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DOMENICA 19 NOVEMBRE 2006 D omenica La di Repubblica GUIDO RAMPOLDI cultura Flaubert e il suo doppio in 500 lettere DARIA GALATERIA e AMBRA SOMASCHINI il reportage Il business del Vietnam “coloniale” FEDERICO RAMPINI il racconto Teschio e tibie, la vera storia dei pirati STEFANO MALATESTA l’incontro Umberto Veronesi, un po’ di luce nel buio DARIO CRESTO-DINA la memoria Carolina Invernizio, regina dei best seller GUIDO CERONETTI e PAOLO MAURI A prima vista i bambini-soldati dell’Uganda disegna- no la guerra come potrebbero disegnarla i nostri fi- gli. Carri armati, elicotteri, spari: sembrano scene d’un film d’azione. Ma a osservarli un po’, scopri che quei disegni africani descrivono violenze e scontri armati come potrebbe solo chi c’è finito dentro. Le armi, per esempio. Un kalashnikov è esattamente un kalashnikov, con il caricatore dall’inconfondibile linea curva e la baionetta in- nestata sulla parte inferiore della canna. Poi: alcune uccisioni so- no realistiche. Rivedi la fatica del corpo-a-corpo, lo sforzo che sfi- gura il volto, le braccia della vittima alzate per tentare di fermare il machete, insomma la manualità laboriosa che non c’è nei film ma è familiare a chi ha ucciso o visto uccidere. Soprattutto, in quei di- segni trovi quello che di solito non c’è nei disegni con cui i nostri fi- gli raccontano quel che hanno visto solo nei telegiornali: trovi il sangue. Fiotti, pozze, scie. Sgorga dalle bocche dei morti, goccio- la dai ventri degli agonizzanti, allaga la terra intorno ai colli di sgoz- zati e decapitati. È ovunque. E in alcuni disegni diventa uno scara- bocchio frenetico, un tratto ossessivo di matita rossa che inonda e copre l’intera figura umana, come a voler cancellare, insieme con quella, anche l’intollerabile ricordo dell’assassinio. Da secoli i bambini raccontano la guerra molto meglio dei cro- nisti. Non accade spesso che riescano a farsi ascoltare, ma quan- do accade ci sorprendono con uno stile che vola più alto delle cro- nache. Di loro si potrebbe dire quel che un filosofo tedesco scris- se dei poeti: vanno dritti a «l’essenza del dolore, della morte e del- l’amore di cui è privo questo tempo povero». Per secoli hanno spiegato cos’era la ferocia semplicemente opponendole il loro sguardo muto. Quale immagine, quale articolo racconta il nazi- smo meglio di quella foto polacca, il bambino ebreo con le mani alzate mentre un SS gli punta il fucile nella schiena? L’SS è grasso e divertito, il bambino così magro che sembra perso sotto un cap- pello troppo grande. Eppure fatichiamo a ritrovare nel passato un’arte consapevole di questa capacità assoluta che ha la figura del bambino, rappresentare così bene il contrasto tra la dignità della vittima e l’infamia del carnefice. Sarà perché fino a ieri i bam- bini apparivano, fin dalla soglia della pubertà, adulti di taglia mi- nore. La Chiesa teneva in sospetto quegli esseri così indisciplina- ti («innocente è la fragilità delle membra infantili, ma non inno- cente è l’animo», annnotava sant’Agostino). Non destava scan- dalo che nella Ginevra calvinista un diciassettenne fosse ucciso per aver irriso la Vera Fede mediante amputazione della lingua, taglio d’una mano e rogo a fuoco lento. Fin quando l’umanità è stata molto povera e la vita precaria, il valore affettivo dei bambi- ni è rimasto così basso che non si riconosceva all’infanzia uno sta- tuto particolare né di conseguenza particolare protezione. (segue nelle pagine successive) con una testimonianza di EMMANUEL DONGALA la lettura Gli inediti del reporter Mario Soldati NELLO AJELLO e MARIO SOLDATI Kalashnikov e granate invece di giocattoli: una piaga diffusa in Africa, ma non solo Una mostra di disegni adesso la denuncia Guerre bambine I piccoli soldati raccontano Repubblica Nazionale

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Page 1: omenica FEDERICO RAMPINI Repubblica Teschio e tibie, la ...download.repubblica.it/pdf/domenica/2006/19112006.pdf · nalista Rai, Monica Maggioni, ci sugge-risce una spiegazio-ne più

DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

DomenicaLa

di Repubblica

GUIDO RAMPOLDI

cultura

Flaubert e il suo doppio in 500 lettereDARIA GALATERIA e AMBRA SOMASCHINI

il reportage

Il business del Vietnam “coloniale”FEDERICO RAMPINI

il racconto

Teschio e tibie, la vera storia dei piratiSTEFANO MALATESTA

l’incontro

Umberto Veronesi, un po’ di luce nel buioDARIO CRESTO-DINA

la memoria

Carolina Invernizio, regina dei best sellerGUIDO CERONETTI e PAOLO MAURIA

prima vista i bambini-soldati dell’Uganda disegna-no la guerra come potrebbero disegnarla i nostri fi-gli. Carri armati, elicotteri, spari: sembrano scened’un film d’azione. Ma a osservarli un po’, scopri chequei disegni africani descrivono violenze e scontriarmati come potrebbe solo chi c’è finito dentro. Le

armi, per esempio. Un kalashnikov è esattamente un kalashnikov,con il caricatore dall’inconfondibile linea curva e la baionetta in-nestata sulla parte inferiore della canna. Poi: alcune uccisioni so-no realistiche. Rivedi la fatica del corpo-a-corpo, lo sforzo che sfi-gura il volto, le braccia della vittima alzate per tentare di fermare ilmachete, insomma la manualità laboriosa che non c’è nei film maè familiare a chi ha ucciso o visto uccidere. Soprattutto, in quei di-segni trovi quello che di solito non c’è nei disegni con cui i nostri fi-gli raccontano quel che hanno visto solo nei telegiornali: trovi ilsangue. Fiotti, pozze, scie. Sgorga dalle bocche dei morti, goccio-la dai ventri degli agonizzanti, allaga la terra intorno ai colli di sgoz-zati e decapitati. È ovunque. E in alcuni disegni diventa uno scara-bocchio frenetico, un tratto ossessivo di matita rossa che inonda ecopre l’intera figura umana, come a voler cancellare, insieme conquella, anche l’intollerabile ricordo dell’assassinio.

Da secoli i bambini raccontano la guerra molto meglio dei cro-nisti. Non accade spesso che riescano a farsi ascoltare, ma quan-

do accade ci sorprendono con uno stile che vola più alto delle cro-nache. Di loro si potrebbe dire quel che un filosofo tedesco scris-se dei poeti: vanno dritti a «l’essenza del dolore, della morte e del-l’amore di cui è privo questo tempo povero». Per secoli hannospiegato cos’era la ferocia semplicemente opponendole il lorosguardo muto. Quale immagine, quale articolo racconta il nazi-smo meglio di quella foto polacca, il bambino ebreo con le manialzate mentre un SS gli punta il fucile nella schiena? L’SS è grassoe divertito, il bambino così magro che sembra perso sotto un cap-pello troppo grande. Eppure fatichiamo a ritrovare nel passatoun’arte consapevole di questa capacità assoluta che ha la figuradel bambino, rappresentare così bene il contrasto tra la dignitàdella vittima e l’infamia del carnefice. Sarà perché fino a ieri i bam-bini apparivano, fin dalla soglia della pubertà, adulti di taglia mi-nore. La Chiesa teneva in sospetto quegli esseri così indisciplina-ti («innocente è la fragilità delle membra infantili, ma non inno-cente è l’animo», annnotava sant’Agostino). Non destava scan-dalo che nella Ginevra calvinista un diciassettenne fosse uccisoper aver irriso la Vera Fede mediante amputazione della lingua,taglio d’una mano e rogo a fuoco lento. Fin quando l’umanità èstata molto povera e la vita precaria, il valore affettivo dei bambi-ni è rimasto così basso che non si riconosceva all’infanzia uno sta-tuto particolare né di conseguenza particolare protezione.

(segue nelle pagine successive)con una testimonianza di EMMANUEL DONGALA

la lettura

Gli inediti del reporter Mario SoldatiNELLO AJELLO e MARIO SOLDATI

Kalashnikov e granateinvece di giocattoli:una piaga diffusain Africa, ma non soloUna mostra di disegniadesso la denuncia

Guerre bambineI piccoli soldati raccontano

Repubblica Nazionale

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(segue dalla copertina)

Però negli ultimi due secoli lecose hanno cominciato a mi-gliorare e oggi non appare più“normale” che milizie ferocirapiscano bambini per farnesoldati o servi. Non si può di-

re che il mondo faccia molto per evitarloma già è cruciale che proprio questo ge-nere di crimini sia all’origine del primoprocesso imbastito dalla Corte penaleinternazionale (contro il capo d’una mi-lizia congolese). Inoltre è successo qual-cosa di paradossale. Per il solo fatto d’es-sere percepiti non solo come vittime maanche come potenziali assassini di adul-ti, i bambini hanno potuto pubblicare li-bri sulla guerra: la guerra come la vedo-no loro. Negli ultimi anni la diaristica de-gli ex bambini-soldato è diventata quasiun genere editoriale. All’inizio questeautobiografie non avevano la freschezzadell’infanzia e il tono “morale” che lepercorreva sembrava prestato dagli edi-tor delle case editrici. M’ero convintoche quel tratto moraleggiante fosse unesorcismo di adulti, come per rassicu-rarci dal sospetto che qualcosa di spa-ventoso stesse ac-cadendo ai nostri fi-gli. Che i bambini-soldato fossero cu-gini dei Columbinekiller, gli inquietiscolaretti america-ni che sterminano icompagni di scuolacon il mitra di papà.Ma un’ottima gior-nalista Rai, MonicaMaggioni, ci sugge-risce una spiegazio-ne più realistica, epiù atroce: per nonessere ammazzati ibambini-soldatosono costretti a compiere azioni spaven-tose per le quali devono discolparsi a vi-ta. Monica ha parlato a lungo con exbambini-soldato ugandesi oggi assistitidall’Asvi, un’ong italiana, ma non è riu-scita a capire se a renderli così guardin-ghi fosse ancora la paura o piuttosto «il ti-more del giudizio»: «Anche quando so-pravvivono e tornano a casa questi ra-gazzi continuano a essere vittime. La pri-ma volta perché sono stati rapiti. La se-conda adesso, additati comeresponsabili di crimini commessi loromalgrado».

Per quanto i bambini-soldato non sia-no affatto un fenomeno moderno, è pro-babile che nel passato non fossero obbli-gati ad ammazzare (altri bambini o piùspesso adulti). Questo pare un metodorecente, indubbiamente astuto: lega il

GUIDO RAMPOLDI

Una mostra di disegni dei piccoli ugandesi finiti come combattenti-schiavinelle milizie tribali e “riscattati” grazie all’Avsi, un’ong italiana,sta per essere inaugurata a Milano dalla Fondazione Pubblicità ProgressoImmagini che portano in primo piano una tragedia ancora troppo diffusa

la copertinaGuerre bambine

bambino alla milizia convincendolod’essere un reietto che non può avere al-tro posto nel mondo. Ma almeno oggi ibambini-soldato non sono invisibilicom’erano da tempi immemorabili. Eda quando le loro storie hanno colpitocon forza l’immaginazione di giovaniscrittori africani trapiantati negli StatiUniti, riescono perfino a farsi ascoltare.Oggi ci parlano dalle pagine di romanzicome Johnny Mad Dog di EmmanuelDongala, segnalato dal Los Angeles Ti-mes tra i dieci migliori romanzi pubbli-cati nel 2005, o come il più recente Bestiesenza patria di Uzodinma Iweala, unventenne cui tutti pronosticano un futu-ro straordinario. Sono libri molto crudi,che guardano alla ferocia delle guerre ci-vili africane con una specie di sguardostuporoso, ipnotico. Ma non sono ne-cessariamente uno specchio fedele del-la condizione del bambi-no-soldato africano. Iwea-la è stato ispirato dall’in-contro con una ragazzinaruandese, ma il suo, mi dice,è un romanzo, non un docu-mento. Però è riuscito a susci-tare interesse per un fenome-no che altrimenti il mondotende a ignorare, per una ra-

gione chea Iwealapare perfi-no ovvia: «Ib a m b i n i -soldato nonhanno un va-lore econo-mico». Se mi-nacciasserooleodotti, at-tentassero allerotte del com-mercio o assal-tassero minieredi minerali preziosi,allora sì che gli statisi darebbero da fare

per porre fine al reclutamento. Non so se Iweala abbia ragione. Quan-

do i bambini-soldato attentano ad inte-ressi forti, in genere rischiano d’esserefatti fuori nell’indifferenza generale. Lodico con cognizione di causa. Leggo inJohnny Mad Dog che il nome di battagliapiù comune tra le milizie africane è, man-co a dirlo, Rambo. Anch’io ho conosciu-to una milizia di bambini-soldato con unRambo al seguito, ma in Asia. Nella valledel fiume Kwai, regione birmana al con-fine con la Thailandia. In quella giungladove tutto è gigantesco — bambù altissi-mi, elefanti, farfalle poderose, sanguisu-ghe porpora penzolanti dai rami, termi-tai più alti d’un uomo — l’esercito piùpiccolo del mondo cercava di sopravvi-vere alla fanteria birmana, alle granatedei mortai thailandesi, alle mine anti-uo-mo, ai cobra, alle malattie, alla fame. Locomandavano i leggendari gemelliLuther e Johnny Htoo, all’epoca noti allastampa internazionale come i capi del-l’Esercito di Dio. Giornali autorevoli(Newsweek, Le Monde) ne scrivevano co-me di un’organizzazione guerrigliera e

30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

PENSIERI DI CARTAQui sopra il disegno Durante la battaglia è difficile trovare riparoA sinistra, Senza i ribelli il villaggio è veramente bello. A destra, Fuga dalla guerraLa foto del bimbo che piange è stata scattata in Uganda dall’Avsi

Per non essereammazzatidevono farecose spaventoseper le qualisono poi costrettia discolparsi a vita

La memoria di sanguedeisoldatiragazzini

Repubblica Nazionale

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INFANZIA NEGATAQui sopra,il disegno di ObediFrancis RobinsonContinueremoad andare a scuolaIn alto nelle pagine,lo schizzo a matitafatto da AumaJackline Pa nel 2002I bambini sonocondotti nei campiribelli. A destra,un bambino soldatoproteggecon l’elmettoil piccolo che porta sulle spalle

terrorista, responsabile, tra l’altro, dell’o-dioso assalto all’ospedale di Ratchaburi edel sequestro di settecento malati, poi li-berati dalle teste di cuoio thailandesi me-diante massacro dei sequestratori.

Quando riuscii a scovare i fratelli Htooli trovai insieme a quanto restava del lo-ro esercito, un elefante e venti soldatiquasi tutti febbricitanti, chi per malariae chi per tubercolosi; cinque non rag-giungevano i sedici anni; il più anziano,Rambo, ne aveva ventotto e una facciagrigia da malato cronico. Il loro arsenaleera composto da quattro vecchi M16,due moschetti, un kalashnikov, due ron-cole, una fionda. Alcuni avevano sanda-li di plastica; i bambini neppure i sanda-li, e i loro piedi orlati di fango mostrava-no tra le dita la pomata arancione appli-cata sulle ferite.

Quel giorno Luther volle mostrarmi lasua ottima mira, e poggiato un moschet-to sulla testa di una recluta, centrò un al-berello a cento metri, proprio nel puntoin cui un soldato l’aveva scortecciato. Al-l’inizio discutemmo di armi. Preferiva ilkalashnikov all’M16 americano, gli pa-reva più potente e più preciso. Quandos’accese una sigaretta fabbricata con fo-glie arrotolate, grossa quanto un havana,scoprì l’avambraccio su cui erano tatua-te le parole «Figliodi Dio». Invece sullacamicia mimeticaera stampato «AirForce One», dicitu-ra bizzarra perchél’Esercito non ave-va alcuna forza ae-rea, e neppure piùun quartier genera-le, da quando trebattaglioni birmanigli avevano brucia-to le tre capanne incui dormivano.Luther aveva ri-schiato d’essereammazzato varievolte ma non dava peso a questi episodi.«Qualche volta le pallottole mi sono fi-schiate vicino», minimizzò con la sua vo-ce sottile. Era un tipo molto simpaticoma intervistarlo risultava complicato:quando si stufava, e accadeva spesso,correva a cercare granchi con le recluteoppure si rannicchiava tra le braccia diRambo. Tutto questo non deve sorpren-dere perché il comandante Luther avevadodici anni. Sembrava anche più picco-lo della sua età, e i suoi pantaloncini daginnastica profilavano la pancia gonfiadei bambini denutriti. Poiché non v’è unesercito al mondo che abbia divise dellasua taglia, la sua camicia mimetica do-veva essere di quelle che anche in Thai-landia si comprano dai giocattolai per-ché i figli si divertano a giocare alla guer-ra.

La leggenda dei due gemelli divini eramolto più grande dell’Esercito di Dio, inorigine la milizia di tre villaggi nel frat-tempo bruciati dai birmani. Incrociavaantiche leggende del popolo Karen,oscure profezie, attese messianiche dimissionari cristiani, la disperazione di

un popolo sconfitto. E il gas delle isoleAndamane. I Karen sono sette milioni,più degli svizzeri. Fino al 1995 la loro or-ganizzazione indipendentista, il Karennational union (Knu), controllava con lesue milizie una delle sette province dellaBirmania orientale. Poi le trivellazionicompiute nel mare antistante le isoleAndamane portarono alla scoperta diimmensi giacimenti di idrocarburi. Aquel punto la giunta birmana concluseaccordi con società petrolifere occiden-tali ed ebbe il denaro per lanciare un’of-fensiva che travolse l’esercito dei Karen;questi ultimi divennero manodoperacoatta per il gasdotto delle Andamane,che oggi passa nel loro territorio.

Fu proprio durante la rotta che nac-que la leggenda dei due gemelli divini.Cominciò quando quattordici Karen, trai quali Luther e Johnny Htoo, espugna-rono una postazione birmana. L’azionesuccessiva fu ancora più fortunata, e ilgruppo tornò carico di fucili presi ai ne-mici (hai ucciso, Luther? «Non so. Hosparato, e ho visto corpi sul terreno»). Eraimprobabile che da allora i due gemelliavessero partecipato ai combattimentiche seguirono, meno fortunati: l’Eserci-to di Dio aveva subito tredici morti, duedei quali bambini, e la gran parte dei suoi

soldati s’era sban-data. Però i missio-nari cristiani che nel2000 incontrai sulconfine birmano-thailandese rac-contavano di mira-coli: la mano di Dio,giuravano, proteg-ge Luther e Johnnydalle pallottole. Inrealtà l’Esercito diDio era solo undrappello inoffen-sivo che cercava dinon farsi ammazza-re mentre cacciavascimmie e linci per

sfamarsi. Ormai erano accerchiati, perquesto il Knu aveva organizzato l’incon-tro con due giornalisti occidentali: forsel’intervento dei media avrebbe indottole truppe birmane e thailandesi a rispar-miare quei poveri fuggiaschi. Un annodopo, nel giugno 2001, a Bangkok, lo sta-to maggiore annunciò la resa del nemi-co: i due gemelli e i loro compagni s’era-no consegnati al glorioso esercito delSiam. Nel darne notizia la France Pressprecisò che Luther e Johnny Htoo erano«considerati i capi del gruppo estremi-sta». Nel 2004 seppi che Luther era anco-ra in un campo di raccolta thailandese,dove s’era appena sposato. Con una ra-gazza molto bella, come prescrive ai gio-vani eroi la trama delle favole. Ma le sto-rie dei bambini-soldato non sono favole,se non per il fatto che pullulano di orchi.

“Bestie senza patria”,romanzo molto durodi Uzodinma Iweala,è stato scrittodopo l’incontrocon una bambinaruandese

LIBRI E MOSTRE

S’inaugura l’11 dicembre a Milano, in piazza Duomo, la mostra, promossa e realizzata dalla Fondazione PubblicitàProgresso in collaborazione con l’Avsi, Bambini-soldatodel Nord Uganda. La rassegna è in programma finoal 7 gennaio 2007. Tra i libri che raccontano l’orroredelle guerre bambine segnaliamo: Bestie senza una patriadi Uzodinma Iweala, (Einaudi, 130 pagine, 9,50 euro)e Johnny Mad Dog di Emmanuel Dongala (Epoché, 323pagine, 15 euro)

Mi ricordo ancora perfettamente del mio primo incontro con i bambini-solda-to della guerra civile del Congo Brazzaville, davanti a uno sbarramento di for-tuna che avevano eretto in una stradina. Malgrado la mia paura, fui sul punto

di scoppiare a ridere di un riso nervoso, quando il capo del gruppo interpellò uno diloro dicendogli: «Ehi, Chuck Norris, dammi una granata». La situazione era quanto-meno surreale: nel vicolo di un quartiere poverissimo di una città africana in pienaguerra fratricida, un giovane combattente aveva scelto come nome di battagliaquello di un attore americano di film di serie B! Dove diavolo lo aveva imparato?

Solo molto dopo mi sono reso conto che non mi sarei dovuto sorprendere delfatto che quel ragazzo si facesse chiamare Chuck Norris e si ritrovasse senza ma-nifestare emozioni in una milizia, considerando la quantità di videocassette e dvdpirata che inondano la maggioranza dei paesi del continente africano. In città co-me Brazzaville o Kinshasa, dove le sale cinematografiche hanno smesso di esi-stere da un bel po’ di tempo, giovani intraprendenti si guadagnano da vivereproiettando videocassette pirata. Equipaggiati con televisori e videoregistrato-ri “tropicalizzati” per farli funzionare con batterie di automobili, data la penu-ria di corrente elettrica, affittano una sala dove proiettano i loro film. Spessotrasformano in sala di proiezione la loro stessa camera da letto, spingendo unletto contro il muro qua, un tavolo di là e aggiungendo qualche panca. Per lapubblicità, fotocopiano le illustrazioni del cofanetto della videocassetta e leappendono davanti alla sala. Le proiezioni di giorno, dove si ritrovano spes-so bambini, costano in genere venticinque franchi Cfa (tre o quattro cente-

simi di euro, ndr); i prezzi triplicano o quadruplicano se si tratta di film “per adul-ti”, per non dire porno. Va da sé che non esiste nessuna selezione, tutto quello su cui siriesce a mettere la mano in questo mercato di prodotti piratati va bene. Ho chiesto a ungiovane di annotarmi i titoli dei film proiettati nel corso di un mese; com’era prevedi-bile, i più gettonati erano i film d’azione violenti e i film di karatè, seguiti dalle pellicoledi Bollywood. I nomi di Schwarzenegger, Stallone, Chuck Norris e compagnia erano po-polarissimi.

Per bambini che non sanno che i film sono “fabbricati”, le violenze “immaginate” deifilm sono reali quanto quelle del mondo reale — Kosovo, Ruanda, Iraq, Sierra Leone…— che arrivano loro senza mediazione, senza spiegazioni, sui canali satellitari interna-zionali, che oggi sono captati in tutte le grandi città africane. Questa incapacità di farela differenza tra la realtà e la fantasia rende questi bambini particolarmente pericolosiquando sono arruolati nelle milizie. Sono incoscienti perché non hanno il senso del pe-ricolo, e possono esercitare una grande crudeltà senza rendersi conto della sofferenzache stanno infliggendo. A questo bisogna aggiungere il loro retroterra culturale africa-no, la credenza nella magia, questa credenza radicata che con i gri-grie le pozioni che iloro capi gli danno da bere diventano invisibili e invulnerabili alle pallottole.

Non sono così ingenuo da credere che questi film, queste immagini, siano le ragioniche spingono questi bambini a diventare bambini-soldato. La ragione è semmai chequando lo Stato va in bancarotta, come è successo in Congo, scoppiano dei conflitti, siinstaura il caos e questi ragazzini, o per incitamento dei signori della guerra o per istin-to, corrono a impersonare i loro eroi, a vivere direttamente le loro fantasie. E così, nelconflitto del Congo, i quartieri venivano ribattezzati Sarajevo, Kosovo, Beirut, Kuwait.Dei combattenti hanno preso come nomi di battaglia Rambo, Ninja, Cobra, Saddam oBin Laden. Mentre la generazione dei loro genitori sognava belle auto, grandi case conpiscina e dollari quando sognavano l’America, loro sognano di essere gli eroi di Hol-lywood… O i figli di Bin Laden.

La grande sfida per la riabilitazione di questi bambini, una volta smobilitati, sarà tro-vare un mezzo per reinstradare le loro fantasie verso altre visioni, più foriere di futuro edi speranza. Mostrare loro che alla fine la magia dell’istruzione è più forte della magiadell’invisibilità o dell’invulnerabilità e che il vero potere, il potere ultimo, è utilizzare ilproprio fucile per proteggere una vita umana.

Emmanuel Dongala, originario della Repubblica Centrafricana, è autore di“Johnny Mad Dog”, edito in Italia da Epoché , dedicato al tema dei baby-soldato

(Traduzione dal francese di Fabio Galimberti)

Per modello eroi da teleschermodi nome Rambo, Ninja o Saddam

Il combattimento permette di vivere le loro fantasie

EMMANUEL DONGALA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Repubblica Nazionale

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il reportageViaggi rétrò

Gli hotel di Greene e Maughamrestaurati, visite guidate sui luoghidell’“Amante” della Duras,minicrociere nel tragico mare dei boat-people. Il regime di Hanoi cavalcail business del turismo di lusso e mettein scena il teatro di quel colonialismoche ha odiato e sconfitto con guerre spietate

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

HANOI

A Lao Cai il ponte sull’af-fluente del Fiume Rosso èattraversato da una folla dipedoni indaffarati, conta-

dini vietnamiti curvi sotto cesti stracarichidi frutta, ciclisti con le sporte piene chedondolano ai lati delle ruote, carretti trai-nati da buoi, qualche camion di carbone.Sono oziosi e indolenti solo i poliziotti chepresidiano il confine: ormai i frontalieriche lasciano Lao Cai e percorrono il ponteper fare commerci in Cina non hannoneanche bisogno di un visto.

In mezzo ai segni del nuovo benessereche dalla Cina contagia il Vietnam non c’èun solo monumento, non un museo,neanche una targa che ricordi il ruolo diquesta cittadina nella storia. Sulla ferroviaa scartamento ridotto nel 1954 arrivavanogli aiuti cinesi alle truppe viet-minh del ge-nerale Giap che umiliarono i francesi nel-la battaglia di Dien Bien Phu, costringen-do la Quatrième République a chiudere in-gloriosamente la guerra d’Indocina. Conla débacle francese venne l’accordo di Gi-nevra che divise in due il Vietnam lungo il17° parallelo. Sul ponte di Lao Cai il flussodi armi da quel momento non fece che au-mentare, dalla Cina di Mao verso il com-pagno Ho Chi Minh: ad Hanoi erano già incantiere i piani per invadere il Vietnam delSud. Nessuna traccia qui ricorda la solida-rietà comunista tra Cina e Vietnam duran-te la guerra contro l’America, e neppure ilsuo tragico capovolgimento. Lao Cai fuuno dei luoghi martirizzati nel breve ma fe-roce conflitto del 1979 tra cinesi e vietna-miti, rivali per il controllo sulla Cambogia.La storia è un fardello ingombrante nelVietnam “neo-com” di oggi, il nuovo dra-gone asiatico invitato di recente con tuttigli onori nell’Organizzazione del com-mercio mondiale (Wto).

I turisti occidentali possono evitare lestanze fetide degli alberghi a ore di frontealla stazione, i ratti sui marciapiedi, i vago-ni-letto dall’odore di latrina. Per le comiti-ve straniere Lao Cai è solo la breve tappad’arrivo del Victoria Sapa Express, lussuo-so treno wagons-lits ricostruito nello stilecoloniale. È un gemello dell’Orient Ex-press, i coloni francesi lo usavano nel pri-mo Novecento per sfuggire al caldo tropi-cale delle pianure e rifugiarsi su questemontagne a 1.800 metri. Le avevano bat-tezzate “Pyrénées Tonkinoises” (il Tonchi-no era la parte settentrionale del Paese, nel-la tripartizione amministrativa decisa dal-l’impero francese) e nell’aspetto sono tor-nate ad esserlo da qualche anno. Nella vici-na Sapa si riaprono raffinati alberghi fran-cesi restaurati nello stile di allora, ungradevole incrocio architettonico tra glichalet dell’Alta Savoia e l’estetica indoci-nese. Sulle montagne coltivate a terrazzedove cresce il “riso che s’incolla”, in mezzoai bufali d’acqua, i bambini della minoran-za etnica Hmong hanno imparato a direhello, bonjour e anche ciao, per esibirsi co-

me animali da circo negli hotel per stranie-ri, dove le loro danze folcloristiche fanno dasfondo ai buffet di ostriche e aragosta.

È di moda il Vietnam “rétrò”. Un paeseimmaginario di paradisi perduti, fantasieerotiche dell’uomo bianco, languori no-stalgici da imperi decadenti. Nell’era delsuo boom economico, consacrato in que-sti giorni ad Hanoi dal maxivertice dell’A-pec (Associazione Asia-Pacifico) conGeorge Bush e Hu Jintao, il regime comu-nista cavalca il business del turismo di lus-so, accoglie a braccia aperte le multinazio-nali degli ex-invasori, se si chiamano Sofi-tel o Sheraton e portano visitatori di altagamma e portafoglio. Pierre Loti e AndréMalraux, Francis Ford Coppola e OliverStone, tutti gli autori della letteratura e delcinema occidentale che hanno visitatoquesti luoghi sono riciclati per contribuirea una sofisticata menzogna: è la gaudentericostruzione di un passato idealizzato, unpaese che recita il teatro del colonialismocome se dimenticasse di averlo odiato e diaverlo sconfitto in guerre spietate. I fran-cesi sono i primi a comprare questo ingan-no. Air France li sbarca direttamente daParigi ad Hanoi per sorbire all’ora dell’a-peritivo un kir royal davanti al teatro del-l’opera che è una replica esatta del PalaisGarnier. Li vedi sognare a occhi aperti inmezzo al fruscio delle cameriere dai fian-chi snelli, avvolte negli aderenti ao dai diseta. Gollisti o di sinistra, dopo qualchebicchiere al bar si lanciano in appassiona-te requisitorie contro i bombardamenti alnapalm di Lyndon Johnson, dimentican-do che a pochi metri dal loro albergo il go-vernatore francese negli anni Cinquantafaceva torturare centinaia di prigionieripolitici, uomini donne e anziani.

Nella città di Hue il migliore albergo haripreso il nome della dinastia transalpinache lo fondò, i Morin. Nelle camere esibi-sce foto d’epoca della ricca famiglia anchese oggi è di proprietà di un’azienda statalevietnamita. Il concierge dell’albergo orga-nizza visite alla vicina piantagione di cauc-ciù per chi vuole rituffarsi negli antichisplendori ricreati dal film Indochine, conCatherine Deneuve nella parte della intra-prendente latifondista. In omaggio al turi-sta parigino la guida pudicamente sorvolasul fatto che quel caucciù fu una delle gran-di rapine coloniali: 10mila tonnellate pro-dotte nel solo 1929 nella regione dell’An-nam. La gomma di qui fu all’origine della

fortuna dei Michelin e anche dei lauti pro-fitti della Banque d’Indochine, ai tempi incui un usciere francese della banca guada-gnava il triplo di un docente universitariovietnamita.

L’amnesia storica concessa ai turisti fa ilgioco del regime di Hanoi, che ha le sue ra-gioni per stendere un velo su altre paginedel passato. A Ha Long, splendida baia ma-rina di montagne carsiche, gli occidentalisono invitati a vivere per un budget mode-sto un’esperienza da nababbi. Naviganonelle calde acque color smeraldo sullegiunche a vela, con marinai e camerieridalla gentilezza squisita, cuochi che cuci-nano i granchi pescati all’istante. Gli stra-nieri ignorano che questa placida invasio-ne di mini-crociere di lusso avviene nellazona che vent’anni fa era il teatro del tragi-co esodo dei boat-people, tre milioni di di-sperati costretti a fuggire dalla fame e dal-le persecuzioni degli eredi di Ho Chi Minh.Da quando ha sposato l’economia di mer-cato, il governo accoglie a braccia aperte gliemigrati che vogliono tornare, proprio co-me fece Deng Xiaoping con la ricca dia-spora cinese. Ma guai a riaprire le ferite delpassato. Nessuno deve ricordare che neglianni 1965-75, insieme all’aggressioneamericana, ci fu anche una vera guerra ci-vile nord-sud e i vincitori imposero il co-munismo soffocando la parte più ricca emoderna del Paese.

Qualche volta la realtà rovina il revival diatmosfere coloniali. Malgrado gli sforzi difantasia delle agenzie di viaggio, il Mekongnon è più lo scenario selvaggio e tenebrosodel film Apocalypse Nowcon Marlon Bran-do, quel fiume avvolto nell’insidiosa vege-tazione tropicale dove le motovedette Usasubivano micidiali incursioni dei vietcongtravestiti da pescatori. Quando il registafrancese Jean-Jacques Annaud, per filma-re L’amante, ha cercato le acque placide esensuali descritte da Marguerite Duras, èrimasto deluso da un paesaggio «simile aun’autostrada di Città del Messico». Il del-ta del Mekong oggi attraversa una regionedi venti milioni di abitanti, con un’agricol-tura fra le più produttive del mondo. Il fiu-me è una metropoli galleggiante, le sue ac-que inquinate brulicano di chiatte che tra-sportano cemento e ghiaia per i cantieri

edili di Saigon, avviata verso lo stesso disa-stro ambientale di Bangkok o Shanghai.

Ma la voglia di sognare prevale, il Vietnamonirico ha ormai partorito un genere lette-rario e giornalistico inarrestabile. Un recen-te reportage di Matt Gross sul New York Ti-mes è stato dedicato al pellegrinaggio neiluoghi della memoria di Marguerite Duras,alla disperata ricerca di ogni traccia dellaperversa relazione sessuale che la scrittriceebbe da adolescente con un ricco cinese.Non importa se la Chinatown di Saigon(Cholon) è resa irriconoscibile dall’esplo-sione del capitalismo: c’è sempre un mer-cante abbastanza sveglio per “ritrovare”miracolosamente nella sua soffitta lefoto sbiadite — garantite autentiche— dell’amante cinese e di altri perso-naggi del romanzo autobiografico.

L’apice di questa messinscena èfirmato dagli abili gestori dell’hotelMétropole di Hanoi, il palace glorio-so che nella prima metà del Novecen-to ospitò tutte le celebrità del mon-do. Dopo un periodo di deca-denza durante il comunismodi guerra — vi pioveva dai sof-fitti pieni di buchi e coloniedi topi spadroneggiava-no nelle sue cucine— l’albergo è sta-to restauratonello splendo-re originarioda una jointventure trauna bancalocale e ifrancesi diSofitel. Par-quet in mo-gano, mo-bili in tek,a n t i c h emaiolicheblu inca-stonate nel-la parete die-tro la recep-tion, la tettoia dibambù e vimi-ni attorno allapiscina: tutto è

tornato d’incanto come ai tempi incui la piazza di fianco si chiamavaSquare Chavassieux, le mogli deidiplomatici andavano in calesse alPetit Lac e lo chef si vantava di farela miglior bouillabaissemarsigliesea est del Cairo. Gli ospiti dell’albergopossono, per una tariffa non propriomodica, prenotare la suite dove allog-giò Somerset Maugham, o quella diGraham Greene, o infine dormire nellostesso letto dove Charlie Chaplin con-

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LOTISopra, Pierre Loti

A sinistra, un’anticaveduta dell’hotel

Metropole ad Hanoi

MAUGHAMSopra, lo scrittore

Somerset MaughamA destra, la baia

vietnamita di Ha Long

FEDERICO RAMPINI

Così il Vietnam “neo-com”vende l’Indocina coloniale

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

sumò la luna di miele con Paulette God-dard nell’aprile 1936. Nella biblioteca del-l’albergo figurano in bella vista le opere delprincipe Henri d’Orléans, che nel suo dia-rio di viaggio De Paris à Tonkin à travers leTibet inconnu (1891) fu uno dei primi adammaliare i francesi con lo spaesamentoesotico del turismo in Estremo Oriente. Ilmanagement del Métropole non trascuranessun segmento di clientela, ha un oc-chio di riguardo anche per la sensibilitàpolitically correct dei turisti più liberal:l’opuscolo in carta patinata sulla storiadell’albergo sottolinea che fra gli ospitici furono le due più famose contestatri-ci americane della guerra del Vietnam,l’attrice Jane Fonda detta Hanoi-Janee la cantante folk Joan Baez (si devepresumere, vista la cronologia, cheaccettarono di convivere coi topi).

La sofisticata attrazione di questorestyling coloniale del Vietnam devemolto alle qualità indubbie dei suoiabitanti. Sono di una cortesia disar-mante con gli occidentali, mai con-taminata da tracce di risentimen-to per il passato (gli americani tra-secolano di fronte a tanta simpa-tia, i francesi la considerano unnormale omaggio alla loro mis-sione civilizzatrice). I vietnamitihanno un savoir faire così spon-taneo che ancora non sembratrasformato in professionalitàcome in altri paesi del Sudestasiatico, abituati al turismo dadecenni. Sono per natura più

educati e delicati dei loro vicini ci-nesi. Questi modi raggiungonola perfezione nelle donne ecompongono una inebriantemiscela erotica per il maschiooccidentale. Poche ore dopo es-sere sbarcato in Vietnam, cir-

condato da ragazze discintenella discotecaA p o c a l y p s eNow di Saigon, oavvolto nei pro-fumi di olio aro-matico che unamassaggiatrice glispalma sullaschiena, l’uomobianco di mezzaetà si rispecchiainevitabilmentenella parte di Mi-chael Caine. L’atto-re protagonista delfilm L’americanotranquillo, tratto daun romanzo diGraham Greene eambientato nel 1951,interpreta il ruolo di

un anziano giornalista che convive conuna splendida fanciulla locale, dolce e de-siderabile, accattivante e sottomessa. Leinaturalmente lo tradirà alla prima occa-sione andando a letto con uno ben più gio-vane e più ricco di lui. Good morning Viet-nam: business is business.

POSTER LIBERTYIl poster dell’Esposizionedi Hanoi del 1902-1903a cura del Ministerodelle Colonie franceseSopra e in basso,etichette da bagaglioe immagini d’epoca trattedal libro SofitelMetropole Hanoidi Andreas Augustine

DURASSopra, la scrittriceMarguerite DurasA destra, portale

del tempio Kien An Kung

GREENESopra, lo scrittoreGraham GreeneA destra, l’anticastazione di Hanoi

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il raccontoVerità e leggenda

La saga letteraria dei corsari è certamente più lunga,ricca ed eroica della loro vita reale. Ora viene pubblicatoanche in Italia “Storia generale dei pirati”, scrittonel Settecento, uno dei libri su cui si fonda il mitodi questa genìa di avidi tagliagole che lettori e spettatoridi ogni epoca vedono piuttosto come simpatici mascalzoni

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

STEFANO MALATESTA

La vita letteraria dei pirati è stata più lunga, infinitamente piùconfortevole e possibilmente anche più redditizia della vita reale.Long John Silver, il più famoso filibustiere che abbia mai solcato imari della fiction, ha fatto guadagnare in diritti d’autore agli eredie alla moglie del suo creatore, Robert Louis Stevenson, l’equiva-lente del tesoro di cui il pirata stesso andava alla ricerca. Per due o

tre secoli le storie dei pirati e dei corsari hanno costituito uno dei filoni più po-polari della letteratura romanzesca e di avventure. Nel 1814 The corsairdi Geor-ge Byron — una storia letta sui giornali e ispirata alla eroica difesa di New Or-leans di Jean Lafitte, un prototipo del romantico “outlaw” che piacerà molto aVerdi e a Berlioz — vendette diecimila copie in una settimana e si ristampò insette edizioni nel giro di un mese. Per un curioso contrappasso due anni più tar-di una flotta congiunta anglo-olandese si era presentata davanti ad Algeri, ra-dendo al suolo il porto e affondando decine di quelle velocissime, snelle barchecariche di velature con le quali i pirati attraversavano in lungo e in largo il Me-diterraneo. Un attacco dal quale la pirateria mussulmana non si riprese mai più.

Non so se qualcuno dei Fratelli della Costa, come anche si chiamavano i pi-rati della Tortuga, sia mai stato consapevole di aver dato vita ad un genere po-polare, dove gli eroi sono tutti dei fior di mascalzoni che verranno sostituiti nelmondo romanzesco, in tempi più moderni, da altri “malamente” e picciotti, imafiosi per esempio, altro caso luminoso di delinquenti puri innalzati al ruo-lo di protagonisti letterari. Il vasto pubblico non solo dei lettori amanti dell’av-ventura, ma dei cittadini timorati di Dio, ha sempre guardato con un occhiobenevolo queste truci vicende, forse perché erano così imbottite di esotismo edi inverosimiglianza da renderle irreali e pertanto innocue. Ancora oggi il ter-mine pirata, pronunciato scherzosamente, ma con tono di ammirazione e di

invidia, sta ad indicare un simpatico mascalzone, conil quale quasi tutti si scambierebbero volentieri...

Il vero eroe dell’Isola del tesoroè Long John Silver, nonil giovanotto Jack Hawkins; e chi non avrebbe dato unamano a Morgan per andare a saccheggiare Panama,con tutti quei tesori e quei forzieri rigurgitanti di oro az-teco e di argento del Potosì? La modesta furbizia di unristoratore dalle parti di Mentone, che negli anni Cin-quanta e Sessanta si presentava agli avventori a torsonudo e con la testa fasciata “a la pirate” da un fazzolet-to di seta, ha reso celebre in tutto il mondo il suo locale.Mi domando se avrebbe avuto la stessa fortuna pre-sentandosi come Jack lo squartatore o il signor Landruo Scarpuzzedda, quello dei corleonesi che torturava i ri-vali della banda nell’appartamento di corso dei Mille, aPalermo.

La maggioranza di queste storie di pirati proviene dadue o tre raccolte, responsabili di quasi tutto quello chenoi sappiamo su di loro, miti ed esagerazioni compre-

si. Una delle più note è laStoria generale dei pirati, che risale al 1724, firmata daun capitano Charles Johnson, allora un grande successo, ristampato e am-pliato più volte, ora pubblicato anche in italiano. Negli anni Trenta del Nove-cento il libro, per le sue qualità di scrittura venne attribuito a Daniel Defoe, l’au-tore di Robinson Crusoe, ma è un’attribuzione indebita ed è rimasto il misterodi questo autore che nessuno ha mai visto. Per la verità, nel passato, un curio-so atteggiamento della storiografia, che considerava l’argomento pirateria se-condario, troppo folcloristico e cinematografaro per meritare un analisi seria,aveva lasciato le avventure di questi signori nelle mani dei fantasisti. Ma daqualche tempo abbiamo dei sicuri testi di riferimento e uno dei migliori è Un-der the Black Flag: Romance and reality among the pirates, di David Cordingly,uscito sette o otto anni fa, che ci ha spianato la strada per sapere quello che èvero e quello che è falso in queste vicende.

Con una certa sorpresa, dal libro di Cordingly risulta che l’immagi-ne popolare, quella che noi tutti ci siamo fatti dei pirati leg-

gendo libri come la Storia generale o andan-do da ragazzi al cinema a vedere Cap-

tain Blood con Erroll Flynn o Il cor-saro dell’isola verde con Burt Lan-caster, è rimasta abbastanza fede-

le per quanto riguarda l’aspettofisico, la tipologia del vestiario.

I pirati indossavano, cometutti i comuni marinai,

una giacchetta cortacolor blu infilata sopraun rude camiciotto,

calzoni spampanati ret-ti da bretelle vistose e

spesso un gilet rosso in so-prannumero e il classico fazzolet-

to, a volte sostituito da una più larga sciarpa, annodatosopra la testa: una pratica soluzione per difendersi dalsole implacabile dei tropici. Ogni pirata aveva diverse pi-stole infilate in un’altra sciarpa annodata alla vita e questasovrabbondanza di armi era un’ottima precauzione per con-tinuare a sparare anche se la polvere della prima pistola era ba-gnata, come succedeva spesso in mare.

Si distinguevano, all’inizio, solo i bucanieri, un termine nato perdefinire i cacciatori che si aggiravano nei boschi di Hispaniola dan-do la caccia ai bovini importati nel Nuovo Mondo dagli spagnoli,moltiplicati in un numero incredibile per l’assenza ai Caraibi di pre-datori naturali. I bucanieri, che tagliavano la carne in strisce sottili e lavendevano dopo averla affumicata, come avevano imparato dagli india-ni Arawak (il processo di affumicamento si chiamava boucaner) vestiva-no tutti con abiti di pelle conciata con i loro escrementi e tra il puzzo cheemanavano e le macchie di sangue che cospargevano questi indumenti, nonavevano un aspetto invitante. Più tardi si stabilirono nell’isolotto della Tor-tuga, formando una confederazione chiamata “I fratelli della costa”, che nonaveva scopi caritatevoli, come starebbe ad indicare il nome.

Il racconto stupefatto delle imprese di questi manigoldi, per adoperare untermine usato nel passato nei loro confronti, aveva avuto dei precedenti ri-spetto alla Storia Generale. La narrazione più antica, in effetti il primo libro cheaffrontasse in modo sistematico le vicende piratesche era stato pubblicato piùdi cinquant’anni prima in Olanda e poi in Inghilterra, diventando subito un be-st seller. Si intitolava: Buccaneers of America, di Alexander Exquemelin, un fran-cese di Honfleur, in Normandia, passato alla Tortuga come giovane barbiere,che aveva servito sotto Henry Morgan e Francois l’Olonese, uno psicopatico

Sul ponte sventolabandiera nera

Dai vecchi testisulla pirateria

esce un’umanità degradata,dedita a un assassiniodopo l’altro, con una ridicolaaspettativa di vita e destinatain breve alla rovina o alla forca

ALL’ARREMBAGGIOI disegni di questepagine sono tratti

da una serie realizzatada Gipi nel giugno2006. Sono dipinti

ad acquarello,inchiostri

e matite colorate

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

che torturava tutti i prigionieri con variazioni a seconda del rango. Il metodopiù comune, per semplici marinai, consisteva nello stringere la fronte con unacorda fino a che gli occhi del poveretto non uscivano fuori delle orbite. I perso-naggi importanti li curava lui stesso, tagliandoli a fette come un pezzo di buecon un coltello affilatissimo, e poi leccando il sangue rimasto rappreso lungoil filo della lama. Se qualche lettore si è fatto un’idea romanticizzata dei piraticome dei simpatici bellimbusti, una lettura anche parziale del libro di Exque-melin gliela farà passare. Perché i singoli ritratti vengono a comporre l’imma-gine complessiva di un’umanità degradata, priva di qualsiasi orizzonte chenon sia un assassinio dietro l’altro, con un’aspettativa di vita ridicola, e desti-nata in poco tempo alla rovina finanziaria o alla forca. Oppure eliminata frau-dolentemente da quelli che dovevano essere i suoi compagni.

Uno dei pochissimi che si salvò dalla sorte comune è stato Morgan, tostissi-mo gallese, anche lui accusato da Exquemelin di essere un mostro di deprava-zione e di crudeltà. Ma il corsaro riuscì a portare l’autore del libro in una corteinglese, dimostrando come tutti i suoi raid fossero stati autorizzati dal gover-natore della Giamaica, Sir Thomas Modyford, e vinse la causa per diffamazio-ne ricevendo un sostanziale risarcimento. Tornato a Londra per le proteste de-gli spagnoli inviperiti, venne immediatamente fatto “sir” da Carlo II e riman-dato nelle Indie Occidentali con la nomina a vice governatore della Giamaica.E qui visse ancora numerosi anni da ricco piantatore, fino a quando le colos-sali bevute a base di rum che faceva con i vecchi compari del sacco di Panamanon lo portarono alla tomba, senza che le cure di uno stregone africano, che gliaveva fatto bere la sua urina, riuscissero a salvarlo.

Per quanto possa sembrare incongruo, tra i pirati vigeva una certa demo-crazia, nel senso che capitano si diventava per scelta della ciurma e comunquetutte le azioni più importanti e gli obiettivi erano decisi a maggioranza. Questonon voleva dire che gli uomini con maggiore personalità non s’imponessero,consapevoli di essere più dotati di tutti gli altri. Era-no loro a indossare gli abiti più ricchi e più sgargian-ti che potevano trovare, riempiendosi di anelli, diorecchini, di spille, di collane, com’era l’uso del tem-po, nel tentativo di rassomigliare a quello che pro-prio non erano: un gentiluomo.

Bartholemew Roberts, conosciuto anche comeBarbanera, uno dei più irriducibili briganti dei Ca-raibi e del Sud Atlantico americano, che si dicevaavesse catturato quattrocento vascelli, era diventa-to il terrore dei piantatori nel Sud degli Stati Uniti.Messo finalmente in trappola da un giovanotto diquelle parti, il luogotenente Maynard, si preparò alsuo ultimo scontro con una vestizione degna di ungrande torero, come si legge nella Storia generale:«Indossò un vestito lungo di damasco rosso, ap-puntò una lunga penna pure rossa sul suo cappelloa larghe falde, si infilò al collo una pesante catenad’oro che nascondeva solo in parte una collana acrocifisso in diamanti». La sua apparizione doveva fare un certo effettoperché sistemava i suoi capelli lunghi, neri e unti in treccioline che pen-zolavano sopra la sua faccia. E dal cappello al momento dell’assaltospuntavano degli zolfanelli che lui accendeva per avere l’aspetto diun demone uscito in quel momento dal Tartaro.

La sua morte è uno dei classici dell’epopea piratesca, parago-nabile a Morgan che prende Maracaibo, o all’Olonese che vie-ne mangiato dai caribe del Darien: «Maynard diede il segnaleai suoi uomini e questi attaccarono con un coraggio di cui nonsi era visto l’uguale. Barbanera e il luogotenente si scambia-rono un paio di pistolettate andate a vuoto, passando poi allesciabole fino a quando quella di Maynard non si spezzò. Men-tre il luogotenente arretrava cercando di riprendere le pistole,Barbanera gli fu subito addosso con un pugnale e lo avrebbe am-mazzato se una sciabolata di uno degli uomini di Maynard non l’a-vesse raggiunto squarciandogli il petto immediatamente sotto la go-la. La lotta continuò fino a quando Maynard non estrasse l’ultima pi-stola carica, sparandogli a distanza ravvicinata. Il pirata ebbe un sus-sulto, ma rimase ancora in piedi a combattere per qualche altro istante fi-no a quando girò su se stesso e cadde sul ponte morto. Gli contarono venti-cinque ferite solo di arma da taglio. Subito la sua testa fu spiccata dal busto eappesa al bompresso della corvetta di Maynard, che fece un ritorno trionfa-le così addobbato».

La storia della pirateria riguarda il mondo intero. Ma solo nel Cinquecento ein una particolare area, quella dei Caraibi, c’è stata una tale concentrazione diricchezza allo stato primario, oro, argento, pietre preziose, dovuta alla cadutadell’impero azteco, alla requisizione di tutti i metalli preziosi da parte degli spa-gnoli e all’immediata spedizione verso l’Europa della parte che spettava al re.I capitani sapevano che in Spagna l’oro non bastava mai e che le loro fortuneerano legate al momento in cui il re o chi per lui entravano realmente in pos-sesso di tutti quei tesori di cui si erano vantati per lettera. Quando si sparse lavoce, due anni dopo la caduta di Tenochtitlan, che un capitano francese, JeanFleury, aveva trovato nelle stive di due modeste caravelle spagnole inviate daCortez tre enormi ceste cariche di lingotti d’oro appena fusi, 500 libbre di pol-vere d’oro, 650 libbre di perle, smeraldi, topazi, maschere d’oro tempestate digemme, elmetti pure d’oro e preziosissimi mantelli intessuti di piume del quet-zal, fu come se per i lupi di ogni nazione e razza fosse arrivato il più potente ri-chiamo della foresta mai sentito. Francesi, olandesi, inglesi si divisero l’Atlan-tico e il mar dei Carabi a seconda di chi aveva una posizione strategica a terramigliore di quella degli altri. E il bottino per lunghi anni fu talmente grande chequando gli spagnoli, per proteggere le loro navi dalle incursioni, cominciaro-no a organizzare convogli scortati, i pirati decisero di andare a prendere l’orodirettamente dove si concentrava prima di imbarcarsi: nelle città come Pana-ma o Maracaibo.

Vorrei aggiungere qualche curiosità, per gli amanti del genere. L’età mediadei pirati si aggirava sui ventisei-ventisette anni e, secondo un calcolo accura-to, nella prima metà del Settecento le percentuali per nazionalità erano que-ste: il 35 per cento erano inglesi, il 25 americani, il 20 caraibici, il 10 scozzesi. Epoi francesi, spagnoli, portoghesi, olandesi e qualche africano. Ma in altre iso-le, che non rientravano nella sfera d’influenza inglese, i francesi e gli olandesierano molti di più. C’erano sicuramente anche pirati italiani, ma solo di uno siè potuto accertare con sicurezza la presenza: Matteo Luca, che aveva cattura-to tre vascelli inglesi ed era stato poi impiccato a Giamaica. Quanto alla cele-berrima bandiera dei pirati, non tutti battevano quella classica con il teschio ele tibie incrociate. Ce n’erano di rosse e con immagini di cuori che sanguina-vano, di coltellacci, di scheletri interi. Solo a partire dal 1730 i pirati francesi,spagnoli e inglesi concordarono una bandiera unica: «Per evitare spiacevoliequivoci», dissero.

Per il suo ultimo duelloBarbanera indossò un vestitodi damasco rosso, appuntòuna lunga penna rossasul cappello, si infilò al collouna catena d’oroe un crocifisso di diamanti

IL LIBRO

S’intitola Storia generaledei pirati (Cavallo di ferro,432 pagine, 16,50 euro)

e il suo autore,il fantomatico capitanoCharles Johnson,è stato probabilmenteegli stesso un piratadel XVIII secolo

Racconta, a metàtra realtà e finzione,

e con dovizia di immagini,le vite e le peripezie dei piùterribili e pericolosi corsarida Capitan Kidd a Barbanera,da Anne Bonnie a CapitanMorgan, ladri, mercenarie anarchici eroi del mareIl volume sarà nelle libreriedal 24 novembre

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la memoriaAlte tirature

La Invernizio, autrice di incredibile successodi oltre 130 romanzi popolari ottocenteschi a foschetinte, moriva nel novembre di novant’anni faGramsci la definì “un’onesta gallina”, fu oggetto di ferocibattute da parte di critici e letterati. Eppure i suoi titolisi trovano ancora oggi facilmente nelle librerie...

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

La prima stranezza è che, anovant’anni dalla morte,avvenuta il 27 novembre1916, si trovino ancora fa-cilmente i suoi libri in libre-ria: Il treno della morte; La-

ra, l’avventuriera; La via del peccato; Lavendetta di una pazza (tutti in edizioneMursia, a cura di Roberto Fedi). Non hotrovato al momento Il bacio d’una mor-ta, che è tra i suoi titoli più noti. Sto par-lando di Carolina Invernizio, celebreed esecrata scrittrice popolare che sfor-nava (parliamo all’ingrosso di un seco-lo fa) romanzi e racconti in continua-zione. «Un’onesta gallina», la definìAntonio Gramsci, una sorta di conigliadella narrativa azzardò un critico. Eradestinata ai sociologi, molto meno ailetterati. Correvano battute feroci su dilei, sembra avesse scritto sciocchezzedel tipo: «Aveva le mani viscide comequelle di una biscia»; «Con una manol’afferrò per la gola e con l’altra le sputòin viso»; «Ah!, disse il conte in porto-ghese», ma naturalmente chi ha vogliadi controllare nella prosa dei suoi cen-totrenta romanzi e più? Non ne varreb-be comunque la pena. Le sue storiaccemettono in fila un numero spaventosodi morti, tanto che in famiglia qualcu-no controllava per evitare, come ac-cadde, che un personaggio dato per de-funto inopinatamente risorgesse.

Ad attirare i lettori (e le lettrici) eranosicuramente gli intrecci ad effetto, concolpi di scena continui, agnizioni emorti violente, ma anche il sesso avevala sua parte. La Invernizio amava met-tere in scena fanciulle assai graziose eingenue che venivano concupite davecchi gentiluomini in veste di satiri, o,variante, da giovani bellimbusti chedopo aver ottenuto quello che voleva-no buttavano la maschera e gettavanole malcapitate nella più nera dispera-zione, quando non le inducevano a me-ditare l’estremo gesto.

Sebbene il pudore sia quello dell’e-poca e Carolina non sia de Sade, le sce-ne ad effetto non mancano e può capi-tare (in un romanzo storico ambientatonella Torino del Seicento) che un con-dannato all’impiccagione — che natu-ralmente è innocente — venga tortura-to e poi portato in giro su una carrettamentre il boia con le tenaglie roventi glistrappa carne viva per il piacere dellafolla. In un racconto esemplare per esa-minare in vitro l’arte della Invernizio(tra l’altro un volume di racconti, Neroper signora, a cura di Riccardo Reim econ prefazione di Sanguineti, è statoappena ristampato da Editori Riuniti) silegge la storia di Minuzzola. In poche ri-ghe diventa un’orfanella: il padre muo-re accoltellato, la madre ubriacona, chela picchiava in continuazione, muorenel sonno. Minuzzola è allevata da unaparente, detta la Masca, termine che inpiemontese vuol dire strega. Costei è

una vera mezzana piena di soldi e ditraffici: sua mira è quella di allevare laragazzina per offrirla poi ad un laidoconte pieno di voglie…

Storiacce e successo (la Inverniziovendeva molto) avevano indubbia-mente attratto l’attenzione dei letteratidel tempo. Marino Moretti le dedicò ad-dirittura una poesia in cui dichiarava ilsuo amore, dopo aver detto, poco sim-paticamente, che aveva un nome da ser-va. «Seguendo il libro tuo ch’io preferi-va/ io li guardava i miei compagni, at-tento,/ dubbioso ancor della Sepolta vi-va/ io li guardavo con la faccia smorta,/con la mia smania di pervertimento,/dubbioso ancor del Bacio d’una morta».

Marino Moretti pubblicava quellapoesia in una raccolta del 1915. Qual-che anno prima Guido Gozzano era an-dato a casa della scrittrice delle sartineper intervistarla, insieme ad un giorna-lista amico, Emilio Zanzi, che molti an-ni dopo avreb-be rievocato lavicenda sullaGazzetta delPopolo del 12agosto 1932 (lasi può più age-volmente leg-gere nel Sofistasubalpino, unprezioso volu-metto di studi ed o c u m e n t igozzaniani diFranco Contor-bia, pubblicatonel 1980 dal-l’Arciere di Cu-neo). La Inver-nizio, racconta Zanzi, abitava in viaGoito ma figurava col suo nome da spo-sata: Carolina Quinterno, moglie, ap-punto del colonnello Quinterno. Unaportinaia che sarebbe piaciuta a Frut-tero sbarra la strada ai due e commen-ta in piemontese che se la signoraQuinterno è la scrittrice Invernizio,quella dei romanzi, lei non ci crede pro-prio, e aggiunge: «A l’è tanto brava!».

Entrati finalmente in casa i due tro-vano un appartamento molto ottocen-tesco con la pendola dorata sotto lacampana di vetro, alle pareti paesaggiromantici di Giuseppe Falchetti e unalibreria dove, rilegati in azzurro, sonoraccolti i romanzi della Invernizio. Lasignora è gentile, ma reticente, mater-namente severa. Non vuole che si fac-cia nessuna festa per essere quasi arri-vata al centesimo titolo (questa la scu-sa per l’intervista) e subito nega a Goz-

zano, che gliela chiede come uno sfac-ciato cronista, una sua fotografia. «Lei,Gozzano, è un poeta che ha molto suc-cesso tra le signore perché scrive moltobene, è molto elegante ed è molto gio-vane: forse sarebbe meglio che ellapubblicasse la sua fotografia, non lamia. Io sono una signora per bene: so-no la moglie di un colonnello del Com-missariato: non sono un’attrice, nonsono una ballerina...».

Ci racconti allora come ha comincia-to, chiede Gozzano. «Avevo diciassetteanni. Sono nata nel 1860. Non nascon-do l’età. Per disgrazie famigliari dovet-ti interrompere gli studi che avevo ini-ziato a Cuneo. Poiché leggevo conti-nuamente romanzi di Dumas, di Pon-son du Terrail e di Walter Scott mi ven-ne vaghezza di scriverne uno anch’io.Mi misi al lavoro e tirai giù, senza unacorrezione, la storia dell’avventura diuna ragazza fuggita di casa per amore:

tradita dall’in-namorato ritor-nava, qualcheanno dopo, di-sonorata e de-solata, a cercarpietà in casadella madrep i a n g e n t e .Mandai il ma-noscritto ad ungiornale di To-rino, esponen-do in una lette-ra il desiderioche venissepubblicato e,insieme, la spe-ranza di un pic-

colo compenso. Dopo circa sei mesi…ricevetti l’annunzio che la Direzioneaveva accettato il romanzo: l’avrebbepubblicato a puntate in appendice…».

Per festeggiare, la signora si mise unabito azzurro ed essendo ospite in villada un’amica si pavoneggiò come scrit-trice. Morto suo padre nel 1882, dovet-te fare di necessità virtù e scrivere di-venne un mestiere: «Impiegavo a scri-vere un romanzo da 200 o 250 paginenon più di una settimana: non facevomai correzioni. La trama la scoprivoleggendo le cronache giudiziarie». PoiCarolina si sposò e seguì il marito in gi-ro per l’Italia. Firenze fu la sua secondapatria e molti suoi libri sono ambienta-ti in una Firenze trasfigurata in Parigi:una città però «dove non sono mai sta-ta». Ammette, la signora, di avere unostile sciatto, ma rivendica di scriveresempre cose fondamentalmente mo-

rali. Richiesta dei suoi gusti letterari fa inomi di Leopardi, Manzoni, WalterScott e, tra i viventi, Verga. D’Annunziolo giudica «troppo di lusso» mentrescaglia un anatema contro Fogazzaroche scrive «libri brutti, le donne sonotutte viziose anche se imbevute diidee religiose e molto educate nel lin-guaggio e nei gesti…».

Prima del congedo, racconta an-cora Zanzi, la Invernizio ci offre unrosolio squisito e mostra una suafoto fatta a Roma quando avevatrent’anni. «Volto gentile e penso-so da maga buona». Dopo una do-manda sul teatro e sui suoi gusti,la curiosità inevitabile: ha guada-gnato molto? «Bisogna calcola-re», risponde la Invernizio, «checolla pubblicazione in appendi-ce e colla pubblicazione in volu-me nessuna mia opera mi hafruttato più di mille lire. Sonooltre trentacinque anni chescrivo e tutto quello che hoguadagnato l’ho messo in casaper tirare avanti onestamentela baracca. Bisogna sapereche la moglie di un colonnel-lo del Commissariato devemantenere il decoro dellacasa e la sua dignità». Ecco ildecoro che tanto piace allaportinaia! I due si congeda-no e vedono, uscendo, unpappagallo imbalsamato euna vecchia Singer: la si-gnora si cuciva gli abiti dasé e commenta: «Se avessipotuto studiare sarei di-ventata una discretascrittrice: ma ho fatto so-lo la quinta a Cuneo e al-lora!... Potevo anche di-ventare una brava sar-ta…».

Bel f inale molto(troppo?) gozzaniano,con Loreto impaglia-to… Zanzi ha senz’al-tro sovrapposto il poe-ta alla scrittrice. An-che ciò che le fa dire èapprossimativo: ladata di nascita vera èil 1851, il luogo di na-scita Voghera (Arba-sino le dedicherà undivertito saggetto unendola a Garibal-di, autore, anche lui, di un feuilleton). AFirenze ci andò con la sua famiglia e lìconobbe il futuro marito. Tutto sba-gliato? Ci sono casi in cui la realtà pareproprio solo un dettaglio senza im-portanza. Strana invece una coinci-denza: la Invernizio morì il 27 no-vembre del 1916, come si è detto, dipolmonite. Il giovane ed eleganteGozzano l’aveva preceduta, mo-rendo di tisi il 9 agosto di quellostesso anno.

Carolina, la Madaminche faceva leggere l’Italia

PAOLO MAURI

“Se avessi potutostudiare sarei diventatauna discreta scrittrice:ma ho fatto solo la quinta

a Cuneo e allora!...Potevo anche diventare

una brava sarta”

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

LA VITA

L’INFANZIA

Il luogo di nascitaè certo: Voghera. La dataè invece controversaGli atti dell’anagrafevogherese attestano“1851”; lei ha sempredetto di essere natanel 1858. Le originisono borghesi: è figliadi un funzionario delle imposte

LO SCANDALO

Per una promozionedel padre si trasferiscenel 1865 a FirenzeQui frequenta un istitutomagistrale ma nel 1875viene espulsa per averscritto sul giornalescolastico un raccontodi “perdizione e castigo”,Amore e morte

LE OPERE

Nel 1877 pubblica,con grande successodi vendite, il romanzoRina, o l’angelo delle AlpiNe seguiranno oltre 130,apparsi su quotidianio pubblicatidall’editore SalaniUno di questi verrà messoall’Indice dal Vaticano

LA MONDANITÀ

Nel 1881 sposaun ufficialeda cui ha una figliaGrande amantedella mondanitàama invitare nel suo salottoNel 1886 si trasferiscea Torino e nel 1914a Cuneo. Muorenel 1916 di polmonite

PRIME EDIZIONIA centro pagina, Carolina InvernizioQui sopra, il frontespiziodi Paradiso e Inferno, Salani 1888Più sopra, Il calvario di una donna,Mazzoni Empoli 1892A sinistra, La vendetta di una pazzain edizione Salani 1923

ANNI TRENTAA destra in questapagina, riedizioniSalani anni Trentadi alcuni dei titolidi maggioresuccessodella Invernizio

la lettera

Ma allora anche Tolstojveniva “inverniziato”

GUIDO CERONETTI

Come non bastassero, ogni anno, i centenari com-memorativi, stanno avanzando adesso anche inovantennari. Paura di non arrivare a tempo? Di

essere preceduti? Colonne e frequenze disoccupate?Come scrittore mi rallegro: non dormirò cent’anni, ap-pena saranno novanta scatterà la riscoperta, qualcunodirà che non meritavo tanto oblio e si organizzerà findall’anno prima il Convegno, parteciperanno i più beinomi della Cultura futura, tirati giù dalle loro astrona-vi, ospitati e compensati bene.

Oggi il novantennario tocca a Carolina Invernizio,nata a Voghera e morta a Cuneo, a sessantacinque an-ni, a lungo vissuta a Torino, autrice di una sequela di ro-manzi, tutti di un’illeggibilità senza ombre, eppure alo-nata di popolarità e tirature per decenni di Belle Epo-que, quando Zola e Hugo erano spacciati in Italia in tra-duzioni che riducevano anche dei così grandi autori alrango Carolina. E mettiamoci anche Tolstoj, Dostoev-skij, Conrad, Dickens... Quei traduttori da fame inver-niziavano tutto quel che toccavano, Mida alla rovescia,nessuno si salvava...

Ma l’accanita Madamin piemontese non rispuntaoggi da novant’anni di meritato oblio: ha avuto edizio-ni recenti con fior di prefazioni dotte, qualcuna dellesue storie è stata trasposta a metà del secolo in adegua-ti fotogrammi (forse ce ne sono locandine al Museo delCinema di Torino), nella terza divisione del Cimiteromaggiore di Torino, il luogo dei torinesi e piemontesi fa-mosi, ne riposano gli ossicini. E accanto a lei c’è il gran-de Fred Buscaglione, c’è Antonio Fontanesi e c’era, pri-ma che lo trasportassero a Santo Stefano del Belbo, Ce-sare Pavese! Di livello conforme, invece, l’antropologoLombroso, il pittore Giacomo Grosso... Nel famedio,con la Carolina, c’è anche lo scultore Davide Calandradi cui, a Torino, la via omonima mantenne viva la me-moria in città finché la sua attrazione suprema furono inumeri civici 13 e 15 illuminati bene, in cui abitavano aturno una trentina di meretrici, prone ai desideri dei let-tori maschi sia dell’Invernizio che dell’autorevole Gaz-zetta del Popolo, o in edizione Nerbini della storia del-l’assassino Raskolnikov, che davanti a una di loro, di no-me Sonia, si era inginocchiato, eleggendola totem ditutta la sofferenza umana.

Non so quanto spazio il necrologio di Carolina ebbesui giornali del tempo: il coccodrillo, mirabile inven-zione, traguardo di tutti noi scribi, non era nato ancora.E l’Italia era distratta da forti grane che si era andata acercare sulle Dolomiti e nel Carso, dove dirigeva le ope-razioni di salasso della stirpe il funesto generale Cador-na, e in quello stesso anno, in luglio, il boia di Vienna,chiamato in gran fretta, impiccava Cesare Battisti e Fa-bio Filzi, mentre a Torino, credo in via Cibrario, morivaanche un poeta che non ho mai amato ma di qualchemerito, quello del Meleto di Agliè, Guido Gozzano.

E mio padre era al suo secondo anno di guerra, inqualcuna di quelle via via sempre meno ricordate trin-cee trentine o isontine, dove non si leggeva Il bacio diuna mortae i baci delle madrine vive in lontananza nonbastavano a dare sollazzo, distribuiti dalla censurataPosta militare. Un evento strano, percepito da pochispiriti, si andava producendo: morivano artisti e lette-rati, e questo era normale, l’anomalia era che stava mo-rendo, tra ultimi getti e slanci, ogni nobiltàdella guerra,e ne abbiamo un memorabile necrologio nei due li-bretti di meditazioni che scrisse tra 1916 e 1917, aBourg-la-Reine, il profetico Léon Bloy.

Tempo... Tempo divorato dal proprio Nume, cessatotutto, libri sparsi a migliaia sommersi dalle piene, vigi-lia amara di anni con molta più igiene personale, casa-linga, assistenziale (inimmaginabile allora) ma ancorapiù ingordo di far cacciare dall’uomo, per ridurlo inschiavitù e sterminarlo, l’uomo... E la storiografia me-dica considera il 1916 anno d’inizio della pandemia digrippe detta Spagnola, partita da Marsiglia e battezzataallora influenza degli Annamiti, una enorme falce so-spesa, più grande della luna, nel cielo dell’Europa.

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Esce in Italia per Fazi l’epistolario dello scrittore francese. Uno stileistintivo, non appesantito dal tormento del genio capace di torturarsiun giorno intero su una parola e buttare giù di getto nottetempo

decine di pagine, indirizzate a un amico o alla donna che amava. Uno zibaldonedi esperienze, viaggi e avventure erotiche più ampio di qualsiasi educazione sentimentale

Tutti i romanzi che Flaubertnon ha scritto sono nellafluviale corrispondenza,tremila e settecento e piùlettere. Il Conte oriental,per esempio. Flaubert lo ha

composto nelle missive dall’Egitto; cisono subito i danzatori «abbastanzabrutti ma affascinanti di corruzione, didegradazione intenzionale nellosguardo», femminili nei movimenti: il«trillo di muscoli», con pube, reni e ini-zio delle natiche a nudo, velati da unagarza nera. «Avanzano verso di voi, lebraccia distese», e la faccia, «sotto iltrucco e il sudore, rimane più inespres-siva di una statua». Si parla della pro-pria sodomia in pubblico, e a tavola:«Viaggiando per istruirci, e con un in-carico governativo, abbiamo conside-rato nostro dovere dedicarci a questotipo di eiaculazione». L’occasione nonsi è ancora presentata, ma Gustave lacerca, nei bagni, dove si pratica. Il de-serto è una curiosa distesa viola all’al-ba, grigia a mezzogiorno e rosa la sera;nella sabbia Flaubert avanza correndoverso la vecchia Sfinge, che esce dallaterra come un cane che si levi. Unascimmia per strada cerca a forza di ma-sturbare un asino, che scalcia; la scim-mia stride; ovunque, sentore di spezie.

Girando nel bazar, lo scrittore finiscenel quartiere delle puttane, cinque o seistrade di case di fango; le vesti larghefluttuano al vento caldo; le collane dipiastre d’oro «schioccano come carret-te». La celebre cortigiana Kuciuk-Ha-nem si addormenta nella notte con ledita intrecciate alla mano di Flaubert,che sembra soddisfatto delle sue «cin-que scopate e tre pompini», ma si af-fretta a immalinconirsi qualche letterapiù in là di aver ritrovato la danzatricedel ventre «cambiata. Era stata malata.Ho fatto una sola scopata». Il clima è pe-sante; Flaubert assapora tutta quell’a-marezza, «è la cosa più importante»,cioè è già metafora, e letteratura.

Il curatore Franco Rella ha ritagliatoin cinquecento pagine il continente diquesta corrispondenza (Gustave Flau-bert, l’opera e il suo doppio. Dalle lette-re, Fazi) con la splendida ansia, da in-namorato e da studioso, di restituire unpo’ tutto, anche e soprattutto quelloche il genio ci ha sottratto, impigliatonella «croce dello stile». La scrittura èinfatti qui di straordinaria immedia-tezza («dopo una giornata passata atornire una sola e singola frase, si ab-bandona di notte a lunghe lettere didieci o quindici pagine», riflette il cura-tore); c’è un Flaubert istintivamentecolorito, gagliardo, e amabile subito.

Così, il romanzo sentimentale è trale zone più visitate di questa scelta.Rella ci guida e ci sorveglia da lontano— nelle note — lungo gli amori di Flau-bert; ci ricorda che la frase «via, ti avròmolto amata prima di non amarti più»è stata scritta alla poetessa Colet ilgiorno dopo il primo amplesso — fa-vorito da una passeggiata in calesse alBois de Boulogne («mi ricordo l’on-deggiare delle molle»: gli «sballotta-menti» che torneranno nella Bovary, esaranno evocati nel processo intenta-to al romanzo per immoralità). La-sciando lei e Parigi, Gustave trova lamadre che lo aspetta alla stazione del-la loro Rouen; «ha pianto vedendomiritornare. Tu hai pianto vedendomipartire»: non può spostarsi senza chesi spargano lacrime «da entrambi i la-ti». Evidentemente non sono frasi attea tenere a distanza una donna, speciecol temperamento effervescente diLouise Colet. Lo scrittore AlphonseKarr aveva riso di lei per la relazionecon lo studioso, e anche ministro del-la Pubblica istruzione, Victor Cousin:la poetessa, aveva scritto, è incinta pereffetto di una puntura di pappataci

DARIA GALATERIA

senza dirglielo, senza toccarla (sarà lamadame Arnoux dell’Education senti-mentale); «e in seguito sono stato qua-si tre anni senza sentire il mio sesso».Si capisce che Flaubert già rimpiangeche lei sia venuta «con la punta del di-to a rimescolare tutto questo». Moltopiù tardi, anche George Sand (i perfidiGoncourt ritraggono la mulatta ses-

santenne in una “toilette d’amore” ro-sa pesco) cerca di spezzare quel «ritiroda rinoceronte, perché il dolore derivadall’attaccamento» — in realtà Gusta-ve difende il lavoro di scrittore, che èuna difesa. Cerca di ubriacarsi conl’inchiostro, come gli altri con l’acqua-vite: perché, scrive a un’ennesimaesuberante scrittrice, «sono alto cin-

Il lettore scopreche l’amplessodi Emma in carrozzaè ispirato a una storiavera capitata dentro un calesse in un parcoparigino. E Gustaveebbe a scriverecon civetteria:“Mi immerdonella perfezione”

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Scrittura notturna, scrittura imperfetta, flusso di coscienza inarresta-bile, grafia incandescente: l’altro Flaubert. L’altro Flaubert in 500 let-tere. Agli amici, agli scrittori, ai parenti, alle amiche, alle amanti. Let-

tere corte, lunghe, appassionanti, travolgenti, celebri in Francia (Galli-mard, Conard) perlopiù inedite in Italia. Confidenze, osservazioni, ap-punti, annotazioni. L’epistolario, «la sua opera più grande» secondo An-dré Gide, esce domani rivisto, tagliato, selezionato: Gustave Flaubert, l’o-pera e il suo doppio. Dalle lettere (Fazi, 500 pagine, 24,50 euro) a cura diFranco Rella, docente di estetica allo Iuav di Venezia.

Professor Rella, L’opera e il suo doppiodimostra l’esistenza di un Flau-bert scrittore e di un Flaubert confidente?

«Flaubert romanziere vuole essere perfetto nella stesura, nella sterminatadocumentazione (in Madame Bovary le poche pagine dei comizi agricoli looccupano per tre mesi). Nel romanzo non c’è traccia di Flaubert, delle sueidee, espressi invece nelle lettere. L’epistolario coglie le due facce dello scrit-tore in un ritratto che nessun biografo ha mai potuto raggiungere».

Lo può dimostrare?«Con lo stralcio di una lettera. Chiede a George Sand il primo gennaio

1869: “Troverò il mio soggetto, mi cadrà dal cielo un’idea in sintonia com-pleta con il mio temperamento? Potrei fare un libro in cui darmi tutto in-tero?” Ecco, il luogo in cui si dà tutto intero è la lettera».

Cinquecento selezionate su alcune migliaia. In che modo, quali escritte a chi?

«Sono stato costretto a fare un atto sacrificale. Ho scelto le più signifi-cative, quelle che esprimono l’estetica flaubertiana, ho scelto il suo “ro-manzo nascosto”. Lavorava a Madame Bovary e scriveva a Louise Colet, ilsuo grande amore. Scriveva agli amici Chevalier, Alfred Le Poittevin, alleamiche e amanti, Léonie Brainne, Madame Roger des Genettes, agli scrit-tori, Sand, Maupassant, Zola, Goncourt. Alla madre, alla sorella, alla ni-pote Caroline...».

Una scrittura notturna e fluviale? Uno stream of consciousness alla Joyce?«Sì. Flaubert diceva che il romanzo doveva essere perfetto, come il Par-

tenone. Era lì la scrittura assoluta. Le lettere invece, comunicano il suoflusso interiore, il grottesco, il lato basso della vita, il sublime visto dal bas-so. Un gioco tra perfezione e aspetti oscuri. Flaubert e il suo doppio, l’al-tro Flaubert».

In bilico tra luce e tenebraMonsieur Bovary e il suo doppio

Parla il curatore del nuovo libro

AMBRA SOMASCHINI

Flaubert

IN USCITALa copertinadell’epistolario di Flaubertedito da Fazi

Nelle lettere il romanzo mai scritto(piqûre de cousin). Louise Colet eraandata a cercare Karr coltello in mano,e lo aveva assalito per pugnalarlo — luiera riuscito a fatica a disarmarla.

In quello stesso primo giorno di lon-tananza Flaubert la rassicura così:«Questo mese verrò a vederti. Resteròun giorno tutt’intero». Le racconta cheha amato dai 14 ai 20 anni una donna

Étienne Klein

Sette voltela rivoluzioneI grandi della

fisica contemporanea

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que piedi e otto pollici»(un colosso che aveva fattotremare i Goncourt e il loro pre-zioso lampadario della camera dapranzo), «ho spalle da facchino eun’irritabilità nervosa da damigella».

C’è poi il romanzo dell’amicizia; le pa-role «ti ho amato a prima vista» o «ho ri-cevuto la tua lettera tanto desiderata. Misono bagnato» sono rivolte a Feydeau, ea Louis Bouilhet. Nulla è dolce come l’a-micizia, ah dolce amicizia, sospira a die-ci anni, e quando gli amici gli stroncanoun po’ allibiti La tentazione di Sant’An-tonio, o gli promettono a prezzi irrisori dirivedergli la Bovary, «troppo rimpinza-ta», lui commenta: «Madornale!», manon se la prende. In realtà, tutte le mani-festazioni di stupidità lo confortano, e lodivertono un mondo.

La prima lettera, a nove anni, si aprecon la parola bête. Poi sempre rideràdell’imbecillità umana, prima difarne l’inventario nello stu-pidario di Bouvard e Pécu-chet. Anche qui, c’è unaferita autobiografica;«stava per ore con undito in bocca, assorto,l’aria da scemo», rac-conterà di lui la nutri-ce, che sarà, dopomezzo secolo di dedi-zione, «coll’abito ascacchi neri che avevaportato la mamma»,la straziante camerie-ra del Coeur simple.Ma la stupidità di-venta, lungo tutta lacorrispondenza, lapiù costante lenteper osservare i lmondo: la facile let-teratura, la società,la politica. La noia eil pessimismo lorendono divinato-rio: «l’asinata» delluogo comune noncede davanti allascienza e alla tec-nica, «anzi, con ilprogresso, pro-gredisce». Ma se larealtà è sordida,lui si ostina a ap-plicarsi alla bel-lezza: “Mi im-merdo nella per-fezione».

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

ORIGINALIIn alto, pagine originalidel manoscritto dell’inizioe dei primi paragrafidi Madame BovaryA destra, GustaveFlaubert visto da Pericoli

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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

la letturaAnniversari

La pazienza dei muli

Alla fine del ’44 lo scrittore non ancoraquarantenne sale da Roma verso nordal seguito degli Alleati come giornalistaVede per la prima volta i confusi repartidell’esercito italiano combattere controi tedeschi e sente rinascere la speranza

Apiedi, contro un ventogelido, sotto una piog-gia fitta e minuta, scen-demmo la collina dov’e-ra la villa del Comando,per una piccola strada

tortuosa, solcata da carreggiate difango, molli e profonde. Ci accompa-gnava un tenente americano dai ca-pelli rossi, dallo strano viso equino:capo scoperto, maniche di camicia,stivaletti e speroni. Della pioggia nonse ne accorgeva neanche. Un tipo co-sì forte, così deciso, che ad osservarlomentre ci camminava al fianco, ilpaesaggio appenninico tutto nostra-no diventava il Far West.

Il deposito dei muli era in fondo allavallata, in pianura: prati circondati diun semplice steccato, e segnati qua e làdal tronco spoglio di un gelso. I mulistavano all’addiaccio, immobili, agruppi o in file, e alcuni isolati: immo-bili quasi tutti, sotto la pioggia, con ilpelo dei mantelli bagnato, lustro, ap-piccicato in ciocche, e scosso di tantoin tanto da un brivido breve, quasiun riflesso nervoso che faceva an-cora più solenne quella loro im-mobilità.

Qualcuno pa-scolava lenta-mente, muoven-dosi appena.L’erba, del resto,era calpestata omangiata, ridotta auno strato di fango,come quella dei re-cinti dei giardini zoo-logici. Ed anche i mu-li, nella loro quiete etristezza, ricordavano ibufali del Central Park.

Muli d’ogni razza,spiegava il tenenteamericano: muli di ogniprovenienza, confusi eriuniti qui dopo lunghiviaggi e peregrinazio-ni. Muli di Sardegna,piccoli, bruni; mulidella Siria e del Liba-no, bianchicci e ro-sei, dal naso camusoquasi semita.

Notte e giorno vi-vono in questo re-cinto, mangiando labiada che il tenentepuntuale fornisceloro, bevono dalunghi truogoli dilegno, allineati tragelso e gelso, inmezzo al prato, edormono in pie-di, allo scoperto,senza alcun pregiudizio dellaloro salute. Finché sono inviati al fron-te, a sostituire i muli morti o feriti del-le nostre salmerie.

Resistenti, pazienti, tranquillissimi,l’espressione dei loro musi e sguardied atteggiamenti non è affatto stupida.È, piuttosto, troppo intelligente: tristecioè, rassegnata, conscia di un destinoche nessuno sforzo varrebbe mutare.A guardarli lungamente, noi uominisiamo presi da una certa vergogna:non perché li sfruttiamo o li facciamosoffrire o li uccidiamo: non per questoma forse perché il loro aspetto ci sug-gerisce e consiglia, nelle nostre sciagu-re, un contegno più dignitoso.

Ritornammo al Comando. La piog-gia era cessata. Di tanto in tanto unraggio di sole rompeva tra le nubi cheil vento spingeva veloci.

Nel cortile della fattoria, alcuni sol-dati neri americani facevano la cucina.C’era anche un contadino, che tratta-va con un sergente bianco della vendi-ta di certi pali per farne steccati. E c’e-rano tre alpini delle nostre salmerie. Ifornelli a petrolio della cucina sibila-vano dolcemente, il cuoco nero si af-faccendava attorno canticchiando a

mezza voce, sorridendo il contadinoripeteva al sergente che il numero deipali era centocinquantatré.

A vedere quelle persone, provenien-ti da luoghi così lontani e diversi, riu-nite in un piccolo spazio, ci vergo-gnammo della nostra vergogna di po-co prima. Dal punto di vista della stel-la Sirio, la sorte di quegli uomini nonera troppo diversa da quella dei muli;ma il loro contegno, l’agitarsi del con-tadino, la malinconica siesta degli al-pini, il gaio sfaccendare dei neri era co-munque la prova di una benedizioneche non toccava agli animali: la spe-ranza di un tempo migliore.

‘‘MARIO SOLDATI

no di Giustizia e libertà. Nel luglio ‘43, caduto provvisoriamente il re-gime, Soldati diventa fiduciario del Sindacato lavoratori del cinema,“compromettendosi” in maniera ufficiale. Al punto che, sei giorni do-po l’8 settembre, decide di raggiungere l’Italia del sud liberata dagli Al-leati. È un viaggio avventuroso. Dura venti giorni, da Roma a Napoli,attraverso paesi semidistrutti dalla guerra, posti di blocco, bombar-damenti, scene di desolazione e di paura. Tutti episodi che racconteràpiù tardi, nel 1947, nel volume dal titolo Fuga in Italia. Scena culmi-nante per Soldati e i suoi compagni di fuga — Leo Longanesi, Dino DeLaurentiis, Riccardo Freda, Gabriele Baldini — l’incontro con i primimilitari americani, un reggimento di pellirosse in armi, provenientidall’Oklahoma, che ha luogo in un piccolo centro dell’Avellinese, To-rella dei Lombardi. Il romanziere-regista vive l’evento come un’agni-zione gioiosa: «L’America lontana, esaltata e invocata, quell’Americache mi ricorda la mia adolescenza e la prima prova della mia vita, quel-l’America è lì, torna a me».

Alla fine del ‘44, come dicevo all’inizio, Soldati — di cui in occasio-ne dei cent’anni della nascita i Meridiani Mondadori pubblicano orail primo volume dell’opera omnia — compie un nuovo viaggio in Ita-lia, stavolta da Roma verso il nord ancora occupato dalle truppe delTerzo Reich. Questo tragitto viene descritto negli inediti che qui pub-blichiamo. Esso implica un nuovo incontro con gli anglo-americani

Mario Soldati, corrispondente di guerra. Quando, nell’au-tunno-inverno del 1944, raggiunge la Linea gotica conl’incarico di descrivere sui giornali l’avanzata delle trup-

pe alleate verso il nord d’Italia, lo scrittore torinese ha trentotto an-ni ed è già noto sia come letterato che come regista di cinema. Ha

al suo attivo una raccolta di racconti, Salmace, un ro-manzo, La verità sul caso Motta, un libro colmo diumori etico-religiosi, L’amico gesuita. Su tutto spic-ca America primo amore, un reportage “ragionato”sugli Stati Uniti: Soldati vi si era trattenuto fra il ‘29 eil ‘31. Al ritorno in Italia, il cinema: un lungo appren-distato che portò Soldati «di colpo, da anni di studiletterari e artistici in un ambiente tecnico» e che cul-minò nel 1941 nella regia di quel Piccolo mondo an-tico (dal romanzo di Antonio Fogazzaro), che vieneconsiderato il suo film più felice.

Questo era Mario Soldati alla soglia dei qua-rant’anni. Ma i precedenti del lavoro giornalistico di cui qui diamoconto (i due articoli che appaiono in queste pagine sono rimasti ine-diti per sessant’anni) sono più direttamente politici. Già sulla metàdegli anni Trenta lo scrittore era sulla lista degli indagati in quantoantifascista: lo si sospettava di essere collegato al nucleo clandesti-

La guerradi MarioNELLO AJELLO

r tpo e rer

Soldati

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Soldati che gli ospitava Gaetano Afeltra sul Corriere d’informa-zione, dai Notes composti per Il Giorno alla collaborazione alCorriere della sera e alle svariate trasmissioni che lo videro intivù, questo dono che ne faceva un cronista inimitabile emer-gerà in tante occasioni. Fino a quegli ultimi exploit che furono,per lui, i campionati mondiali del 1982 o l’alluvione in Valtelli-na, che a ottantun anni lo vide inerpicarsi su un elicottero permeglio descrivere ai lettori del Corriere campagne devastate eumanità in fuga.

Una passione speciale anima queste cronache di guerra del‘44: a lui piemontese, legato agli ideali del Risorgimento, la pre-senza degli italiani fra coloro che combattono per riunire i duelembi d’Italia sembra un motivo di riscatto, un’occasione digioia. Colpiscono ancora una volta il suo talento per la metafo-ra e la sua capacità affabulatoria. Sono queste doti a trasforma-re — il lettore se ne accorgerà — una carovana di muli in marciaattraverso le valli italiane in un esempio di pazienza, tenacia enobiltà quasi eroiche: è come se quei quadrupedi assumanouna parvenza antropomorfica. Ancora una volta, scrivendo,Soldati dà l’impressione di divertirsi. O almeno, vista dal fronteaccanto ai “liberatori”, ciò che egli chiamava «la rovina della no-stra patria» gli sarà parsa meno amara.

Nel centenario della nascita,ecco due corrispondenze inedite

in cui l’Appennino diventa il Far West,gli animali ci insegnano la dignità

e la voce muore in gola a un gruppodi militari che tentavano di cantare

sto al suono della fisarmonica riempie lapiccola stanza, rintrona, travolge.

Sembra di stare all’altra guerra. Avetenotato che questa guerra, da una parte edall’altra, se si eccettua Lili Marlene cheè poi una canzone disfattista, non haavuto canzoni?

Ma gli alpini, unici, conservano il loroentusiasmo, e inventano nuove parolealle vecchie arie. Monte Sole, ultima pro-paggine dell’Appennino davanti a Bolo-gna, è ancora in mano ai tedeschi. Istin-tivamente, gli alpini ricreano l’epopea diMonte Nero. Una valle, dei muli, dei can-

noni, una casa come questa dove stia-mo adesso, defilata dal tiro dell’arti-glieria nemica, e un gran fuoco den-tro, e una bottiglia di grappa, e una fi-sarmonica, e cantare.

C’è il tenente M. che è stato ventigiorni in linea, a due chilometri diqui, venti giorni a dormire dentrouna galleria, nel freddo e nell’umi-dità. Stamane un collega con unnuovo plotone è andato a dargli ilcambio. E adesso lui è qui: è la pri-ma sera che passa al caldo e all’a-sciutto, dopo venti giorni. Beve,canta e ride, ride continuamente,felice di vivere. Basta guardarlo,per capire che la guerra è bella.

La guerra è brutta. Ma se sipensa che la guerra è soltantobrutta, come si fa a vincerla? Laguerra è anche bella. Perché laguerra è un modo, o un mo-mento eroico della vita. Unmodo, o un momento, in cui lavita è più strettamente colle-gata alla morte.

Gli alpini cantano. A untratto si apre la porta, ed ap-paiono tre borghesi. Si arre-stano sulla soglia, mentre dafuori entra vento freddo epioggia. Hanno attraversatole linee, sono stati interroga-ti dal comando alleato, e poimessi in libertà. Li facciamo

sedere tra noi, diamo loro da be-re. Parlano delle atrocità commessedai tedeschi nella regione. In un pae-se, tra la fine di settembre ed i primi diottobre, più di cinquecento vittime.Fu anche uccisa una donna con unbambino di soli dieci giorni. In un altrovillaggio, venticinque persone furonochiuse in un cimitero e mitragliate. Inun altro, sempre nel cimitero, centopersone. Ancora in quest’ultimo paese,le SS estraevano il corpo di un partigianodalla tomba, dopo un mese che era statoseppellito, e vedendo la stella rossa an-cora visibile sul suo petto, lo mitraglia-vano. Parlano di Bologna, che è ormai instato d’assedio entro la cerchia dellevecchie mura, per uscire od entrare nel-le quali occorre un salvacondotto. Fra icapi italiani che lavorano con i tede-schi parlano di Franz Paliani; e di Cer-to Tartarotti, capitano delle SS italia-ne. Quattrocento donne, emigrate daFirenze, armate di tutto punto, e ve-stite di nero, in pantaloni, girano perla città. [...]

Gli alpini non cantano più. Usciamo nella notte, tra la pioggia

e il vento. Le batterie alleate spara-no da tutte le direzioni, intorno anoi, sotto e sopra di noi, ostinata-mente. In alto, a mezza costa sulversante opposto, della vallata, unlume appare e dispare, progre-dendo lentamente lungo unastrada invisibile. Pensiamo a Ro-ma. Ad una frase che avevamocolto a volo, in un crocchio di co-noscenti: «Se viene un governoche fa la mobilitazione genera-le, succede una rivoluzione».

Come può un italiano pen-sare ad una cosa simile? Quelliche si battono, al di là delle li-nee, in una situazione terribi-

le, con eroico valore, che cosa di-rebbero di un italiano che vive tranquil-lo a Roma e preferisce attendere al suoprivato interesse anziché partecipare al-la guerra in condizioni molto meno sco-mode e pericolose delle loro?

Il silenzio degli alpiniocchiali. Suona con gli occhi chiusi, dili-gentemente, devotamente. Accompa-gna anche le canzoni più sboccate serioe composto, come se accompagnasseancora Mira il tuo popolo sull’armo-nium, ai bambini dell’oratorio.

Il capitano, tenore, e il dottore, basso,sostengono il coro. Il capitano è di Cu-neo: piccolo, forte, con un pizzetto da ca-pra, spelacchiato ed incolto, l’oppostodei pizzi fascisti. Il dottore è di Genova:alto, ossuto, porta una barba nerissima,lunga e quadrata, una barba assira: in te-sta ha una strana papalina azzurra, di se-ta, bassa e rigida, per coprire unaferita. Il coro mi-

La stanza, stretta, stretta, lun-ga, dal soffitto molto basso,è quasi interamente occu-pata dalla mensa. Un gran-de fuoco arde nel camino.Gli alpini cantano a squar-

ciagola: Prendi il tuo mulo / e vattene aMonte Sole/ là c’è il tedesco / là c’è il tede-sco/ là c’è il tedesco / che la tua patria in-fetta. Il cappellano accompagna con lafisarmonica. Era a letto, con la febbre atrentanove. Ma si è alzato ed è venuto asuonare in onore a noi giornalisti. È ungiovane alto, magro, coi capelli rasi e gli

MARIO SOLDATI ‘‘

che risalgono in armi la penisola. Lo scrittore è in veste di gior-nalista al seguito, appunto, dei “liberatori”, e con l’occhio ri-volto soprattutto a quei reparti del Corpo italiano di libera-zione che — costituito da personale e mezzi corazzati che era-no appartenuti a varie unità del nostro esercito, la Legnano ela Mantova — combattono per la prima volta contro gli ex-al-leati tedeschi. Così l’autore stesso rievocherà quell’esperien-za: «Scrivevo per L’Avanti! e per L’Unità: il mio articolo usci-va lo stesso giorno, e identico, sull’uno e sull’altro quotidia-no. Il governo militare alleato aveva concesso un giornalistadal fronte per ciascuno degli altri quattro giornali di partito(Democrazia cristiana, liberali, repubblicani, Partito d’azio-ne) ma ai partiti socialista e comunista aveva concesso ungiornalista solo per tutti e due, e quel giornalista ero io!».

Entusiasmo, stupore esclamativo. In realtà, al giornalismoSoldati era tutt’altro che nuovo. Lo marchiava, com’è natu-rale, della sua personalità di narratore immaginoso. «Solda-ti», ha scritto Emilio Cecchi, «non può agire e vivere se nondrogato da certi avvenimenti; e se non capitano da sé, li cer-ca, li inventa, li provoca». Da America primo amorea Un viag-gio a Lourdes (pubblicato nel 1934 sul Corriere padano), aiTaccuini che scriverà per L’Espresso alle Boutique di Mario

REGISTA E ATTORENella foto grande, Mario Soldati aiuto regista negli anni TrentaIn piccolo a sinistra, Soldati negli anni Settanta. Sotto, Soldati attorein uno dei suoi film; regista; con in braccio il figlio Wolfangonel 1948 nella sua casa di Roma. Nella pagina accanto in basso, truppealleate in cammino in direzione della Linea Gotica nell’aprile 1945

Repubblica Nazionale

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Cinquant’anni di carriera, centotrenta film. Il libro-catalogo2006 di France Cinéma è dedicato interamente a questo“monumento” della cinematografia transalpina, molto

amato anche dalle platee italiane. Ne esce il ritratto inatteso di uno straordinarioprofessionista che prese la via delle ribalte e dei set soltanto perchéa scuola era “ un disastro” e che ancora odia rivedersi nelle scene girate

ComeMastroianni,dice di luiTornatore,recita“con divinasemplicità”

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

gia per il tempo della giovinezza. Nonsopporto gli eccessi di spudoratezza edi nudità esibiti in questi anni, ma unpo’ di nostalgia mi viene se penso aigiovani che oggi scoprono la sessualitàe il corpo femminile senza le difficoltàe i complessi che avevano quelli dellamia generazione nell’adolescenza».

I ricordi gli servono «per confrontar-mi con me stesso, com’ero e come so-no. Per esempio la collera. Da giovaneera piuttosto violento, sempre prontoa scattare, con il tempo ho imparato adominarmi. Mi sono fatto una mia fi-losofia del vivere: soltanto l’amore e lasalute sono importanti, a tutto il restosi può rimediare. Il mestiere dell’atto-re è molto importante, ma non è tutto,vale almeno quanto la mia famiglia, iltempo con gli amici. Ho imparato anon farmi impressionare da niente, ègiusto pensare agli altri e ribellarsicontro le ingiustizie del mondo, ma bi-sogna anche conoscere i limiti delleproprie possibilità di intervento pernon cadere nella frustrazione. Ho per-fino imparato ad accettare il mio fisico,per anni ho sofferto per il mio aspettoe per il mio peso. Ancora detesto guar-darmi sullo schermo, ma è facile cam-biare canale».

Philippe Noiret ha 76 anni, cinquan-

MARIA PIA FUSCO

L’astuziadi farel’attore

Philippe

NoiretSUL SET

A centro pagina,un’immagine recente

di Philippe NoiretIn alto a destra,l’attore su due

vecchi set:con Romy Schneider,e con Michel Serraulte la cantante-attrice

Dorothée

«Philippe Noiret, peri-coloso da mezzo-giorno alle due» erascritto sullo schiena-le della poltrona del-l’attore sul set di Il

postino. È uno dei tanti ricordi italianiche Noiret evoca con una risata: «Era-no le ore in cui soffrivo di calo ipogli-cemico e potevo esplodere in collereimprovvise. Fingevano tutti di avernetimore, in realtà non mi prendevanosul serio. C’era un clima bello su quelset, perché c’era Massimo Troisi, conla sua natura delicata e tenera, con lasua dolcezza stoica. Un amico che nonho mai dimenticato», dice l’attore.

Gli piace parlare del passato, soprat-tutto di quello italiano — «perché ioamo ridere e gli italiani sanno ridere,non hanno la seriosità compunta deifrancesi» —, ma Noiret non guarda in-dietro «con il sentimento della nostal-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

ta di carriera, centotrenta film con au-tori di tutto il mondo, francesi e italia-ni, ma anche Hitchcock, Peter Usti-nov, Richard Lester. «Monumento delcinema francese», scrissero alla finedegli anni Ottanta quando uscì La vieet rien d’autre di Tavernier, il registache lo ha diretto più di chiunque altro.Un bel risultato per uno che è arrivatoalla professione di attore «non certoper vocazione, piuttosto come rifugiovisto che non sapevo bene cosa fare. Ascuola ero un disastro, non mi piacevastudiare, avevo sempre la testa altrove,finché uno dei professori del collegionon mi inserì nelle recite studente-sche. Fu come una rivelazione. Nontutti scelgono di recitare per esibirsi,per me, come per molti altri, è stato unmodo per nascondersi dietro un altroe superare la timidezza. Quando poi ilmestiere è diventato il modo per gua-dagnare da vivere anche i miei genito-ri si sono tranquillizzati».

Recite studentesche, prima a Lille,sua città natale, poi a Toulouse, corsi diarte drammatica a Parigi fino ad entra-re nel prestigioso Teatro NazionalePopolare di Jean Vilar, «il più preziosodei maestri» secondo l’attore. Il cine-ma arriva nei primi anni Cinquanta,piccoli ruoli fino all’incontro conAgnès Varda (La pointe courte), poi conLouis Malle e il personaggio dello stra-vagante zio Gabriel in Zazie dans lemétro. Uomini d’affari disonesti, mi-nistri viziosi, proprietari terrieri arro-ganti: nella prima parte della carrierasullo schermo i personaggi di Noiretsono spesso antieroi, antipatici, incontrasto con il suo fisico bonario e ilsorriso rassicurante. È solo verso la fi-ne degli anni Sessanta, con film comeAlessandro il fortunato, che si affermacome simbolo di serenità e di pigrizia,un’immagine che gli fa conquistare iprimi successi di pubblico.

«Appena ho avuto un po’ di succes-so mi sono concesso il lusso di fare coni produttori l’attore scomodo, uno diquelli che discutono i contratti chie-dendo più soldi. Non l’ho fatto per isoldi ma perché su un set gli attori piùpagati sono i più coccolati, riempiti diattenzioni. Non mi sembra giusto. Èvero che lo star system ha le sue rego-le, ma una maggiore equità non sareb-be male».

Alla condizione di star Noiret prefe-risce l’immagine di sé che ha impostonel tempo, il gentiluomo di campagnache va a cavallo e fuma il sigaro accan-to al camino, l’uomo elegante che col-leziona scarpe. «Adoro stare nella miacasa di campagna a Carcassonne e an-dare a cavallo è stato il mio sport pre-ferito. Le scarpe? Quelle fatte a manosono il mio debole, ho trovato un arti-giano fantastico, ha creato un paio distivaletti ai quali ha dato il mio nome.Non sono un esibizionista, ho eredita-to da mio padre il gusto per l’eleganzae per le cose belle. Mio padre lavoravanell’abbigliamento, aveva un ufficio aFaubourg Saint-Honoré vicino a un fa-moso negozio di scarpe: è lì che ho pre-so il virus».

Elegante, pigro, schivo, solitario: so-no gli aggettivi usati più spesso perNoiret. Quanto alla pigrizia, malgradol’elogio che ne fa spesso, è finta, comeera finta la pigrizia di Marcello Ma-stroianni, l’attore al quale Noiret vienespesso avvicinato per la leggerezza e

per il modo di vivere la professione conironico distacco. Una «divina sempli-cità», come dice di entrambi GiuseppeTornatore. Non a caso tra i due nacqueun’amicizia profonda e reciproca am-mirazione fin dal primo incontro sulset di La grande abbuffata di MarcoFerreri, il film che, malgrado l’indigna-zione stizzita dei critici francesi, con-quistò il pubblico d’oltralpe e non so-lo.

Pigrizia finta perché Noiret, com’e-ra Mastroianni, è amatissimo da tutti iregisti per la puntualità e la prepara-zione con cui arriva sul set e perché«sono sempre pronto a partire, se c’èun film, un autore o un personaggioche mi attirano. Mai, neanche nei mo-menti critici, ho perso la curiosità perquesto mestiere». E in questi ultimi an-ni in cui il cinema sembra trascurarlo,Noiret è tornato al teatro, otto mesi in

scena con Anouk Aimée in Love letters.«Non lo facevo da anni, mi ero allonta-nato anche per polemica contro tantiregisti che mettono in scena le piècesattenti più a dare un segno della pro-pria presenza che a valorizzare il testoe gli attori. È stato emozionante torna-re sul palcoscenico e sentire ogni serail calore degli applausi di una sala pie-na di ottocento persone».

Schivo sì, «ma non sono scontroso.Non amo la mondanità, le serate inmezzo a tante persone più o meno sco-nosciute, tutte con un bicchiere in ma-no e un sorriso falso sulle labbra. Fre-quento gli incontri pubblici solo se ne-cessari al mio lavoro. La verità è checon l’età il mio tempo è diventato sem-pre più prezioso, non posso sprecarlo,sono troppo occupato a vivere la miavita tranquilla».

La sua vita, aggiunge, è «scandalosa-mente tranquilla, vivo con la stessamoglie dal 1952. Per il mondo di oggi eper la stampa pettegola sono un pessi-mo soggetto. Ho avuto la fortuna disposare la donna più seducente di tut-te, è stata lei a darmi sicurezza e, neimomenti di scelte difficili, i suoi consi-gli sono stati preziosi», dice di Moni-que Chaumette, che per amore dellafamiglia — hanno una figlia — ha mes-so da parte il lavoro di attrice.

Malgrado il rapporto talvolta infeli-ce con i critici — «non pretendo di es-sere immune da errore, ma i criticispesso sono solo maligni; come dicevaCézanne: “Non bisogna chiedere a unartista più di quanto possa fare né alcritico più di quanto possa capire”» —raramente di Noiret si è scritto al difuori del cinema. Neanche per la poli-tica: «Ho il cuore a sinistra ma non so-no un militante. E se c’è una cosa chemi fa ridere sono i politici che si pren-dono troppo sul serio. È incredibile co-me il potere possa trasformare unapersona onesta e perbene in un imbo-nitore dalle parole vuote. L’unico im-pegno che ho avuto è stato con Amne-sty International, ma questo fa partedella mia vita privata, ho avuto troppafortuna per non rendere qualcosa».

Fortuna è un termine che Noiret usaspesso. «Non sono credente ma ognitanto sento il desiderio di ringraziarequalcuno, non so chi, per la vita fortu-nata che mi è stata regalata. Una bellafamiglia, un lavoro che amo e che mipermette di vivere bene, infiniti incon-tri con persone meravigliose che mihanno arricchito di umanità e di cono-scenza. Potevo desiderare di più? È ve-ro, non ho il fisico del conquistatore enon ho mai fatto una commedia ro-mantica, ma tra le mia braccia o nelmio letto sullo schermo ci sono stare ledonne più belle del mondo, Romy Sch-neider, Sophia Loren, Catherine De-neuve, Fanny Ardant, Ornella Muti.Quanti uomini possono vantare lastessa cosa?».

L’unica nota di malinconia nella suabella voce sonora si insinua al ricordodei tanti amici scomparsi. «Il tempoche passa è triste per le perdite che por-ta con sé, sento la mancanza di quelliche ho amato e non ci sono più. Lamorte? Ci penso da quando avevo 25anni, ogni giorno da cinquant’anni.Ma non è un pensiero che mi fa paura,anzi mi spinge a sentire ancora più for-te la gratitudine per la vita fantasticache mi è concesso di vivere».

‘‘L’unica volta che MarioMonicelli mi ha parlato del film Amici miei era

a tavola. La conversazionesi è svolta così. «Che pensa

della storia?», mi chiedeMario. «È molto buffa

e molto triste», rispondoE lui, alludendo al menù,

mi fa: «Pasta o minestrone?»Fine della conversazione

TÉLERAMA

30 agosto 1975

Alfred Hitchcock eraaffascinante sul piano

professionale e appassionante su quello

umano. C’era un’autenticareale tenerezza dietro

il personaggio che si creava La cosa incredibile è che

non diceva una parola del film;la cinepresa però era sempre

al posto giusto. Avevaun controllo stupefacente

dell’immagine: una volta checi aveva messo ai nostri postinon c’era più niente da dire

PREMIÈRE

novembre 1987

Invecchiare è terribilmente scocciante, ma bisognafarlo, è la vita. La paura è di diventare un vecchioscemo, bisogna fare molta attenzione. Bisogna starein guardia, perché può capitare all’improvviso.Tutto d’un colpo ti senti parlare e pensi: «Ma questisono discorsi da vecchio rincoglionito!»

INTERVISTA A JEAN-PIERRE LAVOIGNAT

agosto 2006

Ancora oggi detesto vedermi sullo schermo,la mia figura mi dà fastidio... Cercare di non darmitroppo fastidio è un po’ il mio motto. È chiaro chese ho voluto fare l’attore è stato per nascondermi.Gli attori non sono tutti esibizionisti come si crede,molti fanno questo mestiere per timidezza

FRANCE SOIR

1997

IL LIBRO

Il libro-catalogo dell’edizione 2006 di France Cinéma è dedicato a PhilippeNoiret e alla retrospettiva che si è tenuta a Firenze all’inizio di novembre.È curato da Aldo Tassone e Joël Magny (Aida edizioni, 289 pagine, 19 euro)e raccoglie interviste rilasciate dall’attore francese nell’arco di una vita,ricordi e immagini di scena dei suoi 130 film e di vita privata, ritiratae lontana dai riflettori. Il libro contiene anche una lunga serie di testimonianzedi gente di cinema che svela i segreti e il talento dell’uomo che da molti è statoconsiderato il più grande attore di Francia. Ma ricco è anche il “versante”italiano della biografia artistica e umana di Noiret che lavorò per registi comeFerreri, Monicelli e Tornatore che ne ricordano la figura.

Repubblica Nazionale

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itinerariIl veterinario Sergio Capaldoha fondatoinsieme a Slow Foodl’associazione“La Granda”,per la valorizzazione

della razza piemonteseLa sua bourguignonneideale è a base di scamone,noce e sottofesadella coscia, tagli boviniprivi di connettivoe quindi magrissimi

FondutaL’arte di mangiare insieme

ChocolatIl cioccolato fondente

in scaglie va sciolto con latte e panna,

aggiungendo zucchero,caffè, liquore, spezie

(cannella, noce moscata,liquirizia, vaniglia) a piacere

È importante che la temperatura resti dolce,

perché sopra i 50 gradi si bruciano gli aromi primari

del cioccolatoCon le apposite forchette si intingono frutta secca,

disidratata e fresca in piccole porzioni. Golosii cubetti di pan di spagna,

panettone, pane speziato,biscotti, cocco

e le scorzette candite

Un fornellinoa centro tavola,

una marmitta tondae dentro il liquido

che sobbolle e che trasformerà i pezzetti di cibodisposti nei piatti in bocconi golosi. La “fondue”,che sia di origine alpina o mongola, che si basisu formaggio, olio o acqua, è da sempre l’apoteosidel cibo condiviso, la vera summa del “comfort food”

TuttI a tavola! Meglio se rotonda, o qua-drata, perché chi ha le braccia lunghenon se ne approfitti. In mezzo, troneg-gia un minuscolo fornello, che reggeuna marmitta tonda. Dentro, a bollirepiano, il liquido che trasformerà i toc-

chetti disposti nei piatti in altrettanti bocconcinibollenti e golosi, golosissimi.

Fuori, l’autunno cede all’inverno: vetri appan-nati, umidità nelle ossa. Gli umori uggiosi conta-giano quanto e più del raffreddore. Ma la fonduepuò il miracolo. Perché questa è l’ineguagliabilebellezza del cibo condiviso: non c’è priorità di ser-vizio, grandi e piccini, maschi e femmine, alti e bas-si in grado. Tutti ad attingere alla stessa pentola,nello stesso momento (compatibilmente con l’in-crociarsi delle forchettine). Apoteosi del mangiareinsieme: impossibile, una volta cominciato il rito,restare estranei all’atmosfera di allegria, morbi-dezza, calore. Stomaco che si riempie e sorrisi chesi allargano. Quando gli americani inneggiano aicibi rassicuranti dell’infanzia — polpette e polpet-toni, zuppe e budini — tralasciano l’elemento fon-dante del conforto individuale, ovvero la trasfor-mazione in rito collettivo. È la pentola comune —meglio se squisita — la vera summa del comfortfood.

In un passato nemmeno troppo passato, in mon-tagna — l’intera catena alpina — d’inverno il ciboscarseggiava: orto a riposo, animali a fine lattazio-ne, carne poca, da tener cara, uova col contagocce.In dispensa, pochi alimenti, nemmeno molto ap-petitosi: patate, formaggi sopravvissuti all’estate,qualche conserva di carne e pesce, l’immancabilepane raffermo, una bottiglia di acquavite.

Che altro fare, quando la primavera con il suo ca-rico di cibi freschi è invisibile all’orizzonte e biso-gna combattere in una volta sola contro freddo, fa-me e povertà, se non provare a fondere il formaggioduro sul camino con un poco di liquore, magaristrofinare uno spicchio d’aglio dentro il calequon(l’indispensabile marmitta di coccio) per aggiun-gere sapore?

Così trasformata in zuppa, la toma cotta diventacompanatico. Basta tenerla vicino al fuoco perchénon si raggrumi di nuovo, e inzupparci dentro il pa-ne vecchio — buttarlo è una bestemmia — o met-terla a cucchiaiate sulle patate cotte nella cenere obollite, su quella poca carne messa a seccare in mo-menti di “grassa”, sulle verdure cotte in estate nel-l’aceto. È nata così la prima fondue à fromage:

quando si dice che il bisogno aguzza l’ingegno…Se nei ristoranti della Val d’Aosta, terra di fonti-

na, negli ultimi anni la fonduta ha traslocato dallapentola alle fondine individuali, e in Piemonte èdiventata il supporto godurioso al tartufo bian-co — incontro memorabile — altrove la tradi-zione del calequon è rimasta intatta, e viene ri-proposta in infinite varianti, tante quanti so-no i formaggi — soli o assemblati — da met-tere a fondere, prima sul fuoco di cucina epoi sul piccolo trespolo da tavola.

Dal formaggio alla carne il salto è econo-mico prima che alimentare. Non a caso,l’aggettivo bourguignonne accompagna,dal burro al manzo, alcune tra le prepara-zioni più importanti e preziose della cuci-na francese, figlie delle sontuosità culina-rie dell’Ottocento, quando i rapporti po-litici internazionali — storico un duettogastronomico tra Tayllerand e lo zar Ales-sandro I, che sancì la nascita delle escar-gots à la bourguignonne, le lumache alforno — si consolidavano davanti a zup-piere fumanti.

Anche oggi, la fondue bourguignonnesancisce il trionfo dei grassi e delle pro-teine, tra cubetti di carne (dal “facile” fi-letto ai tagli più colti e succulenti, comescamone e cappello del prete), l’extraver-gine per la frittura, e le tante salse (a parti-re da tartara, bernese, cocktail e bourgui-gnonne) di contorno. Così, tra pinguedinee colesterolo in ascesa verticale, abbiamoscoperto la versione “magra”, importatadall’Oriente, dove al posto dell’olio c’è ilbrodo. Anzi, i brodi, perché a differenza del-la bourguignonne, alla conclusione del pa-sto il liquido di cottura si trasforma a sua vol-ta in cibo, arricchito dai tanti bocconcini dicarni diverse, pesci e verdure che bollendohanno “ceduto” parte dei loro umori.

In realtà, l’originaria fonduta mongola è fi-glia della cucina di campo, praticata nel me-dioevo. Da un accampamento all’altro, senzapotersi portare appresso ammennicoli da cucina,i cavalieri mongoli si riunivano intorno al fuoco emettevano a scaldare i loro elmi rovesciati e col-mati d’acqua, scodelle improvvisate dove scaldaresottili strisce di carne. Al termine del pasto, l’acquaera diventata brodo ristoratore, da sorbire primadel sonno o prima di riprendere la cavalcata.

Oggi, sottratti all’emergenza del cibo, l’unico ve-ro problema è come afferrare gli spaghettini di soiada assaporare nel brodo finale, scivolosissimi perbacchette e cucchiai. Comportatevi da veri orien-tali e bevete rapidamente dalla ciotola, possibil-mente senza fare troppo rumore.

BourguignonneRapida frittura di matricefrancese in un pentolino

di olio, aromatizzato con rosmarino, alloro

o ginepro. Ingredienteprincipe, la carne: filetto

di manzo o vitellone, in cubetti. Altre scelte:

tocchetti di wurstel, gruyère(cottura quasi istantanea),

verdura (i pezzi piccoli, cuociono in un paio di minuti)

Una patata inserita a freddomantiene l’olio chiaro

Nelle ciotoline, sale grosso,maionese semplice

o arricchita con senape,sottaceti, erbe tritate. Il vino?

Rosso, strutturato, allegro (Barbaresco, Nero d’Avola)

ChinoiseLa gastronomia cinese

prevede un’infinità di varianti, a partire dalle tre

ricette-base: Pechino,Shanghai e Canton.

Dalla mongola alla shacha,la “hot pot” prevede brodo

di pollo o manzo, in cuivengono immerse listarelledi polpa di maiale, seppie,polpettine, filetti di pesce

I bocconcini cotti vengonorifiniti in salse, tuorli crudi,

erbe tritate, spezie. Il liquidodi cottura può avere foglie

di tè, boccioli di crisantemo,gamberetti disidratati,

peperoncino, latteSi gusta il brodo con riso

o spaghetti di soia

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

i saporiRiti d’autunno

LICIA GRANELLO

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Il croceviadel Cantonedei Grigioni, sud est della Svizzera,“scoperto”dai Grandidell’economiagrazie ai summitdegli ultimi anni,

è il paradiso degli sciatori. Dal coté franceseha assorbito la tradizione di fondute dolci e salate

DOVE DORMIRECASANNAAlteinstrazse 6 Tel. (0041) 0814.170404Camera doppia da 150 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARERESTAURANT BAR ALTE POST Berglistutz 4Tel. (0041) 0814.135403Chiuso domenica e lunedì, menù da 50 euro

DOVE COMPRAREGOURMET KAECHTalstrasse 33Tel. (0041) 0814.130850

Davos (Svizzera)A quota 1.600,nel cuore della Vald’Ayas, ai piedidel monte Rosa,è una delle meteeccellenti dello scifino a primaverainoltrata.Godibilissime

le passeggiate per raggiungere laghi e rifugi.Il rito delle fondute è praticato in ristoranti e rifugi

DOVE DORMIRERELAIS DES GLACIERS(con cucina, apre il 7 dicembre)Route Dondeynaz, Tel. 0125-308182Mezza pensione da 85 euro a persona

DOVE MANGIAREBRASSERIE DU BREITHORN(con camere, apre il 5 dicembre)Rue Ramey 26, Tel. 0125-308745Menù da 35 euro

DOVE COMPRAREALIMENTARI FOSSONVia Chamoux 1, AntagnodTel. 0125-306610

Champoluc (Ao)La capitale dello scifrancese, dominatadal Monte Biancoe circondatada ghiacciai,è frequentata anchedai non sciatori,merito di trenini,teleferiche (la più

alta del mondo!) e di golosi percorsi gastronomici,a partire dalle fondue à fromage

DOVE DORMIRECROIX BLANCHE87 rue Vallot Tel. (0033) 04.50530011 Camera doppia da 112 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREL’IMPOSSIBLE9 Chemin du CryTel. (0033) 04.50532036Chiuso lunedì, menù degustazione da 25 euro

DOVE COMPRARELE REFUGE PAYOT166 rue Vallot Tel. (0033) 04.50531871

Chamonix (Francia)

BressanePrende il nome dal celebrepoulet de Bresse, allevato ibero nella campagnafrancese di Bourg-en-Bressee nutrito con farina di mais,grano saraceno e latteUna ricetta prevede che i tocchetti di pollo venganopassati prima nella pannaliquida e poi nella chapelure,mollica di pan carrègrattugiata finissima. Dopo la frittura in extravergine, si appoggia il bocconcinosu un trancio di pane chene assorbe l’olio in eccesso e si intinge in salse a basedi maionese variamentearomatizzate: scalogno,senape, roquefort, curry

RacletteNei paesi del Vallese,in Svizzera, il raclette –formaggio di latte vaccinocrudo e intero, a pastasemidura – si gusta cottoIl nome deriva da racler;grattare: la superficie si ammorbidiscesu uno strumento conmorso, che stringe la mezzaforma, e piccola grigliasuperiore, o con palettee fornello. Quandosi formano le bollicine,si raschia con un coltelloe si adagia sui vari elementinei piatti: rondelle di patatebollite con buccia, sottaceti,carne salata, salumi. Il vinoideale è il bianco secco

FormaggiLe ricette sono tutte alpineIn Francia: la Savoyarde(comté, beaufort,emmentaler) e la Jurassienne(comtè fresco e stagionato)In Svizzera la Neuchâteloise, (emmentaler e gruyère)e la Fribourgeoisedi solovacherin. Il pentolino va

strofinato con aglio. Il mixdi formaggi si arricchisce

con kirsch, acquavite,vino. Dentro,

pane raffermo, noci, verdura,

patatebollite.

Due uova ben amalgamate

per gli ultimi bocconi

‘‘ ‘‘Manuel Vázquez Montalbán...La fondue vietnamita consisteva

in un’equivalente della fondue bourguignonne,ma ... si cuocevano dei pezzetti di pollo, maiale,

gambero e calamaro in un brodo leggero....Ciascun pezzetto di carne o di pesce veniva

insaporito in potenti salse piccanti...

Da GLI UCCELLI DI BANGKOK

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le tendenzeLook e manie

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Mangastyle

seta stampate con “mostriciattoli” che ricorda-no l’iconografia manga. Tra i cultori del generec’è anche Alessandro De Benedetti, uno dei gio-vani talenti delle passerelle milanesi, cresciutoa pane, manga e musica rock. «Nella mia modaun po’ surreale e esoterica — spiega — ci sonospesso piccole streghe, studentesse in versionegothic e lolite super-sexy che ho vestito pen-sando alle eroine manga». Personaggi che le ra-gazzine giapponesi imitano con un carico di in-ventiva e spettacolarità. Ci sono le ragazzeganjiro dalla carnagione chiarissima, con untrucco normale e capelli tinti di biondo model-lo Candy Candy. Le ganguro perennemente ab-bronzate (sono fanatiche delle lampade a raggiuv), con capelli ossigenati, rossetto bianco e oc-chi truccatissimi con ombretto color gesso equintali di mascara. Le lolite, si travestono dabambine maliziose, con abiti dai colori chiari(rosa o azzurro). Spesso girano con l’orsac-chiotto nella borsa e molte osano parrucchebionde con boccoli. Le gothic, infine, sono le piùdure, ascoltano la musica metal, vestano abitid’epoca vittoriana e hanno il volto pallidissimo.

In questa fine 2006, insomma, le manga girlnon vivono “relegate” nel mondo dei fumetti onei quartieri di Shibuya e Harajuku di Tokyo,dove si ritrovano per fare shopping di gruppo.Varcano i confini. E in Italia si fanno largo le ra-gazzine con zeppe alte e colorate, look appari-scenti e accessori copiati dai fumetti. Nel corre-do manga figurano mega-bracciali, collanefantasiose, orologi, anelli, cerchietti, borse eminigonne. E per rendersi conto di quanto il fe-nomeno stia prendendo piede dal Nord al Sud,basta andare il sabato nelle librerie specializza-te in video e fumetti japan dove si ritrovano i fandel genere. Con il pretesto di comprare le nuo-ve avventure delle loro beniamine, arrivano ve-stite di tutto punto con mini strepitose, makeup vistosi e zeppe da geisha. E, in omaggio alla“febbre manga”, c’è persino un jeans della Fire-trap, un marchio inglese di grande impattocreativo. Il loro simbolo è lo gnomo Deadly, uninno al mondo underground nipponico, me-scolato all’arte manga, ai tattoo e al linguaggiodel corpo, con cui milioni di ragazzi esprimonole loro emozioni e i loro valori.

DIRITTE ALLA METAAnche lo stile mangaha la sua versione fetish. Il sandaloargento di Donatella Versaceha la zeppa gigante con grandeoblò profilato di bianco

IN CORSETTOL’eroina mangadei Dolcee Gabbana sfoggiaun corsettoipersexy,quasi una sculturamodellatasul corpo,che esaltafianchi e senoIl tutto portatocon sandalidai tacchialti e camiciacon fiocco

FINTA LOLITAJean CharlesDe Castelbajacportain passerellale lolite japanche provocanocon malizioseminigonnee magliette babyche riproduconoil profilodi una ragazzinacon i classicicapellia caschetto

GIOIE PLASTICHELe spillette in plasticadelle Superchiccherealizzate da CaterinaZangrando fanno partedi una collezioneche comprendeanche divertenti collane

BABY COCCOLEÈ della linea babydi Christian Dioril pupazzetto Doudou, morbidissimo,con orecchiee occhiali neriDa coccolare

Abiti in pvc, stivaletti ultralucidi, ciondolida bambina, occhiali esagerati: così la modaapre le porte alle eroine made in JapanTornano in vetrina le borse stampatecon disegni infantili e gli stilisti portanoin passerella modelli variopinti e surreali

COLPIRE AL CUORELe borsette a forma di cuore,griffate Kipling, si portanoagganciate al polso e sonomolto femminili. Su ogniborsetta è appesouno scimpanzè di peluche,la mascotte del marchio belga

EFFETTO BORCHIATOSono pensate per le manga girlsle borse Rubens di Diesel, conla chiusura e le borchie laccatedi rosso, da vere fan della moda

SUI TRAMPOLIPer i momentidi seduzione,è indispensabilela scarpa con taccoalto. Il sandalodi Miu Miuè in colorebluette e bronzo

La moda apre le porte alle eroine man-ga, quelle dei fumetti giapponesi, ra-gazze sexy, dai molti poteri, impe-gnate in storie d’amore e tradimenti,con una passione smodata per tuttociò che fa moda. In Italia, gli stilisti

che per primi si sono convertiti all’estetica dellemanga-girls, delle lucide protagoniste dei car-toon, sono stati i Dolce e Gabbana. A sorpresa,sulla loro passerella di inizio stagione sono ap-prodate modelle con micro-abiti in pvc e organ-za, vernice e chiffon, lattice, veli trasparenti, ca-pigliature nipponiche e occhiali stratosferici.

«Le eroine manga sono ipermoderne — spie-gano i Dolce e Gabbana — piacciono perché so-no sexy, ironiche, scattanti. Mostrano le gambe eadorano i colori decisi, come quelli delle cartedelle caramelle». Le girl variopinte nate dallacreatività giapponese piacciono anche France-sco Coveri che si è lasciato volentieri sedurre daquesta nouvelle vague e propone adesso borse di

FREDDO POLAREPer ascoltare la musicanelle fredde giornateinvernali ecco le cuffiedi Simonetta Ravizzaper l’Mp3 in volpe polare

PICCOLE FANLe bambinevanno pazzeper la moda sfiziosae divertenteNella collezioneTim Caminoci sonotante magliette,dai colori accessi,dedicate al triodelle Superchicche

Belle come un fumettoLAURA ASNAGHI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 19NOVEMBRE 2006

Storie dell’altro mondoche stregano i nostri figli

Così è nato un successo annunciato

LUCA RAFFAELLI

NAUSICAAL’eroinanata dalla matitadi Hayao Miyazakinel 1982 diventanel 1984 protagonistadel film capolavorodel regista che haavuto il Leone d’oroalla carriera a VeneziaIl manga è statopubblicato in Italiaa metà degli anni ’90

ISPIRAZIONE DARKPer le supermanga Fornarinaha creato gli zoccoli con la fascettain vernice e la fibbia decoratacon un cuore e le ossa incrociateTutto questo per creare un effettoromantico mescolato a tocchi dark

SGUARDO DA PANTERALe vere ragazze manga non escono maidi casa senza un volto ben truccatoe un paio di grandi occhiali dalle lenti scureIl modello rossodi Kenzo si chiama Odontonia

BASSO PROFILOLo stivalettodella Camper,in pelle color bronzoe tacco basso,non può mancarenel guardarobadi una manga girl

LADY OSCARIl fumetto escein Giapponenel 1972 su ShukanMargaret. La serie tv,che ha comeprotagonistala bella Ladyspadaccina,arriva in Italianel 1979, mentreil manga vienepubblicato nel 1983

RAYHEARTÈ la storia di HikaruShido, Umi Ryuzakie Fu Hooji tre ragazzeche si incontranodurante una gitaalla torre di Tokyoe vengono portatea Sephiro, un altromondo. Il mangaè uscito in Giapponenel 1994 e in Italiaquattro anni dopo

PRONTI SI PARTEIl casco della VemarHelmets, della lineaUrban, è dedicatoalle SuperchiccheCon un copricapo così,pieno di scritte colorate,non si corre il rischiodi passare inosservati

AMICO ROBOTIl cosmonauta in orobianco con fiore monogranè di Louis Vuitton. La griffefrancese scherzacon il mondo dei manga japane propone i robot ciondoloin versione anni Settanta

Ci sono cose che si possono prevedere anchesenza essere maghi e profeti. Per esempio al-la fine degli anni Settanta si poteva prevede-

re l’attuale invasione dei manga, cioè dei fumettigiapponesi, che affollano edicole e fumetterie. Sipoteva già quando i cartoni nipponici conquista-rono lo spazio televisivo di solito appannaggio deiprodotti americani e anche il cuore dei bambiniitaliani. A quei tempi non un solo manga venivapubblicato in Italia, e poco si sapeva del fumettogiapponese. Ma non era difficile immaginare chenel giro di una decina d’anni o poco più, quei per-sonaggi, quelle atmosfere, quelle emozioni nip-poniche avrebbero appassionato anche sulla car-ta i ragazzi cresciuti con la tivù di Mazinga e Heidi.Eppure nessuno lo previde, nessuno ne parlò. For-

se era stata sottovalutata la passione per quellestorie provenienti dal Sol Levante.

Nonostante il successo irrefrena-bile, e nonostante tutte le grandipolemiche che hanno suscitato,

troppo spesso si è preferito pensareche tanto i bambini si appassionano a qualsiasi co-sa si muova in un teleschermo. Non è vero: e co-munque non è stato così. La passione è durata edè cresciuta con il tempo.

I manga (cioè i fumetti) sono arrivati lentamen-te. Il primo, nel 1990, è stato Akira, fumetto d’au-tore di Katsuhiro Otomo. Poi, a poco a poco, sonoarrivati tutti gli altri, in diversi formati ma soprat-tutto in quello piccolo tascabile che in Giapponefavorisce la lettura anche in treno e in metropoli-tana. Così come avevano fatto nei cartoni, ma nelfumetto rivolgendosi agli adolescenti, gli autorigiapponesi, proprio quelli della cultura conside-rata la più lontana dalla nostra, hanno saputo ca-pire i nostri ragazzi molto più di quanto siano riu-sciti a fare statunitensi ed europei. Ne hanno col-to le angosce. Hanno drammatizzato il conflittogenerazionale, la solitudine, la paura del futuro.Tutto quello su cui il cartone americano aveva cer-cato di sorridere con Topolino, Bugs Bunny e Brac-cobaldo. Ma evidentemente, dopo il Sessantotto,su certe cose non era più il caso di scherzare. Que-sto i genitori italiani non hanno capito, non hannovoluto capire: da qui il rifiuto, spesso generalizza-to, a priori. E non solo qui da noi. Perché il succes-so dell’immaginario giapponese è mondiale. An-che la Francia — che (Giappone a parte) non temeconfronti al mondo per quanto riguarda la diffu-sione di fumetti in libreria — vede più del trentaper cento del mercato in mano agli autori nippo-nici. E lo stesso in Germania, in Spagna, negli Sta-ti Uniti, perfino in Cina dove adesso si pongono ilproblema di arginare i personaggi nipponici con leproduzioni nazionali.

Ma il fatto è che, aldilà delle trame e delle atmo-sfere, i giapponesi hanno saputo disegnare i per-sonaggi più attraenti e comunicativi. Con i loro oc-chioni grandi e luccicanti, i nasi e le bocce piccole,certi ammiccamenti provocanti, hanno attraver-sato le generazioni e modificato il gusto. E c’è po-co da criticare, da dire «non mi piace». Se si guar-dano attentamente i cartoni, se si leggono senzapregiudizi i manga dei nuovi personaggi di grandesuccesso, per ragazzi e per ragazze, da Sailor Moona Evangelion, da Dragonball a Naruto, si avverte lagrande capacità di parlare al cuore dei ragazzi, diconoscerne e sentirne i problemi. Anche quandosi racconta d’altro, anche quando si fa avventura osi parla di magie. Perché la cultura occidentale hamolti punti di contatto con quella giapponese(quando si tratta di orgoglio, di appartenenza algruppo, di competitività) e perché certa dramma-tizzazione nipponica è la stessa della letteraturaper ragazzi europea di qualche tempo fa. Quellache da noi si leggeva prima dell’arrivo dei cartonigiapponesi, che faceva commuovere ed autocom-miserare i ragazzi italiani degli anni Cinquanta. Sipiangeva sulle pagine di Piccole donne, dei Ragaz-zi della via Pal o di Senza famiglia. Il quale peral-tro, tradotto in cartone giapponese, fu più sempli-cemente Remì.

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48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19NOVEMBRE 2005

l’incontroMaestri della medicina

DARIO CRESTO-DINA Un falso valore che ha scavato un solcoprofondo e non più accettabile tra ricchie poveri. Il primo messaggio che il gover-no ha il dovere di trasmettere al Paese è lavolontà di rivedere la politica sociale e laredistribuzione del reddito. Abbiamo di-menticato che la Repubblica italiana èfondata sul lavoro, non sul capitale. Stia-mo subendo un ribaltamento anche di ti-po culturale, coltiviamo un esagerato in-teresse per il nostro corpo e uno moltopiù scarso per il nostro cervello. Succedecosì che in giro ci sono troppi corpi e trop-po pochi cervelli».

Veronesi è seduto nel suo ufficio di di-rettore scientifico dell’Istituto europeodi oncologia, in fondo a via Ripamonti,periferia di Milano. Non c’è giorno chenon sia qui. Arriva sempre alle sette, allesette e mezzo se il traffico lo rallenta. Alleotto entra in sala operatoria. Nel garage lasua Jaguar xj verde scuro — stesso mo-dello da trent’anni — con gli interni dipelle bianca è tra le prime a occupare unposto. Tornando allo Ieo, a distanza diqualche mese dall’ultima volta, si vieneaccolti da un nuovo popolo costretto auna sorta di confino. Stanno vicino allasbarra biancorossa del parcheggio o in fi-la sul bordo dell’asfalto, immersi nellanebbia come dentro un bicchiere di ac-qua e anice. Hanno cappotti buttati so-pra grembiuli o pantaloni bianchi di telagrezza che scendono sulle scarpe da gin-nastica o sugli zoccoli del dottor Scholl’s.Sono medici, infermieri, impiegati. Op-pure sono famigliari di pazienti che por-tano sul volto le tracce della preoccupa-zione e della speranza che convivono fi-no alla fine, qualunque sia la fine. Il lorosegno di riconoscimento è quella sigaret-ta che tengono tra l’indice e il medio, o av-vicinano alla bocca, o schiacciano sottola punta della scarpa. Stanno qui, in mez-zo a lunghi prati verdi e alle autostrade,possono scorgere qualche mucca checerca un ultimo filo d’erba e, dall’altraparte, i tir che sbuffano nell’immobilitàdelle loro interminabili colonne. Stannoqui perché non possono stare in un altroposto. Dal primo ottobre dentro il peri-metro dell’istituto è proibito fumare.

In quel cartello di divieto c’è tutta l’o-stinazione di un uomo molto amato,molto invidiato, molto criticato. Un uo-mo intelligente e furbo. Un uomo dolce eun po’ cinico. Un uomo bello e anziano.Un uomo timido che sta sempre sui gior-nali e in televisione. Un ossimoro checammina, un po’ come tutti coloro a cuiuna vita non basta e scavano in sé altreesistenze più o meno segrete. Allo Ieonon ho mai visto Umberto Veronesi ingiacca e cravatta. L’ho sempre incontra-to con il camice verde chiaro da sala ope-ratoria o, come questa volta, con quellobianco che indossa quando è nel suo uf-ficio. Quella gente lontana dalle sue fine-stre che succhia avidamente una sigaret-ta sembra uscita da un libro di Saramago,Cecità. «Si deve lottare sempre contro lecose che ci vogliono uccidere. E non bi-sogna avere pietà. Le sigarette sono il kil-ler più spietato in circolazione, il princi-pale alleato del cancro». Veronesi aveva

cancro. Questo sì. Ma io non riuscirò a ve-dere questo traguardo. Non riuscirò a ve-dere la sconfitta del cancro. Se credessiancora nei miracoli non lo penserei, maDio è uscito dai miei orizzonti ed è il tem-po a disegnarli adesso. È la realtà del tem-po che si riduce davanti a convincermiche non vedrò la fine di questa malattia.Certo, può succedere per caso, anche orao domani, ma le probabilità diminuisco-no giorno dopo giorno. La dimensionedella mia fiducia nella possibilità di risa-lire alle cause di ogni male, per debellar-lo, è la stessa di cinquant’anni fa, ma ladimensione del mio futuro no. Ciò cheattenua il mio senso di sconfitta è che la-scio una generazione di giovani sullastrada giusta per affrontare quella checredo, questo sì, sia l’ultima sfida dellamalattia. Sto parlando della via del dna.La cellula del cancro ha una vitalità checi può uccidere, ci vuole eliminare per-ché lei vuole vivere e moltiplicarsi. È ri-belle, anarchica, non segue le regole delresto dell’organismo: lo studio dei geni,le particelle più elementari dal punto divista biologico, ci condurrà a risolverel’enigma della sua origine e del suo svi-luppo. È, appunto, solo una questione ditempo. D’altra parte, abbiamo fatto piùprogressi negli ultimi vent’anni che neiduemila precedenti».

Umberto Veronesi ha mani nodose,una stretta forte e calorosa. Da contadi-no. Dice: «Sono uno scettico, non un ci-nico». E ancora: «Sono un uomo senzafantasia». Eppure, in ottantuno anni si èriempito di vita. L’ha bevuta a grandi sor-si. Ha sette figli e dodici nipoti, ogni do-menica a pranzo li invita a casa. Chi puòsi presenta, chi non c’è non avrà sensi dicolpa da espiare. Lui li accoglie come fa-ceva suo padre nella cascina alle porte diMilano nella quale è stato bambino, si èinginocchiato davanti a Dio per recitareil rosario tutte le sere e un giorno si è alza-to e quel Dio ha rifiutato per sempre. Duedei suoi figli sono chirurghi, gli altri avvo-cato, direttore d’orchestra, economista aChicago e architetto. Anche il più picco-lo studia architettura. Un giorno gli chie-sero quale fosse il suo primo pensiero delmattino. Lui rispose: la donna. E l’ultimodella notte? La donna. Ha sedotto, è statosedotto. Qualche sera fa, racconta, si èmesso alla scrivania di casa e ha tirato giùdue conti: «Ho fatto finora trentamila in-terventi chirurgici, ma nella mia carrieradi medico ho visitato quasi quattrocen-tomila persone». La maggior parte don-ne. «Ho scoperto che sono migliori degliuomini. Sono più coraggiose, più apertesul piano intellettuale, meno conformi-ste. La donna ha una carica vitale positi-va. Ha la capacità, se riesce a usarla, di ri-manere una persona senza farsi seppel-lire dal ruolo che riveste e trasformarsicosì in un alieno che non capisce più chigli sta di fronte. C’è qualcosa nella donnache la tiene saldamente ancorata alla vi-ta di tutti e non la rende estranea a nessu-no. Per questo, per esempio, sa essere unottimo medico».

Veronesi ama le donne. Se ne circon-da. Qui allo Ieo e nello studio di via Salvi-

un sogno: sconfiggere il cancro. Sa chenon lo realizzerà. Va ammirato per que-sta sua disillusione. Dice: «Ho pensatodavvero di farcela. Forse è stata presun-zione, forse eccesso di ottimismo. La miaconvinzione era nata nei laboratori dianatomia patologica. Ho fatto centinaiadi autopsie. Vivere con i morti fa riflette-re sui vivi. Grazie a loro ho capito che tut-te le malattie hanno una causa. La vitabiologica non ha segreti né misteri, masoltanto qualche enigma che la nostramente non è in grado di risolvere. Cin-quant’anni fa, con una vita davanti, hopensato di farcela combattendo prima lapassività dei medici e dei malati, poi, conle nuove forze della scienza, cercando disvelare l’enigma del cancro. Ho portatosolo un po’ di luce nel buio».

Lui, oltre a essere uno straordinario co-municatore, cosa che sa e non nascondeaffatto («dobbiamo uscire dai nostriospedali e parlare, parlare»), è anche un“ottimista biologico”. Sostiene che noiumani non siamo molto diversi dai cani,dai cavalli, dalle scimmie. In più di loropossediamo un cervello sofisticato e unlinguaggio che siamo riusciti a perfezio-nare grazie alla conquista della posizioneeretta e alla particolare conformazioneanatomica della laringe. Certo, faremoancora grandi cose. «Sconfiggeremo il

ni. Lucia, Giusi, Francesca, Donata, Eva,Mariagrazia, Giovanna. Lo coccolanocome fossero amanti, madri, sorelle. Ilprof qui, il prof là, il prof ha detto, il profadesso è libero, portiamo un caffè al prof.Per tutte lui è semplicemente il prof. Guaia criticarlo in loro presenza, neppure perscherzo. Dice Veronesi: «Mi sono inna-morato tre volte. Da molti anni non misuccede più». È guarito dalla malattia.«L’innamoramento è una forma patolo-gica dell’amore, un sentimento egoista epossessivo. Amare davvero una persona,invece, significa semplicemente volere ilsuo bene». Non esiste amore senza spa-vento, scriveva un poeta milanese, Gio-vanni Raboni. «È vero, amare significasoffrire». Ma non parlategli di fedeltà e in-fedeltà. «Sono parole che non ho maiusato, chi predica la fedeltà rinuncia allasua capacità critica. L’infedeltà, lo dico insenso filosofico, non può essere demo-nizzata. Una coppia che si ama firma unpatto sentimentale e umano, stipula unaccordo tra le parti. Chi lo rompe è sleale,non infedele. Ed è peggio. Per la slealtànon esiste perdono».

Non piace a tutti, ma, assieme a Re-nato Dulbecco e Rita Levi Montalcini,Umberto Veronesi è lo scienziato ita-liano più conosciuto nel mondo. Dico-no che è un egoista e amico soltanto deipoteri forti, ma aveva accettato di can-didarsi per il centrosinistra come sin-daco di Milano. Poi la sinistra lo ha fre-gato e lui è stato un signore, neancheuna polemica nonostante la ferita e l’a-marezza fossero profonde. E pure mol-to. Il fatto che qualcuno sia morto peruna causa non vuol dire che la causa siagiusta, diceva Oscar Wilde. Veronesi hacombattuto anche le battaglie perdute.Liberalizzazione della droga, eutana-sia, fecondazione assistita e staminali.È stato un uomo fortunato, impudentee, in fondo, non solo ma solitario. Unosciamano più che un patriarca.Quand’era giovane cercava la solitudi-ne in montagna, ora che è vecchio pre-ferisce il mare. Un altro infinito, senzaostacoli davanti allo sguardo. Gli piace,soprattutto, staccare l’ombra da terra.«Prendere un aereo e scomparire. Nonfarmi più raggiungere da nessuno».

Coltiviamoun esageratointeresseper il nostro corpoe uno molto più scarsoper il nostro cervelloCosì in giro ci sonotroppi corpi e troppopochi cervelli

A 81 anni il grande oncologoitaliano dorme quattro o cinque oreper notte ed è sempre tra i primial lavoro: “Sono un uomo senzafantasia”, dice di sé. Eppure ha vissuto

intensamente,ha fatto sette figli,ha amato moltissimoE ha dedicatol’intera esistenzaa battere il cancroUna battaglia che ammettedi non avere vinto:

“Ho portato solo un po’ di luce nel buioLo sconfiggeremo. Ma io nonriuscirò a vedere il traguardo”

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‘‘Umberto Veronesi

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MILANO

Si comincia con la metaforadella macchina a vapore. Leisi ricorda chi è stato a inven-tare la macchina a vapore?,

mi domanda Umberto Veronesi. Natu-ralmente no. Allora lui fa: «A me succe-derà la stessa cosa, tra due generazionisarò come la macchina a vapore. Nessu-no si ricorderà di me, di ciò che ho fattonella lunga stagione che ha caratterizza-to la rivoluzione dell’oncologia». Di-mentichiamo sempre più in fretta. Le co-se restano, mentre i vivi passano. «Nonsono neppure una persona interessan-te», dice. «A volte sono bugiardo, a voltepiango, adoro il poeta Majakovskij e ilfilm Ladri di biciclette di De Sica. Dimen-ticavo, sono goloso di cioccolato. Non miviene in mente altro».

Si abbandona sulla sedia, incrocia lebraccia fra le gambe. Attende. Se dovessescegliere una frase per descrivere quelloche è il suo modo di intendere l’esisten-za, credo che non gli dispiacerebbe la se-guente: questa è la tua vita e sta finendoun minuto alla volta. Un carpe diem. Di-ce: «Non vado mai a dormire prima delledue di notte. Mi sveglio verso le sei, sei emezzo». Quasi ogni sera è al cinema. Tor-nato a casa scrive una recensione delfilm. Una pagina, non di più. Gli piaccio-no i film poveri, e sui poveri. «Sono natonel 1925, l’anno del delitto Matteotti. Dabambino, ricordo che alle pareti delle no-stre stanze erano appese le fotografie digiovani morti in guerra, tutti i caduti era-no poveri, venivano dalle campagne. Di-ventato ragazzo, mi iscrissi al Cine Guf diMilano. Era un covo di oppositori al regi-me. Mi piacevano i film dei francesi Mar-cel Carné e Julien Duvivier. Erano filmsulla povertà, sul lavoro». Adesso apprez-za Crialese, Sorrentino, Tornatore, Gar-rone. Tutti registi meridionali che parla-no di povertà, di lavoro, di disperazione.«Sono un meridionalista convinto. Sulpiano intellettuale e artistico il Mezzo-giorno è molto più avanti del Nord, maoggi si crede, sbagliando, che la sola cosache conta è la produttività economica.

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