omenica sandro viola domenica 2007 di...

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DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica il fatto Theodor Herzl, messia tragico SANDRO VIOLA la memoria Io, l’ultima dama di compagnia la lettura EMILY DICKINSON e NADIA FUSINI cultura spettacoli Il libro dei desideri dei grandi del jazz CONCITA DE GREGORIO l’immagine L’Eur ovvero la fabbrica del potere CARLO BONINI ROMA D ice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Voglio dire, hai idea di che cosa significhi sentirti zuppo della puzza di qualcuno che si tira fuori l’affare e si svuota sulla tua testa, mentre hai l’ordine di startene immo- bile, con il tuo casco e la tua tuta, nel boccaporto di una curva, perché altrimenti, il lunedì, dicono che sei stato un irresponsabile a semina- re il panico tra chi sta guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A me è successo nello stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora il tanfo». Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come Filippo, trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di fantasia che proteggono le loro reali identità, note a Repubblica). Un «servo dei ser- vi dei servi», come gli cantano nelle piazze e negli stadi del nostro Pae- se. È un “celerino” della polizia di Stato, in servizio in un importante reparto mobile. Filippo scherza: «Almeno il piscio è ignifugo e non ti hanno “acceso” come Lorenzo». È successo a Genova, nel luglio di sei anni fa. In piazza Tommaseo. I giorni del G8. Una molotov. Lorenzo posa il boccale di birra che sta bevendo, si alza come un Cristo in cro- ce: «Qui. Mi è arrivata qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi più un cazzo, perché la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urla dei colleghi che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti per terra, pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per spe- gnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno». (segue nelle pagine successive) T irauna brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi con- tro poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risenti- mento per i fatti del G8: una brutta pagina, esplorata mal- volentieri, raccontata peggio, fra reticenze, mezze am- missioni e bruschi ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fa hanno devastato mezza Italia non mancavano i simpatizzanti dell’e- strema destra. In molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, ranco- re, astio, e, per usare una delle parole più amate delle curve “nere”, rabbia. E, dopo i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno mai esercitato, in vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sar- casticamente sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo, chi lavora quotidianamente a stretto contatto con la polizia non può che apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi risul- tati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la risoluzione (ad onta del chiacchiericcio dei salotti mediatici) di complessi casi criminali. Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da una parte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così democratica che ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né sporcarsi le mani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le asprezze della strada, la repressione, il manganello, l’immancabile (e pun- tualmente ricorrente nella storia patria) pallottola vagante. La stra- da. Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte e persino la sua lingua. (segue nelle pagine successive) Vita poliziotto da FOTO AGF FILIPPO CECCARELLI e MASSIMILIANO FUKSAS NICOLA CARACCIOLO e HORTENSE SERRISTORI Le mappe del Paradiso in Terra ALBERTO MANGUEL e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI L’erbario segreto di Emily Dickinson GIANCARLO DE CATALDO “Ma a noi nessuno chiede scusa” Ecco chi sono e cosa pensano i celerini nel mirino degli ultras Repubblica Nazionale

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  • DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    DomenicaLadi Repubblica

    il fatto

    Theodor Herzl, messia tragicoSANDRO VIOLA

    la memoria

    Io, l’ultima dama di compagnia

    la lettura

    EMILY DICKINSON e NADIA FUSINI

    cultura

    spettacoli

    Il libro dei desideri dei grandi del jazzCONCITA DE GREGORIO

    l’immagine

    L’Eur ovvero la fabbrica del potere

    CARLO BONINI

    ROMA

    Dice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Vogliodire, hai idea di che cosa significhi sentirti zuppo dellapuzza di qualcuno che si tira fuori l’affare e si svuotasulla tua testa, mentre hai l’ordine di startene immo-bile, con il tuo casco e la tua tuta, nel boccaporto di una curva, perchéaltrimenti, il lunedì, dicono che sei stato un irresponsabile a semina-re il panico tra chi sta guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A meè successo nello stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora iltanfo». Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come Filippo,trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di fantasia cheproteggono le loro reali identità, note a Repubblica). Un «servo dei ser-vi dei servi», come gli cantano nelle piazze e negli stadi del nostro Pae-se. È un “celerino” della polizia di Stato, in servizio in un importantereparto mobile. Filippo scherza: «Almeno il piscio è ignifugo e non tihanno “acceso” come Lorenzo». È successo a Genova, nel luglio di seianni fa. In piazza Tommaseo. I giorni del G8. Una molotov. Lorenzoposa il boccale di birra che sta bevendo, si alza come un Cristo in cro-ce: «Qui. Mi è arrivata qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi piùun cazzo, perché la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urladei colleghi che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti perterra, pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per spe-gnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno».

    (segue nelle pagine successive)

    Tirauna brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi con-tro poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risenti-mento per i fatti del G8: una brutta pagina, esplorata mal-volentieri, raccontata peggio, fra reticenze, mezze am-missioni e bruschi ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fahanno devastato mezza Italia non mancavano i simpatizzanti dell’e-strema destra. In molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, ranco-re, astio, e, per usare una delle parole più amate delle curve “nere”,rabbia. E, dopo i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno maiesercitato, in vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sar-casticamente sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo,chi lavora quotidianamente a stretto contatto con la polizia non puòche apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi risul-tati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la risoluzione (ad onta delchiacchiericcio dei salotti mediatici) di complessi casi criminali.

    Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da unaparte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così democraticache ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né sporcarsi lemani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le asprezzedella strada, la repressione, il manganello, l’immancabile (e pun-tualmente ricorrente nella storia patria) pallottola vagante. La stra-da. Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte e persino la sua lingua.

    (segue nelle pagine successive)

    Vitapoliziotto

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    FILIPPO CECCARELLI e MASSIMILIANO FUKSAS

    NICOLA CARACCIOLO e HORTENSE SERRISTORI

    Le mappe del Paradiso in TerraALBERTO MANGUEL e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

    L’erbario segreto di Emily Dickinson

    GIANCARLO DE CATALDO

    “Ma a noi nessuno chiede scusa”Ecco chi sono e cosa pensanoi celerini nel mirino degli ultras

    Repubblica Nazionale

  • la copertina

    32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007

    (segue dalla copertina)

    «Se, come me quel gior-no, hai il culo di indos-sare una tuta ignifuga enon perdi la testa, restivivo e con la pelle concui ti ha messo al mon-

    do tua madre. Se no, bene che ti vada, ti ri-trovi scuoiato dal calore».

    Antonio, Filippo e Lorenzo guadagnanomilletrecento euro netti al mese. Più o me-no il soldo di un operaio specializzato. Do-vrebbero lavorare sei giorni su sette, sei oreal giorno, ruotando su quattro turni (07-13; 13-19; 19-01; 01-07). Dovrebbero. Di-cono non vada mai così. «Lavori fino aquando c’è bisogno. Sai, forse, quando co-minci. Non sai mai quando stacchi». Perogni ora di straordinario, sei euro. La do-menica, dodici euro forfettari. «Che, in bu-sta paga, vedi dopo quattro o cinque me-si». Nessuno li ha costretti a infilarsi in unatuta da ordine pubblico. Né la fame, né l’a-nalfabetismo, né il luogo di nascita. DiceAntonio: «Se i ragazzi mi permettono, vistoche ho i capelli bianchi e ho cominciato nel‘79 nel reparto mobile di Padova, ti dico: di-mentica Pierpaolo Pasolini. I suoi celerininon esistono più. Quando ero un ragazzi-no, nei mezzi che ti portavano in piazza ein cui aspettavi non doveva volare una mo-sca e, se proprio trovavi qualcosa da legge-re, era qualche giornaletto porno. Oggi, neinostri Ducato, i colleghi ciattano sui por-tatili, leggono quotidiani, ascoltano l’i-pod. Non lo vuole capire nessuno. O forsefanno finta di non capirlo, perché fa co-modo per poterci dare allegramente deisubumani. Sia quando si tratta di fare unpo’ di scaricabarile nelle nostre gerarchie,sia quando la politica, tutta la politica, de-stra e sinistra, decide di coprire le provo-cazioni di chi ha deciso di fare bordello instrada. Respiriamo la stessa aria, abbiamogli stessi desideri e viviamo immersi negli

    prio nazista. Beh, dopo un servizio si attac-carono di brutto. E non ti sto a dire cosauscì dalle loro bocche. Dopo di allora, li hovisti difendersi e proteggersi in piazza co-me fratelli. Forse perché la strada gli avevamostrato il volto ipocrita della politica econ lei quello delle scelte di ordine pubbli-co». Racconta Antonio: «Accade che all’i-nizio di una settimana veniamo messi diservizio a una manifestazione di antagoni-sti e ce ne stiamo a fare da spettatori men-tre qualche decina di dementi fa la spesaproletaria in un supermercato. Accade in-fatti che l’ordine è quello di assistere im-mobili. Di non provarci neanche a farlismettere, perché la direttiva è non cederealle provocazioni. Io il furto lo chiamo rea-to e sarei anche un ufficiale di polizia giu-diziaria, ma tant’è. Non sono nato ieri. Be-ne, passano un paio di giorni e ci ritrovia-mo in piazza Montecitorio, con gli operaidel Sulcis. Hai presente, no? Ragazzi e pa-dri di famiglia che si fanno il culo duecen-to metri sotto terra, lasciandoci un pezzodi vita ogni giorno, per portare a casa me-no soldi del sottoscritto. Va tutto bene, fin-ché uno di questi operai che chiedevanoinutilmente di essere ricevuti nel palazzodella politica ha l’idea di scavalcare unadelle transenne che proteggono la zona dirispetto della piazza. Non l’avesse mai fat-to. Riceviamo immediatamente l’ordinedi caricare e facciamo a pezzi quei pove-retti. Uno dei miei, alla fine, piangeva. Si èavvicinato a uno degli operai più malcon-ci e gli ha dato il suo sacchetto con la robada mangiare. Volevano metterlo sotto pro-cesso disciplinare. Dopo una settimanacosì, pensi significhi qualcosa dire sono didestra o di sinistra?». Filippo annuisce:«Per non parlare di certi parlamentari. Ar-rivano alla testa dei cortei con il tesserinoin mano e capisci che sta per cominciareuna recita che umilia tutti. Ti racconto unastoria soltanto, l’ultima. Sgombero dei ru-meni a Roma. Li raccogliamo nelle barac-copoli e ne concentriamo un po’ nell’uffi-cio per il decoro urbano della Ama, a Pon-

    CARLO BONINI

    “Noi, servi dei servi dei servi”

    MANGANELLONon è il controverso “Tonfa”

    in dotazione ai carabinieri

    Di gomma flessibile, va usato

    in parallelo al terreno

    SCUDODi plastica trasparente,

    in due formati, può essere

    spezzato dal lancio di una

    bottiglia piena d’acqua

    CASCOIn fibra di vetro, con celata

    integrale. Va indossato

    all’ultimo momento

    utile prima delle cariche

    PISTOLAÈ la Beretta calibro nove

    per ventuno di ordinanza,

    custodita in una fondina

    speciale anti-disarmo

    “Dimenticate Pasolini, i suoi celerini non esistono più”Parlano tre poliziotti del reparto mobile, quelli che ognidomenica fronteggiano gli ultras nelle piazze e negli stadi

    stessi gran casini di quelli che ci troviamodi fronte nelle piazze e negli stadi. Il pro-blema dell’affitto. Quello della “terza setti-mana”. Quello di non far sembrare tuo fi-glio, a scuola, diverso dagli altri perché al-terna sempre le stesse due paia di scarpe.Quello di tua moglie che si è rotta di non ve-derti mai e un giorno la trovi con un altro».

    Lorenzo annuisce. Valle Giulia la cono-sce anche lui. Ma non per Pasolini, che nescriveva quando ancora non era nato. Per-ché ha mollato la facoltà di architettura alterzo anno, «con tutti trenta e lode». Cono-sce l’arabo. Ha studiato il Corano. È di de-stra. «Molto di destra». Come Filippo, lau-reato in scienze politiche, ex degli “Irridu-cibili”, gli ultras della Lazio. «Quando dissia mia madre che la facevo finita con la cur-va e che entravo in Polizia, credo sia stato ilgiorno più bello della sua vita. Peccato nonsapesse ancora che quel giorno sarebbestato il presupposto di quello più brutto.Successe la prima volta che le portai a casada lavare la mia tuta da ordine pubblico. Latirò fuori dal sacchetto e vide che la schie-na era imbrattata di scaracchi grandi comepizzette. Si mise a piangere senza avere ilcoraggio di chiedermi niente». Antoniopreferisce non dire per chi vota. La mettecosì: «Sono stato per qualche anno nellascorta di Enrico Berlinguer, ho protettoArafat in uno dei suoi viaggi a Roma, quan-do lo cercavano americani e israeliani e bi-sognava impedire che lo facessero sparire.In quel periodo mi davano della “guardiarossa”. Poi succede che, dopo il G8 di Ge-nova, chiacchiero con un giornalista di unquotidiano di sinistra. Gli racconto la miastoria e quello che penso e lui si scusa. Midice che non scriverà, perché ha bisogno diun celerino fascista. Un poliziotto e bastanon serviva».

    Eppure la politica c’entra. Eccome. Lo-renzo: «Nei reparti trovi di tutto. Dal co-munista, all’anarchico, a quello che votaDs o Forza Italia. E spesso ci si scazza. Unavolta mi capitò di trovarmi con due colle-ghi. Uno era ebreo. L’altro un vero e pro-

    Repubblica Nazionale

  • te Marconi, dietro il cinodromo, in attesadi trasferirli verso la frontiera. Arriva l’ono-revole di Rifondazione Francesco Carusoalla testa di un centinaio di ragazzi. Daquello che si capisce, vogliono impedirepacificamente il trasferimento dei rume-ni, bloccando l’uscita dei pullman. E la co-sa, politicamente, ci sta. Bene, sai che ac-cade? Dopo un po’ si avvicina a noi del re-parto e dice: “Ma che ve lo devo insegnareio come si fa? Caricate i rumeni sui vostrimezzi di ordine pubblico e fateli uscire daun altro ingresso. A quel punto noi ce neandiamo e siamo tutti contenti”. Siamotutti contenti? Chi è contento di partecipa-re a una farsa? I rumeni? Noi celerini? I ra-gazzi che sono venuti lì per impedire losgombero?».

    Antonio, Filippo, Lorenzo continuano araccontare, scendendo ogni volta un gra-dino in più nel loro microcosmo. Filippospiega che, una volta abbassata la visiera,l’elmo che indossano amplifica i rumoridella piazza o dello stadio, lasciandoti perore un senso di ottundimento. Che quel-l’insopportabile e indistinto rumore difondo, alla fine, ti fa concentrare soltantosul tuo respiro, trasformandolo in un’os-sessione acustica. Lorenzo dice che quan-do sei in strada «devi dimenticare chi sei,come ti hanno educato tuo padre e tua ma-dre, altrimenti diventi pazzo e reagiresticome non devi». Ma in fondo stanno gi-rando intorno a una verità che fanno faticaa esprimere, finché Filippo non la rovesciasul tavolo delle birre che hanno continua-to ad ammucchiarsi per tutta la sera, comefosse un rigurgito. «Sai che penso davvero?Che l’uomo sano è nella tuta da ordinepubblico. Che ti devo dire, forse pensoquesto perché è la mia unica via di uscitapsicologica. Forse perché l’unico momen-to in cui non mi sento solo in questo Paeseè quando divido la piazza e gli stadi con imiei colleghi». «È vero», dice ora Lorenzo.«Perché non può che essere solo chi è ser-vo dei servi dei servi. Ma servo della possi-bilità che questo Paese resti democratico.

    E vuoi la prova? Domenica 11 novembre, ilgiorno della morte di Sandri, ero allo stadioOlimpico. Sai quanti dei nostri sono finitiall’ospedale? Trentasette. A un certo pun-to ci sono venuti addosso con un’accetta.E, come è noto, avevamo l’ordine di nonreagire. Lunedì mattina, tutti hanno chie-sto scusa. Il capo dello Stato, il ministrodell’interno, il capo della polizia. Tuttihanno giustamente chiesto scusa alla fa-miglia di Sandri. Qualcuno ha chiesto scu-sa ai reparti celere che a Roma, Milano,Bergamo, Parma hanno sopportato di tut-to e di più? A quelli che sono finiti in ospe-dale, come un collega che ha quasi persoun occhio per una bomba carta? Non hachiesto scusa nessuno. Chiedere scusa ètroppo? Diciamo allora, qualcuno ha rin-graziato i “servi dei servi dei servi”? Nessu-no. E allora perché dovremmo meritare ri-spetto? Perché un ragazzino di quattordicianni dovrebbe capire che non sta benescrivere su un muro “uno, dieci, cento, mil-le Raciti”?».

    Antonio, Filippo e Lorenzo sono sicuriche i giorni della collera e dell’odio sonosolo all’inizio. E che la ferita di Genova e delG8, mai rimarginata, può solo tornare adaprirsi, ad infettarsi della linfa velenosadegli stadi. A Genova c’erano anche loro.Su Genova, Filippo sta scrivendo un ro-manzo: «È cominciato tutto lì. Anche senon so se troverò mai qualcuno che lo pub-blicherà. In fondo, a chi può interessare ilracconto di quei giorni attraverso gli occhidi un celerino? Non è importato a nessunoper sei anni. Perché dovrebbe importareoggi? Ma non me ne frega nulla se resteràsolo un manoscritto. Fa bene a me ricor-dare quei tre giorni in cui è stata sospesa lalegalità. E perché è accaduto. E come».

    Ora salutano. Lorenzo infila la mano nelcassetto della sua auto. Ne estrae due cd.«Tieni, te li regalo. Così sai cosa ascoltoquando mi infilo la tuta da ordine pubbli-co e quando me la tolgo tornando a casa damio figlio». Johann Sebastian Bach: Varia-zioni Goldberg, Gloria in excelsis Deo.

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    Gli sbirri e gli stradaiolidisperazioni allo specchio

    (segue dalla copertina)

    La strada, dove il poliziotto è coniglio o infame,e chi si maschera per spaccare tutto, sempli-cemente, stradaiolo. Ora, alla gente comune

    gli stradaioli fanno paura, e se ne chiede, puntual-mente, la repressione. E i brillanti successi dell’An-timafia lasciano del tutto indifferenti gli stradaioli.Non è che esistano due polizie. È la percezione del-la divisa che divide nettamente gli stradaioli dal re-sto del mondo. Non è più, come ai tempi della fa-mosa lettera di Pasolini per i fatti di Valle Giulia, unoscontro di classe. Quando si schierò dalla parte deiragazzi del Sud in divisa contro i figli dei borghesiche giocavano alla rivoluzione, Pasolini osò infran-gere, una volta per sempre, il tabù, caro alla sinistradel tempo, di una sbirraglia braccio armato della re-pressione politica. Nell’immaginario pre-sessan-tottino, il poliziotto era “questurino”, “piedipiatti”:figura che non autorizzava nessun trasporto, nes-suna epica. Erano, quelle parole di Pasolini che tan-to fecero discutere, uno schiaffone al conformismodei luoghi comuni e l’apertura di una linea di credi-to verso i volti, i corpi, i sentimenti di giovani chenon potevano, non dovevano essere mandati inguerra contro altri giovani. Parole pesanti: perchéprovenivano da un comunista e da un omosessua-le, in quanto tale violentemente perseguitato.

    Oggi, a quarant’anni di distanza, lo sbirro e il gio-vane stradaiolo sono un’altra volta l’uno di fronteall’altro. Un’altra volta giù nella strada. Dove ilconfronto è immediato e diretto e non ci sono me-diazioni che tengano. Non è più il tempo di ValleGiulia, ma i luoghi comuni esistono anche oggi. Sichiamano “pochi estremisti”, “emergenza ultrà” evia dicendo. Oggi la lettera nobile e ispirata delpoeta non farebbe nessun effetto. Nella violenza distrada, oggi, c’è qualcosa di diverso, a un tempo più

    atroce e amaro. Nella strada lo “sbirro” è la facciapiù visibile dello Stato. Nell’aggredire questa figu-ra, simbolica e reale, gli stradaioli ci scagliano con-tro una violenza che non è più ideologica, non è piùpolitica, ma ha il sapore di una profonda dispera-zione esistenziale. È un sapore di vite precarie,soffocate da un senso di esclusione che si fa ribel-lione, più simile al riot, alla sommossa spontanea,che a intenti sorretti da chissà quale disegno stra-tegico. Il tifo calcistico, la curva eletta a luogo di ela-borazione di un pensiero mitico, strutturato intor-no a poche parole d’ordine da difendere a ogni co-sto, la Bandiera, la Fede, l’Onore, tutto questo puòcostituire persino un alibi, ma non spiega né esau-risce l’ampiezza e la trasversalità del fenomeno.

    Il giovane poliziotto è, in questo momento, ora eadesso, l’incarnazione di un “sistema” che alimen-ta promesse vane sapendo di non poterle mante-nere. È il volto degli inafferrabili e lontani banchie-ri che decidono del nostro destino e, indifferenti al-la nostra carne viva, ci considerano “numeri”aziendali. È l’immigrato, un poverocristo che ha ilsolo torto di venire da un altro mondo e che accu-siamo di rubarci il lavoro. È l’arcigno guardianodella soglia di una felicità riservata agli altri, ai pre-destinati, ai fortunati, agli integrati. Per questo sicolpisce lo “sbirro”. Ora, poiché le strade non pos-sono diventare teatro di guerriglia, indagini e re-pressione devono fare il loro corso. Ma la repres-sione, da sola, non basta. Se non vogliamo conti-nuare a consolarci con la storiella dei “pochi faci-norosi” o, peggio, rassegnarci a perdere un corpo-so settore dei nostri giovani, li dobbiamo convin-cere, con i fatti, che lo Stato non è Molochdivoratore di innocenti, che non si può essere di-sperati né a vent’anni e nemmeno a trenta. Chedietro il volto del giovane poliziotto non si nascon-de la maschera del Nemico.

    GIANCARLO DE CATALDO

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    “Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desiderie viviamo immersi negli stessi casini di chi ci sta davanti:il problema dell’affitto, quello della terza settimana...”

    Repubblica Nazionale

  • il fattoPadri della patria

    Ai primi di dicembre le spoglie dell’unico nipotedel fondatore del sionismo verranno esumate a Washingtone ritumulate a Gerusalemme, vicino a quelle del nonnoDietro questa pietosa cerimonia c’è la storia tormentatadi una famiglia perseguitata dalla follia e dalla mortee un lungo conflitto dottrinale in seno all’ebraismo

    34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    una ventina d’anni: ma fu Herzl a trasformare unmovimento sin allora amorfo, senza basi dottri-narie e organizzative, in un’efficiente macchinapolitica e propagandistica (provvista d’una ban-ca e d’un giornale) che impose il dibattito sul sio-nismo all’attenzione dei governi europei. E il tut-to avvenne in appena un paio d’anni, dopo che

    nel 1895 era tornato a Vienna da Parigi, dov’erastato corrispondente del migliore giornale au-striaco, la Neue Freie Presse. E lì aveva assistitosgomento all’ondata antisemita scatenatasi colcaso Dreyfus.

    Ma nonostante i primi successi nella mobilita-zione sionista, il favore che incontravano i suoi ar-ticoli e gli sguardi ammirati che l’avvolgevano adogni comparsa in pubblico, Theodor Herzl era unuomo depresso, l’animo lacerato da un’infelicevita familiare. Il rapporto con sua moglie Julie Na-schauer, figlia d’un potente finanziere ebreo, erastato tempestoso sin dal viaggio di nozze nel 1889.Già in quei primi giorni la giovane donna aveva in-fatti rivelato una mancanza d’equilibrio, una la-bilità psichica che risalivano probabilmente aduna storia d’isteria familiare. Era soggetta a con-tinui sbalzi d’umore, a collere furibonde. Né que-sto era tutto, dato che anche i rapporti tra Julie e lamadre di Herzl — da questi fervidamente, anzimorbosamente amata — s’erano subito inveleni-ti, producendo una continua e snervante turbo-lenza nelle giornate della famiglia.

    Non è un caso che i biografi del fondatore delnuovo Israele si soffermino a lungo sullo sfondoviennese della sua vita. Primo, per la contiguitàcon alcuni dei personaggi di quella che chiamia-mo la Grande Vienna. Da giovanissimo, quandoi suoi genitori s’erano trasferiti da Budapest nel-la capitale austriaca, Herzl aveva infatti abitato alungo nella Praterstrasse, non lontano dallo stu-dio di Sigmund Freud e a due passi dalle abita-zioni di Arthur Schnitzler e Gustav Mahler. E insecondo luogo, perché Herzl — l’ebreo colto, raf-finato, che sogna di veder rappresentata una suacommedia al Burgtheater, ma con alle spalle undramma familiare — sembra uscito da un ro-manzo degli scrittori viennesi dell’epoca, Sch-nitzler soprattutto, ma anche Zweig o Roth. Cosìcome avrebbe potuto essere il padre o marito d’u-na paziente afflitta da crisi isteriche, e finita in cu-ra da un medico di cui in quegli anni stava cre-scendo la fama: il Dottor Freud.

    Il dramma familiare di Herzl non restò circo-scritto ai dissapori con la moglie, e col tempo si sa-rebbe trasformato in una tragedia. Tragedia cuiegli non assistette, perché morì nel 1904: dopo iprimi due congressi sionisti, quando ancora pen-sava d’accettare la proposta inglese d’uno Statodegli ebrei in Uganda. Il precipizio s’aprì infattimolto più tardi, e riguardò i suoi tre figli, Pauline,Hans e Trude. Rimasti orfani (la madre era mor-ta tre anni dopo Herzl) e affidati ai parenti Na-

    SANDRO VIOLA Fragilità psichicae due suicidi nell’arcodi due generazioni

    Herzl, messia dalla vita tragica

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    Quando a Vienna Theodor Herzl en-trava in un teatro, lungo le file dellaplatea si sentiva mormorare: «È arri-vata sua maestà». La frase era in par-te sarcastica. Essa alludeva infatti al-le accoglienze trionfali che le comu-

    nità ebraiche in Europa centrorientale, ma anchea Londra o a Istanbul, tributavano ad Herzl ognivolta che egli andava ad esporre il progetto d’unoJudenstaat, il nuovo Israele dove ricondurre gliebrei della diaspora. Ma in parte la frase riflettevaanche l’impressione che proveniva dall’aspettofisico del personaggio. In quella metà degli anniNovanta dell’Ottocento, ancora trentenne, Herzlera infatti un uomo di lineamenti perfetti, gran-de eleganza, l’incedere e i gesti d’un primo atto-re. Non solo: era benestante, sposato ad unadonna molto ricca, con alle spalle un largo suc-cesso come giornalista e qualche buon esito an-che come commediografo. Le donne, infatti, lorincorrevano.

    Il primo a sapere quale effetto producesserosugli astanti la sua figura e il suo carisma, era luistesso. Quando a Sofia un migliaio d’ebrei eranoandati ad accoglierlo alla stazione inneggiando a«Herzl, re d’Israele», e lo stesso era avvenuto conaltre comunità della diaspora, quelle invocazio-ni non l’avevano lasciato indifferente. Si tende adimenticarlo, ma le prime idee di Herzl sullo Sta-to ebraico non prevedevano né una vera formarepubblicana né un ordinamento democratico,e neppure una benché minima interferenza del-la religione nella vita sociale.

    Fervidi ammiratori dell’aristocrazia asburgi-ca, sua madre e lui covavano una vera e propriasmania di nobiltà. La madre Jeannette pretende-va di discendere dai re di Giudea, lui avrebbe vo-luto essere prima d’ogni altra cosa un aristocrati-co. Sognava d’essere un conte ricevuto all’Hof-burg da Francesco Giuseppe, si paragonava neisuoi diari a Bismarck e a Napoleone, e più tardiaveva immaginato che nello Judenstaat il poteresarebbe stato tenuto da una specie di Doge, e tra-smesso per via ereditaria.

    D’altronde, non fosse stato un sognatore,Herzl non sarebbe forse riuscito nella sua impre-sa di raccogliere attorno al progetto sionista gliebrei di Serbia, Bulgaria, Romania, Polonia, Rus-sia, stabilendo così le premesse della rinascitad’Israele. È vero infatti che l’idea e le speranzed’un ritorno a Sion circolavano in Europa già da

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    schauer, Pauline, Hans e Trude vissero infatti vi-te sciagurate, prendendo anche loro i tratti di cer-ti cupi personaggi della narrativa finis Austriae.Come la madre anche lei psichicamente fragile,tossicomane e in un continuo va e vieni dalle ca-se di cura, Pauline morì a Bordeaux nel 1930 peruna overdose di morfina. Hans, che a vent’annis’era convertito al cattolicesimo e per un certo pe-riodo era stato paziente di Freud, andò al funera-le della sorella e due giorni dopo si suicidò con uncolpo di pistola. Né andò meglio a Trude. Sposa-ta Neumann, per anni ricoverata in cliniche permalattie mentali e poi in un ospedale psichiatri-co, nel 1942 Trude venne portata via dai nazisticon tutti gli altri pazienti ebrei dell’ospedale e in-ternata nel campo di concentramento di There-sienstadt. Alcuni mesi dopo morì, e il suo cada-vere scomparve, forse cremato o forse in una fos-sa comune.

    Ma Trude aveva avuto un figlio, Stephan Neu-mann, nato nel 1918, l’unico nipote di TheodorHerzl. Ed è di costui che s’è molto parlato in que-ste settimane sulla stampa israeliana: i suoi restistanno infatti per essere traslati a Gerusalemme,sul monte Herzl, dove sono sepolti il leader sioni-sta, i suoi genitori, sua sorella e i figli Pauline eHans. I giornali parlano dell’evento perché inIsraele non c’è un pieno consenso, anzi c’è statoun dibattito con toni a volte aspri, sull’arrivo deiresti di Stephan Neumann. E il motivo della di-scussione è presto detto. Anche il figlio di TrudeHerzl-Neumann ebbe un destino fosco, e alla fi-ne tragico, come quello di sua madre e dei suoi zii.Una vita totalmente «contraria», come hanno so-stenuto due o tre rabbini, «ai valori dell’ebrai-smo».

    Quando i nazisti si preparavano all’Anschluss,poche settimane prima dell’invasione, Stephanvenne infatti inviato in Inghilterra da un vecchioamico di Herzl, David Wolfshon. Lì, più o menocome il protagonista d’un grande romanzo del-l’ultimo quindicennio, Austerlitz di George Se-bald, il diciottenne Neumann frequentò una pu-blic schoole poi l’università. Quindi cambiò il no-me divenendo Stephen Norman, si convertì alcristianesimo e infine partecipò all’ultimo scor-cio della guerra come ufficiale nell’esercito bri-tannico. Fu davvero anche lui, a Londra, un pa-ziente di Freud? Alcuni biografi di Herzl ne sonocerti, altri no. In ogni caso Norman morì suicidanel ‘46. Stava a Washington con un modesto in-carico all’ambasciata inglese, e una mattina sigettò dal Massachussets Avenue Bridge.

    Sono stati necessari perciò molti sforzi da par-te d’un paio d’organizzazioni sioniste america-ne, per far accettare in Israele (ai sionisti religio-si, agli ultra-ortodossi) la sepoltura di StephenNorman, convertito e suicida, vicino ai suoi pa-renti sul monte Herzl. La legge rabbinica proibi-sce infatti di seppellire i suicidi in un cimiteroebraico, e questo sembrava aver bloccato il pro-getto della Jewish American Society for HistoricPreservation, che per prima aveva pensato allatraslazione.

    Del resto, già l’anno scorso era stato anche lun-go e difficile convincere i rabbini ad autorizzarela sepoltura a Gerusalemme dei due figli di Herzl,Pauline e Hans, in due tombe vicine a quella delpadre. La tossicomania di Pauline, la conversio-ne e il suicidio di Hans davano una solida base al-le obiezioni degli ortodossi. Nel caso dei due figlic’erano però le volontà testamentarie del padre,che aveva scritto di voler essere seppellito nelloStato degli ebrei (il giorno che ce ne fosse statouno) accanto ai genitori, alla sorella e ai figli. Vo-lontà che alla fine hanno avuto la meglio sulleproteste degli oppositori.

    Resta che il leader del sionismo, assolutamen-te laico, non aveva fatto i conti con la pedanteria ei cavilli dei rabbini. La traslazione dei suoi genito-ri e della sorella sul monte Herzl avvenne infatti al-l’inizio dei Cinquanta: ma per i figli s’è dovutoaspettare il 2006, un altro mezzo secolo. Nessunameraviglia quindi che anche l’opposizione allasepoltura del nipote sia stata nei mesi scorsi mol-to dura, animosa. Del nipote di Herzl, gli ultraor-todossi — che del resto non hanno mai accettatoil sionismo — non volevano neppure sentir parla-re. Sinché uno degli esponenti della Jewish Ame-rican Society, Jerry Klinger, non ha pensato di pro-durre uno strano documento. Un referto clinicosostenuto da chi sa quali dati, secondo cui la fa-miglia di Theodor Herzl (lui stesso, i genitori e lamoglie) era affetta da turbe psichiche ereditarie:le turbe all’origine del suicidio di Stephen Nor-man. E così, con l’attestazione d’una patologiamentale del grande ispiratore del nuovo Israele,la diatriba s’è finalmente conclusa.

    Tra pochi giorni il figlio di Trude Herzl-Neu-mann avrà infatti una tomba vicina a quelle inmarmo chiaro con intorno arbusti d’alloro in cuiriposano i bisnonni e gli zii, non lontano da quel-la del famoso nonno. Del quale — perché fossepossibile traslare a Gerusalemme i resti dellosventurato nipote —, s’è dovuto insinuare chenon fosse proprio a posto con la testa.

    Dopo essersi convertitoStephen Normansi tolse la vita a 28 anni

    LA DINASTIAQui accanto a sinistra, quattro ritratti di Theodor Herzl:su una cartolina postale; in una caricatura dell’epoca,mentre piange sulle rovine di Gerusalemme; e su un paiodi francobolli israeliani. Nelle altre immagini, da sinistra:due appunti di Herzl con l’abbozzo della bandieradi un futuro Stato ebraico; Herzl nel 1898, al centrodi una delegazione sionista a bordo di una nave;qui sotto, con i suoi tre figli Hans, Trude e Pauline,in una foto che risale probabilmente al 1897

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  • l’immagine36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    Autentiche meraviglie ri-posano di solito nelle can-tine. E tanto più a Roma, laCittà Eterna, dove la me-moria ammuffita dell’i-pogeo nasconde tesori di

    sorprendente e inusitato valore, come seil buio e l’oblio, il disordine della storia ela damnatio della memoria si fosseropreoccupati di conservare certe testimo-nianze con l’occulto scopo di riportarlealla luce nel momento opportuno...

    In breve e con la ragionevole promes-sa, dato anche l’argomento, di misurared’ora in poi il tasso di retorica: negli scan-tinati del Palazzo della civiltà italiana, ilcosiddetto “Colosseo quadrato”, e inquelli del Palazzo degli uffici, dove ha se-de Eur Spa, sono stati ritrovati diversi ri-marchevoli materiali tra cui delle fotostupende. O meglio: per iniziativa delprofessor Mauro Miccio, che nella suapur varia carriera di teorico e managerdella comunicazione mai avrebbe so-spettato di trasformarsi in una specie diarcheologo della sua azienda oltre chedella zona in cui lavora, sono state re-staurate delle lastre fotografiche, inveropiuttosto malridotte, che adesso offronoallo sguardo visioni degne di un Cartier-Bresson. Mentre invece sono istantaneeanonime, trovatelle, probabilmenteprodotte nel corso di sopralluoghi peresigenze di lavoro.

    Ebbene: queste immagini non solocantano, ma in qualche modo riscattanole stesse ragioni che le avevano precipita-te sotto terra, nell’abbandono e nella ver-gogna. Rappresentano infatti i lavori dicostruzione dell’E42, il vasto insedia-mento che l’architettura del regime mus-soliniano aveva in programma per de-gnamente celebrare, con un’esposizio-ne internazionale che poi mai si fece, ivent’anni della marcia su Roma; e la glo-ria pregiudiziale del fascismo; e il genioitalico ritornato sui «colli fatali» dell’Ur-be; e l’attitudine bellica di un popolo cheil Duce qualificava «di poeti di artisti dieroi di santi di pensatori di scienziati dinavigatori di trasmigratori» come anco-ra si legge sul frontone di quel gigantesco

    cubo razionalista che perfino nel nume-ro dei piani (sei) e delle arcate (nove) sem-bra dovesse riflettere, conteggiandole, lelettere di Benito e di Mussolini.

    Ebbene, in cima a quel monumentoinconcluso, nel vuoto della campagnaassolata si staglia oggi la sagoma di unoperaio che ha la grazia raccolta di unacrobata. In un’altra foto si vede una filadi lavoratori che a forza di braccia tiranoun cavo con le stesse facce, gli stessisguardi e la stessa concentrazione di cer-te icone del New Deal. Potenza. Equili-brio. Geometria. Poesia. Operai a caval-cioni sull’arco che Adalberto Libera nonha ancora appoggiato al vertice del Pa-lazzo dei congressi: ma in bilico su unastruttura appoggiata a dei tubi Innocen-ti c’è anche l’ingegnere con il suo cappel-lo Borsalino, ed è come se danzasse tra fi-li e carrucole, sotto un cielo bianchissi-mo, come una specie di figura di Chagall.

    Sono figurazioni astratte e insiemeumanissime presenze che a settant’annidi distanza finiscono per purificare quel-la pazza avventura architettonica che ful’E42. Il pasto dei manovali, il silenzio chesi coglie su quella scena, le scarpe impol-verate in primo piano, il grappolo d’uva,

    le pietre spezzate, tutto sembra anticipa-re le inquadrature del neorealismo. Dueragazzini a bocconi sui mosaici di stilekitsch imperiale, una scopa e un secchiodi calce riabilitano l’onore del lavoro e infondo della realtà di fronte alla dissenna-ta superbia di quelle forme.

    Memorie pesanti che recuperano dicolpo la loro leggerezza. Viene da pensa-re che forse è stato davvero un bene chequelle lastre fotografiche, quei pezzi divetro alla gelatina ai sali d’argento sianorimaste sepolte così a lungo, pure sfidan-do umidità, crinature, fratture, graffi, im-pronte, abrasioni; ma anche fastidio, ver-gogna, mancanza di senso.

    Un umile scalpellino è alle prese conun marmoreo bassorilievo, apoteosi dellavoro e della santità, pare di capire, alpiano di sopra; mentre al piano terra, agrandezza naturale, si santifica la po-tenza militare, legionari con casco e fu-cile a tracolla, bandiere, labari, insegne,gagliardetti, donne supplicanti un con-dottiero a cavallo, anche se in piedi, epure con elmetto, un braccio protesonel saluto romano, l’altro con il pugnoappoggiato minacciosamente sui fian-chi. E l’omino vero che nell’umile foto di

    lavoro se ne sta lì sotto, a rifinire quellabizzarra creazione che presto verrà tra-gicamente contraddetta dagli eventi —e ciò che resta di quel tempo è la sua ca-micia, il suo berretto, la pacifica sua fati-ca. Postuma, per giunta, eppure o forseproprio per questo tale da ristabilire unaragionevole gerarchia di ricordi, di valo-ri e di segni, e proprio nel cuore del so-gno mattoide dell’E42.

    Fu il più illuminato dei gerarchi, Giu-seppe Bottai, a spingere Mussolini suquella strada già nel 1935, in vista delventennale del regime. Il Duce scelsel’area delle Tre Fontane, e subito fu en-tusiasta del progetto, che interessò i mi-gliori architetti su piazza. Ma già allora ilcapo del fascismo aveva troppe cose acui pensare, né alcuno che temperassela sua conclamata, patologica megalo-mania. Ancora oggi si fatica a capire co-sa veramente significasse quel progettoper Mussolini, se non il tentativo, forse,di regolare personalmente i suoi conticon Roma, quale essa era e ancor piùquale lui la sentiva: scettica, pittoresca,disordinata, opportunista, irridente.Così si proclamò demiurgo della fanto-matica “Terza Roma”, dopo quella dei

    Cesari e dei Papi, convincendosi dellanecessità di allestire una bianca sceno-grafia per i riti totalitari.

    Sul piano estetico puntò sull’impe-rium, sul grandioso e sul moderno, pro-ponendo l’E42 come «l’ostentazioneconsapevole e matura della civiltà italia-na, romana e fascista in tutti i suoi aspet-ti», come ha sintetizzato Vittorio Vidotto(Roma contemporanea, Laterza, 2006).Non era previsto che qualcuno potesseopporsi a quest’idea.

    «La Terza Roma — venne inciso sull’e-dificio nei cui scantinati finirono le foto— si dilaterà sopra altri colli lungo le rivedel fiume sacro sino alle spiagge del Tir-reno». Ma in questa pur legittima indica-zione urbanistica, almeno sulla carta, en-trò di tutto: teatri, palazzi, musei, padi-glioni (uno da dedicare al fratello defun-to di Mussolini), archi di trionfo in metal-lo, elementi di classicismo onirico e ci-miteriale, statue di uomini nudi chetenevano a freno cavalli o si strusciavanoaddosso a leoni con la lingua penzolante.Ma soprattutto guerrieri, armi, eroismo.

    Si è poi capito, purtroppo, dove butta-va questa impostazione. Ora si com-prende bene come quelle frenesie, quel-

    FILIPPO CECCARELLI

    IL PROGETTO

    Nel 2005 dai sotterranei del Palazzodegli uffici, dove ha sede l’Eur Spa,sono emersi sedicimila scatti fotograficimai visti sulla storia dell’ E42. Il progettodi restauro, voluto dall’Eur Spa e dalla Sovrintendenza ai beni culturalidel Lazio, di oltre tremila negativisu lastre di vetro sarà presentatoa Venezia durante il Salone dei beni e delle attività culturali dal 29 novembreal primo dicembre. Dal 12 al 20 gennaio2008 all’Eur sarà realizzata una mostracon una selezione di trecento immaginidal titolo Istantanee di vita

    Eur, la fabbrica del potere

    Quando Bottaiconvinse Mussolinia celebrarecon un grandeprogetto il ventennaledel fascismo, il Duceentusiasta scelsel’area delle TreFontane. Lì sarebbesorto l’E42,il quartiere simbolodella “Terza Roma”Il regime cadde,quei palazzi rimaseroDai loro scantinatisono saltate fuorimigliaia di fotoche documentanouna storia italiana

    Cantieri

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    le forme, quei materiali, tutto insommaera coerente con un potere che stava an-dando a rotta di collo verso la sua autodi-struzione. La guerra prima rallentò i can-tieri, poi tra mille vicissitudini abban-donò l’Eur al suo destino, che per la veritàebbe poi a rivelarsi meno drammaticodel previsto, dal momento che il quartie-re resuscitò dalla sua desolazione di ster-pi e travertino divenendo ricca zona resi-denziale, sede di ministeri, impiantisportivi, set cinematografici e luna park;e al giorno d’oggi anche così lodevol-mente interessata alla sua storia, l’ex En-te Eur ora Eur Spa, da affrontare onerosilavori di restauro figurativo.

    Ma nel frattempo, e quindi nell’imme-diato dopoguerra, il Palazzo degli uffici,da cui oggi il professor Miccio governaagevolmente seduto su una preziosascrivania anni Trenta pure scovata incantina e risanata, si trovò a ospitare cen-tinaia di esuli giuliano-dalmati. Per cuisottoterra, chissà come, finirono anchedelle foto di quella stagione, e ce n’è unadi bimbe che giocano e saltano e ballanocon i loro grembiulini nei viali deserti. Inquella Roma, in quell’Italia così povera einsieme così ricca di speranza.

    L’Eur è un’eccezione, una contraddizio-ne irripetibile nella storia di Roma. Èun progetto monumentale che ricor-

    da un passato pesante ma allo stesso tempo èun luogo di forte dinamismo, trasformazione,vitalità. Lo anima una tensione alla modernitàche non ha mai smesso di agire. Se arriva trop-po tardi per l’Esposizione universale del 1942per cui era stato pensato (scoppia la Secondaguerra e tutto va all’aria), arriva troppo prestorispetto alla sensibilità comune: la sua proie-zione avveniristica scardina schemi urbanisti-ci e consuetudini estetiche. I migliori architet-ti che vengono chiamati a lavorarci hannoesperienze internazionali, una cultura forma-ta nel mondo. Si trattava di ricostruire il Paese,circolava entusiasmo e ottimismo, si era pas-sati per l’esperienza del Futurismo e della suafiducia nel progresso, nelle tecnologie, nellacomunicazione. Nasceva il mito del piroscafo,dell’aereo, dei viaggi.

    Al di là della propaganda, delle tentazioni au-tocelebrative e monumentali, il capolavoro ur-banistico di Marcello Piacentini porta in sé igermi di un’accoglienza del nuovo, di uno spe-rimentalismo fino ad allora mai praticato. Lodimostra il fatto che quando la guerra inter-rompe il sogno dell’Esposizione (che è il tenta-tivo dell’Italia di allinearsi all’Occidente piùavanzato) e molti edifici rimangono incompiu-ti e i cantieri aperti, l’Eur continua a produrreidee e ricostruzioni. All’interno del quartierecompletato nel dopoguerra, sono nate alcunedelle architetture più significative di Roma,opere che uniscono classico e moderno (ba-rocco e international italian style) edifici distraordinario valore simbolico, spesso ricon-ducibili all’orizzonte metafisico di De Chirico:il Palazzo della civiltà italiana di Guerrini, LaPadula e Romano; il Palazzo dei ricevimenti edei congressi di Adalberto Libera; il Palazzo de-gli uffici di Gaetano Minnucci; i musei e il tea-tro sulla piazza imperiale cui collaborarono Fa-riello, Muratori, Quaroni, Moretti e altri; l’edi-ficio delle Poste di Banfi, Belgioioso, Peressut-ti e Rogers; il Museo della civiltà romana diAschieri, Bernardini e Pascoletti.

    Non è un caso che l’Eur anche per Fellini siastato l’unico set in grado di competere con Ci-necittà. E il cinema, che tanto rappresentò peril fascismo in termini di modernità e comuni-cazione oltre che di propaganda, è uno spiritoche si aggira ancora nel quartiere. Ne interpre-ta lo spirito e incarna quello che mai dovrem-mo dimenticare: che la città vive in un metabo-lismo continuo. Roma in particolare incarnaquesta prospettiva, ha un passato sedimentatoche spinge sempre verso il dopo.

    Tra gli edifici della ricostruzione, tra i più si-gnificativi ci sono i contenitori realizzati dal-l’Eni, dalla Società generale immobiliare e dal-l’Inps, il Grattacielo Italia, il ministero delle Fi-nanze e il nuovo palazzo sede della Democra-zia cristiana, di Saverio Muratori. Altri, portatia termine per l’occasione delle Olimpiadi ro-mane del 1960, come il “Fungo” di Colosimo,Martinelli e Varisco, il Palazzo dello sport diPierluigi Nervi e Marcello Piacentini, e il bellis-simo Velodromo olimpico di Ligini, Ortensi eRicci ma che è ormai scomparso. Non dimen-tichiamo l’“asse” piacentino rappresentatodalla via Cristoforo Colombo per ricucire lacittà al mare (e ristabilire nelle intenzioni origi-narie il legame storico e ideologico con l’anticoporto della Roma imperiale). La mia Nuvola siinserisce in questa traiettoria: materiale aereo“incorniciato” in un cubo, morbidezza nellarazionalità, comunicazione dentro la storia e lamemoria. Sta dentro un passato “pesante” masi alza leggera.

    (Testo raccolto da Alessandra Retico)

    Quel set metafisiconato troppo presto

    MASSIMILIANO FUKSAS

    UOMINI E PALAZZI• Ultimi ritocchial bassorilievodi Publio MorbiducciStoria edilizia

    di Roma

    (1939)• Operai al lavorosu una strutturain ferro del cantieredel Palazzodei ricevimentie congressi(1940)• Un gruppodi operai durantela pausa pranzo(1937-1941)• Lavoratori sottosforzo nel trascinareuna macchinada costruzione(1937-1941)• Un gruppo di bimbeprofughe giuliane fanno un girotondo davantial “Colosseo quadrato”,dove erano ospitate(1958)• Nella foto in bassoa sinistra, il progettooriginale dell’E42(Tutte le foto pubblicatein queste pagine sonogentilmente concessedall’Eur Spa)

    Repubblica Nazionale

  • 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    la memoriaSangue blu

    Hortense Serristori, nobildonna fiorentina colta e curiosa, attraversagli anni Venti e Trenta del Novecento in intimità con la famiglia realeitaliana e con i grandi della politica, della letteratura, dell’arte

    E fissa gli incontri e i ricordi di quell’epoca in un diarioche ora viene pubblicato

    berto; dietro segue il nostro re al bracciodella regina Elisabetta. Costei è in mauve,e così leggera e aggraziata nei movimen-ti che mi fa venire in mente ciò che mi dis-se un giorno Beaumont, della sua fami-gliarità con gli uccelli, e questo non misorprende: la sua persona così minuta egraziosa non va intimidita. Dietro vengo-no i fidanzati e tutti gli sguardi si fissanosu questa coppia così ben assortita e cosìpiacevole da guardare: sono snelli, ele-ganti, slanciati, splendenti di salute e fre-schezza, lui bruno e lei bionda, lui inuniforme e lei in bianco; lui ci presenta alei per nome, una per una, senza mai sba-gliare — oh memoria dei nomi e dei volti,virtù essenziale dei re! — lei ci porge lamano da baciare e sorride a tutti, gli occhiblu raggianti di felicità. [...]

    La regina Elena conduce suo figlio e reVittorio Emanuele la regina Elisabetta.Sovrani e principi, stranieri e italiani, se-guono a due a due. Le principesse hannogentiluomini a sorreggere gli strascichi,alcuni dei quali talmente ricchi che senzaquesto aiuto le poverette non potrebberomuoversi — si ammira in modo partico-lare lo strascico di velluto rosso ricamatoin oro della casata degli Hesse che indos-sa la principessa Mafalda. I gioielli sonofantastici — la principessa Ruprecht diBaviera ha dei rubini incredibili — il dia-dema della duchessa di Bramante è com-posto di diamanti del Congo, ciascunaprovincia del Belgio ne ha donato uno…

    Traduzione di Piero Gellie Angelica Chiara Gallo

    © 2007 Baldini Castoldi Dalai Spa

    IL LIBRO

    Memorie di Hortense

    (qui accanto ne riportiamoalcuni brani) scritto

    da Hortense de la GándaraSerristori e a cura di Piero

    Gelli, è pubblicatoda Baldini Castoldi Dalai,

    ha 280 pagineche comprendono un riccoapparato fotografico, costa17,50 euro, e sarà in libreriadal 27 novembre. Si trattadel diario che, sotto forma

    di lunga letteraa una nipote, la contessaSerristori, una delle figurepiù in vista della nobiltà

    fiorentina e dama di cortedella regina Elena, scrisse

    tra il 1927 e il 1943

    HORTENSE DE LA GÁNDARASERRISTORI

    AMORE per Roma (22 di-cembre 1927). Cara, hosempre amato molto Ro-ma. Non posso nascon-derti che quando era gio-vane tua nonna era frivola

    e mondana, e dal punto di vista dellamondanità Roma è stata davvero unacittà unica, al contempo capitale e me-tropoli religiosa, centro sportivo e ritrovoartistico, e in più, un clima meraviglioso.Roma attirava tutto ciò che c’era di desi-derabile in Europa; tutto quello che con-tava passava per Roma.

    La nobiltà romana regnava ancora neisuoi palazzi, così belli che il Kaiser, conge-dandosi dalla principessa Doria la sera delgran ballo che lei aveva dato per festeg-giare le nozze d’argento del re Umberto edella regina Margherita, ringraziando ledisse che, il giorno in cui la principessa sirecasse a Berlino, lui con sommo dispia-cere non avrebbe potuto offrirle nulla diparagonabile alla festa di quella sera.(Ammetto che è più o meno la verità: hopartecipato a un ballo di corte a Berlino,ho avuto l’onore di pranzare al tavolo delKaiser: tutto molto bello, ma non parago-nabile al «decoro» di palazzo Doria).

    Quegli anni furono l’âge d’or del GrandHotel. La nobiltà di provincia vi regnava;ci andavamo tutti, ma i più fedeli erano isiciliani: i Trabia, i Florio, i Mazzarino. Lospettacolo che offriva il restaurant delGrand Hotel, soprattutto le sere quandoc’era qualche gran festa in città, qualchegala per sovrani stranieri e tutte le donnescendevano in grandi toilette e diademi— toilette che non avevano niente daspartire con i ridicoli stracci di oggi —era davvero unico e destava l’ammira-zione di tutti.

    La regina Elena (22 dicembre 1927).Anche la regina allora era bellissima:altissima, molto snella, la pelle scura, oc-chi neri, aveva l’aria di una Madonna bi-zantina. Il tipo poteva anche non piacere,ma a Parigi la sua bellezza riscosse ungrande successo. Vi aveva accompagna-to il re per una visita ufficiale a MonsieurLoubet nell’ottobre del 1903 e, quando sipresentò seguita dalle dame — sia quelleche l’accompagnavano da Roma sia altreche si trovavano in quel momento in città— Parigi si entusiasmò, andò in visibilio eattraverso le mille voci della folla, dei gior-nalisti, degli chansonniers fu tutta un’o-vazione per noi. Posso ben dire noi, per-ché in quel corteo dove brillavano gli astridi prima grandezza come Franca Florio,Vittoria Teano, Maria Trinità, Jeanne Vi-giano, anche coloro che belle non erano,lo sembravano. Questa impressionedurò anche dopo la partenza della regina.Venivamo riconosciute nei negozi, a tea-tro, segnate col dito, per poco non ci ap-plaudivano! Per una stagione fummo gliidoli di Parigi, la città incantatrice! [...]

    La regina ha due passioni: da un lato lanatura, la vita selvaggia e libera, la caccia,la pesca; dall’altro la medicina, le opera-zioni, le infermiere ecc. [...]La regina haavuto un destino felice, brillante, «Ichgönne es Ihr!», sebbene non le siano man-cate le pene. Amava molto il suo Paese, ela soppressione del Montenegro fredda-mente eseguita dagli Alleati l’ha profon-damente afflitta, e ancor più ha soffertoper il fatto che la sua famiglia l’ha ritenu-ta in qualche modo responsabile, accu-sandola di non aver saputo difendere lasua Patria.

    Quando, dopo la guerra, la vecchia re-gina del Montenegro, fuggiasca, esiliata,passò per Roma, si rifiutò di scendere dalvagone. Ed è lì che ricevette sua figlia.Nessuno ha assistito a questo incontro,da cui la nostra regina è uscita silenziosae con gli occhi rossi. La catastrofe russa èstata un’altra pena per lei. Era russa nel

    FOTO DEDICATESopra, MariaJosè col piccoloVittorioEmanueleQui accanto,HortenseSerristoriA destra dall’alto:VittorioEmanuele IIIe Mussolini

    La dama di compagniadell’ultima Regina

    prestano servizio a turno alla regina, abi-tano a palazzo e viaggiano con lei; orahanno molto da fare e una grande re-sponsabilità perché non c’è una grande-maîtresse: la regina Margherita aveva lasua, la marchesa di Villamarina, che chia-mavano dama d’onore — ma l’attuale renon l’ha voluta per la sua sposa temendol’influsso che una dama sempre a contat-to tutto l’anno con la giovane principessapotrebbe avere sul suo animo, o il grandepotere che potrebbe esercitare a corte. Difatto il ruolo di dama d’onore è semprevacante e sono le dame di corte che fannotutto.

    Poi ci sono le dame di palazzo, nomi-nate in ogni città, la cui funzione consistenell’accompagnare la regina alle cerimo-nie di palazzo, nelle udienze o nelle usci-te. Quelle romane hanno ancora qualco-sa da fare, ma quelle in provincia quasinulla. Da quando sono stata nominataper Firenze, ho avuto in tutto quattro gior-ni di servizio. Ti racconto tutto questo,piccola mia, perché chissà mai dove sa-ranno combinazioni di diamanti e stra-scichi di velluto blu quando sarai grande?Orneranno ancora le spalle di giovanidonne e frusceranno ancora dietro la sciadi Altezze future? Speriamo bene!

    Umberto e Maria Josè (4-8 gennaio1930). Roma, la Città Eterna, eternamen-te in festa sotto un cielo sfolgorante, siprepara ad accogliere una futura regina!Bandiere, archi di trionfo, luminarie, ro-vine illuminate a giorno, passaggio ditruppe, fanfare e così via. [...]

    Sono le dieci e un quarto quando arri-vano nel nostro salone — noi formiamoun cerchio — la regina Elena in blu zaffi-ro appare per prima al braccio del re Al-

    cuore come tutti gli slavi e alla Russiaguardava come a una seconda e più gran-de Patria. Le sorelle erano sposate in Rus-sia, lei stessa era stata allevata a Smolny esi riteneva destinata a sposare qualchegranduca. La regina Vittoria di Spagna ungiorno mi disse che aveva pensato a leiper l’imperatore Nicola II. Comunquesia, credo che abbia sofferto molto di que-ste due catastrofi.

    Il Vaticano (5 dicembre 1929). Siamo lìdalle 9 e 30 della mattina e solo verso mez-zogiorno qualcosa si muove al soglio diSan Pietro, il re e la regina si congedanodal cardinale Merry del Val, arciprete del-la basilica e scendono lentamente la sca-linata — la regina e le sue dame, la du-chessa Cito, tua zia Frankey Guicciardinie Donna Nini Grazioni, tutte in bianco,diadema e velo bianco, la regina con unostrascico d’argento sorretto da Cito, suogentilhomme de service, le dame con illoro di velluto blu; il re e il suo seguito inuniforme e decorazioni, i dignitari ponti-fici nei loro meravigliosi costumi. Monsi-gnor Caccia Dominioni è accanto al re,Ruspoli alla regina. Al seguito c’è ancorauna dama in abito e velo nero, è la con-tessa di Val Cismon, la moglie dell’amba-sciatore d’Italia presso la Santa Sede, maquesta macchia scura si perde nellosplendore del corteo e nell’abbaglianteluce del sole. Ancora qualche istante e lesette auto attraversano lentamente labellissima piazza, mentre le truppe pon-tificie rientrano in Vaticano; il cordone dipiazza Rusticucci viene tolto e la folla in-vade la piazza. Vediamo passare ancora ilcardinale Gasparri, diretto al Quirinale arendere visita, poi lo spettacolo è finitoper noi stanchi ma ben ripagati della fati-ca perché il colpo d’occhio era magnifico!

    Le dame di corte (7 dicembre 1929).Alla corte d’Italia, le regine hanno damedi due specie: ci sono le dame di corte che

    Repubblica Nazionale

  • Alla vigilia della Prima guerra mondiale in Europa c’eranodue sole repubbliche: la Francia e la Svizzera. Tutti gli altristati erano monarchie. La regalità: un concetto che ha radi-

    ci profonde nella storia europea. Un’idea di pompa, di gloria e dipotere che oggi ci è estranea ma che fino a poco tempo fa rappre-sentava politicamente la norma.

    Le memorie della contessa Hortense Serristori hanno questo diaffascinante. Ci consentono di capire come si viveva all’ombra diuna grande dinastia europea, quella italiana. È un tema che ho toc-cato spesso nel mio lavoro di giornalista storico televisivo. L’ulti-mo lavoro per Rai Tre si intitolava appunto Casa Savoia: era la sto-ria del regno di Vittorio Emanuele III e della fine della monarchia.A più riprese negli ultimi anni ho avuto occasione di intervistare laprincipessa Maria Gabriella di Savoia su questi temi. L’ho sentitadi nuovo molto recentemente e l’ho trovata sul piede di guerra.S’era appena dissociata con una lettera a Repubblica da una ri-chiesta di danni allo Stato italiano avanzata da suo fratello Vitto-rio Emanuele. Esasperazione motivata: a lei va il merito d’aver ca-pito che è giunto il momento di rivedere storicamente i complica-ti rapporti tra monarchia e paese. Ha messo in piedi una fonda-zione con relativo archivio per custodire le memorie dell’ex casaregnante. Manca cioè, ritengo, alla storiografia italiana un’operache riconsideri — un po’ sul modello di quello che ha fatto De Fe-lice per il fascismo — quegli aspetti pur sempre essenziali del no-stro passato. Il successo della rubrica alla quale collaboro su RaiTre, La grande storia in prima serata, dimostra che c’è un vero in-teresse per vedere le immagini e sentire il racconto della nostra tor-mentata storia recente, purché fatto in spirito di obiettività.

    Le memorie di Hortense Serristori vanno in questa direzione.Ci aiutano a capire quel mondo così diverso da quello della gentecomune di allora ma anche dalla mentalità contemporanea. LaSerristori era, ce lo conferma Maria Gabriella, molto legata alla re-

    gina Elena di cui era stata “dama di palazzo”. La figlia MariaBossi Pucci, era stata “dama di corte” della madre

    di Maria Gabriella, la “regina di mag-gio” Maria José. Anzi qualcosadi più: un’amica stretta so-prannominata “chiffon”, strac-cetto cioè. Alla corte d’Italia siparlava molto il francese. E il pie-montese, occorre aggiungere.

    “Dame di corte”, “dame di pa-lazzo”: sfumature esoteriche qua-si, il cui significato oggi ci sfuggecompletamente ma che allora ap-pariva importantissimo. La Serri-stori nata nel 1871, morirà nel 1960 aottantanove anni. Il suo diario —scritto anche quello in francese — siconcluderà subito dopo la fine dellaSeconda guerra mondiale. Ha preso laforma, un po’ artificiale, d’una serie dilettere a una nipote molto amata. De-scrive grandi avvenimenti conosciuti: laPrima guerra mondiale, la Marcia su Ro-ma, la Conciliazione e via enumerando.La Serristori ha frequentato grandi scrit-tori, D’Annunzio, Moravia, Berenson peresempio. Tuttavia la parte che c’è sembra-ta più interessante del suo libro è quella cheriguarda la vita di corte. È l’argomento cheabbiamo preferito nella scelta dei brani cheriportiamo.

    Risponde al desiderio di sapere come si viveva all’ombra di unaimportante dinastia. Perché tale era casa Savoia. Imparentata contutte le famiglie regali d’Europa aveva un millennio di potere allespalle — dalla Savoia al Piemonte, all’Italia. Cosa ha significato es-sere re? C’è in questa tradizione anche qualcosa di strano e so-prannaturale per la mentalità tradizionale. Un grande classico

    della storiografia francese, I re taumaturghidi Marc Bloch, di-mostra quando fosse diffusa nel Medioevo la credenza che ire avessero il potere magico di guarire con l’imposizione del-le mani certe malattie. L’ultimo re guaritore fu Carlo X, inFrancia, che perse il trono nel 1830. Nel secolo Ventesimonessuno più credeva né praticava questi riti ma l’idea che cipotesse essere qualcosa di trascendente, di più che umanonella regalità, è andata avanti molto a lungo. E traccia di que-sta atmosfera si ritrova nel libro della Serristori. Sono suffi-cientemente vecchio per avere avuto tra i testi sacri dellamia gioventù Il mondo magicodi De Martino e il Ramo d’o-ro di Fraser. Ecco con quale arcaica solennità la Serristoridescrive una cerimonia regale: «Il primo corteo è quellodella regina. Insieme alle principesse e ai loro seguiti. Suamaestà occupa la tribuna centrale, proprio sopra il trono.La regina è incantevole, elegantemente vestita di velluto,ornata con magnifiche perle e un grande cappello “garnid’esprits” che le incornicia il viso. Alla sua destra siede laprincipessa di Piemonte, alla sua sinistra la duchessa Ele-na d’Aosta. Infine giunge il re che prende posto sul trono,sotto le tribune; al suo fianco per ordine di diritto nellasuccessione, i principi del sangue. Gli aiutanti di campo

    restano sempre in piedi. Le nuove uniformi scintillano».

    Il teatro scintillantedella corte Savoia

    NICOLA CARACCIOLO

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    IN VOLO CON BALBOSopra, Margheritadi Savoia nel 1922Sotto, Hortense Serristorinel 1939 dopo un volocon Italo BalboA destra, dall’alto:dediche di Puccini,Trilussa, Serao

    AUTOGRAFIQui sopra, una poesia autografadi Gabriele D’Annunzio e una seriedi dediche, l’ultima di Paul Valery,tratte dal libro degli ospiti

    DISEGNI Sopra, Arthur NevilleChamberlainA destra un disegnodi Vernette Henraux

    Guardando i disegni di Pillinini vienein mente Totò... (Gianrico Carofiglio)

    prefazione di Gianrico Carofiglio

    Edizi

    oni D

    edal

    owww.edizionidedalo.it

    Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info

    Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 - www.marcatreviso.it

    20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008

    GENGIS KHANE IL TESORO DEI MONGOLI

    Main Sponsor

    Chinese Academy of International CultureComune di Treviso - Fondazione Italia CinaTouring Club Italiano

    Organizzazione: Sigillum

    Repubblica Nazionale

  • Ognidesiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i propripunti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un sensonell’incessante abbinamento di molecole che ci compon-gono e ci scompongono, da lungo tempo immaginiamoche le nostre azioni rispondano a un significato e a una mis-sione, e che quindi quel che realizziamo su questa terra

    possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un Ammini-stratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E così le nostreanime, pensionate dopo la morte della carne, passeranno all’eternità inuna sorta di residenza per anziani, decente o spaventosa, a seconda del-l’inclinazione della bilancia. Come testimoniano le tombe troglodite, ta-le speranza è ben antica. Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutteassieme verso quel luogo comune denominato Ade, dove attendevano illoro destino sui grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era con-dannato al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore divi-no era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l’Ade si trova sotto terra oal di là del mare; in alcuni casi eccezionali, può essere visitato da chi è an-cora in vita. Odisseo, Orfeo ed Enea si annoverano tra i privilegiati.

    Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le popo-lazioni del mondo hanno immaginato una versione dell’aldilà nella qua-le i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C’è chi crede che tali promessecorrompano. Ivo, vescovo di Chartres, durante una missione voluta da

    San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada aveva incontra-to una signora dall’aria malinconica, che aveva in una mano una torcia enell’altra un’anfora. Il vescovo, incuriosito, volle sapere di più sul suo con-to e le chiese cosa avrebbe fatto con quel fuoco e quell’acqua. «L’acqua èper spegnere l’Inferno», rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Pa-radiso. Voglio che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Perquanto ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di Pa-radiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi celestiali incanti:un luogo futuro, alla portata delle anime con la fedina penale pulita (è be-ne ricordare che l’unico a ricevere la promessa del Paradiso direttamen-te dalle labbra di Gesù, sia stato un ladro).

    Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile, forsepiù accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto del dirittodi abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo Paradiso è intangi-bile, extraterrestre, spirituale, descritto con un linguaggio di metafore eallegorie. Il secondo (ci piace credere) è concreto, sensuale, nascosto sep-pur in questo mondo, e per tanto, vanta un’autentica cartografia.

    Spesso si confonde un Paradiso con l’altro, il Paradiso celeste presun-tamente promesso ai giusti e l’Eden terrestre presuntamente perduto. Laconfusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre 4.500 pagine checompongono lo Zibaldone, uno dei libri più singolari, personali e ambi-

    ziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui Giacomo Leo-pardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte le cose, s’interroga sulsignificato di questo Paradiso terreno. Secondo Leopardi, il Paradiso in cuiAdamo ed Eva sono stati creati fu uno dei piaceri materiali e carnali, un“paradiso voluptatis” che doveva essere coltivato e protetto. A differenzadel Paradiso celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il Pa-radiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di materialee persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro, imbrogli economici otormenti filosofici: una sorta di Club Mediterranée, potremmo dire, avantla lettre. Dinanzi a tali incanti, l’ascetico Paradiso futuro diventa astrattofino all’inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può almortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità promessa dalpaganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com’ella è pu-re, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto in-felice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a con-solare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della na-tura di quella che necessariamente si desidera in terra».

    L’altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un giardino nelquale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo si è voluto as-sociare alla parola ebraica miquedemche possiede un significato spazia-le (“in oriente”) e temporale (“fine dell’inizio”). Il Dizionario Biblico edi-tato da Paul J. Achtemeier lo fa derivare da edemche vuol dire “lusso, pia-

    cere, delizia”; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi moderni lo as-sociano a una voce sumera, edin, che si traduce con “pianura” o “prato”.Attraverso i secoli, l’Eden ha trasmesso le sue incantevoli caratteristichea un’immaginaria nostalgia: quella dell’Età dell’oro classica, nella qualeil mondo intero è un giardino, «quand’era cibo il latte», dice Guarini, «delpargoletto mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge in-tatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la caratteristicaprincipale dell’Eden: si coniuga nel tempo passato, desiderio di ciò che èperduto, negato, di ciò che ora è proibito. È la terra come vorremmo chefosse, come sogniamo che sia. Per questo crediamo, con più o meno fe-de, di poterla ritrovare.

    La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca carto-grafica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una bibliogra-fia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti secondarie né i sitiweb, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare corpo, un anno fa, a unastraordinaria mostra presso il British Museum di Londra, il cui catalogomagistrale, Il paradiso in terra: Mappe del giardino dell’Eden, viene pub-blicato da Bruno Mondadori in questi giorni. Le testimonianze sono nu-merose, e pochi tra gli autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir JohnMandeville nel Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare:«Del Paradiso non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza

    Da millenni gli uominihanno pensatoun luogo dove i giusti

    dopo la morte abbiano la loro ricompensaMa non hanno mai smesso di immaginarneun altro, più sensuale e concreto,da dove i nostri progenitori furono cacciatiOra un libro raccoglie le carte che nei secolihanno tracciato la possibile via del ritorno

    CULTURA*

    Alla ricerca del Paradiso perduto

    Mappeledell’EdenALBERTO MANGUEL

    40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e visionari, hannodichiarato con imperturbabile convinzione che l’Eden si trovava (si tro-va) in Mesopotamia, in Inghilterra, a Gerusalemme, nel punto di coinci-denza tra Asia, Europa e Africa, al nord dell’India, alla foce del Gange, nel-la Persia settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di unaprecisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo Fleurdes histoires composto tra il 1460 e il 1470, l’acqua dei fiumi del Paradisocade da una tale altezza che il suo fragore ha reso sordi tutti gli abitantidelle regioni limitrofe. Il libro di Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e(agli occhi di questo lettore profano) assolutamente completo.

    Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni, Scafi rac-coglie una serie di versioni moderne di mappe paradisiache, disegnateda artisti così diversi come Hendrikje Kühne, Beat Klein, Ilya ed EmiliaKabakos, i quali hanno tentato di riscattare l’idea di un Paradiso terrestreper il nostro ormai inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esi-sta un’ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei annidopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di Spagna (que-gli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo la prima espulsionedel 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda Parte del Don Chi-sciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho incontra un suo vecchio vi-cino, il moro Ricote, il quale esiliato dalla Spagna con i suoi consangui-nei, è tornato nella sua terra natale travestito da pellegrino. «Fummo congiusta ragione puniti con la pena dell’esilio, lieve e blanda, secondo alcu-ni, ma per noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stia-mo, abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è lanostra patria naturale; non c’è nessun paese dove ci si accolga come me-riterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le parti dell’Africa do-ve speravamo d’esser ricevuti, accolti e trattati bene, proprio lì invece èdove più ci si tratta male e ci si offende».

    Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e l’altra di ter-ra promessa, che si fondono in quella Spagna che rifiuta Ricote e in quel-la di cui lui ha nostalgia, confondendosi in una cartografia illusoria e cir-colare. Per Ricote, quella Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere let-terali) il Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che vor-rebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi, espul-sione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo gesto di esi-lio che trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Un altro Paradisoforse esisterà pure, al di là dei mari, ma Ricote e i suoi congeneri non lohanno trovato. Ciò nonostante, continuano a sognare le mappe intimedei loro Eden perduti, che si chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco,Albania, l’America Latina delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cece-nia, Darfur, Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso èpiù vasta della Terra stessa.

    Traduzione di Fiammetta Biancatelli(© 2007, Guillermo Schavelzon & Asocc., Literary Agency)

    Alberto Manguel, autore di un celebreDizionario dei luoghi immaginari, ha appena pubblicato

    Iliade e Odissea, una biografia (Newton Compton Editori)

    TERREE OCEANIIl Paradiso

    terrestresecondo la

    Mapa Mondi

    Figura Mondi

    di GiovanniLeardo

    (Venezia1442)

    TORRIE COLLINEIl Paradisoterrestre dalRudimentum

    noviciorum

    di LucasBrandis(Lubecca1475)

    Repubblica Nazionale

  • LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    Ma dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda antichissima e sem-pre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno tentato di scoprirlonelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in Arabia, in Armenia e per-

    sino in un’isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso terrestre ha affasci-nato il cristianesimo fin dai primi secoli, come ricorda Alessandro Scafi ne Il Pa-radiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «ilSignore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che avevaplasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in senso letterale. L’au-torità di sant’Agostino fu decisiva, anche per quanto riguarda i quattro celebrifiumi che uscivano dall’Eden: Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon(con il Nilo), Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate». Agosti-no aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque vissuto in unParadiso materiale.

    Alla costruzione dell’immaginario paradisiaco contribuirono molto le anti-che traduzioni dei testi biblici. Per definire il giardino, la versione ebraica usò leparole gan-be-Eden («un giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunsela qualifica «delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola Paradisoche significa in greco “giardino recintato”.

    La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo. Isidoro di Sivi-glia identifica l’oriente di cui parlava la Genesi con l’Asia: «Il Paradiso è un luogoche si trova nella parte orientale dell’Asia». E sottolinea il fatto che l’Eden sia ungiardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed alberi da frutto,tra cui anche l’albero della vita». L’Eden è inoltre un luogo in cui «non fa né fred-do né caldo, vi è sempre un clima temperato», ma è un giardino reso inaccessi-bile «da una spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che arrivaquasi al cielo».

    Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora figurare anche su unacarta, e molte sono infatti le carte medievali, qui studiate pregevolmente da Ales-sandro Scafi, che lo presentano nelle sue varie forme, anche come isola o comecastello accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata dall’altezza.Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale dell’Asia, ma verso l’alto«come situato in relazione al cielo» (Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradisosulla cima di una montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio.Virgilio spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono esat-tamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla prima crociata (1096),Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo, viene posta al centro del mondo. Edecco che il Paradiso terrestre situato in Asia diventa anticipazione dell’Incarna-zione e del Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre figuranosovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine del mondo.

    Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e inaccessibile,contrassegnato da una negatività che si contrappone all’Eden: è il luogo in cuisecondo la leggenda Alessandro Magno racchiuse Gog e Magog, le temute tribùche a detta dell’Apocalisse verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudi-zio. Le carte medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunqueuna visione cristiana della storia del mondo. Ma l’Eden è anche un Eldorado, re-gione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e di frutti abbondanti, e chegode di un’aria sana e incontaminata.

    All’uscita dal Medioevo quell’immaginario si sgretola. Fra Mauro, uno deimassimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo (1459) relega il Para-diso terrestre in un medaglione posto al di fuori del mondo abitato. Un secolodopo, un altro uomo di Chiesa, Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vatica-na, afferma che il Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lu-tero scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi dell’E-den erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la benevolenza di Dio.

    Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l’equazione tra il dogma deldiluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi contro la tradizione, fu peròdimenticata. Anzi proprio allora gli studiosi incominciarono a ricercare il luogodove era vissuta la prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il TerzoCielo, Babilonia, l’Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il Polo Artico.Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria funzione, di rappresentare in-sieme il passato (la nostalgia per una purezza perduta), il presente (la vita del-l’uomo come peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso celeste),oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta orientata al volere di Dio.Tentando di scoprire dove si trovava su basi “scientifiche”, la modernità situa-va il Paradiso terrestre soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton,1667) il compito di piangere Il Paradiso perduto.

    Un giardino di deliziecinto da mura di fuoco

    AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI

    IL LIBRO

    Si intitolaIl paradiso

    in terra: mappedel giardino

    dell’Eden (448pagine, 58 euro)

    il librodi Alessandro Scafi

    che BrunoMondadori

    manda in libreriail 27 novembre

    Attraverso più di duecento

    immagini(alcune sono

    riprodottein queste pagine),

    il volumeripercorre la storiadella cartografia

    del Paradisoin Occidente

    MONDI IMMAGINARIIn alto, pagina di un manoscritto del De civitateDei di Agostino, 1473-80 circa, BibliothèqueMunicipale di Macon. Qui sopra, carta del mondodal Polychronicon di Ranulf Higden, 1350 circa(Londra, British Library)

    BIBBIE E MAPPAMONDIIn alto a sinistra, il giardino dell’Eden

    in una Bibbia stampata a Wittenberg nel 1536;accanto, dettaglio da un mappamondo (Londra,

    1265 circa) qui sopra, l’incipit del libro della Genesida una Bibbia conservata alla British Library

    MONDO ABITATOCarta del mondo anglosassone

    detta anche Cottoniana (Canterbury, 1025-1050circa), conservata alla British Library di LondraLa mappa, che raffigura tutto il mondo abitato,

    contiene riferimenti indiretti al Paradiso terrestre

    ADAMO ED EVADettaglio del Paradiso terrestreda un mappamondo di Hanns Rüst(Augusta, 1480 circa). Il paradiso terrestreè raffigurato come un giardino circondato da muraAll’interno Adamo ed Eva colgono il frutto proibito

    Repubblica Nazionale

  • la letturaScritto in verde

    Quando la Dickinson incominciò a raccogliere foglie,petali, steli aveva quattordici anni. Li incollava su grandifogli accompagnandoli con una didascaliaUn esercizio botanico e alchemico che gettò i semidei suoi versi e delle sue “geometrie dell’estasi”Ora il suo “Herbarium” viene pubblicato in Italia

    In tale occupazionesi apparentaa Shakespeare,che ha un vocabolariovastissimo e distinguela cicuta dal crescionee dalla zizzania

    Rocambolesche vicendeereditarie portano un cer-to giorno le spoglie dellastoria terrena di EmilyDickinson alla HoughtonLibrary di Harvard. Arriva-

    no enormi bauli con i libri di casa, i da-gherrotipi, vari oggetti dell’infanzia, i ri-tratti dei Dickinson bambini, i mano-scritti... E tra il bric-à-brac che accom-pagna l’esistenza, un Herbarium. Ov-vero, un album dalla copertina rigida, dicolore verde, che conta sessantasei pa-gine, in cui una mano esperta ha con cu-

    ra disposto in mostra 424 esemplari es-siccati di fiori e piante da giardino, daprato o da interno, appartenenti a spe-cie autoctone o naturalizzate nelle vici-nanze di Amherst, Massachusetts.

    I grandi fogli vengono ripuliti dallapolvere, e dagli insetti che vi si erano an-nidati, e si scopre così la bellezza del pri-mo, anzi unico “libro” di Emily Dickin-son. La disposizione dei fiori, le combi-nazioni di foglie e gambi e corolle, le eti-chette con i nomi propri, per lo più in la-tino, tutto è incantevole. E oggi perfet-tamente riprodotto in facsimile dallacasa editrice Elliot. È un regalo meravi-glioso per noi appassionati di Emily.

    Che ci avvicina ancora di più alla suapoesia. E conferma quel che già sapeva-mo, e cioè che Emily Dickinson è unascienziata della natura. Una naturalistaattenta e scrupolosa, che nell’Herba-rium raccoglie non solo esemplari bo-tanici, ma i semi della sua poesia.

    I fiori essiccati sono ad arte accoppia-ti perché conversino insieme i più umi-li e i più sofisticati. Come in quelle sacreconversazioni della pittura rinasci-mentale, un muto colloquio unisce ilgelsomino bianco e il crespino comu-ne, sì che la grazia delicata del primosuggerisce a contrasto la forza tenacedel secondo. Emily adora entrambe: sia

    la forza che la fragilità. Dalla frequenzacon cui appaiono nelle sue pagine èchiaro che ama i narcisi, ma anche i ge-rani, e le margherite. Si identifica conuna margherita. E in poesia — la nume-ro 19 — interpreta senza difficoltà laparte della rosa.

    A volte sbaglia, confonde il toxico-dendron radicans con il celastro, chia-ma la gentiana clausa con il nome dicardo stellato. Sono errori non di in-competenza, ma di distrazione, secon-do me. Li fa anche Henry Thoreau nelsuo erbario. Lo dico per avvertire che ladevozione allo studio di fiori e piante eerbe era comune in quegli anni. Attività

    NADIA FUSINI

    Il segreto di Emilyle poesie nascono dai fiori

    42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    IL LIBRO

    L’Herbarium, per lungo tempo conservato nella bibliotecadi Harvard, è rimasto finora sconosciuto al pubblicoitaliano. Ora viene pubblicato da Elliot (250 pagine,120 euro) in edizione facsimile, arricchito da alcuni saggiintroduttivi, dal catalogo e da un indice delle speciebotaniche presenti. Vi sono anche alcune poesie(che riproponiamo, tratte da Emily Dickinson: Tuttele poesie, I Meridiani, Mondadori). All’Herbarium, che saràin libreria il 27 novembre, è anche dedicata una mostraal Museo civico di storia naturale “G. Doria” di Genova

    Repubblica Nazionale

  • Sapremo cogliereil simbolo se saremocapaci della piroettametafisica, chestringe in vertiginosaintimità microe macrocosmo

    poetica, più che femminile per Emily.La quale in tale occupazione si appa-renta ai poeti, più che alle donne: aShakespeare, che ha un vocabolario bo-tanico vastissimo e distingue la cicutadal crescione e dalla zizzania; e a Keats,che quando poggia i piedi in vetta a uncolle riconosce il biancospino e il labur-no e la siepe d’avellana e la rosa selvati-ca… Se i romantici hanno letto Rous-seau, che è grande botanico, Emily haletto senz’altro il grande saggio diEmerson sulla natura. E condivide l’e-mozione di Thoreau, quando in Wal-den, di fronte alla primavera, confessadi sentirsi «nel laboratorio dell’artista

    che creò il mondo». Nel vocabolario tra-scendentale scienza e teologia si ab-bracciano.

    Né dobbiamo dimenticare che Emilyè una giovane donna istruita, che si av-vantaggia delle migliori scuole. Appar-tiene non a caso a una famiglia coinvol-ta nella storia dell’istruzione in Ameri-ca. E nei sette anni trascorsi all’Amher-st Academy, fondata dal nonno, doveentrò all’età di nove anni, imparò nonsolo a leggere, scrivere e far di conto, masi educò alla filosofia, al latino, alla bo-tanica. Nella convinzione che, grazie al-la scienza, l’amore dovuto alla Creazio-ne, in quanto manifestazione dell’Altis-

    simo, si sarebbe rafforzato. E dal cuoresarebbe sgorgata spontanea l’esclama-zione di gratitudine a Dio padre, artefi-ce di ogni bellezza.

    Ma per riuscire a vedere che «il So-prannaturale non è altro che il Natura-le rivelato» bisognava applicarsi: la «ri-velazione» sarebbe mancata a chi nonavesse occhi «preparati». Ecco perchéEmily, studentessa non solo scrupolo-sa, ma intelligente, studia con passionela storia naturale, zoologia e botanica, eimpara a distinguere il calice e il sepalo,la corolla, lo stame, il pistillo, il ricetta-colo, il pericarpo, il seme.

    È precisa Emily. Ha una mente lucida,

    ama il dettaglio. Non usa mai l’immagi-ne del fiore in modo decorativo, evoca-tivo — alla maniera di Wordsworth, perfare un esempio. Semmai, lavora al mo-do opposto. Osservate la poesia 66: neiprimi quattro versi descrive nudamen-te il processo che porta dal bulbo al fio-re, nei tre successivi associa alla meta-morfosi del bruco in farfalla. E negli ul-timi tre ci lascia perplessi. Sapremo co-gliere il simbolo? Sì, se saremo capacidella piroetta metafisica, che stringe invertiginosa intimità micro e macroco-smo.

    Ma intanto, sotto i nostri occhi è fio-rito un bulbo, è nata una farfalla.

    LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    Dalla zolla, così,d’oro e scarlatto

    sorgerà più d’un bulboche scaltramente fu nascosto

    ad occhi espertiDal bozzolo, così,

    balzerà più d’un vermecon tanti lieti colori

    I contadini come me,i contadini come teguardano perplessi(Poesia 66, 1859 ca)

    Un sepalo ed un petalo e una spinain un comune mattino d’estate,

    un fiasco di rugiada, un’ape o due,una brezza,

    un frullo in mezzo agli alberi —ed io sono una rosa!(Poesia 19, 1858 ca.)

    La pallida colonna del soffionesgomenta l’erba — ed ecco

    che l’inverno d’un tratto si trasformain un coro di gemiti infinito —

    Una sontuosa gemma dallo stelospicca seguita da un fiore sgargiante —

    sono i soli che danno l’annunciodelle esequie compiute(Poesia 1519, 1881 ca.)

    Fiorire - è il fine - chi passa un fiorecon uno sguardo distratto

    stenterà a sospettarele minime circostanze

    coinvolte in quel luminosofenomeno

    costruito in modo così intricatopoi offerto come una farfalla

    al mezzogiorno —Colmare il bocciolo — combattere il verme —

    ottenere quanta rugiada gli spetta —regolare il calore - eludere il vento —

    sfuggire all’ape ladruncolanon deludere la natura grande

    che l’attende proprio quel giorno —essere un fiore, è profonda

    responsabilità —(Poesia 1058, 1865 ca.)

    Emily Dickinson

    Repubblica Nazionale

  • Nome da farfalla, Pannonica, cognomeda banchiere, Rothschild. Fu pianista, spia, pilotad’aerei, ereditiera ripudiata. Ma la sua passione,

    oltre ai centoventi gatti con cui viveva, erano i grandi geni del sound che l’Americastava scoprendo. Li portava a casa, li aiutava, li fotografava. Loro le confessavanosogni e aspirazioni. Che sono stati raccolti in Francia in un libro per immagini

    SPETTACOLI

    44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25NOVEMBRE 2007

    Bisogna immaginarsela unache nasce con un nome dafarfalla e un cognome dabanchiere, Pannonica Roth-schild. Il destino è scritto neinomi e il suo era questo: una

    farfalla venuta al mondo in una gabbia d’o-ro, libera solo di provare a scappare e co-stretta invece a sbattere le ali contro milita-ri e baroni, sedi diplomatiche e mariti ap-passionati di arti marziali, doveri, inchini,buonasera eccellenza come va. Bisognaimmaginarsela dopo, quando finalmentelibera di vivere ripudiata dalla famiglia econ centoventi gatti — una piccola rendi-ta: piccola per lei gigantesca per i suoi ami-ci, una somma capace di mantenere a vitanella New York degli anni Sessanta decinee decine di musicisti, Thelonius Monk eCharlie Parker, Mingus e Miles Davis —esce la sera, in macchina, e va a cercare fuo-ri dalle bettole chi non ha niente salvo unmostruoso talento: «Dai, sali sulla mia Ben-tley», andiamo che ti porto a casa, c’è unpiatto di minestra e un letto, puoi restarefinché vuoi. Era altissima, magra, pallida,con un viso lungo non bello ma davvero ari-stocratico, quel naso, quegli occhi neri,quei capelli sempre spettinati e gli abiti diseta a fiori e a colori scombinati, pezzi di unguardaroba miliardario indossati comestracci senza valore, la sigaretta sempre ac-cesa nel bocchino. Quando camminavanel sud degli Stati Uniti accanto a Thelo-nius Monk, una montagna nera di due me-tri, la gente per strada sputava per terra ecambiava marciapiede. Una bianca ele-gante con un negro, che schifo.

    Pannonica De Koenigswarter (il cogno-me del marito, il barone Jules) è stata pia-nista e pittrice, militante antinazista e spiain Africa, soldato e autista di camion, pilo-ta di aereo, fotografa, madre di cinque figlie musa del jazz, mecenate di quella irripe-tibile generazione di geni che l’Americadella segregazione razziale trattava peggiodei cani: Art Blakey, Bud Powell, Sonny

    Clark, Charlie Parker, John Coltrane, Char-lie Mingus, Miles Davis, Sonny Rollins.Nella sua casa di New York sono morti duedi loro: Parker e Monk. La casa si chiamavaCathouse: cat che sono i gatti, certo, ma poinello slang nero del tempo “cats” erano i“tipi randagi”, i musicisti. Ha accudito Co-leman Hawkins, epilettico, ha assistitoBud Powell, depresso. Li ha mantenuti, hasfidato le convenzioni e il giudizio sociale,ha vissuto con loro e per loro. Ha ispiratotemi musicali come Pannonica (Thelo-nius Monk), Nica e My dream of Nica(Sonny Clark), Blues for Nica (KennyDrew), Thelonica (Tommy Flanagan), Ni-ca’s dream (Horace Silver) e decine di altripezzi che sono oggi la storia del jazz.

    Nel corso della seconda parte della suavita, la sua nuova vita, ha fotografato conuna Polaroid gli uomini e le donne che vi-vevano da lei come in una comune: Thelo-nius che balla e che gioca a ping pong, chedorme su una sedia col cappello in testamentre Sonny Clark, accanto, si fa una si-garetta e sbadiglia. Art Blakey che scrive amacchina una lettera, John Coltrane checucina. Una galleria di immagini strepito-se: sporche sciupate rotte, in bianco e ne-ro, segnate dalle impronte digitali dei loroprotagonisti, i primi a prenderle in manoquando lei ridendo gliele porgeva e diceva:guarda. Di tanto in tanto, mentre li foto-grafava o li ri