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DOMENICA 5 GIUGNO 2011/Numero 329 D omenica La di Repubblica I disegni segreti di un grande scrittore raccontati da un altro grande scrittore spettacoli Cinquant’anni di twist. Again GIUSEPPE VIDETTI l’incontro Luc Montagnier: “Io, cervello in fuga” LAURA PUTTI cultura Processo a “Romanzo criminale” GIANCARLO DE CATALDO i sapori Estate 2011, l’evoluzione del cocktail LICIA GRANELLO e PIERO OTTONE l’attualità Malcolm X, un libro riapre il caso SPIKE LEE e FEDERICO RAMPINI ANTONIO TABUCCHI « M i spiace, li ho buttati via, l’ho fatto per il suo bene». «Per il mio bene?!», esclamò lo Scrittore. «Master, or if you prefere my dear friend», disse il Grafico nel suo inglese stentato, «lei si stava facendo del male e io l’ho fermata in tempo, li ho buttati via. Cerchi di ragionare, libri graziosi come i suoi messi sotto una copertina segnata da poveri scarabocchi, ci pensi. E poi lasci che glielo dica, una casa editrice raffinata come la nostra, cosmopolita, ce la vede la nostra casa edi- trice che sbatte in copertina le sue elucubrazioni grafiche? I nostri libri, caro Maestro li compra il tout-Manhattan, e il tout-Paris, non sono rivolti al pubblico dell’oltrecortina dove ha vissuto finora, una civiltà manifatturiera di roba fatta in casa, alla buona. Caro Maestro, anzi, dear friend, qui noi lavoriamo al computer, creia- mo con la tecnologia, noi siamo già nel Duemila, anche se appa- rentemente siamo negli anni Settanta, ma questo è un puro detta- glio, noi siamo già nel futuro, Maestro, il tempo da noi corre a un’al- tra velocità, lei deve abituarsi alla velocità, Maestro, il suo tempo per noi è troppo lento, lei è un po’ tartaruga, se così posso dire, se dà retta al sofisma taglia il traguardo prima di noi, ma guardi che è un sofisma, la corsa la vince sempre Achille, e Achille siamo noi. Noi siamo la scienza. Mi chiami pure Scienziato». Il Grafico si strusciò le mani con aria soddisfatta, pigiò un tasto del computer e la macchina cominciò a sputare un foglio nel quale cam- peggiava l’immagine di un uomo con i gomiti appoggiati al tavolo e la testa fra le mani che rivolgeva un sorriso ebete verso il nulla. L’immagine era sovrastata da una scritta violetta che diceva in stampatello: MILAN QUNDERA. (segue nelle pagine successive) Sostiene Kundera FOTO BÉATRICE HATALA Repubblica Nazionale

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DOMENICA 5GIUGNO 2011/Numero 329

DomenicaLa

di Repubblica

I disegni segretidi un grande scrittoreraccontati da un altrogrande scrittore

spettacoli

Cinquant’anni di twist. AgainGIUSEPPE VIDETTI

l’incontro

Luc Montagnier: “Io, cervello in fuga”LAURA PUTTI

cultura

Processo a “Romanzo criminale”GIANCARLO DE CATALDO

i sapori

Estate 2011, l’evoluzione del cocktailLICIA GRANELLO e PIERO OTTONE

l’attualità

Malcolm X, un libro riapre il casoSPIKE LEE e FEDERICO RAMPINI

ANTONIO TABUCCHI

«Mi spiace, li ho buttati via, l’ho fatto per ilsuo bene». «Per il mio bene?!», esclamò lo Scrittore. «Master, or if you prefere my dearfriend», disse il Grafico nel suo inglesestentato, «lei si stava facendo del male e

io l’ho fermata in tempo, li ho buttati via. Cerchi di ragionare, librigraziosi come i suoi messi sotto una copertina segnata da poveriscarabocchi, ci pensi. E poi lasci che glielo dica, una casa editriceraffinata come la nostra, cosmopolita, ce la vede la nostra casa edi-trice che sbatte in copertina le sue elucubrazioni grafiche? I nostrilibri, caro Maestro li compra il tout-Manhattan, e il tout-Paris, nonsono rivolti al pubblico dell’oltrecortina dove ha vissuto finora,una civiltà manifatturiera di roba fatta in casa, alla buona. CaroMaestro, anzi, dear friend, qui noi lavoriamo al computer, creia-

mo con la tecnologia, noi siamo già nel Duemila, anche se appa-rentemente siamo negli anni Settanta, ma questo è un puro detta-glio, noi siamo già nel futuro, Maestro, il tempo da noi corre a un’al-tra velocità, lei deve abituarsi alla velocità, Maestro, il suo tempoper noi è troppo lento, lei è un po’ tartaruga, se così posso dire, sedà retta al sofisma taglia il traguardo prima di noi, ma guardi che èun sofisma, la corsa la vince sempre Achille, e Achille siamo noi.Noi siamo la scienza. Mi chiami pure Scienziato».

Il Grafico si strusciò le mani con aria soddisfatta, pigiò un tasto delcomputer e la macchina cominciò a sputare un foglio nel quale cam-peggiava l’immagine di un uomo con i gomiti appoggiati al tavolo ela testa fra le mani che rivolgeva un sorriso ebete verso il nulla.

L’immagine era sovrastata da una scritta violetta che diceva instampatello: MILAN QUNDERA.

(segue nelle pagine successive)

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32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5GIUGNO 2011

la copertinaSostiene Kundera

Ha cominciato per riempire e colorare le pareti vuotedella casa in cui si era rifugiato, poi è diventata un’arteCosì l’autore de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”ha immaginato le copertine delle sue opereE così un grande scrittore italiano ha inventatola storia che si nasconde dietro quegli schizzi

I giochi grafici ritrovati

Quando alla fine degli anni Settanta Vera e Mi-lan Kundera si trasferiscono a Rennes, vannoad abitare in un appartamento le cui pareti

non restano spoglie a lungo. Per ravvivarle, lo scrit-tore — che in quel periodo pensa di aver danzato conla letteratura il suo «valzer degli addii» — impugnala penna per disegnare. Le immagini a cui dà vita,piene di umorismo e di leggerezza, non hanno altroscopo se non quello di infondergli piacere. Questo èil motivo per il quale non hanno titolo. Sono disegnifatti per puro piacere personale.

Tuttavia, quando negli Stati Uniti L’arte del ro-manzo, scritto in francese, è tradotto da Aaron

Asher, Kundera stesso realizza la copertina del libropubblicato da HarperCollins. Inizia così un singola-re effetto a cascata: quel disegno è ripreso in un pri-mo tempo in Gran Bretagna, su suggerimento diMatthew Evans, da Faber&Faber, e in seguitoEdiçoes Asa, l’editore portoghese, chiede un’imma-gine per illustrare il testo di Jacques e il suo padrone.Ben presto tutte le traduzioni pubblicate da Fa-ber&Faber sono illustrate dallo scrittore stesso, checrea giochi grafici che annunciano e rinviano all’u-morismo dei libri.

Traduzione di Anna Bissanti

uesto cos’è?», chiese lo Scrittore.«È la prova di copertina del suo libro del sor-

riso e dell’amnesia», disse il Grafico con ariasoddisfatta, «modestamente l’ho fatta io».

Lo scrittore guardava il foglio con aria in-terdetta. Taceva.

«Non le piace?», chiese il Grafico.«Non si scrive così», riuscì a obiettare lo

Scrittore, «il titolo è sbagliato. E anche il no-me, soprattutto il nome».

«Il lettering», lo corresse il Grafico, «vuoldire il lettering?»

«Già», disse lo Scrittore, «se vuole chia-marlo così. Senta, lei conosce uno scrittorepraghese morto giovane che scriveva in te-desco? Era uno delle mie parti, ha scritto dicastelli, di processi, di colonie penali e di al-tre cosette del genere».

«Non lo conosco», disse il Grafico, «sorry».«Scusi», chiese lo Scrittore, «lei è inglese,

francese o italiano? Non ho capito».«Tutti e tre», rispose seraficamente il Gra-

fico, «non ho nazionalità, caro Maestro, iosono internazionale come il mio computer.Sono global, senza offesa».

«Allora cerchi alla lettera kappa», disse lo

Scrittore, «kappa come kerosene, kaputt,ketchup, killer, ha capito? Killer». Girò lespalle e se ne andò.

Quando arrivò a casa lo Scrittore si mise apensare. Recuperare i suoi disegni era im-possibile: non ne aveva mantenuto copia.Che idiota, affidare le proprie opere a un gra-fico global che voleva essere chiamato scien-ziato. L’unica cosa era rifare tutto a memo-ria. Andò nel suo studio, prese dei fogli e simise a pensare. La memoria, che cosa ridi-cola. Però la memoria piange, forse piangelacrime ridicole, ma piange, come gli amoriche da giovani ci fecero piangere e che dopoqualche anno ci sembrano ridicoli. E gli ven-ne in mente la poesia di un poeta portoghe-se di cui non ricordava il nome che aveva let-to in francese e che diceva: «Tutte le lettered’amore sono ridicole, non sarebbero lette-re d’amore se non fossero ridicole, anch’ioho scritto ai miei tempi lettere d’amore, co-me le altre, ridicole, le lettere d’amore, se c’èl’amore, devono essere ridicole».

E così disegnò due occhi un po’ strabiciche versano due lacrime su una bocca pienadi amarezza e vi scrisse: Laughable Loves.Prese un altro foglio e disegnò un’altra boc-ca quasi uguale alla prima ma con una piega

più amara, e fra quelle labbra infilò una siga-retta che pendeva stancamente come se nonavesse più voglia di essere fumata. E sopra labocca, a tutta pagina, scrisse The Joke, con laJ di Joke che pareva un lungo naso. Unoscherzo. Perché tutto era uno scherzo: la suavita era uno scherzo, la vita in generale erauno scherzo, uno scherzo atroce che qual-che dio demente ci giocava per ridere sadi-camente di noi. E il gioco di quel dio delle trecarte consisteva nel farci scommettere sullacarta sbagliata sulla quale come degli idiotinoi puntavamo l’indice: è questa, la vita èquesta! E invece la vita era un’altra. Ma dovestava? La vera vita, come diceva quel poetafrancese finito in Abissinia a vendere fucili,doveva essere da qualche altra parte, in qual-che altrove, ma dove? Che rabbia. Gli vennein mente il toro che aveva disegnato la setti-mana prima e che il grafico aveva buttato via.

Però non era un toro, era un bufalo. Anzi,anche se era un maschio, gli piaceva ricor-darlo come una bufala, di quelle che nell’Ita-lia meridionale, aveva sentito dire, produce-vano le mozzarelle, formaggio difficilissimoda fare, perché a quanto pare lo sanno faresolo i napoletani e i salernitani che vanno lì,alle mammelle della bufala, e cominciano a

lavorarle come se facessero giochi di presti-gio: strizzano, palpano, mungono, in un gio-co di mani antichissimo e indecifrabile, e dalcapezzolo della mammella della bufalascende miracolosamente un latte cagliatocon una forma ovoidale che si chiama moz-zarella. E se la bufala è speciale, speciale il bu-falaro, e speciale il clima, sulla mozzarella c’èuna testolina un po’ più piccola, la pelle delprodotto è giallina come se fosse affumicatae la bufala con un po’ di sforzo caccia fuoriuna scamorza pronta da fare alla griglia. Labufala, cioè il bufalo che disegnò, era rin-chiuso in una gabbia, ed era davvero imbu-falito. Contro chi? Ma contro tutto e tutti,contro i sistemi politici che stanno di là dallesbarre e quelli che stanno di qua, perché so-stanzialmente sono uguali e complementa-ri, tu credi di essere evaso da una prigione einvece ti trovi in un’altra prigione, enormequanto vuoi, ma delimitata da sbarre dellequali ti accorgi solo se ti avvicini.

E così pensando si mise a disegnare dinuovo tutto quello che il sedicente scienzia-to aveva buttato via. Ridisegnò perfino la suaIdentity, perché non corrispondeva a quelloche loro pensavano. E pensò anche che quelpaese non gli si confaceva, e che voleva an-

ANTONIO TABUCCHI

MAXIME ROVERE

INEDITII disegni di queste pagine sono le copertine inediteche Milan Kundera disegnò per alcuni suoi libri

Lo scherzo di Milan Kdisegnatore di libri

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

(segue dalla copertina)

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 5GIUGNO 2011

due ganasce bellicose, un po’ picassiane,che lo stringevano fra l’antico e il moderno.Perché l’antico e il moderno non dipendo-no dal calendario, dipendono dal genio de-gli scrittori. Era più moderno Rabelais conquei due divoratori di Gargantua e Panta-gruele o Victor Hugo e i suoi romanzi d’ap-pendice? Era più moderno Cervantes o quelnoioso di Trollope e la sua regina Vittoria?

Poi aprì il computer e scrisse una mail al-lo Scienziato. «Gentile Scienziato, ieri, 7gennaio 1977, sono andato al Collège deFrance a sentire la lezione inaugurale di ungiovane filosofo che si chiama RolandBarthes. Ha iniziato la sua lezione con unafrase che le invio perché può essere utile alei e alla sua casa editrice. Cito alla lettera:“La letteratura lavora negli interstizi dellascienza: è sempre in ritardo o in anticipo sudi essa, simile alla pietra di Bologna che ir-radia durante la notte ciò che ha immagaz-zinato durante il giorno, e grazie a questa lu-ce indiretta illumina il giorno a venire. Lascienza è rozza, la vita è sottile, ed è per cor-reggere questa distanza che la letteratura ciinteressa”.

Cordialmente. MILAN QUNDERA».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

INTELLETTUALEMilan Kundera è natonel 1929 a BrnoScrittore e attivista,si rifugiò in Franciadopo la Primaveradi PragaLe sue opere sonopubblicate da Adelphi

PROVEIn copertinae qui sopra,due schizzidi Kunderasu fogli sparsiSonodello stessoperiododei disegni

darsene. Ma dove? Concluse che non c’eranessun posto in cui andare se non nella pro-pria scrittura. Quella era la sua vera patria:abitare la sua scrittura come le chioccioleabitano il proprio guscio. E quando arrivò aquesta conclusione sentì una grande legge-rezza. Disegnò un cagnolino acciambellatosu se stesso e sopra vi scrisse: The Unbeara-ble Lightness of Being. Perché quella storia luil’aveva vissuta, una volta. Ma come gli dice-va da piccolo una tata tedesca, «Einmal istKeinmal», una volta è nessuna volta. E subi-to pensò a quel filosofo, tedesco anche lui,che non potevi nominare perché se sentonoil suo nome ti dicono che sei di destra, comese essere pessimisti fosse di destra. In quan-to alla vita, quel tipo aveva proprio fatto cen-tro: «La vita: un romanzo letto una volta solatanto tempo fa».

Il romanzo. Ci sarebbe voluto un bel sag-gio sul romanzo dedicato a tutti gli scrittoriche l’avevano rinnovato, in modo da farci ri-leggere la vita che altrimenti si dimentica.Sentì l’esigenza di scrivere un saggio dedi-cato al romanzo che ci protegge contro l’o-blio, e nell’attesa di scriverlo poteva intantodisegnare la copertina. Il titolo sarebbe sta-to: L’arte del romanzo. Il titolo lo piazzò fra

La memoria piange,forse piange lacrimeridicole, ma piange,come gli amoriche da giovanici fecero piangeree che dopoqualche annoci sembrano ridicoli

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LE TAPPE

NEW YORK

L’America ha dovutoaspettare un presidentenero che sa parlare all’I-slam, cresciuto da bam-

bino all’ombra dei minareti di Jakarta,poi star di Harvard, depurato di ogni “ac-cento nero” linguistico e ideologico, lostatista che osa pensare una società pa-cificata e post-razziale. Solo nell’èra diBarack Obama diventa possibile riaprireun grande tabù, una pagina di storia la-cerante. È la vicenda di Malcolm X. Oggiavrebbe 86 anni e morì che ne aveva 39,centrato dagli spari mentre arringava lafolla nella Audubon Ballroom di Harlem.Quel 21 febbraio del 1965, nel giorno diuna morte violenta che lui stesso avevaprevista e annunciata, Malcolm X siportò nella tomba tanti segreti: a comin-ciare dall’identità dei suoi assassini e deimandanti. Per più di quarant’anni ungrande intellettuale nero, lo storicoManning Marable, ha lavorato per veni-re a capo del mistero. Marable, fondato-re del dipartimento di studi afroameri-cani alla Columbia University, è morto

due mesi fa. Uscita postuma, la sua ope-ra monumentale Malcolm X: a Life ofReinvention, aiuta a capire i perché ditante reticenze e omertà. Un altro stori-co, Stephen Howe, ricorda cosa fece diMalcolm X l’eroe di una generazione:«Straordinario oratore, divenne loschermo sul quale milioni di neri proiet-tarono le loro speranze. Aveva molto de-gli improvvisatori di musica jazz, anti-cipò i futuri rapper. Incarnava il mito delfuorilegge vendicatore, in una società dineri senza diritti». Artista della reinven-zione di se stesso, Marable lo descrivecome una costruzione di «mascheremultiple»: da zotico di provincia a delin-quente, da uomo di spettacolo a intellet-tuale autodidatta, esponente radicaledel nazionalismo nero, predicatore reli-gioso, musulmano ortodosso. Acerrimorivale di Martin Luther King, poi sul pun-to di riconciliarsi con lui: firmando così lapropria condanna a morte. Dopo l’as-sassinio di Malcolm X tre uomini vengo-no arrestati, processati, condannati ve-locemente. Due saranno messi in libertànegli anni Ottanta e mai hanno smessodi proclamarsi innocenti. Solo il terzo,Talmadge Hayer, rilasciato dal carcerel’anno scorso, è reo confesso. C’era solo

lui quel giorno a sparare? La minuziosaindagine di Marable ricostruisce una ve-rità diversa: fu un commando di cinquesicari a firmare l’esecuzione. Chi sparò ilprimo colpo, mortale, non è mai stato di-sturbato dalla giustizia. Ha 72 anni, oggivive a Newark sotto il nome di WilliamBradley. È un ex campione di basket, ce-lebrato nel Newark Athletic Wall of Fa-me. La pista dei mandanti si biforca indue direzioni, verso forze tra loro oppo-ste ma ugualmente interessate a far fuo-ri Malcolm X e poi a seppellirlo nell’oblìo.Da una parte c’è l’Fbi che intercettava si-stematicamente le sue telefonate,ignorò le minacce di morte che si molti-plicavano, fece di tutto perché l’attenta-to procedesse indisturbato. Dall’altra c’èil radicalismo nero, a cominciare dallaNation of Islam e un leader come LouisFarrakhan che a Marable ha confessato:«Potrebbero trascinarmi davanti a ungran giurì anche oggi, non esiste prescri-zione per gli omicidi». Le prove accumu-late dall’autore appena scomparso sonoschiaccianti, Michael Eric Dyson dellaGeorgetown University ne è convinto:«Questo libro impone di riaprire l’inda-gine». Peter Goldman, reporter che in-tervistò più volte Malcolm X, è altrettan-

to convinto che non succederà: «Faregiustizia oggi, risalendo lungo la catenadi comando? Colpire chi diede l’ordinedi ucciderlo? Nessuno lo vuole».

L’ultimo revival d’interesse risale allafine degli anni Novanta: il fascino di Mal-colm X conquista il regista Spike Lee chemette in scena la sua vita affinando laparte a Denzel Washington. Nel ’99 le po-ste gli dedicano perfino un francobollo.Ma poi arriva l’11 settembre: nell’epocadella «guerra globale al terrorismo» pro-clamata da George Bush, guai a ricorda-re che un’Islam radicale e violento hamesso le radici da tempo nella societàamericana, tra i neri, non come fenome-no d’importazione dal mondo arabo.

All’Islam il giovane Malcolm Little diOmaha, Nebraska, arriva dopo numero-se reincarnazioni, scandite da cambi d’i-dentità: Jack Carlton, Detroit Red (quan-do si tinge i capelli), Satan, El-Hajj MalikEl-Shabazz. Da ultimo quella X, simbolodi ribellione contro dei cognomi che era-no stati affibbiati agli schiavi dai padronibianchi. Figlio di un pastore battista for-se lui stesso assassinato (da bianchi),Malcolm cresce in una famiglia così po-vera che spesso a cena la madre può cuo-cere solo erbacce di strada. Diventa

spacciatore, poi capo di gang di ladri, aDetroit e a Harlem. In carcere per rapinadal 1946 al 1952, alla Norfolk Prison Co-lony del Massachusetts. Qui si converteall’Islam, abbandona il fumo e il giocod’azzardo, studia la storia degli afroame-ricani e insieme Erodoto, Kant, Nietz-sche. Lì avviene il passaggio fra due ruoliegualmente popolari nella mitologia deineri: il bandito spregiudicato vendicato-re degli oppressi, e il predicatore chia-mato a salvare le loro anime. La reinven-zione della propria immagine continuafino alla celebre Autbiografia di MalcolmX: affidata a un ghost-writer ultramode-rato, il giornalista nero di fede repubbli-cana Alex Haley che diventerà poi famo-so con Radici. In quell’autobiografia,fonte del film di Spike Lee, viene esage-rato il curriculum criminale di MalcolmX, per rendere ancora più spettacolare lasua redenzione religiosa.

All’apice della sua fama Malcolm di-venta il portavoce della Nation of Islam econtribuisce ad allargarne i ranghi fino a500.000 iscritti. È il periodo della sua ra-dicalizzazione estrema. Quando in unincidente aereo muoiono 62 ricchi bian-chi di Atlanta per lui è «la prova che Dioesiste». Reagisce all’assassinio di John

IL MAESTROMalcolm X con Elijah Muhammad,leader della Nation of Islam, nel 1961

IL VIAGGIO ALLA MECCANel 1964 è in viaggio per il MedioOriente e l’Africa: nella foto, in Egitto

LA POLITICANel 1965 a una assembleadel Congresso di Albany, New York

CON LUTHER KINGNegli ultimi anni si avvicina a MartinLuther King, fino ad allora suo rivale

XMalcolmLa vera

storia FEDERICO RAMPINI

IN PRIGIONEA destra, Malcolm X parlaagli studenti dell’universitàdi Hartford, Connecticut,nel ’63. A sinistra, dopol’arresto a Boston nel ’44

Aveva trentanove anni quando fu ucciso mentreteneva un comizio nella Audubon Ballroomdi Harlem. Chi sparò e chi diede l’ordine?Un libro riaccende i riflettori sulla vitae sulla morte del leader più amato e più temutoche l’America black abbia mai avuto

IL LIBROA Life

of Reinventation,

di ManningMarable, editoda Viking,è l’ultimabiografia di Malcolm X

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5GIUGNO 2011

l’attualità

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 5GIUGNO 2011

Kennedy dicendo che se l’è meritato. Re-cluta nelle carceri, creando una commi-stione totale fra militanza politica e cri-minalità. Invoca la lotta armata, difendeil terrorismo contro la polizia, diventa ilprecursore teorico delle Black Panther.Immagina una «nazione nera» che fa se-cessione dentro l’America, al punto daincontrarsi con esponenti del Ku KluxKlan per progettare assieme «la separa-zione tra le due razze». The Nation ofIslam, spiega Howe, con Malcolm X di-venta «una bizzarra mescolanza di teo-logia, fantascienza, fanatismo razziale.Teorizza la malvagità intrinseca dellarazza bianca e in particolare degli ebrei,l’inferiorità delle donne». Il divorzio ma-tura all’improvviso. Per ragioni anchepersonali: il leader spirituale della Na-tion of Islam, Elijah Muhammad, metteincinta la donna con cui Malcolm avevaavuto una lunga relazione. E poi c’è ilviaggio alla Mecca, l’incontro con unIslam moderato e multirazziale. Un’al-tra conversione: alla fede sunnita. È il“tradimento” che arma i suoi assassini.Proprio quando Malcolm comincia a re-cuperare il dialogo con Martin LutherKing, fino allora dipinto come uno «zioTom», servo sciocco dei bianchi. «Ci so-

no cose — aveva detto Malcolm in tonosprezzante contro King — più importan-ti del diritto a sedersi insieme coi bianchiin un ristorante».

Per il poeta nero Amiri Baraka nonaveva torto, Malcolm X, e la sua eredità èmeno negativa di quanto sembri: «Sensod’identità, indipendenza, con questi va-lori l’ala dura del movimento di libera-zione dei neri ebbe un impatto enormenella società americana, senza di lui nonci sarebbe Obama». Anche su questo ineri continuano a dividersi. Tra chi vedein Malcolm il paladino di un orgoglio dirazza, e chi fa risalire a lui il vittimismopermanente: l’etichetta del “nero arrab-biato” che Obama è riuscito a togliersicon una fatica enorme, sopportandostoicamente le insulse accuse sulla suanazionalità keniota o la sua religione isla-mica. E quando nel luglio 2009 questopresidente ha preso le difese di un pro-fessore nero di Harvard, Henry Louis Ga-tes, vittima di un sopruso da parte dellapolizia, l’America bianca benpensante econservatrice è saltata addosso a Oba-ma. Sperando che reagisse coi nervi a fiordi pelle. Sognando di ritrovare come av-versario un Malcolm X: un Satana.

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Ecco un uomoche ha ancora molto da dirci

SPIKE LEE

Avevo quattordici anni quando ho lettol’Autobiografia di Malcolm Xscritta da Ha-ley Alex, frequentavo le superiori, ad Atlan-

ta, in Georgia. Quel libro mi cambiò la vita, nonavevo mai letto niente del genere prima, cambiòradicalmente il modo in cui osservavo il mondo, efino ad oggi resta il libro più importante che io ab-bia letto.

Ciò che mi toccò di più furono l’onestà e la for-za di Malcolm X. Malcolm dicevaquello che tutti noi avevamo paura didire. Sono rimasto attratto dalla suaintera vita, dall’evoluzione del suopersonaggio.

Anni dopo, quando io stesso co-minciai a scriverne per la sceneggia-tura del mio film, feci un mare di ri-cerche su Malcolm X: documenti, re-gistrazioni audio, video, parlai con lasua famiglia, con i suoi collaboratori,con sua sorella, e dai loro racconti im-parai tantissimo sul calore e sullo spi-rito di quell’uomo. E credo che que-sta intuizione sia stata un elementomolto importante per il film, perchéMalcolm era certamente un gigantema noi volevamo anche far vederel’essere umano, il padre, il marito. Era una perso-na dotata di un grande senso dell’umorismo, ri-deva in modo forte e quasi sguaiato, ed era ungrande amante della vita. Denzel (Washington,ndr.) ha saputo cogliere perfettamente questiaspetti del carattere di Malcolm, la sua recitazio-

ne è stata fenomenale. Non avevo dubbi sul fattoche avrebbe potuto farcela, lo avevo visto recitarela stessa parte in una commedia dell’off Broadwaydieci anni prima. E comunque gli ci volle un annopieno per prepararsi al ruolo, si mise a studiare ilCorano, si sottopose a una dieta rigidissima per ri-pulirsi, e così diventò Malcolm. Per me è stata lasua migliore interpretazione, Oscar o non Oscar.Nel film ha interpretato quattro Malcolm diversi,

perché il Malcolm che alla fine siconverte all’Islam non ha nulla a chevedere con Detroit Red.

I miei critici, quelli che mi diceva-no che avrei distrutto l’eredità diMalcolm, X, che mi stavo concen-trando troppo sui giorni in cui era ungangster, alla fine si sono dovuti ri-credere. Fino all’uscita del film l’im-magine di Malcolm X era stataun’immagine angusta, limitata aquello che la gente aveva recepito at-traverso i media bianchi. Il mioobiettivo, con il film, è stato proprioquello di cambiare quell’immaginestereotipata, di far sì che la genteuscisse dalle sale sentendosi ispirata,motivata e spiritualmente sollevata.

Non volevo che il film fosse solo un documentostorico, un pezzo da museo. Volevo far vedere cheMalcolm ha ancora molto da dirci, e che le cose dicui parlava allora sono ancora con noi oggi.

(testo raccolto da Silvia Bizio)I SOSPETTIVengono arrestati tre uomini:uno è Norman 3X Butler (nella foto)

© RIPRODUZIONE RISERVATAL’OMICIDIOIl 21 febbraio 1965 viene uccisoa Harlem, durante un comizio

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La droga, l’amore,la sconfittaI personaggi ispiratidalla Bandadella Maglianasi ribellanoal loro autoreE pretendonoun riscattoche non potrannomai ottenere

CULTURA*

RomanzoProcesso

a

criminale

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5GIUGNO 2011

L’EVENTO

Pubblichiamo in queste pagine uno stralcio di una delle versionidella lettura che Giancarlo De Cataldo terràdopodomanialle 21 alla Basilica di Massenzio a Letterature,il Festivalinternazionale di Roma,durante una seratacon dj set

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 5GIUGNO 2011

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Il Libanese, il Freddo e la rivoluzionestato rabbia e fantasia. E proprio per questo hai sbajato, quannom’hai raccontato come ’na specie de pupazzo de... come se chia-ma quello che dice che è il capo dei spioni?

AUTORE: Il Grande Vecchio...LIBANO: Ecco, bravo, il Grande Vecchio. Roba politica. Ma io

colla politica c’ho sempre giocato, che te credi... FREDDO: (scettico) E alla fine t’hanno fregato... anzi, c’hanno

fregato tutti quanti...LIBANO:Ma nun è stata la politica, Freddo! È stata la strada! È che

se semo messi contro la nostra legge. O sai, no, Frè?FREDDO: Non c’è grande criminale che non sogni di diventare

un rispettabile uomo d’affari. Per riuscirci, deve allontanarsi dallastrada. Ma quando ti allontani dalla strada, le volti le spalle. E allo-ra arriva dalla Strada qualcuno più forte, o solo più disperato di te,e ti spara alle spalle.

LIBANO: Giusto, no?FREDDO: E per questo siamo dei perdenti, Libano. Non la do-

vevamo manco giocare, ’sta partita.LIBANO: Oooh, parla per te! Io...

AUTORE: (raccoglie i fogli) Interessante dibattito. Ma a questopunto io che ci sto a fare qua? Fate tutto voi... arrivederci...

FREDDO/LIBANO:Oh, che fai? E ’ndo vai mo’? Ma che, te sei of-feso? Ammazza, quant’è suscettibile, il Dottore!

AUTORE: M’avete appena detto che ho raccontato una storiasbagliata, che non ho capito niente...

LIBANO: Tu non hai capito niente, ma io voglio sapè il seguitocolla pischella, là, come se chiama...

AUTORE: Scrivitelo da te il seguito, visto che ci tieni tanto!LIBANO:(estrae la pistola) Forse non sono stato chiaro...AUTORE: In effetti, il seguito ci sarebbe...FREDDO: Bravo. Così si fa. Avanti, su...

(Luce sull’autore)AUTORE:Appena finito di fare l’amore, si fumarono una canna.

Libano sognava ad occhi aperti. Una casa così, fatta su misura pergli dei. Una donna bella e disponibile, sempre bella e sempre di-sponibile. Un senso di morbido, di calore. Un... una vita, ecco, nongli veniva un’altra parola, una vita.

Aveva seguito Giada a un paio di riunioni del collettivo. Una noiamortale. Giada lo aveva definito «inconsapevolmente rivoluziona-rio». Vagheggiava un’unione fra rivoluzionari e banditi, fare squa-dra fra il Palazzo e la Strada, diceva, questa è la nostra unica spe-ranza. Inconsapevolmente rivoluzionario. La questione coinvol-geva la sua natura profonda, il suo stesso modo di stare al mondo.Libano sentiva di appartenere a un’altra storia. Fece un ultimo ti-ro, spense la canna. Giada s’era riaddormentata. Era una ragnate-la che l’avvolgeva. Una ragnatela di passioni, forse di perdizione.

Prese la decisione. Inconsapevolmente rivoluzionario: un’altravolta, grazie.

(Luce sugli attori)FREDDO:Insomma, inconsapevolmente rivoluzionari sarebbe

a dire che non sapevamo di essere una specie di guerriglieri... dicombattere una specie di guerra contro il mondo dei ricchi...

AUTORE: Sì, voi sentivate dentro di voi il peso di un’esclusione,e siete andati all’assalto del Palazzo d’Inverno del potere, e mentrelo conducevate, questo assalto, il peso dell’esclusione vi dava forza,forza e cattiveria...

LIBANO: Per me, eravamo soltanto fijji de ’na mignotta... e pen-savamo all’affari nostri...

AUTORE: Infatti, ho detto inconsapevolmente...FREDDO:E quindi secondo te se fossimo nati e cresciuti in un

ambiente migliore... in un mondo migliore... saremmo stati di-versi...

LIBANO: Parla per te!FREDDO:Lascialo dire! Po’ esse, se ci penso, po’ esse... però allo-

ra non è solo colpa nostra...AUTORE: No, certo. Quelli come noi, i borghesi, i benpensanti,

quelli normali, a un certo punto vi hanno abbandonato al vostro de-stino. Abbiamo smesso di preoccuparci dell’esclusione, l’abbiamomessa nel conto, vi abbiamo concesso tutto quello che si potevaconcedere senza sporcarci le mani, chessò, tanti televisori, il cellu-lare, la cocaina, lo sballo, i vestiti firmati, il gioco d’azzardo, e vi ab-biamo lasciato a pascolare nel vostro ghetto, così che la vostra in-consapevole carica rivoluzionaria diventasse consapevole sfrutta-mento delle nostre debolezze...

LIBANO: E noi ve semo venuti a cercà a casa vostra!FREDDO:Secondo te, allora, fra noi c’è stata una specie di scam-

bio... AUTORE:Precisamente. Ma è stato uno scambio nel quale ci ab-

biamo perso tutti. Noi adesso ci ritroviamo assediati dalla vostracultura coatta, e voi siete diventati in tutto e per tutto simili a noi.Soltanto ancora un po’ più rozzi...

LIBANO: Ahò, bada a come parli, eh!AUTORE:Soltanto un po’ più rozzi, ma solo per adesso. Comun-

que, siete diventati in tutto e per tutto simili a quelli che sguazzanonell’esclusione. Anzi, vi piace da matti escludere.

LIBANO:Me pare corretto. È quello che abbiamo sempre cerca-to: io so’ mejo dell’artri, cose così, no, Fre’?

FREDDO: Però c’è una cosa che me rode...AUTORE: Dilla.FREDDO:Noi che siamo finiti nella tua storia abbiamo fatto tut-

ti una brutta fine. Chi morto, chi in galera, chi infame. Cioè, scritto-re, tu hai regalato ai tuoi lettori un finale edificante. Allora, secondome, sei stato un po’ disonesto...

AUTORE: Addirittura! FREDDO:Eh sì, disonesto! Quanti ne conosci, tu, oggi, che paga-

no di persona? Quanti che alla fine ammettono le loro colpe? Quan-ti? Tu te la senti di dire «il crimine non paga»? Sii sincero, su, dacce’sta soddisfazione... dalla a noi, e dalla ai pischelli che girano collemagliette colla faccia mia e quella del Libano...

AUTORE: (senza rispondere) Libano e il Freddo fecero tutto conmolta calma. Giada era fuori Roma per l’intero fine settimana. Ave-va accettato l’invito di uno dei capetti del collettivo, uno che porta-va sempre maglioni bianchi, anche d’estate, e aveva un casolare difamiglia a Cortona. «Grazie, non vengo, non è il mio ambiente», s’e-ra schermito il Libano. «Non è che stai pensando di lasciarmi, no?».«Vieni qua, scema, damme un bacio». Non si sarebbero più rivisti.Non dopo quello che le stava facendo. «Io ho finito, Libano», disseil Freddo, mostrando l’ultima preda: una piccola trousse piena dianelli, perle e braccialetti. Libano annuì. Sì, andiamo, non c’è piùniente da fare, qua dentro. «E tu sei sicuro che non ce denuncia, l’a-michetta tua?» «No. Non lo farà, Freddo». Prima di chiudersi la por-ta alle spalle, Libano posò il disco sul comodino, quello accanto alletto dove aveva fatto l’amore con Giada. Anzi, dove s’era scopatoGiada. Magari si sarebbe consolata dello sgobbo proprio ascoltan-do Te la ricordi Lella. E al Freddo, che gli chiedeva «perché proprioquella canzone?» rispose, con un’alzata di spalle, «è una lunga sto-ria. Magari te la racconto un altro giorno». E poi aggiunse, ma conuna nota amara che sorprese lui per primo, «quanto dici che arza-mo co’ ’sto Bukhara?» «Mah», sospirò il Freddo, «se l’Agnolotto divia der Pellegrino è in buona, minimo minimo un testone».

(Luce sull’autore, i ragazzi sono al buio)

AUTORE: «Te la ricordi Lella quella ricca/la moje deProietti er cravattaro...». In quel locale alla Suburra,il Libanese c’era capitato per una storia di fumo. Untizio di piazza Pantero Pantera, alla Garbatella, glidoveva qualcosa, poca cosa, ma non pagava. Il Li-banese era già pronto col fero alla mano quando

quello se n’era uscito colla proposta. «Se tratta de questo, Libano.M’avanza ‘na boccetta di olio di afgano nero, roba da sballo de lus-so, ce spizzi dentro la punta de ’na sigaretta e, daje, partenza, mejoche ar granprì de Montecarlo. Lo vendi alla tipa e per te è tutto frut-to...». Libano ci aveva pensato un po’ su, prima di accettare. Certo,c’era la sua quota di rischio. Ma quando mai il Libanese s’era spa-ventato del rischio? A deciderlo per il sì era stata, più che altro, la cu-riosità della tipa. «’Na matta, scoppiata cor botto, Libano», gli ave-va garantito il garbatellaro, «fija de ricchi, e dice che li odia. Ma i sol-di di papà non gli fanno mica schifo». Così, adesso se ne stava da-vanti alla terza birra, a risentire per la terza volta la canzone di Lella,quella ricca. Calcolò che con qualche amico di quelli buoni, tipo, perdire, Freddo, Ricotta e Bufalo, ripulire il posticino sarebbe stato ungioco da ragazzi.

«Ciao. Tu devi essere il Libanese. Io sono Giada». La ragazza eraproprio come gliel’aveva descritta Guido della Garbatella: un in-crocio fra un’attrice americana e una dea. I ricci così neri che man-davano lampi da temporale notturno, quando il cielo si spacca ametà fra blu scuro e ghiaccio che acceca, occhi come certi animaliche inquadri coi fari la notte, quando hai tirato tre piste e c’hai i po-teri dei supereroi, un profumo come quando quella notte a quindi-ci anni, coll’amico suo Dandi, s’era fatto una bottega di cosmetici avia Appia Nuova. «Scusa il ritardo», stava dicendo intanto lei, men-tre lui si assestava accanto, e manovrava senza dare nell’occhio perafferrare uno scorcio del décolleté che affiorava dalla blusettina co-lor lillà, «ma c’era il collettivo. Tu frequenti qualche collettivo?».«Dalle mie parti si chiama batteria», rispose, e le offrì una sigaretta.Lei accettò con un lieve sorriso. «Batteria? Sei dell’ala militare?»s’informò, abbassando di un tono la voce. «All’ala non ci ho mai gio-cato», ribatté lui. Lei si fece di colpo seria. «So chi sei. Guido mi haparlato di te». «Ah, sì? E che t’ha raccontato?» «Che fate lo stesso la-voro». «Qualcosa in contrario?». «Per niente. Stiamo dalla stessaparte». Sì, considerò Libano, sì, ha ragione il garbatellaro. Questa èproprio matta. Dalla stessa parte! Matta, bella. Indifesa. Non è aria,Libano. E fu per troncare sul nascere il curioso senso di tenerezzache sentiva montargli dentro che decise di tagliare corto. «Stammia sentire. Non ho tempo. Hai portato i soldi?». «Ma che fretta! Non tiva di fare due chiacchiere?». «Te l’ho detto, non ho tempo».

LIBANO: Ma che cazzo sta dicendo!(Luce su Libano e Freddo)FREDDO: Calmo, Libano, vediamo come va a finire!LIBANO: Ma che vediamo e vediamo! (Fa il verso all’autore) Cu-

rioso senso di tenerezza... ma quando mai!FREDDO:E dài, mica è così strano! Tu hai capito che lei è diversa

da te, è fragile, sta in un altro mondo, ma cerca un... un contatto, uncanale di comunicazione...

LIBANO: E io ce l’ho bello pronto il canale di comunicazione!FREDDO: No, tu provi tenerezza... non mi dire che non ti è mai

successo!LIBANO:Ce mancherebbe! Ma non co’ ‘na matta che va cercan-

do solo ’na cosa: fasse ’na bella canna e ’na bella scopata!FREDDO: È proprio questo il punto, Libano! Sei tu che non hai

voglia di farti una canna e una scopata!LIBANO: ah, no? E di che cosa avrei voglia, secondo te e (indica

l’autore) ’sto soggetto?FREDDO: Di innamorarti.LIBANO:(ride)E io che ho detto? ’Na bella scopata non è amore?FREDDO: No che non lo è. È un’altra cosa, Libano. È amore. AUTORE:Quando vi è comodo, se avete voglia di sentire il segui-

to, io andrei avanti...LIBANO: (all’autore) A coso, mo’ m’hai stufato! Finché me rac-

conti che co’ due o tre compagni se po’ fa’ un colpo, te seguo... Matu a noi ci conosci e non ci conosci, e quando non ci conosci, rac-conti fregnacce...

AUTORE: Per esempio?LIBANO: Per esempio... tu c’hai ragione quanno dici che io so’

GIANCARLO DE CATALDO

LA BATTERIAEnzo Mastropietro (Enzetto), Fulvio Lucioli (Il Sorcio), Bruno Nieddu, Danilo Abbruciati (Er Camaleonte), Giovanni Girlando (Gianni il Roscio), Marcello Colafigli (Marcellone), Antonio Mancini (Accattone),

Renzo Danesi, Giorgio Paradisi (Er Capece), Libero Mancone, Enrico De Pedis (Renatino). In basso, Franco Giuseppucci detto Fornaretto e poi Er Negro (il Libanese nel romanzo)e Maurizio Abbatino detto Crispino (il Freddo)

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Faceva un caldo infernale a Times Square quel 16 giugno 1961Fu il giorno in cui un diciannovenne paffuto e imbrillantinatosfornò il 45 giri che ancora oggi gli consente di vivere alla grande

In pochi mesi prima l’America e poi l’Europa furono preda di una febbreche detronizzò lo swing e contagiò per la prima volta e una volta per tutte ricchi e poveri

SPETTACOLI

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Audrey Hepburn era la più brava.Magra come un giunco si avvitava esvitava intorno al suo compagnocon una grazia stupefacente. Tru-man Capote, per paura di rivelare ilsuo lato femminile, era più timido,

cercava di imitarla ma non si abbandonava mai deltutto al ritmo. Marilyn Monroe si scatenava, i suoipiedi, coi calcagni inchiodati a turno sul pavimen-to, scandivano il tempo come frenetici metronomi.Judy Garland, ebbra come ogni sera, scendeva inpista con la sua inconfondibile risata, generosa eisterica, e come gli altri lasciava ondeggiare le spal-le e roteare il bacino. Ci provò anche Norman Mai-ler, e non era poi così impacciato. Molto meno diFrank Sinatra, che se non fosse stato trascinato dal-la bella di turno in quel localaccio pieno di gay e disciampiste non ci avrebbe mai messo piede. La“febbre” era tale che una sera scese anche GretaGarbo, che della vita notturna della Grande Melaera più terrorizzata che attratta. I tacchi delle si-gnore, in quel giugno rovente, s’incollavano sull’a-

le a dire, arrivi a Times Square e giri l’angolo.Mai prima d’allora un ballo aveva contagiato il

mondo intero, mai prima d’allora una parola —twist — aveva inflazionato l’universo della popmusic entrando prepotentemente in milioni dititoli (anche in Italia: dal St. Tropez twist di Pep-pino Di Capri fino al Go-kart twist di Gianni Mo-randi e Amore twist di Rita Pavone, 45 giri doc de-gli anni 1961-1962). E come tutti i nuovi balli, spe-cie se imparentati con i ritmi e le tradizioni afri-cane, afroamericane o afrocubane, fece gridareallo scandalo, perché il movimento pelvico delTwist era ben più esplicito di quello di Elvis, so-prattutto quando lei si piegava su di lui e lui su dilei con i corpi che quasi si sfioravano all’altezzadel ventre in quelle pericolose scivolate in avantie all’indietro.

Let’s Twist Again diventò la ban-diera del nuovo ballo — come inepoche diverse Swing SwingSwing o Stayin’Alive — l’in-no che avrebbe garantito aErnest Evans (in arteChubby Checker) un vitali-

zio cospicuo in royalty e revival show. «La mia vi-ta e la mia carriera sono inseparabili dal twist»,ammette l’artista, che ha sessantanove anni e vi-ve nella villa di Paoli, in Pennsylvania, che acqui-stò nel 1965 con i milioni incassati nei cinque an-ni in cui piazzò singoli in classifica per almenonove mesi all’anno (in un’epoca in cui i 45 si smer-ciavano come noccioline). E ancora ricorda l’in-fanzia trascorsa a Spring Gulley, South Carolina,in una casa che era poco più di una capanna, sper-duta in mezzo a piantagioni di tabacco, cotone efagioli, «senza acqua corrente e lontana da scuo-la sette chilometri che io percorrevo a piedi duevolte al giorno». Cantò The Twist in tv nell’agostodel 1960, nella leggendaria trasmissione Ameri-can Bandstand di Dick Clarck. «Fino a quel mo-mento il ballo nazionale era lo swing, da quelgiorno in poi tutta l’America ballava il twist», ri-corda.

Per cinque anni, tra Let’s Twist Againdi ChubbyChecker fino a Twist and Shout dei Beatles (1964,remake di un successo degli Isley Brothers di dueanni prima), una quantità di artisti s’imparenta-rono con quel ritmo: da Sam Cooke (Twistin’theNight Away) a Joey Dee and the Starliters (Pep-permint Twist), passando per i Young Rascals, i

sfalto liquefatto dalla calura. Times Square bruli-cava di papponi, gigolo e nottambuli d’alto bordoin cerca del locale alla moda. Dai bar, si udivano ijukebox strillare la musica del momento, una sor-ta di rock’n’roll scanzonato che nel giro di pochimesi era diventato il ballo più in voga, il Twist.

L’hit del momento, pubblicato il 19 giugno del1961 — destinato a diventare un evergreen più diRomagna mia nelle balere — era Let’s TwistAgain. La cantava un ragazzo di colore, dicianno-venne paffuto e imbrillantinato che già l’annoprima era arrivato in cima alla hit parade con TheTwist, un brano di Hank Ballard alleggerito perdiventare l’ennesimo tormentone estivo. Pochimesi dopo l’America (e in breve il mondo intero)era preda del Twist. Molto prima della Febbre delsabato sera, il Twist portò nella vita notturna diManhattan un’effervescenza che non si ricorda-va dagli anni della Mambo fever e delle folli sera-te al Palladium, quando Tito Puente e Celia Cruzerano appena arrivati da Cuba e la Baia dei Porcidi là da venire.

Il Twist aveva il suo tempio, come la SaturdayNight Fever aveva lo Studio 54. Con un nome fre-sco come una gomma da masticare, PeppermintLounge. Era al 128 West della 45esima strada. Va-

GIUSEPPE VIDETTI

Again, again and againi cinquant’anni del balloche conquistò il mondo

Marshall McLuhan, il massmediologo: “È cool, è fattodi gesti improvvisati, complicati ma allo stesso tempomolto familiari”. Chubby Checker, l’inventore:“No, non fu affatto solo una moda. Come la lampadinadi Edison o il telefono di Bell, è uno di quegli accessoridi cui semplicemente non possiamo più fare a meno”

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In Italia a importarloci pensaronoPeppino Di Capri,Morandi e la Pavone

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Beach Boys e i Four Seasons. Le notti al Pepper-mint Lounge furono così paparazzate nell’estatedel 1961 che anche Jacqueline Kennedy, prigio-niera a Washington nel ruolo di first lady, si feceallestire un Peppermint privé alla Casa Bianca incui ballava il twist in fuseaux bianchi e sandali ca-presi con i suoi amici Oleg Cassini e Harry Be-lafonte. Per non lasciare gli americani a corto ditwist durante le vacanze, un altro Peppermint fu

prontamente inaugurato a Miami Beach. Fu l’i-nizio di quella che chiamarono «danze craze», lamania (e la smania) del ballo, che imperversò ne-gli anni pre-Woodstock, prima che British Inva-sion e flower power cambiassero i connotati alrock’n’roll. Eldridge Cleaver, membro delleBlack Panthers, nell’autobiografia Soul on icescrisse: «Fu la missione di Chubby Checker,diffondere il twist come la buona novella, inse-gnare ai bianchi, che storicamente tendono a di-menticare, come tornare a sculettare». Propriocome anni dopo allo Studio 54, dove Andy Warholed Elizabeth Taylor ballavano con i Village Peo-ple e le drag queen, al Peppermint Shelley Win-ters e Tennessee Williams si scatenavano in mez-zo a impiegati e studenti in un ballo democraticoche non s’imparava in nessuna scuola di danza esi poteva improvvisare con un po’ di buona vo-lontà e senza pestare i piedi a nessuno. Persino ilmassmediologo Marshall McLuhan si scomodò asottolineare il carattere proletario, creativo e li-beratorio del twist: «È un ballo cool fatto di gesti

improvvisati, complicati ma allo stesso tempo fa-miliari». Dei mille balli onomatopeici che gli han-no ruotato intorno — Mashed Potatoes, Watusi,Choo Choo, Popcorn, Madison, Jerk, Poney,Monkey, Loco-Motion, Limbo, Hokey Pokey,Chicken, Stroll, Hitch Hike, Swim — il twist è quel-lo che è rimasto internazionalmente più cono-sciuto. Chubby Checker, che continua a sbarcareil lunario con Let’s Twist Again, ne fa una questio-ne scientifica: «Non fu solo un moda, il twist non èmai tramontato. Come la lampadina di Edison o iltelefono di Bell. Sono accessori di cui non possia-mo fare a meno».

Il Peppermint Lounge chiuse i battenti nel 1965.La gente aveva bisogno di musica più impegnata,decisamente meno ballabile. E poi gli avevano re-vocato la licenza di vendere alcolici. Il proprieta-rio, Matty “The Horse” Ianniello, che aveva fattofortuna con i primi gay club di Manhattan, era af-filiato al clan dei Genovese. Mafia e night life sonosempre andate a braccetto.

LE FOTOA sinistra, l’inventore del twistChubby Cheker mentre ballacon un’amica. Qui accanto,Jayne Mansfield con un soldatoin una base militare nel 1961;sopra Mina con il fratello Geronimoa Viareggio nel 1962

I DISCHINelle immagini, alcunecopertine dei dischi del twist:qui a destra, con BrigitteBardot. Sotto, lo schemadi ballo con i passi

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le tendenzeRevival

Gonne che sfiorano il pavimento, sandali piatti, cardigantraforati, ciondoli: il look per quest’estate è lungo anchedi giorno, in ufficio come al ristorante. E ci riporta ai favolosianni Sessanta con una novità: i tessuti sembrano stropicciatima sono preziosi, perché il nuovo hippy è molto chic

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Anni così, piangono i nostalgici, nontorneranno mai. Come colonna so-nora avevano i dischi in vinile, comelook le gonne lunghe, gli zoccoli e leborse con le frange. E, nella testa, unpensiero fisso: la ricerca della libertà.

Erano i favolosi Sessanta. Per molti, però, rimango-no soprattutto gli anni dei “figli dei fiori”. Nati a SanFrancisco, all’ombra del quartiere bohèmien diHeight Ashbury, quei giovani hippy sognavano lapace e il festival di Woodstock. E arrivarono in tuttoil mondo. Una rivoluzione pop che ha influenzato lamusica, il cinema, la letteratura e l’arte. Con i loroideali di pace, i ragazzi della cultura alternativa cer-cavano un senso nella vita che non fosse quello del-la guerra in Vietnam.

Ciclicamente, il fascino degli anni Sessanta ritor-na. Ma oggi più che mai sembra che la nostalgia perquel decennio fatto di utopie e di speranze sia par-ticolarmente prepotente. E così, come in una mac-china del tempo, chi allora non era nato oggi rivivele vicende di personaggi che hanno fatto la storia,da John Kennedy a Martin Luther King. Quella del2011 sarà, dunque, ricordata come una nuova Sum-mer of Love. Ma per adeguarsi, naturalmente, civuole il look giusto: sandali in cuoio, maxi gioielli e

cardigan traforati. Suona invece il de profundis perla mini e, sorpresa, il nuovo diktat è il lungo di gior-no. In ufficio come al ristorante, abiti e sottane sfio-rano il pavimento. Per valorizzarli, il sandalo deveessere piatto. Anzi piattissimo. Per mascherare lascollatura eccessiva, ecco i teneri coprispalle lavo-rati all’uncinetto. Anche i colori mutano: beige, ci-pria, sfumature neutre per accentuare un effettoetereo. E poi, naturalmente, tanti fiori: maxi, stam-pati, coloratissimi.

Sempre in memoria dei vibranti Sixties, anche igioielli si trasformano: catene lunghe, grandi cion-doli, pietre dure. Per questa moda trasversale, cheparte da Manatthan e arriva sino a Boulevard Saint-Germain, anche le borse sono vintage: tracolle, po-stine e le intramontabili ceste di paglia.

La pettinatura segue lo stile del tempo: riga inmezzo, capello spettinato e chiome che sfiorano lespalle. Per chi ha più coraggio (e meno anni) una co-roncina di fiori intorno alla fronte.

Ma, ed è qui la novità dell’estate appena comin-ciata, il nuovo hippy è chic. Di più. È haute hippy. Unlusso non standard che utilizza chiffon, plissé e setepregiate. Femminile in modo diverso ma comun-que sexy. Certo, ci vuole gusto: se il fisico non per-dona inutile rischiare. Chi è sotto una certa altezza,e sopra un certo peso, potrà accontentarsi di qual-che accessorio per reinterpretare con grazia lo spi-rito di quegli anni.

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IRENE MARIA SCALISE

Frange, zoccoli, maxiabitiè un’altra Summer of Love

VINTAGETorna attualelo zoccolo anni SettantaElisabetta Franchi

POPUna scarpa

importante e spiritosaproposta da Paciotti

GOLDENMotivi floreali ancheper i sandali in cuoio lavoratodi Prada, ideali per regalarsiqualche centimetro

ANIMALIERFantasia effetto giunglache lascia la panciaperfettamente scopertaDa abbinare ad accessoriimportanti. Di Blumarine

ZINGARAAbito lungo monospallaa stampa con manicaa sbuffo e foulard in setastampata stretto attornoal collo per Etro

GREENTop in macramè color sabbia

e gonna in chiffon stampagiardino per Alberta Ferretti

In più, cappello in rafiae sandali flat in corda

SEXYGonnacon ampiospaccoe trasparenzeammiccantiper MassimoRebecchi

DECORATOÈ aperto in puntalo zoccolonero lavoratoai bordiBaby Angelby Elio Fiorucci

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 5GIUGNO 2011

“Lo stile è sempre patchworkma con un pizzico di colore in più”

Ana Cabanasdi Desigual

SIMONE MARCHETTI

Tra i nuovi hippy ce n’è uno davvero fuori dalle righe. Arriva dalla Svizzera, è diventato spa-gnolo a tutti gli effetti e ha trovato il successo vendendo abiti patchwork a Ibiza, in pienamovida, iniziando nel 1984. Si chiama Thomas Meyer e da allora ne ha fatta di strada: il suo

marchio, Desigual, oggi conta duecento negozi monomarca nel mondo e un fatturato di cin-quecento milioni di euro per il 2011. Del suo stile hippy, della sua moda fuori dagli schemi, par-la Ana Cabanas, direttore marketing internazionale del brand.

Cosa pensa del ritorno della moda hippy?

«Lo stile hippy è una costante nel mondo della moda. Per Desigual, poi, significa utilizzo delpatchwork, che si articola in tante espressioni estetiche diverse. La differenza col passato, forse,è l’essenzialità: abbiamo rivisitato i capi simbolo di quel periodo migliorando i modelli, am-morbidendo lo stile, limitando i colori e soprattutto eliminando il superfluo. Per la nuova esta-te, abbiamo provato a rendere il nostro linguaggio più sexy, fresco. Senza perdere originalità».

Chi predilige questo stile? Gli uomini, le donne?

«Non occorre più pensare in termini di età. I consumatori vanno individuati in base alle scel-te di vita, non secondo l’anagrafe. Abbiamo clienti di tutte le età, dai bambini agli ultraottan-tenni. Ciò che li contraddistingue è il desiderio di originalità, un certo individualismo, la vogliadi sottolineare la propria differenza».

Quali sono i modi di conquistare questi nuovi clienti?

«Occorre costruire un rapporto emotivo, un vero legame coi propri consumatori. Cerchiamo,ogni stagione, di studiare iniziative che coinvolgano il pubblico. Dall’altra parte, c’è un filo ros-so, una sorta di pensiero alla base di Desigual: l’ottimismo. Tutte le nostre collezioni sono mol-to forti, decisamente identificabili. Provano a tradurre l’unicità di chi le indossa e trasmettereuna buona dose d’ironia e voglia di leggerezza. Ci piace sempre ripetere che non vestiamo cor-pi, ma persone».

Come reagiscono i mercati internazionali al vostro messaggio?

«In modo molto positivo, come conferma la nostra costante crescita. L’Italia, per esempio, re-sta un mercato strategico. Abbiamo da poco inaugurato un monomarca davanti ai binari dellaStazione Centrale di Milano e abbiamo in serbo una grande apertura per l’autunno prossimo.Al momento, siamo presenti in mille negozi multimarca oltre che nei corner Coin. Stiamo cre-scendo moltissimo negli Stati Uniti e abbiamo in previsione l’apertura di un ufficio a Shanghai.A novembre 2010 si è festeggiata una data molto importante: l’apertura nel centro di Madrid del-la Tienda Desigual, il nostro negozio più grande del mondo, un piccolo grattacielo della moda».

(ha collaborato pia bianchi)

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incrociatodietro e maxi

rouchedavanti

Da abbinareal foulard

Who’s Who

Repubblica Nazionale

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5GIUGNO 2011

i saporiOn the rocks

Qualcosa sta cambiando nel panorama del drink se anchestoriche maison si lanciano in mix estivi senza disdegnareil cubetto di ghiaccio.L’obiettivo è conquistare nuove fettedi mercato, puntando al basso impatto-ebbrezza e a uno stiledi vita sempre più salutare. Solo l’orario di degustazionenon cambia: mai prima delle diciotto, mai dopo le venti

lunga destinata a ispirare i nuovi vini (se ne par-lerà anche al Vinexpo di Bordeaux dal 19 al 23giugno) e le creazioni dei bartender. Certo, esi-stono formule intoccabili di enologia e mixolo-gia, scritte nella bibbia del sapere alcolico, dacui non si può prescindere. Che sarebbe deifilm di 007 se annacquassero il Vodka-Martinio delle birra Guinness — fiera dei suoi otto gra-di alcolici di densa, schiumosa “zuppa d’orzo”— ridotta a semplice Lager?

Eppure, qualcosa sta cambiando, anzi mol-to, se una maison storica e prestigiosissimacome Moet & Chandon decide di lanciare sulmercato uno Champagne on the rocks. Fino aqualche anno fa, la sola idea di mettere un cu-betto di ghiaccio in una flute avrebbe provo-cato anatemi e rivolte. E invece, la nuova crea-tura, pensata per reggere la contaminazionedell’acqua, sarà lanciata sul mercato con tuttii crismi dovuti alla nobiltà dell’azienda madre.

La sfida di inventare nuovi drink stuzzican-ti ma più salutari, è appena cominciata. Erbe efrutta biologiche, acque purissime per diluirei superalcolici — il gin inglese Martin Miller, ri-dotto dal pieno tenore alcolico grazie alle ac-que dei ghiacciai islandesi — bevande dallespezie pregiate come la Fever Tree, fresca vin-citrice del concorso mondiale “Drinks Com-pany of the Year”. Dario Comini, re dei bar-tender italiani, ha fatto un passo in più, intro-ducendo nelle sue ricette la Stevia Rebaudia-na, incredibile dolcificante naturale di originesudamericana (300 volte più dolce dello zuc-chero, senza calorie, regolatore del ciclo insu-linico, senza effetti collaterali) usato nel mon-do da decenni, che stenta ad affermarsi inun’Europa economicamente schiava dei pes-simi dolcificanti sintetici. Oltre la salute, il po-tere del marketing internazionale, teso a gua-dagnare quote sui nuovi mercati del mondo,dove ancora poco si conoscono i vini e gli altrialcolici di matrice occidentale. In più, la ten-denza a ridurre il tenore d’alcol va a braccettocon la cucina di inizio millennio, dai saporisempre più fini e diversificati, in cui l’impattoalcolico risulta inutile e coprente. Per verifica-re le nuove teorie, regalatevi un paio di longdrink con cui accompagnare la prossima ce-netta nippo-style. In caso di fallimento, con-solatevi con un bicchiere di vino. Ghiaccio in-cluso, of course.

«Èora di ubriacarsi!»esortava CharlesBaudelaire. Nonsolo in senso alcoli-co, naturalmente.«Per non essere gli schiavi

martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubria-catevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù,come vi pare».

L’invito all’ebbrezza multipla fir-ma l’estate in arrivo. È come se il fa-scino potenzialmente rovinoso distordirsi tout court avesse esau-rito la sua carica. In bilico traansie salutiste e stress lavora-tivi, carichi di stanchezza pre-gressa e aspettative per le va-canze, si pensa ai drink delsolleone come a passe-par-tout birichini, che rallegrinosenza soggiogare il fegato,alcolici ma anche no.

Una piccola rivoluzioneepocale, che va nella direzio-ne del consumo responsabi-le, d’obbligo tanto nelle cam-pagne pubblicitarie quanto sul-le etichette delle bottiglie: un’onda

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ma non troppoAlcolico

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 5GIUGNO 2011

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itinerari

DOVE DORMIRELOCANDA DELLA ROCCAVia della Rocca 10Tel. 348 8829485Camera doppia da 95 eurocolazione inclusa

DOVE GUSTARERICREAZIONEVia Bruno Buozzi 3Tel. 011-5537463

DOVE COMPRAREIL BOTTIGLIEREVia San Francesco da Paola 43Tel. 011-836050

TorinoDOVE DORMIRELA DOLCE VITE B&BVia Cola di Rienzo 39Tel. 347-6863144Camera doppia a partireda 130 euro colazione inclusa

DOVE GUSTARENOTTINGHAM FORESTViale Piave 1Tel. 02-798311

DOVE COMPRAREGABOARDI & POGLIANIViale Premuda 34Tel. 02-76003381

MilanoDOVE DORMIRERELAIS DEL DUOMOPiazza dell’OlioTel. 055-210147Camera doppia a partireda 120 euro colazione inclusa

DOVE GUSTAREMYDAY CLUBVia Dante Aligheri 16Tel. 055-2381290

DOVE COMPRARELE VOLPI E L’UVAPiazza dei Rossi 1Tel. 055-2398132

Firenze

C’è un tempoper ogni cocktail

PIERO OTTONE

Mi è capitato, tanti anni or sono, di partire su una barca a vela dalle Canarie, per approdaredopo un paio di settimane all’isola di Barbados, nei Caraibi. Giunto a destinazione, sonosceso a terra, sono andato in un ristorante, ho bevuto un Planter’s Punch, che è il cocktail

del luogo, ho mangiato un chowder, che è la zuppa di pesce del luogo; poi sono andato all’aeropor-to, ho preso un aereo e sono tornato in Europa. Quindi potrei dire, forzando un po’ i termini, di ave-re attraversato l’Atlantico unicamente per bere quel cocktail. È, il Planter’s Punch, una bevanda co-sì irresistibile? In verità c’è di meglio, e non era quello, ovviamente, lo scopo del viaggio. Espongocomunque una regola generale: diffidare dei cocktail che partono da un succo di frutta, con l’ag-giunta successiva di bevanda alcolica. I cocktail seri seguono il percorso inverso: partono dall’alcole poi aggiungono, se proprio è necessario, il succo. Meglio se ci si accontenta di una scorza di limo-ne o, come vedremo, di una ciliegina.

Argomento serio, quello del cocktail: una bevanda che appartiene, come istituzione, alle classialte del mondo anglosassone (i russi bevono vodka, i tedeschi birra, i francesi cognac). È un mezzoefficace per addolcire la vita. Ma bisogna rispettare certe regole. Tanto per cominciare, va bevuto almomento giusto, non a caso nel corso della giornata, tanto meno alla fine di un pranzo. Il momen-to giusto è il tardo pomeriggio, quando la giornata (lavorativa o di svago, poco importa) volge al ter-mine, e si profila il piacere del pranzo serale (so che tutti lo chiamano cena, ma a me pranzo sembrameglio). Mi rendo conto: nella nostra penisola questa collocazione temporale presenta problemi.Un italiano su due dichiara infatti, solennemente, che non beve mai alcolici a stomaco vuoto: figu-rarsi se gli si propone un Manhattanprima di sedersi a tavola. Difficile immaginare d’altra parte cheun esponente delle classi alte nel mondo anglosassone faccia una dichiarazione analoga. Mi di-spiace dunque per i miei connazionali: ma non c’è scampo, il periodo di tempo destinato al cock-tail è fra le sei e le otto. Poi, alla fine del pasto e dopo il caffè, è tempo del cognac o della grappa: se sipreferisce il whisky, deve essere a quell’ora un malto, con appena una goccia d’acqua e senza ghiac-cio, mentre gli altri whisky, i così detti blended, sono preferibili come aperitivo, in alternativa al cock-tail, al gin and tonic, o al nostro bene amato vermut.

Vorrei dichiarare, dopo queste poche annotazioni, quale sia il mio cocktail preferito. Non è ilPlanter’s Punch, come si potrebbe supporre dall’esordio del mio scritto: e neanche il Dry Martini, oil Negroni, che hanno per altro tutta la mia stima. È il bourbon old-fashioned, non molto noto in Ita-lia: whisky americano, zucchero, arancia, tanto ghiaccio, e le ciliegine di cui dicevo. Provate a chie-derlo nei bar o nei ristoranti: se il barista sa che cos’è, siete in buone mani.

John McLaughlin creala Belfast Style Ginger Ale

1890

la percentuale di pinot noirnell’Ice Imperial

50%

le calorie per 100 mldi acqua tonica

34

i gradi alcolicipresenti nel sidro

4

Fresh Ginger AleZenzero fresco, zucchero

di canna, tè al gelsomino

e melograno nella versione

californiana dello sciroppo

di ginger che ha conquistato

i migliori bartender internazionali

Rosato di AmaColore languido e gusto

soavemente originale

per il sangiovese toscano

vinificato in versione estiva,

in alternativa al chianti,

da sorseggiare fresco a tutto pasto

Ice ImperialBicchieri maxi, ghiaccio,

menta e frutti rossi esaltano

lo Champagne in versione

long drink ideato da Benoît Gouez,

l’enologo della maison

Moët & Chandon

RoyalVersione peccaminosa dello spritz,

grazie al Martini rosato miscelato

con il prosecco della casa

e profumato con una fetta

d’arancia spremuta

Aggiungere ghiaccio a piacere

Fever-TreeBollicine finissime, spezie

e chinino naturale dall’albero

della china (antimalarica)

alla base dell’acqua tonica

inglese che ha dato nuova vita

al tradizionale gin tonic

Sidre BordeletVenti varietà di mele dell’azienda

di famiglia per il fermentato

di tradizione normanna

che l’ex sommelier del tristellato

parigino Arpège

propone al posto del vino

Repubblica Nazionale

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 5GIUGNO 2011

l’incontroCervelli in fuga

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come nulla fosse, una nuova vita. La ci-catrice a forma di stellina al centro dellaguancia sinistra sarà per sempre memo-ria di quell’incidente. Anche oggi è il suo“segno particolare”. Di quei due giorninel sonno profondo del coma il profes-sore non ricorda nulla. «C’è chi raccontadi avere visto la luce, o parenti trapassa-ti. Io niente». Ma la ragione del suo agno-sticismo è da cercare soprattutto nelbombardamento del ’44. «In quel mo-mento conobbi una paura viscerale, lapaura di sparire. E in quel momento l’i-dea di Dio cominciò ad abbandonarmi»racconta Montagnier in Le Nobel et lemoine (“Il Nobel e il monaco”), libro informa di dialogo con padre MichelNiaussat, monaco cistercense, e tra-scritto nel 2009 da Philippe Harrouardnel 2009 ma mai pubblicato in Italia.

Non si porrà quindi scrupoli religiosinell’affrontare problemi etici legati allamedicina. «La religione non c’entra. Lareligione è fatta di dogmi; nella mia pro-fessione i dogmi non esistono. Tuttopuò cambiare. Ma se parliamo di eticaposso dirle che sono contrario alle ma-nipolazioni del genoma. Bisogna esse-re molto prudenti perché si mette ma-no a una cosa che ha impiegato milionidi anni per costituirsi. Ed è per questoche sono contrario a les mères porteuses(l’utero in affitto, ndr.). C’è una ragionebiologica: l’uovo fecondato si fissa sul-le pareti di un utero estraneo. Anche seil bambino nascerà sano non sappiamociò che accadrà negli anni, nelle futuregenerazioni. E c’è anche una ragioneetica in senso stretto: si dà vita per de-naro, si crea un mercato attorno a unfatto così prodigioso».

Il nostro taccuino è fitto di domande edi argomenti da affrontare. Il raggio di ri-cerca di Luc Montagnier è molto esteso.E così la cronaca della sua vita. Potrem-mo parlare con lui di virologia, di onco-logia, dell’invecchiamento (il professo-re è quasi certo che, grazie alle scopertescientifiche, in futuro si potrà arrivaresani fino ai centoventi anni), di moleco-le, di batteri, del testa a testa con il ricer-catore americano Robert Gallo nel dirit-to — poi ottenuto — di aggiudicarsi lascoperta del virus HIV I (poi anche dell’i-solamento dell’HIV II, più diffuso in Afri-ca); gli si potrebbe chiedere della sua de-lusione per essere stato mandato in pen-sione ai regolamentari 65 anni dall’Isti-tuto Pasteur, lui che aveva fatto una del-le scoperte del secolo; farlo parlare dellasua assoluta fiducia verso gli antiossi-danti (papaya fermentata in testa, maanche il glutathion o gli omega3) e del-l’incontro con Giovanni Paolo II al qua-le portò, come rimedio al Parkinson,proprio le bustine di papaya. Ma sono

cose già molto note, scritte in La scienzaci guarirà, il suo bel libro uscito da noi nel2009. Meglio dunque guardare avanti.

Luc Montagnier parla a voce bassa,ogni tanto tossisce. È appena tornatodalla Cina. Dopo aver pubblicato due ar-ticoli sulla rivista scientifica Interdisci-plinary sciences della quale presiede ilcomitato editoriale e il cui editore è cine-se, nel novembre scorso l’universitàJiaotong di Shanghai gli ha messo a di-sposizione laboratori e ricercatori.Montagnier viaggia molto (tra Cina, Sta-ti Uniti, e Africa, in particolare Camerundove nel 2006, in collaborazione con l’U-nesco, con la Cooperazione Italiana econ il professor Vittorio Colizzi dell’Uni-versità Tor Vergata di Roma ha inaugu-rato un centro internazionale di ricercasull’Aids), ma fa sempre base a Parigi,

dove ha sede la sua Fondazione. Ma ilproblema è sempre la mancanza di stan-ziamenti validi per la ricerca. Anchequando si tratta di aiutare un Nobel.«Sono un po’ preoccupato per il centrodi Yaounde. Il progetto italiano è finitonel 2010 e con Colizzi, direttore ad inte-rim, abbiamo chiesto al governo di Ro-ma di finanziare un direttore scientifico.Per ora nessuna risposta». Impossibilepersino la semplice organizzazione diun grande evento musicale a Verona,programmato per la metà di giugno conil titolo Una notte per l’Africa (al quale laRai aveva già dato la sua disponibilità).La Fondazione di Montagnier aveva ot-tenuto dal sindaco l’utilizzazione dell’A-rena, ma poi i responsabili della pro-grammazione non si sono più fatti vivi.

Pur essendo l’autore della scopertadel secolo (scorso) Luc Montagnier restauno scienziato “scomodo”, uno chepensa con la sua testa, anche a rischio diapparire eccentrico, di osare l’inosabile.«Perché crede che io abbia pubblicato imiei esperimenti in corso su una rivistascientifica cinese? Perché quelle euro-pee o americane avrebbero tirato fuori lepistole». Avrebbero gridato allo scanda-lo. Da alcuni anni infatti il professore ba-sa i suoi studi e i suoi esperimenti sullateoria della «memoria dell’acqua». Laapplica a tutte le sue ricerche. Scopertanel 1988 da Jacques Benveniste — loscienziato francese morto nel 2004 e alcentro di un violento discredito scienti-fico — questa teoria suppone che l’ac-qua conservi la memoria delle sostanzeche ha contenuto; che la conservi anchedopo infinite diluizioni e quindi dopo lascomparsa di queste sostanze dalla so-luzione acquosa. È il principio dell’o-meopatia. In alte diluizioni acquose ildna provocherebbe delle onde elettro-magnetiche, aprendo così la strada a unsistema rivelatore, altamente sensibile,di infezioni batteriche croniche umanee animali. «Tempo fa avevo fatto un pro-getto, ma il Consiglio superiore della ri-cerca lo ha rifiutato. Appena sentono ilnome di Benveniste sono presi da un ter-rore intellettuale. È morto senza averportato a termine il suo lavoro, rifiutatodai comitati scientifici, anche francesi. Eallora mi viene in mente Galileo. Soloche in questo caso non si tratta di oscu-rantismo religioso, ma scientifico. Per-ché quando sconvolgi le concezioni co-muni, non appena cambi un paradigma,sono guai. Quando chiedevano a MaxPlant, Nobel tedesco per la fisica, comeaveva fatto a convincere il mondo scien-tifico, i colleghi, della sua Teoria deiQuanti, “semplice”, rispondeva, “hoaspettato che fossero morti tutti”».

Senza arrivare a questi estremi, pro-

fessore: quanto si dovrà aspettare per ilvaccino dell’Aids? «Perché vuole un vac-cino?». Come perché? Lei non lo vorreb-be? «Per quanto sicuro possa essere, unvaccino non funziona mai al cento percento. Senza contare gli effetti seconda-ri. E tutti gli infettati di oggi, tutti queibambini, li facciamo morire? Sono giàmalati. A che cosa servirebbe loro unvaccino? Io penso piuttosto a un vaccinoterapeutico che possa aiutare i malati asbarazzarsi del virus. Ci sono regioni inCina in cui il tasso di infezione è altissi-mo». Questo significa che nel suo labo-ratorio di Shanghai ci stanno già lavo-rando...? «Per ora le notizie non sono in-coraggianti, ma abbiamo trovato delle“elites controleurs”, cioè persone infettema non malate. Le ricerche sono in cor-so e la risposta è che si tratti di un fatto ge-netico: quelle “elites” hanno un sistemagenetico che blocca il virus rendendoleimmuni. Posso dire che un progetto divaccino dorme in certe scatole ma, pri-ma di divulgare la notizia, andrà pubbli-cato su una rivista scientifica». Un’ulti-ma domanda professore: come faremoa vivere fino a centoventi anni? «Standolontani dallo stress, facendo una mode-rata attività fisica, mangiando cibo sano,facendosi aiutare dagli antiossidanti. E— cosa che da sempre dico ai miei figli —lavandosi il più possibile le mani: i nostriinsospettabili nemici, i trasmettitori piùpericolosi di malattie infettive, sono lemaniglie di uso comune, nel metrò, su-gli autobus, nei bagni pubblici».

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LAURA PUTTI

PARIGI

L’impressione è quella di es-sere osservati. Scrutati. Losguardo di Luc Monta-gnier si fissa su cose che

mai, a un comune mortale, verrebbe inmente di notare. Mentre parla percorrela pelle del viso di chi ha davanti, ne met-te a fuoco i capelli, e lo sguardo può scen-dere fino alle mani, le dita, le unghie. Unesame rapido, ma completo. Deforma-zione professionale, professore? La do-manda lo fa ridere (e non è facile). «Unpo’» ammette. Incontriamo Luc Monta-gnier nel palazzo dell’Unesco, dal 1993sede della sua Fondazione mondiale diricerca e prevenzione dell’Aids. Da qua-si mezzo secolo il professore studia il dnaumano. Lo studia da ben prima di sco-prire, nell ’83, il virus dell’Aids e di meri-tare per questo il Premio Nobel per lamedicina (nel 2008, insieme alla collegaFrançoise Barré-Sinoussi).

Nato nel ’32 a Chabris, un paesotto delBerry (a sud della Loira), l’infanzia di LucMontagnier scorre serena. È figlio unico,amatissimo. Ma a cinque anni, mentreattraversa una strada, un’automobilespunta all’improvviso a tutta velocità.Colpisce il bambino e lo scaraventa lon-tano. Sarà il primo dei due traumi del-l’infanzia dello scienziato (il secondosarà il bombardamento della sua casanel ’44 da parte degli Alleati). Dopo duegiorni di coma il piccolo Luc si risveglia

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Nel 1983 scoprì il virus dell’Hiv e vinseil Nobel per la medicina. Oggi lavoratra Shanghai e il Camerun continuandoa studiare il dna. Tra mille difficoltà:

“In questi anni mi tornaspesso in mente Galileo,anche se va dettoche oggi l’oscurantismonon appartiene alla Chiesama agli scienziati.Perchécrede che pubblichi le mie

ricerche sulle riviste cinesi? Perché sesolo mi avvicinassi a quelle occidentalitirerebbero fuori le pistole!”

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La religione è fattadi dogmi, mentrenel mio mestierei dogmi non esistonoEsiste però l’etica,ed è in base a quellache, per esempio,mi dico contrarioall’utero in affitto

Luc Montagnier

Repubblica Nazionale