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in questo numero: pg. 4 La questione del corpo nella Body Art pg.7 Introduzione all’antropologia culturale pg.11 San Giovanni Battista, l'enigmatico precursore pg. 14 Arte e sociale: Contraddizioni e potenzialità pg. 16 Selezione dalla mostra "Il Volto delle donne. Atto di S-Velamento n.2" pg.21 Qubo Quasi Quadro. Un’operazione di Emiliano Yuri Paolini pg. 28 Tridimensione, realtà o cecità? pg. 31 La ragazza con l'orecchino di perla. Il mito della Golden Age

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1 InAsherah - Il Magazine

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3 InAsherah - Il Magazine

Indice pg. 4 La questione del corpo nella Body Art

pg.7 Introduzione all’antropologia culturale pg.11 San Giovanni Battista, l'enigmatico precursore pg. 14 Arte e sociale: Contraddizioni e potenzialità pg. 16 Selezione dalla mostra "Il Volto delle donne. Atto di S-Velamento n.2" pg.21 Qubo Quasi Quadro. Un’operazione di Emiliano Yuri Paolini pg. 28 Tridimensione, realtà o cecità? pg. 31 La ragazza con l'orecchino di perla. Il mito della Golden Age

In copertina: Gina Pane - Azione sentimentale, 1973

Scrivono per InAsherah - Il Magazine:

Giulia Ambrosini

Sara Donfrancesco Lucia Lo Cascio

Cassandra Rotelli Chiara Sabatini Stefano Valente

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InAsherah Vivimus: La questione del corpo nella Body Art.

InAsherah Vivimus vuole essere uno spazio in questa rivista dedicato a quell'arte vicina alle tematiche del femminino, della sacralità del donna e del suo corpo per rispondere ad un appello di Lei, la Nostra Madre, che risale a 4300 anni fa: "ovunque voi siate in qualunque tempo non ignoratemi"!!!

Regina José Galindo - No perdemos nada con nacer, 2000

La body art è una corrente artistica nata negli anni ’60 e si è caratterizzata per la necessità dell’artista di agire attraverso il proprio corpo in relazione all’altro, in una sorta di prolungamento di sé in chi guarda e attraverso questo si allarga poi, all’intera società arrivando ( forse ) a mostrare l’unione tra sé e il tutto e invitando,in virtù di questa unione, al rispetto, all'amore per l’altro che è noi.

Nel corso degli anni, infatti, la body art ha avuto una forte caratterizzazione sociale affiancandosi a movimenti di rivendicazione dei diritti ora femminili, ora di libertà da una dittatura, ora di protesta contro la guerra...

Tra gli esponenti che hanno fatto di questa tendenza la propria unica espressione artistica, ricordiamo Gina Pane, Vito Acconci, Otto Muehl, Marina Abramovich, Hermann Nitsch, Regina Josè Galindo, Rudolf Schwarzkogler .

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La questione interessante rispetto alla body art è che il corpo, lontano dall’essere solo mostrato, viene invece preso di mira, messo alla prova nella sua vulnerabilità, esposto in una sorta di martirio pubblico.

E’ la stessa idea artistica che si fa carne viva, cruenta, spesso dolorante.

Tutto ciò avviene in stretto rapporto col pubblico, con l’altro che osserva: senza lo spettatore l’atto del performer non avrebbe motivo di esistere, non esisterebbe.

E’ infatti l’esposizione pubblica un punto cruciale dell’esperienza artistica della body art.

L’artista è come in un’arena dove l’osservatore decreta il giudizio finale, vivo o morto, salvo o condannato.

L’espiazione personale è messa nelle mani di un altro a cui è consegnato il potere della salvezza.

Si nota però, un costante rapporto di scambio di ruoli, di contraddizioni, il soggetto viene continuamente messo in discussione. L’io creatore diventa io creato, l’io salvato l’io salvatore.

Ci si chiede allora, chi salva chi? Si tratta forse della questione secolare del potere salvifico della bellezza? Siamo qui al cospetto della bellezza? Si può definire bello un corpo martoriato?

Io credo che la bellezza nella

body art sta nell’atto dell’aprirsi all’altro.

Io performer, mi apro a te, faccio mie le tue sofferenze, le tue paure, è attraverso di me che esse vengono superate e sublimate, senza di me rischierebbero di consumarsi senza senso.

Rudolf Schwarzkogler 3 ° Azione 1965, primi anni

1970 stampati

LIPS OF THOMAS, Performance, 2 hours, Krinzinger Gallery, Innbruck, 1975 © Marina Abramovic

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E’ come una terapia in cui attraverso un processo di dolore, disgusto, meraviglia, chi guarda si libera dei propri orrori. L’artista è un tramite tra lo spettatore e qualcosa d’altro che ti salva ( la Bellezza? Dio? l’Arte? ) quell'altro che però è carne, si è fatto carne per salvarci.

La salvezza viene dalla carne.

E dopo? Artista e pubblico sono coinvolti in

una sorta di resurrezione.

Vito Acconci, Marchi (dettaglio), 1970

Potremmo dire che questo processo salvifico che ci ha coinvolto ci apre all’altro, la cui esperienza mette in moto il nostro personale processo creativo atto ad una ripetizione nei secoli dei secoli.

Lucia Lo Cascio

Gina Pane Azione Sentimentale 1973

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Antropologia: Introduzione all'antropologia culturale

Lo studio dell' Antropologia culturale, è lo studio olistico delle varie culture e dell' umanità. Questa disciplina ha infatti promosso lo studio sul campo e lo ha sviluppato come uno studio scientifico. Quindi è quel ramo dell'antropologia che studia le differenze e le somiglianze culturali tra gruppi di umani; è dominata da ricerche Etnografiche e ha avuto il suo maggior sviluppo agli inizi del XX secolo in Europa e Stati Uniti. Molte delle teorie antropologiche si basano sulla considerazione e l'interesse tra l'ambito locale ( cioè le culture particolari e il folklore) e l'ambito globale (cioè la natura umana universale, ovvero la rete di connessioni che unisce le persone di luoghi diversi).

Diciamo che l'antropologia culturale ha vari settori, come tutte le altre discipline; come l'antropologia politica, l'antropologia medica, l'antropologia della parentela, l'antropologia religiosa, l'antropologia applicata e l'antropologia psicologica. Nella rubrica parleremo di

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tantissimi argomenti inerenti all' Antropologia culturale e non solo. L' Antropologia religiosa, è quella parte dell' Antropologia che si occupa dello studio dei vari culti religiosi e quindi delle credenze più o meno espresse e dei dogmi, cioè quelle credenze religiose che non possono essere osservate. La Pratica Religiosa, quindi il rituale , è di particolare interesse per lo studio

antropologico ed è una performance comunitaria con variazioni personali e contestuali più o meno evidenti, ma che si basa comunque su di un'ossatura relativamente stabile e stereotipata di gesti e azioni. Il rituale deve essere trasformativo, deve cioè essere un'azione efficace che induce cioè un cambio di uno status sociale. Si definisce rito qualcosa che non ha effetti trasformativi sulla realtà, si sta semplicemente parlando di un'abitudine, la pratica rituale deve sempre essere costruttiva.

Il rituale deve essere: Formalizzato: avere un grado di ufficialità e essere in un certo grado fissato. Bisogna però tenere presente che non è assolutamente immutabile, l'attore sociale facilmente può operare adattamenti e reinterpretazioni sulla base rituale; Vistoso: il rito deve avere visibilità sociale e può essere solenne; Fondativo: deve dare delle basi per il gruppo umano che lo pratica ed essere trasformativo.

Sono importanti in un culto religioso, tre elementi per

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permettere un sistema di credenza e ritualità: un gruppo umano: persone che creano il proprio ambiente, quindi l'uomo diviene l'oggetto di studio antropologico; un sistema di credenze teologiche (come la Bibbia, il Corano e altre) sono forti convinzioni assunte come determinanti senza bisogno di dimostrare la loro validità;

modi di vestire, cibi che è permesso/vietato mangiare possono essere importanti indici di credenze religiose. Ritornando al discorso di rito, esso può essere definito come una ripetizione di parole, azioni e gesti tutti strutturati per poter essere poi efficaci in una particolare situazione richiesta nel rito stesso: le azioni possono essere rivolte alla danza, al canto, alla preghiera stessa. Senza questa serie di comportamenti il passaggio di stato non può avere luogo come non può avere luogo il contatto con la divinità o la forza chiamata. E' importante che sia fatto tutto nella correttezza totale, poiché la mancanza di un solo elemento richiesto nel rito stesso rischia di invalidarne l' efficacia. Oggi la maggior parte dei giovani hanno difficoltà a farsi catturare dai riti di iniziazione poiché richiedono prove molto particolari alle quali bisogna assoggettarsi. Perciò molti si identificano nella famosa New Age , cioè questa rete culturale dove i diversi comportamenti sono ispirati dall'idea di un passaggio epocale che stiamo vivendo: la riscoperta di valori e di rituali che porta alla vera conoscenza della gnosi e cioè quella fusione con il divino. Spesso ci si chiede come mai sia così importante studiare ancora oggi le modalità dei riti nelle diverse culture, la risposta più plausibile è per una più netta comprensione del passato e del presente dove la tradizione ha la sua forza, nascosta, segreta ma sempre operante.

Chiara Sabatini

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Il Margutta Ristor Arte

Il Margutta Ristor Arte è tra le gallerie di Roma più attive per l’arte contemporanea, dove mostre

di artisti affermati si alternano a quelle di artisti sconosciuti ma sapientemente selezionati.

Tutti una volta entrati nel Ristor Arte, sono avvolti da emozioni inaspettate procurate dalla piacevole

sorpresa di assaporare oltrei il cibo, i colori, le pennellate o le forme dell’arte in tutte le sue

espressioni...

Per contattare la responsabile della sezione Art Gallery potete scrivere a:[email protected]

Il Margutta Ristor Arte

Via margutta, 118 00187 Roma

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Mistero:San Giovanni Battista, l'enigmatico precursore.

Aveva un intero popolo di seguaci, un culto basato sul battesimo e la purificazione, è venerato come uno dei massimi profeti nel Cristianesimo, nell'Islam e in numerose sette gnostiche. Chi era realmente San Giovanni Battista? La domanda non può che sorgere spontanea. Si narra che egli visse nel deserto, e nel deserto troviamo le sue tracce. I Mandei e gli Esseni vissero nello stesso periodo e negli stessi luoghi del Battista e pare che essi lo considerassero molto più che un profeta. In poche parole San Giovanni era per loro un iniziato, qualcuno che era a conoscenza e che custodiva i segreti del Re della Luce. Coloro che conoscevano le dottrine segrete erano chiamati “nasurai” e al pari di San Giovanni Battista anche Gesù era considerato un nasurai. Per quale motivo il Battista è divenuto uno dei punti cardine di certe dottrine esoteriche? Nella vastissima letteratura consultabile sull'argomento, è interessante notare la simmetria che ha con l'altro San Giovanni: l'Evangelista. Uno nato nel solstizio d'estate e l'altro in

quello d'inverno. Uno annuncia l'inizio - l'avvento, l'altro la fine - l'apocalisse. I concetti di inizio e fine possono

riassumere in poche parole la dinamica dei rimandi simbolici che caratterizza i due San Giovanni, a partire dai quali si arriva al simbolo del divino e dell'eterno: la croce con il Cristo che segna lo scarto dall'esistenza umana personificata dal Battista, definito appunto “il più grande degli uomini”. I due San Giovanni racchiudono, delimitano l'esistenza umana lasciando intravedere il divino attraverso la loro simbologia. Alcuni ipotizzano che siano come i due pilastri di un varco; un varco verso un mondo fatto di misteri esoterici. Associazioni segrete, filosofi, mistici e sette di ogni tipo da sempre si sono scervellate nel carpire questo tipo di conoscenze: nella moltitudine, troviamo alcuni tra gli esempi più mirabili nel medioevo. Quando si tratta di occultismo certo non possono mancare i cavalieri Templari e gli Ospitalieri (divenuti poi cavalieri di Malta). Avevano come patrono proprio San Giovanni Battista. Conquistarono Malta intorno al 1530 e fecero ergere in quel luogo la Co-Cattedrale di San Giovanni in Valletta. Al suo interno, dietro l'altare, non venne posta la croce con il Cristo, bensì una scultura raffigurante il battesimo di Gesù. Per non lasciare dubbi sugli intenti esoterici dei cavalieri, nello stesso luogo possiamo trovare La Decollazione del Battista ad opera di Caravaggio. La scena già di per sé crudele sembra rimandare a concetti gnostici forse anche più aspri, che solo l'occhio dell'iniziato può decriptare.

San Giovanni Battista" di Leonardo da Vinci, 1508- 1513, Museo del Louvre a Parigi

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Certamente le vicende riguardanti il Precursore non saranno sfuggite alle logge massoniche che gli hanno dedicato un culto e festeggiano il giorno della sua nascita, il 24 giugno. Il Battista sembra proteggere ancora oggi la Conoscenza segreta, più che mai quando si osserva il San Giovanni di Leonardo. Si è detto di tutto su questa opera, ma in fondo non si può che restare inermi di fronte a quel volto, il volto di chi sa come stanno realmente le cose e che indica con il dito puntato verso l'alto un mondo del quale in realtà non sappiamo quasi nulla.

Matteo Arcuri

LIBERTY. UNO STILE PER L’ITALIA

MODERNA

Dal 01 Febbraio 2014 al 15 Giugno 2014 FORLÌ | FORLÌ-CESENA

LUOGO: Musei San Domenico

CURATORI: Maria Flora Giubilei, Fernando

Mazzocca, Alessandra Tiddia ENTI PROMOTORI: Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì

COSTO DEL BIGLIETTO: ingresso gratuito TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 0543 1912030/031

E-MAIL INFO: [email protected]

SITO UFFICIALE: http://www.cultura.comune.forli.fc.it/

Decollazione del Battista dipinta da Caravaggio nel 1608 (La Valletta, cattedrale di San Giovanni).

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Un cammino di studio e di ricerca di noi stessi e di tutto ciò che ci circonda.

Kaname0 è quella porta che si apre verso una strada lunga e piena di serenità e soddisfazioni.

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Società: Arte e sociale: contraddizioni e potenzialità : T

anni di sesso acclamato

Scegliere cosa mangiare, come vestirsi, come esprimersi, relazionarsi, contribuisce a costruire, esprimere, comunicare, un preciso modello di identità. Il corpo dei giorni nostri deve essere giovane, scattante, sano, profumato e troppe persone ancora credono di essere in grado di controllare qualsiasi segno del tempo che passa, qualsiasi accenno al cedimento muscolare e fisico. Oggi, proprio nelle situazioni più importanti della nostra vita ci viene richiesto di prendere le distanze dalle nostre emozioni. Allo scopo di aiutare ad esprimersi coloro che hanno maggiore difficoltà a farlo, da diverso tempo è stato scoperto il potenziale dell'arte, in particolare del teatro e della danza, applicate a contesti disagiati e di emarginazione quali ospedali, carceri, case-famiglia. Quello che queste discipline si propongono, attraverso l'utilizzo di esercizi specifici ed esperienze che mirano alla libera espressione ed al lavoro di gruppo, è non solo la socializzazione, ma anche una maggiore consapevolezza del proprio corpo e delle proprie emozioni. Si tratta di un teatro e di una danza dove non esistono professionisti, non si parla di giusto o sbagliato, ognuno è libero di trovare il proprio gesto, la propria espressione, dando spazio alla creatività. Studi e ricerche svoltesi sia in Italia che all'estero hanno dimostrato come, partecipare a questo tipo di progetti artistici, abbia influenzato concretamente diversi aspetti del carattere e della relazione interpersonale. A tal fine, nel nostro Paese le difficoltà in cui ci si imbatte sono diverse: la mancanza di finanziamenti, operatori troppo spesso impreparati, uno studio a dir poco approssimativo del progetto che si propone.

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Conoscere il contesto in cui si andrà ad operare, avere un target preciso di riferimento, non sottovalutare il ruolo della valutazione, questi, solo alcuni ingredienti segreti per un progetto che possa durare nel tempo.

Tra terra e cielo: Feldenkrais® e Danzamovimentoterapia

E' proprio grazie ad un'attenta valutazione che si rende possibile non solo toccare con mano la validità del proprio operato, ma anche la continuità nel tempo dello stesso con un'ulteriore possibilità di raggiungere altri traguardi e risultati. Già molte sono le testimonianze di coloro che hanno potuto riscontrare risultati positivi che comprendono non solo un maggior benessere fisico, ma anche effetti sulla propria autostima, maggiore consapevolezza delle proprie capacità e miglioramenti nel rapporto con gli altri. Sebbene la realizzazione di questo tipo di progetti sia sempre più frequente, risultano essere ancora caratterizzati da frammentarietà, episodicità. Una maggiore attenzione alla valutazione potrebbe aiutare ad attirare l’attenzione delle autorità convincendole che investire in progetti artistici e sociali non sia tempo sprecato, sebbene non ci si possa aspettare di raggiungere risultati in tempi relativamente brevi. Operare in questi contesti vuol dire confrontarsi con realtà difficili, avere a che fare con imprevisti, cambi di programma.

Valentina Bellezza

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L'angolo Valente: Qubo Quasi Quadro. Un'operazione di Emiliano Yuri Paolini.

L’idea. Tre sono le fasi in cui si articola la costruzione dell’opera. 1) In un primo momento viene costruita una intelaiatura in legno di forma cubica ( 3m x 3m x 3m ). Su questo scheletro sono tese delle tele bianche che andranno a formare le facce del cubo. Su di una delle facce di tela del cubo è aperta una fessura, un taglio abbastanza ampio da consentire l’entrata a dei bambini; bambini che effettivamente vi entreranno dopo essersi immersi in apposite vasche contenenti diverse vernici colorate – così muovendosi dentro la struttura cubica involontariamente non potranno che “sporcare” di colore le sue facce interne. Affinché tutte le tele, che costituiscono le facce del cubo, siano accessibili ai bambini, in modo che tutte quante possano essere attraversate ed abitate dai bambini, il cubo sarà rovesciato ( messo sottosopra ) in modo tale che anche la parete di tela in alto, diventata base, possa anch’essa essere attraversata e quindi colorata dai bambini. 2) Una volta usciti i bambini dalla struttura, sarà tolta l’intelaiatura in legno che teneva insieme le facce interne del cubo e la grande tela verrà adagiata a terra ( andando a formare una specie di tappeto colorato a forma di croce ) mostrando apertamente ciò che resta della presenza dei bambini che in precedenza hanno abitato il cubo ( cubo che l’artista chiama anche “casa” e “scrigno” ). A questo punto degli adulti ( anch’essi anonimi come anonimi erano i bambini ) saranno invitati a calpestare la tela adagiata a terra così attraversandola in lungo ed in largo. 3) In ultimo la tela così colorata, aperta, attraversata e calpestata sarà appesa ad un ampio muro ( alto almeno una quindicina di metri ) andando a formare una croce. Prima di tutto alcune considerazioni di carattere formale. Un ottimo modo per tentare di “entrare” nell’opera è quello di partire dal titolo che nelle intenzioni dell’artista non ha soltanto un valore di tipo descrittivo; anzi, il titolo con la sua evidente stranezza è già in grado di indicarci la via

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per comprendere l’ardua operazione messa in atto dall’artista. Il titolo in una sua parte ci dice che non stiamo di fronte ad un quadro, bensì ad un Quasi Quadro. Quello che abbiamo davanti non è un semplice quadro se non altro per le dimensioni monumentali ( ricordiamoci che si tratta di una tela alta 12 metri per 9 metri di larghezza ) e poi la sua forma: una croce! Tuttavia questi elementi da noi descritti sono la spia di ben altro. Qui, infatti, è in gioco lo stesso statuto di quello che da un certo momento in poi abbiamo convenuto di chiamare “quadro”. L’artista sta cercando di mettere in questione la natura dell’arte visiva insieme alla sua autonomia. Per comprendere ciò ( per comprendere, cioè, tutto il senso ed il nonsenso dell’operazione artistica tentata da Paolini ) bisogna non dimenticare la funzione di quello che abbiamo chiamato il secondo momento della costruzione dell’opera. Prima di venire appesa in verticale su un muro la tela è distesa a terra in orizzontale. A causa di questo passaggio la tela affissa al muro alla fin fine non può essere considerata in tutto e per tutto un quadro. Ma che cos’è un quadro, cos’è un dipinto? Se è vero che il significato e lo statuto di una determinata forma d’arte va cercato in quei tratti ( i suoi mezzi espressivi) che la distinguono dalle altre in tal modo fondando e costituendo tale forma d’arte nella sua autonomia; allora un quadro, un dipinto per essere tale deve essere costituito e compreso nei suoi tratti essenziali che sono: superficie ( bidimensionalità ); verticalità; linee, forme, colori. Come si può notare questo tipo di approccio mette fuori gioco l’elemento mimetico che ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella comprensione di quell’arte che è la pittura. Isolando questi tratti propri alla pittura e ad essa soltanto fra le arti si passa da un approccio di tipo etero-referenziale ad un approccio di tipo auto-referenziale allo scopo di comprendere lo statuto ( una volta si sarebbe detto “essenza” ) della pittura. Di contro a questa pittura che cerca il suo significato fuori di sé, abbiamo una pittura che trova il suo senso in sé e che, quindi, si scopre autonoma rispetto a quella natura di cui prima era soltanto specchio. La pittura, così ripiegata su se stessa, si svincola sempre più da qualsiasi contenuto per esprimere se stessa nella sua propria purezza; per cui in ultimo essa finisce per ridursi alla esibizione puramente formale, autoreferenziale, vuota di contenuto di quelli che sono i suoi mezzi espressivi. E se è vero che il telos dell’arte pittorica di tutti i tempi è quello di tendere ad esprimere con sempre maggior purezza la pittura in se stessa ovvero la pittura nella sua autonomia formale ( come crede Greenberg ); allora quello che non solo in senso convenzionale si chiama “espressionismo astratto” rappresenta il raggiungimento di quella meta a cui tutta la pittura ha teso nel corso della sua lunga storia. Ora tutto ciò ( e non è poco ) viene messo radicalmente in questione da Emiliano Yuri Paolini, il quale in questo senso può essere ravvicinato a figure di grandi artisti, che prima di lui hanno tentato questa messa in mora del modernismo così come lo ha concepito Greenberg – ci riferiamo, per esempio, a Pollock e Rauschenberg. In Paolini prima che la tela venga appesa ad un muro essa viene distesa a terra ed attraversata. Alla dimensione verticale si sostituisce la dimensione orizzontale; alla superficie-supporto si sostituisce quello che potremmo chiamare un piano da lavoro ( quello che acutamente Leo Steinberg ha chiamato “pianale” ); al riquadro chiuso si sostituisce lo spazio aperto; alle forme e ai colori si sostituisce il gesto; alla contemplazione distaccata si sostituisce un luogo abitabile ed attraversabile; alla frontalità della rappresentazione si sostituiscono le molte vie d’accesso ad un quadro in cui si sta dentro od intorno, non mai di fronte. L’artista con la sua operazione ( mi riferisco a quella che abbiamo chiamato ‘fase 2’ della costruzione dell’opera ) spezza quella presunta continuità – che caratterizza come suo proprio telos ( è la nota tesi di Greenberg1 ) l’intera storia dell’arte pittorica – introducendo un forte

1 Per approfondire tutta questa importante tematica vedi: Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, a cura di G. Di

Giacomo e C. Zamdianchi; con Testi di Fry, Schapiro, Benjamin, Greenberg, Steinberg, Danto, Krauss, Adorno;

Laterza, Roma-Bari, 2008.

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elemento di discontinuità, mettendo in discussione così la presunta autonomia della pittura in tal modo aprendola ad un non più rinviabile dialogo col suo altro. Ciò non significa necessariamente un ritorno dell’arte alla realtà ( sociale, esistenziale … ) dopo il suo spettrale ripiegamento su se stessa che l’ha portata nel vicolo cieco della sua autoreferenzialità. Qui non si sta affermando la necessità di un ( più o meno augurabile ) ritorno all’ordine. Infatti il gesto di Paolini non vuole sostituire ad un’arte autoreferenziale un’arte etero-referenziale, bensì vuole articolare insieme queste ultime così cogliendo nell’opera d’arte stessa la dialettica interna tra l’arte ed il suo altro – anche per questo alla fine l’artista non rinuncia ad affiggere la ‘sua’ tela alla parete. Ora si comprende meglio perché nel titolo si parli di un Quasi Quadro. Ma il titolo recita: Qubo Quasi Quadro – che dire di questo Qubo per giunta scritto in maniera volutamente2 errata? La presenza di questo volontario errore di ortografia (la ‘Q’ al posto della ‘C’) ci deve mettere sull’avviso: forse in quest’opera non si ha a che fare con un solido geometrico che si sviluppa in uno spazio tridimensionale. Infatti questo cubo non è una entità geometrica costruibile nello spazio se non ad una prima apparenza. Più che dispiegarsi nello spazio esso è chiuso su se stesso in modo da andare a costituire una specie di grembo, il quale per questo non può assolutamente essere considerato come uno spazio chiuso costruibile geometricamente e misurabile. Sarebbe, quindi, un errore considerare questo cubo difettato come una figura geometrica – esso nella sua chiusura si prepara ad accogliere come un grembo i bambini che lo abiteranno. Paolini chiama questo grembo: “casa” o anche “scrigno” – è evidente che qui è in gioco un’intimità ed un segreto non misurabili, né rappresentabili ( non solo nello spazio ). Per tale ordine di ragioni sarebbe un errore considerare questo grembo come un semplice cubo. Se parliamo di “grembo” è soprattutto perché esso accoglierà nella sua intimità dei bambini che giocandovi liberamente ed innocentemente lasceranno di sé solo delle tracce colorate. Ciò innanzitutto prima significa che questi bambini non sono né rappresentati, né rappresentabili dall’opera. Abbiamo solo una traccia del loro passaggio. Oggi viviamo in una società dove non ci si fa problemi a rappresentare in tutti i modi possibili quella che si chiama “infanzia” – basti pensare all’uso che dei bambini viene fatto dalla pubblicità! Questa proliferazione di ‘immagini dell’infanzia’ è espressione di una vera e propria bambino-latria che spesso rischia di scivolare in una vera e varia forma di perversione come se la pedofilia fosse solo un’altra faccia ( quella oscura ) di questa oscena esaltazione della bambinità che caratterizza la nostra società dei consumi. Se faccio ex abrupto questo riferimento alla pedofilia è anche perché l’opera qui in questione nasce da una conversazione di Emiliano Yuri Paolini con la sua amica Sabrina Orrico ( anche lei un’artista ) durante la quale ci si interrogava sul come un’opera d’arte potesse – confidando solo sui suoi mezzi espressivi – denunciare in qualche modo la piaga della pedofilia. Ora questa è stata l’occasione che ha portato Paolini ad ideare quest’opera in cui – sia ben chiaro – non c’è nessuna esplicita denuncia o condanna della pedofilia non essendo questo il compito primario di un’opera d’arte ( a questo punto meglio una raccolta di firme o la proposta di una legge in parlamento ). Eppure la pedofilia in qualche modo c’entra perché questa perversione – come dicevamo – è collegata ( come il rovescio col dritto ) a quella che abbiamo chiamato bambino-latria dei nostri tempi, la quale si esprime proprio nella proliferazione progressiva di rappresentazioni dell’infanzia come se l’infanzia fosse direttamente e semplicemente rappresentabile. Infatti in questa perversione, anche se in maniera morbosa, non solo ci facciamo una rappresentazione dell’infanzia, ma ce la facciamo per poi poterla togliere di mezzo e così raggiungere ( concupire e possedere ) quella infanzia la cui sola rappresentazione non

2 Qui è solo il caso di ricordare come in ogni opera d’arte sia in gioco una strana miscela di elementi intenzionali e di

elementi in-intenzionali ( quello che Duchamp chiamava ‘coefficiente estetico’ ) – questione che spesso è in gioco e

sulla quale spesso gioca lo stesso Paolini nelle sue ‘opere’ ( vedi, per esempio: “OPS! – opera per i 150 anni dell’unità

d’Italia” ).

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può bastare alla soddisfazione della nostra perversa pulsione. Di contro Paolini afferma in maniera forte e risoluta proprio la fondamentale irrappresentabilità dell’infanzia. Nella sua opera non troviamo la scandalosa e compiaciuta ( quasi morbosa ) ostentazione dell’infanzia violata che, invece, possiamo ritrovare nei tristemente noti bambini impiccati ad un albero da Maurizio Cattelan in Piazza XXIV Maggio a Milano nel 2004; o che pure ritroviamo nelle shockanti foto di Erik Ravelo che appunto fotografa bambini in croce per la sua ultima campagna di comunicazione sociale in difesa dell’infanzia. Egli fotografa delle croci umane ( rappresentate da quelli che sono gli odierni ‘carnefici di bambini’, i quali nella foto ci danno le spalle ) su cui ogni piccola vittima è crocifissa3. Certo, in quest’opera di Paolini, alla fine c’è l’ostensione di una croce, ma sulla croce non sta crocifisso un bambino! Sia l’istallazione di Cattelan che le fotografie di Ravelo si richiamano al mistero della croce ovvero al mistero dell’innocente crocifisso di cui Gesù Cristo è figura in modo esemplare. Per quanto riguarda Ravelo mi sembra degno di nota il fatto che le sue shockanti foto facciano comunque parte di una campagna pubblicitaria. Questo fatto da solo basta a costituire una ulteriore violazione di quella infanzia la cui violazione si sarebbe voluto denunciare – ambiguità della pubblicità! Per quanto riguarda Maurizio Cattelan, invece, il discorso si fa più serio. I bambini – ovvero i rappresentanti per antonomasia della innocenza ( concezione un po’ stereotipata a cui si richiama l’artista ) – sono tre. Questo particolare ci richiama alla mente la terribile scena del Golgota: su questa altura appena fuori delle mura di Gerusalemme erano crocifissi insieme a Cristo i due ladroni! Eppure non ci possiamo fermare qui se vogliamo cogliere fino in fondo l’appello che c’è dentro la provocazione di Cattelan. Infatti noi tutti siamo stati ( appunto ) bambini e da bambini più o meno tutti hanno letto o si sono sentiti leggere “Le avventure di Pinocchio” di Collodi. Ebbene a un certo punto della storia Pinocchio viene impiccato su di un albero dagli assassini che volevano sottrargli le sue monete d’oro4. Quindi quelli impiccati all’albero da Cattelan non sono bambini, ma burattini come Pinocchio! Allora si tratta di una finzione, ma un po’ speciale, perché è una finzione che dal suo stesso interno si rivela come finzione; e riesce a farlo citando un’altra finzione. Allora il dramma della crocifissione dell’infanzia, dell’innocenza, ci si rivela come qualcosa non di tragico, bensì di tragicomico. Ma, allora,

3 Questo è l’ultimo progetto di E. Ravelo, artista cubano, classe 1978, che da anni collabora con Fabrica, il centro di

ricerca per la comunicazione sociale del gruppo Benetton. Vedi: http://wwwfanpage.it/bambini-crocifissi-foto-shock-

ma-il-fine-giustifica-i-mezzi/. 4 Stiamo facendo riferimento al capitolo XV che recita: “Gli assassini inseguono Pinocchio; e, dopo averlo raggiunto, lo

impiccano a un ramo della Quercia grande”. L’episodio sta a pag. 57 di: Collodi, “Le avventure di Pinocchio – storia di

un burattino”, introduzione di Pietro Citati, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti, Milano, Biblioteca universale

Rizzoli, 1949, quinta edizione 1988.

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dobbiamo necessariamente figurarci che sulla faccia dell’artista, come sulla faccia del cinico e smagato spettatore, si disegni il sottile ed ironico ( se non addirittura sarcastico ) ghigno del nichilista? Non necessariamente. Anzi, il rigore dell’operazione tentata da Cattelan non sta solo e tanto nel fatto di denunciare l’infanzia abusata attraverso l’immagine della innocenza crocifissa; ma sta proprio nel fatto di denunciare nello stesso tempo il carattere di finzione della sua stessa provocazione; quest’ultima è sempre una provocazione che proviene da ed è provocata attraverso una finzione, finzione che nel momento stesso in cui denuncia il male denuncia se stessa per quella finzione che è – e fa ciò non in maniera livida contrapponendo verità a menzogna, bensì rinviando ad una finzione: ovvero rievocando quel racconto d’infanzia che sono “Le avventure di Pinocchio” scritte da Collodi. Quindi abbiamo due denunce che si attraversano reciprocamente e non possono stare l’una senza l’altra: la denuncia della infanzia violata, della innocenza crocifissa; e la denuncia della finzione ( l’opera dell’artista ) come finzione. È questo il momento in cui cominciamo a capire che il contrario di ‘finzione’ non è ‘verità’, bensì menzogna (come amava dire Picasso). Allora l’ultima parola che provoca questa istallazione di Cattelan non è lasciata a Ivan Karamazov, colui che di fronte allo scandalo della sofferenza inutile decide di restituire il suo biglietto di ingresso in paradiso5. In Cattelan, infatti, l’infanzia non è solo quella crocifissa, ma è anche quella dei racconti d’infanzia, è anche l’innocenza dei ragazzi che per gioco inventano mille peripezie; è l’infanzia scapestrata di Pinocchio che non termina le sue avventure impiccato su una quercia; anzi, quello è solo un episodio. Tutto questo significa anche che, se l’infanzia non può e non deve essere rappresentata; può benissimo, anzi, deve essere raccontata. Ora Paolini tiene fermo ( in modo molto più risoluto di Cattelan che, anzi, ad una prima impressione sembra fare proprio l’opposto ) a quella che abbiamo chiamato irrappresentabilità dell’infanzia – essa, cioè la nostra infanzia, può solo esserci stata raccontata. Infatti, al tempo (immemorabile) della ‘nostra’ ( e quindi anche ‘non nostra’ ) infanzia non c’eravamo propriamente parlando6 come soggetti adulti dotati del nostro apparato di facoltà ampiamente sviluppato ed esercitato e quindi capaci per questo di farci delle rappresentazioni … anche della ‘nostra’ infanzia. Per questo la ‘nostra’ infanzia non può essere da noi rappresentata a noi stessi; può solo esserci raccontata. Noi non abbiamo un accesso diretto alla nostra infanzia per cui non ce la possiamo mettere di fronte così distanziandocene per poi poterla descrivere nei suoi tratti. Ecco perché l’infanzia non solo non può, ma anche non deve essere ridotta a rappresentazione. Essa è l’irrappresentabile stesso: ma non nel senso di un oltre o di un al di là della rappresentazione; anzi, l’infanzia è la carne stessa della rappresentazione – è per questo che la rappresentazione non può rappresentarla anche se … anche se ne possiamo rinvenire le tracce e con ciò testimoniare di questo qualcosa di irrappresentabile colto proprio nella sua irrappresentabilità – non solo la nostra infanzia, ma addirittura l’infanzia della rappresentazione! Non stupisca questo ulteriore rovesciamento: Infatti l’operazione tentata da Paolini è un tentativo di recuperare e farci sentire la rappresentazione nella sua infanzia, nel suo nascere. Naturalmente non si tratta soltanto di ricostruire quei processi psicologici e fisiologici per cui si genera nella immaginazione ( nostra come dell’artista ) da una concretissima immagine, ricca di determinazioni e di aspetti anche confusi, una rappresentazione ( non solo artistica ) più chiara e precisa. Eppure una tale immagine nella sua pienezza di determinazioni, concreta, ricca di aspetti, flagrante è veramente la rappresentazione allo statu nascendi. Questa immagine così sorgiva ( per questo aperta, slabbrata e molto indeterminata anche se nel senso della pienezza ) veramente è 5 Stiamo naturalmente facendo riferimento al celebre episodio intitolato “Ribellione” che nel romanzo di Dostoevskij, “I

fratelli Karamazov”, subito precede la celebre “La leggenda del grande inquisitore” raccontata sempre da Ivan al

fratello Alioscia. 6 A tal proposito Jakobson scrive: «Ciò risulta in modo evidente nei preamboli delle fiabe di vari popoli: tale è, per

esempio, l’esordio abituale dei narratori maiorchini ‘Era e non era’», in R.O. Jakobson, Linguistica e poetica, in Saggi

di linguistica generale, Milano, 1996, pp. 181-218.

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l’infanzia di quella che alla fine del processo-procedimento artistico ( che è anche un processo-procedimento linguistico ) sarà la rappresentazione compiuta. Proprio per questo tale immagine – almeno per quanto riguarda il nostro discorso che verte sull’arte – non può essere considerata alla stregua di uno stato mentale rilevabile, misurabile e descrivibile quantitativamente da una qualsivoglia psicologia empirica o sperimentale. Questa immagine concreta (e proprio per questo indeterminata) non è qualcosa che deve essere gettato via una volta che l’artista nel suo operare (non in tutto e per tutto retto da una qualche specie di intenzionalità) sia giunto ad elaborare una rappresentazione conchiusa e perfetta tutta raccolta nella sua assolutezza e compiutezza formale. Anzi, i grandi artisti – basti qui citare il nome di Paul Klee – hanno proprio tentato di regredire dalla rappresentazione alla sua infanzia facendoci sentire ( senza rappresentare se non portando la rappresentazione ai suoi limiti ) l’origine e la provenienza da cui la rappresentazione (eminentemente quella) artistica proviene, origina, scaturisce. Questa è ciò che Klee chiamava “fertilità” dell’opera. Le grandi opere d’arte di questo tipo ( o meglio: che mettono in opera e ci fanno sentire questa infanzia della rappresentazione ) più che rappresentare questo o quello, rendono visibile ( ancora una volta Klee ) questa sorgività. Non rappresentano solo un albero, ma insieme all’albero cercano di risalire alle radici che a rigore rappresentabili non sono. Una tale arte, l’arte che ci fa sentire l’infanzia della rappresentazione o la rappresentazione nella sua infanzia acquista con ciò un carattere epifanico. Il riferimento alla festa della Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo non è casuale; anzi, questa icona del Nuovo Testamento spesso viene ripresa da Paolini come immagine che ben esprime il carattere di dono che ha l’opera d’arte così come lui la concepisce ( si tratta di un doppio dono: dono di Gesù all’umanità e dono dell’umanità a Gesù espresso dalla figura dei Re Magi ). Tuttavia, se torniamo all’operazione messa in atto da Paolini, la prima cosa che ci colpisce è che la gigantesca ( quasi monumentale ) tela appesa al muro è una croce. Ora la croce non è propriamente una epifania; forse la potremmo definire una epifania rovesciata. Il Cristo salendo sulla croce si ri-vela come il vero Dio proprio per il fatto stesso di non essere stato riconosciuto come Dio. Il non riconoscimento del crocifisso come Dio è indispensabile perché l’uomo ( pur ) davanti a Dio si possa a lui rapportare in modo libero. Quindi a proposito della croce non possiamo a rigore parlare di epifania7. Non v’è una dazione di senso; davanti alla croce non assistiamo ad una manifestazione di senso come all’epifania; si assiste, invece, ad una sottrazione di senso tanto radicale che il corpo del Cristo crocifisso non è nemmeno rappresentato nel Quasi Quadro che conclude l’opera. Abbiamo soltanto la rappresentazione di una croce spoglia, nuda, vuota – sporcata solo da alcune macchie di colore dove ancora sono riconoscibili le impronte dei piedi che l’hanno calpestata. Altro che epifania del divino! Eppure proprio tale croce è il vessillo della vittoria: la vittoria sul sacro, la vittoria sul potere numinoso del mito. E questa vittoria si verifica perché a salire sulla croce è stato non un peccatore, ma l’innocente. Per questo l’innocente non è rappresentato appeso alla croce a differenza di quanto accade nell’istallazione di Maurizio Cattelan o nelle foto shockanti di Erik Ravelo – ecco un altro modo di ri-velare l’innocenza e il suo dramma tenendo ferma, però, la sua doverosa irrappresentabilità8. Allora sotto la croce non siamo più gli spettatori di una epifania; bensì siamo testimoni di un’assenza pure massimamente presente: la croce è spoglia. «Ciò che resta – dice Hölderlin – lo fondano i poeti». Ecco un ulteriore aspetto di questa operazione. Non possiamo fare a meno di sottolineare il carattere insieme scatologico ed escatologico di ciò che resta: una croce spoglia, una croce sporca. Le ultime cose in tutta la loro povertà? Non solo. Cerchiamo in ultimo di 7 Anche se la croce a cui era destinato il bambino Gesù era pur indicata in maniera simbolica dal sacchetto di mirra

ricevuto in dono dai Re Magi, che è un unguento usato in oriente per imbalsamare i defunti. 8 Infatti è proprio colui che vuole farsi rappresentazioni dell’innocenza che tale innocenza perde proprio nel momento in

cui pur crede di essere riuscito a rappresentarsela.

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approfondire il senso scatologico di questo Qubo quasi Quadro visto che del suo significato escatologico qualcosa abbiamo detto – infatti è la croce di Cristo ad inaugurare gli ultimi tempi. Si è detto che i bambini variamente colorati “sporcano” la tela ed è anche palese che la tela così sporcata di colore dai bambini viene aperta, calpestata e alla fine ostesa davanti a tutti. Basta ciò per capire che questa tela somiglia molto ad un grande pannolino per bambini. Essa viene aperta così che si possa vedere il prodotto ( le feci del bambino ). Questo enorme pannolino sporco viene poi calpestato. Tale gesto solo all’apparenza può far pensare ad un rifiuto, ad una negazione delle feci come se la merda fosse il simbolo stesso di ciò che è umanamente inaccettabile9. Al contrario qui la merda non è tabuizzata, non è brutta e cattiva, non è “sporca” – qui al limite ci si può giocare, essa può essere attraversata e diventare addirittura un utile elemento con cui farci qualcosa. La nostra ipotesi è confermata dalla ostensione della tela-pannolino. Come il bimbo che appena fatta la cacca corre fiero da sua madre per consegnarle il suo

speciale dono: ‘Mamma, guarda cosa ho fatto!’. Davanti a questa tela sporca e calpestata proviamo prima un vissuto di vergogna10, la vergogna di essere uomini. Ma insieme e nello stesso tempo riconosciamo in questa tela ostesa11 un paradossale dono: un dono che si è donato a tal punto da essere abbandonato totalmente, a tal punto da abbandonarsi totalmente. È davanti a questo dono abbandonato che la croce ridiventa per noi segno certo di speranza.

Stefano Valente

9 Così è, ad esempio, per Milan Kundera nel suo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” ( edizioni Adelphi, Milano,

1984 ) – lì Kundera considera il Kitsch come ciò che elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza

umana è essenzialmente inaccettabile. «Il Kitsch è la negazione assoluta della merda». 10 In psicoanalisi di solito il vissuto di ‘vergogna’ è collegato più propriamente alla fase anale a differenza del vissuto di

‘senso di colpa’ che è invece collegato più direttamente a quelle che sono le dinamiche di castrazione. Naturalmente

questa è una differenza di principio e non necessariamente di fatto. 11 Il richiamo alla sacra sindone qui può essere solo sottaciuto, ma meriterebbe comunque di essere sviluppato.

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Cinema: Tridimensione, realtà o cecità?

Il cinema sin dal principio si è sempre riproposto di stupire il pubblico proponendo nel corso degli anni una serie di storie con effetti speciali di qualsivoglia genere e tipo, sino ad arrivare ai giorni nostri con l’utilizzo del 3D ovvero una particolare tecnica di ripresa cinematografica che permette di “vivere” più intensamente il film avvertendo, attraverso l’ausilio di occhiali speciali, le immagini più in rilievo e quindi sentite in modo più reale dagli spettatori. Il cinema tridimensionale può sembrare una novità degli ultimi tempi , infatti possiamo dire che dopo “Avatar”, (uno degli ultimi film memorabili di James Cameron uscito nel 2009) questo

fenomeno si è affermato così tanto che si è espanso anche nel mondo della televisione e dei videogiochi, ma in realtà non è cosi il 3D esisteva già da molti anni.

La storia fonda le sue radici negli anni’20, più precisamente il 27 Settembre 1922, dove a Los Angeles venne proiettato “The power of love” il primo film tridimensionale a pagamento, il quale venne realizzato con tecniche anaglifiche, che rispetto ad oggi e alle nostre tecniche moderne, non davano tanto l’idea di “fuoriuscita” dallo schermo ma più che altro di profondità. Nel 1933,anche un progenitore del cinema come Louis

Lumiere sperimentò il 3D con la versione remake del suo celebre film del 1895 ovvero “L’arrivée

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du train”. In Italia abbiamo i primi squarci di modernità solo nel 1936 con “Nozze Vagabonde” una commedia diretta da Guido Brignone e distribuita dalla Worner Bros Italiana, che racconta di una serie di sfortunati eventi di due giovani sposini e della loro conseguente crisi coniugale, film che però si suppone non sia stato mai presentato in una proiezione pubblica. Solo dopo nel 1953( età dell’oro di questa innovativa tecnica) venne proiettato in 3D e in tutte le sale “Il più comico spettacolo del mondo” un film con Totò che riscosse un discreto successo. Nel resto del mondo, sempre negli anni’50, il tridimensionale protese

di più sul genere horror e qui ricordiamo alcuni celeberrimi film come “La maschera di cera” di Handré De Toth o “Il mostro della laguna nera” di Jack Arnold. Fra gli anni Settanta e Ottanta si faranno molti altri passi in avanti e la tecnologia migliorerà a vista d’occhio (in tutti i sensi)e anche qui ricordiamo film indimenticabili come “Lo squalo, o Nightmare 6 la fine” e lo stupore originario lascerà spazio fino ai nostri giorni ad una semplice e banale celebrazione consumistica dell’effetto fine a se stesso. E come ogni bella moneta anche le innovazioni hanno un'altra facciata, infatti i problemi di fondo legati a questo fenomeno sono altri: “Tutto questo consumismo a dove condurrà? Ad essere sempre più schiavi di questi “apparecchi virtuali”? Alla scomparsa dell’emozioni e della semplicità per far posto alla standardizzazione e al lusso? O semplicemente alla rovina della nostra salute, stando ore e ore davanti a uno schermo distogliendo l’attenzione da un mondo da vivere ricco di bellezze?” A che punto arriveremo non possiamo saperlo per certo, ma come disse Rino Gaetano (uno dei cantautori più stimati del nostro paese) “chi vivrà vedrà”!

Sara Donfrancesco

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La mostra: La ragazza con l'orecchino di perla. Il mito della golden Age. Da Vermeer a Rembrant

Dal 08 Febbraio 2014 al 25 Maggio 2014 BOLOGNA LUOGO: Palazzo Fava - Palazzo delle Esposizioni CURATORI: Marco Goldin, Emilie E.S. Gordenker, Quentin Buvelot, Ariane van Suchtelen, Lea van der Vinde ENTI PROMOTORI: Fondazione CarisboGenus Bononiae TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 051 19936317 E-MAIL INFO: [email protected] SITO UFFICIALE: http://www.genusbononiae.it/index.php?pag=300 La ragazza con l’orecchino di perla, con la Gioconda di Leonardo e L’urlo di Munch, è unanimemente riconosciuta come una delle tre opere d’arte più note, amate e riprodotte al mondo. Per un pugno di settimane, ed esattamente dall’8 febbraio al 25 maggio 2014, il capolavoro di Vermeer sarà in Italia, a Bologna, accolta con tutti gli onori del caso a Palazzo Fava. Sarà la star indiscussa di una raffinatissima mostra sulla Golden Age della pittura olandese, curata da Marco Goldin e tra gli altri da Emilie Gordenker, direttrice del Mauritshuis Museum de L’Aja dove il capolavoro di Vermeer è conservato. L’occasione storica di ammirare in Italia e gli altri celeberrimi dipinti olandesi nasce dalla collaborazione tra Fondazione Carisbo, e per essa il suo presidente professor Fabio Roversi-Monaco, e Marco Goldin, storico dell’arte e amministratore unico di Linea d’ombra. La ragazza con l’orecchino di perla evoca bellezza e mistero e il suo volto da cinque secoli continua a stregare coloro che hanno l’emozione di poterlo ammirare dal vero o scoprirlo attraverso i

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romanzi e il film di cui la bellissima ragazza dal copricapo color del cielo è diventata, forse suo malgrado, protagonista. Il suo arrivo in Italia è il frutto straordinario di una trattativa durata un paio di anni, a partire dal momento in cui il Mauritshuis – scrigno di opere somme da Vermeer fino a Rembrandt – è stato chiuso per importanti lavori di restauro e ampliamento, che ne vedranno la riapertura al principio dell’estate 2014.

Nel frattempo, una parte delle collezioni del Museo è stato riallestita presso il

Gemeentemuseum, sempre a L’Aja, mentre un nucleo, forse il più strepitoso, è stato concesso ad alcune sedi internazionali in Giappone (a Tokyo e Kobe) e negli Stati Uniti: il Fine Arts Museum di San Francisco, l’High Museum of Art di Atlanta e la Frick Collection di New York, ovvero a istituzioni di assoluto prestigio mondiale. Come unica sede europea, e ultima prima del definitivo ritorno de La ragazza con l’orecchino di perla al suo Museo rinnovato, la scelta è caduta su Bologna e su Palazzo Fava. La ragazza con l’orecchino di perla “Sarà l’unica occasione per ammirarla in Europa al di fuori della sua sede storica da dove, conclusa la mostra bolognese, probabilmente non uscirà mai più, essendo l’opera simbolo del museo riaperto”, afferma il Presidente della Fondazione Carisbo, Fabio Roversi-Monaco. “Annunciamo con tanto anticipo questo evento proprio per la sua eccezionalità, e perché tutti coloro che giungeranno a Bologna per la visita possano prepararsi per tempo. Ciò che accadrà tra poco meno di un anno resterà una cosa senza eguali e non più ripetibile – afferma Marco Goldin. Non serve che dica con quanto orgoglio Linea d’ombra sta lavorando su questo progetto, ringraziando sia il Mauritshuis per la fiducia nei nostri confronti sia la Fondazione Carisbo per tutto l’appoggio e la collaborazione. E quanto sentiamo la responsabilità di portare in Italia un tale capolavoro”. Capolavoro che non sarà solo. A Bologna sarà infatti accompagnato da una quarantina di altre opere dello stesso Museo, sempre di qualità

Rembrandt van Rijn, Canto di lode di Simeone, 1631 olio su tavola, cm 60,9 x 47,9. © L’Aia, Gabinetto reale di pitture Mauritshuis

an Steen, Ragazza che mangia ostriche, 1658-1660 circa, olio su tavola (arrotondata in cima), cm 20,5 x 14,5. L’Aia, Gabinetto reale di pitture Mauritshuis dono di Sir Henri W.A. Deterding, Londra, 1936.

© L’Aia, Gabinetto reale di pitture Mauritshuis

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eccelsa, scelte appositamente per la sede bolognese e quindi in parte diverse da quelle già esposte in Giappone e ora negli States. La ragazza con l’orecchino di perla non sarà l’unico capolavoro di Vermeer in mostra. Ad affiancarla ci sarà Diana e le sue ninfe, grande olio del Maestro. E ancora, ben 4 Rembrandt e poi Frans Hals, Ter Borch, Claesz, Van Goyen, Van Honthorst, Hobbema, Van Ruisdael, Steen, ovvero tutti i massimi protagonisti della Golden Age dell’arte olandese.

Pieter de Hooch, Uomo che fuma e donna che beve in un cortile, 1658-1660 circa, olio su tela, cm 78 x 65. L’Aia, Gabinetto reale di pitture Mauritshuis dono di Mr e Mrs Ten Cate-van Wulfften Palthe, Almelo, 1947. © L’Aia,

Gabinetto reale di pitture Mauritshuis

Accanto a questa mostra, la Fondazione Carisbo e Genus Bononiae proporranno anche Attorno a Vermeer, omaggio tributato da una quindicina di grandi artisti italiani contemporanei, da Guccione a Sarnari, da Olivieri a Verna, scelti da Marco Goldin per il senso della loro adesione all’intima idea specialmente del medium luminoso vermeeriano, senza distinzione tra figurativo e astratto. Il binomio antico-contemporaneo è, del resto, una precisa cifra stilistica del critico veneto, riaffermata in modi diverse e originali in concomitanza di molte delle sue mostre.?“L’obbiettivo della Fondazione Carisbo” precisa il Presidente Roversi Monaco “è di cogliere questa magnifica occasione per rilanciare Bologna, come del resto è avvenuto per Genus Bononiae, con grande successo, sia per il numero delle presenze, sia per la soddisfazione dei visitatori, nel corso del 2012, a partire dall’inaugurazione nel mese di gennaio alla presenza del Presidente della Repubblica.”

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