storia greca a 2009-2010 (f.cordano)– ii modulo –...

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1 STORIA GRECA A 2009-2010 (F.Cordano)– II MODULO – FONTI ANTICHE a cura di Francesca Berlinzani 6SDUWDLQHWjFODVVLFD (URGRWR, V, 38- 92 (trad. F. Bevilacqua) [fine VI-inizio V a. C.] [ , 1] A Sparta non regnava più Anassandrida figlio di Leone, che era morto, ma era suo figlio Cleomene che deteneva il potere regale: lo aveva ottenuto non per i suoi meriti, bensì per diritto di nascita 1 . Anassandrida in effetti aveva sposato una figlia di sua sorella, che gli era molto cara, ma dalla quale non aveva avuto figli. [2] Stando così le cose, gli efori lo convocarono e gli dissero: «Se tu non vuoi provvedere ai tuoi interessi, noi però non possiamo assistere inerti a questo e cioè all'estinguersi della stirpe di Euristene. La moglie che hai adesso non ti dà figli: ripudiala dunque e sposane un'altra: e così agirai in modo gradito agli Spartiati». Lui rispose dichiarando che non avrebbe fatto nulla di tutto ciò e che non gli davano certo un bel consiglio, esortandolo a cacciare via la moglie che aveva, esente da ogni colpa nei suoi confronti, per prendersene un'altra: quindi non avrebbe obbedito loro. [ , 1] Di fronte a una simile risposta gli efori e i geronti si consultarono tra loro e poi avanzarono ad Anassandrida la seguente proposta: «Poiché ti vediamo così attaccato alla moglie che hai, fai come ti suggeriamo e non opporti, se non vuoi che gli Spartiati decidano a tuo riguardo qualcosa di ben diverso. [2] Non ti chiediamo più di ripudiare tua moglie: continua pure a offrirle tutto ciò che le offri adesso, ma sposa anche un'altra donna che possa generarti dei figli». Questo fu all’incirca il loro discorso e Anassandrida accettò il consiglio: , da allora ebbe due mogli e due case, il che non era assolutamente conforme alle usanze degli Spartiati. [ , 1] Non molto tempo dopo, la seconda moglie mise al mondo il Cleomene di cui stiamo parlando; e mentre lei dava alla luce un erede al trono per gli Spartiati, proprio allora, per una coincidenza fortuita, la prima moglie, sterile fino a quel momento, rimase incinta. [2] Era incinta davvero, ma i parenti della seconda moglie, quando appresero la notizia, cominciarono a crearle dei fastidi, affermando che si vantava senza motivo, per far passare per suo un figlio altrui. Poiché costoro strepitavano e il tempo ormai stringeva, gli efori, insospettiti, sorvegliarono la donna mentre partoriva, stando seduti intorno a lei. [3] Lei, dopo aver generato Dorieo, subito rimase incinta di Leonida e, immediatamente dopo, di Cleombroto; alcuni poi sostengono che Cleombroto e Leonida erano gemelli. Invece la madre di Cleomene, la seconda moglie di Anassandrida, figlia di Prinetade figlio di Demarmeno, non ebbe più figli. [ , 1] Cleomene, si dice, non era del tutto sano di mente, ma sulla soglia della follia; Dorieo invece era il primo di tutti i suoi coetanei ed era fermamente convinto che, grazie ai suoi meriti, avrebbe ottenuto lui il potere regale. [2] Animato da tale convinzione, quando morì Anassandrida e gli Spartani, in base alla legge, proclamarono re il figlio maggiore, Cleomene, Dorieo si indignò e, non ritenendo giusto sottostare al governo di Cleomene, chiese agli Spartiati degli uomini e li condusse a fondare una colonia, senza aver consultato l'oracolo di Delfi per sapere dove andare a fondarla e senza aver compiuto nessuno dei riti tradizionali. Non riuscendo dunque a tollerare la situazione, partì con le sue navi per la Libia: gli facevano da guida uomini di Tera. [3] Giunto nel paese di Cinipe, colonizzò una bellissima località della Libia sulla riva di un fiume. Ma dopo due anni fu cacciato via dai Maci, dai Libici e dai Cartaginesi e ritornò nel Peloponneso. [ ]Qui Anticare, un uomo di Eleone 2 , gli consigliò, in base ai vaticini di Laio, di colonizzare la terra di Eracle in Sicilia, asserendo che tutta la regione di Erice apparteneva agli Eraclidi, dal momento che Eracle in persona se ne era assicurato il possesso 3 . Dorieo, udite queste parole, andò a domandare all'oracolo di Delfi se avrebbe conquistato la terra per la quale si accingeva a partire: la Pizia gli rispose di sì. Dorieo allora prese con sé la gente che aveva già condotto in Libia e navigò lungo le coste dell'Italia. [ , 1] In quell'epoca, a quanto raccontano essi stessi, gli abitanti di Sibari con il loro re Teli si apprestavano a muovere contro Crotone; i Crotoniati, atterriti, pregarono Dorieo di aiutarli e ottennero quanto chiedevano: Dorieo marciò insieme a loro contro Sibari e insieme a loro la conquistò. [2] Così, a detta dei Sibariti, avrebbero agito Dorieo e i suoi compagni; i Crotoniati invece sostengono che nessuno straniero partecipò con loro alla guerra contro Sibari, tranne il solo Callia, un 1 Cleomene, re di Sparta tra il 519 ed il 490 si distinse per la politica spregiudicata volta soprattutto a rinforzare ed accrescere la Lega del Peloponneso. 2 Villaggio della Beozia. 3 Eracle aveva sconfitto Erice, re degli Elimi e figlio di Afrodite, che lo sfidò, ma nonostante ciò aveva lasciato la terra elima alla popolazione locale, profetizzando che un giorno un suo discendente avrebbe reclamato quella regione.

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STORIA GRECA A 2009-2010 (F.Cordano)– II MODULO – FONTI ANTICHE a cura di Francesca Berlinzani

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��(URGRWR,�V, 38- 92 (trad. F. Bevilacqua) [fine VI-inizio V a. C.] [��, 1] A Sparta non regnava più Anassandrida figlio di Leone, che era morto, ma era suo figlio Cleomene che deteneva il potere regale: lo aveva ottenuto non per i suoi meriti, bensì per diritto di nascita1. Anassandrida in effetti aveva sposato una figlia di sua sorella, che gli era molto cara, ma dalla quale non aveva avuto figli. [2] Stando così le cose, gli efori lo convocarono e gli dissero: «Se tu non vuoi provvedere ai tuoi interessi, noi però non possiamo assistere inerti a questo e cioè all'estinguersi della stirpe di Euristene. La moglie che hai adesso non ti dà figli: ripudiala dunque e sposane un'altra: e così agirai in modo gradito agli Spartiati». Lui rispose dichiarando che non avrebbe fatto nulla di tutto ciò e che non gli davano certo un bel consiglio, esortandolo a cacciare via la moglie che aveva, esente da ogni colpa nei suoi confronti, per prendersene un'altra: quindi non avrebbe obbedito loro. [��, 1] Di fronte a una simile risposta gli efori e i geronti si consultarono tra loro e poi avanzarono ad Anassandrida la seguente proposta: «Poiché ti vediamo così attaccato alla moglie che hai, fai come ti suggeriamo e non opporti, se non vuoi che gli Spartiati decidano a tuo riguardo qualcosa di ben diverso. [2] Non ti chiediamo più di ripudiare tua moglie: continua pure a offrirle tutto ciò che le offri adesso, ma sposa anche un'altra donna che possa generarti dei figli». Questo fu all’incirca il loro discorso e Anassandrida accettò il consiglio: , da allora ebbe due mogli e due case, il che non era assolutamente conforme alle usanze degli Spartiati. [��, 1] Non molto tempo dopo, la seconda moglie mise al mondo il Cleomene di cui stiamo parlando; e mentre lei dava alla luce un erede al trono per gli Spartiati, proprio allora, per una coincidenza fortuita, la prima moglie, sterile fino a quel momento, rimase incinta. [2] Era incinta davvero, ma i parenti della seconda moglie, quando appresero la notizia, cominciarono a crearle dei fastidi, affermando che si vantava senza motivo, per far passare per suo un figlio altrui. Poiché costoro strepitavano e il tempo ormai stringeva, gli efori, insospettiti, sorvegliarono la donna mentre partoriva, stando seduti intorno a lei. [3] Lei, dopo aver generato Dorieo, subito rimase incinta di Leonida e, immediatamente dopo, di Cleombroto; alcuni poi sostengono che Cleombroto e Leonida erano gemelli. Invece la madre di Cleomene, la seconda moglie di Anassandrida, figlia di Prinetade figlio di Demarmeno, non ebbe più figli. [��, 1] Cleomene, si dice, non era del tutto sano di mente, ma sulla soglia della follia; Dorieo invece era il primo di tutti i suoi coetanei ed era fermamente convinto che, grazie ai suoi meriti, avrebbe ottenuto lui il potere regale. [2] Animato da tale convinzione, quando morì Anassandrida e gli Spartani, in base alla legge, proclamarono re il figlio maggiore, Cleomene, Dorieo si indignò e, non ritenendo giusto sottostare al governo di Cleomene, chiese agli Spartiati degli uomini e li condusse a fondare una colonia, senza aver consultato l'oracolo di Delfi per sapere dove andare a fondarla e senza aver compiuto nessuno dei riti tradizionali. Non riuscendo dunque a tollerare la situazione, partì con le sue navi per la Libia: gli facevano da guida uomini di Tera. [3] Giunto nel paese di Cinipe, colonizzò una bellissima località della Libia sulla riva di un fiume. Ma dopo due anni fu cacciato via dai Maci, dai Libici e dai Cartaginesi e ritornò nel Peloponneso. [��]Qui Anticare, un uomo di Eleone2, gli consigliò, in base ai vaticini di Laio, di colonizzare la terra di Eracle in Sicilia, asserendo che tutta la regione di Erice apparteneva agli Eraclidi, dal momento che Eracle in persona se ne era assicurato il possesso3. Dorieo, udite queste parole, andò a domandare all'oracolo di Delfi se avrebbe conquistato la terra per la quale si accingeva a partire: la Pizia gli rispose di sì. Dorieo allora prese con sé la gente che aveva già condotto in Libia e navigò lungo le coste dell'Italia. [��, 1] In quell'epoca, a quanto raccontano essi stessi, gli abitanti di Sibari con il loro re Teli si apprestavano a muovere contro Crotone; i Crotoniati, atterriti, pregarono Dorieo di aiutarli e ottennero quanto chiedevano: Dorieo marciò insieme a loro contro Sibari e insieme a loro la conquistò. [2] Così, a detta dei Sibariti, avrebbero agito Dorieo e i suoi compagni; i Crotoniati invece sostengono che nessuno straniero partecipò con loro alla guerra contro Sibari, tranne il solo Callia, un

1 Cleomene, re di Sparta tra il 519 ed il 490 si distinse per la politica spregiudicata volta soprattutto a rinforzare ed accrescere la Lega del Peloponneso. 2 Villaggio della Beozia. 3 Eracle aveva sconfitto Erice, re degli Elimi e figlio di Afrodite, che lo sfidò, ma nonostante ciò aveva lasciato la terra elima alla popolazione locale, profetizzando che un giorno un suo discendente avrebbe reclamato quella regione.

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indovino dell’Elide della stirpe degli Iamidi4, che era arrivato da loro nel modo seguente: giunse a Crotone fuggendo il tiranno di Sibari, Teli, perché, mentre compiva sacrifici per la guerra contro Crotone, i presagi non erano stati favorevoli. Questo è quanto affermano i Crotoniati. [��, 1] Entrambe le città adducono delle prove a sostegno delle rispettive versioni dei fatti: i Sibariti un recinto sacro e un tempio situati presso il letto prosciugato del Crati5, che Dorieo, secondo loro, avrebbe eretto in onore di Atena Cratia, dopo aver espugnato la loro città; considerano inoltre un indizio decisivo la morte dello stesso Dorieo, cioè che sia stato ucciso per essere andato oltre le indicazioni dell'oracolo: in effetti se non avesse fatto niente altro, ma si fosse limitato a compiere l’impresa per la quale era partito, si sarebbe impadronito della regione di Erice e, una volta conquistata, l'avrebbe conservata e né lui né il suo esercito sarebbero periti. [2] Dal canto loro, i Crotoniati mostrano molti appezza-menti scelti nel territorio di Crotone donati a Callia dell’Elide che ancora ai miei tempi appartenevano ai discendenti di Callia, mentre nulla era stato dato né a Dorieo né ai suoi discendenti: ora, se Dorieo li avesse aiutati nella guerra contro Sibari, certamente avrebbe ricevuto assai più doni di Callia. Queste dunque sono le prove che esibiscono gli uni e gli altri: e ognuno è libero di aderire alla versione che ritiene più convincente. [��, 1] Con Dorieo si erano imbarcati, per fondare la colonia insieme a lui, anche altri Spartiati: Tessalo, Parebate, Celees ed Eurileonte, i quali arrivati in Sicilia insieme a tutta la spedizione, morirono sconfitti in battaglia da Fenici6 e Segestani: Eurileonte fu l'unico tra i fondatori della colonia a sopravvivere a questa disfatta. [2] Costui raccolse i superstiti della spedizione, occupò Minoa, colonia di Selinunte, e aiutò gli abitanti di Selinunte a liberarsi dalla tirannide di Pitagora. Ma, dopo aver rovesciato Pitagora, tentò lui stesso di divenire tiranno di Selinunte ed esercitò il potere assoluto, ma per breve tempo: infatti i cittadini di Selinunte si ribellarono e l'uccisero, benché si fosse rifugiato presso l'altare di Zeus Agoraios. [��, 1] Seguì Dorieo e morì insieme a lui il crotoniate Filippo figlio di Butacide, il quale era stato esiliato da Crotone per essersi fidanzato con una figlia di Teli di Sibari; falliti i suoi progetti matrimoniali, si era recato per mare a Cirene e da lì era partito per seguire Dorieo con una trireme propria e un equipaggio a sue spese; era stato vincitore a Olimpia ed era il più bello dei Greci della sua epoca. [2] Grazie alla sua bellezza ebbe dai Segestani onori che nessun altro ottenne: essi innalzarono un tempietto sulla sua tomba e gli offrono dei sacrifici per propiziarsene la benevolenza. [��] Dorieo perì in tali circostanze. Ma se avesse tollerato di essere suddito di Cleomene e fosse rimasto a Sparta, sarebbe divenuto re di Sparta: Cleomene infatti non regnò a lungo e morì senza figli, lasciando soltanto una figlia, di nome Gorgo7. [��, 1] Aristagora tiranno di Mileto arrivò dunque a Sparta quando il potere era nelle mani di Cleomene. Andò a parlare con lui, narrano gli Spartani, portando con sé una tavola di bronzo sulla quale erano incisi i contorni di tutta la terra, tutto il mare e tutti i fiumi8. [2] Dando inizio al colloquio, Aristagora gli disse: “Cleomene, non meravigliarti della mia fretta di venire qui. La situazione è questa: che i figli degli Ioni siano schiavi, invece che liberi, è motivo di vergogna e di grandissimo dolore per noi stessi, ma anche, fra gli altri, per voi, in quanto siete i primi tra i Greci. [3] Ora dunque, in nome degli dei greci, salvate dalla schiavitù gli Ioni, uomini del vostro stesso sangue. È facile per voi riuscire in una simile impresa. I barbari infatti non sono forti, mentre voi, per quanto concerne la guerra, siete giunti al massimo grado di valore. Essi combattono così: archi e lance corte; vanno in battaglia indossando ampie brache e turbanti sulla testa. [4] Pertanto è facile sconfiggerli. Però gli abitanti di quel continente possiedono tante ricchezze quante non ne possiedono neppure tutti gli altri popoli messi insieme, a cominciare dall'oro, e poi argento, rame, vesti ricamate, bestie da soma e schiavi: tutto questo, se lo desiderate davvero, può diventare vostro. [5] Sono stanziati gli uni vicino agli altri, nell'ordine che vi mostrerò: accanto agli Ioni ci sono, qui, i Lidi, che occupano una terra fertile e sono ricchissimi di denaro”. E parlava indicando i luoghi sulla mappa della terra che aveva con sè, incisa sulla tavola. “Dopo i Lidi” proseguì Aristagora “vengono, qui, a oriente, i Frigi, i più ricchi di bestiame e di raccolti fra tutti gli uomini che io conosco. [6] Ai Frigi sono contigui i Cappadoci, che noi chiamiamo Siri, e con i Cappadoci confinano i Cilici, che arrivano fino al mare dove si trova, qui, l’isola di Cipro; i Cilici pagano al re un tributo annuo di cinquecento talenti. Ai Cilici seguono, qui, gli Armeni, anch'essi ricchi di bestiame, agli Armeni i Matieni, che abitano questa regione. [7] Dopo i Matieni viene il paese dei Cissi, nel quale, sulla riva di questo fiume, il Coaspe, sorge qui Susa, dove il Gran Re ha la sua residenza e dove si trovano i depositi dei suoi tesori: se conquisterete questa città, potrete in tutta tranquillità gareggiare in ricchezza con Zeus. [8] Ebbene, oggi per una regione non certo vasta, né così fertile e dai confini ristretti dovete affrontare combattimenti contro i Messeni, pari a voi per forza, e contro gli Arcadi e gli Argivi, i quali non posseggono nulla che assomigli all'oro e all'argento, beni il cui desiderio

4 Importante famiglia di indovini attivi ad Olimpia presso il tempio di Zeus. Si dichiaravano discendenti di Iamo, progenie di Apollo. 5 Fiume sito nei pressi di Sibari, il cui corso fu deviato dai Crotoniati dopo la sconfitta della città al fine di ricoprire con le sue acque la città di Sibari ormai rasa al suolo. 6 Nell’area occidentale della Sicilia vi erano diverse colonie fenicie, ad esempio Mozia, Solunto, Palermo. 7 Gorgo diventerà poi la sposa di Leonida. 8 Doveva trattarsi della carta dell’ecumene realizzata da Ecateo di Mileto.

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può indurre a cadere sul campo di battaglia; e quando vi si offre l'occasione di regnare senza fatica su tutta l'Asia, deciderete diversamente?”. [9] Tale fu il discorso di Aristagora e Cleomene così replicò: “Straniero di Mileto, rimando la mia risposta di due giorni”. [��, 1] Per il momento non andarono oltre. Quando poi venne il giorno stabilito per la risposta e si incontrarono nel luogo convenuto, Cleomene domandò ad Aristagora quanti giorni di cammino vi fossero dal mare della Ionia fino alla dimora del re. [2] Aristagora, che in tutto il resto era abilissimo e capace di ingannare l'altro assai bene, in quel punto commise un errore: in effetti non avrebbe dovuto dire la verità, se davvero voleva trascinare in Asia gli Spartiati: invece dichiarò che il viaggio verso l'interno richiedeva tre mesi. [3] Cleomene allora, troncando il discorso che Aristagora si accingeva a fare sull'itinerario, esclamò: “Straniero di Mileto, allontanati da Sparta prima del tramonto del sole: non fai certo un discorso gradito agli Spartani, tu che vuoi condurli a tre mesi di marcia lontano dal mare!”. [��, 1] Detto ciò, Cleomene se ne andò a casa. Aristagora, preso un ramoscello di olivo, si recò all'abitazione di Cleomene: vi entrò come supplice e pregò Cleomene di mandare via la bambina e di ascoltarlo; in effetti vicino a Cleomene c'era la figlia, che si chiamava Gorgo: era la sua unica figlia e aveva otto o nove anni. Cleomene lo invitò a dire quello che voleva senza aver riguardo per la presenza della bambina. [2] Aristagora allora cominciò col promettergli dieci talenti, se avesse fatto ciò che gli chiedeva. Cleomene rifiutò e Aristagora continuò a offrire cifre sempre più alte, fino a proporre cinquanta talenti; al che la bimba gridò: “Padre, lo straniero ti corromperà, se non te ne vai da qui!”. [3] Cleomene, orgoglioso dell'ammonimento di sua figlia, si ritirò in un'altra stanza; Aristagora abbandonò definitivamente Sparta e non ebbe più modo di fornire ulteriori informazioni sulla strada che dal mare conduce fino al re. [��@ Cacciato via da Sparta, Aristagora si recò ad Atene, che si era liberata dalla tirannide nel modo seguente. Dopo che Armodio e Aristogitone, di antica stirpe gefirea, ebbero ucciso Ipparco, figlio di Pisistrato e fratello del tiranno Ippia, benché questi avesse avuto in sogno una visione chiarissima della sua imminente sventura, gli Ateniesi per quattro anni vissero sotto un regime non meno tirannico di prima, ma anzi ancora più duro. >����1] Ed ecco quale era stata la visione di Ipparco. Nella notte precedente le Panatenee, gli sembrò che un uomo alto e bello gli stesse accanto e pronunciasse questi versi enigmatici: “Sopporta, leone, soffrendo con cuore paziente l'insopportabile: non vi è nessuno tra gli uomini che, commettendo ingiustizia, non sconterà la sua pena”. [2] Non appena fu giorno, Ipparco sottopose apertamente la visione agli interpreti di sogni; ma in seguito, senza tenerne conto, guidò la processione durante la quale morì. [��, 1] Ho dunque esposto la visione avuta in sogno da Ipparco e l'origine dei Gefirei, ai quali appartenevano i suoi uccisori; ma, detto ciò, devo riprendere il discorso che mi accingevo a fare inizialmente, raccontando come gli Ateniesi si liberano dai tiranni. [2] Ippia esercitava la tirannide ed era esacerbato contro gli Ateniesi per la morte di Ipparco; gli Alcmeonidi, ateniesi di stirpe ed esuli a causa dei Pisistratidi, avevano cercato insieme agli altri fuorusciti ateniesi di rientrare con la forza, ma senza successo: anzi, nel tentativo di tornare ad Atene e di liberarla, avevano subito una grave disfatta, dopo aver fortificato Lipsidrio a nord di Peonia9; gli Alcmeonidi dunque, mettendo in atto manovre di ogni tipo contro i Pisistratidi, presero in appalto dagli Anfizioni la ricostruzione del tempio di Delfi, di quello cioè attualmente esistente, ma che all'epoca non esisteva ancora10. [3] Poiché erano ben provvisti di denaro e godevano di grande prestigio fin dai tempi più remoti, edificarono un tempio ancora più bello di quanto fosse previsto nel progetto: in particolare, benché si fosse stabilito di costruirlo in tufo, ne eressero la facciata in marmo pario. [��, 1] Dunque, a quanto narrano gli Ateniesi, questi uomini, stabilitisi a Delfi, con il loro denaro persuasero la Pizia a invitare gli Spartiati, ogni volta che fossero venuti a consultare l'oracolo sia come privati sia a nome della città, a liberare Atene. [2] Gli Spartani, poiché ricevevano sempre lo stesso responso, inviarono con un esercito Anchimolio figlio di Astro, un cittadino illustre, a scacciare da Atene i Pisistratidi, benché fossero legati loro da stretti vincoli di ospitalità: ritenevano infatti più ìmportante quanto è dovuto agli dei di quanto è dovuto agli uomini. Mandarono queste truppe per mare, a bordo di navi. [3] Anchimolio approdò al Falero e fece sbarcare i suoi uomini. I Pisistratidi, preavvertiti di ciò, avevano chiesto aiuto ai Tessali, con i quali avevano stipulato un patto di alleanza; alla loro richiesta i Tessali, di comune accordo, inviarono mille cavalieri con il loro re Cinea, di Condo. I Pisistratidi, appena ebbero con sé gli alleati, attuarono il piano seguente: [4] disboscarono la pianura del Falero, rendendo così il terreno praticabile ai cavalli, e poi lanciarono la cavalleria contro l'accampamento dei nemici. Piombando su di loro, essa uccise molti Spartani, tra i quali anche Anchimolio, e bloccò i superstiti sulle navi. Così andò a finire la prima spedizione spartana; la tomba di Anchimolio si trova in Attica, nel demo di Alopece, vicino al tempio di Eracle a Cinosarge. [��, 1] In seguito gli Spartani allestirono e mandarono contro Atene una spedizione più consistente, designando come comandante il re Cleomene figlio di Anassandrida; ma questa volta non si mossero più per mare, bensì per via di terra. [2] Quando invasero l'Attica, per prima si scontrò con loro la cavallerìa tessala e in breve tempo fu messa in fuga: caddero più di quaranta cavalieri e i superstiti, così com’erano, ripiegarono direttamente verso la Tessaglia. Cleomene entrò in città e, insieme a quegli

9 Località non distante da Decelea. 10 L’antico tempio era infatti stato distrutto da un incendio nel 548 a.C.

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Ateniesi che volevano essere liberi, assediò i tiranni che si erano asserragliati dentro la cinta del Pelargico. [��, 1] Certamente gli Spartani non sarebbero riusciti a cacciare i Pisistratidi (infatti non intendevano porre un assedio e i Pisistratidi erano ben provvisti di cibo e di bevande) e dopo qualche giorno di blocco sarebbero tornati a Sparta; ma si verificò un fatto fortuito, rovinoso per gli uni, ma un vero alleato per gli altri: mentre erano condotti di nascosto fuori dalla regione, vennero catturati i figli dei Pisistratidi [2] Quando questo accadde, tutti i piani dei Pisistratidi furono sconvolti: in cambio dei figli si arresero alle condizioni volute dagli Ateniesi, cioè di abbandonare l'Attica entro cinque giorni. [3] Partirono poi per Sigeo sullo Scamandro11, dopo aver dominato sugli Ateniesi per trentasei anni; erano originari di Pilo e discendenti di Neleo12, e avevano gli stessi antenati delle famiglie di Codro e di Melanto, i quali un tempo, benché stranieri, erano divenuti re di Atene. [4] In ricordo di tali avi Ippocrate aveva dato a suo figlio il nome di Pisistrato, prendendolo da Pisistrato figlio di Nestore. [5] Così dunque gli Ateniesi furono liberati dai tiranni. E ora esporrò innanzi tutto le cose degne di menzione che fecero o subirono, una volta liberi, prima che la Ionia si ribellasse a Dario e che Aristagora di Mileto giungesse ad Atene per chiedere aiuto. [��, 1] Atene, che anche prima era una grande città, allora, liberata dai tiranni, divenne ancora più grande. Due uomini vi primeggiavano: Clistene, della stirpe degli Alcmeonidi, che si diceva avesse corrotto la Pizia, e Isagora figlio di Tisandro, di una casata illustre, ma di cui non sono in grado di precisare le origini: comunque i membri della sua famiglia sacrificano a Zeus Cario. [2] Questi due uomini si contendevano il potere e Clistene, che aveva la peggio, cercò di guadagnarsi il favore del popolo. In seguito Clistene divise gli Ateniesi in dieci tribù, mentre prima erano quattro, abolendo le vecchie denominazioni, derivate dai figli di Ione, cioè Geleonte, Egicoreo, Argade e Oplete, e trovandone di nuove, tratte dai nomi di altri eroi locali, a eccezione di Aiace: Aiace lo ag-giunse in qualità di vicino e alleato, benché fosse straniero. [��, 1] A sua volta Isagora, dal momento che aveva la peggio, meditò quanto segue: chiamò in aiuto lo spartano Cleomene, che era legato a lui da vincoli di ospitalità dai tempi dell'assedio ai Pisistratidi; e circolava l'accusa che Cleomene fosse intimo della moglie di Isagora. [2] Cleomene innanzi tutto inviò un araldo ad Atene per chiedere l'espulsione di Clistene e, oltre a lui, di molti altri Ateniesi, che definiva “impuri”. Mandando questo messaggio, agiva su indicazione di Isagora: infatti gli Alcmeonidi e i loro compagni di fazione erano accusati di un assassinio, mentre Isagora e i suoi amici risultavano estranei ad esso. [��, 1] Ed ecco in quali circostanze gli Ateniesi “impuri” ricevettero questo appellativo. Vi era ad Atene Cilone, un vincitore a Olimpia; costui alzò la cresta fino a mirare alla tirannide e, guadagnatosi l'appoggio di un gruppo di coetanei, tentò di occupare l'acropoli: non essendo riuscito a impadronirsene, andò a sedersi come supplice presso la statua della dea. [2] I pritani dei naucrari13 che governavano Atene a quell'epoca, indussero Cilone e i suoi a uscire dal tempio per rendere conto della loro azione, con la garanzia di aver salva la vita. Ma essi furono uccisi e del delitto vennero accusati gli Alcmeonidi. Tutto ciò era accaduto prima dell’età di Pisistrato. [��, 1] Quando Cleomene cercò con la sua ambasceria di far espellere Clistene e gli “impuri”, Clistene spontaneamente si allontanò in segreto; nondimeno in seguito Cleomene si presentò ad Atene con un esercito non numeroso e, appena arrivato, cacciò via come sacrileghe settecento famiglie ateniesi indicategli da Isagora. Fatto ciò, tentò in secondo luogo di sciogliere la Bulè e di affidare le cariche pubbliche a trecento cittadini della fazione di Isagora. [2] Poiché la Bulè si oppose e si rifiutò di obbedire, Cleomene, Isagora e i suoi seguaci si impadronirono dell'acropoli. Gli altri Ateniesi, animati dai medesimi sentimenti, li assediarono per due giorni: al terzo giorno, in base a un accordo, quanti tra gli assediati erano Spartani poterono allontanarsi dal paese. [3] Così si compiva per Cleomene la profezia: quando era salito sull'acropoli per occuparla, si era diretto verso i penetrali del tempio della dea, come se avesse intenzione di rivolgersi a lei; ma la sacerdotessa, alzatasi dal suo seggio prima che egli varcasse la porta, gli aveva detto: “Straniero di Sparta, torna indietro e non entrare nel tempio: qui ai Dori non è lecito entrare”. E Cleomene le aveva risposto: “Donna, io non sono Doro, ma Acheo”. [4] Senza tenere conto del presagio, aveva messo mano all'impresa; e in quella circostanza fu cacciato via insieme agli Spartani. Quanto agli altri assediati, gli Ateniesi li incarcerarono in attesa di mandarli a morte; tra loro vi era anche Timesiteo di Delfi, di cui potrei citare straordinarie imprese di forza e di coraggio. [��,1] Costoro dunque morirono in catene. Gli Ateniesi in seguito richiamarono Clistene e le settecento famiglie esiliate da Cleomene; inviarono poi messaggeri a Sardi, volendo stringere un'alleanza con i Persiani: erano certi infatti che gli Spartani e Cleomene erano ormai loro nemici. [2] Quando gli inviati giunsero a Sardi ed esposero il messaggio affidato loro, Artafrene, figlio di Istaspe e governatore di Sardi, domandò loro chi fossero e dove abitassero per chiedere un'alleanza ai Persiani; udita la risposta, replicò poche parole: se gli Ateniesi avessero offerto al re Dario terra e acqua, egli si sarebbe alleato con

11 In Troade. 12 Neleo era padre di Nestore. 13 Questa tradizione, che attribuisce ai capi delle naucrarie la responsabilità della strage dei Ciloniani, scagiona gli Alcmeonidi dalla tradizionale accusa che veniva loro mossa.

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loro, altrimenti li invitava ad andarsene. [3] Gli inviati, desiderosi di concludere l’alleanza, di propria iniziativa si dichiararono d’accordo. Ma, tornati in patria, dovettero rispondere di gravi accuse. [��, 1] Cleomene, convinto di essere stato offeso a parole e nei fatti dagli Ateniesi, raccolse truppe in tutto il Peloponneso, senza precisare per quale motivo; voleva vendicarsi del popolo ateniese e installare come tiranno Isagora, che lo aveva seguito quando aveva abbandonato l’acropoli. [2] Cleomene dunque con un grande esercito fece irruzione a Eleusi, mentre i Beoti, secondo gli accordi, si impadronirono di Enoe e di Isia, i demi più remoti dell'Attica, e i Calcidesi dall'altro lato attaccavano e devastavano le campagne dell'Attica. Gli Ateniesi, benché impegnati su due fronti, decisero di pensare in un secondo momento a Beoti e Calcidesi e mossero invece contro i Peloponnesiaci che occupavano Eleusi. [��, 1] Le armate stavano per scontrarsi, quando i Corinzi, essendosi resi conto per primi che non stavano agendo secondo giustizia, cambiarono idea e si ritirarono. Poi fece lo stesso Demarato figlio di Aristone, l'altro re degli Spartiati, che insieme a Cleomene aveva guidato l'esercito da Sparta e che in precedenza non era mai stato in disaccordo con lui. [2] In seguito a questo dissenso, a Sparta fu promulgata una legge in base alla quale i re non potevano accompagnare entrambi l'esercito in una spedizione (fino ad allora lo accompagnavano tutti e due); e dal momento che uno dei re era esonerato da tale compito, doveva restare a Sparta anche uno dei Tindaridi14: prima invece anch'essi venivano entrambi invocati in aiuto e seguivano entrambi le truppe. [3] Allora, a Eleusi, gli altri alleati, vedendo che i re di Sparta non andavano d'accordo e che i Corinzi avevano abbandonato lo schieramento, si ritirarono a loro volta. [��] Questa era la quarta volta che i Dori entravano nell'Attica: due volte vi avevano fatto irruzione per portar la guerra, due volte per il bene del popolo ateniese: la prima fu nella stessa epoca in cui fondarono Megara (questa spedizione potrebbe a buon diritto prendere nome dal re di Atene Codro), la seconda e la terza quando erano venuti da Sparta per cacciare i Pisistratidi, e la quarta allora, quando cioè Cleomene a capo dei Peloponnesiaci irruppe nel territorio di Eleusi; così in quella circostanza i Dori invasero l'Attica per la quarta volta. [��, 1] Dato che questo corpo di spedizione si era disperso ingloriosamente, allora gli Ateniesi, desiderosi di vendicarsi, marciarono innanzi tutto contro i Calcidesi. I Beoti mossero in soccorso ai Calcidesi sull'Euripo.

[...] [��, 1] Mentre si preparavano alla vendetta, sopraggiunse un'iniziativa degli Spartani a ostacolare i loro progetti. Gli Spartani, appresi gli intrighi degli Alcmeonidi nei confronti della Pizia e quelli della Pizia contro di loro e i Pisistratidi, considerarono una duplice sciagura l'aver cacciato dalla loro patria degli uomini a cui erano legati da vincoli di ospitalità e il fatto che, nonostante questo, gli Ateniesi non gliene fossero minimamente riconoscenti. [2] Oltre a ciò, contribuivano a spronarli dei vaticini che predicevano che da parte degli Ateniesi sarebbero venuti loro molti oltraggi; di tali profezie prima erano all'oscuro, ma le conobbero dopo che Cleomene le portò a Sparta. Cleomene se ne era impadronito sull'acropoli di Atene: in precedenza erano in possesso dei Pisistratidi, ma quando erano stati cacciati le avevano lasciate nel tempio: le avevano abbandonate lì e Cleomene le aveva prese. [��, 1] Allora gli Spartani, avendo in mano questi oracoli e vedendo che gli Ateniesi diventavano sempre più potenti e non erano affatto disposti all’obbedienza, compresero che il popolo dell'Attica, ora libero, avrebbe acquisito un peso pari al loro, mentre se fosse stato soggetto a un tiranno sarebbe stato debole e pronto a obbedire; essendosi resi conto di tutto ciò, mandarono a chiamare Ippia figlio di Pisistrato da Sigeo nell'Ellesponto, dove si erano rifugiati i Pisistratidi. [2] Quando Ippia, in risposta al loro invito, arrivò a Sparta, convocarono anche rappresentanti degli altri alleati e tennero il seguente discorso: “Alleati, noi riconosciamo di non esserci comportati correttamente. Istigati da vaticini ingannevoli, cacciammo dalla loro patria degli uomini che erano legati a noi da strettissimi vincoli di ospitalità e che si impegnavano a mantenere Atene a noi soggetta; fatto ciò, affidammo poi la città a quel popolo ingrato, che, recuperata la libertà e rialzata la testa grazie a noi, ha offeso e cacciato via noi e il nostro re; e ora, animato da una grande opinione di sé, si ingrandisce, come hanno ben imparato i popoli confinanti, Beoti e Calcidesi: e presto anche altri si accorgeranno di aver commesso un errore. [3] Ma poiché noi abbiamo sbagliato ad agire così, adesso cercheremo insieme a voi di trovare un rimedio: proprio per questo abbiamo fatto venire qui Ippia e voi, dalle vostre città, per riportarlo ad Atene di comune ac-cordo e con un esercito comune, e per restituirgli ciò che gli abbiamo tolto”. [��, 1] Così parlarono gli Spartani, ma la maggior parte degli alleati non accolse con favore il loro discorso. Mentre gli altri tacevano, Socle di Corinto disse: [D, 1] “Di sicuro il cielo finirà giù sotto la terra e la terra in alto sopra il cielo, gli uomini andranno ad abitare nel mare e i pesci là dove prima vivevano gli uomini, dal momento che voi, Spartani, abolendo regimi fondati sull'uguaglianza di diritti, vi preparate a instaurare nelle città governi tirannici, di cui non vi è al mondo nulla di più ingiusto e di più sanguinario. [2] Se davvero vi sembra una bella cosa che le città siano rette da tiranni, cominciate voi con l'affidare il potere a un tiranno in casa vostra e poi cercate di imporlo agli altri: ma ora voi, che non avete nessuna esperienza di tiranni e anzi vigilate con la massima

14 Castore e Polluce, figli di Tindaro mitico re di Sparta.

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attenzione che non si installino a Sparta, vi comportate ingiustamente nei confronti dei vostri alleati; se ne aveste avuto esperienza al pari di noi, certamente avreste da avanzare opinioni più sagge di quella che avete esposto oggi (URGRWR, VI, 51 segg. [��] Nel frattempo Demarato, figlio di Aristone, rimasto a Sparta, calunniava Cleomene; anche Demarato era re degli Spartiati, ma della famiglia meno nobile, meno nobile per un unico motivo (entrambe infatti discendono dal medesimo capostipite), e cioè che in virtù della primogenitura la stirpe di Euristene gode di maggiore considerazione. [��, 1] Gli Spartani, in contrasto con tutti i poeti, sostengono che fu proprio Aristodemo, figlio di Aristomaco figlio di Cleodeo figlio di Illo, a condurli, durante il suo regno, nella regione che occupano attualmente, e non i figli di Aristodemo. [2] Non molto tempo dopo, la moglie di Aristodemo, che si chiamava Argia, partorì; dicono che fosse figlia di Autesione figlio di Tisarneno figlio di Tersandro figlio di Polinice; costei dunque mise al mondo due gemelli; Aristodemo ebbe appena il tempo di vedere i suoi figli che si ammalò e morì. [3] Gli Spartani dell’epoca decisero, in conformità alla legge, di nominare re il maggiore dei due bambini; ma non sapevano quale scegliere, dal momento che erano assolutamente identici. Non riuscendo a riconoscere il primogenito, o prima ancora di provarci, interrogarono la madre: [4] ma quest'ultima dichiarò che non era in grado di distinguerli neppure lei; in realtà ne era capacissima, ma lo disse perché desiderava che, se possibile, tutti e due diventassero re. Gli Spartani erano in difficoltà e, nell’incertezza, mandarono a chiedere a Delfi come dovessero agire in una simile circostanza: [5] la Pizia ingiunse loro di considerare re entrambi i bambini, ma di onorare maggiormente il più anziano. Così rispose la Pizia, e gli Spartani, al pari di prima, non sapevano come individuare il più grande, quando un uomo di Messene, di nome Panite diede loro un suggerimento. [6] Panite consigliò agli Spartani di spiare quale dei due la madre lavasse e nutrisse per primo: se l'avessero vista compiere queste azioni sempre nello stesso ordine, avrebbero avuto tutto quello che cercavano e volevano scoprire; se invece anche lei si fosse comportata in modo oscillante, accudendo per primo ora l'uno ora l'altro, sarebbe stato evidente che neppure lei ne sapeva di più; in tal caso avrebbero dovuto tentare un'altra strada. [7] Gli Spartiati allora, seguendo il consiglio del Messeno, sorvegliarono la madre dei figli di Aristodemo e scoprirono che li nutriva e li lavava sempre nello stesso ordine, privilegiando il primogenito: ignorava infatti per quale motivo la stessero osservando. Presero il bimbo prediletto dalla madre in quanto nato per primo e lo allevarono nella casa della città: a lui misero nome Euristene e al più giovane Procle. [8] Una volta adulti, pur essendo fratelli, furono in disaccordo, si narra, per tutta la durata della loro vita e i loro discendenti continuano a fare altrettanto. [��, 1] Gli Spartani sono gli unici tra i Greci a raccontare questa storia; invece quanto segue lo scrivo in base a ciò che sostengono i Greci: e cioè i re dei Dori, fino a Perseo figlio di Danae ed escludendo il dio, sono stati catalogati con esattezza dai Greci ed è stato dimostrato che sono Greci, poiché già ai loro tempi erano annoverati tra i Greci. [2] Ho detto “fino a Perseo” senza risalire più indietro, perché a Perseo non è attribuito alcun appellativo derivante dal nome di un padre mortale, come invece accade con Eracle figlio di Anfitrione: perciò mi sono espresso in modo corretto, dicendo correttamente “fino a Perseo”. A chi volesse elencare i loro antenati partendo da Danae figlia di Acrisio risulterebbe che i capi dei Dori discendono direttamente dagli Egiziani. [��] Questa è la loro genealogia secondo i Greci. Secondo invece la versione dei Persiani, fu lo stesso Perseo, che era un Assiro, a divenire Greco e non i suoi avi; quanto ai progenitori di Acrisio, che non avrebbero alcuna relazione di parentela con Perseo, essi, proprio come sostengono i Greci, erano Egiziani. [��] E tanto basti sull'argomento; per quale motivo e grazie a quali imprese, pur essendo Egiziani, abbiano ottenuto il potere regale tra i Dori lo hanno già narrato altri e noi lo tralasceremo; ricorderò invece quello che gli altri hanno omesso di trattare. [��] Ed ecco i privilegi che gli Spartiati hanno concesso ai loro re: due sacerdozi, di Zeus Spartano e di Zeus Uranio; il diritto di muovere guerra al paese che vogliono, senza che nessuno degli Spartiati possa impedirglielo15, pena il macchiarsi di sacrilegio; in marcia i re avanzano per primi e si ritirano per ultimi; nell'esercito cento uomini scelti vegliano su di loro; durante le spedizioni militari possono sacrificare quanti capi di bestiame vogliono e spettano loro le pelli e le schiene di tutte le vittime immolate. [��, 1] Queste sono le loro prerogative in tempo di guerra; ed ecco quelle del tempo di pace. Quando si celebra un sacrificio a pubbliche spese, i re si siedono a banchetto per primi e da loro per primi si comincia a servire il pasto, distribuendo a entrambi, per tutte le vivande, porzioni doppie che agli altri convitati; a loro spettano l'onore di dare inizio alle libagioni e le pelli degli animali immolati. [2] A ogni novilunio e il settimo giorno di ogni mese vengono assegnati a ciascun re, a spese della città, una vittima adulta, da condurre al tempio di Apollo, un medimno di farina e la quarta parte di una misura laconica di vino; in tutte le competizioni dispongono di posti scelti in prima fila. Hanno il diritto di nominare prosseni i cittadini che vogliono e di scegliere ognuno due Pizii: i Pizii sono coloro che vanno a Delfi per consultare l'oracolo e, al pari dei re, sono mantenuti a pubbliche spese. [3] Quando i re non partecipano al pasto, si

15 Se questo fu mai vero, non lo era certo ai tempi di Erodoto: è interessante notare che nel passo non si faccia riferimento alla funzione degli efori.

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mandano a casa loro due chenici di farina e una cotile di vino per ciascuno, se invece sono presenti, viene offerta loro doppia razione di tutto e ricevono lo stesso onore anche quando sono invitati a pranzo da privati cittadini. [4] Custodiscono i responsi degli oracoli, di cui sono a conoscenza anche i Pizii. Amministrano la giustizia da soli esclusivamente nei casi seguenti: riguardo alle ereditiere (se il padre non ha promesso a nessuno la ragazza in questione, decidono loro a chi spetta sposarla) e riguardo alle pubbliche vie; [5] inoltre se qualcuno vuole adottare un figlio, deve farlo davanti ai re. Essi prendono parte al consiglio degli anziani, che sono ventotto; se non si recano alla seduta, sono i due anziani a loro più vicini per parentela che esercitano le prerogative regali, esprimendo ciascuno due voti più un terzo, il proprio. [��, 1] Questo è quanto la città degli Spartiati assegna ai re finché sono in vita; ed ecco quanto accorda loro dopo la morte. Dei cavalieri diffondono la notizia per tutta la Laconia; nella città invece, delle donne vanno in giro percuotendo lebeti. Non appena si verifica tutto ciò, la norma impone che in ogni casa due persone libere, un uomo e una donna, prendano il lutto: coloro che non lo fanno, incorrono in gravi pene. [2] Le usanze degli Spartani per la morte dei re sono le stesse dei barbari dell'Asia: in effetti la maggior parte dei barbari si comporta nello stesso modo quando muoiono i loro re. Allorché un re degli Spartiati viene a mancare, da tutta Sparta devono recarsi al funerale, oltre agli Spartiati, anche i perieci, in un numero prestabilito: [3] e quando questi perieci, gli iloti e gli stessi Spartiati si sono riuniti in molte migliaia, uomini e donne insieme, si percuotono con ardore la fronte e si abbandonano a lamenti senza fine, proclamando ogni volta che l'ultimo re scomparso è stato il migliore. Se un re muore in guerra, fabbricano una statua che lo raffigura e la portano alla tomba su una lettiga riccamente addobbata. Dopo la sepoltura, per dieci giorni non si tengono assemblee, né si svolgono riunioni per eleggere magistrati, ma durante tutto questo periodo osservano il lutto. [��] Concordano con i Persiani anche per un'altra usanza: quando, alla morte di un re, un altro gli succede, il nuovo sovrano libera dai debiti tutti gli Spartiati che hanno un debito con il re o con la città; analogamente presso i Persiani il re che si insedia condona a tutte le città i tributi arretrati. [��] Gli Spartani sono invece simili agli Egiziani per quanto segue: presso di loro gli araldi, gli auleti e i cuochi ereditano il mestiere del padre, e il flautista è figlio di un flautista, il cuoco di un cuoco, l'araldo di un araldo; i figli degli araldi non vengono mai esclusi a opera di altri che si dedicano a questa professione in virtù della loro voce squillante, ma continuano la tradizione paterna. Così stanno le cose. [��,1] A quell'epoca dunque, mentre Cleomene si trovava a Egina e agiva per il bene comune della Grecia, Demarato lo andava calunniando, non tanto perché avesse a cuore le sorti degli Egineti, quanto per invidia e gelosia. Cleomene, al suo ritorno da Egina, meditava di destituire Demarato, traendo spunto per le sue accuse dal fatto seguente. Aristone, re di Sparta, aveva sposato due donne, ma non ne aveva avuto figli; [2] poiché non ammetteva che la cosa dipendesse da lui, sposò una terza donna; ed ecco in quali circostanze. Aristone aveva come amico uno Spartiata a cui era legato più che a qualsiasi altro concittadino. Costui aveva in moglie la donna di gran lunga più bella di Sparta, che era divenuta bellissima da bruttissima che era. [3] In effetti la sua nutrice, vedendo che era fisicamente sgradevole (questa bimba così bruttina era figlia di gente ricca) e che i genitori consideravano il suo aspetto una disgrazia, resasi conto di tutto ciò, escogitò il seguente rimedio: tutti i giorni la portava al tempio di Elena, che sorge nella località chiamata Terapne, al di sopra del tempio di Febo; e ogni volta che la portava, la metteva in piedi davanti alla statua della dea e la supplicava di liberare la piccola dalla sua bruttezza. [4] Ebbene, si narra che un giorno, mentre la nutrice stava tornando dal tempio, le apparve una donna: le apparve e le domandò che cosa avesse in braccio; lei rispose che si trattava di una bambina; la donna la invitò a mostrargliela, ma la nutrice rifiutò, poiché i genitori le avevano proibito di farla vedere a chiunque. La donna insistette: [5] e la nutrice, vedendo che ci teneva tanto a darle un'occhiata, alla fine gliela mostrò. La donna accarezzò la testa della piccola e dichiarò che sarebbe diventata la più bella di tutte le donne di Sparta. Da quel giorno, la bimba mutò d'aspetto; e quando giunse all'età del matrimonio, la prese in moglie Ageto figlio di Alcide, cioè l'amico di Aristone. [��, 1] L'amore per questa donna tormentava dunque Aristone, che ricorse a un espediente: promise all'amico, di cui lei era la sposa, di donargli l'oggetto da lui prescelto fra tutti i suoi beni e lo invitò a fargli un'analoga concessione; costui, senza nutrire alcun timore riguardo a sua moglie, perché vedeva che anche Aristone ne aveva una, acconsentì alla proposta; e si impegnarono con giuramento a mantenere la promessa. [2] Allora Aristone regalò l'oggetto (qualunque cosa fosse) che Ageto aveva scelto fra i suoi tesori; poi, cercando di avere il contraccambio, tentò di prendersi la moglie dell'amico. Questi si dichiarava disposto ad accordargli qualsiasi altra cosa, tranne quella soltanto; tuttavia, obbligato dal giuramento e da quel raggiro ingannatore, gliela lasciò portar via. [��, 1] Così Aristone sposò la sua terza moglie, dopo aver ripudiato la seconda. In un tempo più breve del normale e senza aver compiuto i dieci mesi, costei diede alla luce Demarato. [2] Uno dei servi andò ad annunciare ad Aristone, mentre sedeva a consiglio con gli efori che gli era nato un figlio. Ma lui, che ben sapeva quando aveva sposato sua moglie, contando i mesi sulle dita, dichiarò con tanto di giuramento: “Non può essere mio!”. Gli efori lo udi-rono, tuttavia, sul momento, non vi fecero alcun caso. Il bambino cresceva e Aristone si pentì di quello che aveva detto: infatti si era convinto che Demarato fosse sicuramente figlio suo. [3] Lo chiamò Demarato per il seguente motivo: prima di questi avvenimenti, gli Spartiati avevano innalzato pubbliche preghiere perché ad Aristone, un

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uomo davvero illustre fra tutti i re che avevano regnato a Sparta, nascesse un figlio; per questo gli fu posto nome Demarato16. [��] Col passar del tempo, Aristone morì e Demarato ottenne il potere regale. Ma era destino, a quanto pare, che questi fatti, una volta risaputi, mettessero fine al suo regno; Demarato si era scontrato duramente con Cleomene già prima, per aver ritirato l'esercito da Eleusi; e poi si scontrò con lui in quella circostanza, quando Cleomene mosse contro gli Egineti che si erano schierati dalla parte dei Medi. [���� 1] Animato dal desiderio di vendicarsi, Cleomene concluse un patto con Leutichida figlio di Menare figlio di Agide, che apparteneva alla stessa famiglia di Demarato: l’accordo prevedeva che, se Cleomene fosse riuscito a farlo nominare re al posto di Demarato, lui poi lo avrebbe seguito contro gli Egineti. [2] Leutichida aveva concepito un odio violento contro Demarato per il seguente episodio: quando Leutichida si era fidanzato con Percalo figlia di Chilone figlio di Demarmeno, Demarato, con un tranello, aveva mandato a monte il matrimonio, anticipandolo nel rapire Percalo e nel prenderla in moglie. [3] Da ciò era nata l'ostilità di Leutichida nei confronti di Demarato; e allora, per istigazione di Cleomene, accusò Demarato sotto giuramento, affermando che regnava sugli Spartiati senza averne diritto, in quanto non era figlio di Aristone. E dopo questa accusa giurata, lo citò in giudizio, rievocando la frase pronunciata da Aristone, quando il servo gli aveva annunciato la nascita di un figlio, ma lui, contando i mesi, aveva giurato che non era suo. [4] Facendosi forte di tali parole, Leutichida voleva di-mostrare che Demarato non era figlio di Aristone e che regnava su Sparta senza averne diritto: e convocò come testimoni gli efori, che in quella circostanza sedevano in consiglio insieme ad Aristone e che avevano udito la sua affermazione. >����1] Alla fine, poiché il fatto dava adito a varie discussioni, gli Spartiati decisero di chiedere all'oracolo di Delfi se Demarato era figlio di Aristone. [2] II ricorso alla Pizia era stato predisposto da Cleomene: questi allora si procurò l’appoggio di Cobone figlio di Aristofanto, un uomo che aveva grande influenza a Delfi, e Cobone persuase la profetessa Perialla a dire ciò che Cleomene voleva fosse detto. [3] Così la Pizia, quando gli inviati la interrogarono, sentenziò che Demarato non era figlio di Aristone. In seguito tuttavia la faccenda venne scoperta; Cobone dovette andare in esilio da Delfi e la profetessa Perialla fu deposta dalla sua carica [��, 1] Così dunque andarono le cose per quanto concerne la destituzione di Demarato. Demarato poi abbandonò Sparta per rifugiarsi dai Medi a causa del seguente affronto. Dopo essere stato deposto, Demarato rivestiva una carica a cui era stato eletto. [2] Si stavano celebrando le Gimnopedie e, mentre Demarato vi assisteva, Leutichida, che già era subentrato al suo posto come re, per deriderlo e per offenderlo mandò un servo a chiedergli che effetto facesse esercitare una magistratura dopo essere stato re. [3] Demarato, ferito dalla domanda, rispose che lui aveva sperimentato entrambe le cose, ma Leutichida no, e che quella domanda avrebbe segnato per gli Spartani l'inizio o di infinite sciagure o di una infinita prosperità. Detto ciò, si coprì la testa e dal teatro si recò a casa sua; là, compiuti subito i preparativi, immolò un bue a Zeus e, dopo il sacrificio, chiamò sua madre. [��, 1] Quando la madre giunse, le mise in mano parte delle viscere e la supplicò con queste parole: “Madre, appellandomi a tutti gli dei e in particolare a Zeus protettore del focolare, io ti scongiuro di dirmi la verità: chi è veramente mio padre? [2] Leutichida, nel corso della discussione, ha sostenuto che tu sei entrata nella casa di Aristone incinta del tuo primo marito; altri poi, facendo discorsi ancora più folli, affermano che sei andata con un servo, il guardiano degli asini, e che io sono suo figlio. [3] Io dunque ti prego in nome degli dei di rivelarmi la verità: del resto, se hai fatto qualcosa di quanto si racconta, non sei certo la sola, ma in numerosa compagnia; e a,Sparta è assai diffusa la voce che Aristone non avesse un seme atto a procreare, perché altrimenti anche le mogli precedenti gli avrebbero dato figli”. [��, 1] Così parlò e lei gli rispose: “[...] [2] Poi se ne andò e più tardi arrivò Aristone. Appena vide che avevo delle corone, mi domandò chi me le avesse date. Io risposi che era stato lui, ma lui si rifiutava di crederlo; io glielo giurai, aggiungendo che non si comportava bene negando la cosa: infatti poco prima era venuto da me, si era coricato con me e mi aveva donato le corone. [3] Vedendomi giurare, Aristone capì che la faccenda aveva qualcosa di divino. Le corone risultarono provenienti dall’KHURRQ situato presso la porta del cortile, l’KHURRQ detto di Astrabaco, e gli indovini dichiararono che avevo avuto a che fare proprio con quell'eroe. [4] Ora, figlio mio, sai tutto quello che volevi sapere: o sei nato da questo eroe e qunindi tuo padre è l’eroe Astrabaco, oppure è Aristone: io ti ho concepito in quella notte. Se i tuoi nemici ti attaccano soprattutto su questo punto, sostenendo che Aristone stesso, quando gli fu annunciata la tua nascita, affermò, in presenza di molti testimoni, che tu non eri suo figlio (perché il tempo non era ancora trascorso), ebbene tuo padre si lasciò sfuggire quella frase per la sua ignoranza in materia. [5] Le donne partoriscono anche di nove mesi e di sette, e non tutte por-tano a termine i dieci mesi: io, figlio mio, ti ho partorito di sette mesi. Aristone stesso, non molto tempo dopo, riconobbe di aver buttato là quella frase a sproposito. Altre voci sulla tua nascita non ascoltarle: tutta la verità l'hai udita adesso. E da asinari possano generare figli le mogli di Leutichida e di tutti coloro che fanno discorsi di questo genere”. [��, 1] Tale fu la sua risposta. Demarato, appreso quello che voleva sapere, prese il necessario per il viaggio e partì per l'Elide, dando a intendere che andava a Delfi a consultare l'oracolo. Ma gli Spartani, sospettando che Demarato tentasse lo fuga, si diedero a inseguirlo. [2] In qualche maniera Demarato riuscì a

16 Da GHPRV, popolo, ed DUj, preghiera.

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passare dall’Elide a Zacinto prima di loro; ma gli Spartani vi sbarcarono anch’essi, misero le mani su di lui e gli portarono via i servi. In seguito, poiché gli abitanti di Zacinto non erano disposti a consegnarlo da là potè recarsi in Asia presso il re Dario; questi gli riservò una splendida accoglienza e gli donò terra e città. [3] Ecco come giunse in Asia Demarato e dopo quali disavventure; in molte circostanze si era distinto tra gli Spartani per le sue azioni e i suoi pareri, e in particolare aveva procurato loro l'onore di una vittoria a Olimpia nella corsa delle quadrighe: e fu l'unico a compiere una simile impresa fra tutti i re che regnarono a Sparta. [��, 1] Deposto Demarato, gli successe nel regno Leutichida figlio di Menare; questi ebbe un figlio, Zeuxidamo, che alcuni Spartiati chiamavano Cinisco. Zeuxidamo non regnò su Sparta, in quanto morì prima di Leutichida, lasciando un figlio, Archidamo. [2] Leutichida, quando perse Zeuxidamo, prese una seconda moglie, Euridame, sorella di Menio e figlia di Diattoride; da lei non ebbe nessun figlio maschio, ma una figlia, Lampito, che diede in sposa ad Archidamo figlio di Zeuxidamo. [��, 1] Neppure Leutichida invecchiò a Sparta, ma pagò in qualche modo quello che aveva fatto a Demarato: ed ecco come. Aveva guidato una spedizione spartana contro la Tessaglia e, pur avendo la possibilità di sottomettere tutta la regione, si lasciò corrompere da una grossa cifra di denaro: [2] colto in flagrante nel suo accampamento, mentre stava seduto su una borsa piena di denaro, fu citato in giudizio e fuggì da Sparta, mentre la sua casa venne abbattuta; si rifugiò a Tegea e là morì. [��, 1] Ma questi fatti avvennero in epoca successiva. Allora invece, poiché il suo intrigo contro Demarato era andato a buon fine, Cleomene prese con sé Leutichida e mosse contro gli Egineti, nei confronti dei quali nutriva un terribile rancore a causa dell'affronto subito. [2] E così gli Egineti, vedendosi arrivare addosso entrambi i re, non ritennero più possibile opporre resistenza; gli Spartani scelsero e portarono via dieci Egineti, i più ragguardevoli per ricchezza e per stirpe, tra gli altri anche Crio figlio di Policrito e Casambo figlio di Aristocrate, che avevano grandissima autorità; li condussero in territorio attico e li affidarono in custodia ai peggiori nemici degli Egineti, cioè agli Ateniesi. [��, 1] In seguito Cleomene, poiché le sue malvage macchinazioni contro Demarato erano venute alla luce, ebbe paura degli Spartiati e fuggì di nascosto in Tessaglia. Passato da là in Arcadia, cercava di provocare una sollevazione, coalizzando gli Arcadi contro Sparta e inducendoli tra l'altro a giurare che lo avrebbero seguito dovunque li guidasse; in particolare era ansioso di condurre i capi degli Arcadi nella città di Nonacri per farli giurare sull'acqua dello Stige. [2] In questa città, a detta degli Arcadi, si trova l'acqua dello Stige ed ecco in effetti quello che c'è: una esigua vena d'acqua, sgorgando da una roccia, cade goccia a goccia in una depressione e tutto intorno alla depressione corre, in cerchio, un muro a secco. Nonacri, dove si trova questa sorgente, è una città dell'Arcadia nei pressi di Feneo. [��, 1] Quando gli Spartani vennero a sapere ciò che tramava Cleomene, spaventati, lo richiamarono a Sparta perché tornasse a regnare con le stesse prerogative di prima. Ma, non appena fu rientrato, lo colse la follia (anche prima non era del tutto sano di mente): ogni volta che incontrava uno Spartiata, lo colpiva sul viso con lo scettro. [2] Poiché si comportava in tal modo ed era fuori di senno, i parenti lo legarono a un ceppo. Egli, così legato, vedendo un giorno che l'uomo di guardia era rimasto solo, senza i suoi compagni, gli chiese un pugnale; questi dapprima rifiutò di darglielo e allora Cleomene lo minacciò, spiegandogli quello che gli avrebbe fatto una volta liberato, finché il guardiano, atterrito dalle minacce (era infatti un ilota), gli consegnò il pugnale. [3] Cleomene, in possesso dell'arma, cominciò a far strazio di sé a partire dalle gambe: incidendo le carni nel senso della lunghezza procedette dalle gambe alle cosce, dalle cosce ai fianchi e all’addome, finché raggiunse il ventre e lo tagliò a pezzi: e così morì. A quanto afferma la maggior parte dei Greci, ciò avvenne perché aveva indotto la Pizia a dire quello che aveva detto su Demarato; secondo invece gli Ateniesi, perché quando aveva invaso Eleusi aveva devastato il recinto sacro delle dee; a detta infine degli Argivi, perché, dopo aver fatto uscire dal santuario dell'eroe Argo quegli Argivi che, scampati alla battaglia, vi si erano rifugiati, li aveva sterminati e, senza nessun riguardo, aveva incendiato lo stesso bosco sacro. [��, 1 ] In effetti, consultando un giorno l'oracolo di Delfi, Cleomene si era sentito predire che avrebbe conquistato Argo. E quando, alla testa degli Spartiati, giunse al fiume Erasino, che, si dice, proviene dal lago di Stinfalo (l'acqua di questo lago, precipitando in un'oscura voragine, riapparirebbe ad Argo e da là in poi verrebbe chiamata Erasino dagli Argivi), giunto dunque sulla riva di questo fiume, Cleomene gli offrì dei sacrifici. [2 ] Poichè i presagi non risultavano affatto favorevoli al passaggio del fiume, dichiarò di ammirare l'Erasino che non voleva tradire i suoi concittadini, ma che neppure in tal caso gli Argivi avrebbero avuto di che rallegrarsi. Poi si ritirò e riportò l'esercito a Tirea; là, dopo aver immolato un toro in onore del mare, imbarcò le sue truppe e le condusse nel territorio di Tirinto e di Nauplia. [��, 1] Gli Argivi, informati di ciò, accorsero sulla costa per difendersi: quando furono vicino a Tirinto, nella località chiamata Sepia, si accamparono di fronte agli Spartani, lasciando tra i due eserciti uno spazio non grande. In quella situazione gli Argivi non temevano una battaglia in campo aperto, ma di cadere vittime di qualche inganno. ����

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7XFLGLGH�I, 67-87 (trad. G. Donini) [Dopo l’assedio di Potidea, c. 432 a. C.] [3] I Lacedemoni invitarono anche chiunque tra i loro alleati dichiarava di avere subito qualche altro torto dagli Ateniesi, e dopo aver convocato la loro assemblea abituale li invitarono a parlare. [4] Vari rappresentanti venivano avanti e facevano ciascuno le proprie accuse, e in particolare i Megaresi, i quali indicarono non pochi motivi di discordia, e specialmente il fatto che, contrariamente al trattato, erano esclusi dai porti dell’impero ateniese e dal mercato di Atene. [5] Si fecero avanti per ultimi i Corinzi, e dopo aver lasciato che gli altri prima infiammassero i Lacedemoni, li seguirono con un discorso di questo genere: [���� 1] ”La fiducia che da voi, Lacedemoni, prevale nella vita pubblica e nei rapporti privati vi rende più diffidenti se diciamo qualcosa contro gli altri; e da questo derivate certo moderazione, ma date prova di maggior ignoranza per quanto riguarda i fatti che avvengono al di fuori. [2] Spesso vi abbiamo avvertiti dei danni che stavamo per subire dagli Ateniesi, eppure voi non vi rendevate conto delle informazioni che ogni volta vi davamo, ma sospettavate piuttosto che quelli che vi parlavano lo facessero per i loro interessi privati; e per questo, non prima che subissimo i danni, ma ora che ne siamo le vittime, avete convocato gli alleati che sono qui, tra i quali spetta a noi più che a ogni altro parlare, in quanto abbiamo anche le più gravi accuse da presentare, poiché subiamo gli oltraggi degli Ateniesi e siamo trascurati da voi. [3] E se inosserati commettessero le loro ingiustizie contro la Grecia, avreste bisogno di ulteriori informazioni, come persone ignare: ma ora che bisogno c'è di fare lunghi discorsi, quando vedete che alcuni sono già assoggettati, e agli altri loro stanno tramando insidie, e specialmente ai nostri alleati, e che essi hanno fatto i loro preparativi da molto tempo, nell'eventualità che un giorno siano costretti a subire una guerra? [4] Se così non fosse, non avrebbero in modo subdolo preso Corcira contro la nostra volontà e non se la terrebbero, e non assedierebbero Potidea: delle due, questa è la città più favorevole da utilizzare per l'accesso alle regioni confinanti con la Tracia, e quella avrebbe fornito ai Peloponnesiaci la flotta più grande. [��, 1] E di queste cose siete voi i responsabili, perché prima li avete lasciati rafforzare la loro città dopo le guerre contro i Medi, e poi costruire le lunghe mura17, e fino ad oggi avete costantemente privato della libertà, non solo quelli che sono stati soggiogati da loro, ma ora anche i vostri alleati. Infatti chi veramente priva della libertà non è chi ha soggiogato un altro, ma chi è in grado di mettere fine alla schiavitù ma non se ne cura, anche se gode della reputazione di virtù come liberatore della Grecia. [2] Con difficoltà ci siamo riuniti ora, e nemmeno ora con idee chiare sulla situazione. Infatti non dovremmo più esaminare se stiamo subendo torti, ma in che modo ci difenderemo: quelli che agiscono attaccano dopo aver già fatto i loro piani, di fronte a uomini che non hanno deciso, e attaccano senza indugiare. [3] E sappiamo in che modo gli Ateniesi avanzano contro i loro vicini, e che li attaccano a poco a poco. E quando pensano di passare inavvertiti a causa della vostra incapacità di osservare, sono meno audaci, ma quando si accorgeranno che voi, pur sapendolo, li lasciate fare, insisteranno decisamente. [4] Soli tra i Greci siete inattivi, Lacedemoni, e vi difendete contro un attacco, non con la forza, ma con l'esitazione, e siete i soli a distruggere la potenza dei nemici, non quando è al suo inizio, ma quando si è raddoppiata. [5] Eppure si diceva che ci si poteva fidare di voi: ma in questo caso la fama era certo superiore alla realtà. Noi stessi sappiamo che il Medo arrivò dai confini della terra ad attaccare il Peloponneso, prima che le vostre forze andassero incontro a lui in modo adeguato; e ora non vi curate degli Ateniesi, che non sono lontani, come lui, ma vicini, e invece di attaccarli voi stessi, preferite difendervi contro i loro attacchi e affidarvi alla fortuna affrontando un nemico divenuto molto più potente; eppure sapete, sia che il barbaro fu per lo più lui stesso responsabile della propria sconfitta, sia che contro gli Ateniesi stessi noi abbiamo già molte volte avuto successi più per i loro errori che per l'aiuto proveniente da voi: infatti le speranze riposte in voi hanno già in qualche caso portato alla rovina alcuni che, a causa della fiducia che avevano in voi, erano anche impreparati. [6] E nessuno di voi creda che queste cose siano state dette più per ostilità che per rimprovero: il rimprovero è diretto agli amici che sbagliano, l'accusa ai nemici che hanno offeso. [��, 1] Nello stesso tempo, se qualcuno ha il diritto di muovere rimproveri ai vicini, noi pensiamo di averlo più di altri, soprattutto perché sono grandi le differenze che esistono, differenze di cui a noi almeno sembra che non siate consapevoli, né che abbiate mai riflettuto che uomini siano gli Ateniesi contro i quali entrerete in lizza, e quanto, e quanto completamente diversi da voi. [2] Loro sono innovatori e pronti a ideare progetti e a realizzare con i fatti quello che hanno deciso: voi siete pronti a conservare quello che avete già, a non prendere nuove decisioni, e nei fatti a non eseguire neanche il necessario. [3] E poi loro sono audaci al di là delle loro forze, disposti al rischio al di là dei loro calcoli, e incrollabili nelle loro speranze quando si trovano nei pericoli: la vostra abitudine è di agire al di sotto delle vostre forze, di non fidarvi neanche dei calcoli sicuri della vostra riflessione, e di pensare che non vi libererete mai dai pericoli. [4] Inoltre loro non hanno esitazioni, mentre

17 Si tratta delle due mura fortificate che collegavano Atene con i due porti del Pireo e del Falero, costruite tra il 459 ed il 456. Ad esse si aggiunse nel 445 un terzo muro, parallelo a quello che congiungeva Atene con il Pireo, e che rendeva la città praticamente inespugnabile salvo in caso di perdita del controllo sul mare.

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voi esitate, e loro sono pronti a uscire dal paese, mentre voi siete legatissimi al vostro: loro infatti credono con l’assenza di poter guadagnare qualcosa, voi invece con un attacco di danneggiare le cose che possedete già. [5] Quando sono vittoriosi sui nemici avanzano il più possibile, e quando sono sconfitti cedono il meno possibile. [6] E inoltre nel servire con le loro persone la città, le considerano come completamente estranee a loro, ma trattano la loro mente come una cosa che appartiene loro completamente per fare qualche cosa per la città. [7] Se non eseguono un piano che hanno fatto, ritengono di essere privati di ciò che appartiene a loro; se con un attacco ottengono qualche cosa, credono di avere in realtà fatto poco in confronto a quello che faranno. E anche se effettivamente falliscono in qualche tentativo, con altre speranze rimediano alla mancanza: sono infatti i soli per i quali sperare nelle cose che si pongono come obiettivo equivalga ad averle, perché rapidamente intraprendono quello che decidono. [8] E in tutte queste attività si affannano tra fatiche e pericoli per la loro vita intera e godono pochissimo delle cose che hanno, perché cercano sempre di ottenere qualcosa e ritengono che solo il fare quello che si deve sia davvero una festa, e che sia una disgrazia la tranquillità inattiva piuttosto che l'attività faticosa. [9] Così se uno riassumendo dicesse che essi per natura sono fatti per non avere tranquillità loro stessi e per non permetterla agli altri uomini, direbbe una cosa giusta. [��, 1] Eppure con una tale città contro di voi, Lacedemoni, continuate a indugiare, e credete che la tranquillità non duri più a lungo per quegli uomini che nell'uso delle loro forze militari agiscono, sì, con giustizia, ma nel loro atteggiamento mostrano che se subiscono offese non le tollereranno: voi invece praticate la giustizia secondo il principio di non fare del male agli altri e di non ricevere danni voi stessi quando vi difendete. [2] Con difficoltà raggiungereste questo scopo se viveste vicino a una città simile alla vostra: ma, come vi abbiamo appena mostrato, i vostri modi sono antiquati in confronto ai loro. [3] È inevitabile che, come in un'attività tecnica, le novità si impongano sempre; per una città che resta tranquilla le usanze immutabili sono le migliori, ma per quelli che sono costretti a compiere molte imprese, sono anche necessarie molte innovazioni. È per questo che tra gli Ateniesi, grazie alla loro grande esperienza, ci sono state più innovazioni che presso di voi. [4] A questo punto dunque abbia termine la vostra lentezza: ora venite in soccorso degli altri, e soprattutto dei Potideati, come avete promesso, invadendo l'Attica, affinchè non abbandoniate uomini che sono vostri amici e consanguinei ai peggiori nemici, e non spingiate noi, gli altri popoli, nella disperazione a qualche altra alleanza. Non faremmo niente di ingiusto né agli occhi degli dei protettori dei giuramenti, nè agli occhi degli uomini che lo sapranno: infatti violano i trattati, non quelli che si rivolgono ad altri perché sono stati abbandonati, ma quelli che non vengono in soccorso di coloro ai quali sono stati legati con i giuramenti. [6] Ma se vorrete essere solleciti, rimarremo: non agiremmo secondo le leggi divine se cambiassimo, né troveremmo altri alleati più affini. [7] Perciò deliberate bene e cerecate di esercitare l’egemonia su un Peloponneso non meno grande di quello che i vostri padri vi hanno lasciato.” [...��, 1]Ora si trovava già da prima a Sparta un’ambasceria di Ateniesi venuti per altre ragioni[...].[2] Si recarono presso i Lacedemoni e dissero che volevano anch’essi parlare davanti alla loro assemblea[...] e parlarono in questo modo: [��, 1] [...] “ La nostra missione non ha avuto come scopo un dibattito con i vostri alleati, ma le questioni per cui la vostra città ci ha inviati, ma poiché ci accorgiamo che non poche grida di accusa sono state lanciate contro di noi, siamo venuti, non per replicare alle accuse delle città (poichè non siete voi i giudici dinanzi ai quali sia i nostri sia i loro discorsi si potrebbero fare), ma affinché non siate facilmente convinti dai vostri alleati e non prendiate una decisione meno buona; vogliamo anche mostrare, a proposito dell’opinione complessiva che si è formata nei nostri riguardi, che non senza ragione possediamo ciò che abbiamo ottenuto, e che la nostra città è degna di considerazione. [2] E degli avvenimenti molto antichi che bisogno c'è di parlare, avvenimenti di cui sono testimoni i racconti uditi piuttosto che la vista di quelli che li ascolterebbero? Ma delle guerre contro i Medi, e dei fatti che voi stessi conoscete, anche se sarà piuttosto fastidioso che noi li presentiamo sempre, è necessario parlare. Infatti quando agivamo, si correva un rischio per portare un beneficio, e del risultato concreto di questo voi aveste una parte: non ci dovrebbero essere del tutto vietate le parole che ricordano il beneficio, se esse ci possono giovare. [3] II nostro discorso lo faremo, non tanto per scusarci quanto per darvi una testimonianza e spiegarvi contro quale città entrerete in lotta se non deli-bererete bene. [4] Affermiamo che a Maratona fummo i soli ad affrontare il pericolo in prima linea contro il bar-baro, e che quando egli venne per la seconda volta, dato che non eravamo in grado di difenderci sulla terra, ci imbarcammo sulle navi con tutta la popolazione e prendemmo parte alla battaglia di Salamina: questo impedì al barbaro di devastare il Peloponneso attaccando una alla volta le città, che non avrebbero avuto la possibilità di venire in soccorso l'una dell'altra contro navi in gran numero. [5] E la prova più importante di questo la fornì lui stesso: sconfitto con le navi, pensò che le sue forze non fossero più all'altezza di quelle nemiche, e si ritirò con il grosso dell'esercito. [��, 1] Ora, mentre i fatti si svolsero in questo modo, e fu mostrato chiaramente che la salvezza dei Greci dipese dalle navi, a questo risultato contribuimmo i tre elementi più utili: il maggior numero di navi, il generale più intelligente e l'ardore più pronto: per quanto riguarda le navi, su quattrocento poco meno dei due terzi ; e Temistocle come comandante, il quale fu la causa principale del fatto che si combattè nello stretto (cosa che nel modo più evidente salvò la situazione), e proprio per questo voi stessi lo onoraste più di qualsiasi

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altro straniero che sia venuto da voi; [2] e mostrammo l'ardore di gran lunga più audace: noi che, quando nessuno veniva in nostro aiuto per via di terra, e le altre città fino a noi erano ormai schiave, ritenemmo doveroso lasciare la città e abbandonare i nostri beni alla distruzione e, anche allora, non tradire la causa degli alleati che rimanevano, né renderci inutili a loro disperdendoci, ma salire sulle navi e affrontare il pericolo senza adirarci perché non ci avevate aiutati prima. [3] Così affermiamo di non aver dato meno vantaggi a voi di quanti ne abbiamo ricevuti. Voi infatti veniste in nostro aiuto da città abitate e con lo scopo di continuare ad abitarle nel futuro, quando aveste paura più per voi che per noi (in ogni caso, quando eravamo ancora incolumi, non veniste ad aiutarci): noi invece partendo da una città che non esisteva più, e affrontando il pericolo per una città la cui possibilità di esistenza si basava su una debole speranza, contribuimmo, per quanto potemmo, a salvare voi oltre che a salvare noi stessi. [4] Ma se noi prima fossimo passati dalla parte del Medo, temendo, come fecero altri, per la nostra terra, o se più tardi non avessimo osato salire sulle navi, considerandoci rovinati, sarebbe stato per voi ormai completamente inutile combattere sul mare, dato che non avevate navi sufficienti, ma le cose si sarebbero svolte tranquillamente come il Medo voleva. [��, 1] Non meritiamo forse, Lacedemoni, sia per l'ardore di allora sia per l'intelligenza della nostra decisione, di non essere così eccessivamente invidiati per l'impero che posse-diamo? [2] II fatto è che questo stesso impero non lo ottenemmo con la forza, ma perché voi non foste disposti a perseverare nella guerra contro le forze rimanenti del barbaro, e perché da noi vennero gli alleati e ci chiesero di propria iniziativa di metterci alla loro guida. [3] E da questo stesso fatto fummo costretti da principio a esten-derlo fino a questo punto, soprattutto per la paura18, poi anche per l'onore, e più tardi anche per utilità. [4] E ormai, quando eravamo odiati dai più, e alcuni dopo essersi ribellati erano ormai sottomessi, e voi non ci eravate più amici come una volta, ma sospettati e in disaccordo con noi, non ci sembrava più sicuro correre rischi allentando il nostro controllo (perché le rivolte sarebbero certamente state a vostro favore). [5] Non incorre nell'odio di nessuno chiunque disponga bene i propri interessi quando corre i più grandi pericoli. >����1] Voi certo, Lacedemoni, siete egemoni delle città del Peloponneso dopo averle sistemate secondo il vostro vantaggio: e se allora restando in guerra fino alla fine foste stati odiati nell'esercizio dell'egemonia, come noi, sappiamo che voi non sareste stati meno severi verso i vostri alleati e sareste stati costretti, o a dominare con la forza o ad essere in pericolo voi stessi. [2] Così neanche noi abbiamo fatto niente di straordinario né alieno dalle abitudini dell'uomo, se abbiamo accettato un impero quando ci veniva offerto e non l'abbiamo abbandonato, obbedendo ai tre motivi più importanti: l'onore, la paura e l'utilità; né d'altra parte siamo stati i primi a comportarci in tale modo, ma è sempre stata la norma che il più debole sia sottomesso al più forte; nello stesso tempo pensiamo di essere degni dell'impero, e così sembrava a voi, finché calcolando il vostro interesse vi servite del pretesto della giustizia, che nessuno, quando ha avuto l'occasione di ottenere qualcosa con la forza, ha mai preferito ad essa per lasciarsi distogliere dall'aumentare i propri possedimenti. [3] E sono degni di lode coloro che, pur seguendo la natura umana in modo da dominare sugli altri, dimostrano più giustizia di quanto non lo consentirebbe la potenza che è a loro disposizione. [4] Ad ogni modo crediamo che altri, se ottenessero quello che abbiamo noi, mostrerebbero molto bene quanto siamo moderati: ma a noi, come risultato della nostra stessa moderazione, senza ragione è toccata cattiva fama più che lode. [��, 1] Infatti noi che eravamo svantaggiati nei processi che si svolgevano in base ad accordi coi nostri alleati, e che quindi abbiamo stabilito che questi processi si svolgessero nella nostra città secondo leggi imparziali19, abbiamo la fama di gente che ama i processi. [2] E nessuno di loro si domanda perché non fa questo rimprovero a coloro che hanno un impero da qualche altra parte e sono meno moderati di noi verso i loro sudditi : coloro ai quali è possibile usare la violenza non hanno nessun bisogno di servirsi di processi. [3] Loro invece, abituati ad avere rapporti con noi su un piede di parità, se subiscono qualche svantaggio, per piccolo che sia, contrariamente alla loro convinzione che ciò non dovrebbe accadere, a causa di una decisione o della forza che deriva dal nostro impero, non sono riconoscenti per non essere privati della maggior parte di quello che hanno, ma sono più infastiditi per ciò che manca loro che se fin dal principio avessimo messo da parte la legge e agito apertamente con prepotenza. In quel caso nemmeno loro si sarebbero opposti dicendo che il più debole non deve cedere al più forte. [4] Quando subiscono ingiustizia, a quanto pare, gli uomini si arrabbiano più di quando subiscono violenza: il primo caso sembra prepotenza in una situazione in cui le due parti sono uguali, il secondo sembra costrizione quando una delle due è più forte. [5] Ad ogni modo essi sopportavano un trattamento peggiore di questo da parte del Medo, mentre il nostro impero sembra essere severo, e a ragione: il presente è sempre duro per i sudditi. [6] Voi, in ogni caso, se ci rovesciaste e otteneste un impero, perdereste presto la simpatia che avete guadagnato a causa della paura che noi incutiamo, se è vero che anche oggi avrete sentimenti uguali a quelli che lasciaste intravedere allora, quando per poco tempo fruiste

18 Si intende probabilmente la paura dei Persiani. 19 Non sappiamo moltissimo degli accordi che regolavano questo tipo di processi, salvo che permettevano ad un cittadino che si trovasse in un’altra SROLV di ottenere giustizia.

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dell’egemonia contro il Medo20. Infatti le vostre usanze sono inconciliabili con quelle degli altri, e inoltre ognuno di voi che esce dalla sua città non segue né queste usanze né quelle del resto della Grecia. >����1] Prendete dunque la vostra decisione con lentezza su una questione che non è da considerarsi di poco conto, e non lasciatevi persuadere dalle opinioni e dalle accuse altrui per assumervi una fatica che sarà vostra. Considerate, prima di trovarvi in guerra, quanto è importante in essa il fattore dell'imprevedibile. [2] Prolungandosi, infatti, la guerra tende per lo più a seguire il corso della sorte, dalla quale siamo, noi e voi, egualmente lontani, e si corre il rischio ignorando in quale dei due modi la guerra finirà. [3] Quando gli uomini si avviano nei conflitti, si dedicano prima alle azioni, cosa che si dovrebbe fare dopo, e solo quando sono afflitti dalla sofferenza si rivolgono ai discorsi. [4] Ma noi non siamo ancora caduti in un tale errore, né vi vediamo caduti voi, e vi diciamo, finché entrambi possono ancora scegliere spontaneamente di prendere una decisione saggia, di non rompere il trattato e di non violare i giuramenti, ma di risolvere i disaccordi con l'arbitrato, secondo il patto; se no, rendendo testimoni gli dèi protettori dei giuramenti, cercheremo di respingere quelli che cominceranno la guerra, ovunque voi ci indicherete la via”. [��, 1] In tale modo parlarono gli Ateniesi. Quando i Lacedemoni ebbero ascoltato le lagnanze degli alleati contro gli Ateniesi e ciò che questi ultimi avevano detto, fecero andare via tutti e deliberarono tra di loro sulla situazione. [2] Le opinioni della maggioranza erano le stesse, cioè che gli Ateniesi fossero già colpevoli e che si doveva fare la guerra al più presto. Ma si fece avanti il loro re Archidamo, un uomo considerato intelligente e saggio, e parlò in questo modo: [��, 1] ”Io stesso ho già avuto esperienza di molte guerre, Lacedemoni, e tra di voi vedo che l'hanno quelli della mia età21��e così nessuno può desiderare la guerra per inesperienza, come potrebbe succedere alla maggioranza, né perché la consideri una cosa buona e sicura. [2] E trovereste che questa, su cui state ora discutendo, non sarebbe di pochissima importanza, se uno la esaminasse con prudenza. [3] Contro i Peloponnesiaci e i nostri vicini� le nostre forze militari sono pressoché uguali, e si può rapidamente attaccare ciascun obiettivo: ma contro uomini il cui territorio è lontano, e che inoltre hanno una grandissima esperienza del mare e sono ottimamente forniti di tutte le altre cose: ricchezza privata e pubblica, navi, cavalli, armi e una quantità di uomini che non si trova in nessun altro singolo territorio greco; e che per di più hanno anche molti alleati soggetti a tributo — come si può cominciare una guerra a cuor leggero contro questi uomini, e su che cosa si potrà fare affidamento per affrettarsi senza preparazione? [4] Sulle navi? Ma siamo inferiori; e se ci eserciteremo e ci prepareremo contro di loro, ci vorrà tempo. Allora sul denaro? Ma in questo siamo molto inferiori ancora, e non ne abbiamo nel tesoro pubblico, né possiamo contribuirne facilmente dai nostri fondi privati. [�O, 1] Forse qualcuno potrebbe essere fiducioso perché li superiamo nelle armi e nella quantità di truppe, così da poter fare incursioni nella loro terra e devastarla. [2] Ma loro hanno molta altra terra sotto il loro dominio, e importeranno per mare le cose di cui hanno bisogno. [3] Se d'altra parte tenteremo di provocare la ribellione dei loro alleati, anche questi bisognerà aiutarli con navi, poiché per la maggior parte sono isolani. [4] Che guerra allora sarà la nostra? Se non diventeremo superiori a loro con le navi, o se non sottrarremo loro le entrate con cui mantengono la flotta, subiremo danni nella maggior parte dei casi. [5] E in questa situazione neanche il fare la pace sarà più onorevole, soprattutto se sembrerà che siamo stati noi maggiormente responsabili dell'inizio dell'ostilità. [6] Non lasciamoci esaltare da quella speranza, la speranza che la guerra terminerà presto se devasteremo la loro terra. Temo piuttosto che la lasceremo ai nostri figli: talmente probabile è che gli Ateniesi, con il loro orgoglio, non saranno schiavi della loro terra né si lasceranno terrorizzare dalla guerra come se ne fossero inesperti. [��,1] Non già che io voglia chiedervi di essere insensibili e di lasciare che essi facciano del male ai nostri alleati, e di non smascherare i loro disegni: vi chiedo invece di non muovere ancora le armi, ma di inviare ambascerie ed esprimere le nostre lagnanze, senza rivelare né troppo apertamente intenzioni di guerra, né che li lasceremo agire indisturbati, e nel frattempo di fare anche i nostri propri preparativi, procurandoci alleati, sia Greci sia barbari, dovunque potremo ottenere un incremento di potenza in fatto di navi o di denaro (e non ci sarà un rimprovero per quanti, come noi, sono minacciati dagli Ateniesi, se si salveranno per essersi procurati l'aiuto, non solo di Greci, ma anche di barbari) ; e nello stesso tempo approntiamo i nostri propri mezzi. [2] E se presteranno ascolto alle nostre ambascerie, questa sarà la cosa migliore; altrimenti, dopo un intervallo di due o tre anni, li attaccheremo, se ci parrà opportuno, meglio protetti allora. [3] E forse allora, quando vedranno i nostri

20 Si fa riferimento al comportamento medizzante e tirannico di Pausania negli anni 478/ 77, quando, dopo avere conquistato Bisanzio con una flotta, a causa del suo atteggiamento arrogante e dispotico vide l’ammutinamento dei suoi sottoposti e fu accusato di tradimento (avrebbe offerto al Gran Re la propria fedeltà in cambio del matrimonio con una principessa persiana). Tornato a Sparta per subire il processo, evitò la condanna e si recò nuovamente a Bisanzio dove instaurò un dominio personale sinché nel 475 non venne scacciato da Cimone. Dopo una breve parentesi a Colone in Troade nel 470 era nuovamente a Sparta, dove fu assolto dalle accuse di filomedismo, ma sospettato di suscitare l’insurrezione degli Iloti si rifugiò come supplice presso il tempio della Atena Calcieca dove fu fatto morire di fame. 21 Archidamo era succeduto al nonno Leotichida nel 470, ossia 38 anni prima del discorso quivi tenuto (siamo nel 432), era dunque anziano.

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preparativi, e le nostre parole che indicheranno intenzioni corrispondenti ad essi, potrebbero cedere più facil-mente, se avranno la terra ancora intatta e delibereranno su beni presenti e non ancora distrutti. [4] Infatti non dovete pensare che la loro terra sia per voi altro che un ostaggio, e tanto più quanto essa è meglio coltivata: bisogna risparmiarla il più a lungo possibile, e non spingerli alla disperazione e renderli così più difficili da conquistare. [5] Infatti se impreparati e trascinati dalle lagnanze dei nostri alleati devasteremo la loro terra, badate che non facciamo sì che le cose si svolgano per il Peloponneso in modo più vergognoso e più difficile. [6] Le lagnanze, e delle città e degli individui, si possono placare: ma quando per interessi individuali si comincia tutti insieme una guerra, che non c'è modo di sapere come procederà, non è facile porre fine ad essa in modo onorevole. [��, 1] E che a nessuno sembri viltà il fatto che molti non attacchino rapidamente una sola città. [2] Anche loro hanno alleati in numero non inferiore, i quali contribuiscono denaro, e la guerra non è tanto questione di armi quanto di denaro speso, grazie al quale le armi sono utili, specialmente per continentali che affrontano gente di mare. [3] Per prima cosa, dunque, procuriamocelo, e non lasciamoci prima incitare dai discorsi dei nostri alleati; e dato che noi avremo la maggior parte della responsabilità dell'esito, sia esso in un senso, sia nell'altro, siamo anche noi che dobbiamo tranquillamente provvedervi un po'. [��, 1] E della lentezza e dell'esitazione, che essi più ci rimproverano, non vergognatevi. Affrettandovi finireste più lentamente, per il fatto di aver iniziato la guerra impreparati; e inoltre abitiamo da sempre una città libera e famosissima. E questa qualità equivale soprattutto a una saggezza consapevole di sé stessa. [2] Grazie ad essa siamo i soli a non diventare superbi nel successo e a cedere meno degli altri nelle disgrazie; e non ci lasciamo esaltare dal piacere che ci danno quelli che ci spingono con la lode verso i pericoli contro il nostro parere, e se qualcuno ci provoca con l'accusa, pur infastiditi non siamo per niente più propensi a lasciarci persuadere. [3] Siamo abili nella guerra e prudenti a causa del nostro senso dell'ordine: abbiamo la prima qualità, perché il senso dell'onore è la componente maggiore della saggezza, e nella vergogna del disonore ha gran parte il coraggio; e siamo prudenti perché educati con troppo poca cultura per disprezzare le leggi, e con una severità che ci rende troppo saggi per disobbedire ad esse; la nostra educazione fa sì che, non essendo troppo intelligenti in cose inutili, non critichiamo con belle parole i preparativi del nemico per poi nei fatti agire in modo non corrispondente: pensiamo invece che i piani degli altri siano pressoché equivalenti ai nostri, e che i casi che capitano non possono essere determinati con le parole. [4] Ci prepariamo sempre contro gli avversari nell'azione supponendo che essi facciano bene i loro piani; e non bisogna basare le nostre speranze sull'opinione che loro commetteranno errori, ma sulla convinzione che noi stessi provvediamo con sicurezza; e non bisogna pensare che un uomo sia molto diverso da un altro, ma che è più forte chi è educato con i sistemi più rigidi. [��, 1] Non abbandoniamo dunque queste usanze che ci hanno tramandato i nostri padri, e dalle quali abbiamo sempre avuto vantaggi, e non affrettiamoci a prendere, nella breve frazione di un giorno, una decisione che riguarderà molte persone, molto denaro, molte città e molta fama, ma prendiamola con calma. Questo è possibile a noi più che ad altri, grazie alla nostra forza. [2] E inviate agli Ateniesi un'ambasceria per la questione di Potidea, inviatene per le questioni in cui i nostri alleati dicono di aver subito ingiustizie, tanto più che gli Ateniesi sono pronti a sottoporsi a un giudizio: contro chi vi si sottopone non è lecito avanzare prima del tempo, come se fosse colpevole. Nello stesso tempo preparatevi per la guerra. Prenderete così la decisione migliore, e la più temibile per i nostri avversari”. [3] Archidamo parlò in questo modo. Si fece avanti per ultimo Stenelaida, che era allora uno degli efori, e parlò ai Lacedemoni così: [��, 1] “I lunghi discorsi degli Ateniesi non li capisco: hanno lodato molto sé stessi, ma non hanno in nessun punto replicato di non aver commesso ingiustizie contro i nostri alleati e contro il Peloponneso. Eppure, se si sono comportati bene contro i Medi allora, e male verso di noi ora, si meritano un doppio castigo, perché da buoni sono diventati cattivi. [2] Noi siamo gli stessi adesso come allora, e non tollereremo, se siamo saggi, che i nostri alleati siano vittime di ingiustizia, né tarderemo a difenderli: loro non tardano più a essere maltrattati. [3] Altri hanno molto denaro, molte navi e molti cavalli, ma noi abbiamo buoni alleati, che non bisogna abbandonare agli Ateniesi, né si devono decidere le questioni con giudizi e con parole, quando anche noi stessi non siamo danneggiati con la parola, ma bisogna aiutarli presto e con tutte le nostre forze. [4] E nessuno ci insegni che conviene riflettere quando abbiamo subito ingiustizie: conviene piuttosto a quelli che stanno per commettere ingiustizie riflettere per molto tempo. [5] Votate dunque, Lacedemoni, per la guerra, in modo degno di Sparta ; non lasciate che gli Ateniesi diventino più potenti, e non tradiamo gli alleati, ma con l'aiuto degli dèi avanziamo contro quelli che sono colpevoli “. [��, 1] Dopo aver parlato in questo modo, egli stesso, in qualità di eforo, sottopose la questione al voto nell'as-semblea dei Lacedemoni. [2] Poi (è da notare che essi votano per acclamazione, e non con il sassolino) disse che non sapeva decidere quale delle due acclamazioni fosse la più forte; ma volendo che essi mostrassero apertamente la loro opinione, per incitarli maggiormente a fare la guerra, disse : “ Chi di voi, Lacedemoni, pensa che il trattato sia stato violato e che gli Ateniesi siano nel torto, si alzi e vada da quella parte”, e indicò loro un luogo, “e chi non la pensa così vada dall'altra parte”. [3] Essi si alzarono e si divisero, e furono molto di più quelli che pensavano che il trattato fosse stato violato. [4] Poi chiamarono gli alleati e dissero che la loro opinione era

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che gli Ateniesi fossero colpevoli, ma che volevano convocare gli alleati tutti insieme e sottoporre al voto la questione, affinchè facessero la guerra, se così si decidesse, dopo una delibera comune. [5] Gli alleati tornarono in patria dopo aver ottenuto questo risultato, e così fecero gli ambasciatori degli Ateniesi quando ebbero svolto gli affari per i quali erano venuti. [6] Questa decisione dell'assemblea circa il fatto che la tregua era stata violata avvenne nel quattordicesimo anno dall'inizio della tregua di trent'anni conclusa dopo i fatti dell'Eubea22. [��] I Lacedemoni votarono che il trattato era stato violato e che si doveva fare la guerra, non tanto perché persuasi dai discorsi dei loro alleati, quanto perché temevano che gli Ateniesi avessero aumentato la loro potenza, poiché vedevano la maggior parte della Grecia già sottomessa a loro. �7XFLGLGH�, I, 128-134 [432-431 a. C.] Gli Ateniesi dunque scacciarono questi sacrileghi23, e li scacciò più tardi anche il lacedemone Cleomene, collaborando con una fazione degli Ateniesi che erano in lotta: esiliarono i vivi e dissotterrarono le ossa dei morti e le gettarono fuori della città. Ciononostante più tardi essi fecero ritorno, e la loro stirpe è tuttora nella città. [���, 1] Era questo il sacrilegio di cui i Lacedemoni intimavano agli Ateniesi di liberarsi: per prima cosa, secondo le apparenze, volevano difendere gli dèi, ma sapevano che Pericle, figlio di Santippe, era implicato nel sacrilegio da parte di sua madre24, e pensavano che una volta esiliato lui, avrebbero più facilmente ottenuto ciò che volevano dagli Ateniesi. [2] Tuttavia, più che sperare che egli subisse questa sorte, speravano di provocare nella città l'accusa che la guerra sarebbe avvenuta in parte anche a causa della sua sventura. [3] Era infatti l'uomo più potente dei suoi tempi e guidava lo stato; si opponeva in tutto ai Lacedemoni ed esortava gli Ateniesi a non cedere, ma li incitava alla guerra. [�����1] Anche gli Ateniesi, a loro volta, intimarono ai Lacedemoni di eliminare il sacrilegio del Tenaro. I Lacede-moni una volta avevano fatto andare via dal tempio di Posidone al Tenaro alcuni supplici iloti, e dopo averli condotti via li avevano uccisi: loro stessi credono che proprio per questo sia capitato loro il grande terremoto a Sparta. [2] Intimarono loro anche di liberarsi del sacrilegio di Atena Calcieca. Era avvenuto in questo modo. [3] Dopo che il lacedemone Pausania era stato richiamato dagli Spartiati per la prima volta dal suo comando nell'Ellesponto e, sottoposto a giudizio da loro, era stato assolto dall'accusa di aver commesso ingiustizie, egli non fu più inviato fuori della città con un incarico pubblico, ma lui stesso per conto proprio prese una trireme di Ermione senza l'autorizzazione dei Lacedemoni e arrivò nell'Ellesponto. A suo dire, era venuto per fare la guerra in collaborazione con i Greci, ma in realtà per svolgere le sue trame con il re, come aveva cominciato a fare prima, desiderando il dominio sulla Grecia. [4] II beneficio per cui si era reso creditore di riconoscenza da parte del re, e con cui aveva dato inizio a tutta la faccenda, fu questo. [5] Aveva catturato Bisanzio la prima volta che vi era stato, dopo la ritirata da Cipro (la occupavano i Medi con alcuni congiunti e parenti di sangue del re, che furono fatti prigionieri nella città in quell'occasione) : inviò al re queste persone che aveva catturato, di nascosto dagli altri alleati: secondo la sua versione gli erano scappati. [6] Faceva queste cose con l'aiuto di Gongilo di Eretria, al quale aveva affidato Bisanzio e i prigionieri. Inoltre inviò Gongilo dal re con una lettera : il messaggio che conteneva era questo (come si scoprì più tardi): [7] “Pausania, capo di Sparta, volendo farti un favore ti rimanda questi uomini che ha catturato in guerra: e mi propongo, se anche tu sei d'accordo, di sposare una tua figlia e di rendere soggetta a te Sparta e il resto della Grecia. Credo di essere in grado di fare queste cose consultandomi con te. Se dunque qualcuna di queste proposte è di tuo gradimento, invia alla costa un uomo di fiducia, tramite il quale condurremo le nostre trattative nel futuro”. Lo scritto conteneva solo queste indicazioni. [���, 1] Serse fu contento della lettera: inviò alla costa Artabazo, figlio di Farnace, con l'ordine di prendere possesso della satrapia Dascilite25 e di allontanare Megabate, che ne era il capo precedente ; gli consegnò anche una lettera in risposta, dicendogli di trasmetterla a Pausania, a Bisanzio, il più rapidamente possibile e di mostrargli il sigillo; e se Pausania gli avesse dato istruzioni riguardanti gli affari del re, doveva eseguirle come meglio potesse e il più fedelmente possibile. [2] Quello, quando fu arrivato, fece tutto come gli era stato ordinato e trasmise la lettera. [3] La risposta che essa portava era la seguente : “Così dice il re Serse a Pausania: per gli uomini che mi hai mandato sani e salvi da Bisanzio attraverso il mare, il tuo beneficio rimarrà registrato nella nostra casa per sempre, e sono contento delle tue proposte. Né la notte né il giorno ti trattengano in modo che tu trascuri di effettuare qualcuna delle cose che mi prometti. Che esse non siano impedite né da spese di oro o argento né dal numero di truppe, se da qualche parte la loro presenza sarà necessaria ; ma insieme ad Artabazo, uomo nobile, che ti ho mandato, tratta senza paura i miei e i tuoi affari nel modo che sarà il più bello e il migliore

22 Dopo la ribellione ad Atene dell’Eubea, nel 446, Ateniesi e Spartani stipularono, nel 445 a. C., una tregua trentennale. 23 Gli Alcmeonidi, che nella persona di Megacle, allora arconte eponimo, furono ritenuti responsabili dell’empio eccidio dei Ciloniani rifugiatisi nel tempio di Atena sull’Acropoli (all’incirca nella metà del VI a.C.). 24 Agariste madre di Clistene aveva infatti come zio, per parte di padre, Megacle. 25 Satrapia posta intorno alla città di Daskylion, lungo Ellesponto e Propontide.

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per tutti e due“. [���,1] Dopo aver ricevuto questa lettera, Pausania, che già prima godeva di molta considerazione presso i Greci grazie al suo comando delle truppe a Platea, si inorgoglì allora molto di più; e non poteva più vivere nel modo consueto, ma usciva da Bisanzio portando vesti persiane; mentre viaggiava attraverso la Tracia lo scortavano Medi ed Egizi; si faceva preparare la tavola secondo l'usanza persiana; e non era capace di controllare le sue intenzioni, ma attraverso fatti di poco conto dava indicazioni di ciò che in cuor suo intendeva fare, nel futuro, in maggior misura. [2] Era difficile avvicinarlo, ed egli era di umore così cattivo con tutti ugualmente, che nessuno gli si poteva accostare. Fu soprattutto per questo che gli alleati passarono dalla parte degli Ateniesi. [���,�1] I Lacedemoni, quando erano venuti a saperlo, lo avevano richiamato la prima volta proprio per queste ragioni; e dopo che fu partito la seconda volta con la nave di Ermione, senza che essi glielo ordinassero, e lo si vedeva comportarsi in questo modo, e dopo che fu assediato e scacciato con la forza da Bisanzio per opera degli Ateniesi26, e non fece ritorno a Sparta, ma si stabilì a Colone, nella Troade, e ai Lacedemoni arrivò la notizia che stava trattando con i barbari e che lo scopo del suo soggiorno non era buono, allora non esitarono più: gli efori inviarono un araldo con la scitala27 ordinando a Pausania di non staccarsi da lui; in caso contrario, gli Spartiati gli avrebbero dichiarato guerra. [2] Pausania, che voleva essere sospettato il meno possibile ed era sicuro che si sarebbe liberato dell'accusa con il denaro ritornò per la seconda volta a Sparta. E prima viene gettato in prigione dagli efori (è lecito agli efori fare ciò al re); poi, più tardi, dopo essersi adoperato con successo, ne uscì e si offrì di essere giudicato davanti a chiunque volesse esaminarlo su quei fatti. [�����1] Gli Spartiati non avevano nessuna prova evidente contro di lui - né l'avevano i suoi nemici né la città nel suo insieme - fidandosi della quale con certezza potessero punire un uomo della famiglia reale, e che in quel momento ricopriva una carica (era infatti tutore di Plistarco, figlio di Leonida, che era ancora giovane, e di cui era cugino): [2] ma con il suo comporta-mento contrario alle usanze e con la sua imitazione dei barbari faceva nascere molti sospetti che non volesse conformarsi alla situazione attuale; e gli Spartiati prendevano in esame le altre sue azioni, per vedere se nel suo modo di vita in qualche caso si fosse allontanato dalle usanze stabilite, e in particolare notarono che una volta aveva voluto far incidere, lui solo, per conto proprio, questo distico elegiaco sul tripode di Delfi, che i Greci avevano dedicato come primizia del bottino preso ai Medi: 'RSR�FKH�HEEH�GLVWUXWWR�OHVHUFLWR�GHL�0HGL��LO�FRPDQGDQWH�GHL�*UHFL��3DXVDQLD��D�)HER�RIIUu�TXHVWR�ULFRUGR. [3] A quell'epoca i Lacedemoni avevano subito cancellato dal tripode questo distico e inciso i nomi di tutte le città che, dopo aver insieme sconfitto il barbaro, avevano dedicato l’offerta; ma anche allora questa era stata considerata un’offesa da parte di Pausania, e poiché ora egli si trovava in tale situazione, divenne molto più evidente che il fatto fosse conforme alle sue attuali intenzioni.[4] E venivano informati che tramava anche intrighi con gli Iloti, ed era proprio così: prometteva loro la liberazione e i diritti di cittadinanza se avessero fatto un insurrezione insieme a lui lo avessero aiutato a mettere in atto tutto il suo piano. [5] Ma nemmeno allora, non credendo nemmeno ad alcuni Iloti delatori, ritennero di dover fare qualcosa di grave nei suoi riguardi: seguivano il metodo al quale erano abituati nei loro rapporti con i concittadini, cioè non avevano fretta di decidere un provvedimento gravissimo nei confronti di uno Spartiata senza prove indisputabili; finché, come si racconta, colui che avrebbe dovuto portare ad Artabazo l'ultima lettera per il re, un uomo di Argilio che una volta era stato un favorito di Pausania, e nel quale egli riponeva la massima fiducia, lo denuncia: gli era venuta paura in seguito alla riflessione che nessuno dei messaggeri precedenti era mai tornato indietro; contraffece il sigillo, affinchè, se si fosse sbagliato nella sua supposizione, o anche se Pausania chiedesse di fare qualche modifica, questi non se ne accorgesse, e aprì la lettera, in cui aveva sospettato che vi fosse aggiunta qualche istruzione di questo genere: e infatti trovò scritto che lo si doveva uccidere. [���] Allora, quando egli ebbe mostrato loro lo scritto, gli efori divennero più sicuri: ma volevano ancora con le proprie orecchie sentire parlare Pausania stesso ; e così, secondo un piano preordinato, l'uomo andò al Tenaro come supplice e si costruì una capanna divisa in due parti con una parete. Dentro di essa nascose alcuni degli efori, e quando Pausania andò da lui e gli chiese la ragione per cui era venuto come supplice, udirono tutto chiaramente: l'uomo si lamentava di ciò che era stato scritto da Pausania su di lui, e dichiarava tutte le altre cose, una per una: come non lo aveva mai in nessun modo esposto al pericolo nel corso delle sue missioni presso il re, e tuttavia riceveva l’onore speciale di essere ucciso nello stesso modo della maggior parte dei suoi servi: l'altro ammetteva queste stesse cose e lo pregava di non arrabbiarsi per la situazione presente, ma gli dava la garanzia di poter lasciare il tempio, e lo invitava a mettersi in viaggio al più presto e a non ostacolare le trattative. [���, 1] Quando ebbero udito tutto accuratamente, gli efori se ne andarono, per il

26 Guidati da Cimone, tra il 476 ed il 470. 27 Bastone utilizzato dagli efori per inviare messaggi crittografici ai comandanti, il termine passa ad indicare anche il messaggio stesso. Prima di compiere spedizioni in terre lontane, il re o il navarco veniva dotato di un bastone identico a quello in possesso degli efori. Avvolgendo su di esso una striscia di cuoio gli efori potevano poi scrivervi ordini per il comandante lontano, affidando poi al latore del messaggio la sola striscia, che risultava pertanto incomprensibile a chiunque fosse sprovvisto del bastone.

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momento, conoscendo ormai con certezza la situazione, si accinsero ad arrestarlo nella città. Si dice che mentre stava per essere arrestato per la strada, appena vide la faccia di uno degli efori che si avvicinava, capì per quale scopo veniva ; e quando un altro gli fece di nascosto un cenno con la testa, dandogli per benevolenza questa indicazione, egli andò di corsa al santuario della Calcieca e vi si rifugiò prima che potessero prenderlo. Il recinto sacro infatti era vicino. Entrò in una camera non grande che faceva parte del santuario, per non trovarsi a disagio all'aria aperta, e rimase lì fermo. [2] Gli efori per il momento erano rimasti indietro nell'inseguimento ; ma dopo levarono il tetto della camera, e quando si furono assicurati che egli era nell'interno e lo ebbero bloccato dentro, murarono le porte, lo assediarono, ed ebbero ragione di lui con la fame. [3] Quando stava per spirare così come era, nella camera, essi se ne accorsero e lo portarono fuori dal santuario mentre respirava ancora28: e portato fuori morì immediatamente. [4] Avevano intenzione di gettarlo nel Ceada, dove gettano i criminali: poi decisero di seppellirlo lì vicino. Ma il dio di Delfi più tardi dichiarò ai Lacedemoni tramite l'oracolo che bisognava trasferire la tomba al luogo dove era morto (e ora giace all'entrata del recinto sacro, come indicano le stele con un'iscrizione), e poiché ciò che avevano fatto era un sacrilegio, bisognava restituire alla Calcieca due corpi al posto di uno. Allora essi fecero fare due statue di bronzo e le dedicarono al posto di Pausania. 7XFLGLGH IV, 125-126. [Brasida nel 423, durante la lunga spedizione in area tracia e calcidica, compie con Perdicca una spedizione contro Arrabeo signore di Lincestide, per sdebitarsi dell’aiuto ricevuto nella conquista di Anfipoli.] [���,1] A questo punto, mentre i due erano in disaccordo, fu annunciato che per giunta gli Illiri erano passati dalla parte di Arrabeo, dopo aver tradito Perdicca: così ormai entrambi erano dell'opinione che ci si dovesse ritirare, a causa del loro timore di quegli uomini, che erano bellicosi; ma non fu deciso nulla su quando bisognasse partire, a causa del loro disaccordo, ed essendo sopraggiunta la notte, i Macedoni e la massa dei barbari furono improvvisamente colti dalla paura, come succede di solito ai grossi eserciti, cioè di essere presi dal panico per ragioni oscure; e credendo che stessero avanzando contro di loro truppe molte volte più numerose di quelle che erano venute, e che fossero praticamente già arrivate, si misero improvvisamente in fuga e si avviarono per tornare in patria; e quando Perdicca, che dapprima non se n'era accorto, capì ciò che stava accadendo, lo costrinsero ad andarsene prima ancora di vedere Brasida. (I due eserciti erano accampati a una gran distanza l'uno dall'altro). [2] All'alba, quando Brasida vide che i Macedoni erano partiti e che gli Illiri e Arrabeo stavano per attaccare, aveva intenzione anche lui di ritirarsi, dopo che ebbe riunito gli opliti in una formazione quadrata e posto in mezzo la massa di truppe leggere. [3] Schierò i più giovani perché facessero sortite nei punti in cui il nemico avesse attaccato le sue truppe, e lui stesso, con trecento uomini scelti, aveva intenzione di marciare in coda all'esercito, di opporsi ai primi tra gli avversari che lo avessero incalzato e di respingerli. [4] E prima che il nemico si avvicinasse, rivolse ai soldati, come poteva nella fretta, un'esortazione di questo genere: >�����1] “Se non sospettassi, Peloponnesiaci, che per il fatto di essere stati abbandonati e che quelli che vi attaccano sono barbari e numerosi, voi siate colti dallo sbigottimento, non vi offrirei, come faccio ora, parole d'istruzione insieme alla mia esortazione: ma ora, di fronte all'abbandono da parte dei nostri alleati e al gran numero degli avversari, con un breve cenno di ricordo e con una breve esortazione cercherò di persuadervi delle cose più importanti. [2] Vi si addice esser valorosi nelle azioni della guerra, non per la presenza di alleati in ogni occasione, ma a causa del vostro proprio valore; e non dovete aver paura di nessuna massa di altri uomini, poiché le costituzioni degli stati dai quali provenite non sono di questo genere: da voi si verifica che molti comandino a pochi, ma invece è una minoranza che comanda alla maggioranza, e non avete ottenuto il vostro potere con nessun altro mezzo che la superiorità nel combattere. [3] Quanto ai barbari che ora temete per inesperienza, dovete sapere, in base alle lotte che avete sostenuto in precedenza con quelli di loro che sono Macedoni, e in base alle mie congetture e a quel che so per esserne stato informato, che non saranno terribili. [4] Infatti quando nelle forze nemiche ci sono elementi che, pur essendo in realtà deboli, danno l'impressione di potenza, se vengono impartite informazioni veritiere al riguardo, esse ispirano maggior fiducia a coloro che si difendono: mentre invece se le truppe sono dotate di un vantaggio sicuro, chi non lo sapesse in precedenza le affronterebbe con maggior audacia. [5] Costoro fanno credere a quanti non li conoscono, che saranno terribili: sono spaventosi per il gran numero che si presenta agli occhi e irresistibili per il fragore delle loro grida, e il loro vano agitare delle armi dà qualche indicazione di minaccia. Ma non sono egualmente abili nell’affrontare in battaglia coloro che resistono a questi terrori. Non hanno uno schieramento regolare, e non si vergognerebbero quindi di abbandonare una posizione costretti dalla pressione nemica; e poiché la fuga e l'attacco comportano per loro un'eguale reputazione di condotta onorevole, esse impediscono anche che si metta alla prova il loro coraggio (e una battaglia in cui ciascuno agisce in modo indipendente è quella che più d'ogni altra può fornire a un combattente anche il pretesto per salvarsi con onore); ed essi considerano che dia maggior affidamento lo

28 Al fine di scongiurare la profanazione del luogo sacro.

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spaventarsi senza correre pericoli che non il venire alle mani: se non fosse così, si servirebbero del secondo metodo invece del primo. [6] Vedete chiaramente che il terrore che essi suscitano già prima della battaglia è in realtà di poco conto, ma v'incalza nella vista e nell'udito. Voi resisterete all'assalto di questo terrore e, quando sarà il momento, riprenderete la ritirata con ordine e mantenendo il vostro schieramento, e arriverete così più in fretta in un luogo sicuro; e nel futuro saprete che le masse di questo genere, contro quelli che sostengono il loro primo attacco sfoggiano il coraggio da lontano, con le minacce ed esitando a venir alle mani, mentre invece contro quelli che cedono a loro mostrano l'ardimento inseguendoli da vicino, pieni d'alacrità quando sono ormai al sicuro ». &UL]LD�(traduzioni di M. Timpanaro Cardini) &267,78=,21,��,1��9(56, Costituzione dei Lacedemoni 6 [2 B., 4 D.]. ATHEN. x 432 D. Fare il brindisi come usiamo noi nei nostri conviti non era costume degli Spartani, né bere alla salute l'uno dell'altro. Lo dice Crizia nelle (OHJLH� Ë�FRVWXPH�GL�6SDUWD��H�WUDGL]LRQDOH�RVVHUYDQ]D���EHUH�RJQXQR�LO�VXR�FDOLFH��FROPR�GL�YLQR��H�QRQ��FKLDPDQGR�XQR�D�QRPH��EHUH�LQ�VXR�RQRUH�H�SDVVDUJOL�LO�FDOLFH���Qp�YHUVR�GHVWUD�IDU�WXWWR�LO�JLUR�GHL�FRQYLWDWL���

���

�OD�PDQR�OLGLD��GL�RULJLQH�DVLDWLFD��LQYHQWz�L�ERFFDOL���H�LO�SRUJHUOL�YHUVR�GHVWUD�EULQGDQGR��H�LO�FKLDPDU�IRUWH�SHU�QRPH��TXHOOR�D�FXL�VL�YXRO�EULQGDUH���3RL�SHU�WDOL�OLEDJLRQL�VL�DEEDQGRQD�OD�OLQJXD�D�WXUSL�GHWWL��H�SL��ODQJXLGR�LO�FRUSR�GLYHQWD���H�VXOOR�VJXDUGR�WRUELGD�QHEELD�VL�DGGHQVD��/REOLR�GLVIj�QHO�FXRUH�OD�PHPRULD���YDFLOOD�OD�PHQWH���VL�GDQQR�L�VHUYL�D�FRUURWWR�FRVWXPH��VL�YD�LQFRQWUR�D�XQD�VSHVD�URYLQRVD���,QYHFH�L�JLRYDQL�/DFHGHPRQL�EHYRQR�VRO�WDQWR��FKH�EDVWL�D�YROJHU�OD�PHQWH�D�JDLH�VSHUDQ]H���H�OD�OLQJXD�D�EHQHYROH�SDUROH��H�D�PRGHUDWR�ULVR��7DO�PRGR�GL�EHUH�q�XWLOH�DO�FRUSR���H�DOOD�PHQWH�H�DOOD�ERUVD���EHQ�VL�DFFRUGD�DOORSUH�GL�9HQHUH��H�DO�VRQQR��FKH�q�LO�SRUWR�GHOOH�IDWLFKH��H�DQFKH�DOOD�6DOXWH���GHOOH�GHH�OD�SL��JUDGLWD�DL�PRUWDOL��HG�DQFKH�DOOD�7HPSHUDQ]D��FRPSDJQD�GHOOD�5HOLJLRQH��Poi continua: 9XRWDU��L�FDOLFL�ROWUH�PLVXUD��DO�PRPHQWR�SXz�UDOOHJUDUH��PD�GRSR�DIIOLJJH�SHU�WXWWD�OD�YLWD��,QYHFH�JOL�6SDUWDQL�KDQQR�XQ�UHJRODWR�UHJLPH�GL�YLWD���PRGHUDWL�QHO�PDQJLDUH�H�QHO�EHUH��TXDQWR�EDVWD�D�UHJJHUH�DO�SHQVLHUR�H�DOOD�IDWLFD��Qp�YL�q�ULVHUEDWR��XQ�JLRUQR�SHU�DYYLQD]]DUH�LO�FRUSR�FRQ�EHYDQGH�HFFHVVLYH��

7 [36 B., 5 D.]. SCHOL. EURIP. +LSS��264. È di uno dei sette sapienti la sentenza del « niente di troppo », che alcuni, come Crizia, attribuiscono a Chilone. DIOG. LAERT. 1, 41 >VHQ]D�LO�QRPH�GHOODXWRUH@�� Fu il saggio Chilone spartano che disse: niente di troppo : tutto, al punto giusto, è bello. 8 [5 B., 6 D.]. PLUTARCH. &LP��10. Crizia, che fu uno dei Trenta, nelle Elegie si augura: OD�ULFFKH]]D�GHJOL�6FRSDGL��OD�PDJQDQLPLWj�GL�&LPRQH��OH�YLWWRULH�GL�$UFHVLODR�OR�VSDUWDQR�

29 per la probabile integrazione cfr. B33

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9 [6B., 7D.]. STOB. )ORU��iii, 29, 11. Di Crizia: &UHD�SL��XRPLQL�GLQJHJQR�OR�VWXGLR��FKH�OD�QDWXUD� )5$00(17,�,1�3526$��&267,78=,21(�'(*/,��63$57$1,30 32 [23 Bach, 1 Müller )�+�*��n 68]. CLEM. ALEX. 6WURP��vi 9 [ii, 428, 12]. Avendo a sua volta Euripide detto che “ da un padre e una madre che facciano una vita disagiata nascono figli migliori “ [fr. 525,4-5], Crizia scrive: &RPLQFLR�SURSULR�GDOOD�QDVFLWD�GHOOXRPR��D�FKH�FRQGL]LRQH�HJOL�SXz�QDVFHUH�RWWLPDPHQWH�FRVWLWXLWR�H�UREXVWR�GL�FRUSR�"�VH�FKL�OR�JHQHUD�ID�GHOOD�JLQQDVWLFD��PDQJLD�FLEL�VRVWDQ]LRVL�H�VL�VRWWRSRQH�D�GXUH�IDWLFKH��H�VH�OD�PDGUH�GHO�QDVFLWXUR�ULQYLJRULVFH�LO�FRUSR�H�OR�HVHUFLWD�FRQ�OD�JLQQDVWLFD��

33 [24 B., 2 M.]. ATHEN. xi 463 E. Ogni città ha la sua particolare usanza riguardo al bere, come mostra Crizia nella &RVWLWX]LRQH�GHJOL�6SDUWDQL�con queste parole: /XRPR�GL�&KLR�H�GL�7DVR��EHYH�LQ�JUDQGL�ELFFKLHUL��SDVVDQGR�DO�YLFLQR�GL�GHVWUD��ODWWLFR�LQ�ELFFKLHUL�SLFFROL��DQFKHJOL�YHUVR�GHVWUD��LO�WHVVDOR�LQ�JUDQGL�WD]]H��SDVVDQGR�D�FKL�YXROH��3UHVVR�JOL�6SDUWDQL�RJQXQR�EHYH�QHO�VXR�SURSULR�ELFFKLHUH��H�LO�FRSSLHUH�JOL�YHUVD�TXDQWR�SXz�EHUH��

34 [25 B., 3 M.]. ATHEN. xi 483 B. Crizia nella &RVWLWX]LRQH�GHJOL�6SDUWDQL�scrive così: 2OWUH�D�FLz��IUXJDOLVVLPR�LO�UHJLPH��RWWLPH�OH�FDO]DWXUH�ODFRQLFKH��H�FRPRGLVVLPH�H�DGDWWLVVLPH�DOOXVR�OH�YHVWL��LO�FRWKRQ��WD]]D�ODFRQLFD��q�OD�SL��DGDWWD�LQ�JXHUUD��H�VL�SRUWD�EHQLVVLPR�QHOOR�]DLQR��H�SHUFKp�VLD�FRVu�FRPRGD���OR�VSLHJR�VXELWR���VSHVVR��LO�VROGDWR��q�QHOOD�QHFHVVLWj�GL�EHUH�DFTXD�QRQ�SXUD��RUD��DQ]LWXWWR�LQ�HVVD�QRQ�DSSDUH�WURSSR�FKLDUD�OD�TXDOLWj�GHOOD�EHYDQGD��LQ�VHFRQGR�OXRJR��VLFFRPH�LO�FRWKRQ�KD�GHOOH�VFDQQHOODWXUH�QHO�IRQGR��TXHO�FKH�YL�q�GLPSXUR�YL�UHVWD�GHQWUR�� PLUTARCH. /\F��9, 7 [26 B.]. 3HUFLz�DQFKH�GHL�PRELOL�SL�� LQ�XVR� H�QHFHVVDUL�� FRPH�SROWURQH� H� VHGLH� H� WDYROH�� FHUDQR�SUHVVR�JOL�6SDUWDQL�RWWLPH�IDEEULFKH��H�VRSUDWWXWWR�SUHJLDWR�LQ�JXHUUD�HUD�LO�FRWKRQ�ODFRQLFR��FRPH�DWWHVWD�&UL]LD��SHUFKp��GRYHQGRVL�DOOH�YROWH�EHUH�XQDFTXD� ULSXJQDQWH� DOOD� YLVWD�� LO� FRORUH� GHOOD� WD]]D� OD� GLVVLPXODYD�� H� LQVLHPH� FDFFLDQGRVL� QHOOH� VFDQQHOODWXUH� GHO� IRQGR� OD� SDUWH�OLPDFFLRVD�H�UHVWDQGRYL�DGHUHQWH��SL��SXUD�OD�EHYDQGD�VL�DFFRVWDYD�DOOD�ERFFD����POLL. vi 97. &RWKRQ��FRSSD�ODFRQLFD�� 35 [28 B., 5 M.]. ATHEN. xi 486 E. Crizia nella &RVWLWX]LRQH�GHJOL�6SDUWDQL� /HWWR�PLOHVLXUJR�H�VHGLD�PLOHVLXUJD��OHWWR�FKLXUJR�H�WDYROD�UHQHLXUJD

HARPOCR. V��Y��/XFLXUJKL��sembra ignorare il grammatico che questa formazione aggettivale non si trova da nomi propri di persona, ma invece da nomi di città e di popoli ; « letto milesiurgo » dice Crizia nella &RVWLWX]LRQH�GHJOL�6SDUWDQL�� 36 [29 B., 6 M.]. EUSTATH. LQ�2G��vii 376 p. 1601, 25. Era antico costume divertirsi così, e il gioco a palla, dicono, era originario di Sparta... nota poi ancora che era anche una specie di GDQ]D��quel tale gioco a palla, detto ' thermaustris ' >WHQDJOLH@��come spiega chi ha scritto: il thermaustris, danza ritmica a piè pari. Dice infatti Crizia: 6SLFFDWR� XQ� VDOWR� LQ� DOWR�� SULPD� GL� ULFDGHUH� D� WHUUD� IDFHYDQR� UDSLGL� PRYLPHQWL� ODWHUDOL� FRQ� OH� JDPEH�� LO� FKH� HUD� FKLDPDWR�WKHUPDXVWUL]]DUH. 37. LIBAN. RU��25, 63 n 567. Gli Spartani si credevano in diritto di uccidere gli iloti, e di essi dice Crizia che in Sparta sono del tutto schiavi anche i liberi. Vale a dire, come spiega lo stesso Crizia, che per diffidenza verso questi iloti, OR� VSDUWLDWD� LQ� WHPSR� GL� SDFH� WRJOLH� >ORUR@� OLPEUDFFLDWXUD� GHOOR� VFXGR��$O� FDPSR� SRL� QRQ� KD�PRGR� GL� IDUOR� SHUFKp� VSHVVR� RFFRUUH�VYHOWH]]D��H�DOORUD�VDJJLUD�VHPSUH�DUPDWR�GL�ODQFLD��SHU�HVVHUH�DOPHQR�LQ�TXHVWR�VXSHULRUH�DOOLORWD��VH�PDL�HJOL�WHQWL�XQD�ULYROWD�FRO�VROR� VFXGR�� )DEEULFDQR� DQFKH� GHOOH� VHUUDWXUH�� FKH� HVVL� ULWHQJRQR� SL�� SRWHQWL� GHOOH� LQVLGLH� FKH� WHPRQR� GD� SDUWH� GL� TXHOOi >FIU��$RISTOPH. 7KHVP��421].

30 Cfr. fr. 6-7. Quanto all’ammirazione di Crizia per lo Stato spartano cfr. XENOPH. +HOO�� II, 3, 34, dove Crizia dice a Teramene: «ottima invero appare la costituzione degli Spartani ». Lo stesso sentimento si rivela nei frammenti seguenti.

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Questa sarebbe la vita di quei che convivono con la paura e che non hanno il tempo di respirare per i terrori creati dai loro sospetti. Questa gente che la paura degli schiavi fa correre alle armi mentre banchetta o riposa o muove a qualche faccenda, come vuoi, o figlio di Callescro, che possa godere della vera libertà! Contro di essi insorsero gli schiavi con l'aiuto di Nettuno31, e dettero la prova che in circostanze simili avrebbero fatto altrettanto. Come dunque i loro re non erano affatto liberi, essendo dato agli efori di imprigionare il re e mandarlo a morte, così tutti quanti gli Spartiati, condividendo l'odio degli schiavi, hanno distrutto la libertà. 6HQRIRQWH, /D�FRVWLWX]LRQH�GHJOL�6SDUWDQL�(traduzione di G.F. Gianotti) I. Riflettendo un giorno sul fatto che Sparta, sebbene sia da annoverare tra le città più povere di popolazione, sia risultata prima in Grecia per potenza e per fama, mi chiedevo con meraviglia a quali condizioni si fosse prodotta tale situazione; ma la mia meraviglia cessò dopo che ebbi preso in esame i modi di comportamento degli Spartiati. Continuo però a provare ammirazione verso Licurgo, vale a dire verso l'autore delle leggi il cui rispetto è stato per gli Spartiati garanzia di prosperità, e nello stesso tempo lo giudico un saggio ai limiti della perfezione. Egli infatti è riuscito ad assicurare un primato di prospera felicità alla propria patria, non solo evitando di imitare le istituzioni delle altre città, ma addirittura adottando un sistema opposto a quello in vigore nella maggior parte di esse. Per procedere con ordine dall'inizio, cominciamo subito con le norme riguardanti la generazione dei figli. Altrove le giovani, che sono destinate a divenire madri e che ricevono, a quanto pare, l'educazione migliore, sono tenute ad un regime alimentare quant'è più possibile misurato e parco: quanto al vino, ad esempio, si prescrive loro di astenersene completamente oppure di berlo solo se diluito con acqua. Insomma, come la maggior parte degli artigiani vive una vita sedentaria, così secondo gli altri Greci le giovanette se ne devono stare tranquille in disparte a lavorare la lana. Ma se le si alleva in questa maniera, come è poi possibile aspettarsi che mettano al mondo bimbi sani e grossi? Dal canto suo, Licurgo ritenne che confezionare vesti era lavoro cui potevano atten-dere anche delle schiave, mentre era convinto che compito primo, delle donne libere fosse la procreazione di prole: così prescrisse in primo luogo esercizi fisici alle femmine non meno che ai maschi. In seguito istituì competizioni di corsa e di lotta per le donne, alla stessa stregua che per gli uomini, certo che da genitori entrambi robusti sarebbe nata prole ancor più vigorosa. Visto poi che altrove, una volta celebrata l'unione di una donna con un uomo, almeno per i primi tempi di solito i mariti non conoscevano misura nei rapporti con le proprie mogli, anche a questo comportamento ne contrappose uno opposto: stabilì infatti che fosse motivo di vergogna per il maschio essere scorto nell'atto di entrare nella stanza della sposa o nell'atto di uscirne. Con tale restrizione è inevitabile che aumenti il desiderio reciproco dei coniugi e che la prole, se concepita in questo modo, risulti più robusta che se i genitori fossero estenuati da reciproca sazietà. Inoltre Licurgo fece cessare l'abitudine di prender moglie in tempi lasciati alla discrezione dei singoli e prescrisse di contrarre matrimonio nell'età del pieno vigore fisico, in quanto riteneva anche questo aspetto utile ai fini della fecondità. Poteva comunque accadere che un uomo anziano avesse una sposa giovane: anche in questo caso Licurgo, visto che i mariti di tale età sono soliti custodire con eccesso di gelosia le proprie mogli, introdusse un comportamento antitetico: dispose infatti che il vecchio marito potesse ammettere nell’intimità della propria casa un uomo di cui ammirasse le doti fisiche e morali, allo scopo di ottenere figli per mezzo suo. Di contro, nel caso di un uomo che non intendesse avere ulteriori rapporti con la propria moglie ma che tuttavia provasse il desiderio di avere una bella prole, lo autorizzò a metter gli occhi su di una donna prolifica e nobile e a renderla madre dei propri figli, a patto di aver ottenuto il consenso del marito legittimo. Licurgo sancì molte concessioni di tal genere. Alle donne spartane infatti piace avere due case da dirigere, mentre gli uomini vogliono guadagnare ai propri figli nuovi fratelli, che siano partecipi della vita e della potenza della famiglia ma che non rivendichino diritti sulle sostanze familiari. Così dunque le norme di Licurgo a proposito della generazione dei figli sono nettamente opposte a quelle adottate dalle altre città: se così operando abbia reso gli uomini di Sparta superiori agli altri per statura e per forza, lo giudichi da sé chiunque non voglia sottrarsi a questo interrogativo. II Ora, terminata la rassegna delle norme relative alla procreazione, è mia intenzione esporre anche il sistema educativo, chiarendo le differenze tra quello spartano e quello praticato altrove. Nel resto della Grecia coloro che hanno la pretesa di impartire l'educazione migliore ai propri figli, non appena questi siano in grado di comprendere il senso delle parole, subito impongono loro come pedagoghi degli schiavi e subito dopo li mandano a scuola perché vi imparino le lettere, la musica e le arti della palestra. E come se non bastasse, infiacchiscono i piedi dei fanciulli con l'uso di calzari e ne rendono effeminato il corpo con cambi frequenti d'abito; per il cibo usano come unità di misura la capacità del loro ventre. Di contro Licurgo, invece di permettere che ciascuno in privato ai figli imponga degli schiavi come pedagoghi, affidò il compito di controllare i ragazzi� ad un cittadino tra quanti ricoprono le cariche più alte, col titolo di SDLGRQyPRV�� ossia “prefetto dei

31 Il riferimento è al terremoto spartano avvenuto nel 468 circa, cfr. Th. I, 100.

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fanciulli” a questo personaggio conferì l'autorità di tenere adunati i fanciulli, di sorvegliarli e di impartire severe punizioni in caso di cattiva condotta. Gli assegnò anche dei giovani armati di frusta per infliggere i castighi che si rendessero necessari, col risultato che a Sparta il tasso di rispetto e di obbedienza è molto alto. Invece di infiacchire i piedi con calzari, Licurgo prescrisse che li irrobustissero abituandosi ad andare scalzi: riteneva infatti che con questo allenamento avrebbero superato più agevolmente le salite e affrontato con maggior sicurezza discese ripide; pensava inoltre che nello slancio, nel salto e nella corsa sarebbe stato più veloce un giovanetto scalzo, a patto di aver i piedi opportunamente esercitati, di un giovanetto fornito di calzari. E in luogo di permettere che i loro corpi perdessero vigore per l'effeminatezza dell'abbigliamento, dispose che si abituassero ad un'unica veste per tutto l'anno, convinto che in tal modo sarebbero stati meglio preparati a far fronte sia al freddo sia al caldo. Quanto al cibo, prescrisse che ogni capodrappello per il pasto comune del suo gruppo ne disponesse in quantità tale da non provocare in nessuno appesantimento per sazietà, anzi da abituare tutti a razioni ridotte. Riteneva infatti che giovani così addestrati sarebbero stati in grado di affrontare meglio fatiche a stomaco vuoto in caso di bisogno, avrebbero saputo resistere più a lungo con la stessa razione, qualora ne avessero ricevuto ordine, e sentito meno la mancanza di cibi delicati, accettando dunque di buon grado ogni tipo di nutrimento: il tutto in prospettiva di una vita più sana; inoltre Licurgo era anche convinto che alla statura desse maggior incremento una dieta che mantenesse snelli i corpi rispetto ad una dieta che li appesantisse di cibo. Tuttavia, perché i giovani non sentissero troppo i morsi della fame, fece una concessione: non il permesso di prendere senza problemi ciò di cui si avvertisse la mancanza, ma la possibilità di rubare quanto basta per alleviare la fame. Nessuno ignora, credo, che la ragione per cui permise loro di procacciarsi il cibo con il furto non fu dettata dalla difficoltà di provvedere al loro sostentamento; anzi, è chiaro che chi si appresta al furto deve vegliare la notte e trascorrere il giorno tra astuzie e agguati, e inoltre deve sapersi assicurare un servizio di spie, se davvero ha l'intenzione di rubare qualcosa. Ed è altrettanto chiaro che se Licurgo ha proposto un simile programma educativo, l'ha fatto al fine di rendere i giovani più abili a procurarsi il necessario e più pronti alla lotta. Ma allora qualcuno potrebbe chiedere: perché mai, se considerava il furto una cosa positiva, volle che non si risparmiassero le nerbate per chi veniva colto sul fatto? La mia risposta è che in ogni prassi di insegnamento i maestri puniscono i cattivi discepoli; e pertanto gli Spartani castigano i giovani sorpresi sul fatto in quanto maldestri nel furto. Di più: Licurgo, dopo aver proposto come punto d'onore per i giovanetti il fatto di sottrarre il maggior numero di formaggi possibile dall'altare di Artemide Orthia, diede ordine che dei compagni prendessero a frustate i responsabili: la sua intenzione era di mostrare in tal modo che si può godere di fama duratura sopportando una sofferenza di breve durata32; col che si dimostra anche che nei casi in cui si richieda rapidità di esecuzione, a chi è indolente spetta il minimo di vantaggio e il massimo di disagio. Inoltre, perché i fanciulli non restassero privi di guida in caso di assenza del SDLGRQyPRV�� Licurgo concesse ad ogni cittadino che di volta in volta si trovasse presente l'autorità di ordinare loro quanto ritenesse positivo e di punirli qualora commettessero qualche sbaglio. In tal modo ottenne anche il risultato di rendere i fanciulli più rispettosi: in effetti, a Sparta, non v'è nulla che sia i fanciulli sia gli adulti rispettino tanto quanto i propri capi. Infine, perché i fanciulli non rimanessero senza guida neppure nel caso in cui nessun adulto fosse presente, stabilì che ogni schiera fosse sottoposta al comando del più pronto e attivo dei capidrappello: così a Sparta non v'è occasione in cui i fanciulli siano privi di qualcuno che li controlli. A questo punto credo di dover dire qualcosa anche a proposito dei rapporti amorosi con i fanciulli, perché anche questo argomento riguarda il sistema educativo. Ora, presso gli altri Greci può avvenire, come ad esempio in Beozia, che un adulto e un fanciullo convivano alla stregua di coppia fissa oppure, come in Elide, che si goda della giovinezza altrui mediante favori; di contro, ci sono città in cui è assolutamente vietato agli spasimanti di intrattenersi, anche solo a parole, con i fanciulli. Dal canto suo Licurgo impartì direttive opposte a tutti questi comportamenti: se un adulto, a condizione d'essere egli stesso uomo come si deve, veniva preso d'amore per l'animo di un fanciullo e si sforzava di stare in sua compagnia comportandosi da amico irreprensibile, in tal caso il legislatore dava la sua approvazione e considerava la relazione come una delle forme migliori di educazione; se invece risultava evidente che l'interesse per il fanciullo era di natura fìsica, lo considerò come la peggiore delle infamie, col risultato che a Sparta gli amanti si astengano da rapporti sessuali coi fanciulli amati non meno di quanto accade tra genitori e figli o tra fratelli e fratelli. Non mi meraviglio affatto che qualcuno non presti fede a queste mie parole, perché in molte città le leggi non si oppongono alle voglie sessuali indirizzate verso i fanciulli.

32 Il passo sembrava far riferimento, secondo alcuni studiosi, al rito della flagellazione dei giovinetti presso l’altare di Artemide Orthia, rito che sappiamo appartenere ad epoche più recenti e non agli usi attestati per l’età classica. Per questa ragione alcuni studiosi hanno pensato che il passo fosse da ritenere lacunoso o interpolato. Nilsson in un suo importante scritto del 1906 dedicato alle feste religiose greche ha invece interpretato il passaggio come un’allusione ad un aspro gioco condotto da due gruppi di fanciulli.

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Questa è dunque la descrizione dell'educazione spartana e di quella adottata nelle altre città della Grecia: quale dei due sistemi produca uomini più obbedienti, rispettosi e capaci di controllo, è giudizio ancora una volta demandato a chi voglia affrontare questi problemi. III. Quando i fanciulli diventano adolescenti, gli altri Greci cessano di sottoporli al controllo di pedagoghi e di maestri: nessuno esercita più nei loro confronti funzione di guida, ma si permette che si regolino da soli in forma autonoma. Anche in questa materia Licurgo introdusse invece comportamenti del tutto diversi. Consapevole infatti che a quell'età l'arroganza non conosce limiti, l'insolenza raggiunge il suo massimo e il desiderio dei piaceri si fa sentire con eccessiva insistenza, agli adolescenti impose un gran numero di occupazioni e fatiche, negando loro ogni possibilità di tempo libero. Stabilendo come castigo per chi si sottraesse a tali incombenze la privazione di ogni futuro privilegio, ottenne che non solo i rappresentanti dello stato ma anche parenti e amici si preoccupassero dei singoli onde evitare che, venendo meno ai propri doveri, gli adolescenti finissero per di-ventare del tutto indegni della città. Inoltre, volendo rafforzare in loro il senso di rispetto, prescrisse che per strada tenessero le mani sotto il mantello, camminassero in silenzio e�non volgessero lo sguardo in giro, ma lo tenessero fermo al suolo davanti ai loro passi. In forza di tali prescrizioni è risultato evidente che anche in merito di comportamenti riservati il sesso maschile è più forte del sesso femminile. Piuttosto della loro voce ti sarebbe più facile sentire la voce di immagini di pietra, piuttosto che il loro sguardo ti sarebbe più agevole far volgere lo sguardo di statue di bronzo: a vederli, li potresti giudicare anche più riservati delle stesse pupille dei loro occhi. Quando poi prendano parte al pasto in comune, ci si deve accontentare di udire da loro soltanto le risposte alle domande degli adulti. Questo è dunque il tenore dei provvedimenti che provano la preoccupazione di Licurgo nei confronti degli adolescenti. IV. È però nei confronti dei giovani che Licurgo ha dimostrato il più alto grado di sollecitudine, convinto che il bene della città dipendesse soprattutto da loro, a patto che diventassero persone come si deve secondo le sue direttive. Vedendo dunque che i popoli presso cui si è sviluppato al massimo lo spirito di emulazione sanno esibire i cori più degni di essere ascoltati e le gare atletiche più degne di essere ammirate, maturò la certezza che, se fosse riuscito ad indurre i giovani a competere in valore, essi avrebbero potuto raggiungere i più alti livelli di virtù. Ecco: voglio ora esporre come Licurgo sia riuscito ad introdurre le competizioni tra i giovani. Tra i giovani gli Efori ne scelgono tre nel pieno del vigore della loro età: a costoro compete il titolo di� KLSSDJUpWDL�� cioè “comandanti dei cavalieri” . Ciascuno di questi sceglie cento giovani, rendendo palesi le ragioni in base alle quali ne preferisce alcuni e ne scarta altri. La conseguenza è che gli esclusi da tale onore e privilegio si sentano in guerra sia con chi li ha scartati sia con chi è stato scelto al posto loro e si impegnino in un controllo serrato per scoprire ogni trasgressione di quanto considerano codice d'onore. Si stabilisce così il tipo di contesa più caro agli dèi e più utile alla città: grazie ad essa si fissano le norme di condotta del cittadino valoroso e ciascuna delle schiere di giovani, separatamente, si sforza di fare sempre il proprio meglio, in modo che ognuno sia in grado di difendere con tutte le proprie forze la città in caso di bisogno. Pertanto i giovani sono costretti anche a tenere alto il proprio vigore fisico, in quanto lo spirito di rivalità li spinge a scontri di pugilato in tutti i luoghi dove vengano a contatto tra loro; comunque ogni cittadino che si trovi ad assistere alla scena ha l'autorità di separare i contendenti. Se qualcuno rifiuta di obbedire all'ordine di separazione, il SDLGRQyPRV�lo conduce alla presenza degli Efori: costoro gli infliggono una punizione severa allo scopo di ribadire che mai un impulso passionale deve avere il sopravvento sull'obbedienza alle leggi. Per quanto concerne poi coloro che sono usciti dall'età della giovinezza e che ormai possono ricoprire le più alte cariche pubbliche, gli altri Greci, sebbene li esentino dall'obbligo di continuare a mantenersi fisicamente in forma, tuttavia richiedono che essi continuino a prestare il servizio militare. Dal canto suo, invece, Licurgo stabilì il principio che per uomini di tale età la caccia fosse la migliore delle occupazioni, a meno che non l’impedisse qualche affare pubblico, in modo che fossero in grado di sopportare le fatiche militari alla stessa stregua dei giovani. Terminata qui la rassegna pressoché completa delle norme che la legislazione di Licurgo ha fissato per ogni classe di età, mi propongo ora di descrivere quale genere di vita fosse previsto per tutti i cittadini. Trovatesi di fronte al fatto che gli Spartani, analogamente agli altri Greci, conducevano vita privata all'interno delle proprie dimore e giunto alla conclusione che tale abitudine offriva troppe occasioni di rilassatezza morale, Licurgo introdusse la norma dei pasti in comune sotto gli occhi di tutti, pensando così di ridurre al minimo le possibilità di trasgredire le prescrizioni. Egli prescrisse anche una quantità di cibo che non fosse né eccessiva né troppo scarsa per le esigenze dei commensali. Spesso però si aggiungono supplementi straordinari ricavati dalle prede della caccia e talora accade che al loro posto compaia anche del pane di frumento offerto dal contributo dei ricchi, col risultato che la mensa non è mai sprovvista di alimenti, fino al momento di alzarsi da tavola, senza d'altronde essere ricca di cibi stravaganti e raffinati. Quanto alle bevande, Licurgo abolì l'usanza delle bevute obbligatorie a turno che

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fanno vacillare il corpo e offuscano la mente, ma concesse a ciascuno di bere secondo la misura della propria sete, giudicando che questo fosse il modo di bere più inoffensivo e insieme più gradito. Com'è possibile dunque che durante tali pasti in comune qualcuno abbia l'occasione di rovinare se stesso o la propria famiglia per ghiotto-neria oppure per ubriachezza? Infatti, mentre nelle altre città per lo più ci si raduna tra coetanei e si concede assai poco spazio a comportamenti di modestia, a Sparta Licurgo volle la mescolanza delle classi di età, in modo che l'esperienza dei più anziani contribuisse per molti aspetti all'educazione dei più giovani. Sta di fatto che per consuetudine durante i pasti in comune si discorre di qualche bella impresa compiuta dai cittadini, con la conseguenza di non lasciare spazio all'insolenza e agli eccessi del vino, ai comportamenti indecenti e al turpiloquio. Il pasto fuori casa produce inoltre quest'altro effetto positivo: i commensali sono costretti a compiere il tragitto di ritorno alla propria dimora e pertanto devono badare a non barcollare sotto l'azione del vino, ben sapendo che non rimarranno nel luogo dove erano seduti a mensa e che dovranno sapersi dirigere nelle tenebre come in pieno giorno: infatti fino a quando si è tenuti agli obblighi militari non si ha il diritto di camminare a lume di torcia.�Constatato poi che il cibo rende di colorito sano, bene in carne e vigoroso chi si applica negli esercizi fisici, mentre fa apparire i pigri gonfi, laidi e deboli, Licurgo non trascurò questi effetti; anzi, notando che appare in buone condizioni fisiche l'individuo disposto spontaneamente e di buon grado ad affrontare le fatiche, prescrisse che il più anziano che si trovasse di volta in volta nel ginnasio avesse il compito di sorvegliare che gli esercizi richiesti a ciascuno fossero proporzionati alla quantità di cibo somministrato. A mio giudizio Licurgo non ha commesso errori neppure in queste prescrizioni. Non sarebbe dunque facile trovare uomini più sani e meglio dotati fisicamente degli Spartiati, in quanto i loro esercizi ginnici sviluppano allo stesso modo gambe, braccia e collo. VI Anche nelle misure di cui si parlerà ora ritorna l'opposizione tra il modello istituito da Licurgo e le istituzioni di solito adottate altrove. Nelle altre città, infatti, ciascuno si limita al controllo dei propri figli, dei propri servi e dei propri beni; di contro Licurgo, intenzionato a dare vita ad un sistema che garantisse ai cittadini reciproci benefici senza la possibilità di danni, stabilì che ogni cittadino avesse eguale autorità sui propri figli e su quelli altrui. Visto che tutti hanno l'autorità che compete ai padri nei confronti dei figli, è inevitabile che si eserciti sui fanciulli soggetti alla propria guida controllo pari a quello che si vorrebbe vedere esercitato sui propri figli. E qualora un figlio riferisca al proprio genitore di esser stato percosso da un altro cittadino, sarebbe sconveniente se il padre non impartisse un'altra scarica di percosse al figlio: tale è la fiducia reciproca degli Spartiati che nessuno possa impartire ordini sbagliati ai fanciulli. Licurgo ha inoltre consentito che in caso di bisogno si potesse ricorrere all'impiego di servi altrui. Dispose anche l'impiego comune dei cani da caccia secondo queste modalità: chi ne ha bisogno manda inviti per la partita di caccia e chi per impegni non può prendervi parte è ben lieto di inviare i cani. Analogo è l'uso dei cavalli: se qualcuno è in cattive condizioni di salute o ha bisogno di un mezzo di trasporto oppure vuole recarsi rapidamente in qualche luogo, prende il primo cavallo che trova e dopo essersene servito con ogni attenzione lo riporta dove l'ha trovato. Ecco ora un'altra usanza introdotta da Licurgo che non ha riscontro altrove: nel caso in cui ritardatari per la caccia fossero sprovvisti del vitto necessario perché non c'erano stati preparativi, prescrisse che chi ne aveva in abbondanza lasciasse a disposizione l'eccesso del proprio contributo di viveri e che i ritardatari, una volta rotti i sigilli e servitisi del necessario, lasciassero il resto nuovamente sotto sigillo. Grazie dunque a questo reciproco scambio di beni anche i proprietari di sostanze modeste godono di tutte le risorse del paese in caso di qualche necessità. VII Altre norme Licurgo introdusse a Sparta, anch'esse contrarie al comportamento del resto dei Greci. Si sa che nelle altre città tutti fanno a gara per arricchirsi quanto più è possibile: c'è chi si fa agricoltore e chi armatore di navi, c'è chi si fa mercante né mancano altri che vivono dei proventi di arti e mestieri. A Sparta invece Licurgo ha proibito agli uomini liberi di dedicarsi a qualsiasi occupazione che persegua fini di lucro e ha prescritto loro di considerare uniche attività degne del loro rango quelle che assicurano la libertà alle città. D'altra parte, perché mai si dovrebbe correre dietro alla ricchezza nella città dove Licurgo, fissando per tutti eguali contribuzioni al-l'insieme dei mezzi di sussistenza ed eguale forma di vita, ha demotivato chi aspirasse a farsi ricco in vista dei piaceri che ne derivano? E infatti neppure le necessità dell'abbigliamento costituiscono un buon motivo per cui ci si debba arricchire, in quanto per gli Spartani il miglior ornamento consiste nell'eccellenza fisica e non nel pregio degli abiti. Ancor meno è necessario accumulare sostanze per avere la possibilità di spenderle in favore di commilitoni e commensali, dal momento che le prescrizioni di Licurgo hanno assegnato titolo di maggior onore all'aiuto prestato ai compagni da parte di chi affronta fatiche fisiche rispetto ai vantaggi offerti da chi spende danaro, dimostrando che il primo è opera dell'animo, i secondi della ricchezza. Si aggiunga che Licurgo impedì l'acquisizione di ricchezze in forme illecite ricorrendo ai seguenti provvedimenti. In primo luogo fece coniare monete di tali dimensioni che neppure una somma di dieci mine sarebbe potuta entrare in una casa all'insaputa del padrone e dei servi: infatti una somma del genere avrebbe richiesto molto spazio per essere riposta e un carro

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per il trasporto. Inoltre, oro e argento sono oggetto di requisizione e chi ne sia trovato in possesso viene punito. Perché dunque ci si dovrebbe affannare dietro alla ricchezza in una città dove i guai procurati dal suo possesso sono maggiori dei piaceri derivanti dal suo uso? VIII Ma procediamo oltre! Che a Sparta l’obbedienza riservata ai magistrati e alle leggi raggiunga livelli d'eccezione, è cosa che tutti noi ben conosciamo. Quanto a me, sono del parere che Licurgo non abbia posto mano al progetto di un ordinamento così ben disciplinato senza essersi assicurato in precedenza il consenso dei personaggi più influenti della città. La mia convinzione si fonda su questi fatti: mentre nelle altre città i cittadini più potenti non vogliono dare l'impressione di temere i magistrati considerando tale atteggiamento come indegno di uomini liberi, a Sparta invece i cittadini più importanti mostrano il massimo rispetto nei confronti dei magistrati: ascrivono a motivo di gloria la propria sottomissione, così come sono orgogliosi di obbedire di corsa, e non semplicemente al passo, in caso di appello, in quanto ritengono che, se sono i primi a dare l'esempio di un'obbedienza assoluta, anche gli altri si comporteranno allo stesso modo; ed è appunto questo il risultato che si è ottenuto. È altresì probabile che questi stessi personaggi abbiano contribuito a stabilire il potere degli Efori, perché giunti alla conclusione che l’obbedienza è il bene più prezioso nella città, nell'esercito e in casa: devono infatti essersi convinti che quanto più grande era il potere attribuito a tale carica, tanto più drastica anche sarebbe stata la sua azione sui cittadini, incutendo il timore che genera obbedienza. Gli Efori hanno dunque il potere di infliggere ammende a chiunque e di esigerne immediata soddisfazione; hanno inoltre l'autorità necessaria per de-porre i magistrati in carica, imprigionarli e intentare loro processi capitali. Forti di poteri così estesi, non permettono a chi è stato scelto per ricoprire una carica pubblica di esercitare a suo piacimento il mandato annuale, come succede nelle altre città; anzi, alla stessa stregua dei tiranni e dei giudici delle gare atletiche, infliggono punizioni immediate a chi venga sorpreso a commettere qualche trasgressione. Tra i numerosi e opportuni accorgimenti escogitati da Licurgo per rafforzare nei cittadini la volontà di obbedire alle leggi, uno dei migliori mi pare il seguente: prima di rendere palese l'insieme delle sue leggi al popolo, in compagnia dei personaggi più importanti della città si recò all'oracolo di Delfi e chiese al dio se per Sparta era meglio e più auspicabile obbedire al sistema di leggi che egli aveva concepito. Poiché il dio rispose che era la cosa migliore sotto tutti gli aspetti, allora Licurgo promulgò le sue leggi, col risultato di rendere non soltanto illegale ma anche sacrilega la disobbedienza a norme confermate dall'oracolo pitico. IX Anche quest'altro effetto ottenuto da Licurgo è degno di ammirazione: aver inculcato nei cittadini la persuasione che la morte gloriosa sia preferibile ad una vita di infamia; e a ben vedere, si troverebbe che tra gli Spartani il numero di morti in battaglia è minore che tra quanti preferiscono evitare i pericoli. A dire il vero, in generale la salvezza tiene dietro al coraggio e non alla codardia, perché il coraggio è la dote più spontanea, gradita, ricca di risorse e sicura. Non v'è dubbio inoltre che al coraggio si accompagni anche la gloria: e infatti tutti vogliono combattere a fianco dei valorosi. A questo punto è giusto non passare sotto silenzio in qual modo Licurgo sia riuscito ad ottenere tali risultati. Il fatto sta nell'aver chiarito una volta per tutte che ai valorosi era assicurata felicità e ai vili miseria. Nelle altre città, in effetti, qualora un individuo abbia dato prova di viltà, ha come unica conseguenza la reputazione di essere un codardo, ma in piazza il codardo sta accanto all'uomo valoroso, si può sedere al suo fianco e nei ginnasi, se vuole, si può unire a lui nell'allenamento; a Sparta, invece, ogni cittadino proverebbe vergogna ad avere un codardo come compagno di mensa o di palestra. Spesso un individuo del genere, quando i giocatori di palla si dividono in schiere contrapposte, non trova assegnazione da nessuna parte; in occasione dei cori viene relegato nei posti peggiori; per strada deve cedere il passo agli altri, così come deve cedere il posto a sedere anche ai più giovani; deve mantenere in casa le giovanette della sua famiglia cui è tenuto a dar ragione della propria viltà e del loro mancato matrimonio; deve rassegnarsi a vedere il proprio focolare privo di sposa e a pagare la conseguente ammenda per il celibato; gli è fatto, divieto di andarsene in giro tutto lustro di unguenti, così come gli è proibito imitare i comportamenti delle persone irreprensibili, pena una scarica di percosse da parte di chi gli è superiore per valore e prestigio. Se sui codardi incombe il peso di tale disonore, non mi stupisce affatto che a Sparta si preferisca la morte ad un'esistenza tanto spregevole e ignobile. X Mi pare che Licurgo abbia svolto opera di buon legislatore anche in merito alla prescrizione di estendere fino agli anni della vecchiaia l'esercizio della virtù. Spostando infatti verso il limite estremo dell'esistenza il giudizio di ammissione alla Gerusia (Consiglio degli anziani), ha ottenuto il risultato che neppure in età avanzata gli Spartiati trascurino i principi di una vita retta e onorata. Degne di ammirazione sono anche le garanzie che Licurgo ha assicurato alla vecchiaia di uomini dalla vita virtuosa: infatti, affidando ai membri della Gerusia la competenza dei giudizi capitali, ha reso la vecchiaia più onorata dell'età del pieno vigore fisico. Ed è naturale che tra tutte le competizioni umane quella per diventare membri della Gerusia susciti il massimo di interesse e di impegno. Certo: belle sono anche le gare atletiche, ma riguardano unicamente la forza fisica; la gara per la Gerusia permette

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invece di giudicare l’eccellenza dell'animo. E quanto l'animo è superiore al corpo, tanto più degne di essere affrontate sono le competizioni di carattere spirituale rispetto a quelle di natura fisica. Inoltre, non è forse degno di grande ammirazione anche quest'altro provvedimento di Licurgo? Resosi conto che là dove la pratica della virtù è lasciata all'iniziativa dei singoli, questa non basta a promuovere il bene della patria, egli a Sparta impose come dovere pubblico l'esercizio collettivo di ogni forma di virtù. Pertanto, come tra i cittadini privati i virtuosi sono superiori a chi è indolente e pusillanime, così a buon diritto Sparta è superiore per virtù a tutte le altre città, in quanto è l'unica a mettere in pratica collettivamente il modello di una condotta nobile e virtuosa. E non è altrettanto positivo il fatto che Licurgo, mentre le altre città puniscono un individuo solo quando sia responsabile di danni ad altri, abbia posto pene non meno severe nel caso di un cittadino che apertamente trascuri di comportarsi nel miglior modo possibile? Pensava infatti, a quanto pare, che il danno arrecato da chi riduce in schiavitù oppure da chi pratica la sottrazione fraudolenta o il furto rimanga circoscritto alle vittime di tali crimini, ma che invece il comportamento dei malvagi e dei codardi costituisca un tradimento dell'intera comunità dei cittadini; mi pare pertanto che a buona ragione per costoro abbia previsto le pene più severe. Agli Spartiati Licurgo ha inoltre esteso l'obbligo inderogabile di praticare la virtù civica nel suo complesso. Infatti, a tutti coloro che applicano le disposizioni delle leggi ha riconosciuto diritti eguali nell'organizzazione della vita della città, senza tenere in nessun conto inferiorità di ordine fisico o di sostanze; se invece qualcuno per viltà veniva meno ai doveri previsti dalle norme, ne ha prescritto l'espulsione dal numero degli Eguali. Ora, che le leggi di Licurgo siano antichissime è cosa certa: si dice infatti che il personaggio sia vissuto al tempo degli Eraclidi; eppure, a di-spetto della loro antichità, per gli altri Greci conservano ancora tutti gli aspetti di una novità; e a suscitare sorpresa ancor maggiore sta il fatto che tutti tessono l'elogio di tali istituzioni, ma che nessuna città intenda imitarle. XI �Le istituzioni passate sin qui in rassegna costituiscono dunque vantaggi comuni sia in tempo di pace sia in tempo di guerra. Ma se qualcuno desidera conoscere gli aspetti per cui anche il dispositivo militare organizzato da Licurgo era superiore a quelli altrui, può trovare le informazioni desiderate in quanto segue. In primo luogo, spetta agli Efori il compito di indicare pubblicamente le classi di età che devono prestare il servizio militare, segnatamente per il contingente dei cavalieri, degli opliti e infine degli artieri. Il risultato è che di tutto quanto è utile ai cittadini nella vita civile i Lacedemoni sono ben provvisti anche nella vita militare; per quanto concerne tutti i materiali di cui l'esercito può aver bisogno collettivamente, l'ordine è di tenere pronte le forniture necessarie, parte sui carri e parte sugli animali da soma: in tal modo non può sfuggire se manca qualcosa. Per affrontare la prova delle armi questo è l'equipaggiamento individuale ideato da Licurgo: una veste lunga color rosso porpora, perché a suo giudizio è l'indumento più lontano dalla foggia degli abiti femminei e il più adatto alle esigenze della guerra, e uno scudo di bronzo, perché brilla subito e c'impiega moltissimo a sporcarsi. Ha inoltre accordato a quanti fossero ormai oltre l'età giovanile il permesso di lasciarsi crescere i capelli, convinto che così sarebbero apparsi di taglia maggiore e di aspetto più nobile e� terribile. Equipaggiati in tal modo i combattenti, Licurgo li suddivise in sei reggimenti di cavalieri e di opliti. Ogni reggimento di fanteria oplitica comprende un polemarco, quattro comandanti di ORFKRL�o compagnie, otto ufficiali responsabili ciascuno di cinquanta uomini, sedici ufficiali alla testa di altrettante HQRPRWLDL� ossia plotoni di soldati legati da reciproco giuramento. All'interno di questi reggimenti, in base a parole d'ordine convenute, i plotoni si dispongono talora su di una linea,talora su tre oppure su sei. È opinione largamente diffusa che la disposizione tattica dell'esercito spartano sia molto complicata, ma si tratta di opinione del tutto opposta alla realtà: infatti, nello schieramento laconico i capifila trasmettono gli ordini e ogni fila ha disposizioni esatte su ciò che deve eseguire. È così facile comprendere l'assetto di tale schieramento che chiunque abbia conoscenza della natura degli uomini non avrebbe possibilità di sbagliare: infatti c'è chi ha l'ordine di stare in testa e chi di seguire. Gli ordini di movimento e di evoluzione sono impartiti dal comandante di plotone con voce chiara a guisa di araldo e le falangi si dispongono ora in linea ora in colonna: in questi movimenti non c'è nulla che sia difficile da imparare. Certo: combattere egualmente a fianco di chiunque capiti, qualora lo schieramento sia stato sconvolto, è questa la tecnica difficile da imparare, eccezion fatta per i soldati educati alla scuola delle leggi di Licurgo. I Lacedemoni compiono con estrema disinvoltura anche quelle manovre che sembrano particolarmente disagevoli per la fanteria pesante: infatti, quando si muovono in colonna, i plotoni marciano in fila uno dietro l'altro; qualora però una falange nemica compaia loro di fronte mentre procedono incolonnati, ai comandanti di plotone si trasmette l'ordine di assumere lo schieramento frontale, disponendosi fianco a fianco da sinistra, e così si abbandona via via la formazione in colonna fino a schierarsi completamente in linea di battaglia di fronte al nemico. Se poi, una volta schierati in linea, il nemico faccia la sua comparsa alle spalle, allora ogni fila compie un'inversione di marcia allo scopo di tenere sempre i combattenti più validi schierati faccia a faccia al nemico. Il fatto che il posto riservato al comandante si trovi sulla sinistra dello schieramento non viene considerato uno svantaggio; in qualche caso, anzi, si rivela positivo. Se infatti i nemici tentassero una manovra aggirante, la minaccia di accerchiamento verrebbe dal

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fianco protetto dallo scudo e non da quello lasciato senza protezione. Se invece per qualche ragione sembri talora più utile che il comandante si trovi all'ala destra, fatti ruotare di fianco i soldati si da ordine allo schieramento di compiere un'inversione di marcia, finché il comandante non si venga a trovare a destra e il resto 49dell'unità a sinistra. Se poi il nemico compaia in ordine di battaglia sul fianco destro mentre marciano in co-lonna, non fanno altro che ordinare ad ogni compagnia di girarsi fronte ad esso come una trireme che punti la prua sull'avversario; e in tal caso la compagnia di coda viene a trovarsi sulla destra dello schieramento. Qualora invece il nemico porti il suo attacco sul fianco sinistro, per contrastarlo non devono fare altro che ordinare alle compagnie una conversione a sinistra in modo da far fronte ai combattenti avversati; e questa volta la compagnia di coda si viene a trovare schierata sulla sinistra del fronte. XII Voglio ora parlare anche del tipo di accampamento prescritto da Licurgo. Dato che gli angoli di un quadrilatero sono militarmente inutili, egli ha stabilito che l'accampamento avesse forma circolare, a meno che non sorgesse al sicuro sopra un'altura oppure ci fosse un muro o un fiume a proteggere le spalle. Ha altresì stabilito che durante il giorno stazionassero presso le armi delle sentinelle con la consegna di tenere d'occhio l'interno del campo: il loro compito, infatti, è di sorvegliare gli amici e non i nemici; a sorvegliare i nemici provvede un corpo di guardia di cavalieri, distribuiti in postazioni da cui si può vedere il più lontano possibile chiunque si avvicini. Durante la notte, invece, Licurgo prescrisse l'impiego degli Sciriti per i turni di guardia negli avamposti: oggi questo compito è sostenuto dai mercenari, qualora ce ne sia qualche contingente inquadrato nell'esercito. Quanto all'abitudine degli Spartiati di circolare sempre lancia alla mano, si deve sapere che è dettata dalle stesse ragioni per cui tengono lontani gli schiavi dalle armi; né ci si deve stupire che chi si apparta per ne-cessità fisiche non si allontani né dalle armi né dai compagni che il minimo indispensabile per non recarsi fastidio reciproco: tutte queste precauzioni, infatti, sono dettate da motivi di sicurezza. I campi sono spostati frequentemente di luogo, col duplice proposito di recare molestie ai nemici e vantaggi agli amici. Inoltre la legge prescrive a tutti i Lacedemoni la pratica regolare di esercizi ginnici per tutta la durata del servizio militare: grazie a tali esercizi essi acquistano maggiore consapevolezza della propria eccellenza e rivelano in modo più evidente degli altri un aspetto degno di uomini liberi. Ma né gli esercizi di marcia né la corsa devono superare i limiti dello spazio assegnato al reggimento, in modo che nessuno si venga a trovare troppo lontano dalle armi. Dopo gli esercizi il polemarco più anziano per mezzo degli araldi dà l'ordine di prendere posto a sedere - il che equivale ad una forma di ispezione -, poi di consumare il pasto e di dare subito il cambio alle sentinelle; e passano il successivo tempo libero tra conversazioni e riposo fino alla ripresa degli esercizi al tramonto. Al termine di tali esercizi gli araldi danno l'ordine del pasto serale; successivamente, dopo aver cantato le lodi degli dèi a cui hanno offerto sacrifici secondo il rito, ricevono l'ordine di riposare a fianco delle armi. Non ci si deve stupire che la mia esposizione sia così lunga e dettagliata, perché sarebbe assai difficile scoprire che i Lacedemoni abbiano trascurato in materia militare un solo particolare che sia degno di attenzione. XIII Intendo ora passare all'esame del potere e degli onori che Licurgo ha riservato al re in campo militare. In primo luogo, durante le campagne militari, è la città che provvede al mantenimento del re e del suo stato maggiore: sono compagni di tenda e di mensa del re i polemarchi, in modo che la costante presenza favorisca le migliori decisioni comuni in caso di necessità; compagni del re sono anche tre altri rappresentanti degli Eguali, incaricati di fornire tutti i servizi necessari allo scopo di liberare re e polemarchi da qualsiasi contrattempo che li distolga dalle operazioni di guerra. Ma per ricapitolare dall'inizio, voglio spiegare secondo quali procedure il re muova dalla città con l'esercito. Per prima cosa, ancora a Sparta, offre un sacrificio a Zeus Condottiero e alle divinità che gli sono associate; qualora i presagi di questo sacrificio siano favorevoli, il sacerdote « portatore di fuoco » prende il fuoco sacro dall'altare e apre la marcia fino ai confini della regione: qui il re celebra un altro sacrificio in onore di Zeus e di Atena. Solo quando da entrambe queste divinità giungano segni favorevoli il re oltrepassa la frontiera: guida la marcia il fuoco rituale sempre acceso che proviene da questi sacrifici, seguono animali d'ogni genere destinati a far da vittime sacrificali. Tutte le volte che celebra un sacrificio, il re da inizio al rito prima dell'alba con l'intenzione di assicurarsi la benevolenza divina in anticipo rispetto ai nemici. Al sacrificio presenziano i polemarchi, i comandanti di compagnia e gli ufficiali responsabili delle squadre di cinquanta uomini, i comandanti dei contingenti stranieri e quelli delle salmerie, infine chiunque lo desideri tra gli strateghi delle città alleate. Sono presenti anche due Efori, i quali non interferiscono assolutamente, a meno di una richiesta precisa del re: osservano però la condotta di ognuno e ottengono che tutti si comportino nel modo più decoroso e adeguato alle circostanze. Terminato il rito sacro, il re chiama tutti a rapporto e�impartisce gli ordini: davanti ad un tale spettacolo saresti portato a credere che tutti gli altri siano solo degli improvvisatori in materia militare e che i Lacedemoni, invece, siano gli unici ad essere dei veri professionisti dell'arte della guerra. Quando il re conduce l'esercito in marcia, se il nemico non è in vista, nessuno marcia davanti a lui ad eccezione degli Sciriti e degli esploratori a cavallo; quando invece si ritiene imminente la battaglia, il re prende la testa del primo

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reggimento e fa una conversione a destra, fino a trovarsi tra due reggimenti e due polemarchi. Le truppe che devono prendere posizione subito dopo sono al comando del più anziano tra i membri dello stato maggiore: questo è composto dagli Eguali che condividono tenda e pasti col re, da indovini e medici e suonatori di aulo, dai comandanti dell'esercito e, talvolta, da alcuni volontari. Non esiste dunque problema in merito a tutte le operazioni necessarie, perché nulla è stato lasciato al caso. Assai utili ed efficaci come stimolo ad affrontare la prova delle armi sono a mio giudizio anche queste altre prescrizioni escogitate da Licurgo. Quando ormai in vista del nemico si compie il sacrificio di una capretta, vuole l'usanza che tutti i suonatori di aulo presenti diano fiato agli strumenti e che nessuno dei guerrieri spartani sia a capo scoperto senza corona; in precedenza si è dato l'ordine che tutte le armi devono essere brillanti. È inoltre privilegio concesso ai giovani di scendere in campo tutti unti d'olio, sì da segnalarsi per aspetto splendente e aspirazione di gloria. Istruzioni ed esortazioni sono trasmesse dal comandante di plotone, perché ogni plotone non riesce a sentire completamente che gli ordini provenienti dal proprio comandante: spetta al polemarco il compito di controllare che tutto proceda a dovere. Quando sembra giunto il tempo di accamparsi, la decisione spetta al re, come pure l'indicazione del posto in cui dovrà sorgere l'accampamento; tra le prerogative del re non rientra invece l'invio di ambasciatori né in paesi alleati né in paesi ostili. Ogni iniziativa è sottoposta in prima istanza all'autorità del re. Se qualcuno si presenta per chiedere giustizia, il re lo indirizza al tribunale degli Ellanodici; se invece avanza richieste di danaro, lo indirizza ai tesorieri; infine, se si tratta della consegna di una preda, lo indirizza agli ufficiali addetti al bottino di guerra. Secondo questa prassi al re in guerra non spetta che questa duplice funzione: di sacerdote per quanto concerne gli dèi e di capo militare per quanto concerne gli uomini. �XIV Alla domanda se a mio giudizio le leggi di Licurgo rimangano a tutt'oggi inalterate, non me la sentirei di dare risposta affermativa con assoluta sicurezza! Io so bene, infatti, che in passato i Lacedemoni preferivano starsene tra loro in patria accontentandosi di moderate sostanze, piuttosto che esporsi al rischio di corruzione come governatori di città assoggettate e�come vittime di ingannevoli lusinghe. E ancora so che in passato gli Spartiati temevano di essere trovati in possesso di oro anche in quantità minima, mentre adesso c'è chi addirittura mena vanto di possederlo. So inoltre che in passato si espellevano gli stranieri e si vietava il soggiorno all'estero, allo scopo specifico di impedire che a contatto con gli stranieri i cittadini subissero l'influsso di esempi di condotta negativi; ora invece mi risulta che i personaggi all'apparenza più importanti di Sparta si sono dati un gran daffare per ambizione di aver sempre l'incarico di governatori in terra straniera. E ci fu un tempo in cui la preoccupazione maggiore era di essere degni del comando; adesso invece sono molto di più affaccendati ad esercitare l'egemonia che a mostrarsene degni. Accade pertanto che, mentre un tempo i Greci si rivolgevano a Sparta chiedendole di capeggiare le loro lotte contro chi ritenevano colpevole di qualche offesa, oggi molti si esortino a mutua alleanza per impedire il rinnovarsi della supremazia spartana. Non ci si deve dunque meravigliare che la loro condotta susciti questo coro di condanne, in quanto risulta evidente che non obbediscono più né al dio né alle leggi di Licurgo. XV Voglio però ancora descrivere la natura dei patti stabiliti da Licurgo tra il re e la città, perché la carica regia è l'unica ad aver conservato inalterate le prerogative originarie; quanto alle altre istituzioni, si può vedere che hanno subito alterazioni e che il processo di cambiamento è ancora oggi in corso. Licurgo ha stabilito che il re debba celebrare in nome della città tutti i sacrifici pubblici, nella sua qualità di discendente dalla divinità, e che debba guidare l'esercito dovunque la città lo destini. Al re ha accordato anche il diritto di prelievo di parte delle carni degli animali sacrificati, così come il diritto di scegliere in numerose città dei Perieci porzioni di terra che gli consentano di non essere privo di rendite convenienti pur senza eccedere in ricchezze. Allo scopo di estendere anche ai re i modi della vita comunitaria, Licurgo assegnò loro a spese pubbliche una tenda per i pasti in comune e concesse il privilegio di una duplice razione per pasto, non perché dovessero mangiare il doppio ma perché, se volevano rendere onore a qualcuno, avessero a disposizione di che farlo immediatamente. Ha inoltre concesso loro il diritto di scegliersi due compagni di mensa che ricevono l'appellativo di Pizii. Infine ha accordato loro il privilegio di prelevare da ogni figliata di scrofa un porcellino, in modo che un re non sia mai sprovvisto di vittime sacre qualora abbia bisogno di rivolgersi agli dèi per cercare consiglio. Nei pressi della loro dimora un laghetto fornisce acqua in abbondanza; che anche uno specchio d'acqua torni utile per più aspetti, ben sanno soprattutto coloro che non ne hanno a disposizione. Quando un re fa la sua comparsa tutti si alzano dai seggi, ad eccezione degli Efori che restano seduti sui loro scranni ufficiali. Ogni mese si rinnova sotto giuramento un patto reciproco tra gli Efori a nome della città e il re a titolo personale. Il re giura di regnare in modo conforme alle leggi stabilite della città, la quale a sua volta giura di mantenere inalterato il potere regale a patto che il re resti fedele ai propri giuramenti. Questi sono dunque gli onori che a Sparta si accordano al re in vita: essi non sono di molto superiori a quelli riservati ai privati cittadini, perché Licurgo non volle far nascere nei re atteggiamenti mentali da tiranni né generare nei cittadini invidia e odio verso il potere. Quanto agli onori riservati ad un re dopo la morte,

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l'intenzione delle leggi di Licurgo è di mostrare con essi che i re spartani ricevono onori eccezionali non come uomini ma come eroi. 3ODWRQH,�/HJJL� I, 629-635 (trad. A. Zadro). CLINIA Mi pare, ospite, che in qualche modo questo tuo discorso sia stato detto bene, e sono meravigliato che >D@�nelle nostre istituzioni e in quelle spartane queste cose non siano state curate attentamente. ATENIESE Può anche essere. Ma noi non dobbiamo affatto ora polemizzare duramente contro di loro, Cretesi e Spartani, noi dobbiamo proporre serenamente le domande, riconoscendo pienamente, sia a loro che a noi, il più caldo impegno in queste cose. Ora state attenti a quello ch'io vi dico: facciamo come se fosse qui davanti a noi Tirteo, quel Tirteo che è ateniese di sangue, ma è divenuto concittadino dei compatrioti di Megillo; egli più di tutti gli altri uomini forse ha avuto in cuore queste cose e diceva: ”Non vorrei >E@�ricordare, non potrei tener conto di un uomo (fr. 9,1 Diehl), nemmeno se di tutti gli uomini fosse il più ricco”, è Tirteo che parla, “nemmeno se possedesse molti beni”, e Tirteo li enumera quasi tutti qui, “ma in guerra non fosse sempre il migliore”. Questi versi in qualche luogo anche tu, Clinia, li avrai sentiti; perché questo qui credo sia già sazio di loro. MEGILLO Ma sì. CLIN. E anche da noi sono arrivati e li portarono da Sparta. ATEN. Bene, ora possiamo interrogarlo questo poeta, in qualche modo così, tutti insieme: “Tirteo, divino >F@�poeta; tu sei per noi sapiente e bravo, tu che hai voluto lodare, in modo distinto fra tutti, coloro che si distinguono in guerra — vedi che ormai io e questo e Clinia di Cnosso che è qui, tutti noi siamo in ciò tutti con te, almeno secondo le nostre intenzioni. Ma vogliamo con chiarezza sapere se stiamo o no parlando, tu e noi, delle stesse persone. Dicci allora: credi anche tu, come noi crediamo, con certezza, che ci siano due specie di guerra? O come credi?”>G@�Io penso che anche qualcuno molto inferiore a Tirteo risponderebbe con verità a questa domanda, e cioè che sono due le specie della guerra: una che tutti chiamiamo ' guerra civile ', la più dura di tutte le guerre, e lo abbiamo detto poco fa; l'altra diversa specie tutti credo la riconosceremo in quella lotta che noi facciamo contro i nemici esterni e stranieri, ed è molto meno dura della prima. CLIN. Chi non direbbe così ? ATEN. “E allora tu dicci quale dei due gruppi sono questi uomini e per quale delle due specie di guerra lodandoli tu li hai tanto esaltati, mentre gli altri hai umiliato col tuo biasimo. Pare che tu parli di coloro che hanno combattuto i nemici esterni; infatti hai detto nei tuoi versi che non ti sentivi assolutamente di sopportare >H@coloro che non osano guardare con occhi fermi «la strage insanguinata, e non amano incalzare da vicino i nemici»”. Così noi dopo di ciò potremmo dire: “Pare che tu dia la tua lode, Tirteo, proprio a quelli che meritano gloria nella guerra esterna contro lo straniero”. >D@�Converrebbe nel dir ciò anche lui ? CLIN. E perché no ? ATEN. Ma noi diciamo allora che, anche se questi sono uomini di valore, migliori e di molto migliori sono quelli che nella guerra più difficile si manifestano luminosamente come i più valorosi. E non ci manca testimone un poeta, Teognide, cittadino di Megara Sicula, che dice: «Un uomo fedele vale ricchezze d'oro e d'argento, Cirno, nel giorno grave della rivolta». Questo, diciamo noi, è di molto migliore di quell'altro, in una guerra più difficile, e di tanto direi che lo >E@�è, di quanto la giustizia, la saggia temperanza e l'intelligenza, tutte insieme queste virtù riunite in uno con il coraggio, sono migliori del solo coraggio preso per sé. Quando si accende la rivolta egli non potrebbe mai conservare la sua fedeltà e rimanere immune dal male senza essere partecipe della pienezza della virtù; ma fra i mercenari sono moltissimi quelli che, in quell'altra guerra di cui parla Tirteo, valorosamente resistendo e combattendo sanno voler morire, e di questi i più divengono insolenti ed ingiusti e prepotenti e quasi i più insensati di tutti gli uomini, pochissimi esclusi. Quale è la conclusione ora di questo >H@�nostro discorso e che cosa esso si è proposto di dimo-strare nel dire quello che ha detto ? È ormai chiaro che è questo: ogni legislatore, chiunque esso sia, anche se sia poco il suo valore, ma più di ogni altro questo di qui che a noi procede da Zeus, dovrà sempre dare le sue leggi a nient'altro mai guardando se non alla più alta virtù, che è (dice Teognide) proprio l'unione fedele nei momenti più difficili e che si potrebbe chiamare anche la perfezione del giusto. E quella che tanto celebrò Tirteo, è virtù bella e di opportuna lode onorata dal poeta, eppure non può essere>G@ esattamente classificata che al quarto posto nel numero e nel valore. CLIN. Così, ospite, noi respingiamo il nostro legislatore cretese fra quelli che sono più lontani dal giusto. ATEN. No, non noi lui, mio caro, ma noi noi stessi se crediamo che Licurgo e Minosse abbiano create tutte le istituzioni di Sparta e quelle qui di Creta a nient'altro mirando più che alla guerra. CLIN. E che dovevamo dirne allora ? ATEN. Dovevate dire, credo, quello che è vero e giusto dire >H@�quando si parla di uno stato fatto da un dio, che cioè il dio tracciò le sue leggi e non guardò ad un solo aspetto della virtù e proprio al meno nobile; della virtù aveva come sua meta il dio l'attuazione piena ed unitaria e dovevate analizzare le leggi di quelli secondo ciascuno degli aspetti della legge e non quegli aspetti che prepongono alle loro ricerche di legge i legislatori degli uomini d'ora. Ora ciascuno prepone e ricerca quella disposizione di legge di cui gli accade d'aver bisogno, questa soltanto, e cosi uno si interessa dell'eredità e degli eredi, un altro delle offese ricevute e gli altri analogamente per altre innumerevoli simili cose. Noi diciamo invece che la ricerca delle leggi propria >D@�di coloro che la sanno fare è come quella che noi ora abbiamo iniziato. E sono pienamente soddisfatto di come tu ne hai cominciato a trattare interpretandole: è giusto cominciare dalla virtù e dire che in sua funzione il legislatore ha

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legiferato, ma quando tu hai detto ch’egli ha operato ordinando tutte le cose ad uno solo degli aspetti di quella, e proprio al meno importante; allora tu non mi hai più dato prova di ragionare bene e il successivo mio discorso ora l'ho fatto per questo. Vuoi ora che io ti dica come desideravo che tu facessi la tua analisi ? Come >E@�desideravo sentirti parlare ? CLIN. Non aspetto che questo. ATEN. “Ospite”, dovevi dire tu, “le leggi dei Cretesi non sono senza ragione ritenute fra le migliori di tutti i Greci. Esse sono giuste e rendono felici quelli che vivono in loro. Esse sanno dare ogni bene, e i beni sono di due specie: quelli umani e quelli divini. Dai divini dipendono gli umani, >H@�e se uno stato possiede quelli, che sono maggiori, anche questi, i minori, possiede, e se no, né quelli né questi. Fra i beni umani vien prima la salute e poi la bellezza e terza la forza di correre e di fare tutti gli altri movimenti del corpo, e quarto l'essere ricchi d'una ricchezza non cieca, ma di vista acuta, quando cioè si accompagni all'intelligenza. Dei beni divini invece il primo, e la guida, è l'intelligenza, e poi, secondo, la saggia e temperante condizione dell'anima, che si accompagni all'intelletto; procedente da questi fusi insieme con il coraggio, terza è la giustizia,>G@�quarto il coraggio. Tutte queste cose divine sono state già ordinate e preposte ai beni mortali nella natura delle cose. Il legislatore deve far osservare quest'ordine nella stessa misura. E dopo di ciò ogni altra norma ch'egli impartirà ai suoi cittadini dovrà annunciarla in funzione di questi valori, e dire che, ovunque, i valori umani si ordinano ai divini e questi all'intelletto, che tutti lì governa: su questa base egli dovrà aver cura nella sua legislazione delle nozze in cui fra loro si uniscono quei cittadini e quindi della >H@�generazione e dell'educazione dei figli, dei maschi e delle femmine, quando sono giovani via via verso l'età sempre più matura fino alla vecchiaia, premiandoli mediante onori e ricompense e punendoli con giustizia. E per ognuna delle altre loro relazioni egli dovrà sorvegliarli e studiarli, nel dolore e nel piacere e nel desiderio, nelle cure di tutti i >D@ loro amori, e rimproverarli con giustizia e dar loro lode ed incitamento con lo stesso mezzo della legge. Nell'ira così come nella paura, per quanti sono i turbamenti che sconvolgono l'anima nella sfortuna, e per quante volte se ne può sfuggire nella buona ventura, per quante sono le passioni che investono gli uomini nelle malattie e nelle guerre, nella miseria ed anche nella salute, nella pace e nella ricchezza, in tutte queste circostanze bisogna inse-gnare e definire nell'atteggiamento di ognuno ciò che è�>E@�buono e ciò che non lo è. Ancora è necessario che il legislatore sorvegli i modi del comprare e dello spendere da parte dei cittadini e osservi le società e le rescissioni che tutti essi faranno fra loro volontariamente o no, e il modo secondo cui agiscono in ciascuno di questi rapporti, e dove con giustizia e dove no, e attribuirà onorevoli ricompense per chi è docile alle leggi e stabilirà punizioni ben definite per chi è indocile a loro, finché, giunto al >H@�componimento di tutta la costituzione, veda anche per i morti quale debba essere la sepoltura conveniente a ciascuno e quali onori gli si debbano rendere. Visto ciò dovrà il legislatore porre custodi a tutte queste disposizioni, alcuni agenti per forza d'intelletto, altri per opinione vera, affinchè sia l'intelletto a coordinare tutto ciò e a mostrarlo dipendente dalla saggia temperanza e dalla giustizia, non dalla ricchezza e dall'amor degli onori”. Così, ospiti, io >G@�avrei desiderato, e ancora desidero, che voi, una per una enumerandole, diceste come proprio tutte queste cose ineriscano alla legislazione che si racconta mandata da Zeus e a quella di Apollo Pitico, legislazioni che Minosse e Licurgo hanno stabilite, e come in quella struttura che hanno ottenuto, tali cose si rivelano a chi delle leggi è perito per arte approfondita o per costume acquisito e a noi altri non si fanno vedere. CLIN. E come, ospite, dobbiamo ora continuare ? ATEN. Occorre, mi pare, che noi riprendiamo da principio ad esporre come abbiamo cominciato, dapprima le pratiche del coraggio, e poi se non vi spiacerà vedremo via via un >H@�altro aspetto della virtù e poi ancora un altro ; e il modo in cui avremo trattato la prima parte dell'indagine sul coraggio proviamo a tenerlo come un modello e gli altri aspetti della virtù torniamo a trattarli su questo schema e rendiamo questa conversazione un piacevole aiuto alla strada che dobbiamo percorrere ancora. Io vi dico che così, dopo aver visto tutti gli aspetti della virtù, giungeremo a dimostrare, se piacerà al dio, che ciò che ora abbiamo studiato, le leggi, hanno il loro proprio fine nell'attuazione >D@�integrale della virtù. MEG. Dici bene, e prova prima di tutto ad esaminare questo lodatore di Zeus che abbiamo qui con noi. ATEN. Mi proverò, e lo farò insieme per te e per me stesso; è uno solo e comune il nostro discorso. Dunque dite: dobbiamo affermare che i “pasti in comune” e i “ginnasi” sono stati trovati dal legislatore in vista della guerra ? MEG. Sì. ATEN. E dopo queste due istituzioni quale aggiunse come terza e poi quale come quarta ? Così infatti bisognerà forse enumerare anche quando parleremo delle altre parti della virtù, parti o come si devono comunque chiamare, purché si indichi chiaramente ciò di cui si >E@�parla. MEG. Terza fu inventata la caccia; io e qualsiasi Spartano lo potremmo dire. ATEN. E poi quarto e quinto ? Se è possibile proviamo a dire anche questo. MEG. Proverò a dire anche ciò che sta al quarto posto. È un importante esercizio questo che avviene da noi e riguarda il sopportare il dolore dei corpi nei combattimenti dei lottatori fra loro, con le mani, e così pure quando si fanno certe scorrerie sempre a prezzo di molte ferite. E c'è ancora la NU\SWqLD, così si chiama, che è straordinariamente>F@ ricca di prove pesanti al fine di farci duri al dolore ed alla fatica; e ancora andare scalzi d'inverno e dormire sulla terra e provvedere a se stessi senza bisogno di schiavi, vagando di giorno e di notte per tutta la nostra campagna. E ancora abbiamo terribili esercizi di forza >G@durante le Gimnopedie, in cui facciamo ginnastica nudi lottando contro la sferza del sole ed altri moltissimi ancora, quanti, direi, uno non potrebbe mai finire di enumerarli ogni volta che li passi in

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rassegna. ATEN. Bene, ospite di Sparta, dici bene. E allora come definiremo il coraggio ? Diremo che è semplice lotta soltanto alla paura e al dolore oppure anche resistenza ai desideri e ai piaceri e a quelle terribili carezze degli adulatori che rendono come cera morbida il cuore di quelli anche che amano credersi santi ? MEG. Credo che sia così, che sia appunto saper combattere tutto questo. ATEN. E se ben ricordiamo tutti i discorsi di prima, lui diceva che qualche stato o individuo può cedere a se stesso: è così, vero, ospite di Cnosso ? CLIN. >H@�E così. ATEN. E allora pensate voi che noi si debba dir vile solo chi cade sotto il dolore, o anche colui che cede�ai piaceri ? MEG. Ma di più mi pare chi cede ai piaceri, e tutti comunque diciamo che chi è dominato dai piaceri cede a se stesso più vergognosamente di quanto non faccia >D@ chi è sconfitto dall'angoscia che è nel suo cuore. ATEN. Ora il legislatore di Zeus e quello di Apollo non hanno nelle loro leggi lasciato il coraggio come un essere monco, capace solo di rivolgersi contro la sinistra violenza, ma impotente sotto la destra carezza dei piaceri e delle adulazioni ; non è vero? Non l'hanno concepito integro in relazione ad ambedue questi aspetti? CLIN. Ad ambedue, io ritengo. ATEN. Diciamo di nuovo allora quali sono nei vostri due stati le consuetudini che, facendovi sperimentare i piaceri, non sfuggendoli, così come le altre non fuggivano i dolori ma invece vi conducevano in mezzo ad essi, vi costringono e vi persuadono con onorevoli ricompense a dominarli ? >E@�Nelle vostre leggi dove è stato disposto nello stesso modo e allo stesso fine anche per quanto riguarda i piaceri ? Dite che cosa c'è da voi che può rendere ugualmente forti nella pena e nel godimento gli stessi uomini, e vincitori di ciò che è giusto si sia vincitori e mai inferiori ai nemici che vi stanno più vicini e sono i più temibili. MEG. Ebbene, ospite, come avevo da dirvi molte nostre leggi che combattono i dolori, nello stesso modo non potrei fare facilmente altrettanto per il piacere, non avrei grandi e chiare >F@�distinzioni da fare; forse mi sarebbe facile farlo per piccole cose. CLIN. Nemmeno io potrei similmente indicarvi con chiarezza qualcosa di siffatto, nella legislazione cretese. ATEN. Ospiti miei, non c'è niente di strano. Ora però, se qualcuno di noi farà qualche critica alle leggi patrie di ciascuno degli altri per amore di vedere la verità e ciò che è il meglio, tolleriamolo serenamente l'uno dagli altri e senza ostilità. CLIN. Hai parlato giustamente, ospite ateniese, e bisogna obbedire. ATEN. Credi, Clinia, a uomini >G@�della nostra età non conviene polemizzare. CLIN. No, di certo. ATEN. Se dunque la costituzione spartana o quella cretese vengono biasimate giustamente o no, questo sarebbe proprio di un altro discorso; su ciò che dice il volgo io potrei parlare forse più di voi due. E pur se da voi le leggi sono ben fatte, una delle leggi più belle è non per-mettere a nessuno dei giovani di cercare quali cose in queste leggi sono buone e quali no, anzi essi devono affermare tutti >H@�insieme con una sola voce e una sola bocca che tutte sono buone perché le hanno date gli dèi e, se qualcuno dice diversamente, non è loro permesso di ascoltarlo per nulla. Se invece chi è già anziano fra voi ha qualcosa da proporre e da dire sulle vostre leggi, deve fare questi discorsi davanti ai magistrati e ai suoi coetanei e nessuno dei giovani sia presente. CLIN. Tu dici perfettamente, >D@�ospite, e come un indovino, ormai così lontano dal nostro legislatore e all'oscuro dei suoi pensieri di allora, ora, mi pare, tu hai ben congetturato ed hai parlato in modo del tutto aderente al vero. ATEN. E allora se è così, ora godiamo dell'assenza dei giovani e anzi per la nostra vecchiaia non ci è concesso dal legislatore di 'parlare da soli a soli su questi argomenti, senza che nessun limite sia violato ? CLIN. È così, e dunque tu non tralasciare nulla che sia da biasimare, nelle nostre costituzioni; non è disonore riconoscere che qualche cosa è stata fatta poco bene, anzi accade che ciò sia salutare a chi accoglie i consigli con benevolenza >E@�e non se ne adira. ATEN. Bene; non farò in nessun modo critiche alle leggi prima di averle esaminate per quanto potrò attentamente: io piuttosto proporrò dei problemi. A voi soli dei Greci e dei barbari, quelli almeno di cui ci è giunta notizia, a voi soli il legislatore ha prescritto di astenervi dai piaceri più intensi e dalle feste, di non trame mai godimento, ma ritenne, l'abbiamo detto poco fa, che, se qualcuno >H@�fin da bambino fugge del tutto il timore e il dolore, quando lo prende poi la necessità del male e del terrore e dell'angoscia, questi non può allora che cedere di fronte a quelli esercitati a reagire, e ne è fatto schiavo. Bisognava, credo, che nello stesso modo quel legislatore pensasse anche per il piacere, confessando egli a se stesso che nella sua patria, se fin da giovani i cittadini siano rimasti inesperti dei più intensi piaceri e non esercitati a resistere loro e così a non lasciarsi costringere a nulla di turpe, essi dovranno subire >G@�per la dolce seduzione del piacere la stessa sorte di chi soggiace alla paura; e che poi in altro modo e più vergognosamente essi saranno schiavi di quelli che sanno sopportare quei piaceri e li hanno fatti cosa propria, uomini qualche volta assolutamente disonesti, e così avranno la loro anima da una parte libera, ma da un'altra serva e non saranno mai degni d’essere chiamati, senza riserva, liberi cittadini e coraggiosi. $ULVWRWHOH, 3ROLWLFD II, 1270 a- 1271 b (Trad. R. Laurenti). La materia porta ad affrontare un altro problema e una diversa ricerca: alcuni si chiedono se è dannoso o giovevole a mutare le leggi tradizionali, quando ce ne siano altre migliori. Non è facile accogliere senz'altro l'opinione menzionata, se proprio non giova mutarle, ed è possibile d'altronde che taluni pongano l'abrogazione delle leggi o della costituzione nell'interesse comune. E siccome ne abbiamo fatto cenno, è meglio dilungarsi sull'argomento con qualche altra piccola spiegazione. È, come abbiamo detto, una questione discussa, e

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potrebbe sembrare preferibile il mutamento. Certo, in tutti gli altri campi del sapere questo ha portato dei benefici, ad es. nella medicina, quando s'è mossa per una strada opposta a quella tradizionale, nella ginnastica e, in generale, in tutte le altre arti e attività; di conseguenza, poiché si deve ritenere la politica una di queste, è evidente che, anche nei suoi riguardi, si dovranno avere di necessità gli stessi risultati. Si potrebbe dire che se ne ha un indizio nei fatti stessi, giacché le leggi antiche erano troppo semplici e incivili. Così gli Elleni si ricoprivano di ferro e compravano le mogli l'uno dall'altro, e quante altre delle antiche prescrizioni sopravvivono in qualche luogo sono proprio assurde, ad es. la legge relativa all'assassinio in Cuma, per la quale se chi accusa un altro di assassinio produce un certo numero di testimoni tra i suoi parenti, l'accusato è ritenuto reo di assassinio. D'altronde, in generale, tutti cercano non quel che è tradizionale, ma quel che è bene ed è naturale che i primi uomini, siano essi nati dalla terra o scampati a qualche cataclisma, fossero simili a uomini qualunque, a insensati, come si dice pure a proposito dei Figli della Terra, sicché sarebbe strano attenersi alle loro decisioni. Inoltre neppure le leggi scritte è bene lasciare inalterate: in realtà, come riguardo alle altre arti, così anche riguardo alla struttura d'uno stato è impossibile sia determinata minutamente in ogni dettaglio: è necessario determinarla in generale, mentre le azioni si portano sempre al particolare. Da tali considerazioni risulta chiaro che bisogna cambiare talune leggi e in determinate occasioni, ma per chi esamina la cosa da un altro punto di vista, il cambiamento sembra richiedere molta cautela. Infatti, quando l’utile è minimo, siccome è male abituare gli uomini ad abrogare le leggi alla leggera, è chiaro che bisogna tollerare qualche sbaglio e dei legislatori e dei magistrati, perché l'utile apportato dal mutamento non pareggerà il danno recato dall'abitudine di disobbedire ai magistrati. È falso pure l'esempio tratto dalle arti perché non è lo stesso cambiare un'arte e una legge: la legge non ha altra forma per farsi obbedire che il costume e questo non si realizza se non in un lungo lasso di tempo, sicché passare con leggerezza dalle leggi vigenti ad altre nuove leggi significa indebolire la forza della legge. Ma se ci sono poi leggi da essere mutate, devono essere mutate tutte e in ogni costituzione o no ? E da uno qualunque o da determinate persone ? Perché la differenza è grande. Quindi lasciamo per ora l'esame di tali problemi: li si tratterà in altra occasione. Intorno alla costituzione dei Lacedemoni e dei Cretesi, come più o meno intorno alle altre costituzioni, ci sono due questioni da esaminare: la prima, se qualche disposizione sia buona o non buona in rapporto all'ordinamento migliore, la seconda, se c'è qualche elemento realmente in opposizione con il principio fondamentale e l'indole della costituzione, com'essi la presentano. Che lo stato bene amministrato debba possedere la libertà dalle incombenze necessarie è concordemente ammesso: in che modo però debba possederla, non è facile intenderlo. In Tessaglia i Penesti si ribellarono spesso ai Tessali e parimenti gli iloti ai Laconi (essi vivono come spiando il momento della disgrazia dei loro padroni): ai Cretesi invece non è mai accaduto alcunché di simile. Il motivo è forse che gli stati limitrofi, pur essendo in lotta tra loro, non si allearono coi ribelli, nessuno mai, giacché non ne ricavavano utilità, avendo essi pure dei perieci, mentre ai Laconi, tutti i popoli limitrofi erano ostili, Argivi, Messeni, Arcadi. E anche Tessali dapprincipio si rivoltarono perché erano sempre in lotta coi confinanti, Achei, Perrebi, Magnesi. Ora, lasciando altre considerazioni, pare davvero un affare laborioso per la cura che richiede cercare il modo di trattare uomini ridotti in tale condizione: se si lasciano un po' liberi diventano insolenti ed esigono gli stessi diritti dei padroni: se vivono tra strettezze, complottano e odiano. È chiaro, quindi, che quelli che stanno in tali rapporti cogli iloti, non hanno trovato la soluzione migliore. Inoltre la libertà concessa alle donne è dannosa sia all'intento della costituzione sia alla felicità dello stato. Perché, come l'uomo e la donna sono parte della famiglia, è chiaro che anche lo stato si deve ritenere diviso press'a poco in due gruppi separati, quello degli uomini e quello delle donne: di conseguenza, in tutte le costituzioni nelle quali la posizione delle donne è mal definita, bisogna credere che la metà dello stato sia senza leggi. Il che è accaduto precisamente a Sparta: il legislatore, volendo che tutto lo stato fosse forte, perseguì apertamente le sue intenzioni in rapporto agli uomini, le trascurò invece con le donne: per ciò esse vivono senza freno, rotte a ogni dissolutezza e in lussuria. È ine-vitabile, quindi, che in tale costituzione sia in onore il denaro, tanto più se gli uomini si trovano ad essere dominati dalle donne, come succede nella maggior parte delle razze militari e guerriere, a eccezione dei Celti e di quanti altri popoli hanno apertamente in onore le relazioni tra uomini. E non senza ragione pare che l'autore primo dei miti abbia congiunto Ares ad Afrodite, perché si vede che tutti gli uomini di tal sorta sono attratti dall'intimità cogli uomini o con le donne. Per questo il fenomeno si è verificato presso i Laconi e durante il tempo della loro egemonia molti affari furono sbrigati dalle donne. Del resto che differenza c’è fra un governo di donne o di magistrati succubi di donne ? Il risultato è lo stesso. E poiché l'arroganza non serve a nessuna delle occupazioni quotidiane, ma, se mai, alla guerra, anche sotto questo aspettofurono quanto mai funeste. E lo dimostrarono in occasione dell'invasione dei Tebani, perché non resero alcun servigio utile, come negli altri stati, e causarono più confusione dei nemici. Ma c'erano fin dal principio buone ragioni per cui la licenza femminile dovesse farsi strada tra i Laconi: essi rimanevano molto tempo fuori della patria per le loro spedizioni, impegnati in guerra contro gli Argivi, e in seguito contro gli Arcadi e i Messeni: tornata la pace, si mettevano a disposizione del legislatore, dato il loro tenore di vita militaresco (che comporta molte forme di virtù): quanto alle donne

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dicono sì che Licurgo tentò di ridurle sotto le leggi, ma siccome riluttavano, desistette dal proposito. Son queste, dunque, le cause di quel che è accaduto, e quindi evidentemente anche di questo difetto della costituzione. Ma noi non cerchiamo ciò che deve essere scusato o che non lo deve, bensì ciò che è giusto e non giusto nella costituzione. Gli errori commessi riguardo alla condizione delle donne, com'è stato già affermato, non solo par che producano una certa disarmonia nella costituzione in se stessa, ma concorrano anche, in qualche modo, a fomentare avidità di denaro. Oltre quel che s'è detto adesso, si potrebbero muovere delle critiche all’ineguale distribuzione della proprietà: capita in effetti che alcuni di essi abbiano una fortuna eccessivamente grande, altri, invece, estremamente piccola, per cui la terra è venuta in mano a pochi. E anche ciò è dovuto alle cattive disposizioni di legge, perché il legislatore ha condannato come biasimevole comprare o vendere la terra originaria, e ha fatto bene, ma ha concesso a chi lo voleva la facoltà di darla o di lasciarla: ora, in questa maniera o in quella, il risultato è necessariamente lo stesso. E così appartengono alle donne quasi i due quinti di tutto il territorio, perche è elevato il numero delle ereditiere, sia perché danno grandi doti. Invece, era meglio che le doti fossero proibite o contenute entro limiti esigui e modesti: ora ognuno può dare la figlia ereditiera a chi vuole e se muore intestato, colui che per sua volontà ne prende il posto, la dà a chi gli piace. Quindi, pur potendo la terra nutrire 1500 cavalieri e 30.000 opliti, essi non raggiunsero il numero di mille. Risulta dunque chiaro, proprio dai fatti, che le disposizioni in questa materia sono difettose; in realtà lo stato non ha resistito a una sola disfatta, ma è andato distrutto per mancanza di uomini. Si dice che sotto i primi re concedevano la cittadinanza sicché non c'era allora mancanza di uomini, pur essendo essi impegnati per molto tempo in guerra, e si afferma che allora gli Spartiati arrivarono perfino a 10.000: comunque vero o no tutto questo, è meglio che lo stato abbia abbondanza di uomini, grazie a una proprietà ben distribuita. Anche la legge sulla procreazione dei figli è contraria a correggere tale ineguaglianza: in realtà, il legislatore, volendo accrescere il più possibile il numero degli Spartiati, spinge i cittadini a mettere al mondo quanti più figli possano: infatti, hanno una legge per cui il padre di tre figli è esente dal servizio militare, quello di quattro è dispensato da qualsiasi tassa. Eppure è chiaro che, se tanti nascono e la terra resta divisa come s'è detto, molti di necessità cadranno in miseria. D'altra parte ci sono difetti anche riguardo all’eforato. Questa magistratura ha assoluto controllo sui loro affari più importanti e gli efori sono tratti esclusivamente dal popolo; per ciò spesso giungono alla carica uomini del tutto poveri, i quali, per le loro ristrettezze, sono venali. E lo dimostrarono spesso, in passato, e adesso, nella faccenda di Andro, in cui taluni, corrotti dal denaro, distrussero, per quanto poterono, lo stato intero. Inoltre, poiché la carica è molto alta e uguale alla tirannide, i re stessi furono spinti a corteggiarli, sicché, anche da questo punto di vista, la costituzione ne ebbe a soffrire, e da aristocratica che era diventò democratica. Questa carica, è vero, tiene unito il regime –e, in realtà, il popolo sta quieto perché accede alla suprema magistratura, di modo che, sia opera del legislatore o della sorte, l’eforato è d'utilità alla situazione. Infatti se un regime intende conservarsi, è necessario che tutte le parti dello stato vogliano che esista e si mantenga nelle stesse condizioni: e di questa idea sono i re, per gli onori che godono, gli «uomini dabbene» per l'ufficio di «anziano» (perché questa carica è premio della loro eccellenza) e il popolo per l'eforato (giacché tutti vi possono accedere)- e tuttavia a tale magistratura dovrebbero sì essere eletti tutti, ma non al modo di adesso (che è troppo puerile). Inoltre gli efori sono giudici assoluti di processi importanti, pur essendo persone qualunque, sicché sarebbe meglio che non li decidessero a loro criterio ma secondo la parola scritta e le leggi. Anche il tenore di vita degli efori non è conforme allo spirito dello stato, perché è troppo rilassato, mentre quello degli altri cittadini eccede piuttosto in austerità, sicché non riescono a sostenerlo ed eludendo di nascosto la legge, si danno ai piaceri dei sensi. Anche le prescrizioni riguardanti il consiglio degli «anziani » non sono buone. Certo, se fossero persone ammodo ed educate convenientemente alle virtù dell'uomo, si potrebbe dire che è un'istituzione utile allo stato, per quanto il fatto che essi siano arbitri per tutta la vita di affari importanti lasci adito a qualche dubbio (perché come del fisico, c’è anche una vecchiaia dell’intelletto), ma con l’educazione che hanno, tale che il legislatore stesso diffida di loro come di persone non buone, allora è qualcosa di pericoloso. Come ben si sa, coloro che coprono questa carica, si lasciano corrompere dai doni e trattano molti affari pubblici guidati dal favoritismo: per ciò sarebbe meglio che non fossero irresponsabili, mentre adesso lo sono. Si potrebbe pensare che il corpo degli efori esiga il rendiconto da tutte le magistrature: ma questa sarebbe una prerogativa davvero eccessiva per l’eforato, e, d’altra parte, non è questo il modo in cui, a parer nostro, si deve render conto. Inoltre il procedimento seguito nell'elezione degli «anziani», per quanto riguarda la selezione, è puerile e non è giusto che ponga da sé la propria candidatura chi sarà ritenuto degno della carica: piuttosto chi merita la carica deve esercitarla, lo voglia o no. E invece anche qui il legislatore agisce manifestamente con lo stesso intento che in ogni altra parte della legislazione: volendo rendere i cittadini ambiziosi si è servito di questo procedimento per l'elezione degli «anziani» e, in realtà, nessuno chiederebbe di coprire una magistratura se non fosse ambizioso . Eppure la maggior parte dei delitti volontari gli uomini la com-mettono quasi sempre per ambizione o per cupidigia. Quanto al regno, se è meglio per gli stati averlo o non è meglio, si rimandi ad altro discorso: comunque sarebbe meglio che ciascun re fosse designato non come si fa adesso, ma tenendo conto della sua condotta. È chiaro che il legislatore ritenga di non potere, neppur lui, rendere

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i re «persone dabbene»: in ogni caso ne diffida come se fossero uomini non sufficientemente degni e proprio per questo gli Spartani avevano l'abitudine di mandare nelle ambascerie insieme ai re i loro rivali e di pensare che la salvezza dello stato risiedesse nella rivalità dei re. E non è buona neppure la legislazione sui sissizi, i cosiddetti fidizi, dovuta a chi per primo li ha istituiti: era opportuno piuttosto che i contributi fossero tolti dai fondi comuni, come si fa a Creta: tra i Laconi, invece, ciascuno deve portare la sua parte, anche chi è estremamente povero e non può sostenere tale spesa, sicché il risultato è proprio l'opposto dell'intento del legislatore. In realtà, egli vuole che l'organizzazione dei sissizi sia democratica, mentre, regolata in tale maniera, diventa nient'affatto democratica, perché per i molto poveri non è agevole prendervi parte, mentre, secondo loro, definizione tradizionale della cittadinanza è che chi non può portare questo contributo non ne ha parte. Anche alla legge sui navarchi già molti altri hanno mosso delle critiche, e critiche giuste, perché è fomite di ribellione: vicino ai re, che sono comandanti militari a vita, la navarchia è quasi un altro potere regale. E così si potrebbe criticare il principio fondamentale del legislatore, che anche Platone ha criticato nelle /HJJL: l'intero sistema delle leggi è rivolto a una parte di virtù, la virtù militare, perché è utile a dominare. Perciò i Laconi si sono mantenuti finché hanno combattuto, decaddero, invece, quando ebbero conquistato l'impero, giacché non sapevano vivere in ozio, e non erano esercitati in nessun'altra disciplina superiore a quella militare. Ed ecco un altro errore non inferiore a questo: credono che i beni siano quelli conquistati con la virtù più che con la malvagità, e in questo hanno ragione, ma poi suppongono che tali beni siano superiori alla virtù, e in questo non hanno ragione. È in difetto presso gli Spartiati anche l'ordinamento delle finanze pubbliche. Nel tesoro pubblico non c'è niente anche se sono costretti a sostenere grandi guerre e i contributi sono mal regolati: in realtà, siccome la maggior parte della terra appartiene agli Spartiati, essi non verificano i contributi l'uno dell'altro. E il legislatore ha ottenuto l'effetto contrario all'interesse generale, perché ha fatto uno stato senza ricchezze e dei privati avidi di ricchezze. Intorno alla costituzione dei Lacedemoni basti quel che s'è detto: sono queste le principali critiche che le si possono rivolgere. La costituzione cretese s'avvicina a questa: in alcuni dettagli, non le è inferiore, ma nel complesso è meno rifinita. Pare, e si dice anche, che la costituzione dei Laconi sia modellata in moltissime parti su quella cretese, e certo moltissime disposizioni antiche sono meno elaborate di quelle più recenti. 3ROLELR, VI, fr. 10 (trad. C. Schick) Per il momento faremo brevemente menzione della costituzione di Licurgo, argomento che non è estraneo al piano della mia esposizione. Licurgo, resosi conto del naturale e necessario svolgimento delle costituzioni, comprese che ogni forma di governo semplice, basato su un'unica autorità, è pericolosa perché facilmente si trasforma nel corrispondente tipo corrotto: come infatti essendo la ruggine connaturata col ferro e i tarli e le tignole col legno, questi materiali, anche se riescono a evitare danni esterni, vengono distrutti dall’interno, così essendo connaturata a ogni forma di governo la relativa forma corrotta – e cioè al regno la tirannide, all'aristocrazia l’oligarchia, alla democrazia la selvaggia violenza - ciascuna di esse col tempo, secondo il ragionamento che abbiamo fatto, necessariamente si trasforma nel tipo corrotto corrispondente. In previsione di tutto ciò Licurgo non istituì un governo semplice e uniforme, ma riunì nella sua costituzione i vantaggi delle costituzioni migliori; egli impedì così che la forza al governo, acquistando un'autorità superiore al giusto, si trasformasse e si corrompesse e fece in modo che, equilibrandosi reciprocamente le autorità, nessuna fosse sopraffatta o acquistasse troppo potere, e lo stato, a guisa di nave che resiste alle correnti, fosse conservato a lungo dal regolare equilibrio delle sue forze. L’autorità regia sarebbe stata infatti tenuta a freno dal timore del popolo, al quale era stata attribuita una giusta parte nel governo; il popolo non avrebbe osato disprezzare l'autorità regia per timore della gerusia i cui membri, eletti per la loro virtù, sempre si sarebbero attenuti alla giustizia; insomma la parte divenuta più debole, conservando il costume tradizionale, avrebbe acquistato potere e autorità con l'appoggio e il favore dei senatori. Mediante questa forma di governo, Licurgo concesse agli Spartani di conservare la libertà più a lungo di tutti i popoli dei quali abbiamo notizia. Egli dunque considerando donde e come nasca ogni forma politica, foggiò la costituzione di Sparta evitando ogni danno; i Romani hanno organizzato in modo analogo il governo della loro patria, ma non per forza di ragionamento; con azioni e lotte continue, sempre attenendosi attraverso la diretta esperienza al partito migliore, ottennero lo stesso risultato di Licurgo, cioè istituirono migliore forma di governo che esista. 'LRGRUR�XI, 50 (trad. I. Labriola) [anno 475] Quando ad Atene era arconte Dromoclide, i Romani elessero consoli Marco Fabio e Gneo Manlio. Allora gli Spartani che irragionevolmente avevano perso l'egemonia sul mare, mal tolleravano la perdita: in collera con i Greci che avevano defezionato da loro, minacciavano di infliggere loro la punizione conveniente. Quando si riunì la Gerusia, deliberarono sulla guerra contro gli Ateniesi per l'egemonia sul mare; analogamente quando si riunì anche l'assemblea comune, i più giovani e la maggior parte degli altri avevano l'ambizione di riconquistare l'egemonia, perché ritenevano che, se l’avessero ottenuta, avrebbero avuto in abbondanza molte ricchezze, e in

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generale reso Sparta più grande e più potente, e le case dei privati avrebbero conseguito un grande incremento di prosperità. Ricordavano anche l'antico vaticinio nel quale il dio comandava loro di fare attenzione a non avere l’egemonia zoppicante, e l'oracolo, dicevano, a nient’altro si riferiva se non alla situazione attuale: il loro potere era allora zoppicante, se, essendo due le egemonie, ne avevano perduta una. Quasi tutti i cittadini erano orientati verso questo piano e quando la gerusia si riunì per deliberare su questo, nessuno pensava che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di consigliare qualche cosa di diverso. Ma un componente della gerusia, Etemarida, che era della stirpe di Eracle e per il suo valore godeva di consenso presso i suoi concittadini, si mise a consigliare di lasciare gli Ateniesi in possesso dell'egemonia: non era nell’interesse di Sparta contendere per il mare. Riuscì ad avanzare argomenti adeguati alla sua inaspettata proposta e, contro ogni aspettativa persuase la gerusia e l'assemblea popolare. Alla fine gli Spartani giudicarono che Etemarida dicesse cose convenienti e rinunziarono al loro entusiasmo per la guerra contro gli Ateniesi. Gli Ateniesi, che prima si aspettavano di affrontare una grande guerra contro gli Spartani per l'egemonia sul mare (stavano perciò preparando triremi in maggior numero, raccoglievano una grande quantità di denaro e trattavano gli alleati con mitezza), quando appresero le decisioni degli Spartani, si liberarono del timore per la guerra e si impegnarono a rendere più grande la loro città. 6WUDERQH,�VIII, 5, 1-8(trad. A. M. Biraschi) 1. Dopo il golfo di Messenia viene dunque quello di Laconia, compreso fra il Tenaro e capo Malea, leggermente inclinato da sud verso est; le Tiridi, formate da rocce esposte ai flutti, che si trovano sul golfo Messenico, distano 130 stadi dal Tenaro. Questa parte di costa è dominata dal Taigeto, che è una montagna elevata e ripida a poca distanza dal mare e che con le sue parti più a settentrione è contigua alle falde delle montagne arcadi in modo tale da lasciare in mezzo solo una vallata, laddove la Messenia confina con la Laconia. Ai piedi del Taigeto, nell'entroterra, ci sono Sparta ed Amicle, dove c'è il tempio di Apollo e, inoltre, Fari33. Il suolo dove sorge la città si trova in un luogo più basso34, sebbene comprenda in mezzo delle montagne; nessuna parte di esso è però paludosa, mentre anticamente era paludosa la parte suburbana e la chiamavano perciò Limne35; il santuario di Dioniso a Limne36 sorgeva su un terreno umido: ora invece le fondamenta poggiano su un suolo asciutto. Nell'insenatura della costa c'è il promontorio del Tenaro, dove c'è il santuario di Posidone37, situato in un recinto sacro; vicino ad esso c'è una caverna attraverso la quale raccontano che Cerbero fu da Eracle condotto via dall'Ade. Da qui a capo Ficunte38, verso sud, in Cirenaica, c'è una traversata di 3000 stadi; ad occidente, fino a capo Pachino, promontorio della Sicilia, ci sono 4600 stadi, mentre altri dicono che sono 4000; verso oriente invece, fino a capo Malea, ci sono 670 stadi, comprese le sinuostà della costa; 520 stadi si misurano invece fino ad Onugnato (‘Mascella d’Asino’)39, una penisola bassa, situata un po’ più all’interno rispetto a capo Malea. Al largo di Onugnato, a 40 stadi, c’è Citera, un’isola provvista di buoni porti, che ha una città omonima, occupata da Euricle, condottiero dei Lacedemoni ai nostri giorni, a titolo personale; intorno ci sono parecchie isolette, alcune vicino, altre un po’ più lontano. Il tragitto marittimo più breve fino a Corico40, promontorio cretese, è di 700 stadi. Dopo Capo Tenaro, chi naviga in direziona di Onugnato e di Capo Malea incontra la città di Psamatunte41, poi Asine e Giteo, il porto di Sparta, situato a una distanza di 240 stadi da quest'ultima: esso ha, come dicono, il porto scavato artificialmente. Vengono poi le foci dell’Eurota fra Giteo ed Acrea42: fino a questo punto il tragitto lungo costa è di circa 240 stadi. Viene poi un luogo paludoso e il villaggio di Elo43; una volta esso era una città, come dice Omero: �TXHOOL��FKH�DYHYDQR�$PLFOH�HG�(OR��ERUJR�VXOOD�ULYD�GHO�PDre44. Si dice sia stato fondato da Eleo, figlio di Perseo. C'è anche una pianura chiamata Leuce; poi una città, Ciparissia, che è situata su una penisola e che possiede un porto. Si giunge poi a Onugnato che possiede un porto; poi alla città di Bea45, poi a

33 Probabilmente l’odierna Vaphiò, all’incirca a 10 Km da Sparta in direzione sud. 34 Omero scriveva “Lacedemone concava” (Od. VI, IV, 1). 35 “Paludi”. 36 Forse qui il Geografo si confondeva con il famoso santuario ateniese di Dioniso a Limne. 37 Tale santuario è ricordato anche in Th. I, 128 e 133 come luogo di asilo. Th. I, 128 (v. sopra): $QFKH�JOL�$WHQLHVL��D�ORUR�YROWD���LQWLPDURQR�DL�/DFHGHPRQL�GL�HOLPLQDUH�LO�VDFULOHJLR�GHO�7HQDUR��*OL�6SDUWDQL�LQIDWWL�GRSR�DYHU�IDWWR�DO]DUH�DOFXQL�LORWL�VXSSOLFL�GDO�VDQWXDULR�GL�3RVHLGRQH�SUHVVR�LO�7HQDUR�SRUWDQGROL�YLD�OL�XFFLVHUR��D�FDXVD�GL�TXHVWR�DWWR�HVVL�VWHVVL�ULWHQJRQR�FKH�DEELD�DYXWR�OXRJR�LO�YLROHQWR�WHUUHPRWR�D�6SDUWD�(circa 464-463). 38 Odierna Ra’s-al- Hamamah in Libia. 39 Oggi capo Elaphonisos. 40 Oggi capo Vouxa. 41 Oggi porto Kayo. 42 Forse nelle vicinanze dell’odierna Kokkinio. 43 Il termine significa ‘Palude’. 44 Hom. Il. II, 584. 45 Forse dove oggi è localizzata Neapolis.

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Malea. Da Onugnato a Malea la distanza è 150 stadi. In Laconia c’è anche una città chiamata Asopo46. 3. Dicono che fra le città nominate da Omero nel &DWDORJR�non ci sia da nessuna parte Messe; Messoa non sarebbe una parte del territorio, ma di Sparta, come il Limneo, che si trova vicino al monte Tornace47. Alcuni considerano Messe una forma di apocope per Messene: infatti, come ho già detto, anch'essa faceva parte della Laconia. ----- Delle altre città menzionate dal poeta, alcune sono state distrutte, di altre rimangono tracce, altre hanno cambiato nome, per esempio Augea48 in Egea. Augea nella Locride, infatti, è completamente scomparsa. Quanto a Laa49 si racconta che una volta i Dioscuri la presero con l'assedio e da questo fatto ottennero l'appellativo di ‘Lapersai’, (‘Distruttori di Laa’). Dice Sofocle: *LXUR�SHU�JOL�GHL�©/DSHUVDLª��SHU�O(XURWD�LQ�WHU]R�OXRJR��SHU�JOL�GHL�GL�$UJR�H�GL�6SDUWD��4. Eforo racconta che gli Eraclidi che presero possesso della Laconia, Euristene e Procle, divisero la regione in sei parti e vi fondarono delle città; una delle ripartizioni, Amicle, fu messa da parte e concessa a chi aveva loro consegnato a tradimento la Laconia ed aveva convinto colui che ne era in possesso ad andarsene con gli Achei nella Ionia, dopo aver accettato un accordo. Essi designarono Sparta come residenza reale per sé; nelle altre parti inviarono dei re, autorizzandoli, per la scarsità di popolazione, ad accettare come abitanti gli stranieri che lo desiderassero. Utilizzarono Laa come base navale per l'eccellenza del suo porto e, come piazzaforte contro i nemici, Egi, che confinava con tutti i popoli intorno; si servirono di Fari come deposito per il tesoro pubblico, in quanto era sicura da pericoli interni ed esterni. Tutti gli abitanti del circondario, benché soggetti agli Spartiati, godevano tuttavia di uguali diritti, partecipando alla vita politica e all'esercizio del potere. Agide però, il figlio di Euristene, li privò dell'uguaglianza di diritti e ordinò loro di pagare un tributo a Sparta; tutti si assoggettarono a questo stato di cose ad eccezione degli Elei, che abitavano Elo ed erano chiamati Iloti: essi si ribellarono, ma furono debellati con la forza e condannati alla schiavitù a siffatte condizioni, che ai loro padroni non fosse permesso di dar loro la libertà, né di venderli fuori dei confini del paese. Questa guerra fu chiamata guerra contro gli Iloti. Si può quasi dire che l'istituzione degli Iloti, sopravvissuta fino all'occupazione romana, fu introdotta da Agide e da quanti con lui amministravano il potere: in un certo senso i Lacedemoni consideravano costoro degli schiavi pubblici, costretti ad una determinata residenza e a compiere particolari servigi. 5. Per quel che riguarda la costituzione degli Spartani e le trasformazioni a cui essa fu soggetta, si potrebbe tralasciare la maggior parte delle notizie, in quanto ben conosciute, ma ci sono alcuni fatti di cui è giusto far menzione. Raccontano, per esempio, che gli Achei di Ftia, scesi con Pelope nel Peloponneso, si stabilirono in Laconia e si distinsero a tal punto per il loro valore che il Peloponneso, chiamato già da molto tempo Argo, fu denominato Argo Achea e il nome fu dato non solo al Peloponneso, ma anche, in modo particolare, alla Laconia; pertanto l'espressione del poeta dove egli dice: 'RYH�HUD�0HQHODR"�1RQ�HUD�LQ�$UJR�Achea50"�alcuni la interpretano così: Non era in Laconia? Al tempo del ritorno degli Eraclidi, quando Filonomo consegnò il paese ai Dori, gli Achei si trasferirono dalla Laconia nel territorio degli Ioni che ancora oggi si chiama Acaia. Ne parleremo nella parte della descrizione dedicata all’Acaia. Ora, coloro che avevano occupato la Laconia, già dall'inizio diedero prova di moderazione, ma, quando poi essi affidarono l'organizzazione dello stato a Licurgo, risultarono talmente superiori agli altri che, soli fra i Greci, estesero il loro dominio per terra e per mare e continuarono ad avere la preminenza fra i Greci fino a quando furono privati della loro egemonia dai Tebani e, subito dopo, dai Macedoni. Tuttavia neppure a questi ultimi essi si piegarono del tutto, ma, mantenendo la propria autonomia, lottarono ad ogni occasione per la supremazia con gli altri Greci e con i re macedoni; dopo che la potenza macedone fu annientata dai Romani, essi ebbero alcuni dissensi, per cose di poco conto, con i pretori inviati dai Romani, perché a quel tempo erano soggetti ad un dominio tirannico ed erano mal governati51. Quando però si risollevarono da questo stato di cose, furono tenuti in particolare onore e conservarono la loro libertà senza altri tributi all'infuori di servigi amichevoli52.

46 Forse ove oggi è posta Plitra. 47 Pausania nel libro III dedicato alla Laconia racconta che sulla collina si ergeva una statua di Apollo Pythaeus di forma simile a quella dell’Apollo venerato ad Amicle (III, 10, 8), su cui ancora Pausania racconta (III, 19, 2): QRQ� q� VWDWD� FUHDWD�GD�%DWLFOH��EHQVu�q�RSHUD�DQWLFD�H�QRQ�IDWWD�FRQ�DUWH��LQIDWWL�DG�HVFOXVLRQH�GHO�YROWR��GHOOH�SXQWH�GHL�SLHGL�H�GHOOH�PDQL��OD�SDUWH�UHVWDQWH�GHOOD�VWDWXD�q�IRJJLDWD�FRPH�XQD�FRORQQD�EURQ]HD.�6XOOD�WHVWD�SRUWD�XQ�HOPR��H�WUD�OH�PDQL�XQD�ODQFLD�HG�XQ�DUFR��48 Forse vicino a Palaiochora. Pausania la chiama Aigiai (III, 21, 5). 49 Probabilmente da localizzarsi ove oggL�torreggiano i resti del castello di Passava, a qualche chilometro da Giteo. 50 Hom. Od. 3, 249; 251. 51 Il riferimento è alla tirannide di Nabide, poi ucciso dagli Etoli nel 193 a. C. 52 Dopo il 146 a.C. con la conquista romana, Sparta fu riconosciuta libera da tributi ed amica dei Romani, i quali imposero agli Achei di pagare a Sparta 200 talenti.

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Tuttavia recentemente Euricle ha provocato discordie fra di loro, dando l'impressione di aver abusato al di là di ogni misura dell'amicizia di Cesare per mantenere la sua autorità su di essi53; il disordine però ebbe presto a cessare dopo la morte di Euricle ed essendo suo figlio del tutto alieno da tali ambizioni. Avvenne anche che gli Eleuterolaconi ottennero un tipo particolare di costituzione, dopo che i Perieci per primi, e poi anche gli Iloti, nel momento in cui Sparta era sotto un dominio tirannico, si accordarono con i Romani54. Ellanico afferma che furono Euristene e Procle a stabilire la costituzione; Eforo, tuttavia, lo critica su questo punto, dicendo che Ellanico non fa mai menzione di Licurgo e che attribuisce l'opera compiuta da quest'ultimo a persone che con essa non hanno niente a che fare: solo a Licurgo, infatti, è stato eretto un tempio e si fanno sacrifici ogni anno, mentre Euristene e Procle, sebbene fossero i fondatori, non ebbero neppure l’onore di trasmettere ai rispettivi discendenti i nomi di Euristenidi e di Procleidi; essi si chiamano invece i primi Agiadi, da Agide figlio di Euristene, i secondi Euripontidi, da Euriponte figlio di Procle perché mentre Agide ed Euriponte esercitarono il potere in modo conforme a giustizia, Euristene e Procle invece, avendo accolto persone straniere, esercitavano il potere con il loro apporto; ne consegue che ad essi non fu mai dato neppure il titolo di ‘archegheti’ che è invece attribuito a tutti i fondatori. Pausania55, bandito per l'inimicizia dell'altra casa reale, quella degli Euripontidi, durante l'esilio compose un trattato contro le leggi di Licurgo - il quale apparteneva�alla famiglia che lo aveva bandito - in cui cita anche gli oracoli che erano stati dati a Licurgo, per la maggior parte a suo elogio56. 6. Circa la natura dei luoghi, sia della Laconia che della Messenia, è da accettare quel che dice Euripide359. Quanto alla Laconia egli dice infatti che essa ha: PROWH�WHUUH�IHUWLOL��PD�QRQ�IDFLOL�GD�FROWLYDUH��LQIDWWL�q�DYYDOODWD��FLUFRQGDWD�GD�PRQWDJQH��DVSUD�GLIILFLOH�GD�LQYDGHUH�SHU�L�QHPLFL��e quanto alla Messenia: UHJLRQH�GDL� EHL� IUXWWL��EDJQDWD�GD� LQQXPHUHYROL� VRUJHQWL��DVVDL� ULFFD� GL� SDVFROL� SHU� EXRL� H� SHFRUH��Qp�WURSSR�HVSRVWD�DL�ULJRUL�LQYHUQDOL�TXDQGR��VRIILDQR�L�YHQWL�G·LQYHUQR��Qq�WURSSR�ULVFDOGDWD�VRWWR�LO�FDUUR�GHO�VROH��E un po’ sotto parla dei sorteggi della terra fatti dagli Eraclidi, dicendo che il primo fu fatto per divenire VRYUDQR� GHOOD� WHUUD� GL� /DFRQLD�� GDO� VXROR� SRYHUR, il secondo per la Messenia, OD� FXL� IHUWLOLWj� q� PDJJLRUH� GL� TXDQWR� VL� SRVVD�HVSULPHUH�D�SDUROH��Anche Tirteo parla allo stesso modo. Invece non si può essere d’accordo con lo stesso Euripide quando afferma che il confine fra Laconia e Messenia sarebbe LO� 3DPLVR� FKH� FRUUH� YHUVR� LO� PDUH, in quanto il Pamiso, che scorre attraverso la parte centrale del territorio della Messenia, in nessun punto tocca l'attuale Laconia57. Non è nel giusto neppure quando dice che la Messenia, che al pari della Laconia sta sul mare, sarebbe molto lontana per i marinai. Non dà nemmeno il giusto confine per l'Elide: ORQWDQR��GRSR�FKH�VL�q�DWWUDYHUVDWR�LO�ILXPH��VWD��O(OLGH��YLFLQR�DOOD�GLPRUD�GL�=HXV��Se infatti vuole intendere l’odierna Elide, che confina con la Messenia, il Pamiso non ha nessun punto di confine con essa, così come nessun punto della Laconia: ho detto infatti che esso scorre nella parte centrale della Messenia; se invece vuole intendere l’antica Elide della Cava, si allontana ancor di più dalla verità: infatti, attraversato il Pamiso, c’è ancora una larga parte del territorio della Messenia, poi c’è tutto il territorio dei Cauconi e dei Macisti che chiamano Trifilia, poi la Pisatide e Olimpia, infine a 300 stadi c’è l’Elide. 7. Dal momento che taluni scrivono Lacedemone NHWzHVVD�ed altri NDLHWjHVVD58�si pone il problema di come interpretare NHWzHVVD,se, cioè, derivi da NHWRV59 o se significhi ‘grande’, la qual cosa sembra più plausibile Quanto al termine NDLHWjHVVD��taluni interpretano come NDODPLQWKRGH60��altri dicono invece che sono chiamati NDLHWzL�i�crepacci prodotti dai terremoti e la parola NDLHWDV�designerebbe fra i Lacedemoni la prigione vale a dire una sorta di caverna. Altri, invece, dicono che siffatte cavità vengano piuttosto chiamate NRRL�� da cui anche l'espressione: FRQ� L� &HQWDXUL�RUHVFzRL61��La Laconia è soggetta a terremoti; taluni ricordano che certe sommità del Taigeto sono state smussate via. Ci sono antiche cave di pietra pregiata detta del Tenaro sul Tenaro stesso e, recentemente, alcuni hanno aperto un giacimento importante nel Taigeto, grazie alle risorse finanziarie concese dalla prodigalità dei Romani. 53 Caio Giulio Euricle, lacone, fedele ad Ottaviano e a capo di una nave spartana ad Azio c (31 a. C) contro Antonio, ebbe da Ottaviano, in cambio della sua fedeltà la cittadinanza romana ed ampi poteri su Sparta. 54 Si fa qui riferimento alla creazione del koinon dei Lacedemoni dopo il 146 a. C.. 55 Pausania II, re agiade di sparta e nipote del celebre omonimo vincitore a Platea, assunse il regno due volte: la prima, solo nominalmente perché minorenne, tra il 445 ed il 426 – quando il padre Plistoanatte venne deposto-,la seconda tra il 408 ed il 394 a. C. Sfuggì con l’esilio alla condanna capitale inflittagli in seguito alla morte di Lisandro, avvenuta sotto le mura di Aliarto prima che Pausania potesse raggiungerlo ed unirsi a lui. Durante l’esilio a Tegea avrebbe composto il libello menzionato da Strabone. 56 E’ probabile che il libello non fosse polemico nei confronti di Licurgo ma che problematizzasse l’origine licurghea del sistema vigente, in particolare sostenendo la paternità non licurghea dell’eforato. 57 Il Pamiso valse a separare le due regioni solo all’epoca di Euripide ed in età augustea. Esso non poteva dunque valere da confine al tempo degli Eraclidi. 58 Si tratta delle disquisizioni critiche rispetto ad aggettivi usati per connotare Lacedemone nei testi omerici. 59 ‘Mostro marino’. 60 ‘Ricco di menta’. 61 Il termine starebbe a significare: ‘che abitano negli antri dei monti’.

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8. Omero mostra chiaramente che il termine Lacedemone designa sia il territorio che la città (quando dico territorio includo in esso anche la Messenia). Quando infatti dice a proposito degli archi: GRQL�EHOOL� FKH�XQ� RVSLWH��WURYDWR� D� 6SDUWD�� JOL� IHFH�� ,ILWR� (XULWLGH�� e poi ,� GXH� QHOOD� 0HVVHQLD� VLQFRQWUDURQR� LQVLHPH��LQ� FDVD� G2UWuORFR� intende il territorio, di cui fa parte anche la Messenia. Non c'era per lui differenza dire anche così: ���� XQ� RVSLWH�� WURYDWR� D�6SDUWD, e aggiungere: L�GXH�QHOOD�0HVVHQLD�VLQFRQWUDURQR; perché è chiaro che Fere è la patria di Ortìloco: H�JLXQVHUR�D�)HUH�� D� FDVD� GL� 'uRFOH�� ILJOLR� G2UWuORFR� Telemaco e Pisistrato; Fere è appunto parte della Messenia. Quando poi Omero dice che Telemaco ed i suoi compagni, partiti da Fere, tutto il giorno ‘scossero il giogo’ e aggiunge: H�LO�VROH�DQGz�VRWWR��H�JLXQVHUR�D�/DFHGHPRQH�FRQFDYD��DYYDOODWD��H�JXLGDURQR�LO�FRFFKLR�DO�SDOD]]R�GL�0HQHODR�bisogna intendere la città; altrimenti sembrerebbe dire che il viaggio avvenne da Lacedemone a Lacedemone. Inoltre non sarebbe credibile che la residenza di Menelao non fosse a Sparta o che, se essa non era là, Telemaco dicesse: ,R�YDGR�D�6SDUWD�H�D�3LOR��Sembrerebbe in disaccordo con questa ipotesi il fatto che Omero usi gli epiteti del territorio a meno che, per uno non voglia attribuirlo a licenza poetica: ciò significherebbe infatti che Messene non sarebbe città della Laconia, né del regno di Nestore, né trattata a parte nel &DWDORJR�e che non partecipò alla spedizione. �/LVDQGUR�[Navarco nel 408-7 fu il fautore della ripresa della flotta peloponnesiaca, e dell’amicizia e collaborazione con Ciro. Vinse a Notion Alcibiade e poi la flotta ateniese ad egospotami nel 405. Dopo la capitolazione di Atene, sostenne l’instaurazione del governo dei Trenta. Fu l’ispiratore dell’insediamento di decarchie nelle SROHLV alleate di Atene su cui Sparta estese la propria influenza negli anni dell’egemonia. Dopo lo scoppio della guerra di Corinto, entrò in Beozia ma prima di essere raggiunto dal re Pausania- che per questo fu condannato a morte e fuggì a Tegea- fu ucciso sotto le mura di Aliarto nel 395]. 3OXWDUFR, 9LWD�GL�/LVDQGUR, 5-7 (trad. G. Pisani) Perciò fin dal primo momento non videro con favore l’arrivo di Callicratida [a. 406], giunto a sostituire Lisandro al comando della flotta, e nemmeno in seguito, quando questi dava chiara prova d’essere il migliore e il più giusto degli uomini, ne apprezzavano lo stile di comando, caratterizzato da una semplicità e schiettezza tipicamente doriche. Ammiravano la sua virtù come si fa con una statua che raffigura un eroe, ma rimpiangevano le premure e la leale amicizia dell'altro, e sentivano a tal punto la mancanza dei suoi servigi che, mentre la nave lasciava il porto, erano accasciati e in lacrime. 6. Dal canto suo, egli faceva in modo di renderli ancor più ostili a Callicratida, e a questo scopo rimandò a Sardi quanto era rimasto del denaro che Ciro gli aveva dato per la flotta, invitando Callicratida, se voleva, ad andare di persona a chiederne dell'altro e a pensare lui a come mantenere i soldati. Da ultimo, ormai sul punto di salpare, lo chiamò a testimone del fatto che gli consegnava una flotta padrona del mare. Callicratida allora, volendo smascherare la millanteria e l’inconsistenza di quell'ambiziosa asserzione: “Ebbene” gli disse “lasciando Samo a sinistra, girale attorno e portati a Mileto: le triremi me le consegnerai là! Non dobbiamo certo aver paura di passare davanti ai nemici di stanza a Samo se è vero che siamo padroni del mare”. Lisandro replicò che non era più lui a comandare la flotta, ma Callicratida, e subito dopo salpò alla volta del Peloponneso, lasciando l’altro in serio imbarazzo, perché era giunto dalla patria senza portare denaro con sè e non sopportava l’idea di dover costringere a forniglielo le città, che attraversavano momenti molto difficili. Non gli restava dunque che andare a chiederlo alle porte dei generali del Gran Re, come aveva fatto Lisandro, ma in questo era l’uomo in assoluto meno adatto per il suo spirito libero e fiero, e perché pensava che qualunque sconfitta inflitta da Greci ad altri Greci fosse più onorevole dell’adulare e del frequentare le porte di uomini barbari, che avevano sì molto oro, ma nessun altro pregio. Costretto comunque dalle ristrettezze finanziarie, salì in Lidia e si presentava immediatamente alla residenza di Ciro, ordinando d’annunciargli che il navarco Callicratida era giunto e desiderava incontrarsi con lui. Un ciambellano allora gli rispose: “ Straniero, Ciro adesso non ha tempo, perché sta bevendo”, ma Callicratida, con grande semplicità, ribattè: «Non fa nulla” attenderò qui fino a quando avrà finito di bere”. In quel momento diede ai barbari l'impressione d'essere uno zotico e presero a deriderlo; lui allora s'allontanò. Tornato una seconda volta a palazzo, non fu ricevuto; rientrò indispettito a Efeso, scagliando grandi maledizioni contro quelli che per primi s'erano lasciati traviare dal lusso dei barbari e avevano loro insegnato a insolentirli dall'alto della loro ricchezza, e giurò ai i presenti che, appena rimesso piede a Sparta, avrebbe fatto di tutto per riconciliare i Greci, perché incutessero paura ai barbari e non ricorressero più ai loro finanziamenti per scagliarsi gli uni contro gli altri. 7. Callicratida, che aveva nutrito sentimenti degni di Sparta ed era sceso in gara con i più insigni tra i Greci per giustizia, magnanimità e coraggio, fu però sconfitto non molto tempo dopo nella battaglia delle Arginuse e vi trovò la morte. Vedendo che la situazione volgeva al peggio, gli alleati inviarono a Sparta un’ambasceria, chiedendo che Lisandro fosse reintegrato al comando della flotta e garantendo che sotto la sua guida avrebbe ripreso la lotta con molto più ardore. Analoga richiesta fu avanzata anche da Ciro. Esisteva però una legge che proibiva alla stessa persona di ricoprire due volte la carica di navarco; decisi a compiacere gli alleati, gli spartani l’aggirarnono assegnando il titolo di navarco a un certo Araco ed inviando Lisandro con il ruolo nominale di luogotenente ma conferendogli in realtà piena autorità su tutto.

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3OXWDUFR, 9LWD�GL�/LVDQGUR 2, 2-6 (trad. G. Pisani) Lisandro fu allevato in povertà e si mostrò come nessun altro rispettoso delle tradizioni, d’animo virile e superiore a qualunque piacere, a eccezione di quello che le belle imprese assicurano a chi ne ricava onore e successo. A Sparta non è certo una vergogna che i giovani si lascino vincere da un tale piacere, perché gli Spartani � pretendono che i figli siano sensibili alla reputazione subito, fin da piccoli, e che soffrano per i rimproveri e vadano fieri degli elogi; chi invece è indifferente e refrattario a tutto questo, viene disprezzato come inetto e privo di ambizioni per la virtù. L’ambizione e la voglia di prevalere furono dunque radicate in lui dall’educazione laconica, e di questo non si deve incolpare troppo la sua natura; semmai, sembra essere stato per natura ossequioso con i potenti più di quanto non s'addica a uno Spartiata e aver sopportato di buon grado, per proprio tornaconto, il peso dell'autorità: in questo, comunque, alcuni individuano una componente non trascurabile dell'abilità politica. Nel passo in cui mostra che le nature grandi, come quella di Socrate, di Platone e di Eracle, sono melanconiche, Aristotele riferisce che anche Lisandro, sia pure non subito, ma da vecchio, cadde nella melanconia. Tutta sua fu invece la responsabilità d'aver colmato la patria di ricchezze e di desiderio d'arricchirsi (proprio lui che sapeva sopportare bene la povertà e non s’era mai lasciato vincere o traviare dal denaro), e d'aver fatto sì che essa cessasse d'essere ammirata perché non ammirava la ricchezza, facendovi confluire grandi quantità d'oro e d'argento alla fine della guerra contro Atene, anche se per sé non teneva una sola dracma. 3OXWDUFR, 9LWD�GL�/LVDQGUR 24, 3-26; 30, 2-5 (trad. G. Pisani)[anno 396: Lisandro viene inviato nell’Ellesponto]. Ma (Lisandro) non fu più impiegato dal re in nessun'altra missione di guerra, e allo scadere del mandato si reimbarcò, ingloriosamente, per Sparta, pieno di rancore nei confronti di Agesilao e animato da un odio ancor più profondo che in passato vergo l'intero ordinamento costituzionale, fermamente deciso ormai a por mano, senza ulteriori indugi, a quei cambiamenti e a quella rivoluzione che già da tempo sembrava meditare e tramare. Ecco il suo progetto. Dopo che gli Eraclidi, unitisi ai Dori, ebbero fatto ritorno nel Peloponneso, avevano dato vita a Sparta a una stirpe numerosa e illustre, ma la successione regale non era riservata a tutti i loro discendenti e regnavano solo i membri di due casate, i cosiddetti Euripontidi e Agiadi; agli altri, invece, l'origine nobile non assicurava nessun maggiore privilegio costituzionale rispetto a un cittadino qualsiasi, e gli onori legati al merito erano aperti a chiunque ne avesse le capacità. Lisandro era uno di questi e, poiché le sue imprese l'avevano innalzato a grande fama e aveva molti amici e potere, soffriva vedendo che la città era resa grande da lui, ma continuava ad avere come re altri, che per nascita non gli erano in nulla migliori. Pensava dunque di togliere il potere alle due casate e di restituirlo a tutti gli Eraclidi o, come sostengono alcuni, non agli Eraclidi, ma agli Spartiati, perché questo privilegio non spettasse soltanto ai discendenti di Eracle, ma a tutti coloro che fossero giudicati simili a Eracle per quella virtù che l'aveva fatto assurgere a onori divini. Sperava che, se si fosse assegnato il regno su queste basi, nessuno spartiata gli sarebbe stato anteposto. Per prima cosa dunque decise che era venuto il momento d’agire e si preparò a convincere di persona i concittadini, mandando a memoria un discorso appositamente scritto da Cleone di Alicarnasso, ma poi si rese conto che l’eccezionalità e la portata delle sue innovazioni politiche richiedevano un aiuto più ardito, e allora, sollevando contro i concittadini una specie di macchina tragica, si metteva a comporre e apprestare predizioni e oracoli pitici, convinto che l'abilità di Cleone non gli sarebbe stata di alcuna utilità se non avesse impressionato i cittadini con un qualche timor di dio e superstizione, riuscendo così a soggiogarli e a far loro accettare il suo progetto. Eforo dice che tentò invano di corrompere la Pizia e poi di convincere, con l'aiuto di Ferecle, le sacerdotesse di Dodona; andò allora al tempio di Ammone e parlò con gli interpreti del dio, offrendo loro molto oro, ma quelli, sdegnati, mandarono emissari a Sparta per accusare Lisandro. Ne uscì assolto, ma gli Africani, nel congedarsi, dissero: “Noi però, Spartiati, giudicheremo meglio, quando verrete in Africa ad abitare da noi”: secondo un antico oracolo, infatti, gli Spartani erano destinati a stanziarsi in Africa. In ogni caso, per dimostrare che l'intero complotto e i preparativi dell'intrigo non erano assolutamente una cosa trascurabile o avviata a caso, ma poggiavano su molte e solide basi e procedevano alla conclusione, come in una dimostrazione matematica, attraverso proposizioni complesse e di ardua soluzione, passeremo ora a esporre i fatti, basandoci sul racconto di un autore che è storico e filosofo insieme. [...] La povertà di Lisandro, messa in luce dopo la sua morte, ne aveva resa ancor più evidente la virtù: delle molte ricchezze, della potenza e dei tanti omaggi che gli erano stati tributati dalle città e dal Gran Re, non aveva approfittato neppure in piccola parte per ingrandire ed abbellire la sua casa, come attesta Teopompo, che è più attendibile quando elogia di quando critica, perché prova più gusto a criticare che a lodare. Racconta Eforo che tempo dopo scoppiò a Sparta una controversia con gli alleati e si ritenne necessaria la consultazione delle carte che Lisandro aveva trattenuto presso di sè; Agesilao andò a casa sua, e rinvenne il fascicolo che conteneva il discorso sulla costituzione, in cui si sosteneva che si dovesse togliere il regno agli Agiadi e agli Euripontidi e renderlo accessibile a tutti, scegliendo tra i migliori. Il suo primo impulso fu di divulgare quel testo e mostrare a

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tutti che razza di cittadino fosse, a loro insaputa, Lisandro; ma Lacratida, che era uomo intelligente e presiedeva in quel momento gli efori, trattenne Agesilao e gli disse che, invece di disseppellire Lisandro, conveniva seppellire con lui quel discorso così persuasivo e scellerato. ��$JHVLODR�[Figlio di Archidamo, dopo la morte del fratellastro Agide II nel 399, divenne re di Sparta grazie all’appoggio dell’influente Lisandro, dal cui ascendente tuttavia si svincolò presto. Fu a capo delle operazioni militari in Asia Minore tra il 396 ed il 394, quando fu richiamato in patria e combattè a Coronea vincendo contro i Beoti ed i loro alleati. Dopo Leuttra organizzò la difesa della città e militò come mercenario con l’esercito degli Spartiati in Asia Minore e in Egitto, allo scopo di acquisire ricchezze per la città. Morì nel 360 di ritorno dalla campagna in Egitto.] �6HQRIRQWH (OOHQLFKH�III, 3, l-4 (trad. D.P. Orsi) Agide giunto a Delfi, offrì la decima del bottino; ripreso il viaggio di ritorno, cadde malato ad Erea (era ormai vecchio) e fu trasportato ancora vivo a Sparta; lì, dopo poco, morì. Ottenne onoranze funebri troppo sontuose per un essere umano. Trascorsi i giorni riservati al lutto, bisognava designare un re; si contendevano il trono Leotichide, che diceva di essere figlio di Agide, e il fratello Agesilao. Leotichide disse: Ma la legge, Agesilao, ordina che regni non il fratello, ma il figlio del re. Se, per caso, non ci fosse un figlio, allora il fratello potrebbe regnare. (A.) - dovrei regnare io. (L.) - come, se ci sono io ? (A.) - perché quello che tu chiami padre, non disse che tu eri suo. (L.) - ma mia madre, che lo sa molto meglio di lui, ancora ora lo afferma. (A.) - Pure, ha chiaramente segnalato che tu menti Poseidone, quando ha scacciato con un terremoto dal talamo, e portato alla vista di tutti, tuo padre. In questo gli è stato testimone anche il tempo, che è detto essere il più veri-tiero: tu sei nato nel decimo mese dopo che quello ti generò e fu visto nel talamo. Essi questo dicevano. Diopeite, uomo molto esperto di oracoli, parlando a favore di Leotichide, disse che vi era anche un oracolo di Apollo che consigliava di guardarsi dalla monarchia zoppa. Lisandro, in difesa di Agesilao, ribattè a lui che, a suo avviso, il dio ordinava di guardarsi non da chi fosse zoppo perché aveva inciampato; piuttosto, ordinava che non regnasse chi non appartenesse alla famiglia. “Giacché, la monarchia sarebbe veramente zoppa, qualora non guidassero la città i discendenti di Eracle”. La città, dopo aver ascoltato tali argomenti, portati da entrambi, scelse come re Agesilao. �6HQRIRQWH (OOHQLFEH�IV 1,1-15(trad. D.P. Orsi) [Agesilao sbarca ad Efeso nel 396 e rimane in Asia Minore fino al 394. Qui Agesilao riesce, con l’aiuto di Lisandro, ad accattivarsi l’amicizia e l’alleanza di Spitridate che era entrato in conflitto per ragioni personali con Farnabazo. Quest’ultimo infatti (come racconta Senofonte nell’$JHVLODR) voleva prenderne la figlia come concubina nonostante la lealtà di Spitridate a Farnabazo durante la spedizione dei Diecimila. Agesilao conduce quindi, con l’alleanza di Spitridate, una campagna contro la Frigia]. Giunto in autunno nella Frigia di Farnabazo62, Agesilao bruciava e devastava il territorio, conquistava le città, le une con la forza, le altre con il loro consenso. �Dicendogli Spitridate che, se si fosse recato con lui in Paflagonia, gli avrebbe portato a colloquio il re dei Paflagoni e ne avrebbe fatto un suo alleato, Agesilao si metteva in marcia con entusiasmo, poiché da tempo desiderava questo: far ribellare qualche popolo al re. Agesilao giunse in Paflagonia, Otis venne e strinse alleanza; giacché, convocato dal re, non si era recato a corte. Persuaso da Spi-tridate, Otis lasciò ad Agesilao mille cavalieri, duemila peltasti. Agesilao, essendo per questo grato a Spitridate, gli disse: - Dimmi, Spitridate, non daresti ad Otis tua figlia? - Molto più volentieri - egli rispose - di quanto lui potrebbe essere disposto ad accettare la figlia di un esule, lui che è re di ampia terra e di grande potenza. In quella occasione, dunque, solo questo si disse sulle nozze. Otis stava per partire e venne da Agesilao per salutarlo; Agesilao avviò il discorso alla presenza dei Trenta e dopo aver allontanato Spitridate. Dimmi, Otis, - egli disse - a quale famiglia appartiene Spitridate ? Otis rispose che non era inferiore a nessuno dei Persiani. - hai visto suo figlio, - disse Agesilao - come è bello? - come no? proprio ieri sera ho pranzato con lui. -dicono che sua figlia sia più bella di lui.

62 Satrapo della Frigia ellespontica.

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-Sì per Zeus- rispose Otis- è proprio bella. -E io- disse Agesialo, poiché tu sei diventato nostro amico, ti consiglierei di prendere in moglie la ragazza, che è bellissima; ed infatti che cosa potrebbe esserci di più dolce per un uomo?La ragazza ha un padre nobilissimo, di così grande potenza che, pur ingiuriato da Farnabazo, si è vendicato di lui al punto di averlo costretto a fuggire da tutte le sue terre, come vedi. Dunque sappi bene - disse Agesilao- che Spitridate, come è in grado di vendicarsi di Farnabazo, che gli è nemico, così sarebbe anche in grado di fare del bene a chi gli sia amico. Considera che, grazie a questo matrimonio, ti sarebbe parente non solo lui ma anche gli altri Lacedemoni e, dal momento che noi siamo a capo dell’Ellade anche il resto della Grecia. E chi mai riuscirebbe a sposarsi con maggiore sfarzo di te, se decidi di farlo? Quale sposa mai hanno scortato tanti cavalieri e peltasti e opliti, quanti accompagnerebbero tua moglie a casa tua? E Otis chiese: Secondo te, Agesilao, su questo è d’accordo anche Spitridate? - Sì per gli dei,- disse Agesilao- lui non mi ha pregato di parlarne; io per quanto mi senta felicissimo quando mi vendico di un nemico, mi rallegro molto di più quando riesco ad escogitare qualcosa di buono per gli amici Perché allora - disse Otis – non cerchi di sapere se anche Spitridate è d'accordo? E Agesilao disse: Andate, Erippida, e convincetelo a volere ciò che vogliamo noi. Essi, levatisi, andavano a convincerlo. Poiché indugiavano, Agesilao disse: - Vuoi, Otis, che lo facciamo venire qui? Ritengo che egli potrebbe essere persuaso da te molto più facilmente che da tutti gli altri. Allora Agesilao chiamava Spitridate e gli altri. Appena entrarono, subito Erippida disse: - Perché, Agesilao, farla lunga su tutto ciò che si è detto? Per concludere, Spitridate dice che farebbe volentieri tutto ciò che a te sembra opportuno. - A me dunque, sembra opportuno - disse Agesilao-, che tu, Spitridate, dia, con buona fortuna, tua figlia in sposa ad Otis e che tu, Otis, la prenda. Ma non potremmo portare via terra la fanciulla prima dell'inizio della primavera. Ma sì, per Zeus, - disse Otis - potrebbe essere subito trasportata via mare, se tu vuoi. E allora, date e ricevute le destre, a queste condizioni facevano partire Otis. Agesilao, poiché aveva compreso che Otis aveva fretta, fece subito allestire una trireme e ordinò al lacedemone Callia di trasportare la ragazza. 6HQRIRQWH, (OOHQLFKH�IV 1,29-40 (trad. D.P. Orsi) [Farnabazo, messo in grave difficoltà da Agesilao, chiede a quest’ultimo un incontro, circa 395-394] Vi era un certo Apollofane di Cizico, per caso ospite da antica data di Farnabazo e che, in quel periodo, aveva stretto legami di ospitalità con Agesilao. Costui, dunque, disse ad Agesilao che riteneva di potergli condurre a col-loquio Farnabazo, per discutere di amicizia. Dopo averlo sentito, stipulata una tregua e ricevute garanzie, si presentava con Farnabazo nel luogo convenuto, dove Agesilao, e i Trenta del suo seguito, li attendevano, distesi a terra sull'erba. Farnabazo giunse indossando una veste del valore di molto oro. I suoi servi ponevano per lui, a terra, tappeti, sui quali i Persiani si distendono mollemente, ma Farnabazo si vergognò delle sue abitudini lussuose, vedendo la semplicità di Agesilao; si distese, dunque, anche lui, come capitò, a terra. E per prima cosa si scambiarono i saluti; poi, tendendo Farnabazo la destra, anche Agesilao la tese per parte sua. Dopo ciò, Farnabazo cominciò a parlare: era, infatti, più anziano. “Agesilao e tutti voi Lacedemoni presenti, io sono stato vostro amico e alleato, quando eravate in guerra con gli Ateniesi e fornendovi danaro, rendevo forte la vostra flotta; sulla terra io, in prima persona, combattendo da cavallo con voi, inseguivo fino al mare i nemici. E mai in nulla mi si potrebbe accusare di aver pronunciato parole o compiuto azioni ambigue nei vostri confronti, come Tissaferne. Pur essendomi così comportato, ora sono trattato da voi in modo tale che non riesco neppure a procurarmi un pasto nella mia terra, a meno che non raccolga qualcosa che voi abbiate abbandonato, come le fiere. Ciò che mio padre mi ha lasciato, belle case e paradisi, pieni di alberi e animali, dei quali mi rallegravo, tutto questo vedo o distrutto o bruciato. Se, dunque, io non conosco né ciò che è sacro né ciò che è giusto, spiegatemi voi come è possibile che queste azioni provengano da uomini che sanno essere riconoscenti”. Egli pronunciò queste parole. Tutti i Trenta si vergognarono di fronte a lui e tacquero; Agesilao, dopo un po' di tempo, disse: “Ma ritengo che tu, Farnabazo, sappia che anche nelle città greche gli uomini stringono fra loro vincoli di ospitalità. Pure essi, quando le loro città diventano nemiche, combattono in difesa della patria anche contro i loro ospiti e, se così capita, a volte si uccidono persino l'un l'altro. Perciò noi, che ora siamo in guerra con il vostro re, siamo costretti a ritenere nemico tutto ciò che gli appartiene. D'altra parte, noi saremmo molto interessati a diventare tuoi amici. E se per te si trattasse solo di cambiare padrone, passando dal re a noi, questo io proprio non te lo consiglierei. Ora, invece, se ti schieri con noi, ti sarà possibile vivere senza dover ossequiare nessuno e senza avere un padrone, godendoti i tuoi beni. Ed invero io ritengo che essere libero equivalga al possesso di tutte le ricchezze. Né ti esortiamo a questo, ad essere sì libero ma povero; invece, utilizzando l’alleanza stretta con noi, ti esortiamo ad accrescere il potere non del re ma tuo proprio, assoggettando quelli che

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ora sono servi con te, sicché diventino tuoi sudditi. In verità, se tu, insieme, fossi libero e diventassi ricco, che cosa ti mancherebbe per essere completamente felice? E allora – disse Franabazo- vi devo dire schiettamente cosa intendo fare? (A.)- Ti conviene Io dunque- disse Farnabazo- se il re dovesse inviare un altro stratego e ordinarmi di essergli subordinato, sceglierò di essere vostro amico e alleato; se, invece, mi affida il potere (di tale natura è, a quanto pare, la mia ambizione), bisogna che sappiate bene che combatterò contro di voi nel modo migliore possibile. Sentito ciò, Agesilao prese la sua mano e disse: “e allora, carissimo, tu, essendo di tale natura, possa diventare nostro amico. Sappi una cosa - disse -: ora me ne parto il più velocemente possibile dalla tua terra; in futuro, anche se la guerra continuerà, finché avremo da marciare contro un altro nemico, risparmieremo te e i tuoi beni”. Detto questo, Agesilao sciolse la riunione. Farnabazo, salito a cavallo, si allontanava; suo figlio, nato da Parapita, che era ancora bello, rimasto indietro si precipitò verso Agesilao e disse: “Agesilao, ti faccio mio ospite”. – “Io lo accetto”. – “Ricordati, allora”. E subito dette ad Agesilao il giavellotto (ne aveva uno bello). Il re lo accettò, tolse la bellissima gualdrappa, che il segretario Ideo aveva sul cavallo, e gliela diede in cambio. Allora il ragazzo, balzato a cavallo, inseguiva il padre. Quando, durante 1’assenza di Farnabazo, uno dei fratelli privò del potere e costrinse all'esilio il figlio di Parapita, sia, in generale, Agesilao si prendeva cura di lui sia, quando egli si innamorò di un ateniese, figlio di Evalce, pur di accontentarlo, Agesilao fece di tutto perché il ragazzo fosse giudicato idoneo a partecipare alla corsa dello stadio ad Olimpia, pur essendo il più grande fra i fanciulli. �6HQRIRQWH��(OOHQLFKH�V 1,3-4 e 13-24 (trad. D.P. Orsi) [Teleutia, fratello di Agesilao, compie con la sua flotta, un attacco al Pireo a scopo di rapina, circa anno 388-7] Inviato dai Lacedemoni, giunge come navarco Ierace e prende in consegna la flotta. Teleutia salpò alla volta di Sparta sotto i più felici auspici; mentre scendeva verso il mare, diretto in patria, non ci fu nessuno dei suoi soldati che non venisse a salutarlo: chi gli donò corone, chi gli donò bende; quelli che giunsero in ritardo, persino mentre si allontanava, gettavano corone in mare e invocavano per lui ogni bene. So bene che, in questa occasione, non descrivo né una elargizione né un pericolo né uno stratagemma degno di nota; eppure, per Zeus, questo a me sembra essere degno di riflessione per un uomo: grazie a quali azioni Teleutia produsse tale disposizione d'animo nei soldati ai suoi ordini. Giacché, questa è impresa, compiuta da un uomo, quanto mai degna di essere raccontata, più dell'acquisizione di molte ricchezze e del superamento di molti pericoli[...] I Lacedemoni inviano Teleutia ad assumere il comando di queste navi. Non appena videro che era giunto, i marinai ne provarono gran gioia. Egli, dopo averli convocati, rivolse loro le seguenti parole: “Soldati, io sono giunto senza portare danaro; se un dio lo vorrà e voi vi sforzerete insieme con me, cercherò di fornirvi i viveri, quanti più possibile. Lo sapete bene: quando io sono il vostro comandante, prego per la vostra vita non meno che per la mia; quanto ai viveri, potreste forse meravigliarvi se vi dicessi che vorrei ne aveste più voi di me; io, per gli dei, preferirei, io proprio, stare due giorni senza cibo piuttosto che lasciare voi digiuni per uno solo; già prima la mia porta era aperta per far entrare chi avesse bisogno di me, sarà aperta anche ora. Sicché, quando voi avrete i viveri in gran quantità, allora vedrete anche me vivere in maggiore abbondanza. Se mi vedete sopportare freddo, caldo e notti di veglia, aspettatevi di dover sopportare anche voi tutte queste cose. Io non vi ordino di fare nulla di tutto ciò per darvi tormento ma perché, da questo, possiate ricevere un beneficio. E la nostra città, soldati, - disse -che ha fama di essere felice, sapete bene che si è procurata ricchezza, e gloria perché non è pigra ma pronta ad affrontare fatiche e pericoli, quando ce ne sia bisogno. Anche prima voi eravate, come io so, uomini valorosi; bisogna, ora, tentare di diventare ancora migliori, affinchè con animo lieto affrontiamo insieme le fatiche, con animo lieto godiamo insieme dei successi. Che cosa, infatti, potrebbe essere più gradevole del non essere costretti ad adulare nessuno degli uomini, né greco né barbaro, per ottenere il salario, ma essere capaci di procurare a se stessi i viveri, e, per di più, traendoli donde è più glorioso? L’abbondante bottino, sottratto in guerra ai nemici, lo sapete bene, procura insieme nutrimento e gloria di fronte a tutti gli uomini”. Egli pronunciò queste parole, tutti gridarono di ordinare ciò che fosse necessario, perché essi avrebbero ubbidito. Poiché aveva già sacrificato, Teleutia disse: “Orsù, uomini, cenate, il che appunto stavate per fare; preparatemi in anticipo cibo per un giorno. Poi, verrete velocissimi alle navi e ci dirigeremo là dove vuole un dio, per arrivare a momento giusto”. Allorché giunsero, li fece salire sulle navi e navigava di notte verso il porto degli Ateniesi, a volte concedendo una pausa ed esortando gli uomini a riposarsi, a volte avanzando con i remi. Se qualcuno ritiene che egli, da stolto, navigasse con dodici triremi contro chi possedeva molte navi, rifletta sul suo ragionamento. Era, infatti, convinto che gli Ateniesi si sarebbero preoccupati di meno della flotta nel porto, dal momento che Gorgopa63 era perito; anche ammesso che lì vi fossero triremi ormeggiate, ritenne più sicuro navigare contro

63 Era il predecessore di Teleutia, armosta che aveva messo in difficoltà gli Ateniesi.

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venti navi presenti ad Atene che contro dieci presenti altrove. Per quel che riguarda le navi fuori Atene, sapeva che i marinai si sarebbero fermati ciascuno sulla propria nave; per quel riguarda le navi presenti ad Atene, sapeva che i trierarchi avrebbero dormito a casa, i marinai si sarebbero fermati chi qua chi là. Navigava dopo aver fatto, appunto, queste riflessioni; giunto alla distanza di cinque o sei stadi dal porto, si fermò e fece riposare gli uomini. Come il giorno apparve, avanzò ed essi lo seguivano. E non permetteva né di affondare né di danneggiare alcuna imbarcazione da trasporto con le sue navi; invece, se avessero visto da qualche parte una trireme ormeggiata, potevano tentare di renderla inservibile, di condurre fuori dal porto, rimorchiandole, le navi da carico ricolme di merci, di salire sulle imbarcazioni maggiori, dove potessero, e catturarne gli uomini. Vi furono alcuni marinai che, balzati a terra e corsi al mercato, rapirono alcuni mercanti e proprietari di navi e li portarono sulle navi. Egli aveva compiuto l'impresa. Quanto agli Ateniesi, gli uni, sentendo le grida, correvano fuori dalle loro case, per ca-pire che cosa fosse quel frastuono, gli altri correvano dall'esterno all’interno delle loro case per prendere le armi, gli altri correvano in città per annunciare l'accaduto. Tutti gli�Ateniesi, allora, corsero in aiuto, opliti e cavalieri, come se il Pireo fosse stato conquistato. Teleutia mandò le imbarcazioni commerciali ad Egina e ordinò che fossero scortate da tre o quattro triremi; con le altre, costeggiando l'Attica, - navigava, ormai fuori dal porto- catturò molte imbarcazioni, sia da pesca, sia traghetti pieni di uomini che giungevano dalle isole. Giunto al Sunio, catturò anche imbarcazioni piene alcune di grano, altre anche di merci varie. Fatto ciò, ritornò ad Egina e, venduto il bottino, anticipò ai soldati il salario di un mese. In seguito, navigando intorno all’isola, catturava ciò che poteva. facendo ciò, manteneva le navi nell’abbondanza e rendeva i soldati ben disposti e pronti all’obbedienza. �&LQDGRQH�[circa anno 399-398] 6HQRIRQWH, (OOHQLFKH III, 4-11. Non era ancora passato un anno da quando Agesilao era re; mentre celebrava uno dei sacrifici previsti per la salvezza della città, l'indovino disse che gli dei rivelavano una congiura delle più terribili. Agesilao compì un secondo sacrificio; l'indovino disse che i presagi apparivano ancora più terribili. Dopo che il re ebbe sacrificato per la terza volta, l'indovino disse: Agesilao, come se noi fossimo proprio in mezzo ai nemici, così a me giungono i segni. Allora continuarono a sacrificare sia agli dei che allontanano i mali sia agli dei che salvano dai mali, e smisero solo quando, con difficoltà, il sacrificio riuscì. Nel giro di cinque giorni dalla fine del sacrificio, un tale denuncia agli efori una congiura e il promotore del fatto, Cinadone. 5.�Costui era giovanile nell'aspetto e vigoroso nell'animo; non, in verità, uno dei Pari. Gli efori chiesero come Cinadone gli aveva detto che la faccenda si sarebbe svolta. Il denunciante disse che Cinadone, dopo averlo condotto all'estremità della piazza, gli aveva ordinato di contare quanti Spartiati vi fossero nella piazza. E io - disse -, avendo contato un re e gli efori e gli anziani e circa altri quaranta, chiesi: perché, Cinadone, mi hai ordinato di contarli? Cinadone rispose: considera che questi ti sono nemici, tutti gli altri che si trovano nella piazza, più di quattromila, ti sono, invece, alleati. Disse che Cinadone gli mostrava che, nelle strade, essi incontravano qui uno lì due nemici; invece, tutti gli altri, che incontravano, erano loro alleati; e di quanti si trovavano nei possedimenti degli Spartiati, uno solo era loro nemico, il padrone, molti i loro alleati in ciascuna proprietà.�Gli efori chiesero quanti, secondo Cinadone, erano a conoscenza del fatto; il delatore rispose che, a questo proposito, Cinadone diceva che non moltissimi uomini, ma fidati, erano a conoscenza della cosa insieme con loro, i capi della congiura; essi, invero, affermavano di poter contare sulla complicità di tutti, iloti, neodamodi, inferiori e perieci; quando, infatti, fra costoro cadeva il discorso sugli Spartiati, nessuno poteva nascondere che se li sarebbe mangiati crudi proprio volentieri. 7. Gli efori chiesero ancora: da dove dissero che avrebbero preso le armi ? Il delatore rispose che Cinadone avrebbe detto: quelli di noi, che sono inquadrati nell'esercito, possiedono le proprie armi; quanto alla massa, disse che Cinadone, avendolo condotto al mercato del ferro, gli aveva mostrato molti pugnali, molte spade, molti spiedi, molte scuri ed asce, molte falci e aveva detto che erano armi anche tutti gli strumenti con cui gli uomini lavorano la terra, il legno, la pietra e che la maggior parte delle altre arti posseggono arnesi che possono trasformarsi in armi sufficienti soprattutto contro uomini disarmati. Di nuovo, alla domanda quando ciò sarebbe accaduto, il delatore rispose che gli era stato ordinato di rimanere in città. 8. Dopo aver ascoltato ciò, gli efori ritennero che il denunciante aveva descritto un piano ben preparato e se ne preoccuparono molto; senza aver nemmeno riunito la così detta piccola assemblea, ma un eforo qui un eforo lì riunendo alcuni degli anziani, decisero di inviare Cinadone ad Aulone con altri fra i più giovani e di ordinargli di ritornare con alcuni Auloniti e, degli iloti, quelli indicati nella scitale. Gli ordinarono di condurre anche la donna, che aveva fama lì di essere bellissima e che sembrava corrompere i Lacedemoni, anziani e giovani, che lì giungessero. 9. Cinadone aveva già svolto altri incarichi simili per gli efori. Anche allora dettero a lui la scitale, nella quale stavano scritti i nomi di coloro che dovevano essere arrestati. Chiedendo Cinadone quali giovani dovesse condurre con sé, gli efori risposero: “Va e

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ordina al più anziano degli ippagreti di far partire con te sei o sette di quelli per caso presenti.” Si erano già preoccupati di far sapere all'ippagrete chi dovesse inviare e che i giovani inviati sapessero che bisognava arrestare Cinadone. Dissero anche questo a Cinadone, che avrebbero inviato tre carri, affinchè non conducessero a piedi gli arrestati, cercando di nascondere il più possibile che inviavano gli uomini contro uno solo, lui. 10. Non vollero arrestarlo in città, non sapendo quanto fosse estesa la congiura e perché volevano sapere prima da Cinadone chi fossero i complici, prima che essi si accorgessero di essere stati denunciati, per evitare che fug-gissero. Gli uomini, incaricati di arrestarlo, avrebbero dovuto trattenerlo, informarsi sui complici, scriverne i nomi e farli pervenire al più presto agli efori. I quali dettero tanta importanza alla faccenda da far partire persino uno squadrone di cavalieri come rinforzo per gli uomini inviati ad Aulone. 11. Cinadone fu arrestato. Appena giunse un cavaliere a portare i nomi di quelli che Cinadone aveva denunciato, gli efori facevano subito arrestare l'indovino Tisameno e, degli altri, i più importanti. Cinadone fu riportato a Sparta e accusato: ammetteva tutto e denunciava i complici; infine, gli chiesero a qual scopo lo avesse fatto. Egli rispose: per non essere inferiore a nessuno a Sparta. Dopo, con le mani e il collo chiusi ormai nella gogna, mentre era flagellato e straziato, Cinadone e i suoi complici furono portati in giro per la città. Ed essi ricevettero la punizione. $ULVWRWHOH,�3ROLWLFD��1306 b-1307 b. Nelle aristocrazie le rivoluzioni scoppiano in taluni casi perché pochi partecipano agli onori e ciò, s'è detto, turba pure le oligarchie, perché anche l'aristocrazia in certo senso è oligarchia (ed effettivamente in entrambe pochi uomini stanno al governo, anche se non è per lo stesso motivo che sono pochi); comunque è per questo che l'aristocrazia sembra un'oligarchia. La rivoluzione avviene di necessità soprattutto quando c'è una massa di uomini altezzosi per la convinzione di essere uguali ai capi in virtù, come a Sparta i cosiddetti Parteni (in realtà discendevano dai Pari) i quali, sorpresi a cospirare, furono mandati lontano a colonizzare Taranto; o quando individui che pur sono grandi e a nessuno inferiori per virtù sono disprezzati da chi ha più alto ufficio, come Lisandro dai re; oppure quando uno, pur essendo valoroso, non ha parte alcuna negli onori, come Cinadone che sotto il regno di Agesilao ordì una congiura contro gli Spartiati; inoltre quando taluni sono troppo poveri e altri troppo ricchi (questo capita soprattutto durante le guerre e successe pure a Sparta al tempo della guerra messenica, come appare anche dal carme di Tirteo intitolato (XQRPLD� , perché taluni ridotti dalla guerra a mal partito esigevano una redistribuzione della terra); ancora se uno è grande e in grado di diventare ancora più grande, per avere da solo il comando, come pare abbia fatto a Sparta Pausania che guidò l'esercito durante la guerra persiana e a Cartagine Annone. Me le politie e le aristocrazie si sfasciano soprattutto in seguito a deviazione da quello che è il giusto nella costituzione stessa. Ne è inizio, nel caso della politia la non buona contemperanza di democrazia e di oligarchia, nel caso dell'aristocrazia, di questi due elementi e della virtù, ma soprattutto di due, intendo cioè demo e oligarchia: sono questi elementi che le politie e molte delle cosiddette aristocrazie tentano di contemperare. E in questo effettivamente differiscono le aristocrazie dalle cosiddette politie ed è per questo che le une sono meno stabili, le altre più stabili: le costituzioni che inclinano maggiormente verso l'oligarchia le chiamano aristocrazie, quelle che inclinano verso la massa politie ed è per ciò che queste sono più sicure delle altre; in effetti il gruppo più numeroso è più forte e sono più�contenti gli uomini quando hanno sorte uguale, mentre quelli che si trovano nel benessere, se la costituzione concede loro una superiorità, cercano di insolentire e di avere di più. In generale, sia questa o quella la parte verso cui la costituzione inclina, trapassa in essa, se l'uno o l'altro gruppo rafforza la propria consistenza, e così la politia si trasforma in democrazia e l'aristocrazia in oligarchia o negli opposti, l'aristocrazia in democrazia (poiché i più indigenti, maltrattati, trascinano la costituzione in senso opposto) o le politie in oligarchie (perché unico elemento di stabilità sono l'eguaglianza in rapporto al merito e l'avere ciascuno quel che gli è dovuto). Quel che s'è detto è successo a Turi; siccome le cariche erano date in base a un censo troppo alto, si passò a un censo più modesto e a un numero maggiore di uffici, ma poiché la terra era tutta illegalmente in mano ai notabili (la costituzione, infatti, era troppo oligarchica sicché essi potevano possedere sempre di più) il popolo esercitatosi in guerra sopraffece le guarnigioni, finché quelli che si trovavano ad avere più del giusto rinunciarono alla terra. Inoltre, poiché tutte le costituzioni aristocratiche inclinano all'oligarchia, i notabili accrescono di continuo le loro sostanze, per es. a Sparta i beni vanno in mano a pochi, quindi è lecito ai notabili fare di preferenza quel che vogliono e imparentarsi con chi vogliono mediante matrimoni; e fu questa la causa per cui la città di Locri cadde in rovina in seguito alla parentela contratta mediante matrimonio con Dionigi - il che non sarebbe accaduto in una democrazia e neppure in un'aristocrazia bene temperata. Soprattutto le aristocrazie si mutano inavvertitamente perché si dissolvono a poco a poco - e ciò è stato detto in precedenza in maniera generale di tutte le costituzioni che anche una piccola cosa può essere causa di mutamento perché, quando hanno gettato via uno degli elementi che appartiene alla costituzione, in seguito più facilmente ne sovver-tono un altro un po' più grande, fino a sovvertire tutto il sistema. Anche questo accadde alla costituzione di Turi: era legge che la carica di stratego si coprisse dopo un intervallo di cinque anni, ma alcuni giovani, diventati abili in

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guerra e acquistata grande reputazione presso il grosso delle guarnigioni, senza tenere conto alcuno delle autorità e pensando di poter ottenere facilmente l'intento, misero mano dapprima a distruggere questa legge, in modo che gli stessi uomini potessero coprire di continuo la carica di stratego, vedendo che il popolo avrebbe votato con entusiasmo per la loro rielezione. I magistrati incaricati di questo, i cosiddetti «consiglieri», in un primo tempo cercarono di opporsi, poi si lasciarono persuadere supponendo che quelli, modificata questa legge, non avrebbero toccato il resto della costituzione; ma più tardi, volendo impedire altri mutamenti, non poterono far più niente e tutto il sistema della costituzione si trasformò in un regime dinastico in mano ai rivoluzionari. Tutte le costituzioni si sfasciano talora per una causa interna, talora per una causa esterna, quando nelle vicinanze c'è uno stato con costituzione contraria oppure tale stato è lontano, ma potente. Il che successe agli Ateniesi e ai Lacedemoni: infatti gli Ateniesi distrussero in ogni dove le oligarchie, i Laconi le democrazie. ��$JLGH�[Agide IV, della dinastia euripontide, salì al trono nel 244 a.C. e nell’arco di pochi anni, sostenuto dall’eforo Lisandro e dal suo facoltoso zio Agesilao, riuscì a far approvare importanti riforme ispirate all’antica legislazione licurghea. Restò in carica fino al 241 quando l’altro re, Leonida, acerrimo nemico delle sue riforme, e che Agide aveva fatto deporre e che era fuggito a Tegea, riuscì a farlo condannare e giustiziare]. �3OXWDUFR, 9LWD�GL�$JLGH, 3-7 (trad. C. Carena) La moglie di Acrotato, che lasciò incinta quando morì, dette alla luce un bambino, il quale venne affidato in tutela a Leonida, figlio di Cleomene. Ma l'erede morì in giovanissima età e il trono passò così a Leonida, per quanto fosse assai malvisto dai cittadini. Sebbene infatti la corruzione della costituzione avesse portato a una decadenza generale, la deviazione dai costumi dei padri era particolarmente evidente in Leonida. Egli era vissuto a lungo nelle corti dei satrapi e al servizio di Seleuco; ora pretendeva di portare quello sfarzo, nelle pratiche elleniche e in un governo costituzionale, dove erano fuori posto. 4. Agide invece, quanto a doti naturali e nobiltà d'animo, sorpassava di molto non solo Leonida, ma forse tutti coloro che avevano regnato dopo il grande Agesilao. Era cresciuto tra le ricchezze e le morbidezze di due donne, sua madre Agesistrata e sua nonna Archidamia, che erano le più ricche proprietarie di Sparta. Eppure, non ancora ventenne, entrò in guerra contro i piaceri. Si strappò di dosso quegli ornamenti che avrebbero dovuto, nell'opinione altrui, aggiunger grazia alla sua persona; dimesso ogni sfarzo, si compiacque soltanto della sua mantellina spartana: seguendo anche nel cibo, nei bagni, e in tutto il resto, l'antico costume laconico. Quanto poi al potere regio, diceva di desiderarlo solo nella misura in cui gli avrebbe permesso di restaurare le leggi e i costumi della patria. 5. La corruzione e la malattia, nella vita di Sparta, cominciarono poco dopo che, abbattuta la supremazia ateniese, la città si arricchì d'oro e d'argento. Poiché tuttavia le proprietà continuavano a trasmettersi di padre in figlio, il numero delle famiglie fissato da Licurgo restava immutato; e quest'ordine e parità, malgrado ogni altro errore, preservavano in qualche modo lo Stato dalla rovina. Accadde però che divenisse eforo un certo Epitadeo, uomo potente, ostinato e violento di carattere, che era entrato in discordia con suo figlio. Costui propose una legge per cui ciascuno poteva donare mentre era vivo o lasciare dopo morto i propri beni di famiglia, mobili e immobili, a chi volesse. Questa legge Epitadeo l'aveva introdotta per un risentimento personale; ma gli altri l'accettarono per cupidità, la convalidarono, e distrussero così il migliore degli istituti civili. I più potenti tra i cittadini, ormai, potevano acquistare senza più limiti, eliminando i legittimi eredi dalla successione; e infatti ben presto la ricchezza confluì nelle mani di pochi. L'indigenza dominò allora la città, togliendo l'agio per attendere alle attività più nobili, costringendo uomini liberi ad occupazioni indegne di loro, e suscitando animosa invidia verso gli abbienti. In questo modo i discendenti delle antiche famiglie spartane si ridussero a non più di settecento, e di queste erano forse un centinaio quelle che possedevano la terra e conservavano i diritti ad essa legati. Tutti gli altri, folla diseredata e senza più cittadinanza, se ne stavano inerti, fiacchi e senza ardore nella difesa dai nemici esterni, sempre spiando qualche occasione di mutare e sovvertire, le condizioni interne. 6. Agide stimò dunque che fosse nobile compito, come infatti era, ricondurre all'originario stato di eguaglianza e integrità l'insieme dei cittadini, e in questo senso volle saggiarne l'animo. I giovani gli dettero subito ascolto, al di là delle sue stesse speranze, e seguendo il suo esempio si spogliarono in nome della virtù, deponendo per così dire, l'abito del lusso per quello della libertà. Ma la maggior parte degli anziani, più avanzati nella corruzione, tremarono e inorridirono al nome di Licurgo, come schiavi fuggitivi ricondotti al padrone. Si scagliarono perciò contro Agide, che deplorava quello stato di cose e pretendeva di riportare Sparta all'antica dignità. Tuttavia Lisandro figlio di Libio, Mandroclida figlio di Ecfane, come pure Agesilao, approvarono e sostennero l’onorevole intento del re. Lisandro era tenuto nella massima stima dai suoi concittadini. Mandroclida, il più abile degli Elleni nel concertare un’impresa, era dotato di sagace scaltrezza e d'audacia insieme. Agesilao, infine, zio del re da parte di madre, era un parlatore formidabile, ma per il resto fiacco e dissipato; sicché, apparentemente, accettò di partecipare all'impresa in seguito alle insistenze e all'incoraggiamento del figlio Ippomedonte, che s'era distinto come soldato in molte guerre ed era molto potente per la simpatia che godeva tra i giovani; in realtà lo fece perché era carico di debiti e

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sperava di liberarsene grazie alla costituzione che sarebbe nata. Agide comunque, non appena ebbe lo zio dalla sua, cercò attraverso di lui di persuadere la propria madre, che per la moltitudine dei suoi protetti, amici, debitori, aveva grande influenza nella città e molta parte nei pubblici affari. 7. Agesistrata, udito il progetto, dapprima si sgomentò, e cercò di dissuadere il giovane dal tentare cose che non le sembravano fattibili né profittevoli. Ma poi Agesilao le dimostrò come l'impresa fosse perfettamente realizzabile e praticamente vantaggiosa. Lo stesso re, allora, pregò la madre di porre i suoi beni a disposizione della sua ambizione e della sua gloria. Egli non poteva, le disse, competere con gli altri re per ricchezza: ogni schiavo di satrapo, ogni servo dei soprintendenti di Tolemeo e di Seleuco, possedeva più ricchezze da solo che non insieme i due re di Sparta; ma se sullo sfarzo di quelli egli avesse potuto ottenere il vantaggio di una temperanza, di una semplicità, di una magnanimità, che ristabilissero l'uguaglianza e l'unione tra i cittadini, allora avrebbe acquistato titolo e fama di re veramente grande. &OHRPHQH�[Cleomene III, figlio dell’acerrimo nemico di Agide IV, Leonida, sposò per volontà del padre la vedova di Agide IV, Agiatide, che contribuì ad influenzarne la politica. Fu re dal 235 al 219.Svolse una politica estera aggressiva, acquisendo a Sparta diverse città del Pelopenneso e vincendo gli Achei in diverse battaglie. Dal 227 circa riprese i tentativi di riforma ‘licurghei’ di Agide rimettendo i debiti e mettendo in atto una redistribuzione delle terre. Dopo la sconfitta subita a Sellasia nel 222 ad opera Antigono III Dosone su richiesta di Arato generale della Lega Achea] �3OXWDUFR, 9LWD�GL�&OHRPHQH�7-13 (trad. C. Carena) 7. La nuova vittoria confermò Cleomene nei suoi alti disegni e nell'idea che, se avesse potuto ridurre nelle sue mani tutti gli affari civili durante la guerra contro gli Achei, avrebbe potuto più facilmente imporre la propria volontà. Cominciò dunque a persuadere il marito della madre, Megistonoo, che occorreva sbarazzarsi degli efori, mettere in comune i beni dei cittadini, e risvegliare Sparta, incitandola, dopo averla così riportata all'uguaglianza, a conquistare l’egemonia dell'Ellade. Megistonoo si convinse, e indusse a sua volta due o tre dei suoi amici ad abbracciare la loro causa. Ora accadde che proprio in quei giorni uno degli efori, mentre dormiva nel tempio di Pasifae, facesse uno strano sogno. Gli parve che nel luogo dove gli efori solevano deliberare, restasse un solo seggio e gli altri quattro fossero stati portati via. Mentre guardava stupito, una voce uscì dal santuario e disse che per Sparta era meglio così. Quando l'eforo gli raccontò questo sogno, Cleomene dapprima si turbò, credendo che l'altro sospettasse qualcosa e volesse tentarlo; ma come si persuase che non mentiva, fu incoraggiato. Presi dunque con sé quelli tra i cittadini che sospettava fossero i più avversi ai suoi disegni, occupò prima Erea e Alsea, città arcadi che si erano schierate dalla parte degli Achei; poi entrò a Orcomeno, per rifornirla di viveri, e infine pose il campo presso Mantinea. Di lì però intraprese una serie di lunghe marce su e giù, finché i Lacedemoni furono esausti del tutto. Su loro stessa preghiera ne lasciò il grosso in Arcadia e con i soli mercenari prese la via del ritorno. Lungo la strada, comunicò il suo piano a quelli che giudicava meglio disposti nei suoi riguardi, e procedette lentamente, in modo da cogliere gli efori mentre erano a pranzo. 8. Come giunsero in vicinanza della città, Cleomene mandò avanti Euriclida, affinchè si presentasse alla mensa degli efori dicendosi latore di un messaggio che il re inviava dal fronte. Ma Tericione, Febide e due degli iloti che erano stati allevati insieme a Cleomene (di quelli insomma che a Sparta chiamano "motaci"), seguirono di lì a poco con pochi soldati; e mentre Euriclida era ancora lì a riferire il suo messaggio, si buttarono sugli efori con le daghe sguainate. Il primo ad essere colpito, Agileo, appena trafitto, cadde subito a terra come morto. Ma più tardi, raccogliendo le forze, si trascinò fuori della stanza e riuscì a infilarsi senza essere visto in un piccolo edificio, che era il santuario di 3KRERV. Di solito questo era chiuso, ma capitò che proprio quella volta per caso fosse aperto; per cui Agileo, richiusasi dietro la porticina, fu in salvo e al sicuro. I suoi quattro colleghi invece furono uccisi, e così anche coloro che accorsero in aiuto, non più di dieci persone. Di quelli, però, che rimasero tranquilli non fu ucciso nessuno, né ad alcuno che lo desiderasse fu impedito di lasciare la città. Lo stesso Agileo, quando il giorno dopo uscì dal santuario, fu risparmiato. 9. I Lacedemoni hanno santuari non solo di 3KRERV (Paura) ma anche di 7KDQDWRV (Morte), come pure di *HORV� (Riso) e di altri sentimenti analoghi.�3KRERV, d'altra parte, non l'onorano come un demone dannoso da tenere a bada, ma perché lo considerano essenziale al buon funzionamento dello stato. E questa è anche la ragione di quell'usanza che riferisce Aristotele e per cui gli efori, entrando in carica, nell'invitare i cittadini a rispettare le leggi per non incorrere nel loro rigore, ordinano a tutti di radersi i baffi: ciò fanno, io penso, nell'intento di abituare i giovani ad ubbidire all'autorità anche nelle cose più minute. [...] Cleomene, quando fu giorno, pubblicò una lista di ottanta cittadini che dovevano andare in esilio, e fece togliere i seggi degli efori tranne uno, che riservò a se stesso. Convocata quindi l'assemblea, giustificò il suo operato dinanzi al popolo. Licurgo, ricordò, aveva associato ai re il Consiglio degli Anziani, e per lungo tempo la città era stata amministrata in questo modo senza bisogno di altra magistratura. Più tardi, però, per le proporzioni assunte dalla guerra contro i Messeni, i re non ebbero più tempo che per le spedizioni militari, ed affidarono perciò l'amministrazione della giustizia ad alcuni dei loro amici che scelsero e lasciarono in città al loro posto. Questi vennero chiamati "efori", cioè "guardiani", e infatti da principio non erano che assistenti dei re. Ma a poco a

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poco, senza quasi che alcuno se ne accorgesse, trasferirono il potere a se stessi, finché stabilirono una loro autorità personale. A prova di questo fatto Cleomene addusse l'usanza osservata dai re, quand'erano fatti chiamare dagli efori, di non rispondere né alla prima né alla seconda chiamata, ma solo alla terza; e ricordò come il primo individuo che aveva rafforzato ed esteso il potere degli efori, Asteropo, fosse vissuto molte generazioni dopo Licurgo. Finché dunque gli efori s'erano mantenuti entro giusti limiti, disse, era stato meglio sopportarli; ma ora che d'un potere usurpato s'erano valsi per sovvertire l'organizzazione tradizionale dello Stato, cacciar via perfino dei re e ucciderli senza processo, minacciare quanti aspiravano a vedere restaurata in Sparta la sua costituzione, che è la più bella e la più divina fra quante reggano una comunità umana, la cosa era divenuta intollerabile. Magari poi, aggiunse, fosse stato possibile evitare ogni spargimento di sangue nel liberare Sparta dalle infezioni che vi erano state introdotte dall'esterno: lusso, spreco, debiti, usura e, precorritori di tutti questi, miseria e opulenza: si sarebbe stimato il più fortunato di tutti i re, se, come un bravo medico, avesse potuto guarire la patria senza dolore. Ma la situazione era quella che era: per giustificarsi, nelle necessità in cui si trovava, non poteva che richiamarsi all'esempio di Licurgo, il quale, allorché si mise a fare da re, lui che re non era e neppure magistrato, ma un privato qualunque, irruppe in piazza con le armi, sì che, intimorito, il re Carillo andò a rifugiarsi presso un altare. Vero è che quel re era un uomo onesto e un buon patriota, per cui accettò e anzi assecondò le riforme di Licurgo; ma i provvedimenti che quest'ultimo aveva dovuto prendere dimostravano egualmente quanto fosse difficile cambiar forma di governo senza ricorrere alla violenza e al terrore. Quanto a sé, continuò Cleomene, egli aveva usato di questi mezzi con moderazione, limitandosi a togliere di mezzo quanti s'opponevano alla salvezza della patria. Ciò che ora restava da fare era questo: mettere in comune tutte le terre indistintamente; cancellare i debiti; procedere a un esame e a una scelta dei forestieri, tra i quali i più validi sarebbero diventati cittadini di Sparta e avrebbero dato il loro contributo di soldati alla salvezza della città. "Cesseremo cosi", concluse, "di vedere la Laconia fatta preda di Etoli e Illiri per mancanza di difensori."11. Misero dunque in comune le proprietà, e il primo a farlo fu Cleomene, seguito dal patrigno Megistonoo, dai suoi amici, e infine da tutti gli altri cittadini. La terra fu quindi divisa di nuovo tra tutti. Cleomene assegnò un lotto per ciascuno, anche a coloro che lui stesso aveva mandato in esilio, promettendo che li avrebbe fatti rientrare quando la situazione fosse tornata tranquilla. Quanto ai perieci più validi, coi quali era stato completato il numero dei cittadini, ne fece quattromila opliti, e insegnò loro a usare invece dell'asta una picca da tenere con tutte e due le mani, come pure a portare lo scudo con una cinghia invece che con la maniglia. Quindi si volse all'educazione dei�giovani e alla riorganizzazione dell'antica disciplina, la cosiddetta �DJRJKp���aiutato in ciò da Sfero64, che allora si trovava a Sparta. In breve tempo venne restaurato l'appropriato ordinamento degli esercizi fisici e dei pasti in comune; e tutti i cittadini, alcuni per forza, ma i più volentieri, si conformarono di nuovo al semplice e antico regime spartano. Tuttavia Cleomene, per addolcire almeno nel nome ciò che di fatto era una monarchia, associò al regno il proprio fratello Euclida; e fu questa la sola volta che capitò agli Spartani di avere due re della stessa famiglia. 12. Nell'opinione di Arato e degli Achei tutte queste innovazioni avrebbero dovuto mettere in pericolo la posizione di Cleomene a Sparta; per cui calcolavano che, finché il rivolgimento rendesse malferma la sua posizione, non avrebbe abbandonato la città, tutta in subbuglio e in agitazione tanto grande. Come Cleomene lo riseppe, pensò che sarebbe stato bello ed utile mostrare ai nemici l'entusiasmo del proprio esercito. Perciò invase il territorio di Megalopoli, operando grandi saccheggi e devastazioni. Dopo di che, ingaggiata una compagnia di attori e musicanti, che attraversavano il paese, provenienti da Messene, eresse un teatro in pieno territorio nemico e indisse un concorso con quaranta mine di premio, a cui assistette in persona durante tutta una giornata. Né certo lo fece perché sentisse il bisogno d'uno spettacolo, ma per schernire i nemici e mostrare loro, con tanto disprezzo, come dominasse ampiamente la situazione. Tra tutti gli eserciti ellenici e macedoni, infatti, quello spartano era il solo che non avesse normalmente al proprio seguito compagnie di mimi, giocolieri, danzatrici, suonatrici d'arpa, e fosse insomma immune da ogni specie di oziosa buffoneria e licenza. La maggior parte del tempo era invece occupata dall'istruzione militare, terminata la quale s'intrattenevano piacevolmente in scambi di facezie spartane: divertimento quanto mai utile, di cui ho già scritto nella vita di Licurgo. 13. Per quanto riguarda la continenza, del resto, lo stesso Cleomene era d'esempio e d'ammaestramento a tutti col suo modo di vivere semplice, per niente diverso da quello della gente più modesta. E questo fatto l'avvantaggiava molto anche nei rapporti con gli altri elleni che nei re non solevano tanto ammirare la sfarzosa opulenza, quanto piuttosto odiare la sprezzante alterigia, l'astiosità e rudezza con cui trattavano chi si presentava a loro. Da Cleomene invece, che pure era re non meno degli altri, la gente trovava un'accoglienza tutta diversa: non gli vedeva indosso manti di porpora, né intorno un apparato di graziosi divani e lettighe; né era costretta a farsi strada a fatica attraverso una 64 Sfero di Boristene, filosofo stoico del III a.C. (nato intorno al 285 circa e vissuto almeno fino al 221), fu allievo di Zenone di Cizio e poi di Cleante, autore poliedrico, scrisse opere su molti aspetti delle filosofia. E’ annoverato come amico e consigliere di Cleomene III; cfr. Plu. Vita di Cleomene, 2: 6L�GLFH�G·DOWUD�SDUWH�FKH�&OHRPHQH��GD�UDJD]]R��IRVVH�VWDWR�D�VFXROD�GL�ILORVRILD�GD�6IHUR�GL�%RULVWHQH��6IHUR�HUD�XQR�GHL�SL��QRWL�GLVFHSROL�GL�=HQRQH�&L]LHR�HG�HUD�YHQXWR�D�6SDUWD��LQWHUHVVDQGRVL�PROWR��GXUDQWH�LO�VRJJLRUQR��GL�TXHOOD�JLRYHQW���H�SDUH�FKH�WDQWR�VL�FRPSLDFHVVH�GHOO·LQGROH�YLULOH�GL�&OHRPHQH��GD�LQILDPPDUQH�DQFRU�SL��O·DPEL]LRQH.

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folla di uscieri e segretari, o a presentare le sue richieste per iscritto. Lo vedeva invece arrivare vestito così come si trovava, salutare affabilmente, e dedicare con liberalità il suo tempo a chi aveva bisogno di lui. Tutti perciò restavano incantati, conquistati interamente, e sentenziavano che solo lui discendeva davvero da Eracle. Il suo pasto quotidiano Cleomene lo prendeva in una sala a tre divani, ed era un pasto ristrettissimo, alla spartana. Se tuttavia c'erano ambasciatori o altri ospiti forestieri, faceva aggiungere dagli inservienti un paio di divani e arricchire un poco la tavola, non però di salse e manicaretti speciali, ma di cibo più abbondante e di vino più generoso. Rimproverò anzi un suo amico che in un'occasione del genere aveva fatto servire il brodo nero e la focaccia d'orzo, come s'usava nelle mense pubbliche: "Perché con i forestieri", disse, "non dobbiamo fare troppo pedantemente, gli spartani, in queste cose". Levata via la tavola, veniva portato un tripode con un cratere di bronzo, due tazze d'argento da due cotili, e qualche bicchiere pure d'argento: chi voleva, si serviva da sé, perché nessuno porgeva il bicchiere a chi non ne aveva voglia. Musica non ce n'era, né se ne sentiva il bisogno, perché era lo stesso Cleomene, con la sua conversazione, ad accompagnare sapientemente il simposio: ora interrogando, ora narrando, ma sempre con una piacevole festevolezza, senza volgarità né gravosa pedanteria. Stimava infatti che un re dovesse conquistarsi la gente con la familiarità del tratto, la franchezza e piacevolezza della conversazione; e considerava disonesto e� volgare quel modo che avevano gli altri di procurarsi gli amici, adescandoli coi doni e corrompendoli col danaro, poiché gli amici, diceva, li si conquista col carattere, con la conversazione: il danaro non serve che per gli adulatori, e qui sta la differenza tra gli uni e gli altri. �