omenica leonardo coen eandrea tarquini domenica...

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DOMENICA 7 DICEMBRE 2008 D omenica La di Repubblica JENNER MELETTI G li italiani non resistono alle tentazioni delle cala- mità naturali, che a chiamarle così gli sembrano meno feroci e casuali. E, se si pensa che sono at- tentissimi alle trasmissioni meteo in cui annuncia- trici formose e seducenti dirigono con le mani e le braccia un loro elegante balletto di nuvole, di goc- cioloni e di fiocchi nevosi, il tempo che fa è diventato il metrono- mo della loro vita. Accortamente Fabio Fazio ha così intitolato una sua trasmissione di varia umanità. Insomma in tutte le reti, a tutte le ore, il nostro laborioso popolo viene informato dei rischi e delle sicure minacce del tempo che fa o sta per fare. E il bello, o il tipicamente italiano, è che non ne tiene il minimo conto. Ogni giorno, dall’alba al tramonto, cittadini, agricoltori, mon- tanari vengono avvertiti che da un minuto all’altro sulle loro stra- de, sui mari e sui rilievi montuosi può scatenarsi la violenza in- sensata di madre natura. Nel paese solatio dove un tempo fiori- vano i limoni, da quando regna l’effetto serra, cioè il clima sub- tropicale, è una continua grandinata di ghiaccio, precipitar di va- langhe, sospensione del collegamento con le isole che magari passano quindici giorni e non sappiamo più se ci siano ancora. Perennemente le regioni chiedono al governo lo stato di calamità naturale, l’impegno pubblico alla prevenzione e l’apparato di soccorso sono giganteschi, come i risarcimenti alle vittime. (segue nelle pagine successive) con un articolo di LUCA MERCALLI GIORGIO BOCCA i sapori Cotechino, del Natale non si butta niente CORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO spettacoli Fellini e il Nuovo Cinema Fulgor STEFANO BARTEZZAGHI, FEDERICO FELLINI e ANNA TONELLI le tendenze I profumi che vengono dal passato LAURA LAURENZI e GIUSEPPE VIDETTI l’incontro Piero Angela, il mestiere di divulgare DARIO CRESTO-DINA cultura L’uomo che reinventava Vermeer l’attualità Nazi e ultrà, il cuore nero d’Europa LEONARDO COEN e ANDREA TARQUINI SIEGMUND GINZBERG Sfida Clima al Previsioni meteo accuratissime, allerta puntuali Ma siamo un popolo “no limits”, che si infila nelle calamità OVADA (Alessandria) A Ovada, di notte, non ci sono bar aperti, nemmeno il sabato. Ma i ragazzi che non vogliono andare a letto sanno dove trovarsi. C’è l’autogrill Stura Ovest, dove puoi farti l’ultima birra o il primo cappuccino. Anco- ra prima di avere la patente un amico ti insegna come arrivarci sen- za pagare il pedaggio. C’è uno stradello privato che arriva alla Stura e poi c’è un guado in cemento. Lo usano soprattutto i dipendenti dell’autogrill, quando il fiume è in magra, per arrivare al loro par- cheggio senza fare un lungo giro sulla provinciale. Nella notte fra sa- bato e domenica anche Enzo e Peter, hanno attraversato il guado, a bordo della loro Ford Focus. Ma il fiume era in piena, l’acqua piena di fango copriva il cemento. Non si sono fermati, Enzo e Peter. Non hanno capito che il guado, passato tante altre notti, sabato sera era diventato una trappola. L’auto è stata trovata domenica mattina, vuota. Il corpo di Peter, ventuno anni, è stato trovato domenica po- meriggio. Quello di Enzo, anche lui ventunenne, solo martedì a mezzogiorno. «Io credo — dice il professor Bernardo De Bernardi- nis, vice capo della Protezione civile — che questo di Ovada sia un caso emblematico. Nevica, il torrente è in piena e i due ragazzi at- traversano comunque. Non riescono a vedere la realtà, non riesco- no a capire che la natura non è il gioco di una playstation dove ba- sta schiacciare i pulsanti giusti per ottenere quello che vuoi». (segue nelle pagine successive) FOTO THEOWULF MAEHL/ZEFA/CORBIS Repubblica Nazionale

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Page 1: omenica LEONARDO COEN eANDREA TARQUINI DOMENICA …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/07122008.pdf · ... è che non ne tiene il minimo conto. ... coppie di pensionati ottuagenari

DOMENICA 7DICEMBRE 2008

DomenicaLa

di Repubblica

JENNER MELETTI

Gli italiani non resistono alle tentazioni delle cala-mità naturali, che a chiamarle così gli sembranomeno feroci e casuali. E, se si pensa che sono at-tentissimi alle trasmissioni meteo in cui annuncia-trici formose e seducenti dirigono con le mani e lebraccia un loro elegante balletto di nuvole, di goc-

cioloni e di fiocchi nevosi, il tempo che fa è diventato il metrono-mo della loro vita. Accortamente Fabio Fazio ha così intitolatouna sua trasmissione di varia umanità. Insomma in tutte le reti, atutte le ore, il nostro laborioso popolo viene informato dei rischie delle sicure minacce del tempo che fa o sta per fare. E il bello, oil tipicamente italiano, è che non ne tiene il minimo conto.

Ogni giorno, dall’alba al tramonto, cittadini, agricoltori, mon-tanari vengono avvertiti che da un minuto all’altro sulle loro stra-de, sui mari e sui rilievi montuosi può scatenarsi la violenza in-sensata di madre natura. Nel paese solatio dove un tempo fiori-vano i limoni, da quando regna l’effetto serra, cioè il clima sub-tropicale, è una continua grandinata di ghiaccio, precipitar di va-langhe, sospensione del collegamento con le isole che magaripassano quindici giorni e non sappiamo più se ci siano ancora.Perennemente le regioni chiedono al governo lo stato di calamitànaturale, l’impegno pubblico alla prevenzione e l’apparato disoccorso sono giganteschi, come i risarcimenti alle vittime.

(segue nelle pagine successive)con un articolo di LUCA MERCALLI

GIORGIO BOCCA

i sapori

Cotechino, del Natale non si butta nienteCORRADO BARBERIS e LICIA GRANELLO

spettacoli

Fellini e il Nuovo Cinema FulgorSTEFANO BARTEZZAGHI, FEDERICO FELLINI e ANNA TONELLI

le tendenze

I profumi che vengono dal passatoLAURA LAURENZI e GIUSEPPE VIDETTI

l’incontro

Piero Angela, il mestiere di divulgareDARIO CRESTO-DINA

cultura

L’uomo che reinventava Vermeer

l’attualità

Nazi e ultrà, il cuore nero d’EuropaLEONARDO COEN e ANDREA TARQUINI

SIEGMUND GINZBERG

SfidaClimaal

Previsioni meteoaccuratissime,allerta puntualiMa siamo un popolo“no limits”,che si infilanelle calamità

OVADA (Alessandria)

AOvada, di notte, non ci sono bar aperti, nemmeno ilsabato. Ma i ragazzi che non vogliono andare a lettosanno dove trovarsi. C’è l’autogrill Stura Ovest, dovepuoi farti l’ultima birra o il primo cappuccino. Anco-

ra prima di avere la patente un amico ti insegna come arrivarci sen-za pagare il pedaggio. C’è uno stradello privato che arriva alla Sturae poi c’è un guado in cemento. Lo usano soprattutto i dipendentidell’autogrill, quando il fiume è in magra, per arrivare al loro par-cheggio senza fare un lungo giro sulla provinciale. Nella notte fra sa-bato e domenica anche Enzo e Peter, hanno attraversato il guado, abordo della loro Ford Focus. Ma il fiume era in piena, l’acqua pienadi fango copriva il cemento. Non si sono fermati, Enzo e Peter. Nonhanno capito che il guado, passato tante altre notti, sabato sera eradiventato una trappola. L’auto è stata trovata domenica mattina,vuota. Il corpo di Peter, ventuno anni, è stato trovato domenica po-meriggio. Quello di Enzo, anche lui ventunenne, solo martedì amezzogiorno. «Io credo — dice il professor Bernardo De Bernardi-nis, vice capo della Protezione civile — che questo di Ovada sia uncaso emblematico. Nevica, il torrente è in piena e i due ragazzi at-traversano comunque. Non riescono a vedere la realtà, non riesco-no a capire che la natura non è il gioco di una playstation dove ba-sta schiacciare i pulsanti giusti per ottenere quello che vuoi».

(segue nelle pagine successive)

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Lo strano fascino del cataclismaGIORGIO BOCCA

(segue dalla copertina)

Ea giudicare dalle cronache, metà degli italiani so-no alle prese con alluvioni, frane, sabbie mobili,naufragi, trombe d’aria, venti più veloci della bo-

ra; e l’altra metà impegnati nei soccorsi diretti perso-nalmente da Bertolaso, sempre impeccabile nei suoipulloverini, sempre in prima fila fra i soccorritori aisuoi ordini, che si muovono per strade e campi infati-cabili con stivaloni e palette sorvolati di continuo daelicotteri e aerei dell’efficiente Protezione civile. Masono tempi climaticamente terribili, diciamo pure dafine del mondo, e il notiziario delle calamità atterrisce:coppie di pensionati ottuagenari si perdono nei diru-pi, periscono nelle fiumare, vengono sorpresi dal tre-no sulla loro Matiz incautamente fermatasi fra le bar-riere di un passaggio a livello. E gli alberi! Gli alberi omi-cidi imperversano, precipitano su bambini e su madri,schiacciano automobili. O tempora o mores!

Però a guardare bene c’è qualcosa di sospetto, distrano in questa persecuzione degli italiani, in questo

accanirsi contro di loro degli elementi naturali e dellesciagure. Ed è che, dopo aver guardato alla televisionealle prime luci dell’alba i segni minacciosi, i sinistri incorso, le bufere e i maremoti di giornata, che fanno gliitaliani? Salgono sulla loro automobile con moglie e fi-gli e vanno felici alla ventura. Perché posare il culo suun’automobile è il più grande piacere della loro vita, lamassima assicurazione di esistenza e di autonomia. Ese Bertolaso e i suoi “civili protettori” alla fine arrivanoa trarli dai guai, ritengono di aver speso nel modo mi-gliore la giornata o la vacanza.

La prova di questa colossale schizofrenia italiana è aportata di tutti, a portata di televisione. Basta ascolta-re prima gli annunci di tempesta e di disgrazia e poiguardare il servizio di informazione stradale dai tradi-zionali punti di osservazione: sulla Firenze-Bologna,agli snodi delle autostrade padane, sulla Genova-Spe-zia in entrambe le direzioni, sul raccordo anulare diRoma. Fiumi di macchine, clacson di macchine, fari dimacchine che vanno verso gli inevitabili ingorghi overso le autoambulanze dei soccorritori.

la copertinaSfida al clima

Il Superman dell’auto accanto

È un paradossodel nostro tempo:quanto più si affinala tecnologia capacedi farci prevederee scansarele calamità naturali,tanto più cresconole vittime di questi“disastri annunciati”Frutto di una societàche va troppo di frettama anche di una vitain stile playstationche cancellanatura e stagioniper chiuderci dentrouna bollaclimatizzata

(segue dalla copertina)

«Epurtroppo — ag-giunge De Bernardi-nis — questo non èl’unico caso che ci di-mostra come si stiaperdendo la perce-

zione del limite». Lo sapevano tutti — daradio, giornali e tv — che in Liguria e in Pie-monte, l’ultimo venerdì di novembre, sa-rebbe iniziata una grande nevicata. Eppu-re, sulle autostrade genovesi e piemontesiquasi nessuno ha rinunciato al viaggio.Code di venti chilometri, auto nel ghiaccioferme per dieci ore, polemiche per «il ri-tardo dei soccorsi». Marco Bologna, coor-dinatore della Protezione civile regionalead Alessandria, ha passato tutta la notte divenerdì sull’A26. «Faccio il soccorritorevolontario da tanti anni e capisco che le co-se stanno cambiando. La mentalità oggi èquesta: «Se piove, nevica o c’è pericolo divalanghe io mi metto comunque in viag-gio, perché così ho deciso. Se succedequalcosa, ci pensino gli altri. E per favorefacciano presto». Succede di tutto, in unacoda sotto la neve. Porti la benzina a unacoppia con bambino che ha finito il car-

burante per tenere il piccolo al caldo. Con-segni cioccolato, tè caldo, caramelle e an-che coperte. E ti chiedi: come mai tanti so-no rimasti senza benzina? Non sanno che,in caso di neve, si può stare fermi per ore eanche la stazione di servizio a dieci chilo-metri diventa irraggiungibile? Possibileche nessuno faccia il pieno o si metta in au-to qualche genere di conforto? Non ci pen-sano nemmeno perché, “normalmente”,c’è sempre un autogrill. E basta una cosa“non normale” per provocare una crisi».

C’è chi, anche nell’emergenza, non ac-cetta imposizioni. «Vedono gli agenti del-la Stradale, nel gelo da ore, che dicono diuscire dall’autostrada. Trovano noi chespieghiamo che non si può andare avan-ti… E ci guardano arrabbiati come se fos-simo lì per divertimento. I furbi sono pron-ti a tutto. Fingono di fare la deviazione poirientrano da un by pass e si rimettono nel-la corsia bloccata. C’è chi ha il fuoristradae pensa di essere invincibile. Ma quelli so-no mezzi soprattutto pesanti, difficili damanovrare, se non si ha esperienza». Sipotrebbero scrivere romanzi, sulle notti diblack out autostradale. «Ci sono quelli agi-tati perché la signora che è al loro fianconon è quella che dovrebbe essere e il bloc-co manda in tilt tutti i loro piani e bugiepreventive. C’è il viaggiatore orafo che nelbagaglio ha valori per centinaia di migliaia

JENNER MELETTI

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 7DICEMBRE 2008

Generazione“no limits”LUCA MERCALLI

Una nevicata tra dieci etrenta centimetri su granparte della pianura

Padana alla fine di novembrenon è consueta. Ma nemmenoeccezionale, è già capitato inpassato. Piogge abbondanti traToscana e Lazio in novembresono ricorrenti, la grandinatasu Roma un po’ meno, ma certonon è un evento nuovo. Ventoforte, mare grosso, d’autunnosono di casa. La differenzarispetto al passato è semmaiche le previsioni meteo oggifunzionano. Tutto era statoannunciato con un anticipo diun buon paio di giorni. E anchele modalità di comunicazionesono più capillari ed efficaci diun tempo: internet, telefonini,sistemi di navigazione gps,webcam. Perché allora tutto si blocca?Perché il traffico collassa, lagente impazzisce e qualcunoci lascia pure la pelle? Credoche i motivi siano tre. Il primoè che viviamo in un paesesovraffollato e sovrasfruttato:quasi sessanta milioni dipersone, circa trentacinquemilioni di automobili, ediliziaselvaggia, decine di migliaia dichilometri di strade, autostradee ferrovie, antenne per cellulari,tralicci elettrici e pali telefonici,acquedotti, gasdotti, oleodotti,industrie, centri commerciali,poli logistici, impianti sportivi,villette e capannoni. Non c’èun francobollo di territorio chenon abbia qualcosa che si puòrompere, che può esseredanneggiato dagli eventimeteorologici, sia pureordinari. È tutto in equilibrioprecario già quando c’è il sole,inevitabile che appena si superauna soglia minima dicomplicazione, il sistema cedacome un castello di carte. Il secondo motivo è psicologico.Crediamo di essereonnipotenti. La pubblicità “nolimits” continua a dirci chepossiamo sfidare ogni rischio, ciistiga a trasgredire ogni regola,basta comprare quell’auto,indossare quell’abito, berequel liquore. Quindi che saràmai una nevicata annunciatadal telegiornale? Via, a capofittodentro la tempesta, senzacatene, senza precauzioni,senza cervello. Tanto tuttoil mondo ruota intorno a me,sarà la neve a togliersi di torno,la pioggia e il vento si farannodi certo da parte quandovedranno la mia auto daduecento cavalli, dodici valvole,quattroperquattro, triploairbag, abiesse, gipiesse. C’è poichi ha visto queste cose solo neifilm e su una macchina normalesi getta di notte a guadareun fiume in piena come IndianaJones. Non possiamoconsiderarle vittimedel maltempo ma solodella loro imprudenza. Terzo motivo: siamo sempremeno esercitati a rapportarcicon l’ambiente esterno. Comescrivo nel mio saggio Filosofiadelle nuvole uscito di recenteper Rizzoli, viviamo ormai inun bozzolo a clima controllatoche comincia in camera da lettoe termina in ufficio, passandoper garage, auto, ascensore, bar,ristorante, galleriacommerciale. Sempre uguale,estate e inverno, regolato da untermostato e da un bel flusso dicostosa energia. Così anche gliabiti sono sempre piùomogenei, pochi aggiustamentistagionali, scarpe con i tacchiche piova o faccia sole,ombelico scoperto a gennaiocome a luglio. Il clima ideale losi sogna sul salvaschermo chemostra le Maldive, ma nonsi vivono più sulla pelle quellestagioni nostrane che, anche incittà, il Marcovaldo di Calvinoosservava con sguardo attentoe curioso più di quarant’anni fa:«Marcovaldo, a naso in su,assaporava l’odore dellapioggia... Lo sguardo con cuiegli ora scrutava in cielol’addensarsi delle nuvole, nonera più quello del cittadino chesi domanda se deve prenderel’ombrello, ma quellodell’agricoltore che di giornoin giorno aspetta la finedella siccità».

LE IMMAGININella foto, piazza della Scala,Milano 1958. Dal libro Italiadoppie visioni edito da Contrasto

di euro e, prima di fermarsi, ci pensa sem-pre due volte. C’è soprattutto l’uomo no li-mits che ha deciso di essere a Ventimigliaall’ora di cena e così deve essere, costi quelche costi. Pronto comunque a chiamarecon il cellulare radio e giornali e ad arrab-biarsi “perché sono qui da tre ore e ancoranon vedo nessun soccorso”».

Ci sono state pesanti polemiche, sullecode per neve. «Sulle autostrade genove-si — dice Antonino Galatà, direttore diesercizio Autostrade per l’Italia — abbia-mo avuto problemi seri perché lì non riu-sciamo a fare lo stoccaggio dei mezzi pe-santi: non ci sono gli spazi. Certo, inter-venire non è facile, non tutte le nevicatesono uguali e bisogna decidere volta pervolta come affrontarle. Organizziamo ifermi temporanei del traffico per per-mettere agli spazzaneve di lavorare. Al-l’estero — ad esempio in Francia, in Spa-gna, in Austria… — di fronte a nevicatepesanti si decide semplicemente di chiu-dere le autostrade. Noi invece, per con-tratto, dobbiamo garantire la percorribi-lità del Paese». Due milioni e mezzo di au-to al giorno, sulle corsie di Autostrade. «Enon sono molto meno — dice AntoninoGalatà — anche nei giorni in cui sono an-nunciati fenomeni meteorologici pesan-ti. Anche noi, in questi casi, invitiamo anon mettersi in viaggio se non è stretta-

mente necessario, ma non mi risulta chequesti appelli siano ascoltati. Nel trafficonon c’è un calo evidente».

Dure anche le polemiche piemontesi,dove sono presenti nove società autostra-dali e due trafori. Anche qui, sotto accusa,la Stradale e la Protezione civile. «Ecco,guardi questi numeri», dice subito ItaloD’Angelo, dirigente della Polizia stradalein Piemonte e Valle d’Aosta. «Nei tre gior-ni di crisi, dal 28 novembre al 30 novem-bre, sulle autostrade c’erano 323 pattu-glie. Gli agenti hanno lavorato anche do-dici ore di fila. Il problema è che in certigiorni bisognerebbe proprio non metter-si in viaggio ma la nostra è una società cheva di corsa e pensa che il tempo è denaro.L’altro giorno aveva già cominciato a ne-vicare, ero sull’A26 e l’asfalto era già bian-co. Ero con una pattuglia, andavamo acentodieci all’ora e c’era comunque chi cisorpassava».

Luca Celeste, comandante del Centrooperativo autostradale, racconta come simuovono gli Invincibili su quattro (o sei)ruote. «C’era uno strato di ghiaccio altodieci centimetri, impossibile viaggiare so-prattutto in salita. All’altezza di un casellometti una pattuglia che fa uscire almeno imezzi pesanti. Questi escono e ti accorgiche, prima delle barriere di pagamento, al-l’improvviso svoltano a U e si rimettono

sull’autostrada. E non è che puoi mettertia inseguirli. Se sospendi il blocco, tutti ti-rano dritto». Non è facile aiutare il transitodi tir da quattrocento quintali. «Il proble-ma più serio e l’“intraversamento”. Suc-cede quando un mezzo pesante slitta e simette di traverso sulle corsie. Blocca tutto.Per evitare questo guaio interrompi perdare tempo ai mezzi dell’autostrada dispargere il sale e anche il cloruro di calcio,liquido. Poi, si riparte in corteo, con trentao quaranta tir. Davanti le lame delle ruspe,sfalsate, su ogni corsia. E dietro una nostrapattuglia che accompagna. Il motivo? Senon c’è controllo, anche in emergenze co-me queste, c’è sempre qualche camionche tenta il sorpasso».

La Protezione civile piemontese nonaccetta il ruolo di capro espiatorio. «È oradi finirla», dice semplicemente AndreaLazzari, responsabile regionale. «Noi an-nunciamo a tutti — prefetture, polizia eautostrade comprese — le previsioni deltempo. Diciamo che sta arrivando unanevicata che può bloccare il traffico degliuomini e delle merci. E non succede nul-la, almeno fino a quando in autostradanon ci sono chilometri di code e migliaiadi persone esasperate. C’erano già ventichilometri di coda fra Torino e Asti e l’au-tostrada continuava a fare entrare le au-tomobili. Qui in Piemonte non c’è nem-

meno una convenzione, fra noi della Pro-tezione e le autostrade. Ma quando via te-lefono ci arrivano le richieste di aiuto o leproteste, noi mandiamo comunque i no-stri volontari. L’altro giorno la corsia diemergenza era piena di neve e le altre era-no piene di auto e camion. I nostri sonoentrati a piedi, portando termos e coper-te. E ancora, da Isoradio, non arrivavanonotizie certe che annunciassero il bloccoin atto da ore. Ecco, noi siamo stanchi diessere il paracadute per le inadempienzedi altri, un ombrello usato da chi non fa ilproprio mestiere».

Sembra più facile organizzare il soccor-so in caso di alluvione che su un’autostra-da ghiacciata. «Io dico sempre — dice Ber-nardo De Bernardinis — che è quasi im-possibile salvare una persona che sta an-negando se questa non collabora. Oggi siviaggia “comunque” perché c’è una fortis-sima domanda di sicurezza ma questa vie-ne demandata agli altri. Si delega la pro-pria quota di autotutela. E non si sanno piùfare le cose semplici, come tenere in autoun paio di guanti per montare le catene daneve. Non si sa più come affrontare ancheun piccolo pericolo: si vive come dentroun mondo virtuale. È così che si perde lapercezione del limite». E si dà gas davantia un guado sommerso, come se si schiac-ciasse il bottone di una playstation.

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l’attualitàMostri politici

La “Guardiaungherese”punta a raggiungeresettemila adeptiA Pragal’ultradestravuole la “soluzionefinale della questionezingara”,evocandoimpunementel’ideologiadell’Olocausto

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

BERLINO

ABudapest sfilano in cen-tro indossando l’unifor-me nera, sventolano i ga-gliardetti delle Croci frec-

ciate alleate di Hitler, giurano di salvarela patria dagli zingari, dal capitalismo edagli ebrei. A Praga contattano ognigiorno i loro camerati tedeschi dellaNpd neonazista, e spesso affrontano lapolizia in violenti scontri di guerrigliaurbana. A Bratislava il loro partito è ad-dirittura al governo, partner preferito aidemocristiani per formare una coalizio-ne dal premier socialdemocratico-po-pulista Robert Fico.

Europa centrale, inverno 2008: men-tre il più importante dei nuovi membridell’Unione Europea, la Polonia, è unasolida democrazia, una società dallacultura democratica diffusa nella suacoscienza collettiva e dall’economia an-cora in boom, in altri tre paesi membridella Ue, tre giovani democrazie risortedopo mezzo secolo di comunismo e dicolonialismo sovietico (Ungheria, Re-pubblica Cèca, Slovacchia), il neonazi-smo non è più solo uno spettro, né la mi-naccia violenta di minoranze arrabbia-te ma marginali: è realtà quotidiana, èun modo di pensare che si diffonde neisalotti buoni, è una forza politica che haimparato a sfidare la libertà sia con laviolenza di piazza sia con successi elet-torali e coalizioni. Diciannove anni do-po la caduta della Cortina di ferro, quel-le tre giovani democrazie appaiono in-fettate da una voglia di ordine diventatamostro. E il mostro è un virus contagio-so: nell’Europa senza frontiere, i succes-si magiari, cèchi e slovacchi possono da-re esempio e forza ai suoi adepti ovun-que nell’Unione.

L’Ungheria è il caso più appariscentedella nuova sfida all’Europa. Jobbik,cioè “i migliori”, si chiama il partito. Co-me sempre accade al fascismo, due vol-ti vi convivono, il doppiopetto e il man-ganello. Il doppiopetto sono l’elegantelook sportivo — camicia button down epullover inglese — del suo leader GáborVona, o gli abiti chic della bionda, giova-ne, attraente Krisztina Morvai, avvoca-to e docente di giurisprudenza, ex attivi-sta per i diritti delle donne e delle mino-ranze, convertita al sogno della destranazionale. Il manganello si chiamaMagyar Gárda, “guardia ungherese”. Èla milizia paramilitare del partito, contaoltre duemila aderenti, ma presto supe-rerà i settemila. È organizzata in compa-gnie e reggimenti, i suoi membri en-trandovi prestano giuramento di fe-deltà assoluta come si fa in un esercitoregolare. E si addestrano alle arti mar-ziali e al tiro con le armi da fuoco.

Lo sfondo nazionale è desolante. Di-ciannove anni dopo la fine del comuni-smo, l’Ungheria è un’economia in crisie soprattutto uno Stato sulla soglia dellabancarotta. Solo iniezioni di liquiditàsomministrate in extremis dal Fondomonetario internazionale e dall’Unio-ne Europea hanno salvato il governo so-cialdemocratico (postcomunista) delpremier Péter Gyurcsany, ma il malcon-tento rimane. Fa da sedimento a unasimpatia sempre più diffusa per l’ultra-destra, ha avvertito di recente PaulLendvai, decano dei corrispondenti delFinancial Times, gentiluomo unghere-se fuggito a Occidente durante il comu-nismo che da Vienna, nei decenni dellaGuerra fredda, era una delle fonti più at-tendibili su qualsiasi cosa accadesse o sipreparasse nell’“altra Europa”. Altre vo-ci autorevoli sono purtroppo d’accordo:odio xenofobo, discriminazione, diffi-denza verso minoranze e diversi, spiegala sociologa Maria Vasarhely, sono sem-pre più diffusi in ampi strati della popo-lazione. Venti ungheresi su cento, av-verte il suo collega Pal Tamás, sui granditemi della politica e della vita la pensanocome l’ultradestra, e trenta su cento, se-condo una sua indagine scientifica, so-no da considerare antisemiti.

Manganello e doppiopetto agisconoin sinergia, nell’Ungheria della crisi,conquistano la ribalta ogni giorno nellaBudapest splendida ma dove la nuovapovertà e il degrado urbano, con troppefacciate di palazzi asburgici diroccateanziché risanate come in Polonia, mo-strano che qualcosa non va. A HoesoekTére, la piazza degli eroi, luogo-simbolodella nazione, la Magyar Gárda sfilaspesso e volentieri. Oppure conducegiorno e notte pattuglie, per intimidiregli zingari. O suoi simpatizzanti lancia-no escrementi, pietre e uova marce con-tro il teatro della comunità ebraica. «Ilproblema dei senzatetto e degli zingarisi può risolvere diffondendo batteri del-la tubercolosi», affermano i suoi ultrà,«perché dobbiamo difenderci». Vona ela signora Morvai no, non giungono atanto. Ma affermano a ogni comizio:«Chi sono gli zingari? Amano l’Ungheriao no? Hanno voglia di lavorare? Voglio-

no adattarsi e assimilarsi o no? Possia-mo fidarci?». E più spesso ancora diffon-dono l’idea che nel dopo Guerra freddai politici dei partiti democratici hanno«trasformato l’Ungheria in un Paesesconfitto, una colonia dell’Occidente».Siamo a un passo dal mito mussolinia-no della “vittoria mutilata”.

La Grande Ungheria è il loro sogno, ilrifiuto del Trattato di Trianon che nel1918 tolse ai magiari (parte dell’Impe-ro asburgico) i territori ora slovacchi oromeni è slogan e bandiera. Erano leidee-forza della dittatura dell’ammira-glio Miklos Horthy, alleato di Hitler, edegli estremisti delle Croci frecciate diImre Szalasi.

Ma nell’ex Europa asburgica il nuovofascismo si diffonde anche dove le tra-dizioni democratiche dovrebbero es-sere più solide. Guardiamo poco più aovest, nella splendida, prospera Praga,capitale di un Paese devastato dal mez-zo secolo bolscevico e ora tornato al ca-

pitalismo ma anche segnato dalla cor-ruzione e dall’instabilità politica. IlPartito dei lavoratori (Ds, guidato daTomás Vandas) ha chiare matrici neo-naziste e contatti con la Npd tedesca.Qualche settimana fa nella città di Lit-vinov ci sono voluti oltre mille poliziot-ti in assetto di guerra per affrontare inuna notte di guerriglia urbana almenosettecento squadristi del Ds decisi a da-re l’assalto a un quartiere abitato da gi-tani.

I loro slogan sono ancor più dura-mente anti-occidentali di quelli dei ca-merati ungheresi: «Alzati, lotta contro illiberalismo», titolava uno degli ultiminumeri di Delnické listy, il loro organo.Il partito neofascista cèco è in prima fi-la, come i comunisti nostalgici dell’oc-cupazione sovietica, contro i piani Na-to sullo scudo difensivo in Cèchia e Po-lonia per affrontare i missili iraniani. Esull’esempio magiaro, anche nella Re-pubblica cèca un altro gruppo, il Parti-to nazionale, ha fondato una sua mili-zia paramilitare. Guidato da PetraEdelmannova, il partito vuole presen-tarsi alle elezioni politiche del 2010proponendo la «soluzione finale dellaquestione degli zingari». Linguaggiosenza pudore, che evoca esplicitamen-te quello del nazismo hitleriano nella«soluzione finale», cioè l’Olocausto.

Il governo cèco non vuole restare aguardare, anzi non può permetterseloanche perché tra poco gli toccherà lapresidenza di turno dell’Unione Euro-pea. Per cui sta studiando la possibilitàgiuridica di una messa al bando deinuovi fascisti. Una possibilità del gene-re è lontana anni luce a Bratislava, la ca-pitale della Slovacchia. Perché qui Ro-bert Fico, primo ministro e leader dellocale partito socialdemocratico(schierato su posizioni di sinistra na-zionalpopulista, era stato persino tem-poraneamente sospeso dal gruppo so-cialista all’Europarlamento), ha scelto

ANDREA TARQUINI

Neonazisti e ultràLa nuova Europaha un cuore nero

Repubblica Nazionale

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Ungheria, Repubblica cèca, Slovacchia: tre giovanidemocrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo,da poco diventate Paesi membri della Ue, nelle qualil’estremismo di destra gode di crescente popolaritàÈ organizzato in milizie, manifesta sentimenti antisemitie razzisti. E a Bratislava è già insediato al governo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 7DICEMBRE 2008

di governare e garantirsi il potere al-leandosi non con i democristiano-con-servatori bensì con lo Sns, il Partito na-zionalista slovacco di estrema destra.Lo guida Jan Slota, politico di provinciache ama abbandonarsi a eccessi alcoli-ci per poi scatenarsi ancor meglio neicomizi. Propone «la frusta» per risolve-re (rieccoci) «il problema degli zingari»,sogna di diventare europarlamentareper «rendere di nuovo vive le acquemarce e sporche di Bruxelles e di Stra-sburgo». I suoi bersagli preferiti sono,oltre ai gitani, la minoranza ungheresee gli omosessuali.

Il premier Fico tace, volta la testa dal-l’altra parte. Si preoccupa solo di litiga-re col governo ungherese, perché l’ulti-ma partita di calcio tra squadre dei duepaesi, a Dunajska Streda, si è conclusacon una notte di duri scontri tra teppi-sti magiari e slovacchi, tutti legati alledue ultradestre. E alla fine la polizia slo-vacca per una volta è intervenuta dura-mente, ma pestando quasi soltanto iviolenti ungheresi.

L’unica, debole speranza dell’Unio-ne Europea è questa: che la furia nazio-nalista dei nuovi fascisti nell’Europa exasburgica sia talmente virulenta da in-

durli a volte a considerarsi tra loro ne-mici mortali anziché alleati. Ma anchein questo il rovescio della medaglia èl’abdicazione del potere statale. Dopola notte di sangue a Dunajska Streda, laMagyar Gárda ha presidiato e chiuso ivalichi di frontiera con la Slovacchia;nessuno glielo ha impedito. I nuovi ra-dicalismi, denunciava l’altro giorno Jo-seph Croitoru sulla Frankfurter Allge-meine, sono un’ipoteca grave e impre-vista sul futuro delle tre giovani demo-crazie europee. L’epidemia è scoppia-ta non in paesi lontani, ma all’internodei confini aperti della Ue e della Nato.

MOSCA

Terzo vagone di un convoglio della metropo-litana, in viaggio verso la stazione della BibliotecaLenin, 22 novembre. Tre giovani skinhead cir-condano un passeggero, sui trentacinque anni. Sichiama Mikhail Altshuller, un cantautore abba-stanza noto nella comunità ebraica di Mosca: èinfatti il solista e il direttore del “Dona YiddishSong Group”, che gode di ottima reputazione nel-l’ambiente musicale internazionale, ha pure vin-to qualche festival. Uno dei tre si rivolge al barbu-to Altshuller e lo apostrofa. Subito dopo, comin-cia un sistematico e feroce pestaggio: i tre pic-chiano e gridano slogan nazionalisti. Altshuller fi-nisce all’ospedale. La polizia ferma due sospetti.

Pochi giorni dopo, il primo di dicembre, vienetrovato il cadavere di un azero di venticinque an-ni: ucciso a coltellate vicino alla stazione Univer-sitiet, non lontano dalla Collina dei Passeri. Ulti-mo delitto di una lunga serie di attacchi xenofobiche sinora hanno causato 114 vittime e ferito 357persone (bilancio aggiornato alla fine di ottobre).Nei primi dieci mesi di quest’anno il numero del-le aggressioni a sfondo razzista è cresciuto di unavolta e mezzo rispetto al 2007.

L’attività di prevenzione della polizia e dell’F-sb, i servizi federali di sicurezza, dunque, non ba-sta ad arginare il fenomeno. I media danno gran-de risalto al processo che in questi giorni, proprioa Mosca, vede alla sbarra una gang di neonazistiaccusati di ventidue omicidi e dodici attentati. LaRussia post-comunista è animata da virulentimovimenti di estrema destra che raggruppanoun largo spettro ideologico: alcuni fanno riferi-mento al nazismo, altri al fascismo o al nazional-bolscevismo. Su questi filoni si innescano i mo-vimenti degli skinhead e quelli che si riconosco-no nella controcultura giovanile di estrema de-stra, sino alle correnti neopagane e ariane. Lungidall’essere arcaica, l’estrema destra russa rivelaindirettamente i profondi sconvolgimenti concui ha a che fare il Paese da due decenni, a parti-re dalla necessità di riformare una nuova identitàcollettiva. Secondo alcune stime, i naziskin inRussia sono circa sessantacinquemila: la loroideologia è profondamente permeata di razzi-smo, l’attività principale è la caccia all’immigra-to (diciassette milioni, di cui cinque clandestini).Gli «intrusi», come vengono bollati gli immigra-ti, rappresentano la forza lavoro più sfruttata e in-difesa. «Uzbeki, kirghizi e tagiki — si legge in unrecente rapporto Unicef — sono gruppi a rischiola cui situazione è molto prossima alla schiavitù».Per forza: nella logica xenofoba russa sono i «nonslavi», anzi, i «nemici della razza superiore slava».Poco importa se sino a diciotto anni fa facevanoparte dell’Unione Sovietica: emancipandosi dal-la Russia sono diventati stranieri di serie B perchéasiatici. Anche gli stessi cittadini della Federazio-ne Russa, come i daghestani e i ceceni, condivi-dono questo destino di prede.

Più della metà degli omicidi a sfondo razzialesono stati commessi a Mosca e nella sua regione.L’altro grande polo xenofobo è rappresentato daPietroburgo e dalla sua regione, che ha conserva-to il nome sovietico di Leningrado. Tuttavia, po-co alla volta, la piaga si è estesa: dopo aver rag-giunto Volgograd, Nizhnij Novgorod, Jaroslav,Kaliningrad, la violenza razzista ha infettato legrandi città della Siberia e dell’Estremo Oriente,dove l’immigrazione è massiccia. Il tamtam è In-ternet, la “bibbia” era sino a metà degli anni No-vanta la rivista Rasato a zero. Oggi le pubblica-zioni si sono moltiplicate: Combattente di strada,La volontà russa, La resistenza russa, La resisten-za bianca, Martelli, Screwdriver, La Cosa 88(il nu-mero che in gergo identifica Hitler). Titoli che so-no un programma.

Una deriva avviata

dai nazionalisti russi

LEONARDO COEN

NEO HITLERIANINelle fotografie,giovani militantidella Unione slavadi San Pietroburgo,organizzazioneneonazistail cui nome russoè “SlavyanskySoyuz”: le inizialidanno la sigla “SS”Nella foto quisopra, il ventenneVladimir mostraun ritratto di Hitler

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Repubblica Nazionale

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Perun Vermeer si può perdere la ra-gione. Ne sapeva qualcosa MarcelProust, che nel 1921 era andato avedere al Jeu de Paume una mostrain cui era esposta anche la Vedutadi Delft. Davanti al quadro gli ven-

ne un infarto. Sopravvisse ancora un anno, efece in tempo a trasferire l’esperienza scon-volgente a un personaggio della Recherche dutemps perdu. Nella parte su “La prigioniera”, loscrittore Bergotte muore, delirando, propriosui dettagli di quel quadro. E dire che meno diun secolo prima il pittore olandese era ancorapraticamente sconosciuto.

«Questo Vermeer ci ha fatto impazzire, mal’abbiamo risuscitato…», si vantò il grandecollezionista e mercante d’arte parigino del-l’Ottocento W. Bürger (il suo vero nome eraThéophile Thoré, ma aveva dovuto inventarsiuno pseudonimo per far dimenticare i tra-scorsi rivoluzionari del ‘48). Aveva propostoper quattromila franchi all’allora curatore del-la National Gallery, Charles Eastlake, La ra-gazza con l’orecchino, ma quello l’aveva giudi-cato non all’altezza di figurare nel museo lon-dinese. Sir Eastlake era già passato a miglior vi-ta quando, due anni dopo, Bürger pubblicò ilprimo catalogo dei dipinti di Vermeer alloraconosciuti. Se c’è un aldilà possiamo immagi-narlo che si morde le mani. Da allora la famadel maestro capace di suscitare coi suoi dipin-ti emozioni profonde, anzi violente, si è estesaa dismisura. Oggi tutti impazziamo per Ver-meer. Anzi, succede persino che si impazziscaper i falsi Vermeer.

La storia del falsario che nella prima metà delNovecento abbindolò quasi tutti inventandodi suo pugno, e di sana pianta, dei capolavori ri-trovati di Vermeer, sta scatenando un interes-se quasi maniacale. In breve successione sonoappena usciti due intensi libri sullo stesso ar-

Abraham Bredius, che aveva passato tutta lasua vita a studiare Vermeer (lo avevano so-prannominato “il Papa”, tanta era la fama diinfallibile), giunse a definire la «nuovissimascoperta» della Cena di Emmaus dipinta daVan Meegeren come «il più bello di tutti i di-pinti di Vermeer» (ora è appeso come “curio-sità” al Boijmans di Rotterdam). A sua discol-pa va però detto che era ormai ultraottanten-ne e quasi cieco. Il celebre collezioni-sta di Rotterdam Daniel GeorgeVan Beuningen comprò l’In-terno con bevitori e, tuttocontento, fece il bis conuna piccola Testa di Cri-sto. Il miliardario ameri-cano Andrew Mellon,che era stato segretariodi Stato con Harding eCoolidge, e aveva qual-che responsabilità per ilcrac del 1929, di falsiVermeer se n’era fatti af-fibbiare ben due, per do-narli alla National Gallerydi Washington, che ora li na-sconde per la vergogna nei de-positi dopo averli riattribuiti ad«artista anonimo del Ventesimo se-colo» (ma Mellon si rifece comprandone an-che uno vero, la Ragazza dal cappello rosso).Prima di lui, si erano fatti rifilare falsi Vermeerfinanzieri ed imprenditori accorti come JulesBache, Heinrich Thyssen e Fritz Mannheimer.L’avidità cieca del collezionista aveva sopraf-fatto l’avidità prudente dell’uomo d’affari.

Insomma, nei falsi di Van Meegeren casca-rono fior di furbetti e furboni, e nel 1943 persi-no il governo olandese, comprando il suo La-vaggio dei piedi di Cristo. E ci cascarono il fiorfiore degli studiosi. Capita anche ai migliori.

C’erano cascati Bernard Berenson, Roger Fry,Max Friedländer, Wilhelm von Bode, lo stessoCornelis Hofstede de Groot, l’autore del piùautorevole catalogue raisonnè sull’artista.Flavio Caroli ha testimoniato che ci cascò an-che il suo maestro Roberto Longhi.

Ma la più bella delle sue truffe fu quella aidanni del vice di Hitler, Hermann Goering. Glirifilò per una somma colossale il Cristo e l’a-

dultera, ottenendo per giunta in cam-bio ben 137 dipinti autentici, di

quelli arraffati in tutta l’Europaoccupata dal gerarca nazi-

sta. Non l’avrebbero forsenemmeno mai scoperto,se non fosse stato luistesso a confessare. Aguerra finita era statoarrestato come colla-borazionista, “tradito-re” per aver venduto i te-sori dell’arte nazionale

ai nazisti. Si difese soste-nendo che quei quadri li

aveva dipinti lui, e semmaisi era preso beffa degli occu-

panti. A prova di quanto affer-mato, nel corso del processo di-

pinse seduta stante un nuovo falsoVermeer. Se la cavò con una modesta condan-na da falsario, il “tradimento” poteva compor-tare la fucilazione. Da farabutto, riuscì a farsipassare come eroe e conquistarsi le simpatiedel pubblico. C’è sempre qualcosa di attraen-te nel rubare ai ladri, nel ripagare i malfattoricon la loro stessa moneta, nel beffare i potenti.

Mi sarebbe simpatico, ci cascherei anch’io,non fosse che anche questa confessione puz-za di falso geniale. Dei due autori da cui abbia-mo preso spunto, Dolnick è quello che tuttosommato gliela lascia passare. Lopez è un po’

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

SIEGMUND GINZBERG

Nella prima metà del Novecento, Johannes Van Meegeren ingannòcollezionisti e storici dell’arte ideando e dipingendo con le sue stessemani alcuni “capolavori ritrovati” del maestro del Seicento olandeseTra i truffati ci fu anche Hermann Goering: il vice di Hitler pagò

una somma colossale per “Cristo e l’adultera”

L’uomoche reinventava

CULTURA*

Diversamente dai quadri attribuibiliall’artista, che sono trentasei,quelli falsi raffigurano temi religiosi

gomento: The Forger’s Spell The Man Who Ma-de Vermeers: Unvarnishing the Legend of Ma-ster Forger Han Van Meegeren, di Jonathan Lo-pez (Harcourt) e The Forger’s Spell: A true Storyof Vermeer, Nazis, and the Greatest Hoax of theTwentieth Centurydi Edward Dolnick (Harper-Collins). Il terreno è molto battuto. Versioni piùromanzate della vicenda erano uscite anche initaliano (Io e Vermeer di Frank Wynne, Ver-meeer e il codice segretodi Balliett Blue, La dop-pia vita di Vermeer di Luigi Guarnieri). Senzacontare le fiction vere e proprie tipo La ragazzacon l’orecchino di perla di Tracy Chevalier o Lalezione di musica di Katharine Weber. Se inve-ce si vuole stare sulla saggistica, direi cheAnthony Bailey dice già tutto nel suo Il maestrodi Delft. Storia di Johannes Vermeer, genio del-la pittura, pubblicato da Rizzoli nel 2003. Ver-meer è diventato quasi un genere letterario tut-to a sé, mi verrebbe da dire.

La storia dei falsi Vermeer di Johannes (Han)Van Meegeren avrebbe tutti gli ingredienti delromanzo se non fosse vera. Non fu il primo eforse non sarà nemmeno l’ultimo falsario de-gli olandesi del Seicento, ma al momento li su-pera tutti. Alla trentina circa di Vermeer di cuisi aveva conoscenza ai suoi tempi, ne aggiun-se di sua mano almeno altri nove: non copie didipinti conosciuti ma “originali”, l’uno piùbello dell’altro. Aggiunti quelli scoperti da al-lora, tolti i falsi riconosciuti come tali, oggi diVermeer ne vengono censiti trentasei in tutto,pochissimi. Di uno, Il concerto, che era a Bo-ston sin da quando Isabella Gardner lo com-prò da Thoré nel 1892, si sono perse le traccedal 1990.

Con la sua abilità Van Meegeren riuscì a in-gannare quasi tutti i maggiori esperti d’arte deisuoi tempi. Ci cascò lo storico dell’arte Valen-tiner, Willem Martin del Mauritishuis,Wilhelm von Bode del Museo di Berlino.

Vermeer

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 7DICEMBRE 2008

Adesso la National Gallery di Washingtonnasconde nei depositi alcune sue operedonate dal miliardario Andrew Mellon

AL LAVOROA sinistra,JohannesVan Meegerenmentredipinge la telaintitolataGesùche insegnanel Tempio;in basso,il falsarioduranteil processoa Norimberga:alle sue spallec’è il dipintoCristoe l’adultera,l’operaacquistatada HermannGoering

VERO E FALSOIn alto,a sinistra,un Vermeerautentico:Donna vestitadi azzurroche leggeuna lettera;a destra,un soggettosimile dipintoda VanMeegerenSotto,a sinistra,La lezionedi musicadi Vermeere, a destra,il falsodi VanMeegeren

più severo. Non trascura le sue simpatie di-chiarate per il nazismo (nella biblioteca perso-nale di Hitler gli alleati ritrovarono un volumedi poesie di un poeta olandese con tanto di de-dica autografa: «Al mio amato Führer, con gra-titudine, H. Van Meegeren, 1942»; lui si difeseammettendo che la firma era sua, ma soste-nendo che la dedica era stata aggiunta da unzelante ufficiale delle Ss). Ricorda che ce l’ave-va con l’arte di avanguardia, denunciandolacome «bolscevica», e opera di «un branco vi-scido di odiatori delle donne e amanti dei ne-gri». Pare ce l’avesse in modo particolare conVan Gogh. Ma anche con Mondrian e altri.

Insomma, aveva le sue idee. Come pittore,prima di passare alla ben più remunerativa at-tività di falsario, si era fatta una discreta famadipingendo soggetti religiosi. Aveva fondatoun settimanale d’arte, il De Kemphaan (Il gal-lo da combattimento) nominandone diretto-re Jan Ubink, uno sciovinista cattolico, unguerriero di Cristo ultrà diremmo oggi. Unodegli argomenti ricorrenti era che lo spiritodell’Olanda non era rappresentato dai mer-canti protestanti, dal calvinismo e dal suo con-tributo alle “origini del capitalismo”, e dallospirito di tolleranza, bensì dalle più “pure” tra-dizioni cristiane medievali. Non c’è da mera-vigliarsi che fossero predisposti alla lealtà ver-so gli invasori tedeschi più che alla resistenza.

Quasi tutti i suoi falsi Vermeer sono di argo-mento biblico o religioso, mentre i Vermeerveri che si conoscono sono quasi tutti di argo-mento profano, “laico”, borghese. È vero cheVermeer dipinse anche una Allegoria della fe-de, e che c’è chi lo ha portato a testimonianzadi una sua segreta conversione dal protestan-tesimo al cattolicesimo (nell’Olanda di alloranon c’erano destra e sinistra, c’erano solo pro-testanti e cattolici in guerra). Ma la si potrebbeleggere anche come una “Allegoria della pro-

paganda della fede”. Era un lavoro su com-missione del cappellano cattolico dell’Aja. Ecomunque il soggetto viene trattato in modoche ha poco di mistico, come una sorta di rap-presentazione da palcoscenico, con tanto diquadro con crocifisso dipinto sullo sfondo. Èvero che dipinse un Cristo nella casa di Martae Maria, ma in fin dei conti si tratta di una sce-na di vita famigliare, di una conversazione conal centro una tavola imbandita. Così come ri-tratto della quotidianità della carne più chedello spirito, ritratto della voglia di “vivere be-ne”, è tutta la pittura olandese del Seicento,che dipinge interni di case di benestanti e oste-rie, cambiavalute, signori che ostentano «l’im-barazzo della ricchezza», ma anche poveraccie pescivendoli, non Cristi e Madonne o Marti-ri sotto atroci torture come nella contempora-nea Italia e Spagna della Controriforma e poidell’Inquisizione.

Per credere, andare a vedere la suggestivamostra Da Rembrandt a Vermeer. Valori civilinella pittura fiamminga e olandese del ‘600, alMuseo del Corso a Roma. Non vi deluderà, an-che quando scoprirete che, malgrado il titolo,di Vermeer qui ce n’è solo uno, La ragazza colfilo di perle, col suo giubbotto di seta bordatodi pelliccia giallo, che la fa sembrare così cine-se. A ciascun paese secondo le risorse che in-veste nelle cultura, verrebbe da parafrasare,anche se per essere giusti bisogna aggiungereche tutti i Vermeer non riuscirebbe probabil-mente a metterli insieme nessuno.

Forse una delle ragioni del successo strepi-toso che ebbero i falsi di Van Meegeren sta nelfatto che colmavano quella che una parte del-l’Olanda dei suoi tempi poteva considerareuna “lacuna” ideologica. Non mi sorprende-rebbe che di questi tempi lo facessero ministrodella cultura. L’unica vera sorpresa sarebbe sei suoi falsi ridiventassero veri.

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Repubblica Nazionale

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Riapre la saladi Fellini

SUL GRANDE SCHERMOIn alto, la locandina

di Amarcord; a destra,

un bozzetto disegnato

da Federico Fellini

che raffigura l’ingresso

del cinema e una foto

scattata sul set di

Amarcord

RIMINI

La scala che collega l’atrio alla galleria ha un«andamento sinuoso», proprio come le for-me della Gradisca. Nella platea le poltronerosse e gli stucchi dorati rievocano le atmo-

sfere di un cinema che Fellini ricorda come la «caldacloaca di ogni vizio». Le tre vetrate che si affacciano sulcorso d’Augusto ricalcano fedelmente il passaggio dichi si incantava davanti ai manifesti del film. Guardan-do il progetto della nuova Casa Federico Fellini sembrache il tempo si sia fermato: un ultimo ciac su quella sce-na di Amarcorddove la Gradisca — la popolana rimine-se con «i fianconi che parevano ruote di locomotivequando si muovevano», sogno proibito di Federicoadolescente poi trasformato in icona di seduzione — sipresentava al cinema Fulgor per vedere i film con GaryCooper.

Quell’antico cinematografo di inizio secolo, il miticoFulgor, luogo di iniziazione del regista riminese, è sfug-gito al saccheggio delle multisale. Con la firma dello sce-nografo Dante Ferretti e i disegni di ristrutturazione del-l’architetto Annio Maria Matteini, il vecchio Fulgor faràparte di un nuovo complesso che comprende due saledi proiezione, il Museo Fellini, la Fondazione, la Cinete-ca. Una Casa Fellini nel segno della memoria. Progettopronto, via ai lavori nel nuovo anno. «Un’atmosfera no-stalgica, ma moderna», avverte Ferretti, Premio Oscarper The Aviator di Scorsese e Sweeney Todd di Tim Bur-ton, chiamato per la prima volta nel ‘69 sul set di Satyri-cone poi a fianco di Fellini per quindici anni, a dare toc-chi immaginifici a La città delle donne, E la nave va, Gin-ger e Fred, La voce della luna. Proprio in questi giorni loscenografo ha cominciato a disegnare la copertura del-l’edificio, una sorta di tendaggio che avrà come sfondouno schermo. «Mi ispirerò — continua l’artista — alle

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

sale cinematografiche americane anni Trenta-Quaran-ta, con uno stile un po’ decò ma morbido e avvolgente».

Le due sale, dotate delle tecnologie più sofisticate,conserveranno però platea e galleria, la tenda-sipariodavanti allo schermo, i lampadari e le luci modello LasVegas. «Sarà un cinema felliniano», ride divertito Fer-retti che vuole ricreare nello spettatore lo stesso stupo-re che provò Fellini bambino davanti alle scene di Maci-ste all’inferno. «Federico — continua — mi parlava spes-so di questo cinema pieno di fumo, affollato di donneprocaci, dove da ragazzi facevano le corse per passaredai posti popolari ai distinti progettando scherzi e so-gnando davanti alle storie di dive ed eroi». Già nel gran-de atrio di ingresso, che prevede un caffè in stile e unbookshop con oggetti di culto cinematografico, si dovràrespirare «un’aria da cinema sognato, per far volare lafantasia».

Fellini aveva pensato di scrivere un film sul Fulgor perraccontare la storia di una generazione ai tempi del fa-scismo, poi ha preferito ricostruirlo a Cinecittà per met-tere in scena i turbamenti di Bobo, uno dei tanti ragazziche andavano al cinema per «sbirciare le cosce» delledonne rapite dalle immagini dei soldati in divisa da nor-disti che cavalcavano sullo schermo.

Non è stato facile salvare il Fulgor, una delle poche sa-le funzionanti nel centro storico di Rimini, dalla concor-renza dei centri commerciali che monopolizzano l’of-ferta cinematografica. «È un doveroso risarcimento del-la città al suo figlio più illustre — spiega l’architetto Mat-teini, studio a Milano ma origini riminesi — dopo le pro-messe mancate del regalo di una casa sul porto che il Co-mune fece a Fellini quando era ancora in vita: la nuovaCasa Fellini ripaga quell’antica ferita di un dono mai fat-to». Una Casa dove, all’ultimo piano, troveranno spaziola biblioteca con i libri che hanno ispirato la fantasia delMaestro e una sala lettura dove consultare l’archivio Fel-lini e visionare cd, video e bobine che raccontano qua-rant’anni di cinema.

Cinema

Fulgor

Nuovo

SPETTACOLIEra il luogo di iniziazione dell’autoredi “Amarcord”. Ora Rimini lo riqualifica“Sarà uno spazio dove far volarela fantasia”, spiega Dante Ferretti,lo scenografo premio Oscarche cura il progetto

ANNA TONELLI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 7DICEMBRE 2008

LA LOCANDINALa strada, del 1955 (qui sotto la locandina),è il primo film di Fellini che vinse l’Oscarper la migliore pellicola straniera; gli altrisono Le notti di Cabiria, 8 ½ e Amarcord

Nel 1993 il regista ottenne l’Oscar alla carriera

Cinestudio Mabuse o L’Angelo Azzurro o Obraz — , né tanto me-no quelli da multisala che vanno oggi — Multiplex, Village War-ner, Moviecity, Cinedream, Cineplex, Megaplex —, nomi, que-sti ultimi, un po’ da marca di materassi e un po’ da farmaco permigliorare la potenza sessuale.

Un cinema come si deve propone già con il suo nome, invece,lo sfarzo delle sonorità esotiche e delle suggestioni prometten-ti. Passando sotto l’insegna luminescente si accede a un mondonuovo, moderno ma anche archetipico — ancestrale e america-no assieme, cioè. Il nome, che è anche la parola d’ordine cheschiude tale mondo, finirà preferibilmente per consonante eove possibile conterrà almeno una delle cinque lettere inusualiall’occhio italiano. Fulgor, appunto: o quel cinema in cui la MiaFarrow della Rosa purpurea del Cairo si caccia ogni giorno perdimenticare la realtà mesta della Great Depression anni Trentae che si chiama, sontuosamente, Jewel, gioiello. Ecco allora l’A-riston, “il Migliore” (il primo proprietario, però, si chiamava Ari-stide): e l’Eden e l’Odeon, l’Excelsior vicino allo Splendor, Ars eLux e Vip, Apollo e Corallo, Orfeo e Eliseo e Colosseo, Capitol eContinental (regolarmente pronunciato con l’assurdo accentosulla I), Roxy e Tiffany, Moderno e Maestoso, Greenwich eBroadway, Crystal e Admiral, Astra e Astor.

L’onomastica è la branca più malcerta ma anche più oniricadella linguistica, perché lo studioso di nomi propri più che la car-ne di un significato deve inseguire i fantasmi delle connotazio-ni e dei simbolismi. I nomi propri dei cinema sono allora mate-riale onirico alla seconda potenza, perché essi stessi parlano disogni. Né è un caso che l’onomastica dei cinematografi sia cosìvicina, spesso derivandone, a quella degli hotel. Negli hotel e neicinema ci si incontra e si sogna, tutti assieme, tra sconosciuti, di-visi da un tramezzo o da un bracciolo. Alla fine, comunque sichiami, ogni sala cinematografica porta allora come nome se-greto la più modesta e popolana, ma anche la più felliniana, ditutte le insegne: quel “cinema Bianchini: letto, lenzuola e cusci-ni” che a sua volta ci promette e assicura il film migliore, il piùappassionante, il più angosciante.

«Avolte s’usano medicine, ma ciò che occorre princi-palmente è l’ostinata volontà di vivere»: l’intermina-bile frase era la soluzione di un rebus pubblicato dal-

la Settimana Enigmistica — saranno passati almeno trent’anni—, e imperniato su una chiave enigmisticamente spettacolare:«è Susa nome di cinema». Nella vignetta, infatti, fra avi, osti, pal-me, oche e re, compariva anche un cinema chiamato Susa, co-me la cittadina piemontese.

A Milano, nei dintorni del piazzale omonimo, esisteva effetti-vamente un Cinema Susa, perché il modo più semplice di inti-tolare un cinema, come un hotel o un ristorante, è mutuare il no-me dall’indirizzo. Succede nei cinema del Corso di molte città,e poi con il Rialto a Bologna, il Giulio Cesare e il Quattro Fonta-ne a Roma, e sempre a Roma, con il Gregory che strizzerà purel’occhio al divo Peck, ma intanto ci ricorda di essere sito in viaGregorio VII (così come il Plinius vicino a via Plinio, a Milano).

La soluzione è quella adottata spesso anche dai cinema par-rocchiali, che prendono il nome dall’o-

ratorio che li alloggia (Sala don Bo-sco, Cinema teatro san Carlo),

quando non ricordano inve-ce san Luigi (forse in quan-

to protettore degli studen-ti e patrono della gio-ventù cattolica).

Ma se pensiamo alNuovo Cinema Para-diso ci accorgiamoche anche in ambitoparrocchiale (sia purenella finzione) non so-no questi i tipici nomida sala cinematografi-

ca; né lo sono quelli daCahiers du Cinéma sfog-

giati dalle cineteche —

Lux o Multiplexcome ti battezzoil posto dei sogni

STEFANO BARTEZZAGHI

ARimini, il cinema si chiamava Fulgor, l’ho già raccontato in quasi tutti i miei film. Adesso,nell’atrio, c’è una mia grande fotografia. Sto lì, proprio sopra la cassa, e non posso fare a me-no di pensare che quando c’è un film che non piace, la gente uscendo se la prenderà un po’

anche con me, mi guarderà con delusione [...]. E la moglie del farmacista, che andava al Fulgor per farsi tastare? Vedeva i film tre o quattro vol-

te di seguito, e tutto attorno a lei era un gran carosello di giovanotti, anche noi ragazzini tentava-mo la grande avventura, cambiando posto in continuazione con una lenta marcia di avvicina-mento. Poi c’era Baghino, che stava ritto nel buio dietro le tende, per spiare sulle facce degli spet-tatori la minima espressione di insofferenza quando sullo schermo, nei cinegiornali, appariva ilDuce, e poi correva a dirlo al Fascio. Una volta, in quattro, l’hanno arrotolato dentro la tenda, fa-cendolo girare come un salamone appeso al soffitto e legandolo alle caviglie e sopra la testa. Da làdentro, lanciava urla da bestia, ma nessuno aveva il coraggio di andarlo a liberare.

Siccome per via della Bottega dell’Arte, io ero diventato un personaggetto abbastanza noto, ave-vo fatto un contratto col proprietario del cinema Fulgor. Costui assomigliava a Ronald Colman elo sapeva. Portava l’impermeabile anche d’estate, i baffetti e manteneva una costante immobilità,per non perdere la somiglianza, come fanno quelli che sanno di assomigliare a qualcuno. I lavoriche facevo per lui — caricature di “divi” interpreti dei film in programmazione, messe nelle vetri-ne dei negozi a scopo di propaganda — gli erano dati in cambio dell’ingresso gratuito al cinemaFulgor. In quella calda cloaca di ogni vizio che era il cinema allora, c’era la maschera Madonna (danoi si dice così Madonnaccia al posto di Cristianaccio, per dire un omaccione grande e grosso).L’aria veniva ammorbata da una sostanza dolciastra e fetida, spruzzata da quella maschera.

Sotto lo schermo c’erano le pancacce. Poi, uno steccato, come nelle stalle, divideva i “popolari”dai “distinti”.

Noi pagavamo undici soldi; dietro si pagava una lira e dieci. Nel buio, noi tentavamo di entrarenei “distinti” perché là c’erano le belle donne, si diceva. Ma venivamo agguantati dalla maschera,che stava nell’ombra e spiava da una tenda; sempre tradita, tuttavia, dalla brace di una sigaretta,che si vedeva nel buio.

Dopo le caricature, io avevo ottenuto l’ingresso gratuito per me, Titta e mio fratello. Una voltache c’ero andato, vidi la Gradisca sola, nei “distinti”. Scavalcai lo steccato, sfuggendo alla sorve-glianza di Madonna; mi fermai a guardare la Gradisca, col batticuore. I capelli della donna, lumi-nosi, biondi, erano battuti dal fascio di luce che usciva dalla cabina. Mi sedetti, forse per l’emozio-ne: prima lontano, poi sempre più vicino. Lei fumava lentamente coi suoi labbroni. Quando ebbiraggiunto la poltroncina accanto, allungai una mano. La sua coscia opulenta, fino alla giarrettie-ra, sembrava una mortadella chiusa dallo spago. Lei lasciava fare, guardando in avanti, stupendae silenziosa. Andai oltre, con la mano, fino alla carne bianca, polposa. A questo punto, la Gradiscasi voltò lentamente e mi chiese con voce buona: «Cos’è che cerchi?». Io non fui più capace di pro-seguire.

© “Fellini al Fulgor” a cura di Gianfranco Gori, “Quaderni di Rimini Cinema”, n. 5, 1987

“Quando mi trovai da soloaccanto alla Gradisca”

FEDERICO FELLINI

La tua risorsadi benessere

Repubblica Nazionale

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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

i saporiTradizioni

Nelle sue infinite varianti, dallo zampone alla salamada sugo, durante le prossime feste ne consumeremosettemila tonnellate. Perché non c’è crisieconomica che tenga di fronte alla ricettadi fine anno per eccellenzaCon o senza lenticchie

Aria di Natale. La recessione stran-gola i consumi, dimezza i regali, ri-manda i generi voluttuari a data dadestinarsi. Ma il cotechino resisteimpavido, protagonista ricono-sciuto di pranzi e cene che la tradi-

zione vuole articolati, rituali, abbondanti. Alme-no una volta all’anno, battaglia persa per anima-listi e vegetariani: a conferma che del maiale nonsi butta via niente, infatti, gli insaccati rappresen-tano la summa gastronomica dell’animale al ser-vizio dell’uomo, nella percezione simbolica al-meno quanto nella pratica alimentare.

Se l’idea di conservare il macinato di maiale neisuoi stessi budelli è vecchia quanto il mondo ed ètrasversale a genti e paesi di mezzo pianeta (il di-segno di un salame fu rinvenuto nelle decorazio-ni della tomba di Ramsete II, datata mille anni pri-ma di Cristo), lo zampone vanta una filiera storicae favolistica originalmente modenese. Tra realtà eleggenda, tutto cominciò a metà del secondo mil-lennio, quando la cittadina di Mirandola fu stret-ta d’assedio dalle truppe di Papa Giulio II Della Ro-vere. A un passo dalla capitolazione, i mirandole-si dovettero scegliere se abbandonare i maiali del-la loro campagna nelle mani degli usurpatori o uc-ciderli, sapendo che gran parte della carne sareb-be marcita prima di poter essere consumata.

Fu uno dei cuochi al servizio del celeberrimo Pi-co ad avere l’intuizione geniale: stipare le zampedei maiali sacrificati con la loro carne più magra,per poterla cuocere anche a distanza di tempo. Lastoria non precisa se gli assediati ebbero modo di

assaggiare il proto-zampone prima di cadere nel-le mani del nemico, o se i primi a goderne furonoproprio i papalini. Da quel momento, comunque,i contadini poterono contare su una nuova mo-dalità di far durare le carni macellate a inizio in-verno. Così, l’idea nata per fronteggiare un’ur-genza si tramutò in consuetudine alimentare.

Occorreva ancora, però, codificare la ricetta. Ilprimo a cimentarsi fu Vincenzo Agnoletti, cuocoalla corte di Maria Luigia, granduchessa di Parma,che a metà Ottocento impose ai suoi collaborato-ri di assemblare l’impasto con eguali parti di co-tenna, nervetti e carne magra. Qualche anno piùtardi, ne La nuovissima cucina economicaappar-ve la prima descrizione degli zampetti alla mode-nese. Era passato un secolo esatto dal debutto delcotechino — la cui lavorazione era diffusissima tralardaroli e salsicciari modenesi — nei ricettari ita-liani. Da lì in poi, a caratterizzare i diversi tipi dizampone e cotechino non sono state tanto lacomposizione in percentuale — che gravita tutto-ra intorno a tre parti equamente divise tra magro,cotenna e parti ghiandolari — quanto la qualitàdelle carni usate, lo status di crudo o precotto (in-dustriale) e la ricetta del mix di aromi per la rifini-tura, che ha per base cannella, chiodi di garofano,pepe e noce moscata. Il tutto ancorato ai paletti —mai abbastanza severi — dell’Igp, che i grandi ar-tigiani norcini si lasciano alle spalle, privilegiandopiccoli allevamenti naturali e respingendo la scor-ciatoia degli additivi.

Eppure, presentato senza adeguata compa-gnia, anche il miglior cotechino/zampone è de-stinato a soffrire di solitudine gastronomica. Via li-bera allora ai contorni, che variano a seconda diabitudini, località, preferenze. Dai purè alle len-ticchie, dalla polenta alle verze, giù giù fino alle ra-pe fermentate che i friulani chiamano brovade, icomandamenti dei nutrizionisti si sposano a me-raviglia con le esigenze del palato: verdure pertamponare le proteine animali, farinacei e legumiper equilibrare la qualità delle calorie. Se poi riu-scite a bere solo un bicchiere di vino — rigorosa-mente mosso: barbera, bonarda, lambrusco, conspumanti e champagne sfiziosi outsider — la bi-lancia ve ne sarà grata.

Lo spiritodel NataleLICIA GRANELLO

l’appuntamentoGiovedì 11, edizione numero 98

della Fiera del bue grasso,a Carrù, Cuneo. Nella giornatadedicata agli esemplari boviniextra-large, di almeno quattroanni d’età, dalle carni morbide

e gustose, con tanto di astainternazionale, il cotechinoha un posto d’eccellenza

nel carrello dei bolliti, celebratoin tutti i locali della zona

Per i più mattutini, brodo bollente“battezzato” con il vino rossoal posto di caffè e cappuccino

‘‘Gioacchino RossiniVorrei sei cappelli da prete,

simili a quelli che leimi mandò a Firenze

Quattro zamponie quattro cotechini, il tuttodella più delicata qualità

Lettera al salumiereBellentani di Modena

Cotechino

Remouage italiano.

2008

www.trento

doc.com

Repubblica Nazionale

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CotechinoCarne magra, grassoe cotenna di suino, sale,pepe, spezie, vinoper l’insaccato-culto padanoNella ricetta tradizionaleil budello è naturale,l’asciugatura è in stufe ad ariacalda, cuoce quattro ore

ZamponePer l’alter ego del cotechino,un terzo di muscoli, un terzodi cotenna macinata, un terzodi parti carnose e ghiandolaridel guanciale. Salato,speziato e insaccato nella pelle della zampaanteriore del suino

MariolaTipica della bassa parmense,prende il nome dal budelloin cui viene insaccata(intestino cieco) e deriva da una miscela di carni magre— stinco e spalla — con pocacotenna. Stagionata o cotta,si mangia con la mostarda

Cappello del preteL’impasto è simile a quellodel cotechino. La forma,invece, ricorda i cappelliche i preti indossavanoun tempo. Nella ricettatradizionale si utilizzanoscarti della lavorazionedi culatello e fiocchetto

Salama da sugoDi tradizione ferraresel’insaccato di parti povere del maiale — capocollo,guanciale, pancetta, lingua,fegato, strutto — mescolatecon aromi naturali e vinorosso. Legatura a spicchie lunga stagionatura

itinerari

Adagiata sulle rive del Natisone,a pochi chilometri da Udine,l’antica Forum Iulii vantauna robusta tradizione culinaria,a partire da brùade e musèt,bizna (minestra di patatee brovada) e marcundele

a base di fegato, cuore,sottogola nella retina di maiale

DOVE DORMIRELOCANDA AL POMO D’OROPiazzetta San Giovanni 20 Tel. 0432-73148Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARETRATTORIA DA MARIOVia XXIV Maggio16Prepotto Tel. 0432-713004Chiuso lunedì e martedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMACELLERIA MACORIG Via Patriarcato 13Tel. 0432-731404

Cividale (Ud)Al centro di un’area abitatada più di duemila anni,è appoggiato sul versante suddell’arco submontano del Canavese. La terramorenica favoriscela produzione di vini (Erbaluce,anche passito). In zona,eccellenti artigiani norcini

DOVE DORMIRERESIDENCE LA CORTECorso Torino 24Tel. 011-9891762Camera da 65 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREAL GIRASOLVia Roma 8Barone CanaveseTel. 011-9898565Chiuso lunedì, menù da 35 euro

DOVE COMPRARESALUMIFICIO NADIAVia Pasubio, 50 Frazione Arè Tel. 011-9832804

Caluso (To)L’etrusca Mutna (diventataMutina durante l’Iimperoromano), capitale del Ducatodegli Este fino all’annessioneal Regno d’Italia e storica sedeuniversitaria, è un paradisoper enogastronomi. Cotechinoe zampone imperanoin tutti i menù

DOVE DORMIREHOTEL PRINCIPECorso Vittorio Emanuele II 94Tel. 059-218670Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARELA CUCINA DEL MUSEOVia S. Agostino 7Tel. 059-217429Chiuso lunedì,menù da 50 euro

DOVE COMPRARERUSTICHELLI E PICCININIVia Emilia Est 417Tel. 059-360119

Modena

Nel Settecento le Dop non c’erano. Né c’era un’autorità comel’Unione Europea di Bruxelles incaricata di decidere se la de-nominazione Tocai spettasse all’Ungheria o al Friuli. Ma non

mancavano le dispute sull’attribuzione di questo o quel prodotto adun determinato territorio e i letterati ci inzuppavano il pane, ossia lapenna: avendo già scoperto la stretta relazione fra tipicità del cibo ecultura. E siccome erano i tempi in cui i regnanti si scambiavano lasovranità su questo o quel principato, ecco un rimatore ferrarese,Antonio Frizzi, lanciare in un poemetto, La Salameide (1772), unasingolare proposta: la sua città avrebbe rinunciato ad altre primo-geniture in cambio di una esclusiva sul cotechino. Si accontentas-se, Modena, dello zampone: «Col nostro cotechin come fratello / diModena il zampetto a par cammina. / La camicia ha costui non dibudello / ma della stessa cotica porcina».

I destinatari del compromesso fecero però orecchi da mercanteed oggi la città della Ghirlandina ha ottenuto da Bruxelles non solola titolarità dello zampone, ma anche del cotechino, che Frizzi, met-tendo le mani avanti, si accaparrava come «nostro», cioè ferrarese.E del resto, se anche i modenesi fossero stati al gioco, sarebbero ri-masti in campo i cremonesi, ancora oggi capaci di interpretare il co-techino sotto varie forme: non solo oblunghe, come le più tradizio-nali, ma a palla tonda, detta allora ciuta perché ricavata dall’intesti-no cieco, o come il testeus, che al normale impasto aggiunge il con-tenuto della testa e salato a parte.

Gli storici fanno risalire al 1511, durante l’assedio di papa GiulioII al castello della Mirandola, l’invenzione dello zampone. Costret-ti ad uccidere numerosi capi suini asserragliati nel castello, i suddi-ti dei Pico — la famiglia assediata — ebbero l’idea di ripiegare la far-cia del cotechino tra due cotenne, creando il manicotto, o addirit-tura di stivarlo in un piede di porco, creando lo zampone. Anzi, lozampetto, perché così probabilmente si chiamò fino all’aperturadel salumificio Bellentani e al conseguente celebre ordinativo diRossini, datato 1838. E una conferma che il tardo Settecento, a ca-vallo dell’epopea napoleonica, sia stato l’apice della creatività salu-miera emiliana, è data da un altro impasto di macinato suino, il cap-pello da prete: che è un tricorno, come usavano portare gli ecclesia-stici prima della rivoluzione francese.

Sulla superiorità dello zampone o del cotechino è aperta la di-sputa. Un po’ più caro lo zampone. Non mancano però i cotechini,preferiti dai buongustai. Entrambi hanno una caratteristica comu-ne: essere un piatto di forte socialità gastronomica. Un gourmet puòin altri termini appartarsi quatto quatto a gustare in solitudine, sen-za la briga di conversare, un piatto di lasagne, un cappone, un arro-sto, uno sformato, ma cotechino e zampone esigono compagnia.Troppo triste è l’immagine del loro tronco da cui sia stata spiccatasolo qualche fetta. Cantava il modenese arcade Ferrari, in arte Ti-grinto Bistonio, nell’Elogio del porco (1761): «Ah, cotichin, null’altraa te somiglia / in fragranza e in sapor vivanda eletta! / Quando tugiungi inarca ognun le ciglia. / I grati effluvi ad assorbire in fretta / sispalancano i tubi ambo nasali / e un OH comune il godimento af-fretta».

C’è un solo testo letterario che rivaleggi con quello del Tigrinto. Edè la festevole partenza del tappo di champagne descritta da Voltairenel poemetto Le mondain. Ma la socialità di quel tappo incarna unasituazione ottimale. Per il cotechino, necessaria.

Un piatto riccoda condividereCORRADO BARBERIS

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 7DICEMBRE 2008

le tonnellate di zamponie affini consumatinelle feste di Natale

7000

le calorieper cento grammidi zampone

361

prima citazioneufficiale documentatadel cotechino

1745

Pellegrino Artusipubblica la ricettadel cotechino fasciato

1910

L’artista catalano Joan Crous alleva suini di razza mora romagnolanella campagna di Bologna. Dalle carni ricava arrosti e cotechini per cene d’autore,di cui “vetrifica” gli avanzi che vengono poi esposti nelle gallerie d’arte

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le tendenzeSotto l’albero

Coco Chanel decretò: “Una donna che non lo indossanon ha futuro”. Recessione e crisi tagliano le spesevoluttuarie, ma non quelle legate alle fragranzeE gli stilisti - come racconta Laura Biagiotti - devonoancora una grossa fetta di fatturato alla venditadei “magici” flaconi con impressi i loro marchi

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

LAURA LAURENZI

Altatecnologia e, insieme, ri-torno al passato. Trionfa ilvintage, la nostalgia per lefragranze di un tempo,quelle massimamente evo-catrici. Pochi sono i profu-

mi che resistono all’usura degli anni, i gran-di classici, i sempreverdi, gli intramontabi-li. Il profumo è un piacere tattile, scatenaemozioni, imprigiona ricordi, libera ener-gia con il suo carico di promesse. È serialema ha una chimica diversa su ogni pelle.Mai come in questa stagione i riflettori so-

no puntati sul profumo. Recessione e crisitagliano irrevocabilmente le spese volut-tuarie, ma non quelle legate alle fragranze,stando ai dati diffusi dall’Unipro, che evi-denzia nell’ultimo anno una crescita del-l’uno per cento del mercato cosmetico, perun valore di circa nove miliardi di euro.

Si rinuncia al cappotto nuovo, al viaggio,al gioiello, ma non al profumo che resta, ol-tretutto, il più classico fra gli articoli da re-galo, acquistabile anche all’ultimo mo-mento, dotato di grande valore aggiunto.«Una donna che non indossa un profumonon ha futuro», decretò Coco Chanel. Mol-ti grandi stilisti devono i loro fatturati pro-prio alle vendite delle loro celebri fragran-ze: quelle già consegnate alla leggenda maanche quelle nuove, sfornate a ritmo conti-nuo, con flaconi, confezioni, packagingsempre più accattivanti. Riedizioni del pas-sato come oggetti futuribili. Ecco la bottigliasagomata come una colonna, o con incre-spature che la fanno somigliare a un abitoda sera o a una sottoveste o a un manichinoo a una colonna romana, tappi gioiello o si-mili alla corolla di un fiore, sfaccettature artdéco, nastri di gros grain, serigrafie in oro,sottili arabeschi, loghi satinati.

Ma quali sono le tendenze dei profumicontemporanei? Difficile, se non impossi-bile, omologarle. Di tutto di più. Il profumopuò essere da giorno o da sera. Può esseresensuale-magnetico-ipnotico. Può inveceessere sportivo e impalpabile. Può esseresempre lo stesso per tutta la vita e tutte le sta-gioni. O all’opposto può cambiare ogni me-se, secondo il gusto, il capriccio, la moda,dettata anche dal carisma e dalla persona-lità della testimonial prescelta per le impo-nenti campagne pubblicitarie, frontieraavanzata della globalizzazione. Sottolinea-no tuttavia gli esperti come sia sempre piùtenue la differenza fra peculiarità olfattivefemminili e maschili. Le composizioni dadonna rubano al mondo maschile sfuma-ture legnose, mentre i profumi maschili siammorbidiscono collocandosi nelle fami-glie ambrate. «Dobbiamo tener conto dellastagionalità, per cui d’estate vanno di più ifruttati e i floreali e di inverno i muschi e i le-gnosi — osserva Gian Andrea Positano del-l’Unipro — ma per il resto assistiamo a unapolverizzazione della produzione che ten-ta di andare incontro a una differenziazio-ne sempre più diffusa. Le aziende investo-no moltissimo su prodotti che sembrino dinicchia, esclusivi, quasi su misura».

Qual è il segreto del successo? Come resi-stere sul mercato? Laura Biagiotti festeggiain questi giorni i vent’anni della sua fra-granza “Roma” che permane ormai da tem-po nella lista dei dieci profumi più vendutiin numerosi paesi europei: «Per fare centro— spiega — si deve colpire al cuore azzec-cando il blend giusto, un mix di romantici-smo e di modernità, un’armonia di contra-sti, ma anche lanciare un messaggio intelli-gibile e semplice in tempi così complicati, eraccontare una storia. Il profumo va vissu-to come un abito: un abito però senza tem-po, senza taglia, senza forma, qualcosa cheti accompagna nel tuo viaggio quotidiano,un gesto istintivo dalla grande forza evoca-trice, legato alla sfera più intima, e al pos-sesso». Laura Biagiotti definisce «sfrenata»la sua passione per i profumi: «Li collezionofreneticamente, a partire dagli anni Venti fi-no ai Sessanta, quando si passò all’indu-strializzazione di questo prodotto. Ho al-meno seicento essenze pregiate. Le hocomprate in vecchie profumerie che chiu-devano, addirittura dai rigattieri, e anchealle aste, a Londra, a New York, a prezzi og-gi proibitivi. Incoscientemente ho com-messo degli errori: come tenere le bottigliein piena luce, o come aprire certi antichiprofumi che invece andavano conservatisigillati, altrimenti evaporano, o possonoanche virare sul malvagio». Certo è un belbusiness, per chi lo produce, azzeccare unprofumo. Quanto incide, come vendite, sulfatturato globale di uno stilista? «Nel miocaso moltissimo: il venticinque per cento.Niente ti dà una vastità di platea come unprofumo. Niente è più universale, niente èpiù facile e più semplice, quando lo indovi-ni». E niente è più redditizio.

Miti che non evaporano

FRAGILE E SENSUALEPer donne fragili e insiemeammaliatrici: si presentacosì Jasmin Noir, la nuovafragranza di Bulgariche esprime tutta la purezzae la luminosità del gelsominoma al tempo stesso ne esaltala parte più oscura

GUSTO DELL’ANTICOVent’anni di successiconta Roma

di Laura Biagiotti,confezionatoin una boccettaa formadi colonna classicasenza capitelloIl cuore della fragranzanasconde un bouquetdi gelsomini, rose,mughetti e garofani

COME MARILYNL’icona Monroene “indossava”due gocce primadi andare a lettoIl N°5 rimaneil profumoper eccellenzaChanel adessolo rilancianella versioneEau Première:rinnovatoma immutatonell’essenza

SOBRIO E SOTTILEÈ una fragranza che agiscein sincronia con il corpoInfusion d’homme, il nuovoprofumo maschile di PradaFonde insieme ingredienticlassici: iris pallida, neroli,legno di cedro, vetiver,incenso e benzoino

NOTE DI FRUTTASi apre su una nota fruttatadi lampone, ravvivatadalla delicatezza del litchi,elle Eau de Parfum Intense

di Yves Saint LaurentNel suo cuore si fondonole bacche rosacon il gelsomino e l’iris

CUORE DI FIOREEsalta il cuore stesso dei fioriJ’Adore L’Absolu, il nuovoeau de parfum di Diorche accorda le assolutedi gelsomino Sambac,tuberosa, ylang-ylange rosa turca. Il flaconeè un’anfora di vetro

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 7DICEMBRE 2008

GIUSEPPE VIDETTI

PARIGI

Nella clinica dell’olfattonon ci sono odori. Né co-lori violenti. Una sobriaeleganza hi-tech. La men-

sa del personale è lontana dai laboratori.C’è da percorrere un vialetto esterno perraggiungerla. I fumi della cucina potreb-bero inquinare lo spazio incontaminatoin cui, da milletrecento materie prime euna vasta gamma di note sintetiche, s’in-ventano i profumi. L’École de Parfume-rie Givaudan di Argenteuil, alla periferiadi Parigi, ha origini provenzali. È nata nel1946 a Grasse, la città dei fiori, e da tre an-ni si è spostata nella capitale. Qui si for-mano nasi. Non si tratta di rinoplastica,ma della professione sconosciuta e affa-scinante esercitata da un’élite di uominie donne cui vari committenti — stilisti,

per lo più, ma anche artisti e privati — sirivolgono per commissionare un nuovoprofumo. Stilisti dell’impalpabile, segu-gi di essenze volatili che muovono unbusiness miliardario: quattrocentonuovi profumi ogni stagione, un girod’affari di 900 milioni di euro solo in Ita-lia (di cui 350 incassati dai prodotti ma-schili, il 39 per cento del mercato dellaprofumeria alcolica). Quello del naso èun lavoro misterioso, tanto intrigante daaver ispirato a Patrick Süskind il bel ro-manzo (Il profumo, appunto, poi diven-tato un brutto film diretto da TomTykwer) ambientato nella Parigi del Di-ciottesimo secolo. Dove, nel più fetidodei quartieri, Jean-Baptiste Grenouillescopre di avere un olfatto eccezionale ecresce con l’ossessione di estrarre il pro-fumo da ogni cosa. Anche dalle persone:

a Grasse per apprendere i segreti dell’en-fleurage, nella follia di creare l’essenzaassoluta, si trasforma in un serial killer dibelle ragazze.

«Questo è un lavoro che si fa con pas-sione», esordisce solenne Jean Gui-chard, direttore della scuola, originariodi Grasse e uomo di raffinata eleganza,dai gemelli all’orologio in oro rosa. Conestrema cura sistema sul tavolo le am-polle che contengono gli oli essenzialicon cui testare l’olfatto dei nasi in erba.«Regola numero uno: imparare a visua-lizzare cerebralmente gli odori. Noi pro-fumieri ci consideriamo degli artisti. Sehai tecnica ma non creatività, sei un fal-lito. Se la creatività prende il sopravven-to, rischi di perdere di vista il mercato».Del fondatore, Jean Carles, si parla anchene L’imperatore dei profumidi RaymondBurr, scrittore e giornalista del New YorkTimes che ha pubblicato una storiaesemplare tra fiction e realtà su «unoscienziato alla ricerca dei segreti dell’es-senza perfetta»: «In tarda età Carles eradiventato anosmico, cioè aveva perso ilsenso dell’olfatto, e si affidava alla me-moria per creare i suoi profumi. Quandoarrivava un cliente, Carles recitava lacommedia, fingendo di odorare prima

gli ingredienti e poi il nuovo compo-sto, che porgeva all’acquirente

con grande solennità». Lo chiamavano il

Beethoven di Grasse.«Erano gli anni d’orodella profumeria, L’airdu temps, Miss Dior,Fracas hanno gene-rato famiglie e ge-nealogie», esclamaGuichard che, per untuffo nel passato, in-vita tutti a visitare l’O-

smoteca di Versailles,una vera e propria bi-

blioteca olfattiva. «Ilsuccesso di una colonia o

di un’eau de toilette non èpiù un caso, traduce l’idea di

un’epoca, come un film, un qua-

dro, un romanzo. Il profumiere è il pun-to d’incontro tra un chimico e un poeta».E racconta di quella volta — era il 1920 —che Coco Chanel, rientrando a Parigidalla Costa Azzurra, passò da Grasse perordinare un nuovo profumo. ErnestBeaux, il leggendario profumiere russo,ci mise l’anima, e il lunedì mattina fecerecapitare nell’atélier di Rue Cambon lapreziosa ampolla. Solo quando Chanelne era già in possesso si accorse di averemandato il campione sbagliato. Lainformò dell’errore profondendosi inmille scuse e tempestivamente inviò uncorriere con la nuova creatura. Quandochiamò Mademoiselle per avere un pa-rere, la risposta fu: «Non male, ma io pre-ferisco il primo». Il poveretto non ricor-dava neppure gli ingredienti di quell’in-truglio e ebbe un bel daffare per indivi-duare gli ottanta elementi della formula.Ecco come è nato Chanel N. 5, quello cheMarilyn indossava a posto del pigiama.

Oggi l’azienda profumiera Chanel ècosì potente da potersi permettere unnaso in esclusiva, Jacques Polge, che dal1978 è l’angelo custode di N. 5 («Capitadi dover cambiare gli ingredienti deiprofumi storici, perché non se ne trova-no più o perché per le leggi vigenti nonsono a norma. A quel punto bisogna fa-re sforzi titanici per mantenerne le ca-ratteristiche», spiega Guichard) e idea-tore di tutti i «nuovi classici» della mai-son. Suo figlio, Olivier Polge, trenta-quattro anni, è il naso di punta della IFF,la profumeria che fa concorrenza a Gi-vaudan. «Sono nato a Grasse, che per merimane un punto di riferimento, perchéè lì che ci sono gli stabilimenti di produ-zione delle materie prime», raccontaOlivier, il creatore di Dior Homme eFlower bomb, con la sua aria da eruditoseduttore. Alla Delon nella Prima nottedi quiete, per intenderci. «È lì che anco-ra si fa l’expertise delle materie naturali.Tuttavia, anche se molti non lo sanno, iprofumi, fin dal Diciannovesimo seco-lo, sono una combinazione di fragranzenaturali e note sintetiche realizzate dachimici esperti».

«Anch’io sono nato a Grasse, comemio nonno e mio padre, che si occupa-vano di materie prime», racconta Antoi-ne Maisondieu, naso trentanovennedella Givaudan con molti successi com-merciali all’attivo, primo fra tutti Arma-ni Code. «Il segreto di un profumo di suc-cesso? È un po’ come una canzone. Se tiresta appiccicata addosso… I can’t get nosatisfaction… hai fatto boom».

Quando Guichard fiuta il talento diun giovane naso, non lo molla più. Du-rante l’apprendistato, gli allievi non so-no tenuti a pagare una retta, possonoanzi contare su un salario minimo. DaGivaudan escono al massimo quattronuovi profumieri ogni anno: alcuni la-voreranno nei laboratori chimici di Zu-rigo, altri si occuperanno di cromato-grafia e di marketing, altri ancora ver-ranno smistati nei vari centri di ricercasparsi per il mondo. Il maître profumie-re comincia a intingere le mouillettesnelle ampolle che contengono gli oli diessenze famosissime e le fa girare tra glistudenti. Annusando, dovranno impa-rare a individuare gli ingredienti e le fa-miglie olfattive, distinguere le note na-turali dalle sintetiche e, infine, quellecromatiche. Qualcuno riconosce il vec-chio Chypre (1917). «Coty è l’inventoredella moderna profumeria», spiegaGuichard. «Uno pensa che un naso siasempre alla ricerca di nuovi odori, unaspecie di cane da tartufo, insomma»,scherza Polge. «In realtà, il mio è un la-voro più visivo che olfattivo». Comemoderni letterati alle prese con Dante,anche Polge e Maisondieu fanno co-stantemente ricorso ai classici. En-trambi adorano L’heure bleue, Jicky eShalimar di Guerlain (rispettivamentedel 1889, 1912 e 1925), Tabac blond diCaron (1919), Knize Ten (1924). «Nonfaccio distinzione tra uomo e donna»,dice Polge, «quando un profumo è ge-niale va bene per entrambi».

Giovani, creativi, fascinosi, i nasi pos-sono guadagnare anche cifre molto al-te, non appena una loro scoperta di-venta un must. Eppure hanno una fer-rea vocazione all’anonimato. Non li di-sturba che a mettere il nome sulla loroformula sia uno stilista o un gioielliere.«Mi piace stare nell’ombra, per questomi sono scelto questo mestiere», spiegaPolge. «La frenesia del mondo della mo-da, l’ossessione per la novità e il cam-biamento a ogni costo, anzi, mi distur-ba». E Maisondieu: «Oggi c’è un taleabuso della parola star, ci manchereb-be altro che lo diventassimo anche noi.Vorrebbe dire che siamo delle personequalunque. Picasso passava giornate insolitudine davanti alle tele bianche,non stava mica tutti i giorni in tv a rac-cogliere standing ovation».

Nella scuola pariginadove si insegna

a lavorare di naso

ANIMA DECISAÈ per uominiche non hannopaura di amarela moda Versace

pour homme,nato da un mixdi aromi di naturamediterraneatra cui cedrodi Diamante,foglie di arancioamaro e fioridi neroli. Il flaconelascia trasparireil colore indaco

ROSSO PASSIONEÈ vestito di colorrubino Magnifique

di Lancômeche miscelail nagarmotaindiano, estrattoda un vegetaledella famigliadel papiro, la rosae lo zafferanoIl profumo boiséfiorito speziatoè firmatoda Olivier Crespe Jacques Cavallier

MINIMALISTABergamotto,coriandolo,cardamomo,balsamo tolù,cuore di cedroe ladano sonogli ingredientidi Kenzopower,

fragranzaper uomodi Kenzo, riccadi contrastiIl flacone minimalè a formadi bottiglia di sake

STILE SFRONTATOÈ “vietato

alle signore”Ma Dame di Jean-

Paul Gaultier,essenza

dichiaratamentededicata a donne

sfrontatee maliziose

La fragranzaè un floreale

fresco e vellutato,la confezione

decisamente pop

PER VERI DANDYPatchouli, cisto-ladano,vaniglia, legno del Cachemirerefrigerante per la pellesono gli ingredientidi Roadster di Cartier, profumoper lui aspro e sfaccettatoIl flacone ha un curiososviluppo orizzontale

ORIENTALE MASCHILEFresco e frizzante grazieal limone, delicato e leggerograzie al bergamottoSi presenta così Armani Code,la fragranza per l’uomofirmata Armani. Il fioredell’ulivo dona sensazionidi morbidezza e radiosità

TRE ELEMENTIAria (abete bianco, ambravegetale e musk), acqua(foglie e fiori di violetta)e legno (vetiver e legnodi cedro) sono i tre elementinaturali di He Wood,primo profumo maschiledi Dsquared²

AROMA DI ASSENZIOLa tuberosa si accordacon gli accenti aromaticidell’assenzio sfociandoin un risultato insolito:è Miroir, Miroir! il fioritoaromatico di Thierry Muglercustodito in un flaconecristallino di ispirazione déco

Repubblica Nazionale

Page 14: omenica LEONARDO COEN eANDREA TARQUINI DOMENICA …download.repubblica.it/pdf/domenica/2008/07122008.pdf · ... è che non ne tiene il minimo conto. ... coppie di pensionati ottuagenari

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 7DICEMBRE 2008

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‘‘l’incontroDivulgatori

ROMA

Alla cerimonia degli augurinon ci sarà lo champagne,forse neppure il moscatodelle sue terre. Il festeggia-

to è astemio. Il gentiluomo di Quark, il si-gnore che ha fatto rinascere i dinosauriprima di Giurassic Parke li ha venduti nelmondo alle televisioni di quaranta paesi,celebra i suoi ottant’anni e non li vuole di-mostrare. Gli uomini invecchiano sem-pre male quando restano giovani, eppu-re questo non è successo a Piero Angela.Lui ha conservato il volto televisivo ditrent’anni fa. Lo sguardo pacifico e rassi-curante da maestro buono che non dàbacchettate sulle dita degli alunni, unosguardo appena un po’ inclinato dalladeformazione professionale, le guancetonde e colorite, i capelli sottili pettinatibene, l’aria elegante e sobria che s’incon-tra nei salotti piemontesi un po’ gozza-niani, dove ogni porcellana sembra stareal suo posto da generazioni, senza che unfilo di polvere si sia posato sopra il tempotrascorso.

Sono venuto a trovare Piero Angelanella sua casa di Roma Nord, un luogo chea tutto assomiglia tranne che a Roma.Una palazzina di quattro piani costruitanegli anni Sessanta con grandi finestreche incorniciano macchie di alberi chesembrano boschi veri. Una via con un no-me dolomitico, circondata da troppo si-lenzio, un paesaggio di una riservatezzache sfiora la solitudine e la noia. Sulla por-ta c’è Margherita, moglie bionda e dolceche saluta e rapida si eclissa. È la madre diAlberto e Christine. Riflettendosi in lei,come dentro uno specchio intimo, PieroAngela disegna il proprio carattere. Si ac-comoda sul divano, in pantaloni chiari divelluto, camicia e maglione girocollo, of-fre un cioccolatino, «sono un professio-nista del gianduiotto alla fine del pranzo»

e a me pare davvero di mettermi sedutodavanti alla tv: «Margherita non ha maivoluto essere fotografata con me, alle ce-ne in pubblico andiamo sempre separa-ti. Non è gelosa e temo di non averle maidato motivi per esserlo. Mai ricevuto let-tere profumate da parte di donne inna-morate. Non sono un divo, penso che imiei spettatori mi considerino un loroparente. Nella vita ho fatto tanti errori ecommesso pochi peccati. Peccare è fati-coso come dire le bugie, bisogna posse-dere buona memoria. Sono un pantofo-laio, mi piace stare in casa, persino al ci-nema vado pochissimo. Ogni tanto fac-cio qualche viaggio, anche in tenda e sac-co a pelo, ma dopo tre giorni la vacanza miha già stancato. Non ho mai lavorato tan-to come adesso. Non sento la fatica degliottant’anni. Purtroppo me li ha ricordatiqualche settimana fa l’istituto di previ-denza dei giornalisti». Si alza, prende daltavolo una lettera ciclostilata e me la mo-stra. È la richiesta di una certificazione diesistenza in vita.

Se vi è in noi qualcosa che sta sopra edietro a tutte le età e con tutte gioca, in Pie-ro Angela questa fortuna è proprio la vo-glia di esplorare la vita, dalle sue più ba-nali manifestazioni agli insondabili mi-steri. Con l’occhio del laico. «Io non credoa nulla, evito di parlare di Dio come degliextraterrestri. La scienza unisce posizio-ni ideologiche differenti, mi auguro chepresto lo comprenda anche la Chiesa. Lascienza è filosofia. La biochimica ci aiutaa capire da dove veniamo. L’astrofisicascandaglia i segreti dell’universo, la pa-leontologia umana lo sviluppo dell’uo-mo, la fisica della materia illumina ciò checi circonda, la genetica quello che stadentro di noi». Si batte la fronte con l’in-dice: «La vita è qui». Al giorno d’oggi, dice,il motore che cambia il mondo non è piùla scienza, ma la tecnologia e la tecnolo-gia non ha nulla a che fare con la filosofia.È meccanica, è profitto. «La tecnologiapuò salvarci o distruggerci, lo snodo è cul-turale, sta nella nostra capacità di gestir-ne limiti e vantaggi». Gli domando se esi-ste qualche motivo razionale che giustifi-chi il nostro inseguimento all’immorta-lità, lui mi spiega che il suo autore di fan-tascienza preferito è Arthur Clarke per-ché nelle sue storie ha sempreprivilegiato la verosimiglianza scientificaai sogni d’onnipotenza. «La vita è un ela-stico e tutti noi ne abbiamo uno diverso.Lo tiri fino a quando non si spezza, l’uni-ca certezza è proprio questa, c’è, prima odopo, un punto di rottura. Ho comincia-to a pensare alla morte quando ho com-piuto cinquant’anni, prima coltivavo se-gretamente l’illusione intellettuale di es-sere immortale mentre, invece, siamotutti in marcia verso un nido di mitraglia-trici. Ogni mattina, una delle prime pagi-ne che cerco sui giornali è quella delle ne-crologie. Con grande sincerità, le dico chenon mi auguro la prospettiva di una so-cietà di ultra centenari».

Piero Angela è stato nove anni a Parigicome corrispondente della Rai, quattro aBruxelles, ha girato l’America in lungo e in

re Louis Armstrong. Avevo un compa-gno, Lodovico Lessona, che musicistariuscì a diventarlo per davvero, i suoi ge-nitori lo avevano chiamato così in onoredi Beethoven. Una predestinazione. Pur-troppo Lodovico morì giovane in un inci-dente aereo in Bulgaria. Molto tempo pri-ma di quella tragedia pensai che per certimestieri si dovesse portare il nome giu-sto, e io non ce l’avevo. Così sono diven-tato giornalista».

A Torino, in via Montebello, a pochimetri dalla Mole Antonelliana, ci sono Gi-gi Marsico, Mario Pogliotti, Enzo Tortora,Furio Colombo, Umberto Eco, GianniVattimo. È una stagione pionieristica eentusiasmante. «Si fa di tutto. Notiziarilocali, Radiosera, Voci dal mondo... Vadoin giro per i servizi su una Fiat Giardinet-ta attrezzata. Il registratore a disco è gran-de come una lavatrice, con due batterieda venticinque chili l’una. Su una salitadella Valle d’Aosta la giardinetta ci piantain asso, siamo in due, ci carichiamo quel-l’armamentario sulla schiena. Restanoda fare un paio di chilometri, è un massa-cro. Nel ‘68 Fabiano Fabiani mi chiama aRoma, alla televisione. Mi dice: “Bastacon gli speaker nei telegiornali, voglio chein video vadano i giornalisti”. Comincioal tg delle 13.30, mi alterno con AndreaBarbato». La gara tra americani e russi perla conquista dello spazio gli cambierà lavita. Va negli Stati Uniti, alla Nasa, rac-conta la preparazione allo sbarco sullaLuna. L’Apollo sette, otto, nove, dieci, un-dici e dodici. «Scopro che dietro a quei treastronauti spediti lassù c’è l’opera straor-dinaria e sconosciuta di seicentomilapersone». È un incantesimo dal qualenon riuscirà più a affrancarsi. Quandorientra in Italia chiede e ottiene di lascia-re il telegiornale. «Invece di dieci notizieal giorno da allora ne racconto una ognidue anni. Il primo documentario è sullagenetica, scienza che stava appena na-scendo».

Diventa finalmente Piero Angela. Perla prima volta. Il suo nome si trasforma inun marchio, alla faccia della predestina-zione. Non è un ingegnere, non è un mu-sicista, non è uno scienziato, è un incre-dibile divulgatore. Ha scritto trentatré li-bri di cui ha venduto oltre tre milioni dicopie, ha ricevuto otto lauree honoriscausa, ha realizzato una sessantina di do-cumentari e centinaia di puntate televisi-ve, ha vinto sette Telegatti e otto volte ilpremio nazionale di regia televisiva.Confessa con sincerità: «Sono diventatoricco e famoso. Ho pagato le tasse e por-tato molti soldi anche nelle casse dellaRai». Un fuoriclasse dell’audience, un vo-lano per gli introiti pubblicitari. Gli dico:un miracolo per uno che si è messo al vo-lante della scienza senza avere neppure lapatente di una laurea in ingegneria. Mi ri-sponde con immutabile cortesia: «Nonsono un truffatore, ogni mio libro è unatesi. Leggo, leggo, leggo. Parlo con gliscienziati, faccio il mio compitino e poi loporto a correggere. Il mio primo libro lofeci rivedere da cinque grandi specialisti.Diventò olio extravergine d’oliva». Insi-

largo, ma non è mai riuscito a correggerecompletamente l’accento torinese.Spulciando gli archivi delle parrocchie èsalito sulla macchina del tempo e si è ar-rampicato fino al Seicento per ritrovare aPobbia, vicino a Ivrea, nel Canavese, col-line e montagne a una cinquantina di chi-lometri da Torino, la culla della sua fami-glia. Il padre era uno psichiatra. Antifa-scista, personaggio importante della Re-sistenza. Salvò decine di ebrei ricoveran-doli nella sua clinica di San Maurizio Ca-navese. Li faceva passare per matti.Israele lo ringraziò con il titolo di Giustodella nazione. Nel 1952, a ventiquattroanni, Piero mette piede nella sede dellaradio di Torino dopo avere partecipato auna selezione per collaboratori. Insegui-va le sue chimere, a tentoni. «Studiavo in-gegneria al Politecnico, ma in realtà l’am-bizione era quella di fare musica. Pia-noforte. Avvertivo il fascino americano,eravamo nel dopoguerra, m’innamoraidel jazz. Nel ‘48 mi ero procurato un vistodi fortuna grazie a un professore del con-servatorio per andare a Nizza ad ascolta-

sto: qualcuno le ha mai detto signor An-gela, lei è bravo ma noioso? «No, non melo ha mai detto nessuno. Mica sono un co-mico. Non ho mai studiato recitazione,sono normale, sono me stesso. Gliel’hodetto, uno di famiglia che cerca di sem-plificare le cose complicate. Il mio lin-guaggio sta dalla parte del pubblico, icontenuti dalla parte degli scienziati».

Nell’Italia della gerontocrazia, PieroAngela sa di essere un dinosauro del po-tere. «Ma siamo anche pieni di ottanten-ni falliti. Il problema è un altro: mentre al-l’estero ciò che conta è il merito, da noi sitende a premiare i demeriti. Quando an-dai in America negli anni Settanta, a rac-contare la crisi petrolifera che costrinseall’austerity l’Occidente, intervistai il ca-po dell’Agenzia nazionale per l’energia.Non aveva ancora trentacinque anni. InItalia non sarebbe mai potuto accadere.Il nostro non è un paese normale. Siamolottizzati, conflittuali, in politica direipersino forsennati. Mi sento un pescefuor d’acqua, vado a votare con grandedifficoltà e non le dirò per chi. Mi piace fa-re come Walter Cronkite, il più grandegiornalista nella storia della televisioneamericana. Di lui non si seppe mai se fos-se di fede democratica o repubblicana. Iomi considero un uomo dello Stato, unservitore pubblico. A volte mi sento ilcontrollore di un treno».

La pausa gianduiotto è terminata. Pie-ro Angela si rimette a fare i compiti, si trat-ta di un documentario sul mistero dellacorazzata “Roma” affondata dagli aereitedeschi al largo della Sardegna il 9 set-tembre 1943. Era la nave più bella dellaMarina fascista. Il suo relitto non è maistato trovato. Poi, in un’altra stanza, c’è ilpianoforte: «Ho voglia di riprenderlo. Houn’unica registrazione che risale al 1952.Vorrei farne un’altra prima di crepare». Eride, questa volta. Finalmente ride, e lasua faccia senza età arrossisce come seavesse commesso uno dei suoi piccolipeccati. Basta che non si sappia in giro.

La mia ambizioneda ragazzoera fare musica,m’innamorai del jazzHo una sola, vecchiaregistrazione del ’52,ora però vorreifarne un’altraprima di crepare...

Sta per compiere ottant’annie si guarda allo specchio della vita“Ho commesso molti errori e pochipeccati”, racconta questo cronistaprestato alla scienza, questo mago

dell’audience tvche è diventato riccoe famoso, che ha scrittotrentatré libri e vendutomilioni di copie“Ma non sono un divo -dice - penso che i mieispettatori mi guardino

come un parente, uno di famigliache cerca di semplificare per loro le cose complicate”

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DARIO CRESTO-DINA

Piero Angela

Repubblica Nazionale