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IL CANTO DELL’ANIMA. Parlare del canto è quasi una contraddizione perché il canto vive proprio là dove le parole sacrificano una parte di loro, quella legata al predominio del significato rispetto al suono vocale che ne è il veicolo. Ma cercare di parlare del canto, è un dovere ed una sfida. Un dovere nei suoi confronti perchè il canto, vissuto come gesto espressivo dell’anima, è una bellissima occasione di profondità, comunione e libertà che viene valorizzata ancora molto poco. E scrivere del canto è una sfida perché, per non offenderne la libertà originaria, si può solo cercare, con molta cura, di trovare parole che non disturbino la sua essenza. Le seguenti riflessioni sul rapporto canto e anima nascono dall’immenso amore che ho per la voce ed il profondo mistero che essa suggerisce. Questa passione mi ha portato ad incontrare un’infinità di corpi-cantanti di diverse e in diverse parti del mondo, corpi che ho osservato e ascoltato attentamente mentre si esprimevano. Ho così indagato il rapporto esistente fra vibrazione vocale e postura fisica del cantore, la relazione con l’immaginario collettivo della cultura d’appartenenza, l’ambiente geografico dove i canti sono nati e la frequenza timbrica della voce del cantore. Ho dedicato la mia vita alla pratica dei canti di differenti etnie, condividendoli oltre che con i tanti cantori di diverse culture, con le migliaia di voci che ho incontrato durante i seminari che conduco dedicati alla voce e al canto. Ogniqualvolta si sia generata una profonda connessione con l’intimità del sentire tramite il canto - dall’India al Tibet, dal Burkina Fasu all’Iran, dalla Corsica all’Italia - l’umore, lo spirito, l’anima, il corpo ne sono stati appagati, vivificati. Quando con i bambini, con le donne dei villaggi, con le comunità urbane dei quartieri si sono create coralità festanti, l’anima collettiva ha vissuto profonda immanente gioia..

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IL CANTO DELL’ANIMA. Parlare del canto è quasi una contraddizione perché il canto vive proprio là dove le parole sacrificano una parte di loro, quella legata al predominio del significato rispetto al suono vocale che ne è il veicolo. Ma cercare di parlare del canto, è un dovere ed una sfida. Un dovere nei suoi confronti perchè il canto, vissuto come gesto espressivo dell’anima, è una bellissima occasione di profondità, comunione e libertà che viene valorizzata ancora molto poco. E scrivere del canto è una sfida perché, per non offenderne la libertà originaria, si può solo cercare, con molta cura, di trovare parole che non disturbino la sua essenza. Le seguenti riflessioni sul rapporto canto e anima nascono dall’immenso amore che ho per la voce ed il profondo mistero che essa suggerisce. Questa passione mi ha portato ad incontrare un’infinità di corpi-cantanti di diverse e in diverse parti del mondo, corpi che ho osservato e ascoltato attentamente mentre si esprimevano. Ho così indagato il rapporto esistente fra vibrazione vocale e postura fisica del cantore, la relazione con l’immaginario collettivo della cultura d’appartenenza, l’ambiente geografico dove i canti sono nati e la frequenza timbrica della voce del cantore. Ho dedicato la mia vita alla pratica dei canti di differenti etnie, condividendoli oltre che con i tanti cantori di diverse culture, con le migliaia di voci che ho incontrato durante i seminari che conduco dedicati alla voce e al canto. Ogniqualvolta si sia generata una profonda connessione con l’intimità del sentire tramite il canto - dall’India al Tibet, dal Burkina Fasu all’Iran, dalla Corsica all’Italia - l’umore, lo spirito, l’anima, il corpo ne sono stati appagati, vivificati. Quando con i bambini, con le donne dei villaggi, con le comunità urbane dei quartieri si sono create coralità festanti, l’anima collettiva ha vissuto profonda immanente gioia..

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Dentro le chiese, nei teatri, nelle scuole, durante le cerimonie, i funerali, i riti d’iniziazione, i luoghi reali e simbolici della nostra socialità, ovunque il canto penetri con discrezione vitale, si genera un afflato comune portatore di autenticità e anche se l’emozione veicolata è intimamente legata al dolore, la comunità che lo condivide contiene e rispetta il sentimento generando cor-alità profonda, dentro al cuore, dove intimità e immensità sono congiunte nella loro bellezza e nel loro mistero. Le parole che seguono sono dunque il frutto di una ricerca estremamente legata all’esperienza diretta, fatta di ascolto continuo, il più possibile rispettoso e amante, una ricerca che ha indagato l’istinto vitale ed emotivo che si veicola tramite la vibrazione vocale al di là della conoscenza di uno specifico linguaggio musicale. In questo contesto vorrei raccontare del canto inteso come una realtà incarnata in cui possono incontrarsi anima e corpo come due dimensioni profondamente unite: mondi concentrici quando siamo con-centrati. E’ chiaro che possono esserci tante forme di pratica del canto benefiche per l’anima, anche senza che se ne sia necessariamente consapevoli. Ma è proprio di questa consapevolezza che nasce con il canto che vorrei scrivere, di una dimensione profonda che può accompagnarci nella vita, diventando la vita stessa. Conoscere il canto dell’anima è con-nascere insieme all’anima. Cercherò dunque di scrivere del canto come se cantassi, con sentimento grato, fra metafore filosofiche e racconti sulla sua natura sottilmente fisica. Mi auguro di poter comunicare un linguaggio poetico del corpo che sia capace di aprire, anche a chi non ha vissuto esperienze dirette, degli spiragli sulla vita della voce.

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La dimora interna Il canto può aiutare a costruire nel cuore dell’uomo un’abitazione gioiosa. Per essere incarnato, per essere autentico, il canto deve possedere dimora e radici. Perché tutto ciò accada è necessario preparare il corpo, il nostro strumento, a disporsi nel modo più perfetto affinché l’anima si dispieghi, affinché coincidano il nostro sentimento interiore e ciò che vibra nell’intimità di chi, ascoltandoci, riceve la nostra emozione. Conoscere bene il “corpo della voce” evita che si crei quella frattura, quella desolante separazione fra dentro e fuori, che normalmente e troppo di frequente si vive fra il nostro desiderio di comunicare un’emozione e ciò che l’altro percepisce di noi. Ma bisogna credere nel canto perché il canto sia vivo. Se il suo veicolo è la voce la sua fonte è la fede. Semplice, profonda fede in ciò che si sta vivendo. Altrimenti si tratta solo di una forma ben espressa, di estetica formale e non di vibrazione che genera e rigenera. La pratica del canto ci porta dal fare all’essere. Si è ciò che si canta. Si è innanzitutto. Per preparare la dimora del canto è necessario percepire il proprio corpo interno come luogo di ospitalità per poi lasciarsi abitare dalla voce, lasciarsi sorprendere e addirittura trasformare da lei. Ed è la voce stessa che ci aiuta a tracciare i confini interni di questo luogo, illuminandoli. La voce infatti è capace di esplorare con precisione la magnifica struttura ossea del corpo umano. La vibrazione vocale riverbera “appoggiandosi” ad una parte del confine osseo e questa nostra casa-tempio comincia a risuonare, diventa vibrante. Tutto ciò è possibile solo attraverso la totale collaborazione e gestione equilibrata dei compiti della comunità corporea: il diaframma che lascia scorrere l’onda del respiro, le corde vocali che modulano l’emissione dell’aria, la gola che fa da canale fra lo spazio ampio della cassa toracica e il mondo ricco di anfratti della testa, la lingua e il palato che giocano fra di loro le mille sfumature del suono... E la dimora del canto diventa un luogo dove ci si sente a casa, dove si può essere se stessi.

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La pelle, soglia elastica forte e delicata, proteggente e feribile, è membrana viva che sottilmente limita ed avvolge la struttura del corpo che risuona potentemente: dimora familiare e dimora divina, l’anima partecipa del calore dell’intimità e dell’elevazione spirituale che si nutrono dello stesso buio. E’ l’oscurità interna al corpo che permette alla luce della voce di risplendere, suggerendo la configurazione del proprio intimo spazio che si lascia intuire senza che chi ascolta debba sforzarsi di capire. L’anima pone nell’oscurità il suo nascondiglio. La voce lo illumina. Il silenzio del canto Il canto libera il silenzio dall’occupazione della mente. Ascoltare il suono della parola viva è veramente raro, il legame con l’autenticità delle vibrazioni è spezzato, ma il canto aiuta a ritrovare questa vitalità profonda depurando l’anima da un certo potere mentale che troppo spesso soggioga la libertà e fluidità dell’esperienza autenticamente comunicativa. Se il corpo umano è uno strumento vibratorio trascurato o danneggiato, la pratica del canto può ristabilirne la sua vitalità originaria. Inizialmente, attraverso la pratica, il solo fatto di dover ri-assegnare il giusto compito ad ogni parte del corpo-strumento per permettere al suono di essere libero, richiede talmente tanta attenzione che non c’è spazio per la mente discorsiva. Si tratta di porre attenzione al gesto del diaframma: è lui che sostiene il soffio, il respiro, i muscoli della gola non devono occuparsi di ciò sforzandosi inutilmente. Le corde vocali hanno la libertà di lasciarsi vibrare senza spinte inutili e la struttura ossea risuona. Liberarsi dalla confusione dei compiti organici interni è rendere nuovamente semplice un sistema che può sembrare complicatissimo se ci si riflette troppo. E liberarsi dalle inutili fatiche che il corpo ha assunto come abitudine rende consapevoli che è possibile essere creativi ed esprimersi senza alcuna fatica con una sensazione di istintiva semplicità assolutamente sorprendente.

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Così, la ritrovata dimensione del soffio, del suono e della postura può ristabilire il legame spontaneo tra corpo e anima, e la padronanza della mente è ridimensionata da quella del respiro e della vibrazione. Il canto ci libera dunque da quell’aspetto della mente che giudica e ci giudica, che commenta e chiacchiera e che occupa il nostro silenzio sacro, il nostro spazio sacro. In questo spazio-silenzio interiore il canto danza laddove le parole non possono farlo. Riscoprire la vibrazione interna alla parola può essere una pratica successiva. Perfezionare la bellezza del gesto del canto attraverso canzoni, intrecci polifonici o improvvisazioni, ha un’efficacia che non ha a che fare con l’estetica di una forma ma con l’equilibrio e l’integrazione di diversi aspetti della creatività. Un equilibrio armonico che unisce comunicazione emotiva, ascolto profondo e senso di libertà. Si tratta perciò di non porre ostacoli superflui, fisici e mentali, che facciano attrito alla natura profonda del canto: essere un dono libero dell’anima… E affinché la vibrazione del suono vocale sia profondamente autentica -cioè capace di nutrire l’anima da cui il canto stesso è generato- è necessario conoscere il valore vitale del silenzio. Poiché il canto è il sacrificio del silenzio, ciò che risuona dopo un’intensa pratica del canto è un nuovo silenzio vivo che ha un grande potere di rigenerazione. Un silenzio che non è arido o disanimato ma fertile e pieno di pace. Essere capaci di ascoltare quest’eco e gli effetti che ha sul corpo è ascoltare la vita che scorre. Se la mente rimane quieta come quando poco prima cantava, se quella condizione serena permane, di non giudizio, di non imbarazzo, se si riesce a sostenere la bellezza dell’essere senza fare, si può vivere quello stato di grazia che, senza assunzione di religione o di stupefacenti, diventa stupefacente e relige (collega) l’anima.

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L’anima della voce è il suo timbro Il canto è stato sempre la ricchezza della gente semplice. I canti di tradizione costituiscono un vibrante e preciso terreno sul quale è fiorita l’anima di un popolo, di una comunità. Attraverso la conoscenza dei canti di tradizione è possibile cogliere lo spirito, la personalità del “genius loci” del luogo-cultura in cui sono stati creati. Ogni cultura fa risuonare, tramite i canti della propria tradizione, alcune specifiche parti del corpo e non altre. La parte della struttura ossea sulla quale si concentra la vibrazione genera un timbro vocale molto peculiare, caratteristico di quella cultura. E ogni forma autentica di canto è perfetta in sé, ha la sua verità. Le verità del canto sono tante e ci liberano da quell’unica idea di Verità che può creare conflitti anche fra le diverse opinioni pedagogiche sulla dimensione del canto. Come non sentire perfetto il canto di gola puro e potente di un cantore tibetano piuttosto che altrettanto vero il grido travagliato del cante jondo dei gitani andalusi o la voce piena di grazia e mistero dei cantori di Raga indiani…? Le comunità hanno, da sempre, veicolato tramite il canto diverse emozioni, celebrando i passaggi della vita, integrando il canto nella fatica del lavoro…. Nell’epoca attuale, dove i canti di tradizione non sono più veicolo di trasmissione da generazione a generazione dell’anima musicale (e non solo musicale) di una cultura, le radici dei canti sono state tagliate. Tagliare queste radici non deve essere, necessariamente, tagliare con dei pezzi del proprio corpo e della propria anima, ma è necessario trasformare questo taglio in uno sguardo nuovo che non disperda quel contatto interiore con il proprio corpo che il canto consente da sempre. All’interno di questa forte mutazione antropologica, laddove famiglia, cultura e società sono confini labili, da cui ci si è allontanati per necessità o perché vissuti come “ristretti”, diventa ancor più importante poggiare sui propri confini interni in modo fiducioso, senza chiusura ma con cura consapevole.

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Non avere un “luogo” è un dramma. Un luogo in cui non ci si senta inadeguati, né chiusi. Quanti luoghi sfiduciati si sono creati uno dentro l’altro, si sono creati? Almeno avere il proprio luogo nel corpo, nel suo respiro, soffio, anima. La pratica del canto ci consente di sentire questi confini e di mantenerne la natura fluida, non rigida, non dispersa. Esplorare in questo modo il corpo, tramite la voce, aiuta a percepire con chiarezza il primo luogo personale dove è importante riuscire a “stare”: dentro se stessi. Ma attualmente, torno a sottolinearlo, il terreno del canto autentico, di tradizione, è profondamente minacciato, come una sorta di disastro ecologico o di genocidio culturale. La gioia della condivisione spontanea tramite il canto si va via via perdendo. L'anima del canto e la grande possibilità che il canto offre all'anima stanno completamente scomparendo a causa soprattutto dallo svuotamento di senso causato dal consumismo sia a livello di materia che di sentimento. La perdita della trasmissione e condivisione di quei canti capaci di veicolare emozioni appartenenti ad un immaginario collettivo è un danno grave perchè priva l'umanità di una dimensione di comunione, laica e/o profana che sia, che permette all'anima di vibrare in un profondo afflato. In Tibet, paradossalmente, il genocidio culturale che è avvenuto a molti livelli non è accaduto proprio con il canto. Grazie alla sua immaterialità, alla sua possibilità di essere custodito nell'anima, il canto dei tibetani non è stato distrutto come è avvenuto con i templi, i libri, gli oggetti sacri…Durante l'esodo massiccio, i tibetani, oltre alla loro fede, hanno portato oltre confine i loro canti. Arrivati in India hanno capillarmente cercato di ricostruire il patrimonio canoro della loro cultura tramite una tenace ricerca fra gli anziani in esilio, registrando più materiale possibile attraverso le loro voci e attualmente coltivano ancora la pratica di questi canti nel Tibetan Institute of Performing Arts di Dharamsala. Ma l'aridità mondiale del terreno del canto condiviso fra generazioni sta facendo nascere l’esigenza di ricreare contesti, dove generare un humus comune, fertile, che generi nuove e feconde possibilità.

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Ritrovare la comunione vocale, genera una veicolazione delle energie emotive attraverso un canale creativo che riesce a contrastare quell'individualismo marcato dei nostri tempi che sta portando sempre più persone a sentire il bisogno di ritrovare il proprio senso di sè dentro alla comunità a partire dall'ascolto della propria voce in mezzo agli altri. La deprivazione della dimensione collettiva del canto è così ristabilita in gruppi, in tante e diverse parti d’Europa soprattutto, dove la pratica del canto è vissuta al di là di un genere od una tecnica specifica affinchè il proprio sentire si accomuni a quello di un’umanità più vasta, non ristretta in un ambito musicale o culturale. SI creano così contesti ritualizzati ben precisi, sotto forma di laboratori o stages, che richiamano ed accolgono una «temporanea comunità» che si ritrova per condividere la scoperta di un immenso potenziale umano assolutamente ridimensionato e poco conosciuto che è celato dentro noi stessi. Se infatti può esserci e deve esserci anche un valore nel non avere radici forti in una comunità di tradizione ben definita, questo valore credo che stia sta nel trovare un ascolto nuovo nel proprio corpo, nel proprio humus, capace di intrecciare sottoterra le radici con l’altro, aldilà di razza e cultura, di ideologia, status sociale, sesso o religione. Ma attualmente è per me di fondamentale importanza che questa pratica del canto contempli il valore dell’intercultura perchè il percepire i confini del nostro corpo interno tramite l’appoggio e la risonanza vibratoria di canti di diverse culture, ci consente di esplorare parti di noi (in senso propriamente fisico) che non conoscevamo, di sentire vibrare nuovi timbri, e di cominciare a conoscere meglio l’altro incarnandolo un po’: ricevendolo. Accettare lo straniero in noi, l’altro, lo sconosciuto, l’incomprensibile, può far nascere in noi lo spazio di una dimora nuova, quella dove coincidono uomo e mondo, corpo e culture, e l’anima diventa fonte comune.

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La terra e il volo La forza di gravità della terra e quella del cielo. Lavorare sul corpo-voce consente di trovare ciò che accomuna il genere umano e ciò che lo differenzia. La sostanziale somiglianza della struttura fisica fra tutte le culture, che accomuna dunque il genere umano,.consente di trovare delle profonde comunanze nella propagazione naturale del suono all’interno del corpo di cui è facile fare esperienza diretta molto chiaramente.. Quando si pronunciano alcune vocali ad esempio -la U e la I- esse si propagano verticalmente e vibrano fortemente alla sommità del capo sulla calotta cranica, altre -come la A e la O- hanno una maggiore orizzontalità mentre la E ha una forte concentrazione in gola… Ciò che invece si differenzia da cultura a cultura è il timbro peculiare della voce nel canto, cioè quell’istintiva scelta che il corpo di una cultura ha assunto nel corso del tempo come caratteristica vocale-vibratoria per veicolare il proprio immaginario emotivo nei canti. Di conseguenza diventano peculiari anche la postura specifica assunta durante l’esecuzione, l’immaginario mitologico collettivo che vive attraverso il canto, la qualità dell’emozione che si vuole generare e far circolare nell’ambiente… In India si cantano i Ragas della tradizione classica, seduti a terra, a gambe incrociate con i piedi ben raccolti che non devono mai essere posti troppo in vista (sovente sono appositamente coperti), il bacino deve appoggiare a terra, la spina dorsale ben allineata e sono solo le mani a danzare il gesto del canto. La voce, limpida e fluida, esprime il senso d’unione, attraverso il corpo del cantore, fra la comunità e la divinità evocata nell’incontro. La tradizione del Cante Jondo del flamenco andaluso invece vede i cantori in piedi o seduti su sedie e non a terra, mentre il danzatore esprime col corpo ciò che il cantore esprime col canto in un incoraggiamento reciproco assolutamente sorprendente per la qualità dell’ascolto, vivo, immanente, capace di una tale attenzione da trasformare l’evento in rito e non in un intrattenimento… La pulsazione ritmica dei piedi e l’ancoraggio a terra delle gambe sostengono l’apertura alare della parte superiore del corpo, sia

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dei cantori che dei danzatori e la leggerezza della parte superiore del corpo, fatta di respiro e struttura ossea risonante, consente alla massa muscolare pulsante sulla terra di integrare la gioia del rapimento senza peso. La voce, forte e interiore, danza fra dentro e fuori, in un eros vocale che gioca fra intimità assoluta ed esplosione viva, capace di una tensione emotiva che può sgranare la voce fino al limite della sensazione di lacerazione. I canti che raccontano travaglio appassionato e morte vivono incarnati in una gola che non si è risparmiata nel cantare queste emozioni. I cantori dell’opera tibetana, usano un timbro di voce che si dispiega molto potentemente e precisamente, sfruttando l’appoggio interno della fronte. Il suono è limpido e aperto, la lunga modulazione su una sola vocale rende possibile alla voce di proiettarsi e su due punti precisi su cui concentrare molta energia, il centro della gola e il centro della fronte. Frequentemente, durante l’espressione di questi canti, gli attori dell’opera alzano un piede e danzano su se stessi grazie all’appoggio di un solo piede. Per i tibetani infatti è assolutamente importante il rapporto con le energie del cielo e con il vento come veicolo. Cantare su un piede solo porta ad essere meno vincolati alla terra, e la voce si sviluppa tramite una verticalità del corpo che partecipa della gravità del cielo. Di altra natura vibratoria sono invece i canti sacri praticati nei monasteri. La preghiera dei monaci tibetani è soprattutto fisica, la vibrazione della voce con cui la preghiera è recitata è profondissima e coinvolge completamente il corpo del cantore seduto a terra: dalla risonanza ossea degli zigomi a quella dell’osso sacro. Il timbro sonoro che partecipa della gravità della terra è fuso con la risonanza sottile, aerea, riverberata dagli armonici vocali. In questo modo la preghiera viene emanata attraverso due frequenze vibratorie che stanno ai due poli del corpo, terra-cielo, che si diffondono e abbracciano un grande spazio entro cui la preghiera è contenuta e si propaga. Attraverso la ripetizione di certe parole, gli armonici della voce riverberano e si fondono potenziandosi negli armonici di gruppo creando uno strumento individuale-collettivo che genera una condizione fisica assolutamente efficace alla trasformazione profonda dello stato di coscienza. Senza trascendenza o fuga dal contesto ma in assoluta presenza,

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come un sottile massaggio in grado di purificare il tessuto più fine, cellulare, psichico, attraverso le tenebre verso la luce. Pregare per la pace e provare la sensazione di pace per cui si sta pregando è tutt’uno. Pregare è un’esperienza del corpo. La mente non divaga. Chi prega è la preghiera. E dunque: fra radicamento a terra e prospettiva celeste si sviluppa tutta la struttura-anima del corpo umano, struttura ricca di trasformazioni. A seconda che un corpo senta una maggiore attrazione per l’una o l’altra forza di gravità, la voce si sviluppa nel “nostro strumento” in modo molto diverso. Il canto consente l’incontro fra le queste due forze in corpi che, per trovare la loro equilibrata verticalità, danno” terra al volo” e “volo alla terra”. Trasformazione e nascita Il canto agisce senza prendere decisioni Quando si forma un cerchio con i corpi dei cantori, per unire le voci e improvvisare, bisogna tenere presente che si crea un canale più grande fatto di un noi. In questo spazio avviene la trasformazione del gesto vocale collettivo, una trasformazione che, attraverso alcuni codici timbrico-musicali, diventa liberante. L’insieme dei corpi delimita il confine-canale comune ma ciò che è fonte viva è il centro. Il centro è il vero “noi”, non il cerchio. E’ fondamentale, mentre si canta saper unire istinto e consapevolezza, cercando di mantenere il canto in equilibrio fra passività e attività, sentendo profondamente il potere che guida le cose senza comandarle, attendendo che giunga il canto dell’anima lasciandolo anche libero di non venire. Non dobbiamo metterlo nella gabbia delle nostre aspettative. Perchè il vero canto non si lascia manipolare nemmeno dalla forma sottile dell’attesa quando è aspettativa e non necessità libera del sentire.

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La forte corrispondenza fra il luogo del corpo costituito dalla gola ed il luogo-canale formato dal gruppo di cantori genera un rapporto stretto fra il canto come gesto individuale dell’anima e lo spirito collettivo. In entrambi i casi si tratta di lasciare che il canto viva le sue trasformazioni aldilà del nostro controllo ma dentro una protezione, un confine fluido, un veicolo creativo. Nella trasformazione del nostro corpo interno il passaggio della gola è un luogo-canale di fondamentale importanza per la nascita della vibrazione viva. Si trova in una posizione strategica che consente di creare quella strettoia-via utile alla nascita della voce. Gli organi della fonazione sono inseriti proprio nel punto di congiunzione fra la verticalità del corpo - l’asse della colonna vertebrale - e la sua orizzontalità. L’apertura della cassa toracica si trasforma nella struttura delle spalle che possono aumentare la linea orizzontale del corpo grazie all’apertura delle braccia. Il punto centrale di queste due coordinate corporee è un’apertura alla base del collo, un luogo del nostro corpo che andrebbe curato e protetto, non forzato, non sciupato da uno scorretto gesto dell’espressione vocale. Vi è situata la ghiandola della tiroide (dal greco thireòs-èidos: a somiglianza di scudo), le cui delicate funzioni possono essere vitalizzate dalla vibrazione della voce senza esserne disturbate. Appena poco sopra questo punto si trova una struttura più forte: il collo-gola-trachea dove è possibile che il suono della voce risuoni con una potenza straordinaria. E’ il punto d’appoggio interno che viene utilizzato in tante forme di canti cosiddetti di gola: il canto di Tuva e della Mongolia, di certi canti sardi, delle polifonie della Corsica… Nella nostra geografia corporea incontriamo continuamente parti forti e parti delicate, protette ed esposte, resistenti e fragili, si alternano continuamente, sono vicine l’une alle altre. Ognuna di loro ha una funzione ben precisa che non va confusa con il compito dell’altra. Una gola liberata, senza ostacoli, ha un grande potere vitale e creativo. Cantare autenticamente è generare vita.Il cuore vuole dare alla luce ciò che non può essere detto.

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La pace entusiasmante Il frutto immediato del canto è la gioia Il canto permette il dischiudersi di un luogo dell’anima dove risiede il senso del divino che abbiamo in noi. Non a caso il canto è sempre stato uno dei canali più diretti per connettersi con le divinità o con i genius loci dei luoghi. Presso alcune culture il canto considerato sacro è veicolato dalla struttura polifonica corale, in alcune altre dalla voce individuale di un unico cantore che improvvisa nel momento in cui è in contatto con la sua fonte d’ispirazione. Unire i due aspetti, coralità ed improvvisazione, è creare un territorio dell’anima capace di cogliere pienamente l’attimo presente. In questo consiste l’arte del canto vivo e per questo: sacro. E’ straordinario notare come, nei gruppi “multietnici”, durante la coralità improvvisata si scateni una sorta di lotta fra le diverse percezioni della “deità”. C’è chi canta forte ponendosi al centro del cerchio e danzando poiché il dio che lo sta “attraversando” vuole così; chi sente che il proprio senso del divino è offeso da tanta arroganza poiché è solo nella comunione armoniosa delle voci che arriva la connessione spirituale; chi entra quasi in stato di trance lanciando urla animalesche; chi non riesce a concepire l’arrivo degli dei se non accompagnandosi con il ritmo incalzante del tamburo; chi rimane esterrefatto poiché solo nel più puro silenzio può accogliere la voce divina e invece si sente immerso in un clima di esuberanza collettiva… Far incontrare nello stesso luogo i diversi modi di ricevere le deità crea una babele straordinaria. Nel tempo, col conoscere e l’accettare ciò che culturalmente appartiene ad ognuna di queste manifestazioni, si viene a creare una sorprendente convivialità di immaginari... Il genius loci-divinità che arriva-nasce è uno spirito comune che attraversa il corpo degli attori e partecipanti a condividere il rito. Il senso del sacro è rivelato dalla nostra comune umanità.

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Mentre si crea cantando, si riceve. Circolarità e sovrapposizione. Ricevere creando è determinato dalla possibilità di ascoltare. Non ascoltano solo le orecchie, ascoltano anche il cuore, la pelle, le ossa. Eros e sacro si uniscono nella vitalità del corpo. La potenza tellurica della terra e la spiritualità del cielo si fondono in atto creativo.Tutto il corpo canta, tutto il corpo ascolta, tutto il corpo vive. La sensazione di entusiasmo che si prova alla fine della pratica del canto e che ancora riverbera nel corpo e nell’aria ha assolutamente a che fare col significato etimologico della parola entusiasmo, dal greco èn-theos: pieno di un dio, divinamente ispirato. Questa viva agitazione dell’animo crea una pacifica esplosione vitale che non ha a che fare con l’eccitazione, con la fuga da se stessi, con lo sfogo dell’emozione incontrollata… Dentro ad una pace intima e sconfinata, l’anima entusiasta, ci aiuta a connetterci con la nostra voc-azione più profonda. Il corpo, protetto dal canto e disarmato dal canto, riceve pace. Siamo abituati all’idea di poter lottare per la pace e non sempre siamo capaci di riceverla senza combattere.

Il canto ci aiuta a riceverla. La pace diventa: entusiasmante.

L'anima si sorprende, confessando, il suo canto totale.