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DOMENICA 28 AGOSTO 2011/Numero 341 D omenica La di Repubblica le tendenze Voglio un vestito come Steve McQueen IRENE MARIA SCALISE spettacoli La seconda vita di Tony Bennett GIUSEPPE VIDETTI l’incontro Kenneth Branagh, “Evviva Peter Pan” CLAUDIA MORGOGLIONE cultura Ma chi l’ha detto che il viaggio è finito PAUL THEROUX i sapori Quanto è buono il cacio con le pere LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA le storie Sirius che non tornò da Ground Zero VITTORIO ZUCCONI FOTO DI AMR ABDALLAH DALSH/REUTERS ADRIANO SOFRI e il I Bambini Colonnello I bambini di Bengasi disegnano Gheddafi. Il viso, la shia- shia — quella specie di fez morbido — sulla testa, due ro- tondi scarabocchi di capelli tinti di nero che sbucano ai lati — come il nostro sor Pampurio, per chi ha l’età di ri- cordarlo. Il disegno è così stilizzato e variato che si capisce che avevano imparato tutti a farlo, quando era un compito di devo- zione per il padre della patria, e ora lo rifanno, ma gli storcono la bocca all’ingiù e lo appendono a un patibolo, o gli mettono al collo una corda i cui anelli salgono come un fumo. Oppure lo di- segnano intero e già piegato, con la djellaba e le braccia alzate, mentre una grossa bomba dal cielo sta per colpirlo. Oppure co- me un cane, credo: cane è un insulto sanguinoso, rinfacciato al rais che non smette di urlare che i ribelli sono topi. A Gheddafi-cane viene cavato un occhio (mi pare: ma so che per interpretare i disegni dei bambini bisogna avere ancora cuore di bambino, e non è facile). Il nome, GADAFI, è scritto in stentate lettere latine, e dunque c’è l’intenzione di destinarlo a spettatori lontani. (segue nelle pagine successive) M ma quale padre della patria? Quale Dio ca- duto in terra? Per tanti bambini libici, Ghed- dafi è sempre stato una sorta di spauracchio, incarnava l’equivalente del nostro lupo mannaro o dell’orco cattivo. E adesso che non spaventa più, tut- ti lo sbeffeggiano, e vorrebbero vederlo morto, magari impic- cato, come in parecchi disegni che hanno realizzato gli alunni di una scuola elementare di Bengasi, ai quali abbiamo chiesto di rappresentarcelo. Un mostro. È questa l’immagine che esce dalla mente e dal- la fantasia dei piccoli bengasini: un mostro collerico e crudele, che con il suo sguardo ad asola e la sua voce roca terrificava chiunque. E adesso che il “leader della rivoluzione” è diventato un fuggiasco, i bambini si vendicano. Dice Sagida, otto anni, salopette di jeans e capelli castani rac- colti in lunghe trecce: «A me non ha mai fatto paura, neanche quando era il padrone di tutto. Adesso scappa. Spero proprio che i nostri l’acchiapperanno e che poi lo uccideranno». (segue nelle pagine successive) PIETRO DEL RE BENGASI Un mostro cattivo coi capelli troppo lunghi È Gheddafi visto dai banchi di scuola di Bengasi Repubblica Nazionale

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DOMENICA 28 AGOSTO 2011/Numero 341

DomenicaLa

di Repubblica

le tendenzeVoglio un vestito come Steve McQueen

IRENE MARIA SCALISE

spettacoliLa seconda vita di Tony Bennett

GIUSEPPE VIDETTI

l’incontroKenneth Branagh, “Evviva Peter Pan”

CLAUDIA MORGOGLIONE

culturaMa chi l’ha detto che il viaggio è finito

PAUL THEROUX

i saporiQuanto è buono il cacio con le pere

LICIA GRANELLO e MARINO NIOLA

le storieSirius che non tornò da Ground Zero

VITTORIO ZUCCONI

FO

TO

DI A

MR

AB

DA

LLA

H D

ALS

H/R

EU

TE

RS

ADRIANO SOFRI

e ilI BambiniColonnello

Ibambini di Bengasi disegnano Gheddafi. Il viso, la shia-shia— quella specie di fez morbido — sulla testa, due ro-tondi scarabocchi di capelli tinti di nero che sbucano ailati — come il nostro sor Pampurio, per chi ha l’età di ri-

cordarlo. Il disegno è così stilizzato e variato che si capisce cheavevano imparato tutti a farlo, quando era un compito di devo-zione per il padre della patria, e ora lo rifanno, ma gli storconola bocca all’ingiù e lo appendono a un patibolo, o gli mettono alcollo una corda i cui anelli salgono come un fumo. Oppure lo di-segnano intero e già piegato, con la djellaba e le braccia alzate,mentre una grossa bomba dal cielo sta per colpirlo. Oppure co-me un cane, credo: cane è un insulto sanguinoso, rinfacciato alrais che non smette di urlare che i ribelli sono topi.

A Gheddafi-cane viene cavato un occhio (mi pare: ma so cheper interpretare i disegni dei bambini bisogna avere ancoracuore di bambino, e non è facile). Il nome, GADAFI, è scritto instentate lettere latine, e dunque c’è l’intenzione di destinarlo aspettatori lontani.

(segue nelle pagine successive)

Mma quale padre della patria? Quale Dio ca-duto in terra? Per tanti bambini libici, Ghed-dafi è sempre stato una sorta di spauracchio,incarnava l’equivalente del nostro lupo

mannaro o dell’orco cattivo. E adesso che non spaventa più, tut-ti lo sbeffeggiano, e vorrebbero vederlo morto, magari impic-cato, come in parecchi disegni che hanno realizzato gli alunnidi una scuola elementare di Bengasi, ai quali abbiamo chiestodi rappresentarcelo.

Un mostro. È questa l’immagine che esce dalla mente e dal-la fantasia dei piccoli bengasini: un mostro collerico e crudele,che con il suo sguardo ad asola e la sua voce roca terrificavachiunque. E adesso che il “leader della rivoluzione” è diventatoun fuggiasco, i bambini si vendicano.

Dice Sagida, otto anni, salopette di jeans e capelli castani rac-colti in lunghe trecce: «A me non ha mai fatto paura, neanchequando era il padrone di tutto. Adesso scappa. Spero proprioche i nostri l’acchiapperanno e che poi lo uccideranno».

(segue nelle pagine successive)

PIETRO DEL RE

BENGASI

Un mostro cattivocoi capellitroppo lunghiÈGheddafi vistodai banchi di scuoladi Bengasi

Repubblica Nazionale

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

I bambini e il Colonnellola copertina In uno ha i denti da vampiro, in un altro sembra

uno spaventapasseri, in un altro ancora una mummia o forseun asino. In un disegno ha il cappio stretto intorno al collo,in un altro il petto trafitto dai proiettili, in un altro ancorala testa sotto una pioggia di bombe. Abbiamo chiesto agli alunnidi una scuola di Bengasi di raccontarci chi è per loro il Raìs

(segue dalla copertina)

Il suo fratellino Bubaker, di 11an-ni , aggiunge: «E poi è così bruttocon tutti quei capelli! Perché nonse li taglia? Sembra uno dei car-toni animati, uno di quelli cattiviperò». I folti basettoni e i boccoli

artatamente gonfiati sulle orecchie delRaìs sono nei disegni dei piccoli ogget-to di scherno, e sempre caricaturizzati.Forse perché in Libia, il più conservato-re dei Paesi del gran Maghreb, nessunosalvo lui porta i capelli così lunghi.

Ma questo è un dettaglio: altre sono lechiavi di lettura che offrono i loro schizzi.Anzitutto, la cattiveria, la malvagità chetraspare in ogni Gheddafi visto dai bam-bini. Ha spesso denti da vampiro, o occhipiccoli piccoli, o dita uncinate, da strega.Un bimbo l’ha raffigurato con un fuciletra le mani, un altro sotto forma di asino,un altro ancora come uno spaventapas-seri maligno, quasi diabolico.

Spiega Hamad, 12 anni, e la fac-cia da birbante: «Quando ero piùpiccolo, e a scuola prendevo unbrutto voto, mia nonna mi dice-va che avrebbe chiamato il Co-lonnello e che lui mi avrebbemesso in prigione. Mi è capita-to di sognarmelo la notte, eraun incubo». Khaled, anche luidodicenne, e lo sguardo ri-flessivo dietro agli occhiali davista, racconta: «Ricordol’ultima volta che venne invisita a Bengasi: i soldati ar-rivarono a scuola, ci carica-no sui pullman e ci portaro-no tutti dove doveva pas-sare il Colonnello. Aspet-tammo sotto il sole, in pie-di, per più di cinque ore,ma lui non venne mai».

L’altro aspetto chestupisce è la freddezza el’intensità di violenzacontenuta in alcuni di-segni. Violenza espres-sa contro l’uomo ocontro il tiranno daabbattere: con unabomba che sta perpiovergli sulla testa,con le pallottole diuna mitragliatriceche lo colpiscono alcuore e che lo fan-no sanguinare,con la corda dellaforca attorcigliataal collo.

Quando chiediamo a Mohammed,undici anni, che cosa gli hanno insegna-to di Gheddafi i suoi professori, lui ri-sponde così: «Molte cose sulla sua vitaprivata, ma anche su come prendeva legiuste decisione per la Libia. Se vuoleposso anche recitare alcune delle sue fra-si più famose. Senta questa: “La dittaturanon è un problema se fa del bene al suopopolo”». Ogni settimana, gli scolari libi-ci di età compresa tra gli 8 e i 12 anni se-guivano due ore di lezione dedicate agliinsegnamenti del Colonnello, che preve-devano lo studio di brani del Libro Verdecosì come delle sue vicende più persona-li, dai suoi roboanti e minacciosi discor-si alle “eroiche” gesta di ognuno dei nu-merosi membri della sua discendenza.

Tuttavia, in quarantadue anni di regi-me, il Raìs ha speso poco per l’educazio-ne delle giovani generazioni di libici, po-chissimo se paragonato ha quanto ha fat-to, per esempio, per armare il suo eserci-to. Né ha mai cercato di inquadrare i ra-gazzi in programmi educativi simili aquelli della Hitler-Jugend, la gioventù hi-tleriana, né in organi parascolastici e pa-

ramilitari dello stampo dell’Opera nazio-nale Balilla. Dice Khaled Bogazia, conta-bile e padre del piccolo artista che ha raf-figurato il Colonnello con i capelli arruf-fati sugli occhi per sottolineare, ci haspiegato, la sua cecità politica: «Qualcheanno fa, Gheddafi varò una legge di pia-nificazione delle famiglie che prevedeval’istruzione per un solo figlio. Gli altri, se-condo lui, sarebbero dovuti diventarecontadini, operai o pescatori. In realtà, lamaggior parte di chi non ha potuto stu-diare è oggi disoccupata. Ma il Colonnel-lo di figli ne ha avuti otto, e li ha fatti tutti

studiare nelle migliori università del pia-neta». C’è un altro episodio che i genitoripiù avveduti non perdonano al Colon-nello: il suo improvviso divieto di inse-gnare le lingue straniere nelle scuole enelle università, che si materializzò congiganteschi falò di libri d’inglese, france-se, tedesco e italiano. Nel suo delirio di

onnipotenza agli stu-denti bastava l’arabo

e, in particolare, ildialetto libico. Im-parare un altroidioma fu quindi

severamente punito, salvo il rilascio dideroghe per materie in cui la conoscenzadell’inglese diventava imprescindibile.«L’altro paradosso del nostro sistemaeducativo è che non esiste», prosegueBogazia. «Per volontà del Colonnellol’abbiamo sempre mutuato da altri Pae-si musulmani, cambiando anche ogni treo quattro anni i programmi scolastici. Èandato di moda prima quello egiziano,poi quello giordano, poi marocchino.L’ultimo in voga era quello malese. Puòimmaginare la confusione degli inse-gnanti e, di conseguenza, degli alunni».

Gheddafi, un tiranno di cartaPIETRO DEL RE

Repubblica Nazionale

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Non facciamolistare zitti

ADRIANO SOFRI

rumore io con la mia famiglia siamo rima-sti chiusi in casa. Poi, però, anche quandoè finito tutto, e i buoni hanno vinto, la not-te ricominciavano a sparare. E ancora lofanno. Io ho paura di quei rumori, e se misveglio non mi riaddormento più». Pocoprima di andare via Sagida ci siavvicina intimorita e ciporge un altro disegno.È un fiore. Guardando-si la punta dei sandali,sussurra: «Questo èper te».

I DISEGNIIn queste pagine i disegni

fatti dagli alunni di una scuola

elementare di Bengasi,

a cui il nostro inviato

ha chiesto di raffigurare

il Colonnello Gheddafi

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE

RISERVATA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 28 AGOSTO 2011

I bambini di Bengasi cominciano soloadesso, sei mesi dopo l’inizio della rivolta,che qui è durata pochi giorni, ad abituarsialle sparatorie notturne: sventagliate dikalashnikov, ma anche pesanti e fragorosicolpi di contraerea, in onore di una con-quista militare o magari del riconosci-mento da parte di una grande potenza del-la legittimità del Consiglio nazionale ditransizione. Dice ancora la piccola Sagida:«Abitiamo vicino alla piazza dove c’è statala rivoluzione. E mentre c’era tutto quel

(segue dalla copertina)

In un altro disegno, che mostra unbel talento di caricaturista, la lana diferro dei ricci è ancora più svelta e ar-ruffata, e la bocca è spalancata in uncomizio urlato con i denti da squalo,e il corpo è quello di un pollo.

In un altro Gheddafi è fucilato: non c’èuna mano che impugna il fucile, la giusti-zia si compie da sé, la traiettoria trapassa ilpetto e continua, non più del proiettile madel sangue che cola in una chiazza di san-gue: gli occhi sono già chiusi e cuciti a cro-ce, la bocca è di nuovo volta in giù.

Due disegni sono più inquietanti e bel-li: una faccia espressionista di mostro in-vasato dagli occhi cerchiati, e un’altra incui sotto l’armatura di capelli sbuca l’ova-le di mummia peruviana cuiforse Munchsi ispirò nell’Urlo. (O è questa che vuole ri-cordare un asino?).

Viene la guerra, e le scuole si chiudono,per mesi interi. Chi ce la fa, tiene i bambi-ni chiusi in casa, sperando di ripararli dal-le bombe d’aereo, dalle bombe di tank,dalle bombe a grappolo, dalle bombe tra-vestite da giocattoli. Viene la guerra, e ibambini non disegnano più margherite emamme, la casa col sole e il fumo che escedal tetto. Disegnano il rosso del sangue, leesplosioni -grandi stelle di fuoco appunti-te- gli elicotteri con la pioggia di proiettili,i carri armati con la nuvola dello sparo, gliaereoplani che sganciano la bomba, i mi-tra che sputano raffiche di trattini. Dise-gnano file di persone che sembrano in pie-di e invece sono morti e una bara con labandiera sopra. Disegnano la bandiera,ciascuno quella della propria parte.

Ci sono state mostre rivali di disegni dibambini, a Tripoli, dove si venera il verde,e a Bengasi, dove si disegna il rosso nero everde con la stella e la mezza luna. A Ben-gasi, fogli su fogli pieni di bandiere, quelladella nuova Libia e accanto quelle dellaFrancia e degli Stati Uniti: più raramenteanche quella italiana. Altrettanti indizidelle predilezioni politiche di chi distri-buisce fogli e pastelli.

Se si potesse vedere davvero la guerracon gli occhi dei bambini, i grandi che gio-cano il gioco del potere e della guerra tre-merebbero. Ma i grandi usano i bambininelle loro guerre, tanto più nelle guerre ci-vili. Quella libica è una guerra civile. I bam-bini sono spinti in prima fila nelle oppostepropagande, esposti come le vittime piùpreziose, indotti a prendere parte.

Del resto, la terra, e l’Africa soprattutto,brulica di bambini-soldato, cui nessunomai restituirà l’infanzia. Eppure anche tut-ti questi bambini violati e, a volte, terribil-mente violatori, anche quando imparanoa distinguere il rumore di un kalashnikovda quello di una raffica antiaerea, di unagranata o di un razzo, anche quando san-no smontare e rimontare e tenere in pugnoordigni più grosse di loro, restano miste-riosamente bambini.

Leggete, nel servizio diPietro Del Re quiaccanto, la com-movente conclu-sione, con la bam-bina Sagida che hafatto un ultimo di-segno, per lui que-sta volta: un fiore.

Penso che i bam-bini tengano i loro se-greti per sé. Tenganoper sé la paura e l’orgo-glio, lo spavento e l’in-vidia per i bambini chevedono morire, il desi-derio spaventato di esse-re uccisi e di diventaremartiri. Non si può farchiudere gli occhi ai bam-bini, né fargli voltare la te-sta dall’altra parte, perchénon vedano. Non lo si puòfare nemmeno coi bambinifortunati e carezzati dellenostre case, che sentono lenotizie e capiscono e stannozitti. Tocca anche ai nostribambini,al telegiornale, sullaLibia, sulla Somalia. Non cre-diate che non le vedano, quelleimmagini. E se non ne parlano,se non ci chiedono niente, è beneche ce ne preoccupiamo.

Repubblica Nazionale

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

L’11 settembre 2001 arrivarono in trecento da ogni parte del Paesead annusare il più grande cratere che gli Stati Uniti avessero maiconosciuto. Facevano parte di unità speciali. Per tre mesi cercaronotra le macerie. Trovarono i feriti, i cadaveri e i loro resti. Si chiamavanoRed, Merlyn, Tuff, Abby. Erano labrador, golden retriever, dobermanne semplici meticci. Solo uno di loro non tornò a casa

Puntavano immobilise sentivano un vivo,si rotolavano a terrase invece là sottoc’era odore di morte

le storieDieci anni dopo

er Abby la vita era un gioco, un pu-pazzetto di gomma da tirare coi den-ti, anche se la vita era la sua e in quelgioco avrebbe potuta perderla. Abbyera una dei trecento angeli con la co-da, cani di ogni razza, colore, cocktaildi meticci assortiti con la coda che laFema, la Protezione civile america-na, la polizia di New York, le squadredi volontari venuti da tutta la nazio-ne, portarono ad annusare il piùgrande cratere che mai gli Stati Unitiavessero conosciuto, a cominciaredalla mattina dell’11 settembre 2001.

Lei veniva da un canile di San Fran-cisco, dove i cani figli di nessunoaspettano o che qualcuno li salvi o cheli mettano a dormire per sempre, eaveva il carattere giusto per il lavoroche l’attendeva. Esuberante e atten-ta, frenetica e giocosa, socievole e di-sposta a fare qualsiasi cosa pur di ri-cevere alla fine una pacca sulla testa,un «good dog, Abby», brava cagnolina,e il suo tiraemolla di gomma che face-va squiiiik squiiiik a morderlo.

L’addestratrice e amica, Debra To-sch della polizia di San Francisco, cheper tre anni l’aveva allenata dopoaverla scelta e salvata dal mattatoiocomunale, non l’aveva mai vista al-l’opera sulla scena di un disastro ve-ro. E comunque neppure la simula-zione più realistica avrebbe mai po-tuto approssimare quello che lasquadra venuta dalla California e lealtre unità di K-9, la sigla che con lasolita fretta americana suona abbre-viata come «canine», trovarono l’11settembre. Travi di acciaio ancora ro-venti e caverne immense sotto la-stroni di cemento, schegge di cristal-lo invisibili nascoste dentro crepaccisenza fondo e polvere ovunque me-scolata a cenere. E sotto il vulcano lapossibilità, l’ipotesi, l’illusione di tro-vare una persona in vita. «Non sape-vo se calzare Abby con le scarpine perproteggere le zampe o lasciarle libe-re, perché le scarpine le avrebberoevitato ferite e tagli, ma un cane congli stivali perde la presa e la sensibi-lità. Rischia di scivolare e precipitarein una di quelle voragini». Decise dilasciarla a zampe nude.

Il caos della buona volontà era to-tale e non soltanto l’addestratrice eraconfusa. Non tutti i cani, dobermanne labrador di ogni colore, golden re-triever dal sontuoso pelo dorato e fie-ri bastardoni di inestricabile dna, ca-ni d’acqua portoghesi e pastori diogni denominazione e confessione,tedeschi, australiani, malinois, ter-vuren, bernesi, erano bene addestra-ti. Molti si aggiravano tra i rottamisenza sapere esattamente che fare. Imigliori, quelli che da più anni ave-vano giocato al gioco della vita, sco-vando e salvando i volontari nascostitra macerie di case demolite spessoaccanto a carogne di animali per im-parare a distinguere fra il sentore del-la morte e l’alito della vita, conosce-vano il drill, la procedura. Sapevanopuntare immobili davanti al possibi-le pertugio dove giaceva un vivo, ro-tolarsi nella polvere se annusavano la

morte, abbaiare furiosamente, nelfrastuono dell’ora, per richiamarel’attenzione degli umani e far pipì nelpunto da marcare per altri. Altri face-vano soltanto un gran bordello, esat-tamente come i soccorritori, talvoltapiù generosi che organizzati.

Abby, di lontana e vaga ascenden-za labrador, aveva subito capito chearia tirava e si era messa a far coppiacon un partner serio, Sirius, un labra-dor color cioccolato, di pedigree im-peccabile. I due lavoravano in sinto-nia come vecchi poliziotti veterani.Sirius era più spavaldo, un po’ inco-sciente, un macho. Abby più cauta,attenta, ma tenace. Debra, la sua ad-destratrice, la vide spesso seguire ilmaschio e poi tornare sui suoi passiper ristudiare qualche pertugio ogroviglio che il frenetico compagnoaveva già sorpassato per correre ol-tre. Tutti e due, ignorando sempre erisolutamente gli altri cani che a vol-te li avvicinavano per annusarsi, co-noscersi, scambiarsi un po’ di odore,dimenticando di essere soccorritorie ricordandosi di essere cani.

Lavorarono per tre giorni e tre not-ti, con brevi sonnellini esausti e pau-se per bere e mangiare, sotto le lucispaventose delle celle fotoelettrichee in un rumore che alle loro orecchiedi cani doveva suonare come per unumano quello di una turbina di ae-reo. Sirius aveva imparato a distin-guere i cadaveri, che oltrepassavadopo avere fatto un cenno con il mu-so, o con una pisciatina, all’handler,all’accompagnatore, dai moribondi,che lasciava alla femmina, perché si

piantasse sul posto fino all’arrivo diuomini con piccozze e pale. Abby erapiù soggetta a malinconie e momen-ti di depressione, più facile a disidra-tarsi e ad avere diarree che il Centrod’emergenza veteranaria allestitoper curare i cani trattava. Alle depres-sioni e alle crisi di nervi provvedeva-no gli addestratori con il semplicetrucco di nascondersi sotto una la-stra e farsi trovare, per poter ricom-pensare gli animali con la carezza, il«good dog!» e il pupazzetto che face-va squiiiik squiiiiik. Le ricompenseche non avrebbero mai potuto o do-vuto dare se Abby e gli altri non leavessero meritate, per non rovinarli.

Insieme, in mezzo alla canea, Si-rius e Abby individuarono venti restiumani, in tre giorni, resti perché defi-nirli cadaveri sarebbe un’iperbole, ecinque persone ancora in vita, anchese tre di loro vivi non per molto. Un la-voro che neppure le microcamere, irilevatori radar di profondità e i sen-sori a infrarossi, spesso inutili nel ca-lor bianco di rovine che avrebbero ro-solato per settimane, seppero, indivi-

dualmente, fare. Senza i cani come lo-ro, senza quelle squadre di Sar, «Sear-ch and Rescue», cerca e salva, i 2.752morti dell’11 settembre a Manhattansarebbero stati anche di più.

Qualcuno deve dunque la propriavita a un altro, osceno attacco di de-menti, quello avvenuto il 19 aprile del1995 a Oklahoma City, quando laProtezione civile, i vigili del fuoco, gliagenti di polizia scoprirono di nonavere abbastanza cani per annusaretra le macerie del palazzo del gover-no e allora fu lanciato un programmadi addestramento sistematico di K-9,per avere a disposizione 200 squadredi angeli con la coda.

A Ground Zero lavorarono insiemeper tre giorni e poi altri battaglioni dicani presero il posto dei primi arriva-ti, esausti, nei turni e nella fatica di da-re almeno ai vivi la certezza che i loromorti fossero stati trovati e identifica-ti. Il padre di una ragazza di 26 anni,un’impiegata della Cantor Fitzgeraldrimasta anonima, invierà un assegnodi un milione di dollari soltanto allasezione di San Francisco, quella diAbby, per gratitudine. La figlia erauna dei morti scovati dai loro cani. Etre mesi più tardi, quando tutte le ri-cerche furono abbandonate, anchegli ultimi cani furono richiamati. Sen-za che avessero riportato ferite gravi,fratture, lesioni, infezioni.

Quasi un miracolo. Quasi. Perchénel pomeriggio del terzo giorno, il 13settembre, quando la speranza ditrovare ancora qualche superstiteera ormai la fiamma di una candeli-na, Sirius e Abby si lanciarono inun’ultima carica insieme. Comesempre fu il maschio a schizzare intesta, cane alfa sino in fondo, e a fer-marsi agitandosi davanti a un cre-paccio che il movimento delle ruspeaveva aperto involontariamente.Abby, prudente ma attenta, lo avevaseguito, affiancandolo e attirando unvigile del fuoco allo stremo. Cani euomini si erano affacciati sul buconero, sporgendosi per puntare occhi,nasi e torce nel buio sottostante. Illabbro di terriccio e di fango rappre-so sul bordo aveva ceduto. Un cane eun uomo erano piombati dentro in-sieme. Abby aveva abbandonatoogni cautela femminile. Sul bordodel cratere aveva cominciato a latra-re disperatamente per richiamare al-tri umani. Arrivarono i soccorsi. Col-leghi del vigile sprofondato si calaro-no nel buio e trovarono quattro me-tri sotto l’uomo con le gambe spezza-te, ma vivo, riportandolo alla superfi-cie. Sirius, il labrador colorcioccolato precipitato con lui, eramorto. Debra Tosch, l’amica di Abby,la dovette strappare via da quel cra-tere quasi a forza, lei che era semprecosì docile e ubbidiente. «Le diedi ilsuo giocattolino di gomma, per ri-compensarla di averci aiutato a sal-vare quel pompiere. Ma per la primavolta, lei lo rifiutò, non lo volle».

Sirius, il compagno di Abby, saràl’unico cane morto nell’operazionedi salvataggio. Neppure Abby era riu-scita a salvarlo. Anche gli angeli han-no i loro limiti.

Gli angeli con la codanell’inferno di Ground ZeroVITTORIO ZUCCONI

P

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ABBY & DEBRA Cane e addestratrice tra le macerie di Ground Zero (Foto tratte da Retrieved di Charlotte Dumas )

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 28 AGOSTO 2011

TuffÈ morta quest’anno nel Massachusetts, aveva sedici anni

Il giorno dopo gli attacchi, arrivò a Ground Zero con Lee Prentiss

all’una del pomeriggio. Nei suoi nove anni di carriera

ha partecipato a molte missioni soprattutto nei deserti

TaraVive ad Annapolis, nel Maryland, e ha undici anni

Il 12 settembre arrivò a Washington. Lavorò tra le macerie del Pentagono

per undici giorni. A luglio, quando andò in pensione, la proprietaria

Heather Roche ha detto: «Se potesse, lavorerebbe ancora»

Red

Ha quattordici anni e vive a Otis, in Colorado

Il 27 settembre 2001 arrivò a New York con Ann Wichmann:

lui lavorò con un addestratore durante i turni notturni,

la sua padrona di giorno con l’unità di crisi del Colorado

MerlynHa tredici anni e vive a Winthrop, nel Massachusetts

Arrivò a Ground Zero l’11 settembre e iniziò a lavorare tra le macerie

il giorno dopo, riuscendo a recuperare sei corpi senza vita

Da quando è andata in pensione ama andare a caccia

MoxieArrivò a New York da un canile di San Francisco insieme

alla sua addestratrice ed amica, l’agente di polizia Debra Tosch

che l’aveva salvata dal mattatoio comunale. La sua storia

viene raccontata da Vittorio Zucconi nell’articolo qui a fianco

Abby

Ha 13 anni e abita in Colorado, a Denver

Insieme alla sua proprietaria, Julie Noyes, ha fatto parte dell’unità

di crisi del Colorado. Arrivarono a New York il 24 settembre

e lavorarono con le squadre di soccorso per cinque giorni

HokeOggi ha tredici anni e vive a Cypress, nel Texas

Insieme alla sua padrona, Denise Corliss, arrivò a Ground Zero

il 17 settembre per essere subito arruolata nell’unità di crisi texana

Passò dieci giorni scavando tra i detriti delle Torri Gemelle

Bretagne

Ha tredici anni e vive a Vacaville, in California

Ha lavorato sul luogo degli attentati a New York per cinque giorni

In seguito ha partecipato alle ricerche di alcuni scalatori dispersi

nelle High Sierras della California, a più di 4.000 metri

OrionOggi ha 14 anni e vive a Highland, in California

Dopo dieci giorni a Ground Zero insieme a Sheila McKee,

continuò la sua carriera partecipando ai soccorsi

in un’altra tragedia americana: l’uragano Katrina

GuinnessHa 14 anni, vive a Franklin, Tennessee

L’11 settembre partecipò ai soccorsi nell’area del Pentagono:

«Ancora oggi appena intuisce che andiamo in missione

inizia a scodinzolare», racconta il suo proprietario Keith Lindley

Bailey

IN EDICOLA

11 settembre 2001-2011

è il titolo dell’Atlante

di Repubblica che dall’attacco

agli Stati Uniti all’uccisione

di Osama Bin Laden ricostruisce

il decennio del terrore

Attraverso i reportage,

le inchieste, le cronache

e le foto che sono diventate

testimonianze di un’epoca,

si ripercorrono i giorni del dolore,

della rabbia e delle guerre

L’Atlante sarà in edicola

dal 31 agosto a 4,90 euro

più il prezzo del quotidiano

Oggi ha dodici anni e vive ad Ashland, nel Missouri

Insieme al suo proprietario, Tom Andert, arrivò a New York

il giorno stesso dell’attentato alle Torri Gemelle con le prime unità

di crisi. Dal 12 settembre si mise a scavare senza sosta

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C’è chi crede che la tecnologia abbia atal punto alterato drasticamente ilpianeta visitabile — e l’abbia sac-cheggiato, miniaturizzato e ridottoai minimi termini, mettendo i viag-gi a portata di mouse in un monitor

acceso — che ormai non ci sia più bisogno di uscire dal-la propria camera. Associata a questa idea è l’opinionesecondo la quale più che essere secondaria la letteratu-ra di viaggio sia ormai diventata irrilevante per colpa diquella medesima tecnologia. Giacché possiamo sape-re tutto — ogni informazione può essere ottenuta facil-mente, componendo un numero di telefono — e con-siderato che il mondo è stato scandagliato in lungo e inlargo dai viaggiatori, a che cosa servirà mai un libro diviaggio? Dove mai ci si potrebbe recare su questo pia-neta per poter ancora annotare un’irrequieta lotta,un’appassionata battaglia, o anche solo per osservarefrenetiche scene di vita di massa? Di sicuro, ormai, si ègià scritto tutto.

Non si tratta di una nuova teoria. Nel 1972 in un arti-colo postmoderno pubblicato su una rivista blasé, inti-tolato Progetto di viaggio in Cina, la scrittrice america-na Susan Sontag, seduta nel suo appartamento di NewYork, rimuginava sulla Cina. La Sontag, che era una teo-rica del viaggio, più che una viaggiatrice, concluse il suoarticolo così: «Quasi certamente scriverò un libro sulmio viaggio in Cina prima di andarci».

A queste menti così arrendevoli e indolenti avrei dadare un suggerimento: provate la Mecca. Nel 1853, l’e-sploratore britannico Sir Richard Burton, dopo essersiprudentemente circonciso, aver imparato a parlarearabo in modo scorrevole, essersi procurato abiti daderviscio afgano e scelto il nome di Mirza Abdullah, sispinse fino alla città santa della Mecca, unico infedelestraordinariamente interessato in una massa di devotipellegrini. Burton pubblicò il resoconto del suo viaggioalcuni anni dopo, in tre volumi intitolati Viaggio a Me-dina e a La Mecca. L’ultimo non musulmano a fare unacosa del genere e a scriverne in proposito è stato ArthurJohn Wavell, appartenente a un’illustre famiglia bri-tannica militare. Veterano dell’esercito, coltivatore re-sidente a Mombasa, in Kenya, Wavell aveva sviluppatoun notevole interesse per l’Islam. Per approfondire lesue conoscenze, assunse le sembianze di un nativo diZanzibar in grado di parlare lo swahili, fece il pellegri-naggio e ne riferì in A Modern Pilgrim in Mecca (1912).Wavell fece quel viaggio nell’inverno del 1908-1909, ol-tre un secolo fa. [...]

A quanto ne so, nessuno ha mai calcato neppure leorme di Apsley Cherry-Garrard. Nell’inverno antarticodel 1912-1913, “Cherry” si recò in slitta in compagnia dialtri due uomini a studiare una colonia di pinguini im-peratori e a impossessarsi di qualche uovo. Il viaggio disei settimane — durante il quale i tre impavidi spinse-ro loro stessi sul ghiaccio le pesanti slitte — fu effettua-to nell’oscurità più assoluta, a 26 gradi sotto zero. I trefecero ritorno, farneticanti, allo stremo per la fame,prossimi alla morte. Che ve ne pare per un libro? […]

Chi si interroga su dove andrà a finire la letteratura diviaggio dovrebbe prendere in considerazione da doveè partita. Mentre scrivevo il mio libro Tao of Travel: En-lightenments from Lives on the Roadper circa due anninon ho fatto altro che recarmi alla biblioteca universi-taria più vicina, chiedere in prestito una dozzina di libridi viaggio alla volta, leggerli, prendere appunti, estra-polare i brani migliori e copiarli, quindi restituire i libriuna settimana dopo e continuare di questo passo. Do-po i primi trecento libri di viaggio letti, ho avuto qual-che dubbio su che cosa si intenda per libro di viaggio.Alcuni parlano di scampagnate eroiche, come quella diFelice Benuzzi, che fuggì da un campo britannico di pri-gionia per scalare il Monte Kenya. Altri di imprese tita-niche o marce della morte — come The Fearful Void(1974) di Geoffrey Moorhouse, che narra di un viaggiodi quattro mesi nel Sahara, quasi tutto a piedi. Altri libri,come Il cuore dell'Africa(1953) di Laurens van der Post,è meglio leggerli in abbinamento ad altri, appaiandol’opera di un viaggiatore con quella di uno scrittore, peresempio il cupo Viaggio senza mappa di Graham Gree-ne del 1936 e quello di sua cugina Barbara Greene di dueanni dopo intitolato Too Late to Turn Back, gioioso re-soconto dello stesso itinerario attraverso la Liberia. Op-pure Journey to the Western Isles of Scotland (1775) delDr. Johnson e Journal of a Tour to the Hebrides (1785) diBoswell. Alcuni libri di viaggi sono ricordi scritti a di-stanza di molto tempo dal viaggio vero e proprio, comela splendida opera in due volumi che ripercorre il viag-gio di Patrick Leigh Fermor attraverso l’Europa primadella guerra, Tempo di regali (1977) e Between theWoods and the Water (1986).

Esistono troppe categorie per poterle elencare tutte:pellegrinaggi, laici e religiosi; ricerche di luoghi di paceper rilassarsi, per stare con la persona amata o mangia-re cibi prelibati; viaggi alla scoperta del luogo nel qualebere il vino perfetto e consumare il piatto che meglio glisi abbina; oppure ancora il migliore centro benessereesistente al mondo. Molti libri — forse la maggior par-te — sono autobiografici, ma in maniera selettiva. Ave-

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

CULTURA*

D. H. LawrenceNella chiesa la meravigliosachiarezza della luce solareche diviene blu sembrava distillarmi entro se stessa

‘‘V.S. NaipaulMi chiedo se le consuetudinidi defecare degli indianinon siano la chiave delle loroattitudini e rassegnazione

‘‘

André GideL’assenza d’individualitàè quello che mi deprimee di cui soffro per gran partedel paesaggio

‘‘Elias CanettiNei souk il prezzo è un enigmaCome se al mondo ci fosseropiù generi di prezziche generi di persone

‘‘

re una cattiva esperienza in un viaggio è sicuramenteutile. «La letteratura è fatta delle sfortune altrui» scrisseuna volta V.S. Pritchett. «La maggior parte dei libri cherientrano nella letteratura di viaggio, invece, non hasuccesso a causa della costante fortuna dei suoi auto-ri».

Sussiste poi l’idea snob e falsa secondo cui i miglioririsultati nella letteratura di viaggio si ebbero negli anniTrenta, con le opere di Evelyn Waugh, Graham Greene,Peter Fleming, Robert Byron, Freya Stark e RebeccaWest. Di sicuro in quel periodo vi furono moltepliciviaggiatori intrepidi dal grandioso stile di prosa, ma lostile era tutto ciò che contava. Gli autori della letteratu-ra di viaggio di quell’epoca si cimentarono nel dar pro-va di tutta la loro peculiarità, nel ricavarsi un posto ditutto rilievo rispetto a uno sfondo generale primitivo, opericoloso, o ridicolo, ma in ogni caso solennementestraniero. Secondo me i più grandi viaggiatori di quel

Il favoloso mondo di Theroux

PAUL THEROUX

Ultimoviaggio

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Un mouse, un monitor, un buon indirizzo web. Nell’eradi Google Earth è questo l’unico modo per esplorareil pianeta? E inoltre: c’è ancora qualcosa da scoprire?Per lo scrittore americano, erede di Chatwin, sìA patto di usare come bussola le imprese eroiche dei secoliscorsi, e come mappe quelle delle nostre metropoli

Repubblica Nazionale

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periodo, e di quello di poco antecedente, furono gli an-tropologi sul campo Bronislaw Malinowski in NuovaGuinea, Margaret Mead a Samoa, Alfred Métraux a Ea-ster Island, e Claude Lévi-Strauss nell’entroterra delBrasile.

Sono dell’idea che il viaggio migliore e il libro di viag-gio migliore — antico o moderno che sia — debba es-sere una sorta di sconfinamento abbinato a un’auten-tica scoperta, che lascia sorpreso chi viaggia e riportanotizie del mondo esterno. Naturalmente aiuta essereun Capitano Cook, o uno Stanley, o un Knud Rasmus-sen nella Groenlandia artica, tutti autori di diari e reso-conti all’avanguardia di scoperte e viaggi. Ma ci sonoanche resoconti di viaggio più recenti, modesti e altret-tanto leggibili, che sanno infondere la precisa sensa-zione di essere stati in quel dato posto, come Cristo si èfermato a Ebolidi Carlo Levi (1945), Il leopardo delle ne-vi di Peter Matthiessen sul Nepal (1978), e Bad Land di

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 28 AGOSTO 2011

Marco PoloQuando partono i tartarinon portano seco bagagliCiascuno ha due fiaschidi pelle per il latte che bevono

‘‘Paul BowlesUn libro di viaggi è il conflittotra l’autore e il luogoNon importa chi vince,ma il racconto della battaglia

‘‘

Vladimir NabokovQuando il treno cambiavelocità assumendo un passodignitoso sento arrivareuna doppia eccitazione

‘‘Somerset MaughamDopotutto perchéuno scrittore non può otteneretutte le emozioni che vuoleda una stazione ferroviaria?

‘‘

Jonathan Raban sul Montana (1996). […]Quando all’inizio degli anni Sessanta sono arrivato

in Africa, mi sono reso immediatamente conto di quan-to deficitarie o comunque difettose fossero le idee chemi ero fatto in proposito — con Hemingway che in Ver-di colline d’Africa (1943) si atteggiava e farfugliavaswahili in cucina, oppure Van der Post che faceva di unasemplice gita nello Nyasaland (dove per caso sono an-dato ad abitare) una vera e propria impresa. Niente peresempio mi aveva preparato al clima che ho trovato: su-gli altopiani del Malawi, dove gli abitanti dei villaggi an-davano in giro indossando maglioni di lana, era moltopiù freddo di quanto avessi immaginato; e nell’estremosud del Lower River, dove si girava a petto nudo, ho pro-vato il caldo più intenso che mi sia capitato di dover af-frontare.

Benché in Africa abbia letto libri di viaggio, non mi ècapitato di scriverne uno. Sono rimasto colpito da FullTilt (1965), scritto da Dervla Murphy, una donna cheandò in bicicletta da sola dall’Europa all’India. Fu un’u-mile viaggiatrice, che si fermava in varie località e strin-geva amicizie. Poi è stato il turno di Un’area di tenebra(1964) di V.S. Naipaul, libro di viaggio con un tema pre-ciso, anzi due: il ritorno sentimentale alla propria terrae la delusione per la propria terra. Il libro di Naipaul con-teneva alcuni dialoghi convincenti. Essendo un ro-manziere, l’autore è riuscito a trasmettere l’idea di co-sa significhi davvero vivere in quel posto. Questa è unacaratteristica che avevo apprezzato anche nei libri diviaggio di Mark Twain e Jack London. L’arte del ro-manziere al servizio del viaggiatore. Tutto ciò lasciavaintendere che io stesso avrei potuto scrivere un libro co-sì e questa è l’origine del libro che ho scritto nel 1974 in-titolato Bazar Express: in treno attraverso l’Asia.

I miei viaggi in Europa e in Africa sono iniziati nel1963, quasi cinquant’anni fa. Il mondo era assai diffe-rente e così pure i libri di viaggio: alcuni di essi descri-vevano la Sfinge e il Taj Mahal. Negli anni Ottanta e No-vanta l’esplosione. E oggi chi si aggira intorno all’unicoscaffale di una libreria dedicato alla letteratura di viag-gio è colto quasi sicuramente da un attacco di sbadigli.

Ma allora, a che punto siamo? Naturalmente, moltiaspiranti scrittori di libri di viaggio stanno ricalcandolentamente e faticosamente le orme di coloro che giàhanno viaggiato prima di loro, per ripeterne o correg-gerne le impressioni. Una tendenza irritante di questilibri — e di ogni libro di viaggio in genere — è l’uso deltempo presente: «Mi trovo a bordo di un autobus inBhutan e la signora accanto a me sta fumando un siga-ro….». C’è una nuova frivolezza nei libri di viaggio, c’èdrammaticità fasulla, c’è un ovvio ricamare sulle situa-zioni, c’è una ricerca superficiale e superflua come te-ma di fondo. Questi libri non mi interessano affatto.Adoro invece leggere libri su viaggi effettivamente dif-ficili, ancora meglio se vere e proprie imprese. Questi li-bri, scritti con competenza e dettagli adeguati, trove-ranno sempre un loro pubblico, in quanto abbinano iviaggi alla soluzione dei problemi e alla sopravvivenza,e credo che questa sia la condizione umana per eccel-lenza. Quelle persone soffrono per noi.

Non molto tempo fa un nigeriano è stato fermatomentre scappava dalla Libia dove era stato assunto co-me meccanico nel settore petrolifero. La città dove vi-veva era sotto assedio, cadevano bombe ovunque, c’e-rano scontri a fuoco. Non essendogli stato consentitoandare in Italia, stava per essere rimpatriato in Nigeria,ma lui ha protestato dicendo: «Rimandatemi in Libia:preferisco tornare lì che a casa mia in Nigeria». Ciò miinduce a chiedermi come sia la Nigeria, mi spinge a par-tire, per visitarla. Più o meno nello stesso periodo, mil-le persone sono morte in un villaggio rurale della Costad’Avorio: la notizia ha fatto poco scalpore sulla stampaoccidentale, mentre se uno resta ferito a Gerusalemmela notizia arriva con grossi titoli sulle prime pagine. Mipiacerebbe proprio capire perché accadono queste co-se. Il fatto che vi siano molti meno corrispondenti dauna certa località rende ancor più necessario che il viag-giatore vi si rechi in qualità di testimone e reporter.

Il mondo non è piccolo come lo raffigura GoogleEarth. Penso all’area del Lower River in Malawi, all’hin-terland dell’Angola, al nord di Burma su cui niente è sta-to scritto e alla sua frontiera con il Nagaland. Più vicinoa noi, penso ad alcune zone d’Europa e degli Stati Uni-ti. Non conosco nessun libro, per esempio, che parlidella vita di tutti i giorni in un quartiere povero di Chi-cago, o della quotidianità impenetrabile di uno slum o,per quel che conta, dell’antropologia dei musulmaniche vivono in un depresso edificio di edilizia popolarenelle Midlands britanniche.

Il mondo è pieno di luoghi felici, ma questi non mi in-teressano affatto. Detesto le vacanze e gli alberghi dilusso, e non è per niente divertente leggere di ciò. Vo-glio leggere di luoghi travagliati, inaccessibili o inospi-tali; di città proibite e di strade secondarie. Finché esi-steranno questi, la letteratura di viaggio avrà valore.

Traduzione di Anna Bissanti © Paul Theroux 2011. All rights reserved

(Ha collaborato Gabriele Pantucci)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cantare, ovviamente, con lo stile sussurrato del “crooner”. E dipingereA ottantacinque da poco compiuti, l’italoamericano di famiglia povera,l’uomo di “I Left My Heart in San Francisco”, l’erede di The Voice

e l’amico di Ella Fitzgerald, va avanti per la sua strada.E nel suo studio di Manhattana “Repubblica” mostra le ultime fatiche: tanti quadri e un disco appena incisoDentro c’è anche un duetto con Amy Winehouse: “Una regina sconfitta dai demoni”

SPETTACOLI

sì, dopo Pisa, sono tornato in Calabria, so-no salito su quel monte e ho cantato ‘O so-le mio con quanta voce avevo in corpo.C’erano nuvole che oscuravano il cielo,ma quando ho cominciato a cantare unvento forte le ha spazzate via. È stata unagrande emozione, come se lo spirito dimio padre fosse lì a far risplendere il solein una giornata che minacciava pioggia».

La morte di Amy Winehouse l’ha scos-so. Anche Bennett ha avuto i suoi proble-

NEW YORK

Non resiste alla tentazionedi ritrarre quelle nuvole dipiombo che pesano sullametropoli. Impasta il nero

col bianco. Un’ora dopo sulla tela c’è tut-to il temporale e anche di più. Un taxi gial-lo, il parco, i passanti con gli ombrelli ro-vesciati dal vento. Tutto ciò che è incor-niciato dalla finestra dello studio che af-faccia su Central Park South e qualcosache è rimasto scolpito nella mente. Diquando lì dietro, sulla 52esima, la cittàfremeva di jazz, il mondo era un altro,New York era un sogno e gli artisti volava-no alto. Il pittore, che ha compiuto ottan-tacinque anni lo scorso 3 agosto, è TonyBennett, il più grande croonervivente, se-condo solo a Sinatra, che lo adorava.«Frank è sempre stato generoso con me»,racconta. «Prima ancora di conoscermidichiarò: “È il miglior cantante che abbiamai ascoltato”. Poi, nell’ultima intervi-sta, quando gli chiesero: “Tutti diconoche ascoltano la sua voce quando fannol’amore, lei invece chi ascolta?”, lui rispo-se: “Benedetto!”».

Il suo vero nome, Anthony DominickBenedetto, figlio di immigrati italiani, co-me The Voice. Bennett sistema il quadroappena terminato accanto a un ritratto diArmstrong. «Io li ho conosciuti tutti», dicesfilandosi il camice azzurro. «Ella Fitzge-rald era mia amica, capisce che privilegio?E Duke Ellington. Fu lui a dirmi: “Devisempre fare due cose, mai una sola”. Cosìricominciai a dipingere. L’altro consiglioche ho sempre seguito è di un nostro vici-no di casa: “Numero uno, non mollaremai; numero due, tieni sempre presenteil numero uno”». Per il suo compleanno,sessant’anni di carriera, quindiciGrammy e i due Emmy Awards, il Metro-politan gli dedica una serata, il 18 settem-bre, due giorni prima dell’uscita di Duet II,un album cantato a due voci con artisti co-me Michael Bublé, Andrea Bocelli, ArethaFranklin, Lady GaGa e Amy Winehouse,con la quale ha ripreso una versione diBody and Soul, l’ultima incisione ufficialedella cantante inglese prima della morte.«La serata al Metropolitan è un regalo cheNew York mi deve», esclama Bennett. «Unsogno che si realizza. Il mio povero fratel-lo, che ora non c’è più, quando aveva do-dici anni cantava arie di opera. Al Met lochiamavano il piccolo Caruso. Abbiamopreso tutto da nostro padre. Ci racconta-va che da ragazzo a Podàrgoni, il paesinonatale in Calabria, saliva sul monte Mar-rappà e cantava a squarciagola. Nel discoc’è un brano che canto con Andrea Bocel-li, Stranger in Paradise — l’abbiamo regi-strato a casa sua, a Pisa — che mi ha fattoripensare alle leggende su mio padre. Co-

mi con la droga. Nel 1979 la cocaina stavaper distruggerlo. «Era il periodo in cuisembrava che la mia musica non interes-sasse più a nessuno», dice con le lacrimeagli occhi. «Amy invece era all’apice delsuccesso, un talento enorme. Musical-mente era intuitiva come le grandi can-tanti di jazz. La sua scomparsa è una tra-gedia per il pop che in questi tempi stentaa ritrovare la grandezza di un tempo. Perme è stato un onore cantare con lei ed ero

GIUSEPPE VIDETTI

MICROFONOIn basso, Tony Bennett bebè

Sotto è il più piccolo

tra i fratellini. Nella foto grande

al microfono, lo “strumento”

più amato dai crooner

“Ho sempre fattodue cose alla volta”

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 28 AGOSTO 2011

convinto che avrebbe sconfitto i suoidemoni. Devolveremo i proventi dellevendite del brano a un’associazione be-nefica che ci ha indicato suo padre Mit-chell». È dinamico, ha una memoria diferro, l’energia di un quarantenne. Enon ha paura di confrontarsi con le nuo-ve generazioni. Ha flirtato con Mtv, hafraternizzato con i Red Hot Chili Pep-pers, ha inciso un cd con k.d. lang, nontrova i rapper insopportabili e pochi

mesi fa si è esibito con i Black Eyed Peas aCentral Park nel rituale concerto d’inizioestate. «Ma non dimentico mai chi sono eda dove vengo», precisa. «Sono un italoa-mericano, cresciuto negli Usa durante laGrande Depressione. I miei familiari miripetevano fino alla nausea: “Non parlareitaliano o non troverai mai un lavoro! Par-la inglese!” Nei momenti critici — mio pa-dre morì quand’ero ragazzino e lasciò miamadre sola con tre figli — mi facevo forza

lievo che il mondo dello spettacolo mi hadato è avere la possibilità di portare a ca-sa un po’ di soldi per farla smettere di la-vorare diciotto ore al giorno».

Non c’è musica nello studio dell’ultimogrande evergreen del Novecento, ma so-lo quadri, ritratti di Ellington e Billie Holi-day, paesaggi realizzati con la maestria diun puntinista. Alcuni sono finiti in galle-rie prestigiose, venduti anche a 250miladollari. È questa la second life di TonyBennett, il crooner che nel 1962 portò nel-la top ten I Left My Heart in San Francisco,il suo biglietto da visita, che trionfò allaCarnegie Hall. Che marciò da Selma aMontgomery a fianco di Harry Belafontee Martin Luther King, che incise conCount Basie e Bill Evans, che strinse la ma-no a Robert Kennedy e Bill Clinton. «Nonmi sono mai sentito meglio di adesso. Di-pingo quel che mi piace, canto quel chemi piace, nessuno mi obbliga a inciderecanzonacce per raggranellare soldi facili.Alla fine della guerra, quando frequentail’American Theatre School a New York

m’insegnarono che unartista non deve

mai scendere acompromessi. Ilmio mito è FredAstaire. Perchéha diffuso il gran-

de songbookamericano. Ger-

shwin e Porter nonsarebbero andati da

nessuna parte senza dilui. Fred disse: “Quando è

arrivato Elvis la buona musicaè morta”. E in un certo senso ave-

va ragione. La magica atmosfera chesi respirava nei club all’improvviso di-

ventò démodé, ma io negli stadi non misono mai sentito a mio agio, e neanche alMadison Square Garden. Appartengo al-la vecchia guardia, amico mio. Credo cheper durare devi fare bene quello che faisenza mai deragliare. Mi volevano al cine-ma, ma a me non piaceva. Cary Grant unavolta mi disse: “La cosa più noiosa che tipossa capitare è finire a Hollywood”. Ave-va ragione, sei ore per girare una scena,non lo sopporterei. Io sono diventato fa-moso per acclamazione popolare e vogliocantare per la gente, davanti alla gente, hobisogno di sentire il mio pubblico. Al ci-nema mi proponevano solo parti dagangster, perché ho la faccia da italiano, equindi da mafioso — secondo Hollywoodnaturalmente. Io odio gli stereotipi che ci-nema e televisione hanno costruito sugliitaloamericani. Odio Il padrino, odio I So-prano, odio Jersey Shore. Noi eravamogente umile, lavoratori, mica tutti mafio-si. Io sono italiano e mia madre si è rotta laschiena per farmi diventare americano.Ora, per favore, non datemi del mafioso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

PAESAGGI JAZZNell’altra pagina

da sinistra,

la famiglia

Bennett;

Tony ragazzino

alla pompa

di benzina

e insieme

alla madre

In questa pagina,

alcuni dipinti

di Bennett,

compreso

un ritratto

di Duke Ellington;

in basso,

con Amy

Winehouse

pensando che con il cognome che porta-vo, Benedetto, prima o poi me la sarei ca-vata. Ma c’erano giorni in cui a tavola nonc’era cibo a sufficienza. Cominciai a can-tare nelle riunioni di famiglia le canzoniche avevo imparato alla radio. Già alloraero bravissimo a dipingere, la mia passio-ne erano le caricature dei parenti».

Sognava l’Italia, lo arruolarono in unadivisione di stanza in Francia. «Un postoin prima fila davanti all’inferno», scrissenell’autobiografia The Good Life, pubbli-cata nel 1998. Tornò a casa con dozzine dischizzi delle cattedrali più belle che si eratrovato davanti, ma a New York la scenamusicale non era più la stessa. «Le grandiorchestre di Tommy Dorsey, Stan Ken-ton, Count Basie, Duke Ellington e WoodyHerman erano diventate troppo costose eil jazz cominciava a preferire i piccoligruppi di artisti come Miles Davis e DizzyGillespie. L’esplosione del rock’n’roll eraalle porte. Quanto a me, capii che avreiavuto delle chance nel mondo dello spet-tacolo quando partecipai a uno spettaco-lo per dilettanti in tv. Rosemary Clooney ePearl Bailey vennero a congratularsi e BobHope mi procurò il primo ingaggio, in unlocale del Greenwich Village, scelse il mionome d’arte e mi portò in tour con lui.Una volta al Village venne mia ma-dre. Si precipitò in camerinopreoccupatissima. “Qui dentro èpieno di gente strana, ho vistoanche degli omosessuali”, midisse, “stai attento”. Era unadonna adorabile, la suamorte mi ha spezzato ilcuore. Il primo grande sol-

“Un giorno chieseroa Sinatra: tuttiascoltano la sua vocequando fanno l’amore,lei chi ascolta?Rispose: Benedetto!”

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tel. 02.574941 - fax 02.57494860

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le tendenzeCoppie vincenti

Il trench di Bogart, lo smoking di Sean Connery,il blouson di James Dean. Grazie ai divi da semplicivestiti sono entrati nella storiatrasformandoi red carpet di Hollywood, Cannes e Veneziain passerelle. Ecco le icone dell’autunno 2011

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

Nati come semplici vestiti, una volta passatiper il red carpet o per il palcoscenico, sonodiventati icone. L’impermeabile diHumphrey Bogart, lo smoking di SeanConnery o il blouson di James Dean. Ama-ti e indossati in tutto il mondo, sono stati

imitati sino allo sfinimento. Desideratissimi da un pub-blico maschile di solito indifferente alle mode che, grazieal miraggio del cantante, attore o scrittore preferito, li havoluti con una determinazione superiore a quella di mo-gli e fidanzate. Molti abiti e accessori, attraverso le star diturno (più efficaci di qualsiasi pubblicità), sono entratinella storia e hanno fatto la fortuna delle aziende di abbi-gliamento. Ma quanto questi capi avrebbero avuto lo stes-so percorso di gloria se non ci fosse stato il traino di filmcome Il selvaggio, Lo spaccone o Casablanca?

La domanda è inevitabile sfogliando le immagini del li-bro Vestire da star, le icone dello stile maschile (Mondado-ri, 191 pagine, 29 euro) di Josh Sims. Il blouson, nato nel1937 in una fabbrica di abbigliamento di Manchester, erain origine la giacca dell’uniforme di postini, pompieri,agenti di polizia ma anche fattorini e parcheggiatori. Solonel 1955, grazie al fascino inquieto di James Dean in Gio-ventù Bruciata, è diventato un mito e, nel 2008, è tornatoalla ribalta con Daniel Craig in Quantum of Solace. Ancheil parka, realizzato nel corso della Seconda guerra mon-diale per difendere dal freddo le truppe dell’esercito ame-ricano, ha avuto tutt’altro percorso per merito di Rock

Hudson in Base artica Zebra. Ma è soprattutto il chiodo inpelle che, con il ribelle Marlon Brando de Il selvaggio, harivoluzionato l’immagine del duro. Sono Michael Cainein Corter e Humphrey Bogart in Casablanca ad avere resoimmortale il trench nato nell’Ottocento in Inghilterra perintuito di due pionieri dell’abbigliamento come JohnEmery e Thomas Burberry. Stesso discorso per la sempli-ce T-shirt che, grazie a Paul Newman ne Lo spaccone eMarlon Brando in Un tram che si chiama desiderio, è en-trata nel mito. E l’allegra camicia hawaiana, amatissimanegli anni Ottanta, è stata imitata in mille diverse fantasiedopo il Tom Selleck di Magnum PI.

Persino i raffinati abiti sartoriali, spesso, devono la lorocelebrità ad attori e personaggi noti. Negli anni TrentaClark Gable lanciò la giacca con i revers e i pantaloni a vi-ta alta, Sean Connery fu un indimenticabile James Bondcon uno degli smoking più imitati del cinema, mentreGregory Peck portò in trionfo lo stile classico con L’uomodal vestito grigio. Infine, gli accessori. Gli occhiali da soleRay-Ban aviator rinascono grazie al Top Gun Tom Cruisenel 1986. ll panama in paglia, copricapo preferito da MickJagger, ha conquistato tantissimi uomini e l’accendinoDunhill è diventato un oggetto da possedere grazie a quel-lo in oro di Elvis Presley. Per chi ama il look da star c’è ov-viamente anche un sito: cliccando su CoolSpotter e indi-cando l’attore preferito, vi verrà suggerito l’abbinamentocon marca, modello, maglie, scarpe e occhiali da sole.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

StarComele

GREGORY PECK / BOMBERRigorosamente in pelle, stile

aviatore, da Gant: con chiusura

a cerniera ricorda quello indossato

da Gregory Peck nel film

Cielo di fuoco (1949), uscito

nell’immediato dopoguerra

JOHN WAYNE / CACHEMIREBallantyne ripropone la maglia

a righe 100 per cento cachemire

Un classico dei pescatori bretoni,

indossata da John Wayne

nei panni del capitano Stuart

in Vento Selvaggio (1942)

TOM CRUISE / OCCHIALILo storico modello Ray-Ban

dalla forma a goccia con montatura

in metallo è stato rilanciato da Tom

Cruise alias il tenente Maverick

in Top Gun (1986)

DANIEL CRAIG / GIUBBOTTOInformale, casual, comodo:

il giubbino in nylon blu elettrico

con zip e tasche laterali Murphy

& Nye si ispira al blouson

di Daniel Craig-James Bond

in Quantum of Solace (2008)

IRENE MARIA SCALISE

Quando l’abitolo fa il cinema

CARY GRANT / PRINCIPE DI GALLESIn tela di lana scaldata

con toppe a contrasto

il Principe di Galles di L.B.M. 1911

ricorda i completi,

rigorosamente su misura,

indossati da Cary Grant

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 28 AGOSTO 2011

DAVID NIVEN/DOPPIOPETTOEleganza

di taglio classico,

da abbinare

a scarpa ovviamente

stringata

con inevitabile

fazzoletto bianco

nel taschino

“Stoffe pregiate e alta sartorial’uomo elegante non si fa notare”

L’intervista /Antonio De Matteis (Kiton)

PAUL NEWMAN / JEANSIn denim slim fit effetto usato il jeans

Diesel. Il pantalone dei cow boy è stato

consacrato dai western come

Furia selvaggia (1958), Hombre (1967)

e Butch Cassidy (1969) con Paul Newman

MICK JAGGER / PANAMAPanama Borsalino in paglia naturale

proveniente dall’Ecuador ricavata

dalle foglie di palma. È stato sulle teste

di molte star, come Mick Jagger

in questa foto di metà anni Sessanta

JAMES DEAN / GIUBBINOÈ di Refrigiwear il giubbotto

in nylon impermeabile color

antracite con la zip e i polsini

in tessuto. Simile a quello che

indossa con disinvoltura James

Dean in Gioventù Bruciata (1955)

MICHAEL DOUGLAS/MOCASSINOMocassino

in suede

con fondo

di gommini

di Car Shoe

Morbido

come

una pantofola

e per questo

scelto anche

da Michael

Douglas

in versione

casual

Èil simbolo dell’eleganza senza tempo, di una modamaschile che nasce dall’artigianalità. È l’abito fatto amano. Ago e filo, tra le abili mani dei sarti che lavora-

no per l’azienda di abbigliamento Kiton, riescono a dare vi-ta a creazioni pregiate. Ed è grazie a questa ricetta che An-tonio De Matteis, amministratore delegato di Kiton, puntaa una moda maschile artigianale e tutt’altro che global. Ten-denza, quella del ritorno all’alta sartoria maschile, confer-mata dal trentaquattresimo Congresso mondiale dei mae-stri sarti (tenutosi in agosto a Roma) che ha radunato più ditrecento artigiani e che, quest’anno, festeggia i cento anni.

La moda maschile spesso trae ispirazione dalle star del

cinema. Nel passato di Kiton ci sono stati clienti famosi?

«Certamente, anche noi negli anni Sessanta abbiamo ve-stito grandi personaggi ma abbiamo sempre rispettato il lo-ro desiderio di privacy. I vip che sono venuti da noi hannosempre voluto pagare il conto come fossero dei clienti nor-mali».

Come ha visto negli anni evolversi il gusto maschile?

«C’è molta più attenzione ai dettagli e al fit, allo stile del-le giacche e alla manualità del prodotto».

Quali sono i tessuti più amati e che andranno per la mag-

giore il prossimo inverno?

«Ci troviamo di fronte a una controtendenza rispetto agliultimi anni che avevano visto il trionfo di tessuti leggeri,molto simili tra estate e inverno. Ora stanno tornando lestoffe pesanti, spesso doppie, molto preziose. In particola-

re puntiamo a un cashmere vicuna double per giacche ecappotti. Ha la caratteristica di essere molto caldo ma nonpesa più di trecento grammi e trasforma la giacca maschilein un capo in grado di sostituire il giaccone invernale».

In un mondo global c’è un ritorno alla sartorialità?

«Noi abbiamo cercato di non farci prendere dal global alpunto che offriamo prodotti diversi in negozi diversi perchéquello che piace a un cliente della boutique di New York nonsarà lo stesso che piacerà a uno a Milano. Vince il gusto par-ticolare per ogni città, nel prodotto ma anche nell’immagi-ne del negozio».

Quali sono i dettagli dell’eleganza maschile?

«L’uomo elegante è quello che non si fa notare».Ci racconta le caratteristiche della giacca Kiton?

«È un’opera di alta sartoria, servono venticinque mani di-verse per realizzarla in ventuno ore e non se ne produconopiù di cento al giorno».

Quale tra i tanti attori del cinema del passato rappre-

senta per lei un’icona ineguagliabile?

«Totò». Kiton veste però anche le donne. Che tipo di moda pro-

ponete al femminile?

«Cerchiamo per lei un look adatto a chi accompagna unuomo come il nostro. Al lavoro in tailleur e anche fuori piut-tosto sobria».

(i. m. s.)

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Repubblica Nazionale

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Ingredienti per 6 persone

300 gr. Ragusano di 12 mesi300 gr. Ragusano di 3 mesi50 gr. ricotta100 gr. pecorino affettato sottile600 gr. melanzane perline500 gr. zucchine verdi400 gr. peperoni400 gr. cipollotti12 pomodorini cherry100 gr. confettura di azzeruole

Al contadinonon far sapere quant’è buono il ca-cio con le pere, diceva il proverbio. Come se incampagna non si conoscesse da tempo imme-more l’alchimia malandrina che scaturiscedall’incontro fra cacio e pere. La frutta è così: samascherarsi da golosa per correggere senza

sconvolgere, regalando armonia gustativa (e un supporto sa-lutare) in cambio di una presenza che altrimenti le sarebbenegata in gran parte del menù.

Se c’è un tempo dove la coesistenza diventa pressoché in-dispensabile è l’estate. Perché il caldo torrido costringe il cor-

po a chiedere sale per reintegrare quanto perso con la sudo-razione. E infatti le tavole estive si sbilanciano verso i cibi sa-lati a danno di quelli dolci (che attraggono soprattutto in in-verno, quando l’organismo chiede calorie anti-freddo a rapi-do utilizzo). L’altro meccanismo di ripristino dell’equilibrioidro-salino è la sete. La frutta soddisfa contemporaneamenteentrambe le esigenze, a patto di essere consumata senza ava-rizia, meglio ancora se svincolata dal solo appuntamento del-la colazione o dello spuntino di metà pomeriggio. Quello cheper secoli è stato prima un modello empirico di supporto alladigestione — le mele che sgrassano la carne di maiale, i frutti

rossi a temperare la ruvidezza della selvaggina — e poi un gio-co modaiolo, si è trasformato in un moderno “apriti sesamo”di creazioni e manipolazioni fantasmagoriche, sane e golose.

Nessun gastronomo negherà mai il godimento di una sele-zione di formaggi da sbocconcellare insieme ai frutti loro con-geniali. Cuochi come la catalana Carme Ruscalleda, tre stelleMichelin a un passo dal mare di San Pol de Mar, hanno addi-rittura trasformato la ricerca del perfetto abbinamento inpiatto-firma: latticini squisiti, in arrivo da micro-produzioniartigiane, sposati ciascuno con una diversa varietà di fruttadeclinata in modo gastronomico (centrifugata, disidratata,spremuta, essiccata, confit...)

Ma la frutta in versione “salata” è soprattutto figlia delle cu-cine del mondo, della loro scoperta da parte dell’arte culina-ria occidentale, dell’interazione con ricette e tradizioni soloapparentemente distanti. Il latte di mandorla fresca, che inItalia ha il sapore del mare di Sicilia e battezza il caffè shake-rato, in Polinesia irrora la cottura del pesce e in Tailandia fun-ge da brodo per le zuppe, mentre a Cuba l’ananas si offre ta-gliato a cubetti in insalata con l’aragosta cruda, e in Guate-mala la banana verde viene cotta insieme al pollo.

La nostra grotta di Alibabà si chiama pesce crudo. Appresie mandati a memoria gli insegnamenti dei grandi sushi ma-ster giapponesi, i migliori tra i cuochi di nuova generazionehanno superato le certezze del prosciutto e melone (o fichi)per cimentarsi con scampi e arance, ciliegie e baccalà, albi-cocche e ricci di mare. Che siate vacanzieri o lavorativi, rega-latevi una serata dedicata all’aperitivo didattico: da una par-te, salumi, pesci e formaggi tagliati a fettine, dall’altra toc-chetti di frutta mista. Provate e selezionate i tandem più ac-cattivanti. Un bicchiere di bianco o rosé a portata di mano vifarà dimenticare in un sorso quelli mal riusciti.

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

Non solo agrodolcei sapori Tempo d’estate, tempo di dissetarsi

Anche mangiando. Per questo accanto a carne,pesce (meglio se crudo) e formaggi si accostanoi migliori prodotti stagionali. Ma ormai è finital’era del semplice prosciutto e melone:gli chef si sono sbizzarriti, ecco cosa stanno inventando

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Quelli cheil cacio con le pereLICIA GRANELLO

Lavorare in un cutter le due stagionature di Ragusano

Aggiungere la ricotta, grigliare le verdure

Rivestire lo stampo di pecorino. Riempirlo a strati alterni

di verdure grigliate e formaggio lavorato. Infornare

per un quarto d’ora a 250°. Servire con le verdure grigliate,

un filo di extravergine e la confettura

LA R

ICET

TA

Ciccio Sultano

(Ristorante Il Duomo,

Ragusa) è il cuoco

che ha reinventato

la cucina siciliana,

alleggerendo

le preparazioni

e armonizzandola

con i profumi

dell’altro Mediterraneo

••••••••••

Anatraall’aranciaCarne rosolata,

cotta, tolta dalla pentola

Nel fondo di cottura,

burro, fecola, succo

e scorzette sbollentate

Laccare con caramello

all’arancia

Peschee crostaceiAstice, scampi

e gamberi scottati,

tagliati a tocchetti

e serviti con spinacini

freschi, germogli, fettine

di pesche bianche,

vinaigrette al limone

Risottodi fragolePreparazione-base

per il riso: cipolla, brodo

vegetale e vino bianco

Prima di fine cottura,

aggiungere fettine

di frutta e polpa frullata

con poca panna

Aristadi meleRosolatura sul fuoco

e poi mettere in forno

con aromi e poco vino

bianco. A metà tempo,

aggiungere fettine

di mela bagnate

col liquido di cottura

Frutta salataTerrina di Ragusano Dope terrina di azzeruole

Crostini di peree gorgonzolaPanna montata,

briciole di frutta secca,

dadi di pera e sedano,

da incorporare

nel formaggio

ammorbidito e spalmare

su pane scuro tostato

Repubblica Nazionale

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la quantità di mele

per uno stinco di maiale

1 kg.

le varietà di pere

conosciute nel mondo

5mila

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 28 AGOSTO 2011

Dall’anatra all’aranciaa cocco e i suoi fratelli

MARINO NIOLA

Ènata prima l’anatra o l’arancia? Per i francesi ladomanda non suona peregrina visto che nella lo-ro cucina il frutto appartiene al pennuto come

l’uovo alla gallina. Creatura e creatore del piatto sim-bolo della gastronomia d’oltralpe. E della sua prover-biale, talvolta supponente, ricercatezza. Tale da ispira-re battute memorabili come quella di John Belushi neiBlues Brothers. All’amico Matt “Guitar” Murphy che glichiede come si sta in carcere, il devastante Jake rispon-de: «Ah, un cesso. Facevano un’anatra all’aranciaschifosa» (nota per i cinefili: nella sceneggiatura origi-nale è una pepper steak).

Peccato che sulla grandeur culinaria dei nostri cugi-ni sventoli il gonfalone di Firenze. Perché dietro il ca-nard à l’orange si nasconde il toscanissimo “paparo almelarancio”, portato a Parigi da Caterina de’ Medici.Che sbarca nella capitale con una brigata di cuochi ita-liani, armati di mostarde di frutta, uve di Smirne, pino-li, agrumi e rivoluziona il mangiare di corte. Inventan-do di fatto la cucina francese.

Nel Belpaese, infatti, l’associazione tra carni, verdu-re e frutti risale almeno ad Apicio. Basti pensare che ilfegato deve il suo nome ai fichi, con i quali veniva cuci-nato d’habitude. E non è tutto, perché per renderlo dol-ce i Quiriti, e prima di loro i Greci, ingozzavano gli ani-mali di fichi maturi. Come dire che il foie gras è da sem-pre una ficata.

Questa antica contaminazione prova che la retro-cessione della frutta a fine pasto, o addirittura a sem-plice rompidigiuno, è molto recente. Non c’è bisognodi scomodare le cucine rinascimentali con i loro son-

tuosi contrappunti di ossimeli, agresti, mosti, datteri,pistacchi, canditi, acque di rosa, che fanno dei menuaristocratici dei madrigali da mangiare. Anche le ga-stronomie popolari mescolano da sempre pollame eprugne, maiale e mele, salsicce e passolina, selvagginae frutti di bosco, ceci e castagne. E perfino i più poveri,costretti a far le nozze coi fichi secchi, ci hanno lasciatoun patrimonio di fantasia combinatoria. Pasta con lesarde, scarole saltate, polpette, baccalà. Tutti piatti na-ti dal bisogno e miracolati dalla semplice aggiunta diuvetta e pinoli. Come i tortelli e i cappellacci lo sono dal-le mostarde e dagli amaretti. E le verze e i crauti dallemele renette.

Adesso la globalizzazione gastronomica, con annes-sa scoperta di cucine etniche ed esotiche, ci aiuta a ri-cordare delle cose che sapevamo ma avevamo dimen-ticato. Al punto che negli anni Ottanta il pollo alle man-dorle degli chef cantonesi sembrava una cosa dell’altromondo. E l’affluente risotto con le fragole un eserciziodi pop art culinaria. Ora che siamo cresciuti abbiamoimparato, si spera una volta per tutte, che non c’è ra-gione di distinguere dolce e salato più di quanta ce nesia nel separare frutta e verdura. Ma quante insalatonee centrifughe ci sono volute per riconoscere che papayae gamberetti non sono che i figli globish di prosciutto emelone. Che a loro volta erano i rampolli imborghesitidi due contadini doc come cacio e pere. E adesso migraverso le nostre tavole l’intera famiglia dei frutti tropica-li in cerca di fortuna. Cocco e i suoi fratelli.

Rombo chiodatocon pesche e albicoccheAndrea Migliaccio

(Olivo del Capri Palace, Capri)

offre il trancio spadellato,

pesche al forno,

la loro spuma, finocchi dorati

e composta di albicocche

Maialino croccante,polenta e pompelmoVittorio Fusari (La Dispensa,

Toribiato, Brescia) serve la carne

con insalata di pompelmo,

tortino di polenta mantecata

e ristretto profumato allo zenzero

Riccioladi pesche biancheDa Oliver Glowig

(Hotel Aldrovandi, Roma)

si gusta il carpaccio con bottarga,

erbe e dadi di pesche

e la loro polpa centrifugata,

montata con olio e limone

Frutta secca, limonee asparagi di marePaolo Lopriore (Il Canto

della Certosa di Maggiano, Siena)

accompagna la verdura

con granita di lattuga, noci, nocciole

e fettine di limone essiccato

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la ricetta fiorentina del paparo

all’arancia arriva in Francia

1540

le calorie per 100 grammi

di pesche

30

DOVE DORMIREAL TEATRO

Via Mayer 42

Tel. 0586-898705

Camera doppia da 100 euro

DOVE MANGIAREOSCAR

Via Franchini 78

Località Ardenza

Tel. 0586-501258

Chiuso lunedì, menù da 40 euro

DOVE COMPRAREMERCATO CENTRALE

Via del Cardinale

Tel. 0586-204611

LivornoDOVE DORMIREVILLA AL SOLE

Strada Pedecorvara 6

Tel. 0471-836446

DOVE MANGIAREL’MURIN OSTARIA

Strada Col Alt 105

Tel. 0471-831000

Con camere

Chiuso giovedì,

menù da 35 euro

DOVE COMPRARECAPRIZE PRODOTTI TIPICI

Strada Col Alt 96

Tel. 0471-836162

Corvara (BZ)DOVE DORMIREDOMUS DE JANAS

Via della Torre 24

Tel. 0782-2808

Camere da 110 euro, col. inclusa

DOVE MANGIARETELIS

Via Porto Frailis 1 (Tortolì)

Tel. 0782-667140

Sempre aperto in estate,

menù da 30 euro

DOVE COMPRAREMERCATO RIONALE

Via Repubblica

Tel. 0782-29523

Bari Sardo (Og)itinerari

Repubblica Nazionale

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2011

l’incontroClassici È l’ultimo paladino della tradizione

letteraria britannica, erede naturaledi Laurence Olivier fin da quando,figlio di un carpentiere e giovanissimo,entrò alla Royal Shakespeare

Company. Da allorail Bardo ha avuto un ruolocentrale nella sua vitadi attore e regista perché,dice, “sono ossessionatocome lui dal rapportotra realtà e finzione”

Ma oggi, a cinquant’anni, confessa: “Più che Amleto, mi sento un Peter Pan”

‘‘

Le storie sono fattedi grandi battaglie,un protagonistaimpavido, uominiche lottano senzaesclusione di colpi,un eroe che cade,si rialza e riscoprese stesso

tore che a partire dagli anni Novanta ciha fatto conoscere, o amare ancora dipiù, Molto rumore per nulla, Pene d’a-mor perdute, Come vi piace, Enrico V,Amleto. Certo, durante il nostro incontro— nella saletta riservata di un hotel ro-mano affacciato su Trinità dei Monti —il regista non sminuisce affatto l’impor-tanza che ha per lui il teatro classico. Mamostra la varietà e la vastità dei suoi in-teressi: «Sono nato e cresciuto a Belfast— spiega, con un pizzico di humour —piove molto nell’Irlanda del Nord, èsempre tutto grigio. Per questo in gio-ventù ho letto tanto, opere classiche, maanche fumetti, la Bibbia, romanzi d’av-ventura». Malgrado queste spruzzate dicultura pop, il suo aspetto, i suoi atteg-giamenti, trasudano classicismo: indos-sa un impeccabile completo blu chiaro,sorseggia tè, si esprime con una genti-lezza e una ricercatezza rare. Solo l’iro-nia molto british, che trapela a tratti daisuoi occhi chiari, stempera l’aura di se-rietà che lo accompagna.

Ma dopo i distinguo iniziali, quando sientra nel vivo della conversazione, si ar-riva finalmente al punto cruciale. Perchéil Bardo ha e ha avuto un ruolo così cen-trale, nella sua vita e nella sua carriera?«Ho un milione di motivi per amarlo. Acominciare dal fatto che mi piace man-tenere, a cinema o a teatro, un linguag-gio alto, colto, ma sempre accompagna-to da una sensazione di naturalezza.Proprio la grande operazione di Shake-speare: nobilitare la lingua ma senza for-zarla. In lui è sempre il linguaggio cheguida: il linguaggio è parte del personag-gio, è la sua essenza. E poi Shakespeare,proprio come me, era ossessionato dalrapporto tra ciò che è reale e ciò che gli at-tori sperimentano sul palcoscenico. Lagenuinità delle loro emozioni in con-fronto alla verità delle cose. Anche lui,come spesso è capitato a me, ricoprivatutti i ruoli, il suo è come l’eterno dram-ma di un autore che è anche regista e checome regista dirige se stesso come atto-re. Un bel labirinto». Quanto all’appealpopolare che queste opere di alta lette-ratura continuano ad avere, lo spiega co-sì: «Il pubblico ama assistere alle vicen-de tragiche di personaggi molto nobili,vuole vedere che anche loro attraversa-no le nostre stesse traversie. Gli ingre-dienti che amo di più in una storia sonosempre gli stessi: grandi battaglie, unprotagonista impavido, uomini che lot-tano senza esclusione di colpi. Un eroeche cade, si rialza e riscopre se stesso. So-no molto orgoglioso perché quando igiovani mi fermano per strada non cita-no solo la mia partecipazione come at-tore alla saga popolare Harry Potter, maanche a film come Enrico V».

E dall’amore per l’autore più grandediscende l’importanza che per Branaghhanno tutti i classici e il suo desiderio didivulgarli: «Sono profondi, ricchi, com-plessi. Se ne possono fare infinite versio-ni. Soprattutto, non deludono mai. Que-sto non significa che preferisco ignorareil mondo che mi circonda, che non seguola politica, che i sanguinosi conflitti in at-to non mi facciano indignare. È che l’u-niversalità dei classici mi suscita entu-siasmo e trovo naturale condividerlo».Ma non sono solo le opere del passato, adaffascinarlo. Che siano romanzi cult(Frankenstein) o libretti musicali (IlFlauto magico), fumetti (Thor) o pièceteatrali contemporanee (Sleuth), quasisempre, nel suo cinema, l’ispirazione ar-riva da testi in qualche modo letterari.«Io credo nel potere della parola scritta— spiega — resta il modo migliore perstimolare l’immaginazione. Per farleprendere il volo. Quando, come capitaspesso, i miei attori devono recitare da-vanti a uno schermo verde (nelle se-quenze in cui sono previsti effetti spe-ciali, ndr), chiedo loro di attingere a que-sta forza. Credo che tante mie pellicole

abbiano un legame stretto con i testi let-terari per evitare che l’estemporaneitàdelle immagini fini a se stesse prenda ilsopravvento. Spero che guardandoli lagente si prenda del tempo per compiereil proprio personale, poetico viaggio nelmondo dell’immaginazione».

Oltre alla passione per i testi letterari,e per la loro trasposizione sul palcosce-nico o sullo schermo, c’è un altro senti-mento forte che lo anima: l’adorazioneper Laurence Olivier. Immensa iconashakespeariana che proprio lui, Ken-neth, ha appena finito di interpretare nelfilm My Week with Marilyn di SimonCurtis, centrato sul rapporto tra l’attorescomparso nel 1989 e la Monroe (a in-carnarla è Michelle Williams) sul set de Ilprincipe e la ballerina.E quando parla diOlivier, il suo sguardo si illumina: «Devoammetterlo, il paragone con lui ha se-gnato tutta la mia vita artistica, un ono-re, ma anche una responsabilità. Quan-do qualcuno in quello che fa è stato il mi-gliore, quando ha stabilito un canone ir-raggiungibile, non può non diventare laprincipale fonte d’ispirazione. Il suoclassicismo è perfetto, scolpito, eppureinquieto. E indifferente al tempo».

Branagh e Olivier hanno anche un al-tro elemento in comune: l’avere amatoprimedonne dello spettacolo. Per SirLaurence fu la complessa e tormentatalove story con Vivien Leigh, l’eterna Ros-sella ’O Hara del cinema. Per Sir Kennethil matrimonio durato sette anni con Em-ma Thompson, presenza abituale neisuoi film (quando il legame finì lei era al-l’apice della carriera e lui commentò«Per vedere mia moglie dovevo chiama-re il suo agente»); poi il rapporto con l’at-tuale compagna di vita di Tim Burton,Helena Bonham Carter, con cui realizzòlo sfortunato Frankenstein; e infine il se-condo matrimonio con la scenografaLindsay Brunnock, conosciuta sul set diShackleton. Insomma, a lui il connubioarte-vita piace anche nei sentimenti.«Quando lavoro con un’attrice, che sia omeno la mia compagna, l’approccio è lostesso che avrei con un attore maschio.Con le interpreti femminili accentuo ilmio lato collaborativo, mi piace avere undialogo aperto. Non tento mai di sor-prenderle o di farle arrabbiare. Mi piac-ciono — al lavoro, e nella vita reale — ledonne che sono un misto di intelligenza,capacità tecniche e senso dell’umori-smo. E che abbiano una forte persona-lità». Forte, ma nello stesso tempo diver-sa da quella maschile. «Noi uomini lot-tiamo sempre per il potere, in qualsiasiambito sia. In Sleuth, ad esempio, ho rac-contato una forma comune di questaenergia primordiale, quella di due per-sonaggi che combattono per la stessa

femmina. Voi donne no, siete diverse:meno ossessionate dalla supremazia».

C’è però un’altra classica forma delpotere: quello dei soldi. Nel caso specifi-co, il business hollywoodiano. Un mon-do con cui Branagh sostiene di avere unconfronto tutto sommato sereno:«Quando lavoro con gli studios il proble-ma della libertà creativa non me lo pon-go, so in cosa mi infilo. Una quota dicompromesso può essere accettabile,anche se — è inevitabile — le discussio-ni operative con i manager sono vivaci.Sul piano personale, invece, quando so-no a Los Angeles per fare un film fremo,mi manca l’Europa, passo le serate suskype a dialogare con le persone a cui vo-glio bene». Nessuno snobismo, comun-que, verso quest’epoca cinematograficadi poche idee e molti rifacimenti. Infattidichiara di non essere contrario perprincipio ai sequel: «Vengo dal teatroclassico, in cui si ripropone Shakespea-re centinaia e centinaia di volte». Né ai re-make: «La tendenza a ripetere un’espe-rienza positiva è abbastanza naturale». Enemmeno al 3D, che del resto ha utiliz-zato in Thor: «Ma per farlo riuscire al me-glio bisogna investirci tempo, energie esoldi. E deve essere organico alla storia».

La parentesi hollywoodiana per ora èfinita. A favore di un progetto professio-nale molto diverso: il suo ritorno sui pal-coscenici di casa, a Belfast. «Debutto il 29settembre al Lyric Theatre, con una piè-ce intitolata The Painkiller: sarà bello es-sere di nuovo nella mia città, dove esat-tamente trent’anni fa è cominciata lamia carriera». Ma guai a chiedergli qual-cosa di più dettagliato, sui suoi pro-grammi futuri: «Con la mia superstizio-ne irlandese, so che niente è sicuro a que-sto mondo. Dare qualsiasi cosa perscontata è la peggiore forma di auto-fre-gatura».

‘‘

CLAUDIA MORGOGLIONE

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ROMA

La prima confessione èspiazzante: Kenneth Bra-nagh ha la sindrome di Pe-ter Pan. Altro che Shake-

speare. L’ultimo paladino della tradizio-ne letteraria britannica, il più appassio-nato divulgatore cinematografico e tea-trale dei classici, l’erede naturale di Lau-rence Olivier spiega subito che, nella vitareale, tra lui e gli eroi tragici creati dal Bar-do non c’è alcuna somiglianza. E che in-vece l’unica figura immaginaria in cui siidentifica è quella del ragazzino volanteche non vuole crescere, e che si ostina acombattere i pirati su un’Isola che nonc’è. «Ho cinquant’anni, ma mi sento an-cora come se ne avessi sette. Sono rima-sto il bambino che sedeva nei banchi discuola, avido di conoscere, di fare nuoveesperienze. Eternamente giovane. Co-me uomo, e come artista, la cosa che miinteressa davvero è lo stupore». E per fa-re un esempio concreto, cita un episodioche incarna la sua personale idea di feli-cità: «È successo durante un mio ultimosoggiorno hollywoodiano. Passeggiavoin dicembre su Rodeo Drive, la via dellusso e dello shopping, che in quel mo-mento era sorprendentemente vuota:c’era solo qualcuno che intonava unacanzoncina natalizia… È incredibile,ma quei pochi passi a piedi in uno sce-nario così insolito sono stati uno dei mo-menti più strani, entusiasmanti, scon-volgenti della mia esistenza».

Un inizio di conversazione che fa in-tuire come Branagh tenga a non restareintrappolato nella propria leggenda.Quella di enfant prodige dello spettaco-lo anglosassone, del figlio di un carpen-tiere approdato giovanissimo alla RoyalShakespeare Company, del regista e at-

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Kenneth Branagh

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