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    S A G G I S T I C A

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    A COLLOQUIO CON

    EUGENIO MONTALE

    Saggi di

    Giulia Bevilacqua Martina Bianchini Alberto Bisti

    Serena Cerasa Vittoria Chiappini Arianna Coletta

    Silvia Compagnucci Marta Dolino Sara Fasanari

    Riccardo Gasbarri Chiara Giannini Laura Luce Lanzi

    Mariele Laurenti Elena Mancini Luca Manfredi

    Giulia Moscaroli Sarah Paris Adelaide Pescatori

    Vittoria Pontremolesi Laura Maria Ribaudo Lisa Santoni

    Stefano Simone Roberta Troccaioli Sara Villa Avila

    Gaia Venci

    A cura di

    Gianluca Zappa

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    Per un “nuovo” Montale

    Aridità, desolazione... sono parole che si sono imposte come

    costitutive dell’immagine di Montale, se non l’unica di certo quella più

    diffusa nella scuola e nella cultura italiana, che è giunta fino a noi.

    Male di vivere, pessimismo, malinconia, senso di afa, prigione dentro

    un muro. E’ innegabile che tutto questo ci sia nelle sue liriche. Ma

    bisogna ascoltare il poeta quando circa vent’anni dopo, nel 1946,

    scrisse quella sua intervista immaginaria in cui, ricordando la genesi

    degli Ossi di seppia, affermava: “Il miracolo era per me evidente come

    la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili”

    (Intenzioni, intervista immaginaria, da La Rassegna d’Italia, I, n.1,

    gennaio 1946).

    Questa compresenza di due elementi opposti e irriducibili crea in

    Montale una continua contraddizione che è una legge rischiosa, come

    lui la definisce, in quanto non lascia tranquilli, ma “occorre vivere la

    propria contraddizione senza scappatoie”. Al tempo del suo primo

    libro di poesie questa polarità tra un qui e un altrove innervava tutto:

    “Mi pareva di essere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di

    essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena

    mi separava dal quid definitivo”.

    Questa sensazione si rafforzava in lui nell’incontro con il mare: “Tutto

    era attratto e assorbito dal mare fermentante”. Fermento, trasalimento,

    miracolo, prodigio, attesa… parole altrettanto importanti e ricorrenti

    nella poesia di Montale.

    Cosa pensiamo tutti? Che in Montale regni desolazione e aridità. Ma

    leggendolo con cuore aperto e libero da opinioni consolidate e

    analizzando in particolare le liriche che compongono la sezione

    Mediterraneo, dobbiamo dire che c’è molto di più e ci troviamo quasi

    dalla parte dell’autore contro i suoi interpreti.

    Al cospetto del mare Montale ritrova in sé quella legge rischiosa che

    costringe a vivere una contraddizione: essere vasto e diverso e, allo

    stesso tempo, fisso e piccino. Sarebbe molto più facile, e Montale lo sa

    e ce lo dice, essere o l’una o l’altra cosa. Dissolversi nella vastità o

    rassegnarsi nella fissità ed essere scabro ed essenziale come un

    ciottolo indifferente:

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    scheggia fuori del tempo, testimone

    di una volontà fredda che non passa.

    (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale)

    E’ così che lo vede, lo sente Solmi. Ma la lirica prosegue: Altro fui. E’

    così che si vede e si sente Montale. Per questo la legge del mare è

    anche severa, ineludibile: l’osso di seppia, il relitto della vita, il

    correlativo oggettivo dell’aridità del vivere rimanda sempre al mare. Il

    ciottolo roso e sofferente dice il mare. La contraddizione è giusta.

    L’immobilità dei finiti se consente di stupirsi di fronte alla vastità e al

    tripudio del mare vale la pena. Se il cuore, tanto importante per questo

    poeta, può ogni tanto essere scosso da trasalimenti, è giusto e

    desiderabile vivere dolorosamente la contraddizione:

    Questo pezzo di suolo non erbato

    Si è spaccato perché nascesse una margherita.

    (Giunge a volte, repente)

    Che nasca una margherita nell’aridità del vivere è un miracolo che

    genera un trasalimento che a sua volta scioglie ciò che era indurito.

    Rivolto al mare, Montale dice:

    […] tu sciogli

    ancora i groppi interni col tuo canto.

    (Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale)

    La sezione Mediterraneo si conclude con una preghiera commovente:

    […] a te mi rendo in umiltà. Non sono

    che favilla di un tirso. Bene lo so: bruciare,

    questo, non altro, è il mio significato.

    (Dissipa tu se lo vuoi)

    Il poeta ci ha dato qui una chiara definizione del proprio segreto.

    Chi brucia non è freddo, non è morto, non è cinico, non è desolato, non

    è nichilista. Non è il Montale a una sola dimensione che conosciamo.

    Questo lavoro di ricerca a più mani è il tentativo di presentare il

    Montale che abbiamo scoperto, quello che significativamente (e

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    sorprendentemente) apre gli Ossi di seppia con un “Godi” (In limine) e

    li chiude con un “rifiorire” (Riviere), anche in questo caso due verbi

    emblematici di un’apertura, di una disponibilità a quel più in là che

    tutte le immagini portano scritto, sotto la volta del cielo.

    Venendo a presentare le ricerche qui pubblicate, diremo innanzi tutto

    che sono frutto della partecipazione alla diciassettesima edizione del

    concorso nazionale “I colloqui fiorentini” indetto dall’associazione

    Diesse Firenze, alla quale hanno partecipato trentatre studenti del

    triennio Classico e Linguistico del Liceo “Mariano Buratti” di Viterbo.

    Mi hanno coadiuvato nello svolgere il progetto le docenti Lorella

    Alparone e Carla Lamanna. Devo anche sottolineare l’importanza del

    sostegno e dell’interesse dimostrato dal Dirigente scolastico Clara

    Vittori, fondamentale per lo svolgimento e la riuscita del progetto.

    Dopo il convegno di Firenze, il lavoro è continuato con la

    progettazione e la realizzazione di una mostra a pannelli presso la

    biblioteca comunale di Sutri (Viterbo), realizzata grazie ad una

    sinergia tra il Liceo e la locale amministrazione comunale (si ringrazia

    in particolare il dott. Tommaso Valeri per la collaborazione).

    La prima pista di ricerca che proponiamo, dal titolo Lo strumento da

    non “scordare”, è dedicata alle ragioni del cuore, così come emergono

    dalle liriche di Montale. La parole cuore è tra le più ricorrenti in Ossi

    di seppia e tra l’altro in testi esemplari come Corno inglese. Le

    intuizioni e le profonde riflessioni del poeta hanno attirato l’interesse e

    coinvolto la sensibilità degli studenti.

    Segue un lavoro incentrato su certe suggestioni dei testi di Montale,

    legate agli elementi naturali, La zona intermedia ovvero il terzo status.

    In effetti il poeta ha un rapporto molto stretto con la natura, alla quale

    affida, come è nella tecnica del correlativo oggettivo, il compito di

    rappresentare dimensioni profonde. Qualcuno ha proposto di seguire

    questa pista, desideroso di scoprire se portasse ad una più precisa

    comprensione del mondo dell’autore.

    Non poteva mancare un approfondimento sul già citato tema del

    miracolo, del prodigio, che a nostro parere dovrebbe diventare un

    elemento sempre più connotativo della poesia di Montale. E’ la tesi

    che svolge la ricerca Resta lo spiraglio. È poco e forse è tutto, andando

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    a verificare, in un viaggio lungo quasi tutta la produzione dell’autore,

    la persistenza dell’imprevisto che salva.

    A testimonianza di quante varie suggestioni sono nate dalla lettura del

    poeta, ecco un’ulteriore approfondimento, quello relativo al tempo:

    Una scheggia fuori dal tempo. In effetti l’ossessione del tempo che

    passa, che distrugge, che porta via tutto con sé, anche e soprattutto

    quello che ci è più caro nella vita, ha sempre accompagnato Montale, il

    quale, inoltre, si è spinto ad identificare il problema di “ammazzare il

    tempo” come il vero unico grande problema dell’uomo moderno.

    Altri studenti hanno invece sentito come molto vicino il problema della

    contraddizione, che costituisce infatti l’argomento della ricerca

    successiva. Una contraddizione che non si risolve mai in Montale, che

    si autorappresenta in una situazione di “soglia”, come sempre ad un

    bivio, senza avere la determinazione necessaria per scegliere una

    strada. E non fa specie che dei giovani siano rimasti affascinati da

    questa situazione.

    Infine un racconto inedito, di Stefano Simone, studente che ha

    partecipato al concorso della sezione narrativa prendendo l’abbrivio

    dal verso che chiude la sezione Mediterraneo di Ossi di seppia e che

    forse raffigura meglio il nostro autore. E’ una bellissima storia che

    parla dell’incontro di un giovane con Montale e che ha il suo punto

    culminante in un dialogo che si svolge tra i due. Si tratta dunque di un

    racconto che mette in scena quel colloquio segreto che ognuno di noi

    può fare con un grande poeta che in modo straordinario riesce a

    leggere anche la nostra vita mentre sta cercando di leggere la sua.

    Che è precisamente l’esperienza che tutti, docenti e studenti insieme,

    abbiamo fatto durante questa affascinante avventura.

    G.Z.

    Agosto 2018

  • 9

    La peculiarità dei saggi qui presentati, e in un certo senso il loro

    stesso valore, è quella di risultare dall’impatto diretto degli studenti

    con i testi di Montale, con il contributo e la mediazione dei docenti.

    Si è programmaticamente escluso ogni riferimento ai contributi critici

    e pertanto è impossibile stilare una bibliografia.

    Delle singole citazioni si darà conto all’interno dei saggi.

    Per quanto riguarda la produzione di Montale si è fatto riferimento

    alla seguente edizione:

    Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori

    2015

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    Lo strumento da non “scordare”

    Le ragioni del cuore nella poetica di Montale

    Di

    Silvia Compagnucci

    Chiara Giannini

    Mariele Laurenti

    Giulia Moscaroli

    Lisa Santoni

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    Questo lavoro di ricerca nasce dall'intensa emozione che ha provocato

    in noi la lirica Corno inglese, una delle prime di Ossi di seppia. La

    lirica vive di una fortissima tensione interna, è costituita da un unico

    lungo periodo che termina nella proposizione principale, posta alla

    fine. E in quella frase conclusiva c'è una struggente invocazione:

    il vento che nasce e muore

    nell'ora che lenta s'annera

    suonasse te pure stasera

    scordato strumento,

    cuore.

    Questa sorta di grido ci ha coinvolte. Quella parola conclusiva, isolata,

    a costituire un solo verso, ha attratto la nostra attenzione. Montale

    poeta del cuore? Sì, anche. E con sorpresa ci siamo accorte che questa

    parola tornava spesso nelle sue liriche. Ma il nostro interesse è stato

    catturato anche da quell'aggettivo, scordato, così inusuale, così

    ambiguo e allo stesso tempo espressivo. Cosa voleva dire il poeta? Che

    il cuore suona male, è stonato? Oppure che il cuore è stato lasciato da

    parte, come uno strumento inservibile?

    È molto complesso riuscire a stabilire che cosa si intenda con la parola

    “cuore”.

    Anatomicamente parlando il problema potrebbe essere risolto in breve

    tempo: il cuore è solo un muscolo carneo che lavora costantemente per

    tenerci in vita.

    Tutto però si complica quando si inizia a voler capire che cosa

    rappresenti simbolicamente il cuore, quale significato abbia per

    ciascuno di noi (quante volte usiamo questa parola senza intendere

    solo un muscolo!) e soprattutto cosa rappresenti per un poeta.

    A nostro parere una lirica di Ossi di Seppia, intitolata Quasi una

    fantasia, può aiutarci a capire quel complesso di desideri che

    costituiscono il contenuto della parola cuore. La riportiamo

    integralmente:

    Raggiorna, lo presento

    da un albore di frusto

    argento alle pareti:

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    lista un barlume le finestre chiuse.

    Torna l'avvenimento

    del sole e le diffuse

    voci, i consueti strepiti non porta.

    Perché? Penso ad un giorno d'incantesimo

    e delle giostre d'ore troppo uguali

    mi ripago. Traboccherà la forza

    che mi turgeva, incosciente mago,

    da grande tempo. Ora m'affaccerò,

    subisserò alte case, spogli viali.

    Avrò di contro un paese d'intatte nevi

    ma lievi come viste in un arazzo.

    Scivolerà dal cielo bioccoso un tardo raggio.

    Gremite d'invisibile luce selve e colline

    mi diranno l'elogio degl'ilari ritorni.

    Lieto leggerò i neri

    segni dei rami sul bianco

    come un essenziale alfabeto.

    Tutto il passato in un punto

    dinanzi mi sarà comparso.

    Non turberà suono alcuno

    quest'allegrezza solitaria.

    Filerà nell'aria

    o scenderà s'un paletto

    qualche galletto di marzo.

    Analizzando la poesia abbiamo notato come i desideri che affollano

    quella parte di noi che esprimiamo con la parola cuore sono tutti

    espressi al futuro e sono dipendenti da un’idea di miracolo,

    incantesimo.

    Passiamoli rapidamente in rassegna: il primo desiderio è quello

    appunto di vivere un giorno d’incantesimo che liberi dalla schiavitù

    dell’abitudine, dalla noia asfissiante del grigiore di giorni sempre

    uguali. È il desiderio che la vita sia sempre nuova e che non si debba

    sprofondare nella monotonia. Chi di noi non ha mai provato qualcosa

    di un simile?

    “Traboccherà la forza/ che mi turgeva…” È espresso qui, in secondo

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    luogo, il desiderio di dispiegare liberamente tutte le proprie

    potenzialità, senza condizionamenti o limiti, andando oltre i confini

    prefissati (“Subisserò alte case, spogli viali”). Di nuovo quindi

    un’aspirazione alla libertà.

    Il terzo desiderio esprime la possibilità di abitare un luogo “lieve” e

    puro, come la neve intatta, un paese innocente, come quello cui

    aspirava l’altro grande nostro poeta del Novecento, Giuseppe

    Ungaretti.

    Nella strofa successiva Montale esprime un desiderio di senso,

    rappresentandosi come qualcuno in grado di leggere il reale e di

    capirne il significato in modo leggero, senza sforzo (“Lieto leggerò i

    neri/ segni”).

    C’è poi il desiderio che niente di ciò che è stato vada perduto

    irrimediabilmente, ma che sia sempre innanzi, vivo e presente.

    Infine si parla di un’allegrezza che niente e nessuno possa turbare.

    Se volessimo sintetizzare potremmo dire che l’aspirazione del cuore

    umano è quella di elevarsi a qualcosa di più grande di ciò che si è, di

    infinitarsi, per usare un verbo creato da Montale. Il nostro cuore è in

    un rapporto misterioso con l’infinito e quando riesce in qualche modo

    ad avvicinarsi ad esso prova una gioia che non può essere turbata,

    quello stato d’animo con cui Montale apre la sua raccolta Ossi di

    seppia:

    Godi se il vento ch’ entra nel pomario

    vi rimena l’ondata della vita:

    qui dove affonda un morto

    viluppo di memorie,

    orto non era, ma reliquario.

    (In limine)

    Il cuore come luogo del desiderio

    Abbiamo dunque visto che il cuore è quella tensione costante verso

    l’infinito che è presente in tutti gli uomini e senza la quale non si

    riuscirebbe a vivere.

    Anche quando la vita ti fa piegare il capo, anche quando vieni a

    contatto con l’afa, ovvero quella strana sensazione di vanità del tutto,

    anche in questi momenti ecco che il cuore palpita ancora, ecco che

  • 16

    appaiono nuovamente le “due ghiandaie”. Stiamo ovviamente

    evocando una delle immagini più significative di Montale, quella che

    chiude la lirica A vortice s’abbatte della sezione “Mediterraneo” di

    Ossi di seppia, dove risulta evidente l’importanza che il poeta dà a quei

    trasalimenti dell’anima che sono in grado di distoglierci dalle nostre

    preoccupazioni, dai nostri dolori e ci permettono, anche se per un

    breve momento, di respirare in modo diverso. Perché in fondo si tratta

    di questo, di avere la fiducia che tutto non sia sempre

    obbligatoriamente fonte di affanno, ma che si possa percepire una

    chiamata alla bellezza e alla felicità in tutto ciò che ci circonda che si

    tratti di una persona, di un evento, o anche di un paesaggio.

    È un attimo incantato:

    Come rialzo il viso, ecco cessare

    i ragli sul mio capo; e via scoccare

    verso le strepeanti acque,

    frecciate biancazzurre, due ghiandaie.

    (A vortice s’abbatte)

    E cosa può essere il cuore se non la sede in cui è possibile percepire

    questi attimi di bellezza, il luogo in cui l’uomo ha il presentimento che

    vi sia ancora qualcosa per cui sperare, per cui sognare?

    Nella poesia di Montale appare chiaro che la fonte di questi

    trasalimenti per lo più deriva dall’impatto con qualcosa di naturale, e

    in particolar modo con il mare; in un’altra poesia della sezione

    Mediterraneo, Ho sostato talvolta nelle grotte, egli afferma che

    proprio il mare con il suo continuo cambiamento, con tutti i suoi

    segreti, con la sua potenza è riuscito a ridestargli il cuore, è riuscito a

    fargli capire che vi è una legge in questo mondo che non può essere

    violata, ovvero quella che il cuore tenderà sempre all’infinito, ai

    mutamenti, alla bellezza e non smetterà mai di trasformarsi, di

    evolversi: “Così, padre, dal tuo disfrenamento/ si afferma, chi ti guardi,

    una legge severa”, ovvero quella secondo la quale l’uomo non può per

    sua natura accontentarsi di ciò che ha, ma è portato a desiderare

    sempre di più perché senza desiderio, e quindi senza battito, non c’è

    vita.

    Questo richiamo all’infinito si può trovare anche nelle piccole cose,

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    come in un gesto, in un profumo o in un fiore e il nostro cuore è

    sempre lì per ricordarci che bisogna continuare a desiderare una nuova

    letizia, una nuova fonte di gioia.

    Tutti almeno una volta nella vita siamo stati attratti da qualcosa di

    apparentemente insignificante e che, invece, ci ha rivelato i suoi segreti

    spingendoci a chiederci se sia vero che tutto esiste per un motivo, che

    anche il dolore e i momenti di afa della vita servono a qualcosa,

    magari per rammentarci che la vita è preziosa e che bisogna sempre

    continuare a far battere il nostro cuore e non lasciare che si assopisca.

    Il cuore esperimenta il rapimento con cui ci lasciamo trasportare da ciò

    che ci circonda verso mete sconosciute, verso una bellezza desiderata,

    verso ciò che si nasconde dietro l’apparente realtà degli oggetti. È così

    che anche un piccolo fiore diviene fonte di ispirazione e si carica di un

    significato profondo per il poeta, che è stato in grado di ascoltare il

    segreto che proprio quel fiore aveva in serbo per lui.

    In Portami il girasole Montale chiede che gli venga donato un fiore

    che nella sua stessa essenza rappresenta la speranza di un contatto con

    il cielo, da poter trapiantare nella sua anima ormai offuscata e stanca:

    Portami il girasole ch’io lo trapianti

    nel mio terreno bruciato dal salino,

    e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti

    del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

    La poesia si conclude con l’aspirazione ad una fusione totale con il

    cielo, in un movimento di liberazione dalla prigione dei limiti umani,

    come se non ci possa essere vita senza una morte:

    Tendono alla chiarità le cose oscure,

    si esauriscono i corpi in un fluire

    di tinte: queste in musiche. Svanire

    è dunque la ventura delle venture.

    Si capisce allora perché Montale non chieda alla vita una stabilità

    rassicurante, un aspetto razionalmente comprensibile e dominabile,

    quanto piuttosto la possibilità di un continuo trasalimento, cioè di una

    novità, di un imprevisto:

  • 18

    Mia vita, a te non chiedo lineamenti

    fissi, volti plausibili o possessi.

    Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso

    sapore han miele e assenzio.

    Il cuore che ogni moto tiene a vile

    raro è squassato da trasalimenti.

    Così suona talvolta nel silenzio

    della campagna un colpo di fucile.

    Il cuore è il luogo del desiderio di infinito e non può accontentarsi di

    movimenti vili, cioè che non lo mettano in contatto in qualche modo,

    anche se raramente, con quell’infinito.

    Il cuore è uno strumento scordato

    Se il cuore esprime tutta l’esigenza di cui abbiamo parlato finora, è

    anche vero è uno scordato strumento, in quanto risulta spesso incapace

    di risuonare armonicamente con la realtà.

    In Corno inglese da una parte troviamo il vento, l’orizzonte di rame, il

    cielo e il mare, cioè la natura che suona e risuona, dall’altra parte il

    cuore del poeta, disarmonico e dimenticato. Il cuore è scordato perché

    si oppone al palpitare delle cose che suonano nelle loro variazioni e

    rappresentano l’armonia della natura, qualcosa di non traducibile.

    Il sole sta tramontando sul mare. Il vento, soffiando, fa suonare i rami

    degli alberi. Il poeta vorrebbe essere in unione con la natura, al cui

    spettacolo sta assistendo, ma ne è escluso, perché il suo cuore non è in

    accordo con lei e con la sua armonia. Gli Eldoradi, nella poesia

    rappresentano una realtà superiore, l’infinito, che si intravede appena

    dalle malchiuse porte.

    Il cuore di Montale vorrebbe ricominciare a suonare, vorrebbe essere

    ripreso dalle mani della natura, pur essendo un relitto abbandonato.

    Corno inglese esprime il desiderio di trovare un accordo del cuore con

    la realtà naturale, ma questo è uno strumento ormai incapace di

    “accordo”, incapace di partecipare al canto melodioso della natura che

    lo circonda.

    In un’intervista rilasciata nel 1951 (Sulla poesia, a cura di G. Zampa,

  • 19

    Milano 1976) il poeta affermava: “Avendo sentito fin dalla nascita una

    totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia

    ispirazione non poteva essere che quella disarmonia”. La sentiamo in

    molte liriche del poeta, come ad esempio in Giunge a volte repente,

    dove Montale ribadisce la rottura dell’accordo, dell’armonia tra cuore

    e natura, facendo riferimento in questo caso al mare:

    Dalla mia la tua musica sconcorda,

    allora, ed è nemico ogni tuo moto.

    In me ripiego, vuoto

    di forze, la tua voce pare sorda.

    Montale sente di aver perso ogni possibilità di dialogo con il mare, che

    per lui è sempre stato fondamentale. Non riesce più ad accordare alle

    voci delle onde il suo parlare e questo produce un doloroso

    ripiegamento pieno di un vuoto esistenziale.

    Nella poesia Crisalide il poeta definisce questa condizione una “tortura

    senza nome che ci volve/ e ci porta lontani”, una tortura che non si

    spiega, che accompagna l’uomo, stretto tra un desiderio di volo verso

    lontani approdi e l’immobilità della sua limitata esistenza.

    Nelle prime strofe il poeta si illude di poter trovare una via d’uscita

    dalla sua triste condizione, di poter vedere la barca di salvezza, ma alla

    fine tutto si trasforma in un’amara tortura, poiché “non restano/

    neppure le nostre orme sulla polvere;/ e noi andremo innanzi senza

    smuovere/ un sasso solo della gran muraglia”.

    Il senso di sconfitta scaturisce dal percepire che “forse tutto è fisso,

    tutto è scritto/ e non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/ il

    fatto che non era necessario!” (cioè non potremo mai realizzare

    veramente i desideri del cuore).

    L’uomo non può fare nulla per innalzarsi dalla condizione in cui si

    trova e vivrà per sempre la tortura del cuore e se prima riusciva a

    vedere le cose in maniera dolce, ora, a causa di questa tortura, diventa

    tutto nero.

    La disarmonia di Montale e la sua chiusura nel mondo vengono

    espressi nella poesia In limine, in cui il poeta esorta il suo interlocutore

    a trovare un’apertura nella rete che ci stringe, ad evadere dallo stato di

    angoscia e tortura al di qua dall’erto muro e uscire fuori.

  • 20

    Del resto già nella più antica lirica di Ossi di seppia, la celebre

    Meriggiare pallido e assorto, Montale aveva evocato, attraverso le

    immagini e soprattutto i suoni, questa condizione di disarmonia

    percepita dal cuore con triste meraviglia:

    E andando nel sole che abbaglia

    sentire con triste meraviglia

    com’è tutta la vita e il suo travaglio

    in questo seguitare una muraglia

    che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

    Come è noto, in questi celebri versi il poeta esprime tutta l’angoscia di

    vivere chiuso da un muro invalicabile che rende la sua esistenza

    un’amara tortura.

    In Gloria del disteso mezzogiorno viene descritto nell’ora più calda

    della giornata un paesaggio arido, desolato in cui non c’è più traccia di

    vita, in cui il sole è tanto forte da rendere incerti i contorni.

    La vita del poeta è come il paesaggio descritto nelle prime due strofe,

    immerso nell’arsura e senza alcuna ombra a terra; il sole alto è al di

    qua di un muretto oltre il quale c’è l’ora più bella: egli si ritrova

    nell’eterna attesa della pioggia.

    Altre volte la disarmonia è generata dalla percezione che ciò che si

    desidera è una realtà ormai fin troppo lontana e irrecuperabile.

    Ad esempio ne La farandola dei fanciulli sul greto vedendo dei

    fanciulli giocare tra di loro, egli rivede in qualche modo il sé stesso

    fanciullo ed ha nostalgia di quei tempi d’oro, soffre il distacco dalla

    condizione infantile, dalle antiche radici rispetto alla vita tetra e

    angosciosa che conduce.

    Montale ha nostalgia di un passato felice, che è rappresentato dalla

    gioventù: i fanciulli tra risa e giochi spensierati gli ricordano quei

    momenti che desidera con tutto il cuore, ma che con amarezza sa che

    non potranno mai tornare. Sebbene lo desideri, il passato non può

    comparire in un punto dinanzi.

    Si ritrova la stessa tematica nella celebre Cigola la carrucola del

    pozzo, in cui il poeta vede il riflesso del suo passato nel ricolmo

    secchio che sale alla luce, ma nel momento in cui cerca di sfiorarlo

    subito esso si deforma, “si fa vecchio,/ appartiene ad un altro”, poiché

  • 21

    ora c’è una distanza che impedisce di raggiungere il ricordo; si sente,

    dunque, la tortura di non poter più essere felici come lo si era nel

    passato, di non poter ritrovare la stessa armonia di quel cuore che si

    aveva da bambini.

    In pratica tutte le esigenze che avevamo riscontrato nella lirica Quasi

    una fantasia vengono completamente disattese in altri celebri luoghi

    montaliani. Non c’è possibilità di novità, né di prodigio, il passato è

    irrecuperabile, un senso di vuoto e di noia subentra al sentimento della

    forza, ma soprattutto sembra via di scampo, nessuna libertà e il mondo

    è una prigione.

    Il cuore ha un’esigenza di significato

    Di fronte a questa situazione profondamente contraddittoria, il cuore

    umano si scopre bisognoso di sapere e la tentazione (propria di ogni

    gnosi) è quella di affidarsi alla conoscenza, alla scienza, alla filosofia,

    ai libri. È un’esigenza di significato, che nasce dalla domanda: perché

    questa tortura? Perché questa disarmonia? Questo desiderio di

    conoscenza lo abbiamo visto espresso in una lirica della sezione

    “Mediterraneo”, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, nella quale

    Montale si rappresenta come una persona che nel cercare di scoprire il

    male che tarla il mondo avrebbe avuto bisogno dell’ausilio di una

    sempre maggiore indagine razionale (“m’occorreva il coltello che

    recide/ la mente che decide e si determina”) sostenuta da altri libri. Ma

    subito dopo il poeta dice di non voler rinunciare alla pagina rombante

    del mare, capace di sciogliere i groppi interni, cioè di sfare il gelo del

    cuore. Montale, dunque, non sembra voler rinunciare alle ragioni del

    cuore.

    Durante il nostro lavoro su questo poeta ci siamo imbattuti

    nell’intervento del professor Costantino Esposito alla sesta edizione

    dei “Colloqui Fiorentini” («Leggere Pavese con Agostino», Una

    ragione inquieta. Interventi e riflessioni nelle pieghe del nostro tempo,

    Edizioni di Pagina), in cui l’autore riporta l’esperienza personale di

    Pavese. Egli in Feria d’agosto racconta un incontro e una

    conversazione con un interlocutore abbastanza insolito: il campo di

    granturco. Come Pavese ascoltando “il fruscio dei lunghi steli mossi

    nell’aria” ricorda qualcosa che aveva dimenticato, così Montale fa la

  • 22

    stessa esperienza di fronte al mare. Nella lirica Antico, sono ubriacato

    dalla voce il suono delle onde del mare che si infrangono sulla costa

    diventa l’invito ad una rievocazione memoriale.

    E se Pavese definisce l’orizzonte di quel campo di granturco familiare,

    Montale chiama padre il mare, attribuendogli delle movenze

    tipicamente umane (“La casa delle mie estati lontane/ t’era accanto, lo

    sai […] Tu m’hai detto primo/ che il piccino fermento/ del mio cuore

    non era che un momento/ del tuo”). Pavese a distanza di anni,

    rivedendo lo stesso campo, si accorge che, pur essendo morto in lui il

    bambino che per la prima volta lo aveva incontrato, nulla è cambiato:

    persiste in lui ancora quel grido. Allo stesso modo Montale scrive:

    “Come allora oggi in tua presenza impietro/ mare”. Così come

    accadeva quando era bambino, il poeta di fronte al mare, è colto da

    sgomento.

    Gridare o rimanere impietriti davanti a qualcosa che suscita stupore o

    paura sono manifestazioni di un cuore che conosce la realtà secondo un

    approccio che non è quello razionale.

    Perché queste emozioni scaturiscono proprio dall’incontro con il mare

    o con il campo di granturco? Pavese risponderebbe: “Quel giorno fu un

    campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada,

    un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo.

    Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure

    naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi

    sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso”.

    Montale, invece, nella Intervista immaginaria (apparsa su «La

    Rassegna d’Italia», I, n. 1, gennaio 1946) ebbe a dire: “Negli ‘Ossi di

    seppia’ tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi

    che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche

    architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga”.

    Se in Pavese questo incontro è descritto come un’esperienza vissuta,

    nella poesia precedentemente citata Montale si rivolge direttamente ad

    un “tu”, al mare. Costantino Esposito ricorda che già Sant’Agostino

    aveva evidenziato come l’essere umano sia un “esse ad”, ovvero un

    essere in rapporto con altro da sé. Non a caso, quindi, è molto

    ricorrente nelle poesie di Montale il riferimento ad un “tu”, con il quale

    il poeta instaura un dialogo.

  • 23

    In questo dialogo si manifesta appunto quel desiderio di significato di

    cui parlavamo poco sopra.

    Nel momento in cui Montale torna ad aderire con tutto sé stesso al

    richiamo del mare, quest’ultimo entra dentro di lui. Sciogliendosi nella

    dimensione illimitata del mare il poeta scrive: “Sensi non ho; né senso.

    Non ho limite” (Potessi almeno costringere, in Mediterraneo), per cui

    egli sembra tornare ad essere un tutt’uno con l’elemento naturale.

    Lo stesso avviene per Pavese di fronte al campo di granturco: “Nulla

    mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo

    entrare in me stesso”. È qui rappresentato un modo diverso di

    conoscenza, un modo diverso di possedere la realtà. Spiega Costantino

    Esposito che è diverso dire il mondo c’è (è la conoscenza della ragione,

    la conoscenza dei libri) e dire invece il mondo mi aspetta. Questa è

    appunto la conoscenza del cuore, quella che accomuna il genio di

    Montale e di Pavese.

    Che cosa vuol dire, allora, che il campo di granturco, in Pavese, o, nel

    caso di Montale, il mare entra nel cuore dello spettatore? Vuol dire che

    piace? Che suscita in questo qualche sentimento? No, molto di più:

    vuol dire che la realtà chiede dell’uomo, dell’essere umano che ha di

    fronte, che la realtà c’è veramente quando si scopre il nesso tra la

    realtà e l’io. Questo è il significato delle cose: scoprire la relazione tra

    l’io dell’uomo e le cose che lo circondano.

    Costantino Esposito nel suo intervento afferma: “Il significato delle

    cose è quando ci sei tu che ospiti, che accogli il darsi della realtà e

    chiedi perché, quando la realtà ti colpisce e ti chiedi perché: quando

    avviene un incontro tra l’altro da me e il mio io”. Pavese ritrovandosi

    di fronte al campo di granturco capisce di avere innanzi una certezza,

    “di aver come toccato il fondo di un lago che mi attendeva”.

    L’attesa, però, è un fenomeno ambiguo: può essere una sospensione,

    ma anche un presentimento, può arrestarsi in una lontananza o può

    aprirsi ad un’imminenza. Al tempo stesso questa attesa nasce dall’esser

    stato già raggiunto, dall’aver già incontrato l’altro da sé, come Montale

    già da bambino aveva incontrato il mare e Pavese il campo di

    granturco.

    Il desiderio di conoscenza è uno strano fenomeno, in cui accade

    l’incontro tra la nostra attesa e il richiamo delle cose. Ed è proprio

  • 24

    questo che ci dice la poesia di Montale; la nostra attesa è suscitata da

    un richiamo, un segno della realtà; e la realtà, da parte sua, diventa

    significativa solo nell’orizzonte di quell’attesa.

    Un’esperienza di conoscenza è descritta nella poesia I limoni, in cui

    Montale scrive:

    ci si mostrano i gialli dei limoni;

    e il gelo del cuore si sfa,

    e in petto ci scrosciano

    le loro canzoni

    le trombe d’oro della solarità.

    Il profumo che dilaga dei limoni fa sciogliere i groppi del cuore e

    permette un approccio completamente diverso alla realtà. La ragione

    “profumata” dai limoni lavora in modo diverso per conoscere l’altro da

    sé, il mondo circostante.

    Con Montale scopriamo che si instaura quasi un rapporto d’amore tra

    noi e la realtà. Questo desiderio amoroso di conoscere ciò che ci

    circonda è inteso come la capacità di accogliere la provocazione del

    reale, di ascoltare la voce delle cose che toccano, smuovono e

    commuovono, alla ricerca del senso, della loro verità e del fatto che

    loro esistano proprio per noi.

    L’incontro con la realtà che entra dentro di noi, come il mare e il

    campo di granturco, è così forte, che l’esperienza rimane vivida in noi

    anche a distanza di anni. Come Montale rivedendo il paesaggio delle

    Cinque Terre, dove ha trascorso i momenti più intensi della sua

    infanzia, anche ognuno di noi facendo ritorno in un luogo in cui il

    cuore un giorno ha avuto una sorta di trasalimento non potrà far altro

    che dire: “Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è

    tutto”. E questo è un sapere molto più profondo di quello dei libri…

    Non “scordare” il cuore

    Se di fronte alla complessità del reale la prima tentazione è quella di un

    approccio meramente razionale, una seconda tentazione, ben più grave,

    è quella di assumere una posizione che tenta di ridurre quella

    complessità.

    È proprio la tentazione di “sentirmi scabro ed essenziale/ siccome i

  • 25

    ciottoli che tu volvi”. Insomma essere una pietra, oppure un animale,

    un essere senza ragione, non uomo intero; ma la poesia di Montale è

    un richiamo continuo a non essere superficiali, a non scordare la via

    del cuore, anche se questo può costare molta fatica e disagio. La

    «legge rischiosa» del mare insegna ad essere “vasto e diverso/ e

    insieme fisso” e, quindi, tiene insieme fattori molto diversi: il piccolo e

    l’immenso, il sempre mutevole e il fisso. Per questo è una legge

    rischiosa e difficile da seguire.

    L’uomo si trova, così, di fronte ad un bivio: essere scabro ed

    essenziale, oppure essere come la margherita che nasce da un “pezzo

    di suolo non erbato”.

    Se chi vive come una margherita è più fragile e sensibile e riesce a

    commuoversi di fronte al rombo del mare, permettendogli di sciogliere

    i groppi del proprio cuore, chi vive come un sasso, scordatosi del

    proprio cuore, è freddo e arido come un morto: e proprio come un

    morto non sente più il desiderio di andare oltre l’ostacolo che si

    frappone tra la natura e l’uomo.

    Un cuore di pietra non riuscirà mai ad emozionarsi davanti allo

    spettacolo della natura, a commuoversi di fronte alle piccole cose, al

    miracolo di una margherita che nascendo spacca un pezzo di suolo non

    erbato.

    Scordandosi del cuore, l’uomo, come un morto, rischia di cadere

    nell’abitudine e di lasciar spegnere così il fuoco del desiderio,

    rimanendo, quindi, intrappolato nella tortura, dalla quale non riesce a

    liberarsi. È l’immagine dell’uomo che non si volta, di quello che non

    vede l’ombra che la canicola stampa sullo scalcinato muro.

    L’invito che Montale offre ai lettori all’interno della sua poesia è

    proprio quello di mantenere questa posizione di apertura verso lo

    stupore, verso l’ignoto, di chiedere continui trasalimenti e, quindi, di

    non ridursi ad essere appena scabro ed essenziale.

    Di fronte al bivio Montale sceglie di seguire la via del cuore e ce lo

    dice chiaramente:

    Altro fui: uomo intento che riguarda

    in sé, in altrui, il bollore

    della vita fugace – uomo che tarda

    all’atto, che nessuno, poi, distrugge.

  • 26

    Nonostante la fredda insensibilità del cuore di pietra, come afferma lo

    stesso Montale in So l’ora in cui la faccia più impassibile, arriva un

    momento in cui anche chi sembra più arido e distaccato prova dolore,

    accompagnato da “una cruda smorfia”.

    Non riesce, quindi, a scordare completamente il proprio cuore e a

    rimanere indifferente di fronte alla vita.

    Molte volte siamo indirizzati ad una vita banale e superficiale, che è

    esattamente ciò che Montale cerca di combattere nelle sue poesie:

    combatte la tentazione di ridurre la complessità del reale.

    Ad esempio nella poesia Non chiederci la parola possiamo leggere:

    “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro

    informe”. Emerge qui la decisa volontà del poeta di voler salvare

    questa sua condizione complicata e complessa, che per lui è un valore,

    non un difetto, come apparirebbe a tutti gli altri.

    Alla fine della poesia Montale afferma che il cuore può farci sapere

    con certezza “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e che non può

    quindi arrivare alla verità assoluta.

    E quindi tutti siamo portati ad eliminare, in quanto non “squadrabili”,

    le esigenze del cuore.

    Quello che il clima culturale in cui viviamo ci spinge continuamente a

    ti mettere da parte, perché la vita deve essere “semplice” e

    possibilmente senza contrasti e contraddizioni.

    La soluzione migliore sembra essere quella di rivolgersi ad altro:

    successo, denaro, fama, carriera, informazioni, social network… In

    questo modo l’uomo si sente più leggero, più scabro ed essenziale, per

    usare le parole di Montale, poiché è concentrato solo sul proprio

    benessere superficiale e materiale. Il cuore in realtà può essere un

    valido strumento di conoscenza, anche se la strategia di tutti è quella di

    dimenticarlo, di metterlo da parte.

    La poesia di Montale insegna questa continua disponibilità, questa

    apertura al mistero. È bello, dunque, concludere con dei versi, anche

    commuoventi, che rappresentano un’invocazione al mistero.

    Abbiamo iniziato con un’invocazione al vento e chiudiamo con la

    struggente invocazione al mare, a cui il poeta si rende in umiltà, con un

    atteggiamento che mette da parte la pretesa della propria misura umana

  • 27

    e confessa tutta l’intensità del desiderio che abita nel suo cuore:

    Presa la mia lezione

    più che dalla tua gloria

    aperta, dall’ansare

    che quasi non dà suono

    di qualche tuo meriggio desolato

    a te mi rendo in umiltà. Non sono

    che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,

    questo, non altro, è il mio significato.

  • 28

  • 29

    La zona intermedia ovvero il “terzo status”

    Terra, aria, mare e fuoco nella poesia di Montale

    Di

    Vittoria Chiappini

    Sara Fasanari

    Sarah Paris

    Roberta Troccaioli

    Gaia Venci

  • 30

  • 31

    È la presenza dell’elemento naturale che più ci ha colpito leggendo

    Ossi di Seppia e allo stesso tempo il modo in cui Montale parta da una

    visione della natura come “segno”, cioè come qualcosa che rimanda a

    qualcos'altro, a un “di là”, recuperando un approccio quasi medievale

    della realtà come simbolo. La tecnica del correlativo oggettivo, del

    resto, non fa che utilizzare elementi fisici per esprimere sentimenti,

    stati d'animo, la vita interiore. Soprattutto in Ossi di Seppia il poeta

    utilizza la natura, la sua natura, quella dell'infanzia, il paesaggio di

    Monterosso delle Cinque Terre e carica gli elementi naturali di un

    significato particolare.

    A noi piaceva questa chiave di lettura per avvicinare l'opera di Montale

    alla nostra sensibilità. L'approccio simbolico, tipico del medioevo, è un

    approccio spirituale, mistico, proprio di una visione religiosa della

    realtà, molto diversa dall'approccio positivistico. Nelle liriche lette è

    come se avessimo colto un profondo senso di ricerca del poeta, quasi

    come se la sua sensibilità e la sua unica capacità di vedere le cose ci

    aprisse un varco anche sul suo particolare senso di spiritualità.

    Il presente lavoro parte dunque dalla ripresa degli elementi naturali,

    radunati secondo l’impianto classico dal più pesante al più leggero:

    terra, acqua, aria e fuoco.

    La terra è la rappresentazione della vita, la nostra aridità, la disarmonia

    del vivere, il patire, la sete, il freno, le radici che ti bloccano. Nello

    stesso tempo il morso: a volte uno si attacca al suol, altre volte

    vorrebbe disfarsene. La terra è il luogo dove si svolge il dramma

    dell'esistenza umana, è piena di ferite, è il luogo del male di vivere. È

    sulla terra che si percepisce il senso di oppressione.

    L’acqua è principalmente rappresentata dal mare, il Padre, l’Antico,

    l'origine, il mistero iniziale, il poema ignoto, ciò che ridesta il vasto,

    l'infinito, l'altrove, l'origine che lascia in eredità qualcosa che si sente

    proprio.

    L'oggetto del desiderio, l'oltre a cui si aspira.

    L’aria è rappresentata dal cielo e soprattutto dal vento, è l'Eldorado,

    l'Eden, il miracolo che viene dall'al di là, una sorta di apparizione

    divina, è la musica del vento, è l’inaspettato, il vento che feconda e

    riporta alla vita; è l’elemento attraverso cui appare la donna - angelo,

    come in Ti libero la fronte dai ghiaccioli. In questo caso è gelido, è

  • 32

    connesso ad una sorta di segreto a cui può partecipare solo il poeta

    stesso, segreto che può essere a volte piacevole e a volte terribile.

    Il fuoco (come elemento) è il desiderio, la tensione verso l'alto, verso il

    calore, ma è anche luce, e si collega all’immagine del girasole che

    tende per sua natura al cielo ma poi si riversa a terra. Come l’uomo che

    tende verso l’alto.

    A conclusione dei paragrafi dedicati a ciascun elemento, proponiamo

    come ultimo quello sull’Agave sullo scoglio, lirica esemplificativa,

    capace di riassumere in sé la presenza di tutti gli elementi che entrano

    in contatto tra loro, con le connotazioni fino a qui emerse.

    Infatti Montale non tratta gli elementi come realtà a sé stanti, isolate,

    ma li mette in relazione, creando delle immagini più complesse e

    ricche di significati.

    Il vento, ad esempio, entra in contatto con la terra e la feconda: questa

    si trasforma in orto e c’è un vero e proprio rifiorire, verbo con cui tra

    l’altro si concludono gli Ossi di Seppia.

    L’Agave sullo scoglio termina con l’immagine di qualche uccello di

    mare che se ne va nel cielo, come se abitasse una sorta di zona

    intermedia tra cielo e terra (zona non pesante come la terra né vero e

    proprio possesso celeste), una zona metafisica dove non si sosta mai

    ma si va sempre più in là. E’ questo il “terzo status”, così tipico di un

    poeta che ha voluto dirci che la realtà non è mai tutta e solo così come

    la vediamo.

    Terra

    La terra siamo noi, noi esseri umani, noi che assomigliamo a Montale.

    Ogni essere umano ha delle necessità fisiche, come la fame e la sete,

    proprio come la terra.

    Nelle poesie che abbiamo letto ed esaminato, specialmente in quelle di

    Ossi di seppia, l’elemento della terra ritorna spesso in termini di

    dipendenza da qualcos’altro. La terra è un’esigenza. E’ arida perché ha

    bisogno dell’acqua, assolata, bisognosa di riparo. Nella lirica In limine

    troviamo l’intervento del vento, del soffio che porta vita, tanto che il

    sostantivo terra è sostituito da pomario, perfetta rappresentazione di

    una realtà inaspettatamente viva.

    Nella maggior parte delle poesie di Montale infatti la terra è arida,

  • 33

    assetata, scotta, è rovente, è il simbolo della condizione stessa del

    poeta, condizione che egli spesso rappresenta esprimendo un senso di

    oppressione. E’ una terra arida, perché l’uomo viene definito privo di

    tutto; assetata, perché ha bisogno di un altro elemento per

    sopravvivere; rovente, proprio come Montale, che è in continua ricerca

    del mistero, per cui brucia di desiderio di poter arrivare al suo

    obiettivo, ad uno stato di giusta finitezza.

    Ma se si parla della terra, non si può non fare accenno anche al mare,

    al rapporto che questa terra ha con esso, la terra che si trova di fronte al

    mare, che discende al mare o che è bagnata da esso.

    Come la terra anche il poeta si rivolge di continuo al mare e si

    confronta con esso: si definisce immobile e non vasto, proprio come la

    terra, come se fosse obbligato a rimanere dov’è, senza potersi muovere

    perché bloccato dalle radici, e soffre perché ha questo forte desiderio

    di essere come il mare, vasto e mobile, mentre lui è come una terra

    bruciata.

    In Portami il girasole il secondo verso recita: nel mio terreno bruciato

    dal salino; vediamo come il poeta tenti di spiegarci il suo stato

    d’animo: egli arde di desiderio (bruciato-fuoco) e questa immagine è

    ulteriormente dall’aggettivo salino, che rimanda sì al mare, ma

    soprattutto all’intensità dolorosa del suo desiderio. Il girasole, invece, è

    connesso con il cielo, l’aria, un’altra dimensione, più libera e felice che

    si vorrebbe trapiantare nell’immobilità della terra. Ma tra cielo e terra

    non c’è contatto.

    La lirica Cielo e terra si conclude proprio con il poeta che afferma

    Ma se così non è può fare senza

    di noi, sue scorie, e della nostra storia.

    Perfetta presentazione del fatto che il cielo è in grado di cavarsela in

    modo totalmente autonomo, mentre la terra, e quindi l’uomo, no.

    Questa terra sofferente e smaniosa, che sente l’invito del mare, ma non

    può rispondervi per la sua immobilità; che cerca il cielo, ma non può

    sperimentarlo, per la sua pesantezza, è la rappresentazione

    dell’esistenza umana, condannata ad un desiderio acre, senza speranza

    di soluzione.

    Anche se a volte capita che il cielo, col suo vento, la tocchi

  • 34

    misteriosamente e le dia la possibilità, pur se solo per un istante

    benedetto, di trasformarsi e rifiorire…

    Acqua/Mare

    L'elemento dell'acqua in Montale è prevalentemente rappresentato dal

    mare, compagno costante della sua vita fin dall'infanzia. Nell'intervista

    immaginaria, pubblicata il primo gennaio del 1946 su La rassegna

    d'Italia (I, 1), il poeta dichiara che “negli Ossi di seppia tutto era

    attratto e assorbito dal mare”, connettendo così la propria poesia

    direttamente all'esperienza dell'incontro con la distesa marina, la cui

    legge rischiosa è “esser vasto e diverso/ e insieme fisso”, una

    definizione che ci mette subito di fronte alla complessità del simbolo,

    capace di tenere insieme realtà molto diverse tra loro e, in qualche

    modo, specchio dell'animo del poeta, che sente la contemporanea

    presenza in sé della fissità e dello slancio verso la vastità.

    In Montale il mare è un simbolo ricco di aspetti e complesso, al quale

    egli si rivolge specialmente nelle liriche della sezione “Mediterraneo”

    di Ossi di seppia, su cui in particolare ci soffermeremo in questo

    paragrafo.

    Il poeta definisce il mare con l’importante appellativo di “Padre” e lo

    collega direttamente alla sua esperienza di adolescente. Nella poesia

    Antico, sono ubriacato dalla voce... il poeta dichiara di aver avuto

    sempre, sin da piccolo, contatto diretto con il mare, dal momento che

    la casa di Monterosso in Liguria era accanto a quell’immensa distesa

    d’acqua che tanto ha attratto il poeta per tutta la sua vita:

    La casa delle mie estati lontane

    t'era accanto, lo sai […]

    Come allora oggi in tua presenza impietro, mare.

    L'ultimo dei versi citati ci dice che una sorta di shock dell'ignoto

    provato da Montale in presenza del mare è rimasto tale nelle

    successive fasi della sua vita.

    Durante l'infanzia la distesa del mare ha svolto il ruolo di compagna di

    gioco, di totale orizzonte; col passare degli anni, invece, ha assunto

    significati molto più profondi. Solo una cosa è rimasta invariata: lo

    sgomento che il poeta prova davanti al mare. Quest'ultimo viene

  • 35

    identificato con la parola “antico”, come se fosse considerato un

    antenato, un essere autorevole da rispettare, un mistero traboccante di

    segreti e di conseguenza anche qualcosa che non potrà mai essere

    capito del tutto; nel sentirlo parlare “dalle sue bocche”, il poeta

    ammette di essere impietrito alla sua presenza, inebriato e ubriacato

    dalla sua voce.

    ma non più degno

    mi credo del solenne ammonimento

    del tuo respiro. Tu m'hai detto primo

    che il piccino fermento

    del mio cuore non era che un momento

    del tuo.

    C’è in questa lirica un senso di sgomento, ma allo stesso tempo lo

    stupore di sentire una profonda corrispondenza: Montale, pur nella sua

    piccolezza di fronte alla vastità del mare, si percepisce come un

    “momento” di quella grandezza. Ne nasce come una misteriosa

    appartenenza, vissuta in modo totale soprattutto da bambino.

    Crescendo egli perde la capacità di entrare direttamente in

    comunicazione col mare. È proprio questo che il piccolo Montale non

    era in grado di percepire fino in fondo: la sua condizione di inferiorità

    di fronte al mare.

    La percezione della distanza da quell’età felice genera un senso di

    indegnità e nello stesso tempo fa scaturire una sorta di desiderio verso

    quella realtà che gli appare quasi infinita, un ardore che salva ma che

    contemporaneamente preannuncia il profilarsi di una straziante realtà:

    quella di sentirsi costretto ad una continua oscillazione fra una

    condizione di fissità e il desiderio di sciogliere le vele e salpare.

    La fissità è debolezza, è ciò che causa l’accumularsi delle inutili

    macerie nel profondo di noi stessi e senza la vastità, la mobilità,

    l’eternità che il mare rappresenta, nessun uomo, primo fra tutti il poeta

    stesso, potrà mai essere scosso da un trasalimento, poiché la vita di

    Montale e di tutti gli altri uomini è secco pendio, è lento franamento.

    L’uomo rimane a terra e pur sentendosi attratto, pur avendo bisogno di

    quel “giuoco di anella”, non riesce ad entrare nel circolo di

    quell’infinito fermentare marino, non può depurarsi dalla sua “lordura”

  • 36

    poiché è troppo rischioso essere sia vasti che fissi.

    Ecco il contrasto, la grandissima antitesi che tormenta Montale, che lo

    dilania insinuandogli la tentazione di vivere passivamente e con

    rassegnazione come un rottame roso dalla salsedine, come un osso di

    seppia sballottato dalle onde.

    Tuttavia il mare, nonostante riveli al poeta una dura realtà che non

    avrebbe mai voluto conoscere, eleva attraverso le salmastre parole il

    suo cuore ad uno stato di estasi, che dolcifica come miele, dona pace e

    tranquillità, anche se per poco, e riesce a impiantare una piccola

    speranza per un miracolo inatteso.

    Questa azione armoniosa e gratuita che il mare svolge è esplicitata

    nella lirica Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale:

    Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli

    ancora i groppi interni col tuo canto.

    Il tuo delirio sale agli astri ormai.

    e anche in Scendendo qualche volta:

    Ma bene il presentimento

    di te m'empiva l'anima.

    Il poeta, di fronte all’estasi prodottagli dal mare, non rimpiange nulla,

    come se provasse una sorta di devozione per questo “mostro sacro”,

    che con il suo avvolgersi e disciogliersi raggiunge il cielo, si fa

    discepolo di una sorta di volontà buona e divina.

    Il poeta ha bisogno del mare, al quale tra l’altro attribuisce una

    funzione liberatoria e purificante. Imitare il mare significa

    svuotarmi così d'ogni lordura

    come tu fai che sbatti sulle sponde

    tra sugheri alghe asterie

    le inutili macerie del tuo abisso.

    (Antico sono ubriacato dalla voce)

    Il presentimento e la visione del mare, oltre ad una purificazione,

    producono nel poeta una specie di immedesimazione, che libera dalle

    aride steppe che gli incatenano il cuore, da tutto ciò che lo costringe

  • 37

    ancorato a terra.

    Or, m’avvisavo, la pietra

    voleva strapparsi, protesa

    a un invisibile abbraccio;

    la dura materia sentiva

    il prossimo gorgo, e pulsava;

    e i ciuffi delle avide canne

    dicevano all’acque nascoste,

    scrollando, un assentimento.

    Tu vastità riscattavi

    anche il patire dei sassi:

    pel tuo tripudio era giusta

    l’immobilità dei finiti.

    Chinavo tra le petraie,

    giungevano buffi salmastri

    al cuore […].

    (Scendendo qualche volta)

    In questa poesia la “dura materia”, i “ciuffi delle avide canne” e lui

    stesso rappresentano il “male di vivere”, “l’immobilità dei finiti”,

    senza i quali però non proveremmo alcuna ammirazione guardando le

    “nascoste e strepeanti acque”. Tutta la natura sembra affrettarsi verso

    queste ultime; “pulsa”, “si protende”, vuole abbeverarsi, desidera

    colmare la sete, desidera essere sfiorata da quell' “abbraccio”, poiché

    solo questo abbraccio misterioso procura benessere e dona sollievo.

    Per Montale il mare è vastità e, davanti a questa, anche il patire dei

    sassi (la dura disarmonia della vita) è consentito e ha un senso.

    Così, padre, dal tuo disfrenamento

    si afferma, chi ti guardi, una legge severa.

    Ed è vano sfuggirla: mi condanna

    s'io lo tento anche a un ciottolo

    róso sul mio cammino,

    impietrato soffrire senza nome,

    o l'informe rottame

    che gittò fuor del corso la fiumara

    del vivere in un fitto di ramure e di strame.

  • 38

    Il mare, in Ho sostato talvolta nelle grotte, è descritto come un

    genitore dalla cui forza esala una legge che non è solo rischiosa, ma

    anche severa: una volta entrati in rapporto con lui non si può più

    tornare indietro, rendersi indifferenti, perché tutto reclama la sua

    vastità. Al poeta forse sarebbe piaciuto essere come un ciottolo,

    sarebbe stato più facile affrontare la vita proprio rifugiandosi

    nell’insensibilitò. Ma avrebbe rinunciato ad una parte essenziale di se

    stesso.

    In ogni caso, a volte, si sente il peso, la fatica di vivere ad un livello

    così alto, quando invece ci si potrebbe accontentare di sopravvivere.

    In Giunge a volte, repente si sente con massima intensità la sofferenza

    di Montale in quei momenti in cui l’animo sembra ribellarsi alla

    grandezza del mare, alla sua natura disumana (nel senso di troppo

    grande e difficile per l’uomo). Così si scava un profondo distacco

    dovuto ad un'immensa differenza tra l'identità del piccino uomo e

    quella del vasto mare.

    D'improvviso si delinea quindi come un crollo, un collasso, sia nel

    rapporto instaurato sia nel poeta stesso, che non può far altro che

    ripiegarsi nella sua fragilità. L'armonia della voce marina si trasforma

    in musica “scordata”, in sinfonia sorda, fastidiosa all'udito; e quella

    fermentante mobilità che il poeta tanto invidiava, ora diventa irritante

    alla vista, gli risulta ostile, come fosse un'offesa al suo essere.

    È come la difficoltà che un figlio prova di fronte ad un padre che

    riconosce troppo superiore, quel rancore che nasce dalla precisa

    coscienza di non poter essere in tutto e per tutto uguale.

    E questa che in me cresce

    è forse la rancura

    che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

    Ma questo disagio, significativamente, non rimane l’ultima parola,

    viene superato di slancio.

    Nella lirica successiva, Noi non sappiamo quale sortiremo, c’è il

    recupero di un rapporto che pareva compromesso:

    Pur di una cosa ci affidi,

    padre, e questa è che un poco del tuo dono

  • 39

    sia passato per sempre nelle sillabe

    che rechiamo con noi, api ronzanti.

    Il poeta porta dentro di sé un dono che gli è stato concesso, una sorta di

    imprinting che resterà vivo per l'eternità tra le righe delle sue poesie.

    Dopo tanta disarmonia messa a tema nelle poesie precedenti, in Potessi

    almeno costringere l'autore desidera riarmonizzare il colloquio con

    l'elemento e poter farlo andare d'accordo con il suo balbo parlare.

    Ovviamente è impossibile, in quanto l’uomo non ha parole adatte ad

    esprimere l’inesprimibile. Tuttavia il senso di sconfitta, che porta

    provvisoriamente ad un nuovo ripiegamento sul proprio limite, viene

    ancora una volta superato di slancio sentendo la forza sonora del mare

    che cresce. Il poeta si sente di nuovo travolto e inebriato dalla

    grandezza che ha di fronte e così si lascia andare all'infinto. I

    “pensieri” tristi gli fuggono come per magia dalla mente e, provando

    un senso di rinascita e, sentendo la liberazione dei groppi interni, si

    sente spiritualmente congiunto al mare, tanto da percepire un senso di

    illimitatezza, non più vincolato né al tempo né allo spazio.

    È questa la risposta al delirio d’immobilità che perseguita il Montale-

    Arsenio, una risposta salvifica che viene invocata nell’ultima poesia di

    Mediterraneo, Dissipa tu se lo vuoi, dove Montale attribuisce al mare il

    diritto di fare ciò che vuole: può annullare persino la sua stessa vita se

    lo desidera, se vuole può sgretolarla come fa la spugna con il segno di

    un pezzo di gesso su una lavagna.

    Nei versi finali, invece, usa l'immagine di un bastone di legno

    consumato dalla fiamma del fuoco, ed è proprio questo fuoco il senso,

    lo scopo della vita dell'autore: ardere di desiderio, di attesa, di speranza

    in un evento impossibile, ignorato e però creduto. Quello che conta a

    questo punto, per Montale, non è imitare il mare nella sua gloria

    (inarrivabile), ma nell' ansimare, poiché in quell'ansimare si rispecchia

    la stessa ansietà del cuore umano.

    Così il poeta si può solo “rendere in umiltà” al mare, anche, o proprio,

    non sentendosi degno del suo respiro, capace di calmare e colmare

    tutto. Il mare è dolcezza, è forza, è richiamo vitale, è sete d'infinito.

    Il profumo del vento marino, la salsedine, il soave concerto che le onde

    fanno approdando sulla sponda o infrangendosi sulla scogliera

    ridestano in Montale ricordi d'infanzia, la speranza in un miracolo e la

  • 40

    consapevolezza della propria condizione umana. Senza il mare niente

    vivrebbe, niente da deserto, diverrebbe orto.

    Aria, vento

    Godi se il vento ch'entra nel pomario

    vi rimena l'ondata della vita:

    qui dove affonda un morto

    viluppo di memorie,

    orto non era, ma reliquiario.

    Questi sono i primi versi di In Limine, lirica con cui Montale apre la

    sua raccolta poetica Ossi di Seppia. Proprio in questa poesia è

    contenuto uno degli elementi che più ricorre nelle sue varie raccolte: il

    vento. L’elemento porta un’ondata di vita, un cambiamento

    nell’esistenza dell’uomo e della natura stessa, permette di vivere in una

    maniera diversa, nuova, più intensa, trasformando il reliquiario in orto.

    Il vento riesce a soffiare anche in un groviglio di cose oramai messe da

    parte, quasi dimenticate, a cui nessuno pensa, rivelandosi così come un

    prodigio imprevisto.

    Montale torna subito a cantare il vento in Corno inglese:

    Il vento che stasera suona attento

    – ricorda un forte scotere di lame –

    gli strumenti dei fitti alberi e spazza

    l'orizzonte di rame

    dove strisce di luce si protendono

    come aquiloni al cielo che rimbomba

    (Nuvole in viaggio, chiari

    reami di lassù! D'alti Eldoradi

    malchiuse porte!)

    e il mare che scaglia a scaglia,

    livido, muta colore

    lancia a terra una tromba

    di schiume intorte;

    il vento che nasce e muore

    nell'ora che lenta s'annera

    suonasse te pure stasera

    scordato strumento,

    cuore.

  • 41

    Qui il vento è l’input che dà inizio una straordinaria avventura.

    Montale riesce a mescolare l’arte della musica con la natura creando

    una vera e propria melodia in un tramonto estivo. Il vento, suonando

    attraverso gli alberi, che diventano come delle lame che stridono fra

    loro, sgombra il cielo e lascia apparire delle strisce di luce provenienti

    dall’alto, più precisamente da porte mal chiuse che, quasi per sbaglio,

    lasciano intravedere ciò che vi è dietro, ovvero regni pieni d’oro, come

    li chiama il poeta, Eldoradi, inaccessibili all’uomo. È come se dietro

    quegli spazi di cielo si nascondessero delle speranze o dei desideri che

    l’uomo nutre ma che stando a terra non può realizzare; questi si

    trasmutano sotto forma di vento e recano all’essere umano lo stesso

    sentimento bramato. Il vento nasce e nello stesso tempo muore,

    ricordando così il ritmo delle onde del mare che sbattono sul

    bagnasciuga. In questa sinfonia, Montale spera che il vento possa

    soffiare nell’unico strumento scordato in quel momento, ovvero il suo

    cuore.

    Altrove il vento è la passione che travolge, che brucia e non a caso

    viene accostato ad una figura femminile. Come nella lirica Falsetto di

    Ossi di seppia, la cui protagonista è la giovane Esterina Rossi,

    conosciuta dal poeta in vacanza sulle Cinque Terre, colta nel momento

    del passaggio da ragazza a donna. Un passaggio delicato, presentato

    come un’insidia:

    Sommersa ti vedremo

    nella fumea che il vento

    lacera o addensa, violento

    Il vento è qui connotato come un aggressore violento, dotato di una

    forza travolgente e irresistibile. E infatti vince. La ragazza sente il

    richiamo del mare e, spinta dal vento, si tuffa verso il suo divino amico

    che la accoglie fra le sue braccia. Il vento è come un forza irrazionale

    che spinge dentro una nuova avventura, che anche il poeta vorrebbe

    vivere in pienezza e tuttavia rimane immobile, bloccato. Il vento passa

    e invita, ma la terra resta ferma.

    Il poeta non è della razza del vento, né della razza del mare:

    Ti guardiamo noi, della razza

  • 42

    di chi rimane a terra.

    Il vento, l’aria, appartengono al campo semantico del cielo, questo

    luogo lontano dalla terra dove spesso si muovono uccelli in volo e, più

    tardi, la donna-angelo. Creature della libertà felice o dell’amore che ha

    compassione della terra e che non esitano ad affrontare viaggi

    pericolosi pur raggiungere il poeta. Prendiamo ad esempio la lirica Ti

    libero la fronte dai ghiaccioli, contenuta nella raccolta Le occasioni:

    Ti libero la fronte dai ghiaccioli

    che raccogliesti traversando l’alte

    nebulose; hai le penne lacerate

    dai cicloni, ti desti a soprassalti.

    Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo

    l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole

    freddoloso; e le altre ombre che scantonano

    nel vicolo non sanno che sei qui.

    Quella a cui Montale toglie i ghiaccioli dalla fronte è Clizia, la donna-

    girasole.

    Ella non è come le altre, ma è una donna-angelo, che, come Beatrice di

    Dante, ha viaggiato attraversando distanze oceaniche per raggiungere il

    poeta direttamente nella dimensione terrena in cui si trova.

    Le conseguenze di questo viaggio sono visibili sul corpo dell’angelo:

    le sue ali sono state travolte dalle raffiche dei cicloni e il suo aspetto è

    stanco, sopraffatto.

    La natura stessa sembra percepire la condizione di Clizia infatti il sole

    è freddo, proprio come lei, nonostante sia mezzogiorno. Non si passa

    impunemente dall’aria alla terra.

    Fuoco, luce e calore

    “Bene lo so: bruciare,

    questo, non altro, è il mio significato.

    (Dissipa tu se lo vuoi)

    L’immagine simbolica che si attribuisce spesso al fuoco, è proprio

    quello della luce, di un qualcosa di divino, non terrestre. Un qualcosa

  • 43

    di speciale, che non appartiene a questo mondo, pur poggiandosi sulla

    terra, spesso bruciata, come quella presente in Montale, arsa dalla forza

    del sole in cui il fuoco è spesso in relazione con la terra e con l’aria.

    Potremmo dire che il fuoco, che sempre tende verso l’altro,

    rappresenta molto bene il bruciante desiderio dell’uomo che si

    protende verso un “più in là”, una dimensione che non è la sua. Il

    bruciore che si evoca è dunque il martirio del cuore desiderante.

    E’ come un’eterna preda di questo desiderio che si presenta Montale

    nei versi conclusivi della lirica che chiude Mediterraneo, dove il poeta

    afferma che ormai della sua vita non rimane altro che bruciare come un

    ramo. E’ come se nella sua vita continuasse a bruciare di desiderio per

    qualcosa che non ha ancora ricevuto e che non può smettere di

    bramare.

    L’immagine torna spesso in Montale:

    Portami il girasole ch’io lo trapianti

    nel mio terreno bruciato dal salino.

    In questo famoso incipit la funzione del fuoco che brucia è assegnata al

    sale, ma il campo semantico è lo stesso e di nuovo siamo in una

    situazione di tensione, di forte legame tra la terra e qualcosa d’altro.

    Infatti il girasole, oggetto del desiderio, esprime la necessità del sole,

    che è luce senza la quale non può sopravvivere.

    Il poeta fa una richiesta: vuole che gli si porti un girasole perchè sia

    trapiantato in una terra arsa e bruciata. Ma, ci siamo chiesti, come può

    nascere la vita da un terreno così poco fertile? Non è possibile.

    Montale è alla ricerca di qualcosa un po’ più grande di un semplice

    girasole. Sta chiedendo un miracolo. La sua richiesta potrebbe esser

    interpretata come una preghiera, nella speranza di ricevere questo

    miracolo. Notevole il significato simbolico che viene attribuito al fiore:

    non più come un essere vivente inanimato, ma quasi come un angelo,

    attraverso la personificazione del volto giallino.

    La tendenza naturale delle fiamme di andare contro la forza di gravità

    ed elevarsi verso il cielo, corrisponde un po’ al desiderio dell’animo

    del poeta di innalzarsi verso l’alto, l’irraggiungibile cielo. È questo che

    Montale desidera, questo è il suo desiderio impossibile che lo costringe

    a bruciare. Riuscire ad arrivare al cielo. E questo bruciare lo logora, è

  • 44

    un ardere che consuma.

    Sostantivi come Trasparenze e verbi come, ad esempio, vapora, fanno

    capire quanto ci stiamo allontanando dalla materialità per giungere

    all'essenza. Il girasole è ormai simbolo di un'ebbrezza che rischiara la

    visione delle cose. La luce diventa qualcosa di fronte alla quale non si

    può fare altro che impazzire. E Montale in questa occasione sta

    chiedendo alla sua Musa (luce) di essere illuminato.

    Il fuoco nelle poesie di Montale, come abbiamo visto, può assumere il

    ruolo, forse più traslato, di luce. Può essere la luce di una candela, del

    sole, o del caminetto acceso in una casa, che continua ad ardere, come

    nella lirica Il fuoco che scoppietta.

    Il testo si apre con un’immagine molto casalinga: un caminetto con il

    fuoco che scoppietta, un uomo addormentatosi davanti, forse grazie al

    tepore. Poi il fuoco torna ad essere luce, una luce abissale. L’aggettivo

    produce qui un ossimoro, dal momento che quando parliamo di abissi

    nella nostra mente immaginiamo profondità, buio, freddo; ci riferiamo

    agli abissi marini, sempre oscuri, che mettono paura.

    Montale definisce questa luce come bugiarda, di finto bronzo, perché

    gli oggetti riflettendo la luce, appaiono come se fossero altro da quel

    che sono. In questo caso il poeta ci parla di una luce che inganna, che

    camuffa la realtà.

    Lo stesso accade in altri luoghi di Ossi di seppia:

    Agli occhi sei barlume che vacilla,

    al piede, teso ghiaccio che si incrina

    (Felicità raggiunta, si cammina)

    Anche qui abbiamo la relazione inaspettata tra caldo (il barlume, la

    luce) e il freddo del ghiaccio che si incrina. L’antitesi suggerisce di

    nuovo una forma di inganno, causato dai sensi umani, vista e tatto. La

    prima ci permette di osservare, capire e ammirare, ma anche illuderci,

    sognare; con il secondo si torna alla realtà, che può essere molto

    diversa. Il miraggio è un prodotto della luce. La “felicità raggiunta”

    non è che illusoria.

    C’è poi il valore soprannaturale del simbolo della luce e Montale,

    appassionato cultore di Dante, lo sa benissimo. nel mondo simbolico

    come qualcosa di soprannaturale e di sacro.

  • 45

    E’ un simbolo ancestrale, che è presente nei miti primitivi, nella

    Bibbia, nei Vangeli. Quando gli angeli vengono sulla terra e

    annunciano o appaiono agli uomini, sono sempre circondati da una

    grande luce accecante. Nella filosofia, Aristotele elabora un concetto

    della luce che pur nella sua apparente immaterialità, è fondante della

    corporeità dell'universo. La luce infatti coincide con il quinto

    elemento, una materia eterna e fluida che circonda tutti i corpi la cui

    consistenza contingente è data dai quattro elementi tradizionali. Quindi

    la luce è alla base dell'essere fisico animato ed inanimato. Tendere alla

    luce significa tendere all’essenza.

    Luce e calore del fuoco sono entrambi presenti, in modo più ricco e

    complesso, nella lirica Sul muro grafito di Ossi di seppia, dove si

    percepisce un senso di privazione. L’ombra prodotta dal muro grafito

    rende quasi finito il cielo, gli toglie la luce e la dimensione infinita. Il

    poeta sembra poi provare nostalgia per un fuoco che un tempo arse

    nelle vene delle persone. Gli manca questo bruciore che l’umanità un

    tempo aveva e che oggi sembra aver perso irrimediabilmente.

    Torniamo allora al desiderio: luce e fuoco. Senza di questi elementi

    resta il freddo e l’opacità.

    Sul muro grafito

    che adombra i sedili rari

    l’arco del cielo appare

    finito.

    Chi si ricorda più del fuoco ch’arse

    impetuoso

    nelle vene del mondo; in un riposo

    freddo le forme, opache, sono sparse.

    Forme opache e sparse. Privazione di senso, di luce, di stupore.

    “Riposo freddo”, il contrario di bruciare sempre.

    “L’agave sullo scoglio”

    La lirica L’agave sullo scoglio è un testo nel quale Montale mette

    insieme tutti e quattro gli elementi naturali in modo esplicito, o

    solamente evocandoli.

  • 46

    Le tre parti di cui è composta la lirica sono caratterizzate dalla

    presenza costante e cangiante del vento. Il punto di vista del poeta

    sembra quello di un regista che riprende silenzioso tre diverse scene; il

    vento è colto in tre manifestazioni diverse, lo Scirocco, la Tramontana

    e il Maestrale, ed ognuna di esse è il correlativo oggettivo di una

    condizione interiore.

    Lo Scirocco rappresenta il momento in cui si sente l’immobilità della

    vita con un senso di oppressione, come se si fosse sotto una cappa,

    mentre il calore sembra che “frigga la materia”; la Tramontana è

    invece il vento gelido che permette di vedere le cose senza foschie,

    nella loro situazione reale, che è tragica, è un crollo universale:

    Ogni forma si squassa nel subbuglio

    degli elementi; è in un urlo solo, un muglio

    di scerpate esistenze: tutto schianta

    l’ora che passa: viaggiano la cupola del cielo

    non sai se foglie o uccelli - e non son più.

    Alla fine con il Maestrale giunge misteriosamente la dolcezza di una

    carezza momentanea, un miracolo che trasforma tutta la terra e genera

    una sorta di speranza; si intravede allora la possibilità di un “più in la”.

    Il poeta si identifica con l'immobile agave abbarbicata sul terreno

    roccioso e arido che si affaccia sul mare e sul quale cerca di

    sopravvivere. La condizione della pianta è una metafora calzante delle

    sensazioni del poeta che si sente schiavo di un mondo, la terra, che non

    gli appartiene. In Scirocco scrive:

    Oh alide ali dell'aria

    ora son io l'agave che s'abbarbica al crepaccio

    dello scoglio

    e sfugge al mare da le braccia d'alghe

    che spalanca ampie gole e abbranca rocce;

    e nel fermento

    d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci

    che non sanno più esplodere oggi sento

    la mia immobilità come un tormento.

    L'uomo, come l'agave, racchiude all'interno dei suoi bracci gonfi i

  • 47

    boccioli, che fioriscono raramente in un’ebrietudine tarda, dando

    un'illusione momentanea di rinascita.

    La terra in sé, è vista come un elemento immobile in estrema

    contrapposizione ad aria, acqua e fuoco, elementi che hanno la

    capacità di movimento e di modellare la terra che, in ogni caso, subisce

    silenziosa il loro passaggio e senza i quali non potrebbe esistere.

    Il vento, nella prima e nella seconda lirica, è arido e provoca effetti

    negativi sulla terra e, in particolare, sull'agave. Dai versi sembra

    emergere una cacofonia generale. In Tramontana, tutto è confuso e la

    terra è sentita come nemica::

    E tu che tutta ti scrolli tra i tonfi

    dei venti disfrenati

    e stringi a te i bracci gonfi

    di fiori non ancora nati;

    come senti nemici

    gli spiriti che la convulsa terra

    sorvolano a sciami,

    mia vita sottile, e come ami

    oggi le tue radici.

    In questi versi, Montale sottolinea come l'agave sia schiava delle sue

    radici che spesso odia ma di cui, come in questo caso, ha bisogno,

    poiché proteggono la sua vita sottile dalle intemperie, evitando che sia

    spazzata via dal vento e quindi allontanandola dal pericolo.

    Il poeta-agave, immobile sullo strapiombo, riesce a vedere se stesso e

    le cose intorno a lui grazie al riflesso del mare, come se fosse uno

    specchio, fisso ma in continuo movimento, come le altre immagini che

    vede riflesse attraverso esso e che gli ricordano di essere bloccato e di

    non poter andare oltre. Montale riflette sui turbamenti dell'uomo che è

    solo un passeggero sulla terra, in pratica nemmeno questo elemento gli

    appartiene del tutto ed esso causa l'angoscia per una condizione

    incomprensibile che non dà pace.

    Nella terza parte, Maestrale, il paesaggio ritrova attimi di tranquillità,

    da reliquiario diventa orto; sembra che il vento porti con sé una

    sinfonia, addirittura l’agave fiorisce e si sente rinascere. Negli ultimi

    versi ecco una novità leggera:

  • 48

    Sotto l’azzurro fitto

    del cielo qualche uccello di mare se ne va;

    né sosta mai: perché tutte le immagini portano

    scritto:

    “più in là!”

    Il poeta scorge un uccello che vola nella zona intermedia tra la distesa

    marina e l’azzurro cielo che lui definisce fitto, quasi invalicabile, come

    un limite che nemmeno gli uccelli possono varcare. Nella zona

    intermedia c’è un movimento continuo, una continua tensione e una

    sensazione: che la realtà non è solo quella che vediamo o che

    tocchiamo ma c’è molto di più.

    Quell’uccello che vola è forse lo stesso poeta, che ora abita la zona

    intermedia, tra cielo e terra, dove si viaggia sempre col cuore e col

    desiderio. E’ il “terzo status”, come Montale lo definirà anni dopo

    nella lirica Credo di Altri versi:

    Credo vero il miracolo che tra la vita e la morte

    esista un terzo status che ci trovò tra i suoi.

    Il “terzo status”

    Quella che Montale definisce così è dunque la zona intermedia, non è

    la vita (il cielo), non è la morte (la terra). È “sotto l’azzurro del cielo”

    dove vola l’uccello di mare in cerca del più in là. Montale rappresenta

    sé stesso e anche la sua Musa (Clizia) come abitanti di questa zona. Ma

    questa è un po’ la condizione di tutti. In effetti siamo tutti uccelli di

    mare che volano tra vita e morte in cerca del più in là.

    Abbiamo evocato i quattro elementi per scoprire che Montale non li

    tratta come se fossero a sé stanti, ma nelle loro relazioni: il vento

    feconda la terra e il reliquario, un ammasso di cose morte, da inaridito

    diventa orto; il fuoco va verso il cielo, la stessa agave è sballottata dal

    vento, è aggrappata allo scoglio e la terra sotto di essa arde, brucia, si

    protende verso l’alto come il fuoco. Montale riesce a intrecciare in

    maniera armoniosa tutte le parti della natura, avendo indagato a fondo

    le sue componenti: Per lui anche solo un pezzo di suolo crepato,

    un’alga su uno scoglio, una folata di vento e uno spiraglio di luce

    significano sempre più di quello che in realtà sono.

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    Leggendo i versi di questo autore si impara a vedere le cose in maniera

    diversa. Noi abbiamo imparato a chiederci il perché delle cose e a

    cercare risposte alla nostra fame di conoscenza. Montale non è solo “il

    male di vivere”, ma è anche colui che ci ha insegnato a interpretare i

    messaggi della natura, a superare gli ostacoli del visibile e soprattutto a

    tenere lo sguardo fisso verso un oltre misterioso e affascinante.

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    Resta lo spiraglio. È poco e forse è tutto.

    Eugenio Montale: il poeta del miracolo

    Di

    Serena Cerasa

    Riccardo Gasbarri

    Luca Manfredi

    Stefano Simone

    Sara Villa Avila

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    Scriveva nel 1926 Sergio Solmi, recensendo gli Ossi di seppia, che

    “un’atmosfera di arida e riflessa desolazione sembra mordere d’ogni

    parte la materia di questa poesia”, vi rinveniva un “clima lucido e

    deluso” (S. Solmi, Montale 1925, da “Scrittori negli anni”, Il

    Saggiatore 1963).

    È questa l’immagine di Montale che è giunta fino a noi.

    Noi non vogliamo negare che l’aridità e la desolazione siano presenti

    nelle sue poesie, ma sicuramente non è tutto, c’è molto altro.

    All’immagine di Montale come il poeta del male di vivere, noi

    vogliamo rispondere con l’immagine di Montale come il poeta del

    miracolo. Montale non solo “parla del miracolo” o “tende al

    miracolo”, nella sua poesia il miracolo accade.

    Leggendo le sue poesie abbiamo respirato il miracolo, lo abbiamo

    sentito forte e intenso come il profumo dei limoni, perché Montale

    crede nel miracolo.

    C’è un documento importante che dimostra questa apertura di Montale

    alla dimensione del miracolo: è l’intervento che il poeta fece in

    occasione del VII centenario dalla nascita di Dante a Firenze il 24

    Aprile del 1965. In questo saggio, poi pubblicato con il titolo

    Esposizione sopra Dante (in Il secondo mestiere – Prose, vol. II, I

    Meridiani, Mondadori), Montale affermava di credere, sostenendo la

    tesi del Pietrobono, che Beatrice “non solo visse, ma fu un effettivo

    miracolo”. Poi aggiungeva:

    “Per chi crede, come me, che i miracoli possono essere sempre in agguato

    davanti alle nostre porte e che la nostra esistenza è tutta un miracolo la tesi del

    Pietrobono non può essere combattuta con argomenti razionali.”

    Sono affermazioni importanti, inequivocabili, che dicono già molto

    rispetto alla tesi che vogliamo sostenere.

    Non si deve pensare a miracoli grandi, eclatanti, straordinari, ma a

    miracoli quotidiani, quasi impercettibili, brevi, ma allo stesso

    rigeneranti come una boccata d’aria fresca. Un’apertura, una

    spaccatura, un passaggio, uno spiraglio, appunto, qualcosa che è

    accaduto, che è poco e forse è tutto.

    Il titolo della nostra tesina nasce dalla scoperta, nella poesia I miraggi

    (in Quaderno di quattro anni), di un'eco dei versi “Eppure resta/ che

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    qualcosa è accaduto, forse un niente/ che è tutto” (Xenia II, 13).

    È singolare il fatto che Montale si esprima quasi con le stesse parole.

    Le due liriche si richiamano a vicenda. Secondo noi, mettendo in

    relazione i due testi, quel “qualcosa” di cui parla il poeta, è lo

    spiraglio, cioè il miracolo.

    Tante volte nelle poesie di Montale si assiste a qualcosa di prodigioso,

    ad un imprevisto che sconvolge l’ordine stabilito delle cose, che rompe

    l’immobilità (l’immoto andare), che rinfresca dall’arsura:

    Come rialzo il viso, ecco cessare

    i ragli sul mio capo; e via scoccare

    verso le strepeanti acque,

    frecciate biancazzurre, due ghiandaie.”

    (A vortice s’abbatte, Ossi di seppia).

    Questo prodigio sembra manifestarsi come

    uno sbaglio di Natura,

    il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

    il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

    nel mezzo di una verità.”

    (I limoni, Ossi di seppia)

    Nella poesia Prima del viaggio (Satura) Montale ci rivela che un

    imprevisto è la sola speranza, perché è grazie all’imprevisto che

    l’uomo riesce a fare un’esperienza di libertà che lo mette in contatto, in

    rapporto con qualcosa di più grande.

    Nella poesia di Montale è quasi sempre presente la sensazione che ciò

    che lo separa dall’oltre (il celebre muro) non è completamente chiuso,

    appaiono spesso delle fessure: “D’alti Eldoradi/ malchiuse porte”

    (Corno inglese, Ossi di seppia); “da un malchiuso portone/ tra gli

    alberi di una corte/ ci si mostrano i gialli dei limoni” (I limoni, Ossi di

    seppia).

    Montale è aperto all’oltre perché è come se avesse percepito qualcosa e

    da quel momento è sempre in tensione e viene continuamente

    risvegliato da un presentimento, un avvenimento, un trasalimento, un

    incontro che lo desta misteriosamente.

    Ha scritto il filosofo Costantino Esposito (che ci troveremo a citare di

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