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DOMENICA 23 DICEMBRE 2007 D omenica La di Repubblica «Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo». N atale S peranza del La U na leggenda austriaca racconta di una famiglia di nome Burkhard com- posta da marito, moglie e un bambino che recitavano poesie, cantavano ballate e intrattenevano la gente con la loro arte di giocolieri ai mercatini di Natale. Come ci si può ben immaginare, non avanzava mai abbastanza denaro per i regali di Natale. «San Nikolaus non porta solo doni che si pos- sono vedere» spiegò il padre a suo figlio, «ma anche i cosiddetti “doni invi- sibili”. In una casa in cui regna la discordia, nella notte santa della cristianità, lui cerca di portare pace e armonia. Dove manca l’amore, pian- ta nel cuore dei bambini il seme della fede. A coloro ai quali il futuro appare nero e incerto, porta la spe- ranza. Noi, in ogni caso, siamo ricchi di doni invisi- bili, perché siamo in vita e possiamo fare il nostro la- voro che consiste nell’arrecare gioia alla gente. Non lo dimenticare mai». Passarono gli anni e il bambino diventò un giova- notto. Un giorno la famiglia si trovò a passare davanti all’imponente abbazia di Melk. «Padre, ti ricordi di quando, tanti anni fa, mi hai raccontato la storia dei doni invisibili? Credo di aver ricevuto anch’io uno di questi doni: la vocazione di diventare prete. Avresti qualcosa in contrario se facessi il primo passo per realizzare il mio sogno?». Sebbene avessero bisogno di loro figlio, i genitori rispettarono il suo desiderio. Bussarono al portone del monastero e furono accolti con generosità e be- nevolenza dai monaci che presero con loro il giovane Burkhard come novizio. Venne la vigilia di Natale e, proprio quel giorno, a Melk accadde un miracolo: Nostra Si- gnora con Gesù Bambino in braccio scese sulla terra per visitare il monastero. I monaci erano felici di questa visita e formarono una lunga fila. Uno dopo l’altro si inginocchiaro- no di fronte alla Vergine e ognuno le rese omaggio alla sua maniera. Uno indicò i bei qua- dri che adornavano la chiesa; un altro portò un esemplare della Bibbia scritto a mano e impreziosito da miniature, frutto di anni di lavoro; un altro ancora recitò i nomi dei san- ti. Ultimo della fila, il giovane Burkhard aspettava il suo turno in preda all’agitazione. I suoi genitori erano semplici saltimbanchi e gli avevano insegnato soltanto a fare il giocoliere. Quando toccò a lui, i monaci avrebbero voluto concludere gli omaggi, perché credevano che il giovane novizio non avrebbe potuto contri- buire con niente di importante e che avrebbe pro- babilmente danneggiato la reputazione del mona- stero. Tuttavia, anche lui voleva a ogni costo offrire qualcosa alla Vergine e a Gesù Bambino. Pur vergognandosi, sotto lo sguardo di disappro- vazione dei suoi confratelli, tirò fuori dalla tasca al- cune arance e cominciò a tirarle in alto e a farle ruo- tare. Tracciò in aria un bellissimo cerchio, così co- me aveva sempre fatto quando andava ancora di mercato in mercato con i suoi genitori. Solo allora Gesù Bambino, in grembo alla Madonna, cominciò a battere le mani per la gioia. La Santa Vergine tese le braccia verso il giovane e per un momento gli fe- ce tenere il bambino che continuò a ridere ininterrottamente. Alla fine della leggenda si dice che in seguito a questo miracolo, ogni duecento anni un Burkhard bussa ancora al portone dell’abbazia di Melk, dove viene accolto, e che, men- tre si trova lì, “i doni invisibili” possono trasformare i cuori di coloro che lo conoscono. Traduzione Francesca Gabelli. Titolo originale Il saltimbanco di Nostra Signora Per gentile concessione dell’agenzia Sant Jordi Asociados, Barcelona Il dono segreto del saltimbanco PAULO COELHO Siamo divisi tra paura e fiducia. Così le feste possono aiutarci a far ripartire un futuro inceppato ILLUSTRIZIONE DI LUCIA MATTIOLI Nelle pagine successive EDMONDO BERSELLI GIORGIO BOCCA ATTILIO BOLZONI MARIO CALABRESI LEONARDO COEN PINO CORRIAS CONCITA DE GREGORIO DARIO FO ENRICO FRANCESCHINI MIRIAM MAFAI FRANCESCO MERLO CARLO PETRINI FEDERICO RAMPINI GABRIELE ROMAGNOLI PAOLO RUMIZ ADRIANO SOFRI BERNARDO VALLI VITTORIO ZUCCONI CHARLES DICKENS da UNA STORIA TRA DUE CITTÀ (Frassinelli editore) Repubblica Nazionale

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DOMENICA 23DICEMBRE 2007

DomenicaLa

di Repubblica

«Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori,era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia,

era tempo di fede, era tempo di incredulità,era una stagione di luce, era una stagione buia,era la primavera della speranza, era l’inverno

della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi,e futuro non avevamo».

NataleSperanzadel

La

Una leggenda austriaca racconta di una famiglia di nome Burkhard com-posta da marito, moglie e un bambino che recitavano poesie, cantavanoballate e intrattenevano la gente con la loro arte di giocolieri ai mercatinidi Natale. Come ci si può ben immaginare, non avanzava mai abbastanzadenaro per i regali di Natale. «San Nikolaus non porta solo doni che si pos-sono vedere» spiegò il padre a suo figlio, «ma anche i cosiddetti “doni invi-

sibili”. In una casa in cui regna la discordia, nella notte santa della cristianità, lui cerca diportare pace e armonia. Dove manca l’amore, pian-ta nel cuore dei bambini il seme della fede. A coloroai quali il futuro appare nero e incerto, porta la spe-ranza. Noi, in ogni caso, siamo ricchi di doni invisi-bili, perché siamo in vita e possiamo fare il nostro la-voro che consiste nell’arrecare gioia alla gente. Nonlo dimenticare mai».

Passarono gli anni e il bambino diventò un giova-notto. Un giorno la famiglia si trovò a passare davantiall’imponente abbazia di Melk. «Padre, ti ricordi diquando, tanti anni fa, mi hai raccontato la storia deidoni invisibili? Credo di aver ricevuto anch’io uno diquesti doni: la vocazione di diventare prete. Avrestiqualcosa in contrario se facessi il primo passo perrealizzare il mio sogno?». Sebbene avessero bisogno di loro figlio, i genitori rispettarono ilsuo desiderio. Bussarono al portone del monastero e furono accolti con generosità e be-nevolenza dai monaci che presero con loro il giovane Burkhard come novizio.

Venne la vigilia di Natale e, proprio quel giorno, a Melk accadde un miracolo: Nostra Si-gnora con Gesù Bambino in braccio scese sulla terra per visitare il monastero. I monacierano felici di questa visita e formarono una lunga fila. Uno dopo l’altro si inginocchiaro-

no di fronte alla Vergine e ognuno le rese omaggio alla sua maniera. Uno indicò i bei qua-dri che adornavano la chiesa; un altro portò un esemplare della Bibbia scritto a mano eimpreziosito da miniature, frutto di anni di lavoro; un altro ancora recitò i nomi dei san-ti.

Ultimo della fila, il giovane Burkhard aspettava il suo turno in preda all’agitazione. I suoigenitori erano semplici saltimbanchi e gli avevano insegnato soltanto a fare il giocoliere.Quando toccò a lui, i monaci avrebbero voluto concludere gli omaggi, perché credevano

che il giovane novizio non avrebbe potuto contri-buire con niente di importante e che avrebbe pro-babilmente danneggiato la reputazione del mona-stero. Tuttavia, anche lui voleva a ogni costo offrirequalcosa alla Vergine e a Gesù Bambino.

Pur vergognandosi, sotto lo sguardo di disappro-vazione dei suoi confratelli, tirò fuori dalla tasca al-cune arance e cominciò a tirarle in alto e a farle ruo-tare. Tracciò in aria un bellissimo cerchio, così co-me aveva sempre fatto quando andava ancora dimercato in mercato con i suoi genitori. Solo alloraGesù Bambino, in grembo alla Madonna, cominciòa battere le mani per la gioia. La Santa Vergine tesele braccia verso il giovane e per un momento gli fe-

ce tenere il bambino che continuò a ridere ininterrottamente.Alla fine della leggenda si dice che in seguito a questo miracolo, ogni duecento anni un

Burkhard bussa ancora al portone dell’abbazia di Melk, dove viene accolto, e che, men-tre si trova lì, “i doni invisibili” possono trasformare i cuori di coloro che lo conoscono.

Traduzione Francesca Gabelli. Titolo originale Il saltimbanco di Nostra SignoraPer gentile concessione dell’agenzia Sant Jordi Asociados, Barcelona

Il dono segretodel saltimbanco

PAULO COELHO

Siamo divisi tra paurae fiducia. Così le festepossono aiutarci a far ripartireun futuro inceppato

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Nelle pagine successive

EDMONDO BERSELLIGIORGIO BOCCAATTILIO BOLZONIMARIO CALABRESILEONARDO COENPINO CORRIASCONCITA DE GREGORIO DARIO FOENRICO FRANCESCHINIMIRIAM MAFAIFRANCESCO MERLO CARLO PETRINIFEDERICO RAMPINI GABRIELE ROMAGNOLIPAOLO RUMIZADRIANO SOFRI BERNARDO VALLI VITTORIO ZUCCONI

CHARLES DICKENS

da UNA STORIA TRA DUE CITTÀ (Frassinelli editore)

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de di marea che provenivano dai laghi dell’entroterrae non dall’oceano, passò dall’essere la bella del sud al-la fiammiferaia abbandonata sul marciapiedi, la pro-messa del Natale ha più senso che nei mille shoppingcenter d’America con i guanti e le cianfrusaglie cinesigià in saldo.

Non che la New Orleans delle cartoline e dei turistinon faccia ogni sforzo per giocare alla festa comanda-ta, secondo i canoni dell’economia e del commercio.Il tranvaino che mi porta nell’obbligatorio giretto sulpavé è condotto dall’immancabile Babbo Natale, chequi deve essere chiamato Papa Noël. Lungo le stradi-ne del quartiere francese, gli altoparlanti dai locali tiperseguitano con le solite nenie natalizie, ripetendo laversione qui preferita che canta «Noël Noël», anzichéChristmas, per rendere possibile la rima con «Israel».La Camera di commercio tempesta i canali locali an-nunciando il pienone di turisti con famiglia e bambi-ni venuti da tutti gli angoli d’America, perché il Noël aNew Orleans sarebbe di gran moda, molto trendy. Mal’offerta di viaggio da New York (tre ore di volo) più trenotti nei migliori alberghi dalla Vigilia a Santo Stefanoper 269 dollari (200 euro) a persona non fa pensare auna ressa furibonda di richieste.

Se altrove la frenetica ostentazione dello spirito na-talizio in confezione regalo diventa stucchevole e of-fensiva, nella città divenuta il fondo del barile ameri-cano, nel terreno dove si dispiegarono tutta l’inettitu-dine e la inaffidabilità del governo Bush che si congra-tulava con il direttore della Protezione Civile per l’«ec-cellente lavoro» mentre i medici negli ospedali sce-glievano quali malati lasciar morire e quali salvare,come in trincea, il falso del Natale diventa vero. Anchequelle tende rosa spettrali, da ultimo tango al cimite-ro, seminate lungo le stradine a pianta romana nellaPompei morta del Nono circondario, sono qualcosa,un segno, un lumino.

Il reverendo battista Marshall Truhill che mi accom-pagna nella visita notturna alla città immaginaria, unviaggio sconsigliabile senza guida, perché trappole dirottami, buche e mura pericolanti sono in agguato,aveva qui la propria chiesa di Ezechiele, dove ora c’èuna tenda a piramide aguzza: «Questa sarà la mia nuo-va chiesa», annuncia sicuro, «Dio la benedica». A mesembra un campeggio per ragazzine delle medie nelperiodo rosa, ma Truhill ha troppa fede nel suo mira-colo di Natale. Alleluja e Merry Xmas, reverendo.

Probabilmente, la realtà ricomincerà ad accender-si in gennaio, quando Brad Pitt e Angelina scopriran-no che i 250 milioni di dollari necessari per comincia-re il Progetto Nove e costruire cinquecento abitazioninon arriveranno, che il solito pasticcio corrotto di aiu-ti governativi promessi da Bush davanti alla cattedra-le di San Luigi e mai arrivati, ha prodotto ben poco. Eventicinquemila sfollati vivono ancora in roulotte pa-gate a peso d’oro a un “piezz’e novanta” locale, finan-ziatore bipartisan dei politicanti locali, notoriamentei più corrotti d’America qui nella Big Easy, nella grancortigiana. Roulotte nelle quali i dipendenti e i funzio-nari della Protezione Civile, la Fema, rifiutano di met-tere piede, perché inquinati dai gas tossici emessi dal-la formaldeide degli interni. La bronchite cronica è di-ventata la malattia endemica dei residenti.

Il regalo che i neworleansians si scambiano in que-sti giorni è il coraggio di sperare, che è il senso di ogninascita, dunque di ogni scommessa sulla vita. Occor-re uno scatolone di coraggio per resistere alla guida delsolo ospedale policlinico che funzioni, in una città dal-la quale il sessanta per cento dei medici generalisti el’ottanta per cento di specialisti se ne sono andati. Ke-vin Jordan, il pediatra direttore sanitario di questoospedale aperto da centosessant’anni, il Touro Infir-mary, calza in testa l’immacabile cuffiotto da BabboNatale, pardon, Papà Noël, per confortare i pazienti,ma quando gli chiedo della situazione sanitaria dellacittà perde ogni spirito natalizio: «New Orleans ha per-duto metà della popolazione, da 350mila abitanti cheaveva ai 160mila di adesso, ma i letti d’ospedale sonoscesi da cinquemila a mille e cinquecento. Per una vi-sita generalista, la gente deve aspettare un mese, nonle dico per le analisi. Danno l’assalto al pronto soccor-so per qualsiasi cosa, un dente cariato, un attacco didissenteria, le bronchiti croniche», prodotte dalla pol-vere micidiale della zone industriali abbandonate enon bonificate da nessuno. Perché lo sanno tutti, an-che il Genio militare che aveva eretto le dighe spazza-te via da Katrina e oggi le ha ricostruite come prima,che la miglior protezione è sperare che gli uraganiscansino la città. «Se soltanto ci fossero più abitazioni,più case, più scuole, potremmo attirare medici e so-prattutto infermieri», scuote il cappuccio il dottor Jor-dan, «e poi verrebbero le coppie giovani, i bambini.Oggi dove li metteremmo?». Sotto le tende rosa, dot-tore, i bambini si divertirebbero.

il reportageRipartire dal Natale

New Orleans,luci nel buio

VITTORIO ZUCCONI NEW ORLEANS

Natale nella città che non esiste è un ac-campamento di grandi tende rosa con-fetto a forma di scatolone e piramidi,vuote, ma illuminate dall’interno con

lampadine appese che diffondono sulle rovine attor-no una luce soffice e intima, da alcova. Visto dal pon-te sopra il canale della Franklyn Avenue sembra un ni-ght club d’una volta, un lugubre tabarin deserto cheattende invano clienti, champagne, risate finte esciantose. Si chiama Progetto Nove, nove come laNinth Ward, la città dei poveri e dei “colorati” che l’on-da di rigurgito dei laghi spinta dai venti di Katrina som-merse e inghiottì con la vita di 1.839 abitanti e dove daallora, da quel 29 agosto 2005, nessuno vive più e cheritroverei, se non fosse per quel campeggio di spettri,esattamente come la lasciai due mesi dopo l’uragano.Per ora, nessuno popola quelle tende rosa confetto ti-rate su in questi giorni dal gruppo internazionale di ar-chitetti che ne hanno fatto un’installazione da Bien-nale, un plastico in scala, per immaginare come po-trebbe essere la nuova città rinata dal fango. Rosa co-me il colore del mattino, scrivono, che ancora si sperapossa rispuntare a New Orleans.

Natale sul Golfo, con 25 gradi e una pioggerellinatiepida che scivola sul selciato del Vieux Carré, il quar-tiere francese che gli dèi del vudu risparmiaronoascoltando le preghiere dei fedeli (qui, dove è sepoltala gran sacerdotessa Maria Laveau, ne sono convintitutti), è qualcosa di più del solito, incongruo, turisticoNatale nei Caraibi da viaggi di fine anno e da film spaz-zatura. È la ricerca della speranza nel regno della di-sperazione. La voglia di nascere ancora, nonostante lacongiura degli uomini e del cielo che cercarono di uc-ciderti.

Forse quel progetto di ricostruzione del Nono cir-condario dove vivevano 125mila persone e oggi, se-condo la fonte più infallibile, il capo dell’Ufficio po-stale, sono rimasti appena 8.276 recapiti attivi, è unabravata di architetti californiani, newyorkesi, giappo-nesi e tedeschi, attratti da quella tela bianca sulla qua-le ogni disegno è possibile, e stimolati dalla coppia piùfamosa di Hollywood, Brad Pitt e Angelina Jolie, chequesto Progetto Nove hanno finanziato e sponsoriz-zato, stanchi di adottare bambini. Ma in una città chein quarantotto ore di tsunami alla rovescia, con le on-

A due anni da Katrinamezza città se n’èandata e non tornaChi è rimasto regalail coraggio di sperare

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respireranno questi giovani? «Ne parliamo spesso conmio marito, sa», dice Devika, «cerchiamo di capire co-sa possiamo fare. Qualcosa sta cambiando: arriva il gasnaturale che è meno peggio del carbone, la gente im-para a usare meno plastica e più materiali riciclabili.Cosa sarà questa città fra vent’anni? Dipenderà da noie dai nostri bambini, io sono certa che miglioreremotutto, riusciremo a pulire anche il colore del cielo».

Quando è il momento di fare figli le mamme india-ne non guardano solo in avanti. Il peso della tradizio-ne è formidabile. Balza agli occhi il ruolo centrale del-la famiglia allargata. Smita Rattan, ventinove anni, halasciato un posto ben pagato all’American Express set-te anni fa per dedicarsi all’educazione della sua primafiglia. Tra poche ore nascerà il secondo e anche per lui(o lei) nei primi anni vuole fare la mamma a tempo pie-no. «Ho smesso di lavorare per la gioia di godermi leprime tappe della loro infanzia e sono proprio felicecosì», dice, «con mia figlia passo più tempo possibile enon mi basta mai. Gioco, studio, faccio i compiti conlei, che sta diventando un piccolo genio del computer.I piccoli noi non li facciamo neanche dormire in un’al-tra stanza, perfino la siesta voglio farla insieme a loro».

Come tante mamme, durante la gravidanza si è tra-sferita a casa dei suoi perché anche i nonni sono figu-re centrali, amorosi e autorevoli, invadenti e indispen-sabili. «Saranno presenti durante le mie doglie, gli an-ziani leggono testi religiosi e cantano per aiutarci a pla-care i dolori». I nonni hanno addobbato la casa comeun tempio per la loro Smita incinta. Nella camera daletto troneggiano la statua di Shiva e della moglie Pa-vati circondati da un pantheon di altre divinità indù:Rama, Krishna, Ganesh l’elefante, Lakshmi la dea del-la ricchezza, Sain Baba, Durgamata. È un presepio na-poletano all’orientale, nel cuore della più grande reli-gione politeista che sopravvive tenacemente da tre-mila anni. La prima lettera del nome del figlio sarà scel-ta da un sacerdote. Al quarantesimo giorno dalla na-scita in casa dei nonni si terrà una cerimonia religiosa,la puja, per dare il benvenuto al piccolo nella casa e be-nedire il suo futuro. Schiere di familiari affluiranno inpellegrinaggio portando regali come tanti re magi, inun tripudio di collane di fiori.

La fede è stata preziosa per Shaveta Sanjay, trent’an-ni, manager della Citibank a Bangalore. Anche lei è ve-nuta a New Delhi per partorire a Natale vicina ai suoigenitori. «Ho avuto una gravidanza difficile, piena di

rischi. Ho padroneggiato la paura seguendo i consiglidella mia ginecologa: ho letto solo libri sereni, le leg-gende e i poemi epici dell’antica tradizione induista, ifumetti che mettono in scena le gesta degli dèi. Questinove mesi mi hanno avvicinato al divino, ho capito cheil potere dei medici ha dei limiti, alla fine siamo nellemani della provvidenza. Spero che il bimbo che na-scerà dedichi la sua vita ad aiutare i nostri connazio-nali più poveri. Ce n’è tanto bisogno. Sogno che sia unmedico umanitario, che scelga nella libertà ma chenella sua vocazione ci sia lo spirito di servizio, per re-stituire quello che avrà ricevuto».

Le prime tre donne col pancione che ho incontratoalla vigilia di Natale appartengono alla nuova India chece l’ha fatta, al ceto medio che ha studiato, dove si par-la un inglese perfetto e ci si sente cittadini del mondo.Sanno di essere privilegiate. Sono anche la dimostra-zione che la condizione della donna può cambiare auna velocità spettacolare. In altre regioni dell’India cisono ancora vedove che si suicidano per sfuggire a undestino di miseria e di emarginazione, altre che allamorte del marito si rasano la testa e vivono come mo-nache. E per decine di milioni di contadine il parto è unrischio mortale, la contraccezione un lusso scono-sciuto. Basta poco però: un salto di generazione, l’ac-cesso alla scuola e all’università, per fare la differenza.«Mio padre aveva nove fratelli, io arrivata a due figli hodeciso che mi fermo». L’India continuerà a crescere,sarà la fabbrica dei bambini del pianeta per tutto ilVentunesimo secolo, ma la galoppata della natalità sista moderando via via che sono le donne a deciderla.

Meenakshi Shrivastava, trentun’anni, è meno bene-stante delle altre. Lavorava in un albergo, la sua casa èdi gran lunga la più modesta. Suo padre si è fatto quin-dici ore di treno dal Bihar per venire ad assistere al par-to di Natale. «Mio figlio non sarà un bambino viziato»,dice Meenakshi, «non avrà una vita facile. Eppure so-no convinta che sia fortunato a nascere oggi. La vera ric-chezza dell’India siamo noi, sono questi bambini chestudieranno tanto e costruiranno un bellissimo pae-se». Scoppia a ridere quando le dico che nella vecchiaEuropa fa paura questo futuro sempre più affollato da“loro”. «Ma che strana idea! Di cosa vi spaventate, chemale c’è se sarà un mondo pieno di giovani indiani? Perdecenni abbiamo fornito New York di tassisti, d’ora inavanti vi daremo i migliori chirurghi. Il nostro ottimi-smo finirà per contagiare anche voi».

New Delhii figlidel domani

FEDERICO RAMPINI NEW DELHI

«Non c’è un momento miglioredi questo per mettere al mon-do un bambino. Viviamo inun’epoca felice e la sua lo sarà

ancora più». Ci vuole un bel coraggio a parlare così,quando il figlio che ti sta per nascere dovrà farsi largosgomitando in un Paese di un miliardo e cento milio-ni di persone. Di fiducia le mamme indiane ne hannoda vendere, e in India fanno più bambini che in ogni al-tra nazione al mondo. La notte di Natale i reparti di ma-ternità qui lavoreranno a pieno ritmo. Nessun’altrazona del pianeta questo 25 dicembre avrà degli ufficidell’anagrafe così indaffarati a registrare un esercito dineonati. Devika Chugh, ventisette anni, è una dellemamme di New Delhi che sta facendo il conto alla ro-vescia. Mi accoglie radiosa in casa sua poche ore pri-ma di entrare in ospedale, eccitata all’idea di raccon-tare la sua esperienza. Col pancione si è messa in viag-gio all’inizio del nono mese da Hyderabad, dove lavo-ra nel marketing di un’azienda di software, perché èqui a Delhi, nella città dei nonni, che voleva far nasce-re il suo bambino. O la bambina, chissà. «Non ho pre-ferenze maschio-femmina e mio marito neppure,davvero, però mi sarebbe piaciuto saperlo prima. Mala legge vieta al ginecologo di dirci il sesso per evitaregli aborti selettivi…».

Serena e rilassata, avvolta nel suo sari decorato concento colori, Devika si diverte quando chiedo se nonha mai pensato che la vita potrà essere dura per un pic-colo che nasce con tanti concorrenti a cui contenderelo spazio vitale. «Ah certo questo è un paese competi-tivo e il futuro se lo dovrà conquistare come abbiamofatto noi: studiando, perché è l’istruzione che ci ha sal-vati. Questa lezione non dovranno dimenticarla i no-stri figli. Ma nascono in un periodo fantastico. Pensiche il sogno di tanti nostri anziani era andare all’este-ro: l’emigrazione era l’unica via d’uscita. Io sono certache il mio bambino invece crescerà in India e riceveràqui un’istruzione tra le migliori del mondo. L’India dioggi è l’America di quarant’anni fa, il Paese delle op-portunità». Dalle finestre di casa sua filtra una luce gial-lastra, il cielo di New Delhi è velato da una nebbia dismog puzzolente, sono i gas di scarico di una baraon-da di camion auto e motofurgoni che si avvinghianonegli ingorghi clacsonando ossessivamente. Che aria

Alla vigilia del partoquattro donne indianeimmaginanoun futuro sorridentee pieno d’ottimismo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 23DICEMBRE 2007

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la memoriaNatale di guerra

Una marcia tra la vigiliae il primo dell’anno,dalle montagne alle LangheA consolarsi intorno a un fuocoprima della nuova battaglia

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tranquillo. Si sentì raspare nella neve, erala pattuglia di guardia, dentro i partigianidormivano. Allora per la prima volta, inquel momento di calma, pensai alla vitadi quei ragazzi, dormienti in una capan-na sperduta in un vallone boscoso dimontagna, fui preso da una commozio-ne triste ed affettuosa.

L’indomani continuò a nevicare, neera scesa più di un metro, e per mandarele staffette al comando della Val Mairabattiamo una pista, verso il basso dirittacome un filo a piombo, stretta e ripida, in

cui nemmeno le Ss dovrebbero avven-turarsi, ma lei sì, e quando le sentinelledanno l’allarme so che è lei: la signoraEmma. Prendo il binocolo, guardo quelpunto nero che è appena uscito dal bo-sco, ma so che è lei, piccola e indomita,una ebrea da combattimento, alta unmetro e cinquanta, con un cappellopiatto che ricorda quello di Garibaldi,nero come la giubba e la gonna chescendono fino alle caviglie e sembranola corazza di un semovente. Emma vie-ne da Torino, a vedere il figlio partigia-

no, ogni quindici giorni, e dovunquesiamo ci trova, ci ha trovato anche que-sto Natale: è arrivata in tramvia fino aVerduolo, ha affittato una bicicletta, è ri-salita in Val Maria, e poi a piedi, per lepietraie e nella neve. Di sorriso bellissi-mo e dolce, ma con un’attitudine al co-mando naturale, mi dà ordini perento-ri: gli uomini non sono abbastanza co-perti, i posti di guardia non sono ben di-sposti, quella ragazza che è uscita dauna baita, quella staffetta, ci sarà da fi-darsene? La signora Emma ispeziona,

controlla, osserva, quando si fa scuro midà la mano con una sua severa benevo-lenza, e se ne va giù per la trincea di neve.

Comunque fu una vera liberazionequando arrivò l’ordine di lasciare le duegrange sotto il Ratsciass e partire con duebande verso le Langhe. Una scarpinatacome quella del primo gennaio ‘45 non lasi dimentica: dalla Val Grana alle Langhe,la nostra anabasi, dalla montagna pove-ra alle ricche colline del vino. Avanti informazione di marcia, in testa una squa-dra di quindici uomini senza carico, con

Un Natale e un Capodannopartigiani. Un Natale dipovertà, un Capodanno difatica, ma quando la gio-ventù rimediava tutto.Cominciamo dal Natale. È

giunto l’ordine di far spostare la terzabanda dalla zona di Brusasco al versantedi Maira. Partiamo in ricognizione. Dadue ore camminiamo su un sentiero ap-pena tracciato e non riusciamo a trovareuna grangia. Quelle che abbiamo vistosono troppo in basso e lontane dalla cre-sta che confina con la Val Varaita in cui labanda continuerà ad operare. Finalmen-te, cinquanta metri sotto di noi, nascostedai pini, due piccole case in pietra. Laporta è chiusa, ma con una spallata il pic-colo chiavistello in legno cede. Il tetto èsfondato da una parte e si vede unosquarcio di cielo, a terra un palmo d’ac-qua stagna, non c’è un vetro alle finestre,mi sale alle narici una vampata di odoredi legno marcio, di foglie in decomposi-zione. Mi rivolgo a Franco che sta osser-vando. E allora? Gli chiedo. Va benissi-mo, risponde, basta un po’ di lavoro.

Dieci giorni dopo le due grange solita-rie erano irriconoscibili, gente in gambaquella della terza banda. Ai due lati dellastanza terrena, con tronchi di pini inca-strati e legati, hanno costruito due lettie-re aeree, come su palafitte, fra le due let-tiere un corridoio pavimentato con gros-se pietre permette agli uomini di rag-giungerle, in fondo, appoggiata alla pare-te, una stufa preistorica fatta di massi dipietra cementati col fango. Nella stufabrucia un ceppo di faggio spesso mezzometro. Ne consumano dieci per notte,ma di legna attorno non ne manca. Il ca-lore aveva asciugato l’acqua e rassodatoil fango; mentre fuori cadeva la prima ne-ve, nella grangia si poteva dormire a tor-so nudo, mancava la paglia per le lettiere,ma supplivano le foglie secche di faggiochiuse nei teli-tenda. Il tetto era stato ri-fatto, e alle finestre c’erano dei ripari dirami di pino.

Pranzai con i partigiani: riso bollito eformaggio di casera, quello era il nostrocenone di Natale, poi mi coricai propriovicino al fuoco. Dopo qualche canzonegli uomini si addormentarono. Alla lucediscontinua ma calda della fiamma, ve-devo i loro visi distesi nel sonno. Sembra-vano volti di bambini, dormivano vicinil’uno all’altro con un respiro tiepido,

GIORGIO BOCCA

albadell’ultimocoprifuoco

uel risobollito

L’MIRIAM MAFAI

Per molti anni, a casa mia, si è festeggiato un doppio Natale. La nonna pa-terna, abruzzese e cattolica, preparava per tempo il presepe. Era un granpresepe affollato di pastori, mucche, asinelli, Re Magi e in mezzo la grottaricoperta di muschio, dove tra Maria e l’asinello in un bel cestino c’era Ge-sù. Mia madre, lituana ed ebrea, attorno alla stessa data si concentrava sulrito della Hannuka, tenendo acceso il vecchio candelabro a nove braccia,

unica eredità e ricordo del padre, rabbino di Kowno.La nonna abruzzese e la mamma lituana avevano dimenticato le preghiere della lo-

ro infanzia, ma della festa, si chiamasse Natale o Hannuka, amavano il rituale che laprepara e l’accompagna. E dunque, i vestiti bianchi delle bambine, la tavola prepara-ta con particolare cura, i numerosi antipasti di pesce, la minestra con l’arzilla, il cestocon il torrone, i fichi secchi e i dolci fritti, le statuine da tirar fuori con cura dalle scato-le in cui erano state risposte l’anno precedente, l’odore delle candele che dovevano ri-manere accese per non so quanti giorni.

La festa dunque, nel mio ricordo, aveva assai poco di religioso. Ma era una vera fe-sta, un incontro di più generazioni, con i vecchi a capotavola e i bambini allegramen-te ammessi alla cena dei grandi (senza scambi di regali, però, che allora non usavano;o meglio, i regali per i bambini, contrariamente a quanto accade oggi, arrivavano so-lo un paio di settimane dopo e non li portava Babbo Natale ma la Befana).

Poi, dopo l’approvazione delle leggi razziali e con la guerra, anche il nostro Nataleinevitabilmente cambiò. La nonna abruzzese che preparava il presepe non c’era più.E le relative statuine erano andate perdute in qualche frettoloso trasloco. Ma mia ma-dre aveva conservato con cura il candelabro del nonno rabbino e continuava ad ac-

cenderne le candele per Hannuka. Nel corso degli anni la cena diventava sempre piùsobria, e i dolci sempre più rari. E non sempre c’era mio padre, che allo scoppio dellaguerra era stato richiamato alle armi. Comunque, era sempre Natale o Hannuka, chedir si voglia. Una serata nella quale si intrecciavano i ricordi e i propositi per il futuro.

E tuttavia, se debbo ricordare un Natale particolarmente ricco di emozione e di spe-ranza, la mia memoria va immediatamente al Natale del 1943. A settembre era statofirmato l’armistizio, ma la guerra non era finita. Roma, occupata dai tedeschi, era en-trata nel tunnel della fame e della paura. E affamati e impauriti eravamo anche noi nel-la nostra casa dietro piazzale Flaminio che ci era stata ceduta da un amico collezioni-sta d’arte, rifugiato altrove in una sua villa di campagna. In città i trasporti erano in-certi. Incerta l’erogazione del gas e dell’elettricità. Più che incerta la distribuzione deiviveri. La città era come stranita, percorsa da notizie e voci sempre più incontrollabi-li e inquietanti. A piazza del Popolo, a Porta Pia, a Porta Maggiore stazionavano i carriarmati tedeschi. Si diceva che gli ebrei del Ghetto, non si sapeva quanti fossero, eranostati cacciati, di notte, dalle loro case, e poi caricati sui camion verso destinazione igno-ta. Si parlava, sottovoce degli uomini arrestati dalle Ss, trascinati in una palazzina divia Tasso e lì torturati a morte. Si parlava delle razzie operate dai tedeschi che, all’im-provviso, circondavano un palazzo per stanare i giovani renitenti alla leva, nascosti dasettimane nelle cantine, nelle soffitte o in qualche appartamento dietro un muro. Lacittà viveva nella fame e nella paura. E nell’attesa dell’arrivo degli Alleati.

Piazza San Pietro era tagliata in due da una striscia bianca disegnata in terra che de-limitava l’inizio dello Stato della Città del Vaticano. I tedeschi non potevano varcarequella striscia di confine e si facevano fotografare lì, sullo sfondo della basilica, con aria

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 23DICEMBRE 2007

le armi leggere, duecento metri indietrole bande su due file indiane ai due lati del-la strada. Giriamo attorno a Caraglio, sitaglia per campi, seguendo i filari deipioppi e le bealere, ci fanno da guida gliuomini della ventesima brigata Gl dellapianura. Le guide sembrano sicure:«Fuori dalle strade asfaltate — dicono —i tedeschi non vanno mai. Qualche fasci-sta, ma di giorno».

A mezzanotte ci fermiamo in due ca-scine di San Benigno. «Buon anno», dicoal padrone di casa; «che sia l’ultimo» di-

ce, lui; «speriamo l’ultimo», dico. Rimet-tiamo i sacchi in spalla, gli uomini spen-gono le sigarette, siamo di nuovo nel ge-lo. Adesso saranno almeno dieci sottoze-ro, e si alza anche il vento, non forte mache entra nei pantaloni, ti morde i mu-scoli. Le armi dolgono sulla schiena, bi-sogna cambiarle di spalla di continuo.«Quanto ci vuole ancora?». «Ci siamoquasi», dicono le guide. «Riposiamocicinque minuti», dico. «No — dicono loro— dobbiamo essere ai Murazzi primadell’alba». «Ci siamo», dicono le guide in-

dicando una grande cascina. «Ma siamoa cinque metri dalla provinciale». «Il po-sto è sicuro», dicono loro. Gli uomini sci-volano nel cortile, entrano nel fienile e sigettano vestiti a dormire, passa romban-do sulla provinciale un camion, forse te-desco. «Non si fermano mai?». «No», di-cono. «Non mi fido, andiamo al guadosulla Stura». Il guado sulla Stura sono duecorde d’acciaio tese tra due gabbioni so-pra il fiume, ci si aggrappa con le mani aquella superiore, e si fanno scivolare dilato gli scarponi sulla inferiore. Gli uomi-

ni che portano le mitraglie le assicuranocon un moschettone alla corda superio-re. Di notte il guado non fa paura. Siamosull’altra sponda, e nella luna calante,nel cielo che si sbianca, vedi che le mon-tagne si sono allontanate, che non ti tira-no più per la giacca, e che laggiù dove c’èun primo color di rosa ci sono le Langhe,le terre del vino e del pane bianco.

A Benevagenna c’è un presidio tede-sco: hanno fatto le ore piccole, stannoancora lanciando fuochi d’artificio perfesteggiare. Il campanile alto di Mon-

chiero batte le sette quando prendiamola strada di Monforte e ci fermiamo in duecascine, questa volta per dormire sul se-rio. Ci svegliano a mezzogiorno e chiedo-no cosa vogliamo da mangiare; hannopreparato i tajarin, salsicce fritte e botti-glie di nebbiolo. Ma cos’è questa tristez-za, quest’ansia che vedo sul volto degliuomini? Forse il mal di montagna, que-sto sentirsi fuori dalla montagna e noncapire che guerra si farà in mezzo a que-ste vigne. In qualche modo faremo, im-pareremo, conosceremo.

divertita e marziale. A Villa Borghese pascolavano le pecore e le aiuole di Roma (anchequella di piazza Venezia) erano state trasformate in miserabili «orti di guerra». Alle set-te di sera scattava il coprifuoco. I portoni delle case si chiudevano. Si chiudevano le fi-nestre dalle quali non doveva trapelare nemmeno una lama di luce. Le strade eranobuie e deserte. Dopo le sette di sera potevano circolare soltanto i militari, fascisti o te-deschi, e i civili che avessero un permesso speciale, i tipografi, i medici, gli infermieri.

Ma per Natale ci fu una novità. Il comando tedesco ordinò lo spostamento delcoprifuoco dalle sette alle nove di sera. Per tre giorni, il 24, il 25 e il 26 dicembre,avremmo potuto godere di due ore di libertà in più. E noi ci godemmo quelle dueore di libertà in più andando alla ricerca di carrube e mosciarelle (le castagne sec-che che potevano essere masticate per ore) che avrebbero sostituito sulla tavolanatalizia i dolci di una volta.

La casa che l’amico collezionista ci aveva affidato era grande e bene arredata, con-servava il ricordo di lontane feste e ricevimenti ai quali noi non avevamo partecipa-to. E all’improvviso ci venne in mente di festeggiare lì il nostro Natale del 1943. Chia-mando a raccolta, per quella sera, i nostri amici più cari. Nonostante il freddo, la fa-me, la paura. Mia madre venne convinta a sacrificare, per l’occasione, un mastello dimarmellata gelosamente conservato da tempo immemorabile. Le patate, nascosteda mesi in cantina, avevano messo i germogli e passammo un intero pomeriggio a ri-pulirle. La cena, decidemmo, doveva essere una vera cena, alla quale tutti avrebberocontribuito portando qualcosa: un mezzo chilo di pasta, una mezza bottiglia d’olio,una scatola di pomodori. Degli aranci. Del pane. Del formaggio. E vino, in abbon-danza. E cena fu, come avevamo deciso.

Non ricordo se mia madre accese anche quell’anno il candelabro a nove bracciache era stato del padre rabbino a Kowno. Ma ricordo la nostra allegria, la sicurezzacon la quale tutti, un po’ ubriachi, brindammo abbracciandoci all’ultimo Natale diguerra. Non era solo una speranza. Eravamo sicuri che l’anno successivo non ci sa-rebbero stati più tedeschi a Roma. Era la nostra scommessa di adolescenti, impegnatida mesi a distribuire giornaletti clandestini e a scrivere di nascosto sui muri «abbas-so i tedeschi». Ed eravamo sicuri di avere ragione, sicuri che alla fine avremmo vintonoi. Eravamo giovani... Il più vecchio tra noi, Maurizio Ferrara, aveva ventidue anni.E aveva appena compiuto i vent’anni Maria Antonietta Macciocchi, responsabiledelle donne comuniste dalla nostra zona che mi aveva ordinato «se ti fermano men-tre hai l’Unità in borsa, devi mangiarla» (per fortuna non mi è mai successo). La piùgiovane era mia sorella Giulia che, a tredici anni, aveva avuto il compito di cucire, peril giorno della liberazione, una quantità di coccarde tricolori. La Resistenza era pernoi un’avventura, un gioco, una sfida. Dalla quale eravamo sicuri di uscire vincitori(la bella sicurezza di essere nel giusto che pian piano, negli anni della maturità,avremmo perduto).

Così un Natale di freddo, di fame, di paura si trasformò (e tale è rimasto nella miamemoria) nel più bel Natale della mia vita, di amicizia, di festa e di speranza. Al-l’alba, appena possibile, uscimmo tutti assieme. Arrivammo fino al Pincio. Face-va un gran freddo e i nostri cappotti erano miserabili. Sotto di noi la piazza era vuo-ta. Eravamo ubriachi e felici. Sicuri di avercela fatta. E, dopotutto, avevamo ragio-ne. Su quella piazza, solo qualche mese dopo, vedemmo arrivare i primi carri ar-mati inglesi e americani.

Nonna cattolica, madre ebrea,una festa che ne univa duenell’anno più lungo, quellodel rastrellamento del Ghettoe di un armistizio troppo lento

dei partigianiragazzini

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le storieNatale con i tuoi

lo di quel Natale sotto la neve.Oggi l’appartamento di Monza è ri-

scaldato, ammobiliato e pieno di luci,ma il ricordo di quelle candele accesenelle stanze vuote resta la grande me-moria fondativa della famiglia. PapàRiccardo non ha dubbi: «Quel Natale fututto. Il coronamento di una stagione dirodaggio per tutti e il segno di un’allean-za che nasceva. Di fatto, inauguravamola nuova casa. Tutti sentivamo anchel’emozione del passato alle spalle. Io erovedovo da tre anni, la mia prima moglie— Stefania — era morta proprio sottoNatale, e le assicuro che fu un Natale ter-ribile. Ma i miei ex suoceri vennero lostesso nel 2001, si sedettero alla nostratavola e non fecero una parola della ma-linconia che nascondevano in cuore. Diquesto non smetto di essere loro grato.Eravamo tutti al settimo cielo, pieni difelicità allo stato puro, una felicità quasiinfantile. Compresi gli zii e i fratelli era-vamo in quattordici: non siamo mai piùstati così numerosi in famiglia. Ricordoche alla fine ci siamo buttati in piscina,nel seminterrato della casa, per scaldar-ci un po’. Nuotavamo, e oltre i vetri ve-devamo la neve che cadeva. Magnifico».

Oggi piove smog su Monza, le stradesono deserte, vuota persino la tangen-ziale di Milano. In casa l’abete per la pri-ma volta è di plastica («ragioni ecologi-che», ti dicono tutti) e il piccolo Edoardocon il nome da principino inglese si ar-rampica sul letto a castello, mentre Pa-trizia pensa alla cena. Andrea si preparaa uscire per guadagnare qualche soldo albancone di un bar, Jacopo e Alessandro,che come età stanno in mezzo, fingonodi non ascoltare cosa i genitori raccon-tano di loro. La nave va, c’è una grandeserenità a bordo. «Governare la baraccatalvolta è complicato — sorride mammaPatrizia, divorziata da molti anni dal pri-mo marito — con i figli non propri si hasempre paura di arrabbiarsi troppo o, alcontrario, di non fare abbastanza». Ma iragazzi smentiscono. «Loro si fannomolti più problemi del necessario», in-terviene Andrea con il cappotto già ad-dosso. «La biologia non c’entra, c’entra-no l’autorità e l’affetto. E da questo pun-to di vista, per noi non ci sono differenzenel rapporto con i genitori. Parliamocichiaro: non sono le urlatacce a ferirci».

ceri, una nuova coppia e i figli di due ma-trimoni seduti allo stesso tavolo, con ilfiglio di una terza unione — la nostra —in arrivo… Il Natale 2001 è stato davverol’ultimo sigillo della nostra unione. E micommuove pensare che sono stati pro-prio i figli a volere che fosse così, a rom-pere, grazie al Natale, le nostre ultimeesitazioni… Davvero, quando penso alNatale, penso a quel Natale. Non ce nesono più stati altri simili a quello».

Normalmente ci si sposa, poi si fa unfiglio e poi si celebra il nido mettendo ilumini su un abete. Nel caso di Patrizia eRiccardo — entrambi con una storiachiusa alle spalle — l’ordine degli eventi

s’è invertito. Prima è venuto il Natale, poiè nato un bambino e solo alla fine è arri-vato il matrimonio, il secondo per en-trambi. Nelle famiglie allargate succede:si bada meno alle convenzioni e a cosadice la gente. Oggi attorno all’abete 2007c’è un gruppo affiatato, compatto comeil pacchetto di mischia, con i due adulti afar da allenatore e commissario tecnicodella squadra. Formazione: Patrizia Cia-ni, anni quarantacinque, maestra discuola materna; Riccardo Schiavina,cinquantatré, cardiologo; Andrea, ven-titré, laureando in biotecnologia, e Ales-sandro, diciannove, studente all’istitutoper il turismo, figli di primo letto di Ric-cardo; Jacopo, sedici anni, terza liceoscientifico, nato dal primo matrimoniodi Patrizia; infine Edoardo, classe 2002,scuola materna, il cocco di tutti. Il rega-

MONZA

Ah, che meraviglia quellasera del 24 dicembre…Nevicava fitto in pianura,in casa non avevamo an-

cora la luce elettrica e nemmeno i mobi-li, e il riscaldamento era in tilt. Accen-demmo candele e portammo i vassoi colcibo da fuori, così tutto arrivò in tavolafreddo… ma fu una gioia immensa, losciogliersi delle ultime paure… e fu, an-che, un grande inizio. Ne eravamo con-sci tutti, a partire dai nostri figli. Sei suo-

PAOLO RUMIZ

oi, normali genitoridi famigliaallargataN

Cenone della vigilia:sei suoceri, una nuovacoppia e i figlidi due matrimoni,con il bambinodi una terza unionein arrivo

Ritratto di gruppodi questi tempiin cui si bada pocoa ciò che dice la genteed è molto megliostare tutti insiemeappassionatamenteper un nuovo inizio

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Ghigna papà Riccardo: «Questi bri-ganti sono diventati branco con facilitàinaudita, hanno formato subito la ban-da dei quattro. Li accomunano tante co-se, persino la gelosia per il più piccolo,che è il privilegiato di famiglia». «Anchese — aggiunge immediatamente — so-no stati proprio loro a insistere perchéavessimo un altro figlio. Probabilmentevolevano una sorellina, ma Edoardo li hafregati». Anche il matrimonio l’hannovoluto loro, racconta Patrizia. «Voleva-no che nessuno in famiglia restasse sco-perto». Alle spalle del divano, sotto la fi-nestra, mostra — in mezzo a una trenti-na di cornici in argento, le foto dello spo-salizio al castello di Lerici, presso La Spe-zia. I figli hanno fatto davvero tutto.Edoardo era già nato e sostituiva il bou-quet. Jacopo suonava la marcia nuziale.Andrea, l’unico maggiorenne, faceva datestimone. La moviola mostra la sposache arriva trafelata con tre quarti d’ora diritardo, la cerimonia in una cappella deitemplari alta sul mare, il buffet al tra-monto e poi la festa in campagna e man-gia-bevi fino alle tre del mattino, conamici e parenti, pochi ma buoni.

Arriva la cena, stufato, indivia con for-maggio e pancetta, e un gran rosso to-scano. Fuori piove più forte, si sta beneassieme. Tirare le somme tocca lei, che èl’unica donna del gruppo: «Ci chiamanofamiglia allargata ma siamo solo una fa-miglia unita, in una situazione — rico-nosce — senza antagonisti». Gli Schiavi-na fanno festa quando possono. Si sonocomprati un “gozzo” ligure, l’hannopiazzato nel porticciolo di Lavagna,l’hanno eletto casa al mare e sopra ci fan-no concertini quando il tempo non per-mette di uscire. Suonano tutti — chitar-ra, clarino e pianola — e insieme fannoun’orchestra. Riccardo è velista, istrut-tore nazionale diplomato a Caprera, mail tempo per le regate non c’è e ora la nuo-va passione è lo scafo a motore, perfettoper le fughe brevi. «Sono stanco di fare ilmedico a Milano, ho voglia di andarme-ne — confessa — per ritrovare un rap-porto umano vero con colleghi e pazien-ti serve una dimensione più di provinciae per questo mi sento pronto a sorbirmianche cento chilometri al giorno di au-tomobile. Quel Natale è stato anche il se-gno che dovevamo fermarci un po’».

SAN SEBASTIANO DA PO (Torino)

Èin cima alla collina che vogliono andare. Là soprac’è una cascina. C’è un fienile. C’è una stalla. C’è uncampo scosceso dove pianteranno alberi da fruttoe c’è un piccolo orto dove faranno crescere i po-

modori. L’altro Natale don Luigi li aveva incontrati per annun-ciare che quella sarebbe stata la loro grande casa, questo Nata-le firmeranno le carte per diventare una sola famiglia. È in cimaalla collina che vogliono vivere. Tutti e dodici. Elena e Andreacon Rachele, la loro bimba. Angelo, Matteo, Francesca e l’altroAndrea con la figlia Matilde. E poi Anna, Dino, Riccardo e Cri-stina. Tre coppie, due bambini, quattro single. Il loro desiderioè prendersi per mano, fare un po’ di strada insieme.

La cascina una volta era dei Belfiore, boss della ‘ndranghetatrapiantati in un Piemonte nascosto a neanche trenta chilome-tri da Torino. Il capo si chiama Mimmo, è quello che nel 1993aveva ordinato l’uccisione del procuratore Bruno Caccia. A suofratello Sasà aveva intestato le “proprietà”, accumulate in annidi scorrerie. Anche la fattoria sulla collina di San Sebastiano daPo, dove era acquartierato tutto il clan. Dopo le indagini patri-moniali gliel’hanno portata via. Sequestrata prima, confiscatapoi, assegnata come “bene mafioso” al Gruppo Abele di LuigiCiotti e adesso affidata a quei dodici uomini e donne che faran-no lì — sull’altura — la loro comune.

Ma non sarà come quelle degli anni Sessanta e Settanta. «Alcontrario il nostro progetto è quello di mettere la comunità alservizio della famiglia per farla crescere», racconta Andrea cheha trentuno anni e fa il ricercatore all’università. Angelo di annine ha venti di più e insegna religione. Ricorda: «Il nostro sognoè diventato realtà fra due Natali, la festa che è sempre stata il sim-bolo della famiglia».

Era il 23 dicembre del 2006 quando don Luigi li chiamò per laprima volta: «Ho pensato che la cascina di San Sebastiano sia ilposto giusto per voi, quando ero giovane e stavo per aprire il

Gruppo Abele mi hanno sbattuto tante porte in faccia, con que-sta cascina voglio dare a voi la speranza». Il 23 dicembre del 2007Andrea e gli altri entreranno in possesso — fino al 2027 — di qua-si mille metri quadrati. Due piani e una mansarda, quattro ap-partamenti nella cascina ristrutturata e altri tre ricavati dove orac’è il fienile, il grande salone con la cucina, una cantina e poi tan-ta terra intorno.

È una scelta estrema, un cambiamento profondo per tutti lo-ro. «La speranza è anche quella di vivere in un modo diversodentro quelle mura», sussurra Riccardo, anche lui trentuno an-ni e anche lui insegnante in un liceo. Come tutti gli altri suoicompagni fa parte di quel “gruppo nel gruppo” che è l’associa-zione Comunità e Famiglia.

Ci vogliono sette minuti in auto per arrampicarsi sulla colli-na, ci sono voluti tre anni di “percorso” per unire le tre coppie ei quattro single in quest’avventura che sta per cominciare sottoil Natale. «E sarà questo un Natale diverso per tutti noi, il primoinsieme, il primo dove tutti abbiamo raggiunto la consapevo-lezza che, da soli, non avremmo potuto vivere pienamente», di-cono mentre descrivono come sarà il loro futuro. A San Seba-stiano da Po ciascuno continuerà ad avere la propria abitazio-ne ma con un patto di mutuo soccorso, di “vicinato solidale”.Non ci saranno norme da rispettare ma solo reciproca fiducia.In nome della condivisione, dell’accoglienza, del sostegno.

La cascina dei Belfiore è già stata ripulita, i muratori hannoaggiustato i tetti e tirato su le pareti, riordinato la cantina. È qua-si pronta per andarci ad abitare. Racconta ancora Andrea, il ri-cercatore: «Era da tempo che molti di noi avevano manifestatola voglia di fare una vita in una famiglia allargata per condivide-re difficoltà e gioie». È ancora la speranza che torna nei loro pen-sieri. Dice Cristina: «Le persone, se si sostengono e si accompa-gnano e se riescono a considerare le loro differenze una risorsa,moltiplicano le loro potenzialità e riescono a fare cose che da so-le non realizzerebbero mai».

La cascina profuma di nuovo, calce e pittura. «Ci saremmodovuti entrare proprio a Natale ma poi è successo quello che èsuccesso», sospira Riccardo. I Belfiore non se ne volevano an-dare dalla loro casa. Hanno perfino provato a raccogliere firmein paese, dagli altri milleottocento abitanti volevano un “gradi-mento” sulla loro presenza a San Sebastiano da Po. Ci sono sta-te trattative estenuanti con la prefettura e il Comune, media-zioni per evitare l’intervento della forza pubblica. Poi i Belfiorehanno comprato un’altra cascina a qualche chilometro di di-stanza, a Casalborgone.

Da allora questi piemontesi «curiosi della vita» hanno co-minciato a immaginare quale sarebbe stata la loro nuova esi-stenza. E a programmarla. Faranno cassa comune. Verseran-no i loro stipendi interamente nelle mani di un tesoriere, ogniprimo del mese ciascuno di loro prenderà quel poco o quel tan-to che servirà. È Elena che parla: «Una convivenza fondata sul-la fiducia, il tesoriere consegnerà a ogni famiglia e a ogni sin-golo un assegno in bianco che sarà compilato a seconda delleproprie necessità e quello che non verrà utilizzato potrà servi-re alle altre famiglie».

Nella cassa dovrà sempre restare comunque una piccola par-te di fondo comune che loro chiamano «il certo», denaro che an-drà a finanziare altre comunità come quella di San Sebastianoda Po. «Il certo è un altro punto di speranza per sentirci vicini achi vorrà condividere questo nostro modo di vivere», racconta-no i nuovi inquilini di quella che è stata la “fortezza” dei Belfio-re. Il più giovane è Matteo che ha ventitré anni e fa l’educatore,il più vecchio Dino che ne ha sessantadue ed è un pensionato.Vivranno insieme due o tre o anche vent’anni. E apriranno la ca-scina al paese. «È un bene confiscato, è un bene che deve esse-re restituito alla collettività», dice Francesca, ventinove anni, as-sistente sociale. E aggiunge: «Ma non stiamo partendo con un’i-dea precisa, strada facendo vedremo cosa fare, per il momentoio sto realizzando un sogno che i miei genitori non hanno avu-to il coraggio di realizzare da giovani. Invece di arrivare a casa lasera e chiudere la porta, proveremo ad aprirla e trasformare leparole che ci portiamo nel cuore in pratica quotidiana».

Ci sono speranze e ci sono paure. Una su tutte. È Andreache la tira fuori: «La più profonda è quella di avere inseguitoun sogno per così tanto tempo e poi scoprire che non eraquello che volevamo». Anche vivendo insieme, nella grandecasa sulla collina.

La cascina dei sognidove la mafianon comanda più

ATTILIO BOLZONI

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i luoghiFantasia di Natale

INAPAPIJRI (Finlandia)

Nella classe del corso accelerato per follettisiamo in tre. Sedie minuscole, tavoli bon-sai, luce fioca, musica lappone da magienel bosco. Una bimbetta bionda con le

trecce, molto a suo agio con mollica di pane e cotone dabagnare nello zucchero, conosce già i trucchi: si vede cheli fa a casa davanti alla tv (ci dev’essere una specie di Art

Attack locale specializzato in renne). La bimba sarà fin-landese, cioè di casa; ha una maglietta di cotone a mani-che lunghe senza niente sopra, è assorta con degli stuz-zicadenti. Poi ci siamo noi. Madre e figlio di otto anni (suldistintivo gli hanno scritto “Lawrence”, sarebbe Loren-zo ma avevamo fretta): italiani, rigidi, scettici, infagotta-ti in giubbotti antivento anche al chiuso. Otto anni sonoun’età critica: «Tanto lo so benissimo che Babbo Natalenon esiste, sei tu. I Folletti sono una scemenza, non esi-stono nemmeno quelli, ma dato che siamo arrivati fin quise proprio vuoi fare il corso per diventare folletto ti ac-compagno». Mi accompagna.

Il corso è serio, una cosa lunga. I “docenti” sono tre,uno per uno. Vestono abiti da folletti di un materiale da

folletti, aderenti e morbidi. Ci separano, ciascuno se-guirà il suo percorso individuale calibrato secondo le ca-pacità. Noi due livello zero, ovviamente. La ragazzinasparisce dietro una porta a forma di campanula. Per co-minciare dobbiamo imparare qualche parola. Ci avvisa-no che la lingua dei folletti ha questo di speciale: la si im-para e la si parla solo in assenza di estranei. Appena si escefuori dal mondo dei boschi — cioè fra un paio d’ore,quando usciremo di qui di nuovo a dodici gradi sotto ze-ro, è un inverno caldo — l’avremo dimenticata. È inoltrevietatissimo diffondere i segreti dei folletti che stiamo perimparare: non fra gli umani. Se lo faremo saremo puniticon improvvisa e definitiva amnesia. La conversazioneiniziale è in inglese, da questo momento in poi si parleràsolo la lingua dei boschi e noi se seguiremo le istruzioni:la capiremo benissimo. «Sì sì», dice Lorenzo con l’aria diquello che guarda cosa gli tocca sopportare. Gli infilanoun cappello in testa e lo portano via da una porta a formadi orso. Ora io non sono in grado di raccontare — soprat-tutto non posso, ho promesso — cosa sia successo nelledue ore successive. Diciamo che non me lo ricordo e chese me lo ricordassi potrei riferire solo di musiche profu-mi e magie, un mondo meraviglioso un po’ genere Cro-

nache di Narnia ma senza la Strega del ghiaccio, quellaterrificante, un posto dove il tempo non passa mai e tut-

ti sorridono e anche se stanno nudi nella neve non han-no mai freddo. Posso però dire cosa è successo dopo. Lo-renzo esce col cappello in testa, un cappello da folletto.Mi guarda senza parlare — altrimenti si dimentica la lin-gua, remember? — mi fa l’occhiolino e dice: «Si va?». Do-ve? «Da Babbo Natale no? Non siamo venuti apposta?Andiamo, la casa è quella col tetto più appuntito di tutti,se la vedo la riconosco».

È impossibile non credere a Babbo Natale a Napapijri,Circolo Polare Artico. È impossibile perché non esiste al-tro che questo, qui: neve, stelle, penombra perpetua, qual-che ora di luce ma come per sbrigare le faccende correnti,quasi per sbaglio. Per strada motoslitte e vere slitte, gentepiccola che sembra che rida anche quando cammina a te-sta bassa da sola, ragazze che mormorano cose fra sé e sébevendo infusi, parole piene di consonanti che suonanocome campanelli. Rovaniemi è la base da cui si parte, lacittà: la biblioteca costruita da Alvar Aalto varrebbe da so-la la pena del viaggio. Lorenzo si veste come per andare apesca sul lago ghiacciato, dice che ha visto in tv nella stan-za dell’albergo che i pescatori escono con una specie di ca-vaturaccioli gigante, fanno un buco nel ghiaccio ci calanola lenza e tirano fuori dei pesci enormi: «Non surgelati,però. Vivi». Dice che gli sembra di essere una specie di «am-basciatore di quelli che vivono al caldo, mi sa che se vivi al

CONCITA DE GREGORIO

ENRICO FRANCESCHINI

Ma i nuovi regalinella grotta websnobbano la slitta

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Tra i folletti di Napapijri,al Circolo Polare Artico,un ragazzino di otto anniimpara la loro bizzarra linguae all’improvviso si ricrede

BARTON-UNDER-NEEDWOOD (Inghilterra)

Che la casa del Babbo Natale del Ventunesimo secolo sia in Lap-ponia, al Polo Nord o dove altro pare al simpatico vecchietto conil vestito rosso e la barba bianca, la sua grotta, il luogo in cui cu-stodisce i regali prima di distribuirli in giro per il mondo, è sicu-

ramente in un’anonima periferia industriale dell’Inghilterra come questa,dentro un capannone grande come dieci stadi di Wembley messi insieme, incui sarebbe facile parcheggiare mezza dozzina di jumbo jet e resterebbe an-cora un bel po’ di posto. All’interno, da parete a parete, da terra fino al soffit-to, cinquanta file di impalcature, così lunghe che ci vuole mezz’ora per per-correrle a piedi fino in fondo, contengono seimila tipi di giocattoli, oggetti,regali diversi: cinquantamila pupazzetti di Guerre Stellari, settantamila na-vigatori satellitari, trentacinquemila lettori iPod, e poi centinaia di migliaiadi televisori, telefonini, automobiline, bambole, palloni da calcio, robot tra-sformabili in qualcos’altro, profumi, giochi del Monopoli, cravatte, sciarpe,macchinette per il caffè, computer, gadget, scarpe, borsette, magliette, mac-chine fotografiche, mappamondi, biliardini, soldatini, pigiami, zainetti, percitarne soltanto qualcuno.

Un esercito di mille elfi, sorry, intendevo dire magazzinieri, carica, scarica,sposta e infine depone su appositi nastri ruotanti trecentocinquanta oggettiall’ora a persona; quattrocento carrelli elevatori li prendono quindi in conse-gna alle stazioni di partenza, per caricarli su duecento camion a rimorchio chevanno e vengono in continuazione, ventiquattro ore su ventiquattro. Impos-sibile sbagliare, o perlomeno nessun errore umano è concepibile, perché tresistemi di programmazione computerizzata controllano pezzo per pezzo tut-

l bambino Lorenzo

Repubblica Nazionale

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caldo credere a Babbo Natale è più difficile, bisogna senti-re questo freddo per sapere che c’è».

Si parte, c’è una versione moderna della slitta che ciaspetta: un gippone da taglialegna. Il “Santa park” è un vil-laggio dei divertimenti a tema, diremmo se fossimo anco-ra alla luce e al tepore di un paese del sud. I villaggi dei di-vertimenti sono non-luoghi di cui abbiamo imparato a dif-fidare. Ti devi divertire per forza, che è un po’ come inna-morarsi per forza: impossibile. Di solito spendi un sacco disoldi e ti arrabbi parecchio. Quasi sempre qualcuno si per-de. L’ultima volta a Disneyland pioveva, a tutti i bambinifurono consegnate all’ingresso delle cappe impermeabiligialle con il disegno di Topolino. Migliaia di bambini iden-tici sotto le cappe gialle e sotto la pioggia. Sicurezza im-pazzita a cercare i bimbi smarriti, genitori in lacrime. Unincubo. È l’ultima volta, abbiamo detto: l’ultima. I bambi-ni, riconsegnati dopo due ore di attesa e senza aver fatto ilvolo di Peter Pan, hanno fatto sì con la testa: l’ultima, va be-ne.

Il “Santa park” non è così. È un posto semplice e mode-sto, un villaggio. Niente vasche con le palle, niente tappe-ti rimbalzanti. Quattro casette, un albero di Natale in mez-zo, un cerchio di bambini che fanno girotondo attorno al-l’albero e cantano in una lingua del nord. La casa col tettoaguzzo, poi. Lui è li nella torre ma naturalmente non scen-

de: non si vede. Due ragazzine vestite da folletto vannoavanti e indietro dall’ufficio postale a portargli le lettereche gli arrivano da tutto il mondo: «Santa, Polo Nord», c’èscritto sulla busta. Le quattro case sono un ristorante, unnegozio, l’ufficio postale e i locali privati di Santa, casa sua.Al ristorante si mangiano polpette di orso, salame di alce estufato di renna. Non c’è quasi nessuno. Niente rispetto aGardaland o a un qualsiasi aquafun. Una cinquantina dipersone in tutto. I ragazzi dell’ufficio postale chiedono aLorenzo se vuole diventare il loro aiutante, lo accompa-gnano sul retro dove arrivano i sacchi di juta pieni di lette-re, gli fanno vedere come vengono smistate secondo ilpaese di provenienza. Ecco, tu ti siedi qui accanto a Heidi.In che lingua le vuoi le lettere? In italiano. Ok, tieni questosacco: queste vengono tutte dall’Italia.

Restiamo tre ore. Lorenzo pensa che forse troverà la let-tera di un suo amico, di un compagno, quella spedita dalfratello più piccolo: vuole restare e magari tornare doma-ni, le vuole mettere in ordine tutte. La ragazza che si occu-pa della corrispondenza dalla Spagna parla fitto fitto conlui. C’è odore di cioccolata calda e di rose. I folletti indos-sano una maglia rossa che dice Santa’s little helper. Le ven-dono al negozio. Naturalmente vado a comprarne due,non si può resistere: le indossiamo anche noi. Lorenzo di-ce che la folletta Heidi gli ha spiegato che Santa non scen-

de dalla torre, naturalmente, ma che per mostrare il suoaspetto ai bambini che arrivano fin qui da tutto il mondoogni anno si fa una ricerca nella Finlandia intera per tro-vare l’uomo che gli somigli di più. «Un sosia, in pratica,mamma: hai capito?». Cinque o sei candidati vengonoportati al cospetto di Santa che sceglie («in base allo sguar-do e al sorriso, è lì che ha sede l’anima degli uomini») quel-lo in cui si riconosce. Il sosia poi durante le feste viene man-dato giù da basso ad incontrare chi lo vuol conoscere: si la-scia persino fotografare. Vogliamo andare anche noi? Masì. Dieci euro, la foto. Ma certo. Lorenzo crede alla storia diHeidi ciecamente. Posso fare la parte che faceva lui primadi arrivare qui? È una scemenza, Babbo Natale non esiste,è una cosa per spillare quattrini ai turisti? Posso dirglieloora che è così emozionato?

Si entra nella stanza della foto. «Posso tirarti la barba?»,chiede subito Lorenzo al tizio monumentale seduto su untrono con il vestito rosso. Lui fa sì con la testa. È vera.«Mamma la barba è vera!!». Quindi è vero anche Babbo Na-tale, ovvio. È vera la foto da allora custodita come una reli-quia in camera sua: un gigante coi capelli bianchi e la bar-ba lunga su un trono d’oro, un bambino infagottato comeun palombaro con due occhi sbalorditi grandi così, occhiche scintillano. L’anima è negli occhi, per l’ultima volta oc-chi di bambino, e Babbo Natale eccolo qui.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Il vecchio con la barbabianca esiste davveroLo dimostrano i sacchidi lettere che riceveda ogni parte del mondo

A gestire però l’inviodei doni è una macchinaefficientissima e anonima,in un grigio capannonea molti chilometri da lì...

ta la merce, comunicando con voce metallica all’auricolare di ciascun elfo,scusate ancora, di ciascun magazziniere, cosa contiene ogni scatolone, doveprelevarlo, su quale nastro depositarlo. Se sotto l’albero arriva il dono sba-gliato, dunque, bisogna prendersela col computer, non con Babbo Natale.

È sempre giorno, dentro la grotta anni Duemila. Non si odono voci, solo ilcostante sibilo elettrico dei carrelli elevatori e lo stantuffo dei nastri che ruo-tano. La notte tra il 24 e il 25 dicembre, quando dentro il capannone uominie macchine finalmente si arresteranno, dieci milioni di regali di Natale sa-ranno transitati da questo posto, cento milioni di regali calcolando gli altrihangar simili sparsi per la Gran Bretagna, per un fatturato totale di oltre quin-dici miliardi di sterline, pari a ventidue miliardi di euro, tutti incassati nel gi-ro di un mese attraverso ordinazioni su Internet. Perché che la grotta di San-ta Claus, come lo chiamano inglesi e americani, sia effettivamente questa, aBarton-under-Needwood, nello Staffordshire, località che altrimenti a nes-suno verrebbe in mente di visitare, o in un’altra sperduta macchiolina nerasulla carta geografica del Regno Unito dove sorge un capannone analogo,una cosa è certa: la frusta che fa correre le sue renne, schioccando nello spa-zio digitale, è e sarà sempre di più il web.

Questo dello Staffordshire è il quartier generale della Argos, la più grossaditta britannica di vendite “postal market”, per catalogo postale, come si di-ceva una volta, ma di fatto vendite on line da quando esiste Internet. Altri ca-pannoni sono il punto di smistamento della Amazon, la libreria in rete ame-ricana, che tuttavia non vende soltanto libri ma anche, e soprattutto prima diNatale, dvd, cd, regali di ogni tipo. Le statistiche dicono che in questo santoNatale 2007 il quarantaquattro per cento dei sudditi di Sua Maestà ha acqui-stato almeno un regalo in rete. Certo, gli acquisti fatti di persona, nei negozi,

sono al momento ancora più numerosi, ma la tendenza è innegabile: nell’ul-timo mese di quest’anno, in Gran Bretagna, le spese al dettaglio hanno regi-strato una flessione del tre per cento rispetto al 2006, mentre nello stesso pe-riodo quelle su Internet sono aumentate del ventidue per cento. Un anno fa,soltanto quarantasei dei millenovecento più grandi punti vendita, negozi egrandi magazzini britannici vendevano i propri articoli anche su Internet, oratutti e millenovecento lo fanno. L’anno scorso, il fatturato totale delle vendi-te su Internet in questo Paese è stato di trenta miliardi di sterline, quest’annosarà di quarantasei miliardi di sterline, quasi settanta miliardi di euro, con gliacquisti natalizi che ovviamente tirano la volata a tutto il resto dell’anno.

«Quest’anno non ci saranno ritardi», assicura Sara Weller, capo-elfo, miscuso un’altra volta, capo-magazziniere del capannone, che all’inizio di di-cembre ha assunto quattrocento dipendenti extra per evitare che cinque-centomila doni giungano a destinazione dopo il 25 dicembre, come succes-se nel 2006. Si direbbe che la crisi, qui dentro, non esista: le ansie di recessio-ne, la stretta dei mutui troppo facili che minaccia piccoli proprietari e grandibanche, la fatica di arrivare alla fine del mese per tanta gente, tutto sparitodentro la nube del consumismo on line, dove la gente compra oggetti che nontocca con soldi — quelli delle carte di credito — che spesso non ha ancora gua-dagnato. Questo è probabilmente il futuro di ogni società avanzata, compre-sa la nostra: la crescita dello shopping on line procede più celermente nel Re-gno Unito che in altri Paesi europei solo perché qui la penetrazione della ban-da larga ha già raggiunto l’ottanta per cento degli utenti, ma tra non moltosuccederà anche nel resto del continente. E Babbo Natale, allora, potrà an-che andare a riposarsi ai Caraibi: la grotta del Ventunesimo secolo funzioneràanche senza di lui.

a casadi Santa Claus

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diffuso timore di essere superati dal pro-gresso. Di non poter affrontare il domani.Paradossalmente l’avvenire dominatodal progresso crea insicurezza. Incertez-za. L’uomo si interroga di continuo, sen-za saperlo, chiedendosi se sarà in grado diaffrontarlo, di tenere il ritmo. È talmenteangosciato da quel futuro che lo immagi-na peggiore del presente. Il domani ènebbioso e il passato come cancellato. Ilpassato, dunque la storia, che dovrebbedargli equilibrio. C’è anche questo all’o-rigine della paura che suscita la preca-rietà nel lavoro. Il lavoro non è forse cam-biato proprio a causa della strapotenzadella tecnica, che ha ridimensionato l’in-dustria e moltiplicato il terziario, dove gliimpieghi sono appunto più precari? Nonsono un luddista. Dio me ne guardi. Il

progresso, in tutti i campi, mi affascina espesso mi esalta, come conquista del-l’uomo. Meglio il pessimismo nel pro-gresso che la beata soddisfazione nel-l’immobilismo. Ma c’è un prezzo che nontutti sono in grado di sostenere.

J.D. Quel che dici è essenziale. È la ra-pidità opposta alla lentezza di Milan Kun-dera. Non sappiamo più quale sorpresa ciriserva il progresso tecnologico. Come edove ci sorprenderà? Siamo in egual mi-sura dipendenti e associati all’accelera-zione tecnologica. Una volta il progressonon aveva la velocità di oggi. C’era il tem-po di digerirlo. Il rapido susseguirsi delleinvenzioni, delle innovazioni adesso ci favivere nel presente senza darci la possibi-lità di contare sulla durata della nostra si-

BERNARDO VALLI. Un pes-simismo, di variabile inten-sità, pesa sull’Europa bene-stante e pacifica. La bassa omediocre natalità, an-ch’essa variabile da paese a

paese, è rivelatrice della mancanza di fi-ducia nel futuro in società sofisticate, lacui comune civiltà (sia pure, nella versio-ne americana, rinnovata e ringagliardita)appare vincente nel mondo. Un mondorimpicciolito dalla rapidità imposta,consentita, dal progresso della tecnica. Achi è nato nell’epoca del rammendo,quando anche il borghese medio rivolta-va le giacche e rattoppava i pantaloni, nel-l’epoca delle guerre e delle dittature, del-l’odio di classe e del razzismo adottato co-me dottrina e applicato con lo sterminiodi massa, non riesce sempre comprensi-bile lo scontento dilagante in questa no-stra epoca consumistica e in questa Eu-ropa democratica senza frontiere. I con-flitti che agitano altre regioni del mondofanno tremare, a volte, le nostre porte dicasa, e occupano i nostri pensieri. Ma l’e-co di quelle lontane esplosioni ci fa anchecapire quanto sia privilegiata la nostracondizione. Eppure c’è tra noi un palpa-bile malessere. Non dico infelicità, per-ché l’espressione deve essere riservata al-la nostra intimità. Come spiegare il diffu-so pessimismo collettivo?

JEAN DANIEL. Quando la Francia èstata sconfitta dalla Germania nazistaavevo vent’anni ed ero l’uomo più infeli-ce della Terra. Ma avevo in me qualcosadi molto forte. Era la speranza. Allora, èvero, eravamo confrontati a una realtà,oggi parliamo invece delle possibilità.Quella speranza era in tutti i modi ali-mentata dalla storia, dai sogni, dalla con-vinzione che il bene avrebbe prevalso sulmale. E sapevo con precisione dove era ilmale. Sapevo anche che potevo battermi,che dovevo agire. Dunque non ero dispe-rato. Così mi sono arruolato nella divisio-ne Leclerc, che combatteva per la FranciaLibera. Il male era evidente, riconoscibi-

le, era incarnato dal nazismo. Partecipa-vo a un grande movimento collettivo, dimassa, che aveva un obiettivo.

B.V. E perché oggi un giovane o un uo-mo di media età non potrebbe essere ani-mato dallo stesso spirito?

J.D. Questo è il vero problema. Oggi ilmale può essere dappertutto. E questocrea malessere, incertezza. Il male puòessere nelle banlieuese può essere in Iran,in certi momenti, negli ultimi anni qual-cuno poteva individuarlo ovunque. Pen-sa a Bush che per uno o due anni ha crea-to una situazione in cui gli americani, do-po l’attentato alle Torri, hanno creduto diriscoprire la speranza nella disgrazia, va-le a dire di poter sconfiggere il male. In Eu-ropa non sappiamo più dove è ilmale. Abbiamo assistito al-l’eutanasia della classeoperaia, al tramonto del-l’esaltazione del prole-tario, del lavoratore, esiamo convinti chenon si possa riformarel’uomo e che si possacercare al massimo diriformare più o menola società. Mi riesce dif-ficile capire mia figlia,Sarah, che corre nei Paesidove si muore e si uccideper curiosità professionale eumana, ma con uno spirito cheassomiglia all’indifferenza.

B.V.Insomma tu pensi che il crollo del-le ideologie abbia appiattito gli animi, ab-bia creato un vuoto in cui si muovono de-gli individui disorientati, senza più puntidi riferimento. La civiltà borghese o capi-talista è la sola ad avere creato un’alter-nativa a se stessa, come se il confronto, lacompetizione fosse un elemento neces-sario al dinamismo di cui aveva bisogno.Il socialismo, che era quell’alternativa, èstato nella realtà un disastro, destinato arestare come tale nella storia. Ma la con-correnza cui ha costretto la democraziaoccidentale è stata proficua a quest’ulti-

ma. Non poche conquiste sociali di cuiusufruiamo in Occidente sono state favo-rite da quella competizione. La rivoluzio-ne d’Ottobre è fallita dove è avvenuta, mada noi ha dato frutti indiretti. Ora trionfaun pensiero unico, che è come un vuotoin cui mancano gli stimoli.

J.D. È proprio così. Nei periodici son-daggi in cui si chiede alla gente se pensache domani si starà meglio di oggi o di ie-ri, in dieci anni gli americani hanno cam-biato due volte opinione. Di recente si so-no dichiarati convinti che domani si staràcome oggi, forse un po’ meno bene. Glieuropei sono stati più netti: essi si aspet-tano un domani peggiore di oggi e di ieri.Io trovo strano che nei nostri paesi l’idea-le europeista, grazie al quale è cambiata

la storia tormentata del Conti-nente, non susciti alcun inte-

resse.

B.V. Lo trovo stranoanch’io. Ma credo sianocambiati i motivi del-l’insicurezza, quindi èdifficile dare oggi il giu-sto valore ai sessanta epiù anni di pace, una

pace istituzionalizzatanell’Unione europea, tra

paesi un tempo tanto ris-sosi, tanto bellicosi da fare

del Novecento il secolo piùsanguinoso nella storia cono-

sciuta dell’uomo. Al di là delle cause piùevidenti e più evocate dell’odierno sensodi insicurezza, quali sono il terrorismo el’immigrazione, penso ce ne sia una mol-to più importante e profonda: ed è il gran-de divario tra la straordinaria, travolgen-te crescita di potenza della tecnica e il len-to immutato trascorrere dell’esistenzaumana. Mentre la vita, sia pure allungata,è rimasta ancorata al tempo, come la na-tura, nella cornice della Terra, dell’uni-verso, al contrario il progresso tecnologi-co ha assunto ritmi tali da creare una for-te angoscia. Un’angoscia di cui possiamoignorare la causa, quindi difficile da cura-re, quasi uno stato d’animo cronico. C’è il

BERNARDO VALLI

ialogo sull’avvenireD

Anche in questi giorni festivi una sfiduciae un malessere di variabile intensità pesanosull’Europa benestante e pacifica. I conflitti

che agitano altre regioni del mondo restano fuori dalla nostra porta,le nostre società sono democratiche, i nostri consumi elevati

CULTURA*

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 23DICEMBRE 2007

tuazione domani. Questo non consenteun ottimismo totale. A meno che, benin-teso, uno non partecipi alla grande im-presa umana, quale è la ricerca, nel cam-po della scienza o della tecnica. Un mioamico fisico vive in un costante stato dieccitazione. Entrando nel suo laborato-rio si chiede ogni mattina quali novità,anche piccole, minute, scoprirà prima disera. Loro, quelli che partecipano all’e-saltante impresa della ricerca, vivononella velocità che li proietta nel futuro. Glialtri vivono invece nel presente, e quan-do si vive nel presente si ha paura del tem-po che passa e che porta verso un futuroincerto, in cui la competizione potrebbeessere troppo intensa per i mezzi, le ca-pacità di cui si dispone.

B.V.Da mezzo che era, la tecni-ca diventa sempre più unoscopo. Nel senso che unavolta conquistata essa dàpotenza e ricchezza. Chila possiede domina ilmondo. È sul terrenodella tecnica che l’A-merica democratica ecapitalista ha vinto laGuerra fredda control’Unione Sovietica tota-litaria. La tecnologia del-l’Occidente ha trionfatoin civiltà dove il cristianesi-mo ha fallito. Penso natural-mente alla Cina e all’India. Ma es-sa, la tecnologia, al contrario di quel che sipresumeva non senza arroganza, non èinscindibile dal capitalismo e dalla de-mocrazia. Altre civiltà l’hanno adottata ese ne servono con successo, senza tenerconto del “brevetto” occidentale che sipensava comportasse l’accettazione dialcuni valori. Dopo averla spogliata diquesti valori altre civiltà si sono appro-priate della tecnica e la fanno progredire.L’Occidente si sente scippato. Per l’Euro-pa è come se le avessero rubato il mille-nario talismano giudeo-cristiano. E chedopo averlo rubato l’avessero appuntodenudato di tutti i valori. Anche questo ècausa di frustrazione. L’Europa, che non

ha la potenza dell’America, che è una po-tenza commerciale senza il carisma (te-mibile) che ha una potenza armata, e cheha da tempo perduto il monopolio dellacultura occidentale, si trova confrontataa una concorrenza difficile da sostenere.I suoi concorrenti hanno il vantaggio dipossedere ormai la tecnica alleggerita ap-punto dei valori e degli oneri occidentali.

J.D.Per ritornare al tema del divario tralentezza della vita e rapidità del progres-so, mi ha colpito un esempio. Un agricol-tore, impegnato in non so quale coltiva-zione, diceva alla televisione che se nonci sono più stagioni non soltanto non cisono più raccolti, ma non si sa nemmenopiù quando è il momento di seminare. Eaggiungeva esattamente: non so più

«quando è la nascita della miaterra». La parola “nascita” mi

ha colpito. Vale a dire che senon ci sono più le stagioni

si perde la nozione deltempo, quindi dellastoria, non si hannopiù riferimenti nelpassato. E, ancora,non si può più contaresulla propria terra. Da

qui l’insicurezza, il pes-simismo. Ma penso che

siamo in una situazioned’attesa e che quel che pos-

siamo dire sul pessimismo ol’ottimismo non può essere una

verità profonda. Ho riletto di recente duetesti degli anni Trenta. Nel primo, Re-

gards sur le monde actuel di Paul Valéry,le civiltà scoprono di essere mortali; nelsecondo, Il disagio della civiltà di Sig-mund Freud, c’è la sensazione di vivere inun mondo che sta per finire senza mai fi-nire, senza vedere l’inizio di un altromondo. La filosofia è che il nostro dram-ma non è quello di non credere nell’av-venire, ma di non sapere come sarà l’av-venire.

B.V.Se capisco bene, stai aprendo unospiraglio all’ottimismo. Hai ragione, al-trimenti ci prendono per dei parrucconi.

J.D.I segni sono contraddittori. È comese fossimo a una svolta. C’è anche la fidu-cia nelle possibilità dell’uomo che con-sente di superare il pessimismo. Questocrea una situazione d’attesa: fin dove puòarrivare l’uomo? Trovo feconda l’idea diFreud e di Valéry sulle possibilità al tem-po stesso prometeiche e dionisiache del-l’uomo nel bene e nel male. Siamo a unasvolta perché molti pensano di vivere lafine della società così come essa è da lun-go tempo. Io non condivido in pieno que-sta teoria, ma penso che spieghi l’atmo-sfera di attesa. E l’attesa crea inquietudi-ne. Qualsiasi grande progresso in corsocrea incertezza. Riuscirà? Non riuscirà?

B.V. La rapidità, imposta, consentitadal progresso tecnologico, riguarda an-che o soprattutto l’informazio-ne. Il fatto di vivere in temporeale quel che accade nelmondo, di viverlo nellostesso momento insie-me a cinesi, americani,indiani, sudafricani, èuno dei grandi muta-menti avvenuti nellanostra società di cuinon è chiaro se sia unafine o un inizio. Le noti-zie ci arrivano brutal-mente in ogni momentodella giornata. Internet èun fiume ininterrotto dalquale i giovani traggono semprepiù le informazioni che alimentano la lo-ro immaginazione e che li guidano nellavita pratica. Nei primi dell’Ottocento lanotizia della ritirata francese da Mosca,principio della fine dell’impero napoleo-nico e di un’intensa epoca europea, è ar-rivata a Parigi, via Stati Uniti, settimanedopo. Oggi arriverebbe in un lampo. Nonci sarebbe il tempo di digerirla. Ma anchele notizie che ci riguardano personal-mente ci investono nei momenti più sen-sibili della giornata. I telegiornali dell’oradi cena e i quotidiani del mattino ci an-nunciano con spietata puntualità l’au-mento dei prezzi del burro, del pane, del-la benzina, e del tasso di inflazione. Così

viviamo nella mente l’angosciante ridu-zione del potere d’acquisto spesso più diquanto avvenga nella realtà. La pioggia dicifre può diventare un uragano. Il debitoamericano ammonta a trentanovemilamiliardi di dollari. È una quantità di de-naro inimmaginabile. Chi la rimborserà?Non può far crollare l’intera finanzamondiale? Siamo tutti indebitati, quinditutto può crollarci addosso. Se siamoparzialmente soddisfatti del nostro sala-rio, un salario medio che ci consente dicampare meglio dei nostri padri e nonni,esso ci sembra all’improvviso una mise-ria, e soprattutto un’ingiustizia, quandoascoltiamo o leggiamo che un grande di-rigente industriale guadagna 350-400volte di più. Un tempo il top era quaran-ta volte. Insomma l’assedio delle infor-

mazioni, che ci traumatizzano oci frustrano, perché ci fanno

conoscere la nostra crudasituazione rispetto agli al-

tri, è ininterrotto.

J.D. Quando c’è sta-to l’ultimo attentatoterroristico ad Algeri,attentato che ha fattodecine di morti, ero a

cena a Parigi con degliamici algerini. Era una

cena prevista da tempo.Dopo qualche parola ritua-

le sulle vittime le conversa-zioni si sono svolte senza tener

conto di quel che era appena accaduto.Nessuna traccia di emozione, di tristez-za. La padrona di casa, alla quale l’avevofatto notare, mi ha detto: «Abbiamo vis-suto tanti avvenimenti sanguinosi cheabbiamo finito per integrarli». Voleva di-re che aveva integrato la disgrazia. È dif-ficile generalizzare, perché oggi ci sonotrentacinque milioni di musulmani inEuropa, ma la concezione della vita è di-versa. Io sono nato algerino, mio padreveniva forse dalla Turchia e mia madredalla Spagna, sono nato ebreo, e ho pas-sato la mia vita a frequentare degli arabiai quali sono strettamente legato. Unacosa mi separa da loro: appunto la con-

cezione della vita. Loro “integrano” lamorte. Ed è un’integrazione probabil-mente favorita dalla loro storia. Il fattoche i giudeo-cristiani diano più valore al-la vita implica anche una grande sensi-bilità di fronte alle calamità. Siamo piùvulnerabili alle informazioni che si river-sano su di noi. Non le banalizziamo.

B.V. Una volta la “lotta di classe” ren-deva collettiva la reazione all’ingiustiziasociale. Fallita nella tragedia la promes-sa di un mondo giusto, egualitario, lesperequazioni sociali, quotidianamen-te esibite sulla ribalta televisiva e spessotanto clamorose da risultare offensive,sono vissute individualmente e quindisono forse sofferte di più, non essendociun’utopia compensatrice. Vale a dire lasperanza di recuperare.

J.D. L’indignazione per l’ingiustiziasociale si è intensificata. È diventata piùpratica, concreta. Più individualistica,come dici. Ci si indigna non basandosi sudei principi ideologici, ma perché si ve-de un senzatetto che muore quando latemperatura va sotto zero, o perché vie-ne svelato che alti funzionari abitano ap-partamenti di lusso pagando due soldid’affitto. La rivolta è meno mistica. È me-no ambiziosa, ha meno pretese. È sem-pre meno ideologica. Non parla dell’av-venire. Riguarda il presente. Consideral’antica questione della carità. Da Marxin poi, ma anche prima, ci avevano inse-gnato che era una furfanteria e che la giu-stizia doveva sostituirla. Ci avevano in-segnato che la carità era per i religiosi an-siosi di andare in cielo, o per i potenti chevolevano meglio mettere in soggezione isudditi. Dunque la giustizia doveva can-cellare l’ipocrisia implicita nella carità. Eche la giustizia era possibile in una so-cietà migliore. Era dunque quest’ultimache bisognava realizzare. All’improvvi-so è stata riabilitata la carità individuale.È come se non ci fosse più il sogno politi-co di una nuova società. E questo spegnela speranza di molti creando in loro unmalessere, che può anche essere chia-mato pessimismo.

e come tornare a crederci

Eppure lo scontento è diffuso e palpabile, anche se non semprecomprensibile. Due grandi giornalisti, uno italiano, l’altrofrancese, ricordano gli ideali che hanno visto nascere e moriree discutono alla ricerca delle radici della nostra inquietudine,che è innanzitutto difficoltà di pensare il futuro

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

la letturaNatale al bivio

del produttore Di Somma, posticipata dimesi quattro. L’autista, che si aspettavastipendio e gratifica natalizia, si rese con-to che non avrebbe neppure potuto fare iregali alla moglie e alla figlia, di anni tre.Tuttavia non protestò. L’unica cosa cheriuscì a dire fu: «Come l’ha capito? È tuttouguale, è lo stesso prosciutto!».

«Per te, che sei un autista», rispose ilproduttore Di Somma.

E liquidò la pratica: l’aereo già attende-va sulla pista, valigie e casse erano pron-te, sua moglie appariva abbastanza im-

bambolata da non rovinare il decollo coni suoi strilli. Non restava che andare.

L’autista tornò a casa all’ora di pranzo.Aveva promesso di fare la spesa da Bran-doni, il negozio di prelibatezze dove DiSomma ordinava i litchis già sbucciati, in-vece rientrava a mani vuote. La figlia gliandò incontro incuriosita, la moglie in-cattivita. La tavola era vuota. Un’altrapromessa non era stata mantenuta. Suamoglie l’aveva sposato sperando che ilproduttore Di Somma si accorgesse di lei,una volta che fossero andati a una festa in

giardino. O in subordine di lui, che la fac-cia da attore in fondo ce l’aveva. Ma allefeste non erano mai stati invitati. E che ilmarito potesse essere il nuovo Aldo Mac-cione, giacché di quello aveva il fisico, alproduttore Di Somma non era mai pas-sato per la testa. E ora?

«Licenziato».Lo disse così, con una parola sola, sen-

za soggetto, verbo ausiliario, comple-mento oggetto. I telegrammi portavano eportano solo cattive notizie. La moglie siaddossò al frigorifero vuoto: fine delle tra-

smissioni. E ora?Lui chiese: «Hai ancora fiducia in me?».Lei non ne aveva più da molto tempo.

Né in lui né in quel che erano insieme, masembrava tutto così lontano, quandonuotavano sotto il pelo dell’acqua. Ades-so erano arrivati sul fondo: erano final-mente quel che erano.

Fu la prima a stupirsi sentendosi dire:«Sì». Perché era sincera. Non sapeva per-ché, ma: «Sì».

L’autista allungò la mano, la mogliegliela prese, la bambina ci passò sotto, co-

Il produttore Di Somma mangiavaesclusivamente prosciutto Cam-pidoro. Rigorosamente acquista-to alla drogheria Morzello di piaz-za Enea. Si trattava di un salumeprodotto industrialmente, con-

servato in apposita vaschetta. Se ne sfor-navano migliaia al giorno, dirette in mo-do assolutamente casuale verso centi-naia di esercizi commerciali che le ven-devano. Niente distingueva il prosciuttoCampidoro della drogheria Morzello da-gli altri, eppure il produttore Di Sommamangiava soltanto quello.

La mattina della vigilia di Natale avevaspedito l’autista a comprarne quindicivaschette: partiva per una vacanza di duesettimane e non voleva restarne sprovvi-sto, né farne spreco. La quantità era, senon modica, giusta. La cameriera comin-ciò a preparare le casse di viveri che sa-rebbero state caricate sull’aereo privato,acquistato sei mesi prima per viaggiare fi-nalmente senza controlli né disagi. Nel-l’isola caraibica in cui il produttore avevacomperato una villa con due piscine aforma di rene per esorcizzare una malat-tia di famiglia, i frigoriferi erano vuoti:niente di locale soddisfaceva il suo pala-to e non indisponeva il suo stomaco.L’imminente vacanza lo entusiasmava.Amava volare e amava il mare. Di più: suamoglie aveva il terrore dell’aereo e adora-va la montagna. Il suo sogno era andare inauto a Morzine Avoriaz, dove avevanouno chalet. E sciare. Non prendeva la tin-tarella per paura del melanoma, nons’immergeva per timore di un’embolia. Eaveva contato diciotto disastri aerei sul-l’Atlantico nel corso di quell’anno.

«Prendi un Tavor, bevi un Philipponate vai liscia», le aveva detto il marito. Ave-va preso quattro Tavor, bevuto tre calicidi Philipponat, se ne stava su una sediadella cucina, le gambe distese sotto il ta-volo, un braccio penzolante dallo schie-nale, effervescente senza gioia. E ancoraspaventata. Vide entrare il marito con l’e-spressione da affamato che contrastavacon tutta la sua storia, familiare e perso-nale. Dove mai poteva aver conosciuto lafame? Lo osservò strappare con foga laplastica della vaschetta di prosciuttoCampidoro, prendere tre fette con le dita,appallottolarle in un unico involto e de-glutirlo. Poi incepparsi, come trafitto. Lacameriera si bloccò. Il produttore DiSomma si precipitò al bidone della spaz-zatura, rovistò.

«Stai cercando uno dei tuoi film?»,chiese la moglie. L’ironia mancò total-mente il bersaglio. Il produttore Di Som-ma riemerse tenendo tra le dita la ricevu-ta dell’acquisto del prosciutto, con l’inte-stazione del vicino supermercato GS.Ruggì il nome dell’autista. Gli fu condot-to davanti nel giro di trenta secondi. Lapratica di licenziamento fu immediata.La liquidazione, come ogni pagamento

GABRIELE ROMAGNOLI

C’è un bar armeno in rue de Liancourt a Parigi, Quattordicesimo ar-rondissement, dove molti anni fa un vecchio comprava sogni perfarne un dizionario. Io ci vado nei giorni freddi di Natale per ascol-tare storie. Tutti i popoli dispersi sono specializzati in storie. Le ten-gono in serbo come una mappa in grado di risalire i ritorni nottur-ni verso casa. Verso certi indirizzi del tempo che la crudeltà degli

uomini ha cancellato. Marie, la proprietaria, versa birra belga fino alle due di notte. Hasessant’anni. La birra è Leffe scura, l’aria lenta, la musica densa anche quando gioca adadi con Duke Ellington. Suo padre nel 1915, l’anno del genocidio, aveva otto anni.Venne deportato nel deserto siriano dai guerrieri turchi che cavalcando il furore na-zionalista avevano deciso di cancellare i paesi e la storia degli armeni in un viaggio disangue e di crocifissioni durato un milione e mezzo di morti.

Nel viaggio il padre fu venduto a una famiglia di nomadi curdi. Si salvò. Finì a Istan-bul. Venne rintracciato dai sacerdoti ortodossi che cercavano in tutto il califfato otto-mano le foglie disperse dell’albero armeno. Fu portato a Venezia. Accudito come unapreziosa e rara radice nell’Isola di San Lazzaro — dove gli insegnarono la vita e l’orto-grafia — per poi essere lasciato libero nel nuovo viaggio. Divenne chimico. Abitò a Biar-ritz, davanti all’onda oceanica che riempie di salsedine l’aria del golfo e le vetrate del-l’Hotel Imperial. Poi a Parigi dove visse fino a novant’anni. Si sposò. Ebbe tre figlie, tra

cui Marie, abbastanza soldi da comprarsi un bar e abbastanza coraggio da accettare ilpiù prezioso tra i regali di Natale, nel penultimo anno della sua vita: un biglietto di ri-torno.

Quando Marie porta crema di melanzane, riso con verdure e cardamomo, Henry,suo nipote, dice che anche il suo regalo più bello è stato un ritorno. Per la precisione unandata e ritorno. Henry legge l’armeno, ma per vivere traduce dall’italiano e dall’ingle-se. È allegro. È distratto. È fatalista. I libri sono la sua croce e il suo risarcimento. Quasiogni giorno il suo portiere tunisino di banlieu gliene consegna un pacco come fosse untesoro. Lui un po’ li legge, un po’ li mette via per la vecchiaia, un po’ li regala. Il regalo diun libro è l’oggetto del suo racconto di andata e ritorno, ma Henry divaga sull’amore.

Si è fidanzato via Internet, in una chat per solitari, corteggiando un nome, Mirna, chediceva di avere ventun anni, i capelli color del grano, e una predilezione per Shock, lapiù bella raccolta di racconti brevi di Richard Matheson che all’ultima riga ti spingononell’abisso. In quell’abisso Henry ci cascò già al primo incontro. Quando al bar libertydel ristorante del Terminus du Nord, davanti alla stazione ferroviaria dove approdanoi treni congelati in arrivo da San Pietroburgo, non si presentò Mirna, la bionda, ma suamadre, Josephine, con la lacrima di una notizia: Mirna è gravemente malata, è in co-ma, morirà. Lui si sentì già vedovo, anche se solo di un nome e di certi punti esclama-tivi che Mirna metteva tra parentesi, per timidezza. Chiese di vederla almeno una vol-ta. Impossibile, disse la madre, perché la prima e l’ultima volta potrebbero coincide-re, raddoppiando dolorosamente il lutto.

n viaggiodi soloritornoPINO CORRIAS

Un aereo che restacon un solo passeggeroI ricordi sepoltidi un padre. Due novelledi destini incrociatiDoppio sogno

URepubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 23DICEMBRE 2007

me se un gioco fosse cominciato.Nel cielo sopra i Pirenei era tempo di

bufera. Il temporale aveva perforato la se-renità delle previsioni meteorologiche.L’aereo del produttore Di Somma proce-deva con qualche scossone, cercando in-vano di domare la turbolenza. A bordo ilsuo armatore ostentava una calma chenon possedeva. Come i soldi che investi-va, l’aveva presa in prestito da fonte sco-nosciuta. Sua moglie, invece, non finge-va. L’effetto del Tavor e del Philipponatera svanito al primo scossone. I vetri riga-

ti di pioggia, le saette oltre quelli, i conti-nui aggiustamenti del velivolo in cerca diun perduto equilibrio, tutto la disperava.Lui l’aveva fatto apposta, ne era certa. Lavilla in un luogo che odiava e che si pote-va raggiungere solo in aereo. Un regalo dianniversario, le aveva detto. Come dona-re una coltellata. Peggio, perché ora, neera certa, sarebbe morta. E non la conso-lava trascinarlo con sé all’inferno.

«Basta!», urlò.Lui la guardò sorridendo.Lei gridò: «Voglio scendere!».

Lui si mise a ridere, indicando l’uscitadi sicurezza.

«Da qualche parte abbiamo dei para-cadute, ora chiedo».

Lei era stata un’attrice senza talento,prima di sposarlo. E lo era rimasta. Riu-sciva a fare soltanto la parte di se stessa,terrorizzata e ferita. Non riuscendo a ter-rorizzare anche lui, cercò di ferirlo.

«Ti tradisco, da due anni», disse.Lui s’irrigidì: «Con chi?», chiese.«Con l’autista, quello che hai licenzia-

to», mentì lei per non indicare qualcuno

a cui potesse fare del male.Di Somma non capiva di cinema, regi-

sti, attrici. Non si accorse che lei improv-visava malamente.

Disse freddamente: «Facciamo scalo aParigi. Tu scendi e non ti fai più vedere. Ticontatteranno gli avvocati».

Poi andò in bagno. Lei si ritrovò im-provvisamente tranquilla. E rovinata. Suquella bugia gli squali dell’ufficio legaleavrebbero tessuto la corda per impiccar-la. La conversazione era stata sicuramen-te registrata: lui lo faceva sempre. Non

avrebbe mai avuto lo chalet di MorzineAvoriaz tutto per sé.

Quando l’aereo ripartì dall’aeroportoprivato di Le Bourget l’ancor per poco si-gnora Di Somma restò nella saletta pas-seggeri con il suo completo di valigie fir-mate e l’espressione perplessa di chi nonsa decidere se è arrivato o sta per partire.Gli impiegati la guardavano senza faredomande: faceva parte del loro mansio-nario. La mezzanotte era prossima. Unosteward si avvicinò e le offrì una bottigliadi champagne. Lei se la lasciò posare da-vanti, ma non ordinò di stapparla. Estras-se il cellulare. Compose il numero del-l’autista. Voleva dirgli della menzognache lo riguardava, ma cambiò idea all’ul-timo momento. Disse invece: «Può venir-mi a prendere? Sono a Parigi, a Le Bour-get».

Lui rimase in silenzio qualche istante.Guardò la moglie, la figlia. Loro annuiro-no. Rispose: «Sarò lì all’alba».

Lei disse: «Grazie». Riappese e si ran-nicchiò per dormire sul divano, sotto lapelliccia di zibellino.

L’alba era appena spuntata quando sisentì toccare la spalla. L’autista era un ti-po affidabile. La ex signora Di Somma sialzò, prese la bottiglia di champagne, lainfilò nella borsa di coccodrillo, salutò ilpersonale dell’aeroporto e salì in auto.

«Spero che tu arrivi in tempo per il pran-zo di Natale», disse mentre partivano.

«Non farà una gran differenza», disselui.

«Neanche per me — disse lei — Divor-ziamo».

L’autista annuì. Fu tutto. Non disseroaltro. Non venne accesa la radio. Silenzioe chilometri. Passarono la frontiera cheera quasi mezzogiorno. Lei aveva biso-gno di una sosta al bagno e gli chiese di fer-marsi al primo autogrill. Lui obbedì. Sce-se e la seguì, gli stessi motivi. Fece più infretta e l’attese al bar. La televisione tra-smetteva un notiziario. La Messa di Nata-le del Papa in piazza San Pietro. La Pale-stina di nuovo in fermento. Autobomba aMosul. Un aereo privato precipitato nel-l’Atlantico durante una tempesta, mortoil produttore Di Somma. L’autista si girò.La donna era alle sue spalle. Impietrita.

Si guardarono.Lui disse: «Lei è vedova».Lei disse: «E lei è riassunto».Insieme dissero: «Dobbiamo festeg-

giare».Lei estrasse dalla borsa di coccodrillo la

bottiglia di champagne dono dell’aero-porto privato di Le Bourget.

Lui disse: «Mi aspetti qui», e scompar-ve tra gli scaffali. Tornò con due vaschet-te di prosciutto Campidoro.

Lei rise.Disse: «Le hanno mai detto che somi-

glia a Aldo Maccione?».Lui rispose: «Qualcuno».Andarono verso l’auto con i vetri oscu-

rati. Nessuno li avrebbe visti mangiare ebrindare.

Poi le lacrime della madre — su un viso di bellezza indiana — scivolarono dentro adue Martini e alla neve del pomeriggio e al caldo di un taxi. Fino a sfiorare certi puntiesclamativi che erano gli stessi di Mirna, la figlia immaginaria, che dileguò per sempreda allora, allontanata da carezze vere. Henry, tra quelle righe, si fidanzò con Josephi-ne. Succedeva tutto tre anni fa, in coincidenza con il Natale e il suo famoso regalo di an-data e ritorno.

Il padre partì con la figlia. Volò fino a Yerevan. Arrivò sulle sponde del Lago di Seva-na, risalì a ritroso i sentieri che si era lasciato alle spalle ottanta anni prima, ai tempi delsultano Abdul Hamid e della polvere intrisa di sangue. Trovò campi ben seminati. Tor-renti carichi d’acqua. E dove c’era il suo vecchio villaggio, solo prati, alberi da frutta esassi azzurri. Tutto sparito. Meno il profilo delle colline e il profumo dell’aria e il volodei merli a rallegrare quel che non vedeva e a dirgli che lui era rimasto vivo per onora-re i morti nel solo modo consentito, ricordarsi di loro, tramandarli.

Camminò dove un tempo c’era il cimitero cristiano. Trovò le lastre delle croci in pie-tra, i khachkar, infilate nei muretti a secco. Andò a sedersi su una pietra dove un tem-po c’era la sua casa. Passò il tempo a guardare cose che non c’erano. Ad ascoltare vociche venivano dal vento. A parlare in armeno con le ombre. Pianse, dormì. Si risvegliòfelice, disse a sua figlia: ho perdonato.

Henry, in quel giorno di Natale parigino, viene svegliato dal telefono. È un suo vec-chio amico, titolare di una libreria di libri usati, una Gilbert Jeune, che gli dice allegro,amico mio, ti conviene passare, ma non in libreria, direttamente da casa, ho una sor-

presa per te. Henry va. Si infila nel cuore di Parigi, emerge a Montparnasse. Nevica. Co-me quella volta con Josephine non è sicuro di quello che lo attende. L’amico gli mostraun libro. Lo riconosce. È una raccolta di piccoli racconti ebraici compreso quello chelo aveva fatto piangere. Non si ricorda il titolo, né l’autore, dice così: poveri e innamo-rati un vecchio e una vecchia preparano in segreto il loro reciproco regalo di Natale. Leiha ancora capelli lunghi e bellissimi. Perciò lui, al Monte dei pegni, cede il suo prezio-sissimo orologio da nulla per comprarle un pettine di tartaruga. Quello stesso giornolei si vende i capelli per comprargli una catena da taschino per l’orologio. E alla sera,scambiandosi ognuno l’errore di tanto amore, lei senza capelli, lui senza orologio, fi-niscono per abbracciarsi nel loro Natale innamorato.

Il libro è suo. Contiene una dedica che dice: da Henry, per le notti in sogno. Henry loriconosce di colpo. L’ha regalato due anni prima a un’amica che non riusciva a dor-mire. Il libro da allora si è messo in viaggio. È passato in altre case e bancarelle. È ap-prodato da Gilbert Jeune. L’ha comprato un professore universitario che l’altro gior-no l’ha riportato in libreria. Proprio tra le due pagine centrali, il libro contiene un asse-gno che lo riguarda, cinqucento euro, firmato dalla casa editrice Gallimard. Henry simette a ridere. Adesso rivede l’istante in cui, due anni fa, l’aveva infilato tra quelle pa-gine e si era detto: per non perderlo. Il tempo conserva e qualche volta restituisce. Sce-glie le pagine di un libro o le pietre di Yerevan. Sceglie la birra di Marie. Sceglie la nottedi Natale, e la neve di Parigi. Quando il tempo non si disperde più e per una volta i viag-gi che contano sono quelli di ritorno.

Era stata e restavaun’attrice senza talentoRiusciva a faresoltanto la partedi se stessa terrorizzata

Le lacrime della madrescivolaronodentro a due Martinie alla nevedel pomeriggio

di signoracon autista

Repubblica Nazionale

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San Francesco mise intornoalla sacra mangiatoiapersonaggi allegri e teatrali

poi scomparsi per volere delle gerarchie. Eppure,nonostante le omissioni, sopravvive in noi uno slanciosenza uguali verso l’evento del Natale

SPETTACOLI

no sterminati migliaia di bimbi per ordi-ne di Erode: non si può ignorare un avve-nimento, seppur tragico, raccontato dalVangelo e soprattutto annunciato dalleprofezie sulla nascita del Redentore.

I tre Re Magi, seguendo la stella come-ta, si trovano ad attraversare la terra degliebrei dominata da Erode. Fanno visita alre. «Che fate da queste parti?», chiede lo-ro il crudele monarca. «Stiamo cercandola capanna dove è appena nato un bimboche regnerà su tutte le terre di Israele».«Sulle mie terre?», esclama furente il de-spota. E, appena gli ospiti lo liberano del-la loro presenza, dà ordine perché venga-no trucidati tutti i bimbi appena venuti almondo.

Ma uno dei maggiori studiosi della sto-ria di Gesù ci avverte che i fatti raccontatidai due evangelisti, Luca e Matteo, nontrovano riscontro in nessuno storico deltempo: né Giuseppe Flavio, ebreo roma-nizzato, né Plinio il Giovane, tanto menoTacito e Svetonio accennano a una stra-ge degli innocenti al tempo di Gesù. Sinarra invece che Erode, temendo di esse-re detronizzato dai suoi familiari piùstretti, fece eliminare tutti i suoi consan-guinei, a cominciare da figli e fratelli; inol-tre, per non correre rischi, ordinò che fos-sero scannati anche i nipoti. Dunque lamitica strage dei bimbi appena nati è unfalso storico. Eppure per secoli musicisti,poeti e pittori, pur conoscendo l’inatten-dibilità del dramma in questione, hannoprodotto opere straordinarie raffiguran-ti quella strage.

Leonardo nell’Adorazione dei Re Ma-gi, stupendo dipinto conservato alla Gal-leria degli Uffizi di Firenze, raffigura laVergine col bimbo in primo piano con ap-presso Giuseppe e i tre Magi inginocchia-ti davanti al neonato. Sul fondo, in secon-do piano, appaiono soldati a cavallo cherincorrono donne e uomini in fuga: ci sonmorti dappertutto. La guerra non rispet-ta nemmeno la sacralità della nascita delfiglio di Dio.

Nel Corano è raccontata l’avventuradella figliola che si ritrova, senza com-prendere per intiero la ragione né il gran-de progetto divino, fecondata da Dio, quiAllah. Maria dà alla luce il proprio bimbonei pressi di un fiume, probabilmente ilGiordano. Immerge il neonato nell’acquae se lo stringe al petto. È radiosa e sgo-

motti di spirito, riescono anche a diver-tirli; fra lazzi e brindisi promettono lorol’avvento di una società carica di speran-za e reciproca solidarietà.

Nella settimana della Natività, si evitadi accennare a fatti tragici, specie nei tele-giornali. Non si annunciano né delitti néincidenti mortali soprattutto sul lavoro:semmai si risolverà con un minuto di si-lenzio, tanto al Parlamento che alla rap-presentazione natalizia della Scala. Inol-tre è ritenuto di cattivo gusto alludere afatti di sangue in cui le vittime siano don-ne e bambini. L’unico fatto cruento di cuisi fa larga menzione è quello in cui vengo-

Durante la Natività,si evita di accennarea fatti tragicisoprattuttose le vittimesono bambiniSi parla soltantodella stragedegli innocentivoluta da Erode

Non si può ignorareun avvenimentoraccontatodai Vangelie dalle profezieAnche se non trovariscontri storici

DARIO FO

onne fuoriscenail presepecensurato

trovò di fronte una magnifica ragazza av-volta in una pelliccia che le arrivava fino aipiedi. La ragazza disse, in italiano: «Sonoil regalo di Natale di un suo caro amico!».E così dicendo si lasciò cadere la pellicciaai piedi. Apparve seminuda, tutta ador-nata di nastri dorati, lampadine e piccolecandele splendenti… proprio come unalbero di Natale! Lui l’abbracciò com-mosso fino alle lacrime e con un urlo digioia la sollevò, roteando su se stesso. InAmerica, tutti, nel giorno in cui nasce ilRedentore, debbono essere felici!

In queste ricorrenze, nessuna civiltà saprodurre emozioni come la nostra: noioccidentali ci gettiamo nel clima misticodel sacro evento con uno slancio che nonha eguali. In questi giorni ci dimostriamogenerosi oltre ogni limite. Associazioni dibenestanti accolgono frotte di disperatimiserevoli per il pranzo natalizio e non silimitano a offrire loro cibi, bevande e dol-ciumi, spesso servono a tavola e, con

Ogni anno dall’avvento delcinema Hollywood mettein preparazione almenouna mezza dozzina di filmche hanno per tema il Na-tale. La maggior parte di

queste pellicole vengono proiettate inprossimità delle feste di fine anno. I di-soccupati per quindici giorni trovano in-gaggio nelle vesti di Santa Claus. Nelmondo occidentale, si addobbano stradee negozi, splendenti di luci e ricolmi di re-gali di ogni genere.

Qualche anno fa, un mio amico che sitrovava a New York tutto solo durante lasettimana natalizia si lamentava col suodatore di lavoro, in procinto di partire perle Hawaii, del fatto di non aver trovato uncane che lo invitasse alla festa. La notte del24 dicembre sentì bussare al suo apparta-mento e, spalancata che ebbe la porta, si

DRepubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Una ricorrenza religiosa implica dinecessità una liturgia; ma una festacomporta una costruzione spetta-colare. Perché la festa è laica, paga-na, e anche cristiana, com’è ovvio,ma tuttavia frutto di un sincretismo

che rende il Natale uno spettacolo in se stesso, unoshow, una rappresentazione totale. Si sa com’è:cominciano a zampillare dalla radio e dalle tv lecanzoncine ad hoc, escono i film con Christian DeSica, fra evocazioni di panettoni e pandori, splen-dori di ipermercato, cene e cenoni della vigilia,grandi abeti di condominio illuminati anche pre-cariamente e con effetti estetici dubbi, infine Bab-bi Natale che si arrampicano sulle grondaie (tan-to che ogni volta è un tuffo al cuore: ma non ci sarà,come per i nanetti da giardino, un comitato di li-berazione dei Babbi Natale?).

E adesso si affollano anche le offerte speciali deitelefoni cellulari, e degli ultimi modelli di iPod, te-levisori a cristalli liquidi, mentre l’estrema ratapromette l’auto ulteriore, per il Natale della con-cessionaria. Tanto, si sapeva che è a pieno titolo lafesta del consumo, come dubitarne? E tale allorada giustificare il monito dei pulpiti, nelle chiese,dagli organi di informazione come Famiglia Cri-stiana, che hanno sempre ammonito sulla neces-sità di recuperare la radice religiosa, il rito di rina-

scita, l’atto di fede nella rigenerazione umana, os-sia della salvezza offerta dall’Incarnazione.

Eppure il consumo, il Natale dei regali e dellosciupio allegro, è così divertente: tanto che lo spet-tacolo del Natale, che precede quello più infanti-le e secolare del Capodanno, è fatto proprio dallapossibilità di sciupare, semel in anno come nelCarnevale, cibi, denaro, regali e risorse preziose.Tanto che a ogni via del centro illuminata da fe-stoni di luci si reprime senza tanta difficoltà il sen-so collettivo di colpa per il consumo aggiuntivo diwatt, nonostante il petrolio verso i cento dollari, el’inflazione, e il carovita.

Si apprezza lo spettacolo globale, inevitabil-mente, che implica il White Christmassognato dailuoghi esotici in cui la neve è una fantasia o unanostalgia, come pure tutto il catalogo della tradi-zione e dello stereotipo, che può prevedere le ren-ne di Santa Claus, nella sua versione più bozzetti-stica e commerciale, agnostica e nordica, ma sen-za dimenticare che chi vuole cerimonia e spetta-colo solenne non dovrebbe perdere la perfor-mance più che suggestiva, pervasa sempre dicommozione, che si tiene Salisburgo la notte diNatale, allorché musica colta e musica popolare siintrecciano, e dopo una delle canoniche messemozartiane e il Te Deum, nel buio della basilica untenore intona Stille Nacht, Heilige Nacht, accom-pagnato dall’arpeggio di una chitarra e dalla lucetremolante di una sola candela, con un effetto co-sì emozionante da apparire ogni volta irresistibi-le.

Perché poi a pensarci, lo spettacolo del Natale siè sempre celebrato in una singolare ma inevitabi-le commistione di sacro e profano, dove perfino lapovertà della mangiatoia veniva riscattata dall’ar-te profusa nei presepi da artisti e artigiani, e dallesoluzioni tecniche per rendere reale il giorno e lanotte della nascita di Gesù (e già si sapeva che sa-rebbero poi arrivati i Magi, con il loro doni prezio-si, a giustificare con diversi secoli di anticipo unuso consapevolmente disinibito della ricchezza).

E d’altronde non c’è festa senza show, e questovale specialmente per le comunità cattoliche, cheancora concepiscono il rapporto con il divino at-traverso la comunità, non soltanto nel gelo e nelbuio dell’interiorità solitaria. Ma ci sarà anche unmotivo “sociologico”, che spieghi il diffondersidel Natale in quanto festa dell’umanità intera,senza troppe distinzioni di religione. E forse è lastessa struttura simbolica della festa, cuore del-l’inverno, che pone al centro di se stessa il bambi-no infreddolito, mentre intorno tutto il mondo siaccende di gioia: e di fronte alla gioia dell’umanitàconta poco che si tratti di un sentimento acceso dainneschi commerciali, o da tradizioni che hannotrasformato l’astinenza della Vigilia in occasionidi piacere. E neppure importa molto che l’antro-pologia individui radici ataviche, che si rifanno alsolstizio e a celebrazioni tribali.

Sono banalità. Il miracolo semmai, molto mo-derno, è uno spettacolo che si rinnova ogni anno,e consiste in una rappresentazione che si auto-re-gola e si auto-organizza. Non ci sono impresari, sitratta di uno show a rete, il cui centro è dappertut-to. Tanto che in fondo ciascuno di noi è nello stes-so tempo spettatore e attore nel grande spettaco-lo del Natale. E in questo esserci e guardare c’è an-che la possibilità di una partecipazione senzacoinvolgimenti, intrisa anche di ironia: facendovedere che si accetta di partecipare a uno show,ma così senza impegno, perché per chi le accettale regole ci sono, ma per gli altri è possibile ancheuno sguardo screziato dal disincanto.

Siamo gli attoridi uno showsenza copione

EDMONDO BERSELLI

menta insieme. S’avvia per raggiungere lasua casa. Al suo rientro trova i genitorisconvolti e irati. Le vien chiesto: «Com’èaccaduto? Chi è il padre di questo tuo fi-gliolo?». Maria si esprime con fatica, nonriesce a dare una logica al suo racconto.Padre, madre e parenti la aggredisconocon male parole. La giovane madre scop-pia in lacrime. A questo punto il bimboneonato si rivolge loro con parole chiare elimpide. Insulta ognuno per le offese fat-te alla propria madre. «Come potete mo-strarvi tanto sordi e ciechi da non saper in-tendere la meraviglia di quest’evento?». Igenitori di Maria sono sbalorditi: un neo-nato che s’esprime in quel modo! Si ac-quietano e abbracciano la figliola, quindisi rivolgono a Gesù e chiedono d’essereperdonati per tanta stoltezza. Abbraccia-no anche il bimbo… ma con cautela.

Nei Vangeli, specie in quelli apocrifi, ilpiccolo Gesù dimostra fin dalla nascitauna particolare predilezione riguardo le

donne. I suoi primi miracoli raccontatinel Vangelo Armeno sono in favore di ra-gazze dalle quali ama essere lanciato inaria per gioco, riacchiappato dalle lorobraccia amorose e sbaciucchiato. Così li-bera dalla follia una ragazza indemonia-ta. Qualche giorno appresso, giocandocon una giovane sposa che, per via di unasorta di fattura, ha perso il dono della pa-rola, ecco che, come per caso, la bacia sul-la bocca. All’istante la ragazza riacquistala voce e subito torna correndo al ban-chetto nuziale da dove s’era allontanata.Si getta fra le braccia dello sposo, gridan-do: «M’è tornata la voce! Ora finalmenteposso dirti che ti amo!».

È strano che le storie che narrano di in-contri e miracoli del divino fanciullo a fa-vore di giovani femmine siano state toltedai vangeli canonici o non ci siano maientrate. Ma sappiamo che gli scritti evan-gelici hanno subito numerosi aggiusta-menti nel susseguirsi dei secoli.

Perfino il presepe allestito da San Fran-cesco per la prima volta nelle campagnedell’Umbria, a Greccio, come una vera epropria rappresentazione popolare e sa-cra, dopo quarant’anni dalla prima mes-sa in scena ha dovuto subire modifiche eriduzioni a dir poco devastanti. Ce ne dàtestimonianza un dipinto di Giotto che sitrova nella Chiesa superiore di Assisi, rea-lizzato al tempo in cui a dirigere il movi-mento dei francescani era stato eletto fraBonaventura da Bagnoregio, il generaledell’ordine che censurò scritti e testimo-nianze originali della vita del santo, im-ponendone altri da lui ricomposti.

In quell’affresco vediamo il presepe ri-dotto a un rito, privo di drammaticità e af-flato teatrale. Sparita è la folla di interpre-ti popolari dell’originale messa in scena,i pastori con le loro greggi, donne e ragaz-zi che portano doni al santo neonato. So-no spariti il bue e l’asinello, gli angeli can-tori, perfino i Re Magi adoranti il figlio diDio. Della rappre-sentazione origina-le sono rimasti solola Vergine, interpre-tata da un ragazzinotravestito, e natu-ralmente Giuseppee il Bambino. Nonsiamo più all’ariaaperta, fra boschi ecolline, ma dentrola cattedrale. Laggiùin fondo, dietro ilproscenio mistico eil transetto, dentrouno spazio ristrettoe riservato, intornoalla Sacra Famigliaci sono solo sacer-doti e chierici cantori. Dalle grate dellacancellata che divide la sacrestia dall’am-bone un gruppo di donne sbircia timoro-so. È chiaro che le femmine non hannoaccesso al rito.

Si indovina che i dialoghi scritti daFrancesco in volgare umbro sono staticancellati. Di certo i chierici stanno can-tando in latino, e l’officiante a sua volta siesprime nella lingua antica dei Romani.Non ci sono angeli arrampicati sugli al-beri, né donne che accudiscono il neona-to. La fede partecipata è ormai cosa persoli uomini.

LE ILLUSTRAZIONI

Le illustrazioni di questo numerosono di Lucia MattioliDiplomata all'Accademia di bellearti di Firenze, insegna Tecnichee linguaggio dell'illustrazionealla International ComicsAlcuni suoi lavori, una combinazionedi tecniche tradizionali (olio, tempera,acquerello) e Cgi (ComputerGenerated Imagery) si trovano sui blogwww.lucinamatta.blogspot.come www.animalaio.blogspot.com

Una ricorrenza religiosa implica una liturgia,una festa comporta una costruzione. In questa unionedi sacro e profano si recita la rappresentazione totale,tra evocazioni di panettoni e pandori, splendoridi ipermercato, abeti di condominio male illuminatie offerte speciali che limano il nostro senso di colpa

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i saporiNatale a tavola

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

«Ho visto anche de-gli zingari felici»,cantava ClaudioLolli: «E siamonoi a far bella laluna, con la no-

stra vita coperta di stracci e di sassi di ve-tro. Quella vita che gli altri ci respingonoindietro come un insulto, come un ra-gno nella stanza. Ma riprendiamola inmano, riprendiamola intera, riprendia-moci la vita, la terra, la luna e l’abbon-danza». Se devo pensare a un Natale miviene in mente quello del 1967, quandoero appena maggiorenne. C’entrano glizingari, e c’entra anche un pollo.

Il Natale a tavola del mio Basso Pie-monte è sempre stato solo ed esclusiva-mente quello del pranzo del 25 dicem-bre: in famiglia, irrinunciabile, abbon-dante ma allo stesso tempo sobrio, incui, tra i soliti cliché, i veri i punti fissi ga-stronomici erano il cappone, gli agno-lotti in brodo e una buona bottiglia diBarolo d’annata stappata a fine pasto.

La vigilia era invece all’insegna del di-giuno più rigoroso, perché si andava re-ligiosamente alla messa di mezzanot-te.“Religiosamente”, ma con grandespazio riservato alla goliardia, soprat-tutto per quanto riguarda noi giovani:proto-sessantottini, ma assolutamenteprovinciali. Protetti della coltre perbe-nista che ci circondava, qualche bellascorribanda ce la concedevamo sem-pre. Un classico era invadere dopo lamessa la casa di qualche amico per unlauto spuntino notturno, in cui si co-minciavano ad attaccare senza pietà ivassoi preparati dalle nostre madri per ilpranzo del giorno dopo: un bel po’ di ra-viole del plin non arrivavano mai a ve-dere l’alba del dì di festa.

I tempi stavano iniziando a cambiarevelocemente, in quell’inverno 1967: iNatali della nostra infanzia erano sem-pre stati abbastanza scevri delle più mo-derne suggestioni consumistiche. Peresempio per noi non era mai esistitoBabbo Natale, i bambini aspettavanosolo e soltanto ’l bambin, il Gesù Bambi-no foriero di doni. Ma la mia generazio-ne forse era un po’ più “avanti”: infattitra i primi inquinatori della nostra tradi-zione natalizia ci fummo proprio io e ilmio compianto amico Giovanni Ravi-nale, che il pomeriggio di quella vigilia,insieme ad altri coetanei, ci improvvi-sammo Babbi Natale per i bambini diBra, armati di barbe di cotone tenute sua stento da un fil di ferro che rischiava diferirci continuamente. Siccome però infin dei conti non eravamo neanche cosìtanto “avanti”, terminato il nostro com-

bottone, forse addirittura fummo scam-biati noi altri per dei sìngher— e non mene stupirei visto lo stato in cui eravamocombinati — ma fatto sta che finimmoal loro desco da campo, in barba al di-giuno pre-natalizio. Il cenone consiste-va in un pollo cotto sottoterra e nella ce-nere. Un pollo delizioso, devo dire; unpollo di dubbia provenienza, senz’altro.Un altro pregiudizio del provinciale me-dio disegnava infatti i sìngher come abi-li ladri di polli, ma né io né Ravinale ci fa-cemmo tanti scrupoli nel condividereun probabile bottino. Né ciò ci impedì,di lì a poco, di comunicarci durante lamessa, tra l’incredulità degli amici dellacorale a cui avevamo raccontato l’acca-duto sul sagrato della chiesa di Sant’An-drea, poco prima di entrare ad animareil rito (compito che, per inciso, quella se-

pito e festeggiata a dovere con un po’ dispumante la liberazione dall’incom-benza, mi ritrovai ad accompagnareRavinale per le zone periferiche dellacittà, mentre lui trascinava il suo solitocarretto: doveva raccogliere come ognigiorno dell’erba nei fossi, destinata aiconigli di suo padre. A mezzanotte la co-rale di Don Bartolo Soppeno ci aspetta-va per animare la messa cantata. E qui lastoria assume i toni di un film di FrankCapra: del resto Ravinale era abbastan-za allampanato da sembrare un JamesStewart del Basso Piemonte.

Ai bambini che aspettavano ’l bam-bin, di solito si minacciava che se nonfossero stati buoni, altro che doni! Sa-rebbero stati portati via dai sìngher, glizingari. In effetti la nostra comunità,pur piena di pregiudizi — forse non me-no di quanti ce ne siano oggi — ospita-va ogni anno, in una piazza periferi-ca, la puntuale carovana deglizingari. Quelli che oggi il lin-guaggio politically correctpotrebbe solo definire “no-madi”. Fu proprio in loro checi imbattemmo io e Ravinalementre eravamo alle prese conl’erba per i conigli e ben rallegrati daibrindisi precedenti: ma altro che Mer-cedes o roulotte! Allora i sìnghergira-vano con i cavalli e i carri a botte, dilegno, che quasi come una carovanadel Far west accampata si dispone-vano in cerchio, componendo un de-dalo di fili su cui erano stesi i panni adasciugare. In mezzo, i fuochi per riscal-darsi e cucinare.

Non ricordo bene come attaccammo

ra svolgemmo magistralmente).Naturalmente la vicenda divenne

l’argomento più dibattuto nei bar du-rante le festività. La pasticceria Arpino,quella che noi frequentavamo usual-mente, aveva una clientela molto ete-rogenea: dalla borghesia più classica eperbenista di provincia agli scavezza-collo come noi giovani. Il dibattito ve-deva posizioni altere e distaccate, ca-peggiate dalla mamma del mio illustreconcittadino Giovanni Arpino, Mad-dalena Bersia, la quale ci guardava conun po’ di sospetto, e altre più incuriosi-te, come quella del fratello di Giovanni,Carlo Arpino, cuoco e pasticcere diprim’ordine. Egli in particolare si infor-mava continuamente sulla ricetta deisìngher, e da lì nacque la battuta: «Ri-cetta per il pollo alla zingara. Primo: ru-bare un pollo…».

In quel Natale 1967 «ho visto anchedegli zingari felici» e ho mangiato unpollo strepitoso: era una provincia cheè pur vero che aveva un sacco di pre-giudizi, ma è anche vero che accoglievatranquillamente ogni anno i nomadiall’interno della sua comunità. Lo face-va molto rispettosamente, anche senon esisteva ancora il linguaggio poli-tically correct che maschera di ipocri-sia un modo di comportarsi poi inrealtà ben diverso. Una realtà che benconosciamo, visto tutto ciò che è suc-cesso quest’anno.

Quindi, per contribuire un po’ a “ri-prenderci la vita”, beh, a me per questopranzo di Natale piacerebbe poter dinuovo sentire il gusto di quel pollo chemangiai trent’anni fa.

CARLO PETRINI La memoria riportadue storiedi mense nataliziedi tanti anni faLa prima narradi un pennutocotto nella cenerein un accampamentodi “sìngher”il giorno di vigilia,che sarebbe di magroLa seconda rievocale dispute tra Statoe Chiesa con lo ziomonsignore intornoalle ricette di famigliaPerché la tradizioneè una palestra di ideee non solouna bella mangiata

on quel pollo

da zingariche banchettoC

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 23DICEMBRE 2007

Pani e pesci moltiplicò Gesù e non pani esalsicce. E difatti, quand’ero bambino,sulla tovaglia bianca di Natale, il pesceera la Chiesa e la carne era lo Stato. Da unlato c’era l’anguilla — «il capitone!» — , lapesca di Pietro miracolata da Gesù nel la-

go di Genesaret, e dall’altro c’era la salsiccia — sale eciccia — , cibo dei soldati conquistatori. E si conten-devano la tavola, Pesce e Carne, feasting e fasting,banchetto e digiuno, come si contendevano il terri-torio, anche a Natale che era il giorno dello scialo, masenza i bruciori di stomaco del rimorso e della ver-gogna, anzi con la benedizione di mio zio il Monsi-gnore che, con il tovagliolo al collo, ad ogni Natale cirivelava che pesce in greco si dice ichthùs, ed è —nientemeno — l’acrostico di Gesù Cristo Figlio diDio Salvatore.

Ma mentre lo diceva, il reverendo mangiava la sal-siccia in bonomia e in serenità perché nel suo amo-re materialista per la carne felicemente concentravatutta la saggezza del secolarismo di un Chiesa chestava imparando a tenere Dio fuori dalla morbida tu-ma e dalla maliziosa acciuga, vale a dire dalla “scac-ciata” di Natale; e a non imprigionare Cristo nel pa-sticcio al forno che è sugo di carne e ragù di carne; anon mescolare l’Assoluto con pomodori, olive e cap-peri; a non sposare l’Eterno con i broccoli; a non an-negare il Paradiso nell’insalata d’arancia e d’aringa.

Lo zio Monsignore ci raccontava dunque quantoi mari, le marine e i popoli di mare devono alla Chie-sa che aveva eletto il pesce a nutrimento peniten-ziale, non solo del venerdì e della vigilia: il pesce co-me alimento dello Spirito sacerdotale contro la car-ne che nutre l’aggressività del guerriero e dello Sta-to, per non dire della ferocia pagana e della lussuriapopolare che sono filetto al sangue, costata con l’os-so, cosciotto, viscere e sanguinaccio. Ma aggiunge-

va, come opinione personale, che «la resa del Pescealla Carne fu la resa della Chiesa allo Stato», e che «alSignore in realtà non deve troppo dispiacere la car-ne, vale a dire la ghiottoneria, se la consente per bensei giorni la settimana, anche se il digiuno inizial-mente si dispiegava su tre o quattro giorni la setti-mana, per la felicità delle flotte pescherecce e loscorno dei macellai».

Benché non fossimo ancora arrivati all’idea per-versa che solo quel che non si mangia fa bene alla sa-lute, già per la famiglia italiana di quarant’anni fa latavola era una palestra di idee più che una bellamangiata. E dunque a Natale, che è più festa di ta-vola che di cattedrale, lo zio accusava san Tomma-so di avere molto studiato il motore immobile e lacausa incausata, ma di avere trascurato il nesso trala Chiesa e la tavola. E si apriva una gara di dialetti-ca davanti al baccalà fritto ma anche davanti allabella e — per noi piccoli — matura cugina di ventianni che mangiava la pasta al forno scartando la car-ne perché era già “di sinistra”, e infatti portava i ca-pelli, marrone scuro come il dorso dell’anguilla pro-letaria, divisi da una scriminatura ideologica. E co-me l’anguilla, che arrivava matura e sensuale dalmar dei Sargassi, anche l’esotica cugina aveva il cor-po elastico e la lisca sottile. Per non parlare delle cal-ze di nylon, bianche come la tovaglia di fiandra cheresisteva a migliaia di bucati.

Solo con lo zio Monsignore si parlava di Chiesa,del clergyman, di quel vescovo americano che vole-va introdurre la zip nella tonaca, dei preti che anda-vano in Vespa… La cugina-anguilla gli chiese: «Se il

pesce è il rimorso per i peccati commessi, la carne èil rimpianto per quelli non ancora commessi?». Piùche la scuola di Francoforte sembrava la tavola diFrancoforte. E infatti lo zio rispose che la ghiottone-ria non è peccato: «Forse che i Papi carnivori eranocrassi peccatori?». Alla fine solo in metafora il pesceandava lasciato vicino a Dio e al pescatore Pietro, re-clutato con due barche di pesce: «Da oggi sarai pe-scatore di uomini». E ci pareva che allo zio non an-dasse troppo a genio quell’idea fissa di moltiplicarei pesci, di nuovo sul lago di Tiberiade… Nel Nataledel 1965 recitammo dunque la poesia di Prévert:«Pesce, pescetto, pescione / quanto hai dovuto ride-re il giorno della crocifissione!». Lo zio non si arrab-biò. Ma ci invitò a studiare di più il latino e il greco.

Il pranzo di Natale — ogni pranzo di Natale — èun impasto incomprensibile di infanzie perdute edi esperienze singolarissime, sino a coniugare lasiciliana scacciata all’acciuga con il britannicotacchino farcito, che è condito con salsa di bacche(comprata) e salsa di pane (preparata in casa). Esono più salsicce le salsicce magre e sottili del Sus-sex o quelle tozze e speziate con il finocchietto ric-cio di Linguaglossa? Unica, ma importante con-cessione alla Francia, dove abitiamo, sono i tredi-ci dessert finali: ciascun piattino è un apostolo. Ilpiù buono, a base di gelatina di mele cotogne, èGiuda; mentre Cristo non è il pane, ma — varian-te italiana — è il panettone. C’è, non so più perché,la zuppa di barbabietola, che è russa. E sempre miarrabbio quando arriva a tavola il capitone e tuttidicono «il capitone!, com’è pesante il capitone!».

Davvero è più pesante del tacchino farcito?Proprio per la pesantezza che gli dà il sapore di

carne e gli permise di truffare la miseria, il capitonedivenne re del Natale meridionale. A Catania, sottoil mercato del pesce, corre un fiume naturale che, difronte al municipio, si libera in una cascatella: «ac-qua a lenzuolo» si chiama. Ricordo che i vecchi infi-lavano l’amo nelle larghe fessure dei tombini e, sefortunati, pescavano le anguille. Ebbene, nei giornidi Natale, il mercato era (è ancora) tutto un guizza-re di anguille nelle gabbiette di legno. Lunghe al-meno un metro, venivano arrotolate nei coni rove-sciati di carta di paglia e affidate alle donne di cuci-na, che le mettevano sul balcone. E succedeva spes-so che scivolassero via. Cominciava allora, per tubied anfratti, la caccia alle anguille. E quel divertentericordo è forse il meglio di una tradizione che affon-da le sue radici nell’arcaismo devozionale, in quelsimbolismo penitenziale che è stucchevolmentealla moda recuperare, perché «vuoi mettere! Quan-to erano saporosi i sapori di una volta, oggi che il pa-ne e il vino e l’olio e il latte non sanno più di pane, vi-no, olio e latte…».

Ecco: aggredito dal saccente, querulo business delcibo povero io mi consolo pensando allo zio Monsi-gnore che visse e morì in grazia di Dio senza averemai mangiato il divino capitone, senza avere maicreduto che mangiare significhi entrare in comu-nione con Dio, né con la scienza teologica, né con lacultura umanistica. La verità è che il pranzo di Nata-le è una complicata algebra: addizioni e sottrazionidi gusto, di tatto, di inclinazioni dell’anima. Io peresempio confesso (ma non ditelo ai miei figli) che ildivino capitone non mi è mai piaciuto. Ma è un viziodi Natale, uno degli odori di quella tavola di Fran-coforte — ciascuno ha la sua — di cui nessuno co-nosce il segreto.

FRANCESCO MERLO

La disputa imbanditadella Carne e del Pesce

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Oggetti del desiderioirrinunciabile restanoi-Pod, playstationportatili e tanti dvdLa propensioneall’acquisto è piùforte della pauradel fallimentoeconomico

E a Mosca è l’oradello shoppinglussuoso e sfacciato:cellulari tempestatidi brillanti, gioiellie super automobiliCosì l’oligarchiamostra al mondola sua opulenza

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

meccanismo e il motore che salverannol’economia degli Stati Uniti e quella mon-diale dalla tanto annunciata recessione.

La fame di acquisti, la voglia di fare e difarsi regali, il rifiuto di ogni idea di doverrinunciare, e si ripete all’infinito la gran-de giustificazione: «Succede solo una vol-ta all’anno, è Natale».

I bambini vogliono l’i-Pod, lo guarda-no incantati, soprattutto i nuovi Nanoco-lorati e con lo schermino. Ce l’hanno icompagni di classe ed è scattato il mec-canismo che qualche anno fa c’è statocon il cellulare nelle scuole italiane.

Da Circuit City, Xavier, il più giovanedei commessi, parla a raffica come un vi-deogioco, ci racconta che il must delle fe-ste e la Sony Psp, la playstation che si puòportare in metropolitana, sullo scuola-bus o nel letto, è in offerta a 169 dollari. Sehai tra dieci e dodici anni non puoi nonaverla. «Ai più piccoli, quelli tra i quattroe i sei anni invece regalano il dvd del car-tone animato Shrek III». Ma la figlia di Ja-

net, che di anni ne ha giusto sei e quandoparla fischia perché ha le fessure tra i den-ti, non ne vuole sapere del dvd: sta con gliocchi incollati sulla consolle e ripete ai ge-nitori: «Ma anch’ io ci so giocare, ve lo as-sicuro, ho imparato dai miei compagni ascuola». Ogni oggetto elettronico sembratoccato da Re Mida, tutto tranne la sediada videogame, «ergonomica, con le vi-brazioni e gli altoparlanti nel poggiate-sta», è rossa e nera e somiglia al sedile diuna Formula uno ma non sfonda, tantoche è già stata scontata due volte e ora lan-gue a 99 dollari.

Da Target, dove lo slogan è «Aspettati dipiù, paga di meno», la gente prende le fel-pe con il cappuccio e si ferma a mangiarea metà del viaggio tra chilometri di scaf-fali: ali di pollo fritto e strisce di pizza alformaggio sfamano bambini che a mala-pena camminano e anziani che hanno lestesse difficoltà motorie ma hanno volu-to seguire figli e nipoti nel rito natalizio.

Sul parcheggio volano i gabbiani. Il

mare è vicino e poi quella grande collinaerbosa dall’altra parte della highway finoa poco tempo fa era la discarica dell’im-mondizia e gli uccelli continuano ad arri-vare per abitudine.

Girano intorno, poi si fermano sui tettidelle grandi jeep nere, dei suv e dei mini-van, perché un altro indicatore significa-tivo dei consumi è l’incredibile standarddelle automobili, altissimo se paragona-to all’Italia. Un colpo d’occhio del generesi potrebbe avere nel centro di Verona, inBaviera o a Beverly Hills, non te lo aspet-teresti certo nelle periferia più in diffi-coltà di New York. Sottolineato che qui leauto costano decisamente meno che danoi, bisogna però notare che, dopo i gad-get elettronici per i bambini, la macchinagrossa è la seconda priorità del ceto me-dio-basso americano. La terza è il televi-sore al plasma, l’altro oggetto del deside-rio natalizio.

Famiglie intere discutono per ore co-me dividere la spesa e ci sono commessi

che sembrano commercialisti intenti adistricarsi tra rateizzazioni complicatis-sime.

Da babies “r” us, negozio per i più pic-coli, da un mese c’è la coda al “Portraitstudio”, dove far fotografare i bambinitutti vestiti di rosso per fabbricare i car-toncini natalizi. Qui vendono bene i per-sonaggi del Muppet Show e la bambolaDora, che ha i capelli neri a caschetto eparla: insegna a contare in inglese e inspagnolo, sarà la compagna di giochi dibambine dominicane, portoricane emessicane.

Fuori su Schenk Avenue, fino alla fer-mata della metropolitana di New Lots,capolinea della linea numero 3, quasiun’ora per arrivare al Central Park, sonoin aumento i cartelli “vendesi”. Piantaticon i picchetti nei giardini delle villette.Sono le famiglie che non ce l’hanno fatta.Tutto intorno le luci di Natale, il quartie-re è pieno di festoni e di led intermittenti:avanti senza esitazioni, finché si può.

NEW YORK

Icappelli da Babbo Natale, rossi conil ponpon bianco, sono completa-mente esauriti, costavano solo 3dollari e 99 e sono andati a ruba.

Sono rimasti i costumi, in taglia unicaextra large, ma viaggiano sui 50 dollari e lagente resta alla larga. È sabato mattina,l’ultimo prima di Natale, e una folla si ac-calca come fa ogni fine settimana dalGiorno del Ringraziamento, data simbo-lo decisa dalla divinità dei consumi comeinizio dello shopping natalizio. Le previ-sioni indicavano un crollo delle vendite,le stime sull’economia americana sononegative, gli acquisti di case in crisi e iprezzi della benzina, del riscaldamento edegli alimentari alle stelle. Per questo sia-mo venuti da Gateway, in fondo aBrooklyn, in uno spicchio di quartiereabitato da neri, ispanici e caraibici chedetiene il record di case pignorate a NewYork. Guardando ad una cartina con learee colorate ad indicare dove ci sono piùfamiglie in crisi, quelle che non sono ingrado di pagare le rate del mutuo, qui sia-mo al rosso più intenso, il massimo. Sia-mo nel cuore dei fallimenti dei bilanci fa-miliari, ad un passo dall’Oceano Atlanti-co e dall’aeroporto Kennedy. Dovevamoraccontarvi il Natale gramo dei falliti, dicoloro che hanno perso il treno del sognoamericano, invece siamo investiti da unamassa urlante in cerca di regali.

La risposta al nostro stupore ce la da Ja-net, quarantadue anni, immigrata all’ini-zio degli anni Novanta da Trinidad: «Altridebiti, siamo tutti qui per fare altri debiti.Non si può pensare di lasciare i bambinisenza regali, è Natale. Allora tanto valescaricare tutto sulla carta di credito, in-ventarsi un altro anno di rate, ma l’i-Pode la playstation portatile tra due notti do-vranno essere a casa sotto l’albero».

Gateway è un mega mall, l’insieme ditanti grandi magazzini messi uno accan-

to all’altro. Questa mattina hanno apertoalle otto e stasera chiuderanno alle undi-ci. Domani, vigilia di Natale, anticiperan-no l’apertura alle sette.

È il trionfo dell’elettronica, anche per ipiù piccoli, e dei debiti forsennati. Ogniamericano spende in media il dieci percento in più di quello che guadagna ognimese e ogni dicembre aumenta la quotadi debito che si porta sulle spalle.

La propensione al consumo è più fortedella paura di fallire, nulla sembra riusci-re a fermare questo gigantesco papà coni jeans bassi sotto la vita e il giubbotto dipelle con la faccia di Al Pacino ricamatasul retro e la scritta “Scarface 1983”: il suocarrello è pieno di dvd per bambini e ci so-no due consolle per giocare ai videogio-chi, una è rosa l’altra azzurra con le de-calcomanie di piccoli mostri. Tutti affer-rano qualcosa, fosse anche solo il sac-chetto di conchiglie colorate made inChina pubblicizzate «per le feste o per fa-re sculture di sabbia». Questo forse il

MARIO CALABRESI

le tendenzeConsumi di Natale

New York, Brooklyntra i clienti indebitatima a caccia di donida “Gateway”. Pochisoldi, sotto l’alberotrionfa la strennatecnologicaper grandi e piccinicosti quel che costi

Una gerlastracolmadi rate

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 23DICEMBRE 2007

sato. È appena arrivato il numero uno de-gli alberi di Natale, l’ultimo targato Putin:un gigantesco abete alto trentatré metri evecchio di centonove anni, strappato dal-le foreste del distretto di Klin, sotto la ca-pitale russa, nel territorio del villaggioPodzhigorodovo. Addobbato da mille-trecento palloncini e giocattoli, da mille-cinquecento metri di ghirlande: uno spet-tacolo. I quotidiani lo confrontano conquello del Rockefeller Center: il nostro èpiù bello, più alto, più ricco, si vantano. Lohanno sistemato in piazza Sobornaja, al-l’interno del Cremlino: se vuoi ammirar-lo, devi pagare il biglietto.

In Piazza Rossa hanno costruito inve-ce una pista di ghiaccio provvisoria: manon è la più grande d’Europa all’aperto, ilprimato gliel’ha soffiato la rivale Pietro-burgo, con un impianto di fronte all’Her-mitage. Lo sponsor di Mosca è il padronedei grandi magazzini Gum, al numero 3della Piazza Rossa, un gulag del lusso edelle grandi firme, percorso da turisti e dacoppie di sposi che festeggiano il matri-monio tra un piano e l’altro. È sempre sta-to il salotto buono degli acquisti di Mosca:fin dai tempi di Nicola II. Parte proprio daqui lo shopping nazional- oligarchico: unestenuante itinerario tra vetrine che sfog-giano brand esclusivi, lungo più di quat-tro chilometri, tra le strade della vecchiaMosca rivisitata dagli architetti glamourdi Londra, New York e Berlino. Tappa ob-bligatoria: Kitai Gorod, le antiche porte diMosca diventate lo showroom dei nego-zi monogriffe e delle supercar. L’opulen-za clamorosa, in mostra permanente da-vanti al Bolshoi: un mix casuale e sfolgo-rante, Cavalli con Armani Casa, Ermene-gildo Zegna con Bentley, Ferrari con Pra-da, e così via, tra boleri di zibellino, man-telli arabescati, automobili, cristalliBaccarat e alta gioielleria che neanche aDubai se la sognano.

L’oligarkh natalizio si recita e si consu-ma in questo percorso di oggetti spudo-ratamente cari, limited edition, pezziunici. Come la splendida Game of hearts,una collana con al centro un diamante di57 carati tagliato a forma di cuore. Costa-va tre milioni e mezzo di dollari. L’hannodisegnato gli italiani Paola Valentini eMassimo Zucchi. Era esposta da Escada,nel centro commerciale sotterraneo dipiazza del Maneggio. Chissà chi l’hacomprata.

Una volta il Natale dei russi era un pian-to e un lamento. Brindavi con champa-gne sovietico. Gamberoni, ostriche, frut-ti di mare: fantascienza. La fantasia deipoveri sopperiva alla carenza e alla qua-lità. Le mogli regalavano ai mariti una cra-vatta autarchica di Krasnaja Shveja, la“sartoria rossa” di Mosca. I figli entrava-no nel grande emporio Detskij Mir, “ilmondo dei bambini” che fa angolo con lapiazza della Lubianka ed era stato inau-gurato nel 1957 da Krusciov. I più fortu-nati uscivano sorreggendo orgogliosi ungrande scatolone: conteneva il modellofai-da-te del carro armato T-34. Le bim-be, invece, stringevano al petto una bam-bolina fabbricata a Kiev. L’emporio c’èancora, festeggia cinquant’ anni e un Na-tale di giocattoli a go-go, gli stessi di Lon-dra o Milano. Le tre lunghissime galleriecon gli splendidi soffitti vetrati erano lapasseggiata dei sogni di tutti, i fidanzati-ni si fermavano alla rotonda centrale incui l’albero di Natale sostituiva la fontanadelle altre stagioni e si scambiavano piùbaci che doni. Il rito è sopravvissuto. Soloche ci si scambiano più doni che baci.

pi degli zar e dei loro boiardi: i più spen-daccioni della storia. Di notte, la grandio-sa Oligarkh City risplende di luminarie eaddobbi, una Las Vegas infinita di festonie auguri al neon, di Babbi Natale e cartel-loni che invitano a spendere e a spandere.Che importa se i prezzi sono alle stelle eMosca è la città più cara del mondo: qua èl’impero dei miliardari. Mica in rubli. Indollari: ce ne sono ventisette o trentatré,dipende da chi lo afferma, se Forbeso For-tune. Solo New York ne ha qualcuno dipiù. E poi, i trentamila milionari, e le lorofamiglie allargate, e il sottobosco malavi-toso, e i clan dei burocrati arricchiti dallacorruzione, si arriva al milione di ricchis-simi in un paese euforizzato, dal gas, dal-le materie prime vendute a peso d’oro.

Così, impazzano i doni mozzafiato: co-me il telefonino tempestato di brillanti da

MOSCA

Benvenuti ad Oligarkh City,capitale del lukspiù eccessi-vo, metropoli di ricchezza,paradiso del post-comuni-

smo riveduto e corretto dalla rivincita delgusto, degli stili di vita e dell’eccellenzaspesso italiana e francese! Godetevi il suosfacciato (talvolta volgare), estremo,anarchico, selvaggio, fastoso, mirabolan-te, provocante, inesausto Natale! Anzi: isuoi Natali kalashnikhov, una raffica di fe-ste da mozzare il fiato e i portafogli. Co-mincia tutto a san Nicola, che in Russia sionora il 19 dicembre. Poi, segue quellonostro. E infine arriva quello ortodosso, il7 gennaio. Viva la tradizione, come ai tem-

1,3 milioni di euro, subito venduto. O levetturette per campi da golf, a partire dacentociquantacinquemila euro, marcaCadillac. Quisquilie, nel traffico di Mo-sca: dove circolano trecentomila Merce-des, centomila Bmw, duemilatrecentoPorsche, mille Rolls e Bentley, cinqueMaybach, un migliaio di Ferrari, Lam-borghini, Aston Martin. La vettura natali-zia più gettonata dagli oligarchi e regala-ta alle amanti è la Cayenne. In subordine,la Lexus. Accompagnate, s’intende, dagliinediti — per il mercato russo — naviga-tori satellitari Glonass, tecnologia resi-dente e mappe elettroniche. Trentadue-mila pezzi già prenotati, ancor primad’arrivare nei negozi. Il gps è la frontierache distingue chi può e chi non può, allafaccia del comunismo d’una volta.

Tappeti di suv intasano le strade, men-

tre i marciapiedi del centro brulicano digente che compra, compra, compra. Sce-ne da boom italico, solo in scala assai piùgrande. Il Natale russo 2007 è all’insegnadell’abbuffata consumistica, interclassi-sta: se i ricchi setacciano orologi svizzerigriffati — da Consul, al 35 di KutuzovskijProspekt vanno a ruba Longines oro e dia-manti e Lacroix preziosissimi — gli altri siaccapigliano per giubbotti imbottiti ma-de in Italy da settecento a millecinque-cento euro; il trend natalizio è furibondoper scarpe e borse, sempre made in Italy;la profumeria francese domina, lo Chanel5 si vende in confezioni da litri. Siamo onon siamo tornati ad essere una grandesuperpotenza? È o non è questa città unadelle più ricche del mondo? L’orgoglio deimoscoviti si traduce in acquisti compul-sivi, un risarcimento alle penurie del pas-

LEONARDO COEN

La grande festa deinababbi

Repubblica Nazionale

Page 20: omenica «Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, La ...download.repubblica.it/pdf/domenica/2007/23122007.pdfGesù Bambino, in grembo alla Madonna, cominciò a battere le

48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23DICEMBRE 2007

l’incontroNatale dentro

Il mio auguriova all’ergastolano,ovvero coluiche è condannatoa non sperare,che sarebbeun dirittoriconosciutoad ogni vita

Invece deveesserci una libertàda sognare,un traguardoestremo,fosse purefra diecimila anni

Vi propongo, per cominciare, una variante dell’ade-guamento della vita lavorativa e dell’età pensiona-le alla longevità crescente. Nel 1900 un uomo divent’anni condannato all’ergastolo sarebbe mor-to, “mediamente”, dopo venticinque anni di gale-ra. Nel 1930, l’ergastolano ventenne sarebbe mor-

to dopo averne scontati trentatrè. Nel 1959, salita la durata mediadella vita a sessantacinque anni, sarebbe morto prigioniero dopoben quarantacinque anni. Oggi, il ventenne condannato all’erga-stolo può aspettarsi mediamente di crepare in galera, se si terrà informa, dopo aver scontato sessant’anni. Esito a richiamare l’at-tenzione su questa enormità, perché temo la ressa della buonagente che rivendichi alla svelta, altro che le pensioni, un allunga-mento delle pene all’altezza dei nuovi tempi.

Mi aveva scritto un ergastolano. Ora mi hanno detto: sceglitiun tuo prossimo per Natale. In realtà il prossimo non si sceglie,è lì il bello, e il difficile. Ma per una volta! Scelgo un ergastolano.Perché?

Intanto, perché è impopolare. Niente è così impopolare, og-gi, nell’Italia spaventata e incattivita — e infelice, caso mai, per-ché spaventata e incattivita — niente dunque è impopolare co-me provare simpatia per l’ergastolano e scandalo per l’ergasto-lo. La moratoria Onu sulla pena capitale è arrivata imprevedibi-le — se non dalla visionaria grandiosità di Pannella e pochi altri— e bizzarra come uno squarcio di sole in un cielo plumbeo.Molto è possibile, che sembra pazzia sperare. Il Ruanda che hamesso al bando, a tredici anni dal genocidio, la pena di morte, èuna notizia bella come il più bello dei Natali. Ma intanto l’indul-to resta in cima alle avversioni degli italiani, e l’amnistia, che necostituiva l’ovvio complemento, per cancellare la miriade diprocessi ormai inutili, è diventata impronunciabile. Come hadetto con il malizioso candore che lo contrassegna il ministro digiustizia, provate voi a nominare l’amnistia con l’aria che tira!Altri ministri esordirono nel loro compito promettendo brava-mente di cancellare la barbarie dell’ergastolo, e finirono con ilmordersi le labbra. L’aria che tira è dunque la prima ragione perstare con gli ergastolani contro l’ergastolo.

Si è appena interrotto uno sciopero della fame condotto da cir-ca 750 sui circa 1200 ergastolani italiani, e da qualche migliaio dialtri detenuti o familiari o persone solidali. Anche il silenzio chel’ha umiliato — Repubblica l’ha rotto il primo dicembre con unapagina di Alberto Custodero — appartiene all’aria che tira. I dete-

nuti sanno quanto pesi l’aria, loro che la centellinano a ore.C’è un’altra ragione. L’ergastolano è un malato terminale (tri-

sta espressione), ma di un genere speciale. Tutti dobbiamo mori-re, un malato terminale sa quando. Un ergastolano sa dove: in ga-lera. Un malato deve la sua condanna, lui incolpevole, alla disgra-zia. Un ergastolano la deve, colpevole (quando è colpevole), alladecisione di altri esseri umani. L’ergastolo non misura la colpa delcondannato. Possono esserci colpe per le quali l’ergastolo o la pe-na di morte, che tanto gli assomiglia, sono troppo poco, se si im-magini una proporzione rigida fra colpa e pena. Ma la proporzio-ne assoluta e irraggiungibile è affare della vendetta, non della giu-stizia. La vendetta è essa stessa senza fine, come la pena dell’erga-stolo, e la giustizia, al contrario, vuole spezzare il cerchio. Per l’er-gastolo, come per la pena di morte — Beccaria lo sapeva — non èquestione della gravità del delitto, ma dell’inumanità della con-danna. Negli Stati Uniti la domanda di abolizione della pena ca-pitale si giustifica spesso con l’argomento dell’ergastolo senza re-missione. È vero che fra la morte e la vita, anche la più indegna del-le vite, passa una frontiera incancellabile. Ma è anche vero che aogni vita dev’essere riconosciuta una speranza, infima e distantee quasi illusoria che sia. In alcuni Stati europei l’ergastolo non esi-ste. Non ne esiste il principio nella nostra Costituzione: il fatto esi-ste, e la contraddice, perché una pena dichiarata senza fine esclu-de da sé il pensiero stesso di una rieducazione del reo.

Quando gli ergastolani esclamano: «Allora meglio la morte!»,quando scrivono alle autorità invocando la pena di morte comeun’eutanasia, rivelano una verità e insieme la rimuovono. I suici-di cari al carcere sono più affare di detenuti provvisori, magari inattesa di giudizio o con pene ravvicinate. Però il fondo del pozzo,il buio senza varchi, quello è riservato agli ergastolani. Per tutti, iltempo della reclusione corporale è tempo sottratto — deve solopassare. Ma se non c’è un termine, se non c’è, per statuto, nem-meno un ultimo giorno in cui respirare l’aria aperta, un’ultimanotte con le stelle, allora davvero morire può essere meglio. Qual-cuno ha obiettato all’idea che il figlio prodigo sia una figura uni-versale dell’umanità: eppure per lo stesso cristianesimo la vita èun’avventura ribelle che prepara il ritorno. Non si dice forse dellamorte come di un ritorno alla casa del padre? Chiunque deve po-ter tornare a casa — per morirci, almeno. Trasportate l’ergastolodentro una religione, e avrete soppresso Dio e la sua giustizia e lasua bontà. Tenete l’ergastolo dentro la legge terrena, e avrete abo-lito il ritorno a casa. Sui cancelli delle galere dovrebbe essere scrit-to: Vietato morire — se non per disgrazia.

Rieducazione è parola quasi losca, se non significhi soprattut-to la fiducia — no, non dirò la fiducia, che è troppo, dirò la scom-messa, l’azzardo — che ogni persona possa rieducare se stessa. La

rieducazione, tanto più in galera, è un corpo a corpo delle perso-ne con se stesse. Gli altri — le costituzioni, i carcerieri — possonoguardarsi dal rendere impossibile o troppo ardua la resa dei con-ti di ciascuno con se stesso, e magari, se ne sono capaci, possonofavorirla. L’ergastolo la rende buia fino alla tortura spirituale. Lereligioni possono pretendere di assicurare anche a un dannatoperpetuo una speranza, rinviata a un altro mondo: ma solo le re-ligioni cattive rinunziano a desiderare per gli umani una speran-za anche sulla Terra, o addirittura a compiacersi della disperazio-ne terrena come di un pegno della speranza celeste. Non bisognariconoscere nella lotta non violenta degli ergastolani contro la di-sumanità della propria condanna un segno dei più limpidi diquella capacità di rieducazione di se stessi?

“Mai dire mai”, hanno intitolato gli ergastolani la loro cam-pagna, non so se con sarcasmo o con la confidenza della dispe-razione, spes contra spem. Nella giustizia informatizzata la for-mula tracotante — Fine Pena Mai — che è stampigliata, mar-chiata, sulla cartella dell’ergastolano è mutata in un’altra: FinePena 31.12.9999. Computer e passaggio di millennio hanno in-trodotto anche nell’ergastolo l’eufemismo, iperbolico. Così fa-cendo, oltre ad ammettere, con l’innominabilità, la vergognadell’ergastolo, si sprofonda dentro una mostruosa contraddi-zione. Perché l’impossibilità espressa da quel 9999 va presa, perun momento, per una possibilità — non è questo che prometto-no le sorti progressive dell’ingegneria genetica, una vita imme-morabilmente longeva, fino all’immortalità? Ecco che da quelfuturo impensabile una luce sinistra, una luce gialla da muro dicinta, viene proiettata sulla nostra scena. Nel 9999 un visitatore(da questo o da un altro pianeta, non importa, e se la Terra ci saràancora sarà comunque un altro pianeta) chiederà a una creatu-ra umana con la barba lunga di 8029 anni perché sia lì, e lui ri-sponderà: «Nel 1970, avevo diciannove anni...». Gli antichi ave-vano immaginato il dono dell’immortalità fatto a un umano dauna dea innamorata e sbadata, che aveva mancato di accompa-gnarlo col dono dell’eterna giovinezza, tramutandolo nella piùorribile delle condanne. Neanche gli antichi avrebbero imma-ginato la longevità — formidabile acquisto della nostra moder-nità — associata all’ergastolo. Dev’esserci una libertà da sogna-re, un traguardo estremo, tenendo l’anima coi denti, fosse purefra diecimila anni. Sono queste le ragioni per le quali il mio au-gurio di Natale va a lui, il prossimo nel quale mi sono imbattuto,che si è imbattuto in me, l’ergastolano, colui che sa di dover mo-rire, che sa dove, e sa che morirà ogni giorno di nuovo, ogni vol-ta che si risveglierà dalla sua notte di cella.

Pensiero impopolareper il Prossimo mio

ADRIANO SOFRI

Repubblica Nazionale