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Tradizione e rinnovamento La conquista della realtà Risale al VI secolo, a san Gregorio Magno, l’affermazione secondo cui la pittura nelle chiese doveva essere Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, il mezzo migliore per raggiungere le masse analfabete. Così le pareti e le volte, le colonne e i sotterranei si trasformarono in grandi pagine di pietra sulle quali spalmare storie bibliche ed evangeliche, finalmente accessibile agli oranti ignoranti. Ma col Rinascimento si volta pagina: non più pittura come libro ma libro sulla pittura. Fioriscono libri e trattati sulle divine proporzioni di Fidia, Mirone, Policleto, Platone. L’uomo è al centro di una composizione prospettica, articolata, tridimensionale. Si stabilì che la bellezza risiede nell’armonia, che bisognava rappresentare la commozione, l’emozione, l’equilibrio. Nel corpo umano risiedeva la corrispondenza con la geometria e l’architettura, nel corpo umano si riscontrò il dialogo ininterrotto con la Forma Eterna dove stanno Armonia e Perfezione, incarnazione assoluta dell’Idea sbocciata nella culla del Mediterraneo e bla-bla-bla. È pur vero che dal 1400 in poi la scienza e l’arte classica divennero e rimasero un dominio esclusivo degli artisti italiani. Ma la volontà appassionata di creare un’arte nuova, più fedele alla natura delle precedenti, ispirò anche tantissimi artisti nordici della stessa generazione. L’artista le cui scoperte rivoluzionarie rappresentarono da subito un elemento innovatore fu il pittore Jan Van Eyck (1390-1441). Era legato alla corte dei duchi di Borgogna, ma lavorò soprattutto in quella parte dei Paesi Bassi, le Fiandre, che ora si chiama Belgio. Arte e territorio Anno scolastico 2012.2013 Dario D’Antoni TRADIZIONE E RINNOVAMENTO - La conquista della realtà Pagina 1 Jan van eyck Self portrait (?), 1433 National gallery, london

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Tradizione e rinnovamento

La conquista della realtà Risale al VI secolo, a san Gregorio Magno, l’affermazione secondo cui la pittura nelle chiese doveva essere Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, il mezzo mig l i o re per ragg iungere le masse analfabete. Così le pareti e le volte, le colonne e i sotterranei si trasformarono in grandi pagine di pietra sulle quali spalmare storie bibliche ed evangeliche, finalmente accessibile agli oranti ignoranti. Ma col Rinascimento si volta pagina: non più pittura come libro ma libro sulla pittura. Fioriscono libri e trattati sulle divine proporzioni di Fidia, Mirone, Policleto, Platone. L’uomo è al centro di una composizione prospettica, articolata, tridimensionale. Si stabilì che la bellezza r is iede ne l l ’armonia, che b isognava rappresentare la commozione, l’emozione, l’equilibrio. Nel corpo umano risiedeva la corrispondenza con la geometria e l’architettura, nel corpo umano si riscontrò il dialogo ininterrotto con la Forma Eterna dove stanno Armonia e Perfezione,

incarnazione assoluta dell’Idea sbocciata nella culla del Mediterraneo e bla-bla-bla. È pur vero che dal 1400 in poi la scienza e l’arte classica divennero e rimasero un dominio esclusivo degli artisti italiani. Ma la volontà appassionata di creare un’arte nuova, più fedele alla natura delle precedenti, ispirò anche tantissimi artisti nordici della stessa generazione. L’ a r t i s t a l e c u i s c ope r t e r i v o l u z i o na r i e rappresentarono da subito un elemento innovatore fu il pittore Jan Van Eyck (1390-1441). Era legato

alla corte dei duchi di Borgogna, ma lavorò soprattutto in quella parte dei Paesi Bassi, le Fiandre, che ora si chiama Belgio.

Arte e territorio Anno scolastico 2012.2013 Dario D’Antoni

TRADIZIONE E RINNOVAMENTO - La conquista della realtà Pagina 1

Jan van eyck Self portrait (?), 1433

National gallery, london

Egli non ruppe subito con la tradizione del Gotico internazionale, ma lavorò con una paziente osservazione del vero e con una cura dei particolari tanto attenta che sembra di poter contare i peli sulle criniere dei cavalli da lui dipinti. Si mosse con un metodo diverso da quello degli artisti italiani della sua generazione, per arrivare ai medesimi risultati. I maestri fiorentini della cerchia di Brunelleschi avevano perfezionato un metodo che permetteva di rappresentare la

natura con una esattezza quasi scientifica. Cominciavano con l’intelaiatura delle linee prospettiche e costruivano il corpo umano

basandosi sull’anatomia e sulle leggi della prospettiva.

Van Eyck si mosse per la strada opposta. Raggiunse l’illusione del vero sommando pazientemente un particolare all’altro, affinché l’intero quadro apparisse come uno specchio del mondo visibile. Questa differenza tra l’arte nordica e quella italiana fu importante, e non andremo lontano dal vero se affermiamo che ogni opera che eccel le nel la rappresentazione degli oggetti, dei fiori, dei gioielli e dei tessuti, sarà di un artista nordico, probabilmente

fiammingo. Mentre una pittura chiara nei contorni, dalla prospettiva certa e dalla sicura conoscenza delle proporzioni del corpo umano sarà italiana. Per riuscire a rispecchiare la realtà in ogni particolare, Van Eyck doveva migliorare la tecnica della pittura: e inventò la pittura ad olio. In realtà la sua non fu una assoluta novità come la scoperta della prospettiva: semplicemente ideò una nuova ricetta per la preparazione dei colori. I pittori di quel tempo non compravano colori già fatti in tubi o in scatola. Dovevano estrarre le loro tinte da piante colorate o da minerali tritati tra due pietre, inumidendo prima dell’uso la polvere in modo da ottenere una pasta. L’elemento usato per inumidire era per lo più un uovo, perfettamente adatto allo scopo, ma che presentava lo svantaggio di seccare piuttosto in fretta. Questo tipo di pittura è detto a tempera. Jan Van Eyck non era soddisfatto di tale formula che non gli consentiva di aggiungere una pennellata dopo l’altra e di creare poco a poco il suo quadro. Usando l’olio invece dell’uovo, egli poteva lavorare più lentamente e con maggiore accuratezza; poteva valersi di colori trasparenti da sovrapporsi a strati, e aggiungere gli effetti di maggior rilievo e splendore con un pennello appuntito ottenendo così quei miracoli di accuratezza che stupirono i contemporanei e fecero adottare da tutti la pittura ad olio.

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L’arte di Van Eyck ottenne nei ritratti i più brillanti risultati. Uno dei suoi ritratti più famosi rappresenta un mercante italiano, Giovanni Arnolfini, recatosi nei Paesi Bassi per ragioni di commercio, con la sposa Jeanne de Chenay. È, a suo modo, un’opera nuova e rivoluzionaria quanto quelle di Donatello e Masaccio in Italia.

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ARNOLFINI MARRIAGE, 1434 - Olio su legno di quercia 82 x 60 cm - National Gallery, London

Un angolo qualsiasi del mondo reale è stato colto istantaneamente su un pannello come per magia. Eccolo in tutti i suoi particolari: il tappeto, le pantofole, il rosario appeso alla parete, il

piumetto della polvere accanto al letto, la frutta sul davanzale. È come se facessimo visita agli Arnolfini a casa loro. Il quadro rappresenta probabilmente un momento solenne della loro vita: il matrimonio. La giovane ha appena messo la destra nella mano sinistra dell’Arnolfini, ed egli sta per mettere la sua destra in quella di lei, come pegno solenne della loro unione. Forse al pittore venne chiesto di dipingere questo momento perchè vi aveva assistito, come si chiede a un notaio di testimoniare la sua presenza a cerimonie simili. Questo spiegherebbe perchè il maestro fiammingo a b b i a m e s s o i l proprio nome in un punto importante del quadro, con le p a r o l e l a t i n e Johannes de Eyck fuit hic (Jan Van Eyck era presente). Nello specchio in fondo alla camera -circondato da dieci balze con le scene di una minuziosa

quanto microscopica Via crucis - vediamo tutta la scena riflessa a rovescio e lì pare si possa scorgere l’immagine del pittore e dei testimoni. Questo nuovo genere di pittura è senz’altro paragonabile all’uso di una fotografia: l’artista diventa un perfetto testimone oculare nel senso più vero del termine. Anche i valori simbolici restano profondamente presenti: il cagnolino è antico simbolo di fedeltà, nel lampadario arde una sola candela accesa, come unica è la fiamma che anima il matrimonio. Gli zoccoli dell’uomo, rivolti verso l’esterno, sottolineano il ruolo di Arnolfini come capofamiglia e mercante, in equilibrio tra la casa e gli affari. Le pantofole della donna, riposte sotto il letto, rafforzano il tradizionale compito femminile come custode della casa. Entrambi i protagonisti, scalzi, rispettano la sacralità del focolare domestico.

Antonello Le Fiandre, per gli artisti italiani, non erano poi così lontane: per trovare gli e c h i di quella pittura, baciata dai miracoli della brillantezza e della l u c e , bastava andare a Venezia e più giù ancora, a Napoli. Il pittore

Colantonio era al corrente dell’arte dei grandi maestri di oltre le Alpi e delle nuove particolarità tecniche e formali dei fiamminghi. E poi a Firenze e ad Arezzo operavano artisti/matematici che applicavano rigorosamente le leggi della prospettiva alle figure umane e ai paesaggi, operando sintesi tra luce e colore. Pier dei Franceschi in pittura , Luca Pacioli tra le scienze matematiche ed economiche strabiliavano i giovani artisti del secondo Quattrocento. A Napoli e proprio presso la bottega di Colantonio, il più grande pittore del Regno, si forma Antonello (1430-1479), che viene da Messina, nella nostra Sicilia, dove operano i lombardi Gagini e il dalmata Francesco Laurana. Probabilmente entra in contatto col pittore fiammingo di Bruges Petrus Christus, e poi con Pier dei

F rancesch i , in a l cune sue tappe professionali a Milano e poi a Venezia e Roma. Ma è a Messina che opera e avvia una importante bottega. Qui Antonello approfondisce la sua personale sintesi prospettica tra luce e colore, creando capolavori mirabili nel solco del nuovo linguaggio fiorentino. Ma è con il Salvator mundi del 1465 (prima opera firmata e datata sul cartellino del parapetto) che Antonello stabilisce con i suoi personaggi un rapporto nuovo, fatto di vicinanza umana e di rapporti diretti..il volto, dai l ineament i ra f f inat i , sembra dialogare direttamente con gli osservatori, mentre le mani parlano un linguaggio ancor più diretto.

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Ritratto d’uomo (autoritratto?) 1473Olio su tavola 35,2 x 25,5 cm

Londra, national gallery

Salvator mundi 1465Olio su tavola 39 x 29,5 cm

Londra, national gallery

La destra, alzata nel gesto benedicente tradizionale, mostra un celebre “pentimento”, visibile nel collo del Cristo. Colpisce la visione di scorcio della mano e delle dita disposte perpendicolari al busto. Questo scorcio crea uno spazio al tempo stesso reale e simbolico, nel quale verità e rappresentazione

sembrano confondersi nell’unico intento di celebrare il rapporto tra l’uomo e il Figlio di Dio. Dal 1475 Antonello inizia un percorso nuovo della sua pittura, fatto di sfondi indistinti e di ritratti di personaggi ignoti, che però non mascherano la loro appartenenza al popolo siciliano. Una galleria di visi, di espressioni, di sguardi sempre più ispirati e radicati al loro territorio. Come un fotografo dell’antichità, senza Nikon ma con il pennello, egli indaga dentro i protagonisti dei suoi ritratti e ce ne f o rn i s ce uno spac ca to p s i c o l og i c o d i straordinaria intensità. Come per il Ritratto

d’uomo del 1476, “malandrino” nello sguardo e nell’inarcare il sopracciglio

mentre ci osserva altezzoso, quasi i n f a s t i d i t o . U n m e r c a n t e

s i c i l i a n o p r o n t o a ingannarci, forse, o a d

esigere un pagamento più volte richiesto e non ancora effettuato. Il Ritratto d’uomo (detto anche di Mandralisca, dal nome del suo primo proprietario, Enrico Pirajno di Mandralisca), ha un fascino tutto suo che ci riporta alla sicil ianità che tanto piaceva ad Antonello, tanto da ricordarsene sempre nelle sue opere e poi perché si trova al Museo Mandralisca di Cefalù e quindi a due passi da noi per poterne gustare tutta la bellezza. Questo ritratto deve collocarsi tra il 1465 e il 1470, un po’ prima, quindi, della composizione dei grandi capolavori.

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Ritratto d’uomo 1476Olio su tavola 36,5 x 28 cm

torino, museo civico

Ritratto d’uomo 1470Olio su tavola 30 x 25 cm

CEFALù, museo MADRALISCA

La tavoletta è stata ritenuta uno dei primissimi ritratti dell’artista. L’enigmatico e beffardo sorriso che si può cogliere nel ritratto riflette l’influenza della ritrattistica delle Fiandre. Lo stesso sorriso si può cogliere anche negli occhi, e qui l’artista rivela una sottile e penetrante insistenza nel caratterizzare la fisionomia del personaggio. Ma soprattutto Antonello riesce a creare tra il personaggio dipinto e l’osservatore un misterioso rapporto, un muto colloquio che rende il dipinto particolarmente significativo al di là di ogni schema e tradizione. Ma i fiamminghi e i fiamminghismi sono decisamente superati quando Antonello dipinge, intorno al 1475, uno dei suoi capolavori. Vibrante di luce, di colore, di vita e di calore, L’Annunciata oggi conservata al Palazzo Abatellis di Palermo.

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L’Annunciata, 1475-Olio su tavola 45 x 34,5 cm - Galleria Nazionale della Sicilia, Palazzo Abatellis - Palermo

Lo spazio è conquistato, Antonello è padrone della tecnica, del disegno, della spazialità rinascimentale. L’intensità espressiva dei modelli locali siciliani, la sintesi luministica fiamminga e la prospettiva del Rinascimento si fondono insieme per modellare la figura della Vergine bambina/contadina, colta nel momento in cui accoglie l’annuncio della propria gravidanza da parte dell’angelo annunciante. Il mistero del sorriso accennato e dello sguardo vengono accentuati da piccoli dettagli: la piega della mantellina blu cobalto, emersa prepotente dallo sfondo indistinto e scuro, quasi fosse un capo del corredo tenuto a lungo piegato nel cassetto e tirato fuori in fretta e furia per le grandi occasioni. La mano sinistra, che spunta dal volume del velo, in un atteggiamento tipico della donna contadina a chiuderne i lembi. E poi la mano destra che squarcia lo spazio tra noi e la Vergine e sembra quasi invitarci ad arrestare il nostro slancio verso di lei, ragazza irresistibile ma al tempo stesso madre di Gesù. La sintesi prospettica riesce ad armonizzare le caratteristiche della bellezza meridionale con la ricerca di astrazione formale, espressa dal blocco geometrico e piramidale del manto ma anche dalla mancanza dello sfondo e dell’aureola. Nel leggio tarlato e nello stupendo ovale del volto si legge ancora la purezza della lezione prospettica di Piero della Francesca e dei maestri rinascimentali.

Ma tutta la storia artistica e l’esperienza di Antonello giungono al vertice supremo e al punto conclusivo nel San Gerolamo nello Studio, una scatola prospettica di impeccabile esattezza dove lo spazio sembra moltiplicarsi all’infinito, nella quale la luce si pone a protagonista.

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SAN GEROLAMO NELLO STUDIO, 1474 - Olio su tavola 46 x 36,5 cm - National Gallery, London City

Nell’arco di pietra che apre allo studio, si inserisce lo straordinario arredo dove sta seduto il santo, uno scrittoio-libreria sollevato su un alto gradino, sul quale poggiano la piccola cassapanca e l’elegante seggiola semicircolare. Un’autentica creazione architettonica da fare invidia ai più

moderni designer. In fondo ai due corridoi, a sinistra e a destra, e sotto la volta a crociera, vi sono alcune finestre gotiche, bifore e trilobate, che si affacciano sull’ambiente esterno e « s f o n d a n o » l o s p a z i o rappresentato. Il pavimento, dalle mattonelle finemente decorate, con la sua perfetta prospettiva centrale, costituisce l’elemento di unione. La parte superiore della scena è avvolta dall’ombra, mentre la luce illumina quella inferiore. In questo spazio scientifico si scoprono mille particolari: scatole, libri, ceramiche. Piante simboliche (il mirto e il ginepro, simboli dell’intimità domestica), uccelli (il pavone in primo piano, simbolo con la sua coda dei cento occhi della chiesa), il leone che avanza in penombra sulla destra (simbolo della mansuetudine).E infine, la figura immobile di San Gerolamo, avvolto nelle pieghe del mantello rosso, rese con rara attenzione.

Il trionfo della morte Questo grande affresco (6,42x6 m) si trovava in origine nel cortile di Palazzo Sclafani a Palermo, sede dell’Ospedale Cittadino nel XV secolo, quando l’opera fu eseguita.

Staccato nel 1944, fu dapprima collocato nel Municipio e quindi restaurato e posto nella sede attuale, la Galleria Nazionale della Sicilia presso il Palazzo Abatellis di Palermo. Sino a tutto il 1800 venne attribuito a un pittore siciliano, Antonio Crescenzio, ma la moderna critica ha sottolineato l’alta qualità artistica e soprattutto i suoi molteplici legami con la cultura gotica internazionale. Inoltre, è verosimile che siano presenti due mani nella elaborazione dell’opera, così il Crescenzio venne messo da parte a favore di un omonimo Antonello Crescenzio, vissuto però più tardi.

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È stato anche molto recentemente nominato lo stesso Antonello come autore, poi si è parlato di diretti collaboratori del Pisanello, infine si è attribuito a maestri catalani e borgognoni. Di certo comunque si è pervenuti a una plausibile datazione, intorno al 1443-1445. E anche se non importa sapere se autore del Trionfo sia Antonio Crescenzio o uno sconosciuto che si chiamava o non si chiamava come lui, è certo che in Sicilia c’era alla metà del XV secolo un pittore, un gruppo o una scuola in grado di eseguire un’opera così grande e stupenda. In sé, il dipinto sta al di là della questione: è opera di alta poesia e rappresenta pienamente un momento della cultura europea.L’affresco muove direttamente dal Triumphus Mortis del Petrarca, dove si dice «...ed ecco di traverso/piena di morti tutta la campagna...Ivi eran quei che fur detti fel ici/p o n t e f i c i , r e g n a n t i , imperadori...».

La composizione si sviluppa attorno al gruppo della Morte a cavallo, elemento centrale e fulcro espressivo. A sinistra sono i mendicanti, che guardano alla Morte e addirittura la implorano come sollievo dalla loro infelicità.

Sopra di essi, due figure maschili che sono t rad i z i ona lmen te ident i f icate come gl i autor i de l l ’ a f f resco: uno regge i l pennello, l’altro -forse l’aiutante- la vaschetta con i colori. Nella zona inferiore stanno le vittime che la Morte ha già falciato con le sue frecce: uomini illustri, principi della chiesa, giuristi.

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La scritta di un cartiglio identifica il giurista Bartolo_da_Sassoferrato, evidentemente scelto a simbolo del sapere. Lasciata dunque la schiera dei mendicanti e colpiti i potenti, la Morte si rivolge ora verso il gruppo dei giovani ricchi e gaudenti. L’intera zona destra e la parte superiore della composizione sono infatti occupate dalle raffigurazioni di vita cortese.

Musicisti, dame di corte r i c c a m e n t e v e s t i t e , gentiluomini con falconi, cacciatori con cani levrieri, q u a s i a s s o r t i i n u n a a t m o s f e ra i n c a n t a t a , sembrano non accorgersi che le frecce della Morte hanno già cominciato a falciarli.

Infine, la supposizione che Picasso avesse ben vivo il dipinto palermitano quando fece Guernica. Il grande pittore catalano è stato più di una volta a Palermo e si può esser certi che il Trionfo non gli è sfuggito. L’accostamento del Trionfo della morte a Picasso ci avverte forse che ne è stato autore un pittore catalano del XV secolo?

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Tutte le considerazioni sono rielaborate e sintetizzate da Dario D’Antoni.

Le citazioni sono liberamente tratte dai testi

Ernst H. Gombrich Breve storia del mondo (Firenze 1997)

Ernst H. Gombrich Il mondo dell’arte (Verona 1952)

Pablo Echaurren Controstoria dell’arte (Roma 2011)

AA. VV. L’illustrazione italiana (Palermo 1974)

Gaspare De Fiore Capire la pittura - Antonello da Messina (Milano 1989)

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