotec@SWIF Readings/Classici

Collana diretta da Enzo Rossi, Gian Maria Greco, Luciano Floridi

Editing e GraficaFabrizio Martina, Rossella Rosciano, Rocco Satalino

RedazioneChiara Dendena, Cristiana Ferrari, Nicola Setari

© Sandro Soleri 2004.© Monica Falco 2004.© SWIF 2004.

Il Manuale di Epitteto, introduzione, note e appendici storiche di S. Soleri, traduzione di M. Falco, SWIF Readings/Classici, 2004, ISSN 1126-4780, http://www.swif.uniba.it/lei/pdf/biblioteca/readings/epitteto_SWIF.pdf

Readings è una collana di e-book composta da numeri speciali della rivi-sta SWIF. Lo scopo del progetto è quello di rendere disponibili al pubblico italiano, in forma gratuita, testi filosofici che possano contribuire all’ana-lisi dei classici alla luce di problematiche filosofiche attuali, e favorire la diffusione di influenti linee del pensiero contemporaneo.

La collana si articola in tre sezioni: Classici (opere di grandi autori del passato); Contemporanea (testi chiave per comprendere gli sviluppi recen-ti del sapere filosofico); Scienza (classici del pensiero scientifico di rilevan-za filosofica).

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