il canto delle cicale

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PROLOGO: ESTATE 2008 Nella memoria, buchi come tane sotterranee. E poi, sprazzi di luce che irrompono nelloscurit dei pensieri. Un susseguirsi di domande e risposte inutili. E rabbiosi, Cos, mi ritrovo in un mattino destate davanti a pini e a lecci, ad aspettare di ritornare a casa. Vacanze brevi, questanno. Per necessit e per scelta. Mio marito mi ha lasciata per noia e insofferenza. E dopo una primavera passata tra faccende legali e trasloco, eccomi qui, al termine di una breve ma intensa pausa nella campagna toscana. Ho vissuto per una settimana nel silenzio e nel fruscio del vento. Con davanti piatti di buon fritto di pesce e zuppetta di cozze. Le spiagge non sono lontane, e a pochi chilometri abita unamica carissima, che rivedo sempre volentieri. Le estati pi belle della mia vita le ho passate con lei qui, tra Livorno e Cecina, tra mare e collina. Distese di blu e verde grigio degli ulivi, alberi che adoro. Il profumo e il sapore dellolio extravergine spremuto a freddo una delle cose per cui ritengo valga la pena vivere (Woody Allen certamente non lo conosce). Nelle narici, gli aromi di salmastro, di resina, di selvatico e di terra riarsa. Quella terra sempre cos argillosa e magra, solo a stento ornata di qualche cespuglio spinoso. E nelle orecchie, il frinire delle cicale, caratteristiche abitatrici degli alberi di questa campagna, il cui intenso stridore copre quasi ogni altro elemento sonoro. In pratica, la colonna sonora dell'estate. In questo momento, mi sembra anche il leit motiv della vita umana, che in fondo solo fatta da brevi stagioni di canto intenso.

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Lunico suono che riesce a non essere sovrastato da questo stridulo lo stormire delle fronde. Il vento come una forza sconosciuta che pare dar loro vita come fa con le onde che sbattono sugli scogli. I pungenti, li chiamano qui. Perch se ti ci siedi sopra, ti scortichi. Allora, cerchi di dare al tuo corpo una forma tale che si modelli sugli anfratti e sulle zone meno scabre. Ma un bellimpegno contorcerti tra gli spunzoni e alla fine ti arrendi e soffri. A ventanni comunque, non mi importava niente. Come non mi importava pranzare con uno schiaccino o dormire in sette in un appartamento per quattro. Erano le prime vacanze da sola con gli amici, le prime libert guadagnate con pazienza e fatica e non ci si lamentava certo se erano allinsegna della semplicit. Oggi i ragazzi non si accontentano tanto facilmente. Guai se mancano certe futili comodit, se lalbergo distante dalla spiaggia o se il cibo non lo standard di mamm. Sempre col cellulare in mano, il look straganzo e il disinteresse per tutto il resto. Questa noia continua, che li affligge fin da piccoli, che si stufano subito di tutto e non sanno mai cosa fare. Io da fare ce ne avevo sempre tanto. Oltre agli studi (piuttosto impegnativi), tanto volontariato coi bambini e i poveri, tanto amore per larte, i libri e i viaggi e tanti amici con cui divertirsi e condividere le tipiche fasi dellet. Ossia gli innamoramenti, gli scazzi coi genitori, i problemi scolastici, le fisse coi big della musica e del cinema e i progetti per il futuro. E chi ci pensava al computer o al telefonino o ai giochi elettronicimica esistevano. In compenso, avevamo tanta voglia di parlare, di ridere ma

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anche di riflettere e confrontarci. Ci piaceva scoprire e capire e conoscere, Non giusto criticare i giovani del trentesimo secolo. Li trovo molto svegli, sensibili e profondi. Ma, ahim, estremamente repressi e racchiusi in un universo microscopicamente limitato a dispetto delle grandi possibilit che sono messe a loro disposizione. Forse le troppe opzioni li fanno andare in tilt. E tutto allettante, una vetrina continua di Natale: e come si fa a scegliere? Come un bambino che si ritrova la cameretta stracolma di giochi. Dapprima entusiasta e sovraeccitato, prova il robot poi la macchinina telecomandata e infine il Nintendo di Spidermanpoi si stanca e molla tutto. Il troppo stroppia, dice il mio pap. Poi viene la nausea e il rifiuto. E il vuoto, un temibile vuoto che non facilmente colmabile. Perch un vuoto interiore, di pensieri e domande. Vien da dire: meno beni e pi valori per i nostri ragazzi. Ma cos rassicurante aprire il portafoglio e vederli tranquilli e soddisfattifino alla prossima richiesta. Proporre valori massacrante perch bisogna viverli tutti i giorni. Non si pu davvero pi predicare bene e razzolare male. I miei genitori n predicavano n razzolavano. Ma qualche insegnamento utile almeno sono riusciti a trasmettermelo. Il diritto alla libert, quella vera, che scelta morale prima di tutto. Lattenzione e il rispetto per il prossimo chiunque esso sia. Limportanza del lavoro onesto. E la bellezza della cultura e della natura che aiuta a guardare la realt con occhi ripuliti dalle meschinerie del mondo calcolatore. A loro, alle mie due splendide bambine, Micol e Miriam e a tutti i ragazzi dedico questi miei ricordi semiveri estivi.

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Che ne traggano un sorriso lieve e magari una considerazione seria sulla bellezza della vita. In tutte le sue stagioni.

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ZII E PROZII Natale non era Natale senza gli zii di Milano. E nemmeno Pasqua. La loro compagnia chiassosa e affettuosa riempiva la nostra casa del senso della Festa, quella vera. Zia, sorella di mamma, piccolina e paffutella, arrivava carica di pacchetti, con una bella risata sonora, urlando naniiii che in dialetto milanese significa piccolo/a. Anche adesso che ho superato la quarantina, mi chiama cos e devo dire che mi piace tantissimo. Zia sempre dolce e sa conservare nonostante tutto uno spirito bonario anche nei momenti pi difficili. Cerca di guardare sempre al meglio anche quando sembra non esserci proprio niente di buono. Zio, che ancora adesso un omone con due manacce (mi chiedevo se quando lavorava come panettiere ci infornasse le michette), ci stritolava di abbracci. Veniva da una famiglia di contadini. La mamma, un donnone sdentato che sapeva solo parlare il dialetto santangiolino (di S Angelo Lodigiano ndr) viveva in una casupola tipo sette nani tutta di legno. Quando ci si recava da lei era come andare a trovare una attempata fata nostrana le cui meraviglie consistevano nel comunicare una sfrenata gioia di vivere. La sola vista di questi zii metteva sempre allegria. Anche da donne belle cresciute. Con le cugine era sempre un incontro felice anche se poi si concludeva in un match di lotta a corpo libero. Con la grande, nostra coetanea, si giocava a pi non posso mentre la piccola veniva un po esclusa dalla nostra comunella e ne soffriva. Credo che davvero sia stata sempre un po trattata male da noi tre streghe. La

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prendevamo sempre in giri perch era un po viziatella e la escludevamo dalle nostre confidenze e segretucci. Abitando in un paese e vivendo in una grande casa circondata da giardino e orto per lo pi incolti e perci interessantissimi per dei bambini con largento vivo addosso, era naturale che zii e cugine cittadini appena potevano si catapultavano da noi soprattutto nella bella stagione. Mollando le figlie a mia madre che le accoglieva con affetto e poi finiva sempre per pentirsene amaramente. Vivevamo allo stato brado, scalze e sporche di terra, arrampicandoci sugli alberi e costruendo rifugi con scatoloni e stracci. La nostra tenda indiana era ingegnosissima realizzata unicamente con pali di legno sottratti ai pomodori dellorto, mollette della biancheria, spago, coperte vecchie e antichi nastri sottratti ai cassetti della nonna che immancabilmente imputava alla sua ormai debole memoria il mancato rinvenimento di biancheria varia. Una nostra specialit era allestire un mercato in cui i prodotti alimentari erano costituiti da bastoni, sassi, carta, acqua e terra. Il tutto disposto in bella vista su di una vecchia carriola di legno. Oppure inscenavamo storie damore impossibili con gelosie e tradimenti. Io facevo sempre la parte maschile. Poi, quando la stanchezza prendeva il sopravvento, ci scatenavamo in furibonde azzuffate perch ognuna di noi voleva a tutti i costi guidare i giochi, essere la regina piuttosto che il principe e finivano a cazzotti e calci che solo mia madre riusciva a bloccare. Salvo poi telefonare alla sorella intimandogli di venire a riprendersi le figlie perch non ne poteva pi. Con la coda tra le gambe e gli

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occhi pieni di astio, le due se ne andavano dopo aver ricevuto una bella sgridata da tutti e con la minaccia di non ritornare mai pi. Il divieto durava poco e dopo qualche tempo le due serpi ritornavano e tutto ricominciava. Con sospiri e lamenti continui della mamma che era stanca di rincorrerci con la ciabatta in mano. Mia sorella era la pi tremenda e la pi prepotente ed era anche quella che menava di pi. Ma era lei che proponeva i giochi pi originali. E pericolosi. Come quello che ci fece prendere una gran paura e ci cost una bella punizione. Ricordo che avevamo allincirca 8 o 10 anni e faceva un caldo disumano. In casa, una grande casa della fine 700 coi muri spessi mezzo metro si resisteva a tapparelle chiuse e col ventilatore a manetta. In giardino, si poteva solo ripararsi sotto il magnifico cedro del Libano. Era talmente grande che sotto avevamo allestito una specie di salottino con tavoli e sedie. Dopo aver torturato una povera cavalletta, raccolto aghi e accumulato sassi, non sapevamo pi cosa fare. Il caldo insopportabile ci toglieva voglia e forza. La vecchia fontanella di marmo purtroppo non funzionava pi e quindi non potevamo ricorrere al refrigerio dei suoi zampilli. E il rubinetto del vecchio lavandino in pietra era troppo lontano. Una soluzione poteva essere attaccarvi la lunga canna di gomma che serviva per innaffiare o andare nellorto alla vecchia trombama eravamo talmente instupidite dalla calura da non aver nessuna voglia di muoverci nemmeno di pochi passi dalla seppur relativa frescura che le fronde dellalbero ci elargivano. Sdraiate seminude per terra su rozzi teli rammendati, ognuna di

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noi pensava sicuramente a come passare il resto del pomeriggio. Di entrare in casa non se ne parlava, la televisione trasmetteva solo in certi orari e pochissime trasmissioni per bambini. E sopportare mia mamma e mia nonna che continuavano a farci raccomandazioni, eh noFu allora che a mia sorella dovette balenare quel colpo di genio di cui tutte avremmo poi pagato le conseguenze. Si alz di scatto e :E se giocassimo alla resistenza sotterranea?. E cos la guardai un po basita. Allora: scaviamo insieme una bella buca qui sotto, con le palette e lo zappino. Poi, una di noi si sdraia dentro e le altre la ricoprono di terra. Vince chi resiste di pi. Io la riguardai questa volta con molta perplessit. Ma la cuginetta piccolina che , poveretta, ce la metteva tutta per farsi accettare nella nostra gang se ne sort giuliva :Dai, dai, che cos vediamo chi la pi forte!. E siccome la maggioranza vince(mannaggia) , anchio, seppur riluttante, accettai la sfida. Con fatica scavammo la fossa piuttosto profonda tra laltro. E decidemmo che si procedesse in ordine det. Ora, io fin da piccola ho sofferto di claustrofobia. E avevo ed ho una paura folle del buio totale. Quindi, dopo che mi distesi nella buca e mi ricoprirono di terra, resistetti forse qualche secondo e attaccai a gridare : tiratemi fuooori! Voglio uscire! Soffoooco! Mia cugina resistette un poco di pi, ma anche lei venne presto presa dal panico e dovemmo farla uscire. Fu il turno di mia sorella che resistette abbastanza, ma anche lei si spavent mica male. E tocc alla cuginetta che era terrorizzata dalle nostre urla, ma decisa ad affrontare quella sfida da grandi che forse le avrebbe

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guadagnato ola nostra considerazione. Titubante, si sistem nella buca, chiuse gli occhi, pieg le braccine sul petto e noi iniziammo a ricoprirla di terra. Aspettammo. Niente. Io avevo un orologino, regalo della nonna alla Ia Comunione. Il tempo passava e la bambina rimaneva muta. Iniziai ad avere paura. Secondo me, c qualcosa che non va. Possibile che resista cos tanto? Lei che una fifona?. Non mandavo gi la vergogna per la figuraccia che avevo fatto arrendendomi subito, io che ero ola pi grande, la pi saccente e la pi saggia. Sua sorella mi guard con occhi inorriditi: Tiriamola fuori, mica sar morta?. Mia sorella, la pi spavalda e coraggiosa, siccome la maggioranza vince (finalmente) fu daccordo. In fretta, rimuovemmo la terra e trascinammo fuori la piccola, bianca comne un cadavere. La chiamammo, non rispondeva. Oddio, ma morta davvero. Vado a chiamare la mamma!. La mia coscienza e il senso di responsabilit (io ero la maggiore) ebbero la meglio e corsi come una matta in casa, urlando .Mammaaa! Mammaaa! Vieni presto, successa una disgrazia!. Mia madre, allarmata dalle mie grida, corse fuori con me, sotto il cedro e vide la piccina con gli occhi chiusi, cerea in viso e sporca di terra. Ma cosa avete combinato, cos successo? e intanto si prese la bimba tra le braccia, chiamandola ad alta voce , toccandola. Oddio, ma ha perso conoscenza! Portatemi dellacqua! La spruzzammo tutta, io muta dallo spavento, mia sorella che corse via e la sua che piangeva a dirotto. Fortunatamente la piccola si riebbe e aprendo gli occhietti disse con una vocina sottile: Ho vinto?. Con tutta

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probabilit era svenuta dalla paura. Sospirammo di sollievo e la portammo in casa. Mia mamma la teneva in braccio accarezzandola Siete pazze, pazze! Ma cosa vi venuto in mente? Per poco non muoio di spavento!. Io raccontai per filo e per segno tutta la vicenda con mia sorella che mi guardava in cagnesco. Fummo messe tutte in castigo, dopo una severa ramanzina di mia madre e di mia nonna, che per poco non svenne pure lei. Alla sera, ci sorbimmo la predica (molto pi dura) di mio padre. Capimmo che certe azioni che compiamo, al momento allettanti, possono avere conseguenze estremamente disastrose. Che prima di agire bisogna pensare a quello che ne pu seguire e quindi fare molta attenzione. Mia madre telefon alla sorella con i nervi a fior di pelle e come di consueto la zia il giorno dopo venne a riprendersi le pargole. Furibonda, le pun pure lei. Dopo quellesperienza, nessuna di noi propose passatempi troppo avventati. E di quella macabra prova neppure pi se ne parl. Riprendemmo a giocare al mercato, a nascondino, agli indiani e alle principesse. pi se ne parl. Ma la cuginetta ebbe il suo momento di gloria. E secondo me, ogni tanto lei se lo ricordava e, in cuor suo, era tutta orgogliosa. Fu lunica volta che vinse. Con i prozii, naturalmente la faccenda era diversa. Eravamo solo noi due bambine con un nugolo di vecchierelli. Niente spazi allaperto nella loro casa. Ma che casa! Era l che liberavamo tutta la nostra creativit e la nostra energia. I prozii non si erano mai sposati e abitavano insieme in una vecchia casa in un simpatico paesotto dellOltrep pavese. Erano i fratelli e le sorelle

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di nonna e almeno una volta al mese andavamo a trovarli. Loccasione pi bella era la vendemmia. Il tranquillo borgo si animava e si vestiva a festa. Gli uomini, a capannelli, parlavano fitto fitto di cosa non so. Era un continuo incontro di gente tutta contenta che si salutava e si sorrideva con contadina affabilit. La piazza si riempiva di bancarelle,si sentiva lodore delle salamelle e dello zucchero bruciato del croccante di mandorle. E uva dappertutto. Certo, per noi bambine erano molto pi divertenti le giostre dove salivamo e non volevamo pi scendere. E a pap toccava urlare. Ma il fulcro del nostro interesse era sempre la grande vecchia casa delle meraviglie. Era la casa dei luoghi segreti e dei nascondigli sicuri. E noi ci perdevamo le ore. La buia cucina con la stufa a legna e lacquaio di pietra ci sembrava quasi l antro di una strega e ci incuteva davvero un po di timore. Quando la zia apriva lo sportello della stufa per ravvivare il fuoco, le scintille sprizzavano ovunque e noi arretravamo tra il meravigliato e il terrore mitico. Quasi fosse la fucina del dio Vulcano che forgia le saette per Giove. Quellangolo ci attirava ma non ci metteva s nostro agio. Nemmeno la sala, coi suoi mobili pesanti e puzzolenti di vecchio ci piaceva troppo. Ma la ripida scala in pietra grezza da cui capitombolammo pi volte, quella gi iniziava ad affascinarci. S, perch portava al piano superiore e alla soffitta, la mitica soffitta piena di tesori nascosti. Era il nostro mondo fatato, con i letti altissimi dalla testiera tutta lavorata e larmadio pieno dei vestiti e delle gioie della zia sartina. Questa zia aveva lavorato presso una

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prestigiosa famiglia di Milano come sarta. Aveva cos acquisito, a sentir lei, quella raffinatezza e quel buon gusto che la distingueva dalle sorelle contadine. Aveva modi bruschi e nervosi e un linguaggio se non volgare, perlomeno molto colorito. Era autoritaria e si arrabbiava per niente. Ma era di indole buona e stravedeva per noi bambine. Ci confezionava abitini graziosi anche se semplici e a Carnevale ci preparava sempre un costumino nuovo. Pescando tra ritagli di sete, trine e rasi, antiche glorie dei bei tempi, riusciva a realizzare veri piccoli capolavori. Ci sgridava sempre perch le buttavamo per aria la camera ma poi ci lasciava fare. Secondo me non si mai sposata perch aveva un carattere terribile e aveva gusti troppo nobili. Chi sarebbe stato degno di imparmarla, lei cos aristocratica e distinta? Lei che si metteva le piume di struzzo sul cappello (gliele distruggemmo noi) e i visoni attorno al collo (due povere bestiole attaccate per la testa che ci arrecarono sempre disgusto e piet). Mor investita da un camion quando avevo 15 anni. Stava attraversando lo stradone per andare a buttare un mucchietto di spazzatura. Mi dispiacque molto. La zia maggiore lho conosciuta poco, me la ricordo gi malata e a letto, molto grassa e sofferente. Nonna me la descriveva come una grande e forte lavoratrice, molto alla buona. Anche lei, un carattere forte e impulsivo. Il fidanzato le mor a 19 anni. Da allora non ne volle pi sapere di uomini. Poi cera la zia buona come un angelo, quella che assistette tutti, madre e fratelli, fino alla fine e a tale scopo dedic lintera vita. In parrocchia si offriva sempre per i servizi pi umili. Era quella che si

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alzava prima di tutti, che lavorava di pi e sopportava le stranezze degli altri con cristiana rassegnazione. Era la zia pi amata, ci viziava tanto, riservandoci sempre piccole sorprese. Lo zio era vecchio e malandato, quasi cieco e se ne stava sempre seduto alla finestra della sua cameretta. Era taciturno e sempre molto arrabbiato, perch soffriva tanto ed era costretto a starsene sempre chiuso in casa davanti alla finestra. Ma quando ci raccontava le gesta dei paladini di Francia e di Gano di Maganza, il traditore, si trasformava in un leggendario cantastorie. Le storie, che sicuramente aveva conosciuto al teatro dei burattini o delle marionette, un tempo lo spettacolo pi atteso e seguito nei piccoli centri, erano sempre le stesse. Ma noi gliele facevamo ripetere allinfinito e lui, eccitato, scandiva con voce ferma e commossa, le ultime parole di Orlando morente che soffia nel corno. Credo fossero gli unici momenti in cui lo zio si riscuoteva dal suo triste torpore e, chiss, ricordava i momenti pi belli della sua giovinezza. Noi lo seguivamo col fiato sorpreso, sedute sulle sue ginocchia, immobili. Ma lemozione maggiore era al piano di sopra, la soffitta. Vi si accedeva da una pericolosa scala in legno tutta traballante. Se guardavi in gi, ti venivano altro che capogiri. Era una prova di coraggio che affrontavamo con risolutezza. La soffitta era un ampia stanza con il soffitto di travi e il pavimento di pietra. Alle pareti, due stampe che raffiguravano scene della Turandot. Nel mezzo, due letti giganti e a una parete, un armadio strapieno dei cimeli delle zie. Cio, abiti e scarpe depoca, che noi ci infilavamo in abbinamenti impossibili pavoneggiandoci

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come attrici da opera buffa. Era davvero la nostra stanza preferita, soprattutto in estate quando il caldo era cos forte da impedirci di stare allaperto. La frescura e la penombra erano talmente invitanti che passavamo tutta la giornata l, a rovistare in cassetti e angoli, alla ricerca di qualche nuovo trastullo. Finivamo addirittura per addormentarci sui lettoni. I grandi si dimenticavano della nostra esistenza. Chiudevamo la porta a chiave e ci isolavamo dal resto del mondo. Annessa alla soffitta cera una terrazzina piena di fiori, di legname, di cesti e di cianfrusaglie. Era nascosta tra i tetti ed era la propaggine naturale della nostra stanza incantata. Nel silenzio del meriggio, nella calma immota e sonnolenta, ci perdevamo per ore a fantasticare tra le rose e i rampicanti. Lontane dalla realt, parlavamo un linguaggio che era solo nostro e inventavamo storie avventurose e fantastiche. Ma un giorno successe che chiudendo, come di consueto, la porta a chiave, questa si ruppe dentro. Era una vecchia chiave arrugginita e sdentata che girava in una serratura contorta. Prima o poi sarebbe successo. La prima sensazione fu elettrizzante: ci sentivamo separate anche fisicamente dal mondo reale. Potevamo stare nel nostro meraviglioso solaio per sempre. Festeggiammo con una danza indiavolata e urla schiamazzanti. Poi, ci rimettemmo a frugare tra i vecchi cimeli delle zie: le scarpette della sartina, il ventaglio cinese, la collana di granate lunga fino alla cintura. Ci rivestimmo da capo a piedi con quei preziosi cimeli e giocammo per un tempo infinito alle signore ricche dei tempi antichi, alle modelle che sfilavano sulla passerella e alle fate-principesse di

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un regno dal nome impronunciabile. Ballammo fino a sfinirci su melodie inventate al momento continuando a cadere sui tacchetti delle scarpe troppo larghe. Sudate ed eccitate, godemmo quel tempo tutto nostro, con lentusiasmo e lenergia della nostra bella infanzia. Infine, crollammo addormentate sui soffici altissimi letti dalle spalliere scolpite. Avevamo assolutamente perso la percezione del tempo e sinceramente non ricordo quanto ne pass. Sicuramente lintero pomeriggio. Cera ancora il sole quando ci svegliammo. Sazie di giochi e lazzi, avevamo fame e sete e solo allora ci rendemmo conto che eravamo chiuse dentro. La nostra soffitta fatata si rivel una prigione dorata e iniziammo a chiamare a gran voce per attirare lattenzione di mamma e pap. Ma nessuno ci sentiva. Probabilmente erano tutti riuniti gi in sala a bersi una bibita fresca e a chiacchierare amabilmente. Picchiammo i pugni contro la solida porta di legno tarlato. Niente. Mia sorella inizi a piangere. Era stanca di starsene l, si era divertita abbastanza ed ora voleva solo uscire e scendere dagli altri. A me mancava laria, sentivo un caldo soffocante e la gola riarsa. Aprii le finestre. Per strada, nessuno. Faceva ancora troppo caldo. La soffitta ci apparve per quello che era: una stanza polverosa piena di vecchie cose. I fiori finti e i vasetti di peltro erano poveri resti ammuffiti di pessimo gusto. Le ragnatele penzolavano dalle travi crepate. E i lettoni non erano pi il giaciglio della bella addormentata. Lincantesimo si era dissolto. Riprendemmo a urlare, scuotendo la vecchia maniglia con tutte le nostre forze col terrore di rimanere confinate per sempre in quella soffitta

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buia dallaria di naftalina. Ci arrendemmo disperate, con la testa tra le mani in un pianto inconsolabile. Sentivamo quanto fosse brutto essere separate da coloro che pi amavamo. Eravamo sole e spaventate. Fortunatamente, qualcuno sal per andare in bagno e sent le nostre grida. La nostra buona zia corse di sopra e, saputo laccaduto, cerc di tranquillizzarci. Avevamo anche molta paura di essere punite per aver rotto la chiave. Mandarono subito a chiamare un amico fabbro che ci liber dopo aver trafficato un poco con la serratura corrosa. La zia e la mamma videro sicuramente due faccine pallide e spaventate, bagnate di pianto e non poterono fare altro che stringerci tra le braccia ridendo non poco della nostra bella marachella. Di sotto, gli altri ci accolsero con un bellapplauso e tutto si risolse in una piccola ramanzina. Soprattutto da parte della zia sarta che di sopra si ritrov i suoi due armadi e i cassettoni svuotati e il prezioso contenuto sparso ovunque. Non ritrov pi le scarpette e il ventaglio. Chiss dove finirono. Ritornammo a casa, davvero contente di essere ancora con la nostra famiglia. Nel nostro lettino, chiudemmo gli occhi serene. Nella soffitta tornammo ancora, a giocare, ad inventare storie e a sognare ad occhi aperti. Ma con la porta sempre spalancata. Per non dimenticare il mondo reale, quello in cui vivevamo ogni giorno.

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AL MARE, ATTO PRIMO La notte prima della partenza era la pi drammatica dellanno. Insonnia garantita. Risvegli continui. E, sin dalla tarda sera, una nausea insopportabile. La mattina poi era molto pi angosciante: si doveva salire in macchina ed affrontare un viaggio di minimo sei ore per arrivare a destinazione. Piombino in provincia di Livorno, noto perch punto di partenza dei traghetti per lIsola dElba. Ma noi allElba non ci andavamo, rimanevamo a Piombino che non era localit balneare ma la cittadina da dove i miei bisnonni paterni erano partiti per cercare lavoro. Allora vi abitavano ancora parecchi cugini di pap a cui era molto affezionato. E ogni anno si ritornava l, in albergo poi in appartamento a trascorrere il mese di agosto. Ora, a parte la mancanza di attrattive per due ragazzine (la citt di bello ha solo una vecchia cittadella con porticciolo e una caratteristica piazza-promontorio che si allunga verso il canale), il vero problema era il viaggio. Lautostrada della Cisa non era ancora stata costruita e ci toccava la Firenze mare. E anche quando finalmente ci fu la Cisa, si usciva a Livorno e mancava ancora minimo un paio dore di Aurelia tra paesi trafficati e costa a tornanti. Io soffrivo viaggiare in macchina (tuttora non ci viaggio volentieri e mi rendo conto che forse ci risale al trauma infantile del mio viaggio estivo). Ai tempi non esisteva laria condizionata e si partiva per forza il primo agosto. Pap non sopportava i finestrini abbassati. Pap veterinario e la sua macchina sapeva (e sa tuttora) di fieno, di latte e di vacca. Anche se mamma

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la puliva a fondo, quellodore caratteristico (che in altre circostanze mi piace moltissimo) impregnava ( e impregna tuttora) tutto labitacolo. Quindi riepilogando: caldo, finestrini chiusi e lezzo di cascina. Per una persona che gi soffre la macchina, non la condizione migliore per viaggiare. Poi, il primo di agosto, il rischio che le ore previste per il viaggio raddoppiassero non era poi da sottovalutare. Un anno, infatti, impiegammo 12 ore. Con nonna, davanti, che a Cecina vide il camion davanti tutto dargento. E noi, dietro con mamma, a rimettere tutti gli ultimi succhi gastrici rimasti nel povero stomaco. Ma la parte peggiore erano i tornanti di Castiglioncello: quel meraviglioso saliscendi tra i pini marittimi a picco sul blu del mare si trasformava in un viaggio allucinante in un girone infernale. Solo rifacendolo anni dopo, mi sono resa conto di quanto fosse bello. Allora, era il punto dove le contrazioni gastriche si facevano insopportabili. Gli stomaci erano prosciugati, credo non ci rimanesse pi nemmeno una goccia dacqua. Pap non si fermava mai, voleva arrivare alla meta. Ci aspettava Maggiorina, la moglie del cugino di pap, una deliziosa signora di mezza et che ci preparava sempre delle leccornie a base di pesce. Noi, stravolte, con mamma ridotta ad uno straccio puzzolente la vedevamo come una cara fata che ci ritemprava il morale con un abbraccio e un sorriso dolcissimo. Quanto a sistemare lo stomaco, ci volevano almeno un paio di giorni. Comunque , laria frizzante e i bagni ci rimettevano presto in sesto. La meta che io amavo di pi era il Golfo di Baratti, quella piccola splendida mezzaluna di sabbia ferrosa sovrastata dalla

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rocca di Populonia. Da lass si vedeva la macchia mediterranea dal forte odore di finocchio selvatico gettarci ripida nel mare della Buca delle Fate. Qualche volta sentimmo i dei cinghiali maschi in amore, immaginammo le loro lotte per la femmina e avvistammo una mamma seguita dai suoi piccini striati. Salivamo sulle mura antiche e aspiravamo la brezza marina e lumido delle pietre. Vicini, gli scavi delle tombe etrusche. Un anno, con mia grande gioia, pap ci port a visitarle in mezza Toscana. Mi documentai minuziosamente e mi appassionai a questa antica civilt nostrana. Mia sorella invece si ruppe totalmente le scatole e rogn per giorni. Quello il mare della mia infanzia e ancora oggi, quando mi capita di andarci, mi ci sento bene. Sar che nel mio DNA c un pezzettino di quei posti il richiamo a quei colori e a quellazzurro intenso sempre forte. La Padana non mi congeniale con i suoi ritmi frenetici, troppo concreta e poco fantasiosa. Trovo i suoi sapori scialbi. Manca di aromi resinosi e secchi. E raramente, le sue tinte assumono tonalit spiccate e contrastanti. Io amo la mia pianura, la amo profondamente, la campagna quieta con i fossi e i pioppi raggruppati. E la sua gente onesta e laboriosa anche se un po resta. Ma dentro ho un angolo di mare e colline aspre che fatico a trattenere. E una giocosit un po irriverente e una espansivit un po saccente che non sono propriamente lombarde. E troppa passione per lolio, il pomodoro e il pesce. Per pap vinse la condotta quie qui ci stabilimmo. Ogni tanto tira fuori la storia che avrebbe potuto vincerla a Suvereto, in collina vicino a

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Piombino. Baratti, insomma, era il mio mare preferito anche se per raggiungerlo ci toccavano venti minuti di macchina. Allora la spiaggia era tutta libera e poco frequentata. Piantavamo lombrellone, stendevamo gli asciugamani (per nonna la sedia pieghevole) e iniziavamo la tiritera di suppliche per poter fare il bagno. Era un vero supplizio aspettare anche pi di unora per entrare in acqua. Le mie figlie stressano nello stesso identico modo sia al mare che in piscina. Ma adesso sono io quella che le tiene a freno. Mi distraevo un po giocando con Paolo piccolo (perch il grande era suo nonno), un bel ragazzone adolescente che ricordo con piacere, perch era uno gi grande (e pure molto carino) che perdeva tempo dietro a me ancora piccolina e rompiscatole. Ricordo che si divertiva facendo mi un sacco di scherzi e prendendomi i giro e io (che invero, ero un po innamorata di lui) ne soffrivo in pochino e mi arrabbiavo molto. Quando finalmente ottenevamo il permesso ci buttavamo in acqua e ci saremmo state per lintera giornata. Io ho imparato a nuotare a 8 anni e mi godevo un mondo quel bagno cos desiderato. Con pinne e maschera perlustravo i rari scoglietti. Ancora oggi ho una vera passione per lacqua e i suoi abitanti. Non ho mai temuto lelemento liquido e i suoi abitanti e a torto, perch mi cost qualche disagio. Quel giorno non andammo a Baratti, ma sotto Piazza Bovio. Non era granch come mare, anche perch ci si arrivava con una scalinata ripida e scomoda che non finiva pi, Ma cerano tanti scogli e tutto un mondo subacqueo da esplorare, Munite di pinne e maschera, io e

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mia sorella ci cimentammo in quello che adesso viene chiamato snorkling. Cio, osservare la natura sottacqua. Lacqua era piuttosto bassa e pulita. Bella giornata. Gli scogli che volevamo perlustrare erano vicinissimi alla riva. Io davanti, dietro mia sorella. Battendo vigorosamente le pinne, mi avvicinai a uno stretto passaggio tra due scogli letteralmente ricoperti dai ricci. Nonostante mia sorella mi sconsigliasse, volli passare attraverso il pertugio per osservare meglio gli aguzzi echinodermi. Mia sorella mi segu suo malgrado. Purtroppo il passaggio era davvero molto stretto e lacqua bassa e io per uscirne al pi presto (iniziai a temere di farmi male) battevo sempre pi velocemente i piedi non accorgendomi di picchiare le pinne sulla faccia della mia malcapitata congiunta. Che, non vedendo pi niente, and a sbattere contro i ricci e si riemp le gambe di aculei. Uscimmo pi in fretta che potemmo e solo allora mi accorsi di avere i polpacci pieni di spine. Piangendo disperatamente e litigando (in fondo la colpa era mia), fummo soccorse da pap e mamma che ci estrassero le dolorose punte e ce le medicarono. Alcune (erano davvero tante) non si poterono togliere e uscirono dopo qualche giorno. Io, che ero una bambina prudente, mi resi conto che avevo sottovalutato il pericolo. Per la mia curiosit, avevo causato un disagio anche a mia sorella. Tutte le volte poi che, successivamente, mi lanciai nelle mie perlustrazioni sottomarine, mi ricordai di questo piccolo incidente. Sorridendone. Sempre a quella povera tapina, e questa volta a Baratti, feci prendere un bello spavento. Pap ci aveva preso un canottino di quelli

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gonfiabili con due minuscole pagaie. Avr avuto otto dieci anni al massimo e mia sorella due in meno. Tutte eccitate al pensiero di una bella crocierina, entrammo nellacqua calma e iniziammo a remare. O meglio a tentare di remare, visto che una voltava il remo in una direzione e laltra in quella opposta. Il tempo era meraviglioso ed era un vero piacere trovarsi in mezzo al mare liscio sotto un bel sole. La corrente per, senza che ce ne accorgessimo, prese come eravamo da questa nuova impresa, ci portava lentamente sempre pi lontane da riva. Me ne accorsi io, allorch guardando verso la spiaggia vidi ombrelloni e persone piccolissimi. Iniziai a chiamare aiuto e a remare. Come mi veniva. Insomma, mi prese il panico. La minuscola imbarcazione non si spostava di una virgola. Mia sorella si rese conto che la situazione era disperata. E inizi a piangere. Io urlavo che mi volevo buttare in acqua. Ma la piccola non sapeva nuotare. Io in quel momento me ne fregavo. Pensavo di spingere il canotto nuotando fino a riva. La sorellina era terrorizzata, aveva paura che la lasciassi l sola in mezzo al mare. Forse le nostre grida giunsero fino alle orecchie di pap, forse lui si accorse che non ci vedeva pi tanto benesta di fatto che guardando verso la spiaggia, intravidi la sagoma di una persona che mi pareva lui. Agitava le braccia e noi allora urlammo pi forte. La sagoma si gett in acqua (erano anni che non lo faceva) e con poche vigorose bracciate, ci raggiunse,. Dopo averci dato pi volte delle somare, ci trascin a riva. In salvo. Mia sorella tremava come una foglia. Ancora una volta, la mia imprudenza ci aveva giocato un brutto scherzo.

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Ricordammo questo episodio per anni. Come anche quello dei ricci. E mia sorella ripeteva in continuazione che erano state,forse, le uniche volte che le avevo combinato un guaio. Di solito, infatti, quella che ne faceva di tutti i colori era lei.

AL MARE, ATTO SECONDO

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A CASTIGLIONCELLO Stufa di seguire i miei nelle solite noiosissime vacanze a Piombino (ormai ero in piena adolescenza e ne avevo abbastanza di spiaggia libera, giretto pomeridiano in Cittadella e a sera a letto alle 22), iniziai a insistere per la vacanza con gli amici. Primo esperimento: al mare a Viserba nellalberghetto del pap di un compagno di classe con mamma e sorella a seguito, ma molto defilate. Giusto per una supervisione. E per la tranquillit dei genitori. Ma potevo fare un po quello che volevo, naturalmente nei giusti limiti. Discoteca, passeggiata per la vasca (la via principale), bagno notturno eccand benissimo, anche mamma era felice (pure lei si faceva una vacanza un po diversa, tra balere e piadine). Meno,per la sorella che pi giovane di me, veniva trattata malissimo da tutti perch troppo piccola. Io non la volevo mai tra i piedi. Cos lanno dopo, ormai quasi maggiorenne, me ne andai da sola (sempre a Viserba nel solito albergo) con gli altri della compagnia. E ci divertimmo da matti. Ma la vera Vacanza estiva al mare per me fu sempre (e rimane) Castiglioncello e dintorni. Conobbi Grazia in montagna lestate della maturit (a S Cristina vicino a Selva di val Gardena : ma questa unaltra storia che racconter). Arriv in ritardo, tutta sudata dopo ore di treno e con un valigione spaventoso. Io ero al balcone di Villa Capriolo, la casa vacanze dei gesuiti che avrebbe ospitato le vacanze pi intensamente spirituali della mia vita. Con me, altre ragazze appena conosciute. Tutte eccitate perch stavamo per fare

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unesperienza unica. La guardammo, tutta sudata, urlare qualcosa con uno spiccato accento toscano (livornese). La invitammo subito a salire da noi. Inizi cos una delle amicizie pi importanti che continua tuttora nonostante gli anni, i figli e le preoccupazioni. La primavera dopo (un 25 aprile, credo) ero gi da lei a Castiglioncello. La casa in via dei Macchiaioli, dove un secolo fa passeggiavano i pittori ogni giorno fino a Rosignano Marittimo, ancora l con il giardinetto e il cancellino sempre aperto. Scesa alla stazioncina, respirai laria piena di pino e di salmastro. E la pineta verde appena fuori mi spalanc gli occhi e il cuore. La Fiat 1 di grazia polverosa e col freno difettoso mi port su gi per le viuzze strette fino alla sua casa. Il sorriso di mamma Fausta e gli occhi azzurri di babbo Aldo furono le cose che pi mi colpirono. Inizi cos una storia damore e di tenerezza destinata a dilagare e a comprendere tanti ragazzi e ragazze che con la scusa delle vacanze, andavano in casa Cantini per respirare unatmosfera di gioia, affetto e bellezza. Per sentirsi accolti e ascoltati. Per riposarsi dallansia e dalla paura di crescere e trovare una pausa di serenit e dolcezza. Per rilassarsi con i piatti meravigliosi di Fausta, vere trasfusioni di gusto e attenzione. E per ridere, ridere, ridere con Aldo, la cui somiglianza con Alberto Sordi era un pretesto per ridere ancora di pi. Fausta umbra e si portata da Assisi quellatteggiamento nei confronti della vita sempre pacato e soave anche nei momenti peggiori. Aldo morto tragicamente quattro anni fa schiacciato dal piccolo trattore che guidava su alla terra. Deve essere caduto

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chiss come dal veicolo in movimento e se l ritrovato addosso. Grazia mi ha chiamato una sera di luglio piangendo e io ho sentito tanto freddo addosso. Al suo funerale cera tutto il paese e anche pi . Se ne era andato un uomo buono e onesto, cordiale e generoso. E se ne era andato il mio babbo Aldo. Che mi aspettava ogni estate con i suoi begli occhi chiari e trasparenti e mi prendeva in giro quando, sconsolata, me ne ripartivo. P tutto quello e ti sei mangiato, ti metto fori il conto!. E rideva. E io mi sentivo meno triste a lasciare quella casa meravigliosa e quella famiglia cos bella che era un po anche la mia. Che era quella di tutti noi amici di Grazia. Solo la scorsa estate sono riuscita ad andare a trovare Aldo al cimitero. A Ferragosto, con vento e nuvoloni, un Ferragosto da schifo, tutto il giorno in casa con i bambini. Saltato il pranzo al mare e le bancarelle su a ...Ma da Aldo ci si poteva andare. Su per una stradina in mezzo al bosco, in un piccolo cimitero, quasi un giardino isolato dal mondo, ho ritrovato il suo sguardo limpido dietro una profusione di fiori colorati. Una scritta Babbo Aldo. Con me cera Miriam, la mia piccola. Le ho detto : Per te, Nonno Aldo. Da quel giorno, nelle preghiere della sera, abbiamo voluto aggiungere quello per nonno Aldo che ci protegge dal Cielo. Mia sorella ha rivisto Grazia questanno, dopo la tragedia. Lultima volta che era andata a trovarla, lho chiamata per dirle che la nonna era in coma. Quando lha incontrata, ha pianto tutta una sera. Non era riuscita nemmeno a scriverle una lettera per la morte del nostro Babbo Aldo. Fausta ora una fatina dai capelli candidi. Sembra piccina piccina, esile esile. Un

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soffio di vento parrebbe strapparla via. Ma il viso, pur solcato da nuove rughe e velato dalla malinconia, sempre lo stesso di quella giovane graziosa signora che mi diede un bacio sulla porta di casa pi di ventanni fa. E la sua voce bassa e dolce, impastata solo un poco di toscano, mi accarezza ancora come allora. Ci sistemava ovunque, in camera con le figlie, nella cameretta attigua o sui divani. Alla mattina in bagno, una processione. E sebbene fossimo maschi e femmine nessuno faceva troppo caso allabbigliamento spesso succinto di chi incontrava in corridoio. Dormivamo tutti insieme (dormivamoe basta) il che farebbe davvero sbellicare i ragazzi doggi o meglio commentare volgarmente per le occasioni di sesso che ci perdevamo. Ma a noi, non interessava mica solo quello. Ci che sperimentammo sia a Selva che in quella casa fu soprattutto la bellezza di amicizie sincere e profonde (che poi magari finirono anche..in altro modo) che ci accompagnarono per lunghi anni. La spontaneit negli affetti la imparammo in queste modeste scuole. Non ci vergognavamo di regalarci vicendevolmente effusioni e attenzioni innocenti. Apprezzammo la genuinit terapeutica degli abbracci, delle carezze e delle parole buone. Come pure il mangiare bene insieme. La colazione, a turno quando eravamo tanti, si faceva in cucina con la marmellata di more fatta in casa e il pane toscano a fette, che per me sempre una golosit, oppure la torta casalinga coi pinoli. Fausta era sempre intorno, discreta e taciturna. Ma la sua presenza era manna, sempre. Al mare, andavamo a piedi

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(la discesa era circa mezzo chilometro), tutto uno zigzagare tra le viette dietro la ferrovia oltre la quale cera la famigerata Aurelia. I pungenti ci aspettavano, belli puntuti e scabri. E noi, con solo un salviettone di spugna strausato, avevamo un bel coraggio a sdraiarci l, adattando le forme tra un pungente e un altro, sotto il sole a picco. L mi presi le scottature peggiori della mia vita: schiena (terribile, ne porto i segni anche ora!), pancia, piedi, petto e perfino orecchi e occhio (ancora peggio!). Anche buttarsi in mare era una bella impresa: camminare fino al mare tra i sassi aguzzi anche con le ciabattine era un bel fastidio! Ma, peggio, era risalire sulla scogliera soprattutto col mare un po mosso. Alle 12.30 era irrinunciabile la schiacciatina al baretto poco distante. E poi ancora sotto il sole fino alle 19 circa. Nel frattempo si giocava a carte (briscola a chiamata, el ciamn che suscitava furiose litigate perch non si capiva mai chi era il compagno di gioco) o con la palla. Ogni tanto ci faceva visita il Robi (Roberto Gazzaniga, un nostro amico gesuita di Selva) che da sempre si fa le vacanze a Castiglioncello (beato lui!) e vci faceva compagnia col suo sorriso bonario e limmancabile pipa. Lo adoravamo perch per noi era u prete di quelli giusti, uomo di mondo ( entrato tardi in seminario) e sgamato quanto basta per capire e interpretare le irrequietudini dei giovani. Di fatto, dietro il suo aspetto simpatico di ometto cicciottello si presenta un uomo con un carisma eccezionale, esperto di pastorale famigliare e giovanile. La sua voce carezzevole rimane per me un caro ricordo di consigli illuminanti e assolutamente veritieri che mi

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sostennero non poco in quegli anni. La sera si rientrava stravolti (troppo sole e bagni? Mah!) e non si faceva gran vita notturna. Ma ci divertivamo un mondo. Come quella volta che Grazia, sempre fervida di idee, si invent lindianata con tanto di fal in spiaggia ai Bagni Roma. Lindianata non altro che un gioco di gruppo durante il quale bisogna fare dei giochi e chi perde beve. Vino. E chi inizia a perdere e non regge molto lalcool destinato a continuare a bere, perch diventa sempre meno vigile a causa del graduale aumento di ebbrezza. Chi conduceva il gioco era il nostro amico Andrea (detto anche Proietti a causa dellevidente somiglianza con il noto attore). A noi ragazze era molto simpatico (un vero istrione) e piaceva pure parecchio per il fisico da giocatore di basket. Ora, questo disgraziato quella sera si era fissato con me e aveva iniziato a fare giochi per me piuttosto difficoltosi (sono sempre stata imbranata nelle prove di velocit o di destrezza). Quindi, avevo attaccato a bere. E a bere sempre pi. Poi, fu la volta di Grazia. E pure lei, gi a bere. Alla fine, eravamo tutti allegrotti, ma io e la mia amica un po di pi, anche perch non eravamo avvezze al vino. Spento il fal, tutti bei contenti e ridanciani, dovevamo per tornare a casa. E Grazia era in motorino, il Ciao. Cosa ci prese, non lo so. Sarebbe stato prudente lasciare il motorino da qualche parte (ma dove? Era gi tardi!) e farsi accompagnare a casa. E invece, cosa fecero le due sventate? In due sul motorino, mezze ciucche, sullAurelia e poi sulle stradine su gi, piene di buche su fin dopo la ferrovia dove c casa Cantini. E non eravamo pi tanto ragazzine, ma ultraventenni. Alla

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faccia delle prediche che adesso faccio ai miei studenti su quanto sia stupido e dannoso bere alcol. Ribevvi ancora qualche anno dopo, a casa di Andrea (perch cera sempre lui di mezzo?), sempre durante unindianata, condotta sempre da lui, ma l mi prese male, Grazia mi fece bere caff salato (che schifezza!) e non arrivai al water. Furono le uniche sbornie degne di nota, a me piace il vino e la birra, ma solo finch mettono una sana allegria. Anche quando andavamo in discoteca, soprattutto allaperto (alle Spianate o al Ciucheba, la disco in di Castiglioncello), niente drinks alcolici, al massimo il frate con la crema e il cappuccio alle cinque mentre rincasavamo. Ritorai per il matrimonio di Grazia che fu unorgia dello stomaco, e per il battesimo di Leonardo, il primo figlio. Poi, con marito e figlie. Laccoglienza non era cambiata, Grazia, la Fausta, Aldo, Alessandra e Massimo erano ancora gli stessi, con qualche ruga e un sorriso in pi, lamore di quella meravigliosa famiglia uno dei regali pi preziosi che la vita mi ha fatto e continua a farmi.

VILLA CAPRIOLO

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Eravamo finalmente maturi dopo cinque anni di galera al liceo ginnasio. Vero che un po ci dispiaceva, nella nostra classe si erano creati legami unici di amicizia e solidariet. Anche qualche amoretto finito poi senza tanti patemi, solo una scottatura che strin non poco, ma poi col tempo pass. La fatica di quegli anni fu davvero tanta, i sabati e le domeniche a studiare e pure di sera. Svaghi non molti, qualche festa e un po alloratorio ma nemmeno troppo. Sport, e chi lo faceva allora? Col prof di italiano che il sabato per il luned ti sbatteva l 2000 versi dellOrlando Furioso o un canto della Divina Commedia praticamente a memoria o con quello di matematica che ti spaventava a morte e se avevi fatto colazione e ce lavevi alla prima ora correvi in bagno a star male? Non si scherzava mica, nemmeno con la disciplina. Il preside ti urlava dietro mica male se sgarravi. E capitava nei bagni a sorpresa. Fumare, fumavano. E non solo tabacco. Ma quando ti sgamavano eri davvero nei guai, i genitori mica perdonavano o giustificavano. Sulla moto, in cortile, non si entrava. Il preside dalla finestra ti richiamava a squarciagola. Io vissi la scuola superiore a pane e studio oltre che allaffetto dei miei compagni. E se mi rammarico di non essermi divertita abbastanza quando ne avevo let, sono per grata delle lezioni che ho assimilato e che ancora oggi mi servono. A ricordare che la vita non profumi e balocchi, che solo il sacrificio e il lavoro duro portano alla realizzazione di qualcosa di importante e bello. E ad apprezzare lo svago divertente ma fruttuoso. Il perdere tempo fine a s stesso non lo sopporto. Piuttosto dormo e

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ritempro fisico e mente. Ma ciondolare senza combinare niente, no. Se proprio posso permettermi un po di ozio, leggo, disegno, scrivo, vado a fare acquisti, telefono a qualcuno, mi vedo un bel film. Il nulla proprio no. E anche per lestate della maturit, bisognava escogitare qualcosa di carino, ma anche utile. Perch unestate speciale. Durante la quale riposarsi ma fare anche magari qualche bella esperienza, un bel viaggio, studiare l inglese, un corso di suble possibilit sono infinite. E io con Bea e Lucia, due mie compagne, optai per Selva. Loro cerano gi state ed erano entusiaste. Una vacanza diversa durante la quale si conosceva gente che veniva da tutta Italia e si stava insieme con grande semplicit, allegria e affabilit. Insieme si rigovernava la casa, si serviva a tavola, si pulivano i bagni e le scale. E una signora in pensione, volontaria, ci cucinava. Si faceva esperienza di comunit. Ma soprattutto si ascoltava e si era ascoltati. E si pregava. Mattina, pomeriggio e sera. Ora, io ero credente ma mica tanto praticante. Fino alla terza media sono andata a catechismo dalle suore la domenica. Poi avevo frequentato un po loratorio con lAzione Cattolica ma perch mi ci invitavano gli amici, io facevo un po il soprammobile, non partecipavo attivamente, me ne stavo li quieta. E mica capivo troppo quello che dicevano. Ma, forse perch avevo finito con limpegno scolastico duro e mi si apriva davanti la prospettiva liberante delluniversit a Milano (ambiente nuovo, gente nuova e soprattutto le materie che pi amavo), o la curiosit per questa esperienza che sembrava cos coinvolgenteebbene, accettai la proposta, e con lo

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zaino e gli scarponi nuovi di pacca che mamma mi aveva regalato per la maturit, mi imbarcai in questa avventura di cui ancora oggi, dopo quasi 25 anni porto i segni profondi. Descriverla a parole, non possibile. Non le trovi. Bisogna esserci e provare. Allora ti rendi conto, almeno un po, in che faccenda ti sei infilato. E se la prendi sul serio, non te ne liberi pi, anche se a Selva non ci ritorni. Sono ventanni che non rivedo Villa Capriolo, ma come se fosse ieri. Mi si scolpita dentro. Rivedo la salitona del Maciacconi (il negozio di articoli sportivi), il sentierino che portava attraverso il prato verde alle due belle costruzioni. Villa Capriolo. Donata ai Gesuiti da un benefattore che desiderava un rifugio sereno per i piccoli e i grandi alla ricerca della pace per lanima e il corpo. Le camerate spartane coi letti a castello in legno grezzo e il bagno in corridoio. Mica tanti i bagni. Ma nessuno si lamentava. La zona bar, gestita anche quella da noi ragazzi, inesperti nel preparare caff e cappucci (tocc pure a me, una volta, col mio mitico amico Galli) ma pronti a servire un sorriso caldo. Ma soprattutto, ricordo la cappellina bassa dalla luce soffusa col piccolo altare ricavato da Pietro, un fratello gesuita, da un tronco di legno col crocifisso sovrastante. L per me si riassume lessenza di Selva, le lodi recitate col Robi Gazzaniga dalla voce carezzevole e suadente e le messe tutti seduti in cerchio, le preghiere spontanee e la comunione passandoci particole e vino di mano in mano. L ho conosciuto Qualcuno che ha cambiato profondamente la mia vita. Ges di Nazareth non stato pi per me solo un grande personaggio storico. Ma un uomo con dentro un

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mistero grande dAmore. E che dopo 2000 annoi ha ancora qualcosa di bello , estremamente bello da dire. Perch la nostra vita sia pi buona. E gli amici che hanno condiviso con me quellesperienza sono sempre nel mio cuore. La mia Grazia ruspante dal cuore doro, la mia dolcissima Bea, la Daniela cos simpatica, il trio Galli, Andrea (il Proietti) e Uzzimen (Fabio, tenero Fabio). E Padre Filippo, che ora purtroppo non pi tra noi, se l preso la montagna in una piovosa giornata di aprile di questanno. Filippo, cos bello e cos pieno di luce, che mi ha tenuto per mano lungo quella nuova strada che senza volerlo mi ero trovata a percorrere. Che mi ha preso per mano tante volte in montagna, che mi incoraggiava a proseguire la salita quando non ne potevo pi, che mi faceva vedere con occhi nuovi il buono che cera in me e intorno a me. Silvano Fausti lho scoperto l. Lui, il teologo che aveva studiato in Germania, dalla strana accentata di bergamasco, che leggeva direttamente il vangelo dal greco. Uomo di poche parole, molto timido e riservato. Ma quando quelle parole uscivano, non esisteva nientaltro intorno. Tutti si concentravano su quel viso da montanaro con la barba brizzolata che iniziava a raccontare. E stato lui lultimo a vedere Filippo rotolare gi dalla montagna. Fino alla fine, compagni e fratelli. Cos diversi. Un pacato filosofo e un austero tenace teologo. Capaci insieme di grandi cose. La loro grande risorsa era il silenzio. Uno dei pi profondi che io abbia mai conosciuto, perch non era solo assenza di rumore. Era pienezza di senso. Anche quando col Robi si facevano i

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sogni guidati e gli psicodrammi, dove si era chiamati a esternare paure, stati danimo, ferite e dolori e a riviverli col pretesto di una messinscena, il silenzio era denso di significati. E le parole erano scelte con cura, dosate con attenzione. Com brutto sprecare le parole, fare discorsi sciocchi e insensati! Quando scopri quanto sia importante quello che dici e come lo dici, diventi insofferente ai discorsi futili, ai pettegolezzi e alle maldicenze. La parola dovrebbe servire ad altro, a comunicare qualcosa di giusto e bello. O a denunciare e condannare ci che non lo . O a portare conforto o allegria. Ma le insulsaggini dovrebbero essere bandite dalla bocca come dal cuore. A Selva non c proprio posto per le stupidaggini. Anche se il clima disteso e gioioso, capisci subito che sei l per qualcosa di serio. E decisivo per la tua vita. E senti che giusto cos, quel momento deve essere cos. La gente che arriva l da tutta lItalia e di tutti i tipi lo sa. Le milanesi Stefi rasta e la Paola da centro sociale come il gruppo semipastorizio dei sardi e il trio colto dei lecchesi (i mitici Galli, Andrea e Uzzi) avevano in comune con tutti questo impegno a vivere insieme lesperienza di Selva. Poi, magari, tornati a casa, hanno ripreso la vita di sempre senza particolari sconvolgimenti. Ma io credo che non puoi tornare ed essere sempre lo stesso di prima. Magari solo poco poco ma sei cambiato. Anche i momenti di svago e divertimento (e non erano pochi) erano diversi. Durante le gite in montagna (memorabile e faticosissima, ma memorabile, il mega gitone dellalba, partenza all1 di notte per arrivare alle 7 in cima a fare colazione con pane e nutella cantando i canoni di Taiz di Filippo mentre

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spuntava lalba) tutti aiutavano tutti e ci si aspettava, nessuno tirava avanti se l ultimo della fila si fermava. Si dividevano i panini mezzi sfatti e le mele. Chi era pi robusto portava gli zaini delle vettovaglie. E chi era senza fiato veniva preso per mano e accompagnato. E mi ricordo ancora quel canalone tremendo io per mano ad Andrea e Bea con Fabio, Grazia col Galli a correre gi coi sassi che ti entravano ovunque e a ridere come scemi e a scivolare, a rialzarsi e a cadere di nuovo Sono ritornata con gli occhi pieni di lacrime e di gioia. La mia casa non mi sembrava pi la stessa. Ero io che e non ero pi la stessa. E tutto incominci. Spole tra Paullo e Milano, tra Milano e Lodi, Castiglioncello e Lecco. Per ritrovare amici, per incontrare i Padri, per ricordare e stare insieme. Ho vissuto come una nomade per qualche anno. Sempre con la valigia in ballo. E tante tante belle occasioni di crescita personale da sfruttare. A Selva ci tornai ancora, una volta in estate e 4 volte in inverno. Ma non fu pi come la prima volta. Non ero pi la ragazzina secchiona, dagli orizzonti un po limitati, che per la prima volta si apriva a un nuovo modo di essere. Con luniversit a Milano e tutta questa nuova gente accanto a me, mi allontanavo sempre pi dalla vita paesana paullese che mi andava ormai decisamente stretta e iniziavo a camminare da sola alla ricerca di me stessa. Comunque, Selva rimase sempre per me un punto fisso di riferimento costante per confrontarmi man mano sulle scelte che mi trovavo a fare. Ritornarci era come ritornare a casa.

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MAGNA GRECIA UNO E DUE Col periodo universitario, avvennero non pochi cambiamenti. Prima di tutto, lincontro con la metropoli,

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Milano. Affascinante, ricca di chiese e musei, mostre darte e rappresentazioni teatrali. I miei luoghi preferiti erano (e sono) Palazzo Reale e il Museo di Storia Naturale. E la C Granda, lantico Spedale dei poveri progettato dal Filarete, ora sede dellUniversit. Le stradone sovraffollate, la gente perennemente agitata e i negozi sfavillanti non mi hanno mai conquistata granch. Non amo la confusione e la folla n la mercanzia di lusso. La vasca in Corso Vittorio Emanuele, quella s. Locali in mai frequentati, n discoteche. Solo qualche volta a spasso sui Navigli. Ma Milano per me era soprattutto cultura, apertura mentale e nuove conoscenze. E Padre Filippo, dal quale mi recavo regolarmente per parlare e per pregare. Alluniversit conobbi un sacco di gente (soprattutto ragazze, e per forza a scienze biologiche di maschi ce nerano pochini). L incontrai Laura e Elena, due genialone che pigliavano tutti 30 senza studiare granch (ma io non ci ho mai creduto!). Erano due ragazze piene di vita e di entusiasmo. Anche loro, come me, reduci da anni sacrificati sui libri, avevano voglia di divertirsi e muoversi. Io continuavo le mie spole tra Lombardia e Toscana. Loro programmarono unestate in Grecia con la tenda. Io accettai subito. Le reticenze dei genitori furono vinte dalla presenza di un amico pi anziano di noi che ci avrebbe protetto. In realt, eravamo capacissime di difenderci da sole. Programmammo un itinerario nel Peloponneso, nella Grecia classica, con una puntata a Creta, con soggiorno al mare. Un viaggio di quasi un mese. E con lo zaino regalato da mamma lanno prima e

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tanta voglia davventura, mi imbarcai a Bari per Patrasso. Eravamo cos felici di quella libert che finalmente ci era concessa, quelle vacanze un po randagie e insolite ci facevano sentire capaci di tutto. Dormivamo in campeggio, ma anche in spiaggia o alla stazione. Mangiavamo dove capitava, a volte anche bene (amo la cucina greca, le verdure, il pesce, lagnello e lo yogurt) a volte frutta o un po di pane. Ma andava bene cos, un paio di pantaloncini e una canotta, sandali di cuoio e un cappellino in testa. Adesso, non potrei fare a meno di una bella camera con bagno e laria condizionata. Ma a 19 anni a me importava solo vedere, conoscere, girare e divertirmi. Ci spostavamo in autobus, con lautostop o con il traghetto. Atene fu una gran delusione, Acropoli a parte, il resto era un caos bisunto e fastidioso. Olimpia, Corinto e Micene, invece, piene di aromi di resine e di suggestioni antichissime. Quasi mistiche. Soprattutto Olimpia, cos verde e fresca, dove camminai nello stadio che vide le prime Olimpiadi. A Corinto predic San Paolo e mi soffermai davanti al luogo dove proclam le sue parole ai Corinti. Micene indubbiamente la pi antica, rovine ovunque,disseminate sui pend erbosi dove si abbarbicano miriadi di capre. L riconobbi la tomba di Agamennone, illustrata in tutti i libri di storia dellarte. Emozioni senza fine. Allantico teatro di Epidauro assistemmo alla rappresentazione delle Troiane di Euripide. Uno spettacolo un po troppo da turisti, molto appariscente e sfarzoso. Certo, non capendoci niente (il greco poi quello antico e chi lo sa? Io lavevo studiato per anni, ma sentirlo parlare e capirlo ben

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altra cosa) dovevano puntare sulla messinscena, sulle coreografie e sui costumi. Fu comunque bellissimo. Ma Creta, Creta le super tutte. Percorremmo con lo zaino in spalla le gole di Samaria, 18 KM nel letto asciutto di un fiume che in inverno scorre impetuoso. Immersi nel bosco selvatico, ecco spuntare un antico villaggio di legno, una chiesetta ortodossa, un ruscello ghiacciato e trasparente. Ogni angolo, una sorpresa. E quando passammo attraverso le strettissime gole, avemmo limpressione di superare un ostacolo mitico. Sembrava che le pareti ripidissime ti rovinassero addosso. Il paesaggio, divenuto irreale, poteva essere solo una dimora degli dei. Dei misteriosi e abituati al sole quasi africano, al biancore delle pietre arse e alle enormi pale dei fichi dIndia. Dei che al termine della lunga vallata, potevano gettarsi in un mare azzurrissimo e pieno di pesci variopinti e trovare refrigerio sulle tiepide spiaggette chiare, ancora deserte e quasi incontaminate. Gli dei che abitavano ancora il palazzo di Minosse con le sue colonne tozze e rosse e i delfini (rifatti) dipinti sulle pareti. E si godevano il profumo di pesce alla griglia e il vino resinoso e freddo. E noi ci sentivamo un po come loro, liberi e senza una meta precisa, pronti a godere di tutte le meraviglie della natura e dellarte. Felici della brezza profumata di finocchio, mirto e rosmarino. E di tutte quelle antiche vestigia di civilt che hanno generato cultura e bellezza. Era un vero incantesimo. E chissenefregava se i piedi erano scuri e pieni di vesciche e le spalle scottate, se non si riusciva a dormire bene nel sacco a pelo sul suolo sassoso o cementato. Eravamo

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sempre sotto un cielo purissimo, in mezzo al mare e alle scogliere rocciose. Questo contava. Era tutto cos nuovo. Non parlavamo molto, anzi parlavamo poco, perch i nostri sensi erano tutti impegnati a osservare, assaporare, annusare, ascoltare e a immagazzinare nella memoria. Che mi torn utile quando in Grecia, ci ritornai, quattro anni dopo con gli amici del liceo. Eravamo in tanti, 8-9 credo, e cera sempre la mia Bea, la Paola e lo Stefano, i compagni di tanti momenti belli. Ad Atene arrivammo in aereo, per me la prima volta, con una fifa spaventosa. Io mi sentivo a mio agio. Avevo preparato litinerario, cartine e guida alla mano. Questa volta, per, le isole: oltre a Creta, che mi aveva stregato e volevo rivedere, Santorini che mi affascinava per leruzione del vulcano che laveva distrutta, e poi Nassos, lisola di Bacco, Paros e Antiparos. Queste ultime famose per le spiagge, le case tipiche e la buona cucina. Santorini un po troppo turistica, anche se le case bianchissime, sfavillanti sotto il sole, abbarbicate sulla strettissima scogliera, hanno sempre un certo fascino. Nasso, nellinterno, molto arida, un su e gi scuro e polveroso che percorremmo in jeep. Un paesaggio suggestivo, ma monotono. Il sole era davvero impietoso e a quasi tutti venne la febbre. Marco, che soffriva la macchina, stette male da morire e dovemmo fermarci nel primo bar che trovammo. Una specie di oasi nel deserto. Paros, invece, fu pi simpatica. I paesini sono pieni di straduzze con i tavolini in legno fuori dai bar e i vecchietti seduti su sedie impagliate sfilacciate. Basta alzare la testa per vedere a stesi ordinatamente sui fili come panni lavati moltitudini

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di polpi. Il campeggio era molto bello, pieno di verde e un po isolato. La strada per arrivarvi costeggiava la spiaggia e , orrore, era piena di enormi ratti morti. Io ho da sempre il terrore dei topi, soprattutto se grandi e grossi. Nemmeno anni di ricerca in laboratorio (prima sui topini, poi sui rattoni) ha estinto questa paura irrazionale. E da quando un ratto, poi, mi ha morso, la foba pure peggiorata. Quando ci tuffammo nelle acque limpide, io mi trovai un topone che mi nuotava accanto. Il giorno dopo, qualcuno di noi aveva una leggera febbre. Io chiamai pap, veterinario, perch temevo che avessimo contratto la leptospirosi, malattia comunemente trasmessa dai topi. Naturalmente mi tranquillizz. Io, in realt, rimasi nel dubbio fino a quando non ci imbarcammo sul traghetto per lasciare lisola tutti completamente guariti. Eravamo bruciati dal sole, asciugati dal sale e davvero un po stravolti. E mentre io, Bea e Paola eravamo davvero entusiaste di questavventura continua, nonostante i piccoli inconvenienti, Grazia giur che non sarebbe mai pi venuta in vacanza con noi a strapazzarsi cos. A camminare per ore sotto il sole, con lo zaino sulle spalle, a imbarcarsi in continuazione (pure col mare grosso, con tutti che stavano male), a vestirsi come barboni. Tornare a casa distrutta e ricominciare il lavoro senza essersi concessa una reale pausa di sano e totale relax era per lei un dramma. Gli unici quindici giorni di vacanza dellanno trasformati in un incubo. Ma gli altri erano belli soddisfatti e quindi Grazia, a un certo punto, in netta minoranza, si rassegn, tanto la vacanza era quasi finita. Tornammo conciati da sbattere via, con i fuseaux bucati e

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le espadrilles rotte e con la pelle scura forse per il, sole forse per la sporcizia. Ma quella vacanza fu oggetto di racconti memorabili e quasi epici per anni. Tranne per Grazia, che, credo, labbia cancellata dalla memoria. Ma io, ancora adesso, quando riguardo le foto, ridacchio dentro di me. E penso a come eravamo ancora giovani, spensierati e felici per ogni piccola cosa.

LA CITTA ETERNA Ho visto Roma per la prima volta a quasi ventiquattro anni. Tardi, ma meglio cos. Prima, da ragazzina, lavrei

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guardata con occhi ingiusti. Mi avrebbe forse anche stancato e un po deluso. Non mi avrebbe sedotto, sarei stata troppo acerba e impreparata a gustarne le meraviglie. E poi, magari non ci sarei andata con la compagnia giusta. Mia sorella, che in realt ha rotto un po, Ange, che conosco da quasi 30 anni e la cugina Ornella, infaticabile camminatrice. Un agosto caldo, ma non troppo e noi in pantaloncini, canotta e cappello di paglia (roba da turiste americane), cartina in mano, ci sentivamo padrone della Citt Eterna. Arrivo in treno, Roma Termini affollatissima. Dovevamo arrivare a Monte del Gallo, dove avevamo prenotato mezza pensione in un albergo gestito da religiose (insomma, ragazze da sole s, ma con un po di sicurezzagi, peccato che il quartiere fosse frequentato da strani individui e alla sera piuttosto deserto. Dopo esserci avventurate col taxi per le vie di Roma, esserci perse (non ci eravamo capite, problemi di romanesco?), tornate indietro, sbagliato direzionefinalmente in albergo. Carino, pulito, stanze spaziose con terrazzina. Il primo impatto con Roma davvero buono. Anche perch durante il tragitto in taxi avevamo gi avuto un assaggio delle bellezze della citt. Ci immergemmo subito per strade e piazze, a piedi e in autobus, cercando o imbattendoci per caso negli angoli pi straordinari. Oltre ai luoghi obbligati (S Pietro, S Giovanni in Laterano e le altre grandi basiliche, il Campidoglio, le piazze pi belle del mondo e i musei vaticani) ci ritrovammo in vicoli e piazzette sperdute. A rimirare una fontanella o un cornicione. O un negozietto di merci deliziosamente

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inutili. Per mezza giornata cercammo la casa di Anna Magnani. E non la trovammo. E arrivammo in bus fino al santuario del Divino Amore pur di percorrere tutta la Via Appia. Ci perdemmo nel ghetto ebraico. Andammo a vedere i gatti che vivono a Piazza Argentina tra le rovine. Passeggiammo nei Fori, ammirandone leleganza senza tempo. Nelle catacombe di S Callisto e nelle tombe dei papi mi sentii un po male, non ho ben capito se fosse la claustrofobia o lemozione. Comunque, a parte questi piccoli inconvenienti e qualche vescica ai piedi, ci divertimmo tantissimo. Mangiavamo dove capitava, anche sedute per terra. E non eravamo mai stanche di guardare e tentare di imprimere nella nostra memoria la moltitudine di meraviglie che in fretta attraversava i nostri occhi. Gustavamo pienamente tutta la bellezza dirompente delle mura, delle vie, dei colori al tramonto (a Roma chiss perch, ha una luce tutta particolare che indora qualsiasi cosa e stende ovunque un velo di soave quiete), del ponentino serotino e delle piante odorose e umide delle Ville. A Tivoli oltre alla magnificenza della Villa e delle sue fontane, trovammo anche la cucina semplice e saporita di unosteriaccia dallaspetto malfamato, ma che dentro celava un localino delizioso con terrazza ricoperta da un pergolato di vite. Riuscii a fatica a convincere le mie compagne ad entrare ma la fame ebbe la meglio e poi, comunque, fummo tutte contente. Ci ritornai col fidanzato qualche anno appresso suscitando le medesime reazioni. Ridevamo quasi sguaiate sentendo i romani calcare il loro accento sempre esagerato e a volte un po smorfioso. Simpatici coattoni.

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Che personaggi. Come quella signora sulla metropolitana che si chiamava Ercolina. O come il matto di Piazza Barberini, uno strano individuo che ritrovai anche le altre volte che capitai a Roma. Salutava tutti con un paio di antenne in testa. Era sempre l, accanto alla fontana del Tritone. Sempre allegro e sorridente. A Roma ci tornai per ludienza col Santo Padre. Karol Woytila, il Papa della mia giovinezza e maturit. Luomo che ha contribuito ad abbattere i muri e che ha incontrato tutto il mondo. Un santo mass mediatico che ha sperimentato la guerra, la solitudine e la sofferenza. Ci ha lasciato uneredit ricchissima di speranza. Non abbiate paura me lo ricordo come fosse adesso, il vocione emozionato e prorompente. Un vero uragano di fede. Il resto non mi ha mai interessato. Lemozione di trovarsi a qualche metro da quel vecchietto ricurvo con uno sguardo immenso fu indescrivibile. Nella meraviglia ieratica della sala Nervi, un uomo gi toccato dalla vecchiaia e dalla sofferenza suscitava una corrente di entusiasmo che si propagava come unonda. A Roma ci tornai col fidanzato, ma per una vacanza allinsegna dellallegria e delloriginalit. S, perch il nostro compagno di viaggio era un amico vietnamita che sfrutt loccasione per andare a trovare il fratello che abitava Villa Adriana presso Tivoli. Non visitammo Roma, la percorremmo di corsa, ma perch sinceramente pigliammo quella vacanza alla leggera. Dormivamo ai Parioli, ospiti nella casa di un amico del vietnamita, artista, che era assente per lavoro. Mangiammo nei posti pi impensati, in modo orribile (per forza, non mi

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facevano scegliere i posti giusti!) e soffrimmo un gran caldo. Col fratello, ci divertimmo un sacco, parlava benissimo il romanesco e sembrava un comico alla Benigni. Un po ci rimasi male, non ero riuscita a godermi la mia citt preferita. Per risi molto. Lultima volta a Roma fu nel 1995, in ottobre, lultima vacanza con la mia Ange. Strano, la prima e lultima (per ora) volta a Roma sempre con lei. Nellaprile 1996 mi sarei sposata, fu una sorta di viaggio di addio al nubilato. Un ottobre splendido, giravamo in mezze maniche. Stavamo allEUR dagli amici di Ange che ci offrirono unospitalit davvero calda e generosa. Ripercorremmo le nostre piazze, le nostre vie, i nostri luoghi. Senza tanti discorsi, tranquille, senza la smania di vedere della prima volta. Roma la conoscevamo gi, era unamica. Sapevamo quali mezzi prendere, in quali negozi comprare e in quali posti mangiare. Camminavamo senza pensare a dove andavamo, perch lo sapevamo. Godemmo il sole, la brezza serotina, la luce del tramonto, la sera frizzante del centro. Era il nostro saluto e laugurio per una nuova vita felice.

IN EUROPA CON LA PARROCCHIA Oltre ai soliti pellegrinaggi, da Lourdes a Padre Pio e Loreto, le parrocchie organizzano anche gite amene in

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luoghi di interesse artistico e culturale con lo scopo di incentivare la socializzazione e lamicizia. Visto che Ange continuava a propormi di andarci con lei, accettai di seguirla ad Amsterdam. Fortunatamente, nonostante let media dei partecipanti fosse sulla sessantina, si era iscritto anche un piccolo gruppo di gente pi giovane. Cos, in una fresca mattina di fine agosto, caricate le valigione sul pullman di Spini, la premiata ditta di autotrasporti paullese, adesso definitivamente chiusa, partimmo tutti eccitati alla volta della citt pi trasgressiva dellEuropa. Viaggio lunghissimo, a tappe, rallegrato dal continuo scherzare, cantare e chiacchierare. Sosta in Germania e poi via ancora verso Nord. Il paesaggio olandese non esaltante sotto la pioggerellina fina e il cielo plumbeo: piatto, verde e punteggiato da villaggi di casette dalle finestrelle con le tendine di pizzo. Ma la citt, un intrico di ponti e case strette coloratissime, fu una vera rivelazione. Sono nella citt di Anna Frank, del museo di Van Gogh e del quartiere Rossebuurt (quello delle donnine in vetrina), mi ripetevo, affascinata da questa Venezia moderna. In giro per strade e piazze, unumanit variopinta e stramba. Allora in Italia se ne vedevano ancora pochi di stranieri. L, erano lelemento dominante. Rasta, indiani, cinesi, giovanissimi o decrepiti, mezzi stracciati, con le gonne lunghe o i calzettoni e il cappello in testa. Biciclette ovunque, signore dai capelli color grano con le sporte della spesa, mamme e bambini, ragazzi sbrindellati, tutti in giro su due ruote sulla pista ciclabile che attraversa tutta la citt. Latmosfera aveva un che di nebuloso, sar stato il tempo

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piovoso o il fumo delle canne, ma laria non mi sembrava tanto trasparente. Come una cortina lattiginosa che velava tutto. E conferiva alle cose e alle persone un certo fascino. Anche Bruxelles mi piacque molto, ma, insomma, unaltra citt, pi seriosa, raccolta e distinta. Anche se di ampio respiro europeo. Ma la gita non consisteva solo di visite alle citt: i momenti conviviali erano il momento pi atteso. Come la sfilata in biancheria da notte a cui, ahim, partecipai con tanto di cuffietta in testa e camicia a trine e balze. Naturalmente, rigorosamente al buio con bugia depoca in mano. Per prepararla, le signore svuotarono i recessi pi nascosti dei loro armadi per riportare alla luce preziosi lini e pizzi della nonna o della mamma. Sfilammo trattenendo le risate. Riscuotemmo un enorme successo. Lanno dopo, entusiasta dellesperienza, la ritentai sempre con la mia Ange. Meta: Praga e Polonia. Mi attirava molto lidea di visitare Praga, rinomata per la sua atmosfera decadente. Ma la vera sorpresa fu Cracovia e Auschwitz. Certo Praga ha un fascino particolare e un po demod, con le sue piazze, il castello, il ponte e i tetti puntuti, un po da castello di Dracula. Artisti di strada ad ogni angolo che suonano e ballano ritmi un po tzigani e perfino un incantatore di serpenti. Per il campo di sterminio, con la sua desolazione, lodore di morte ancora aleggiante su una distesa di baracche in legno e lo stormo di corvi gracchianti sotto il cielo plumbeodi sicuro le condizioni metereologiche contribuirono non poco ad appesantire un sentimento gi opprimente e tristissimo, soprattutto nei forni e nelle

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camere a gas. Piansi tutto il giorno, non riuscii nemmeno a scattare una foto. Solo nella chiesa dei cappuccini costruita proprio allingresso del campo ritrovai un po di serenit. Strano trovare una chiesa in un luogo dove si consumato un mare dodio e di violenza. Ma forse, pu diventare presenza di riconciliazione. Nonch di riflessione su quanto devastante il male. Proprio come il santuario di Cestochowa, dove di trova la statua della Madonna Nera, per decenni simbolo di unit e speranza per tutti i polacchi. Ogni sera, dal santuario si leva una struggente melodia, la preghiera alla Madonna che i polacchi, ovunque si trovino, intonano alla loro Madre sfregiata. Licona inquietante, lo sguardo che lacera la materia, come quei due segni che una mano iniqua ha inciso nellenigmatico volto nero in dispregio alla sacralit della libert. In netto contrasto con laustera sacralit bizantina dellicona, i cori e i balli festosi allesterno, tanti giovani in festa sventolanti fazzoletti. Oltre alla collina del santuario di Jasna Gora, niente pi di interessante, la cittadina anonima, piuttosto incolore. E incredibile come in Polonia, appena fuori dai luoghi di interesse, la realt sia incredibilmente disadorna. Come anche la campagna, cos trascurata, intorno a Wadowice, il paese natale di Giovanni Paolo II, cos ridente, con la bella casa-museo del grande papa dove si possono ammirare le sue lettere e le sue foro da giovane e i suoi sci. O come il Wavel a Cracovia, la basilica e il mercato, che pullulano di storia e follklore e solo qualche via dopo le strade sono vuote, spoglie, case vecchie e scrostate dai vetri rotti. Emozionante il cimitero ebraico, pietra su

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pietra e pietre per fiori e lapidi a ricordare la triste epopea. Una pietra su una tomba sconosciuta lho messa anchio. Un gesto che lego idealmente alla preghiera che ho inserito nel muro del pianto a Gerusalemme nel 1997. Il dramma degli ebrei lo sento vicino, non so perch. Forse perch li considero fratelli maggiori nella fede. E forse anche perch per me un po il paradigma degli eccidi contemporanei che si sono consumati e si consumano in tutto il mondo a spese di innocenti per gli interessi di pochi tiranni. Un viaggio impegnativo, questo. Una riflessione lunga una settimana sui drammi degli uomini che uccidono altri uomini. Mentre di puro sollazzo quello dellanno successivo in Provenza, Camargue e Costa Azzurra. E l, natura, mare, la Croisette, Il Principato. Ma chiss come, il mio interesse per le gite parrocchiali iniziava a scemare. La compagnia era simpatica, lorganizzazione e gli alloggi soddisfacenti,gli itinerari comunque interessanti. Ma a me il turismo puro non basta. Ho bisogno di storie, di ricordi e di emozioni intense che vengono dal tempo. La vacanza non deve essere un tempo inerte, deve produrmi conoscenze, sensazioni e ricchezza interiore. Cos che io possa tornare a casa con un bagaglio in pi. Altrimenti, se devo proprio riposare, vado al mare e mi piazzo sotto lombrellone con i miei libri. Poi mi butto in acqua per unora e dopo pranzo mi appisolo. MISSIONE INDIA Tra una gita e unaltra, mi buttai in una avventura che segn non poco la mia vita. Con Giovanni, ho condiviso

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tantissimo della mia vita, ma la cosa pi straordinaria stato e rimane tuttora limpegno a favore delle missioni, in particolare in India. Tutto inizi da un viaggio che lui fece nel 1988, in mano un biglietto aereo e un indirizzo. Part perch aveva bisogno di lasciarsi alle spalle per un po la sua solita vita tranquilla e scontata. Paullo un bel paese, ma estremamente noioso. Non ci manca nulla, eppure ci si sente immersi in unatmosfera vuota, senza stimoli n fermenti. Brava gente, laboriosa, ma piuttosto chiusa e sulla difensiva. Impicciona a sproposito. Di idee ce ne sono tante e anche di gente che si sforza d realizzarle, ma fanno fatica a decollare perch le persone non aderiscono o si stancano o preferiscono andarsene fuori. Milano, Lodi e Crema sono alle porte e offrono molti diversivi. Qui sono tutti abituati a cercare altrove svaghi e impegni. E le amicizie. Si fatica molto a creare una forza coesiva, tranne che per occasioni di un certo rilievo. Le manifestazioni in piazza, tipo mercatini, sono affollatissime. Cos pure le esibizioni di giocolieri, falconieri e band. Quando per si tratta di impiegare tempo e impegno per realizzare qualcosa insiemeci si ritrova con i soliti quattro gatti che appartengono a pi gruppi e associazioni e corrono a destra e a sinistra fionde irrimediabilmente per realizzare met di quello che si erano proposti. Non so se fu solo questo il motivo a spingere Giovanni a partire, forse era un momento di svolta nella sua vita, aveva maturato una scelta di serviziosta di fatto che se ne and in uno dei pi grandi lebbrosari dellindia meridionale, a Nalgonda, 2 ore da Hyderabad , noto polo informatico. E l, successe.

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Giovanni imbiancava, giocava coi bambini, trasportava i lebbrosi in braccio. Dormiva nel convento delle suore francescane dellImmacolata, condivideva con loro il riso e le banane. Bevevo la stessa acqua che gli caus 6 mesi di malessere che si rivel poi causato da un fungo nel sangue. Ritorn sconvolto, incapace di accettare le contraddizioni di questo nostro strano mondo, chi troppo, chi niente. Si chiuse in casa per mesi, rifiutando gli svaghi, cercando di trovare un senso al dolore che aveva visto e sentito nella sua anima. Il passare dei giorni lenisce sempre le emozioni e pian piano riusc a trasformare il suo sentimento di impotenza in gesti di servizio e premure. Andava a servire i barboni di Fratel Ettore con un amico con cui aveva condiviso lesperienza indiana. Lo conobbi cos e mi attir il suo sguardo visionario, la sua smania di donarsi e i suoi sogni in terre lontane. Lo seguii. Avevo voglia di nuovo, il paesello dove abito a me sta da sempre stretto e appena mi si prospetta la possibilit di conoscere persone diverse e lanciarmi in qualche impresa che mi stuzzica non ci penso su due volte: vado! Cos inizi unavventura che si impresse nel mio cuore, allarg notevolmente i miei orizzonti e mi port a conoscere ed ad amare quella straordinaria gente che vive e lavora in India. Il primo incontro con il grande subcontinente avvenne appena fuori dallaereo a Mumbai (allora si chiamava ancora Bombay). Una cappa opprimente di umidit calda e di spezie sgradevoli mi incoll gli abiti addosso. I monsoni erano in ritardo quellanno, il cielo era piombo pesante e laria intrisa di sporcizia, acqua putride e curry era

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irrespirabile. Rimasi stomacata. Alluscita dellaereoporto, stormi di mendicanti vestiti di stracci sporchi erano incollati alle vetrate, pronti, come avvoltoi, a calare sui viaggiatori per allungare le mani nella richiesta disperata e incalzante di elemosina. Prendemmo un taxi per giungere alla missione delle suore del PIME dove ci saremmo fermati fino a quando non avremmo trovato un volo per Hyderabad. Le strade erano asfalto fuso che esalava una caligine cattramosa e acre, quasi un nodo intorno alla gola. Ai lati, capanne in lamiera, plastica e quantaltro quei poveracci di abitanti avevano potuto rimediare per costruirsi quellalloggio di fortuna. Dietro, grattacieli superbi, sfavillanti. A ogni semaforo rosso, mani e braccia di bambini che si intrufolavano nellabitacolo, sempre alla ricerca affannosa di qualche rupia. Sdraiati sui marciapiedi, donne e anziani paralitici o semplicemente miserabili, con le piaghe avvolte in cenci luridi, quasi incapaci anche solo di tendere una mano, gli occhi socchiusi e sfiniti. Langoscia quasi mi offuscava la vista, quante volte mi ero immaginata quel viaggio, mi ero documentata, avevo visto film, diapositive e fotoma un conto sapere che linferno esiste, un altro entrarci. Le strade rotte, piene di buche erano intasate di risci, biciclette, macchine ambassador e mucche anche nelle zone centrali della citt. Mi sentivo come in un immenso formicaio inquinato, frastornato dai clacson e dalle voci dei venditori che popolavano le miriadi di negoziucci stipati di merce di ogni tipo. I colori accesi e sfacciati, in netto contrasto col nastro della strada e il cielo praticamente dello stesso grigiore

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incandescente, mi stordivano. I sensi erano parecchi frastornati quando finalmente arrivammo in un lasso di tempo che mi parve eterno alla missione. Perlomeno l cerano ordine, pulizia e quiete. Una sorta di oasi nellimmane caos della citt. Ma le puzze ancora lodore di panni non asciugati da giorni, di fogna, di smog e un altro olezzo, diverso s, ma comunque insopportabile: il fetore della lebbra. Carne umana marcia. Ovunque era penetrato il miasmo, fin nelle mura del convento e nei meravigliosi alberi del giardino tropicale. Lo sentivo perfino nellacqua che bevevo, preventivamente bollita per disinfettarla. Pure nei buoni cibi che le suore ci preparavano con cura. E mi sentivo persa. In quellaria cos greve, cos tetra, tra quei fantasmi di uomini e donne devastati dal male, con tutti quei corvi neri che gracchiavano lugubri e le zanzare che nonostante la zanzariere mi entravano nel letto. Me ne volevo andare, via da tutta quella tristezza, quel buio, quella desolazione. Purtroppo, il successivo volo per Hyderabad era dopo 2 giorni. Mi veniva da piangere. Nella missione si trovavano anche due giovani volontarie, da giorni insidiate da vomito e diarrea. Ecco, mi dicevo, ora star male pure ioe non toccavo verdura cruda, latte e burro nel timore di contrarre qualche bacillo. Mi sentivo come in un incubopure i ratti che correvano in giardinomamentre bighellonavo tra gli alloggi dei malati e mi chiedevo perch mai mi fossi imbarcata in quella brutta faccenda, il sorriso bonario di unanziana suora, Suor Rosa, mi calm. Cap che ero piuttosto inquieta e cerc di consolarmi un poco. Raccontandomi la

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sua odissea indiana di 40 anni prima. Molto peggio della mia. Appena 23enne, assolutamente ignara, ma decisa ed entusiasta, si era imbarcata alla volta dellIndia con qualche consorella. Il viaggio era stato terribile: tempeste, carenza di cibo e di nomali condizioni igieniche . Allora non esisteva ancora il canale di Suez e quindi la rotta prevedeva di doppiare il Capo di Buona Speranza. Tre mesi di attesa, paura e speranza. Qualche suora si ammal e successivamente mor. Fortunatamente, lequipaggio fu molto assiduo e generoso con le impavide giovani che affrontavano un viaggio cos duro per la vocazione di aiutare i poveri pi poveri. Al termine del lungo viaggio, erano tutti diventati fratelli e sorelle e fu triste salutarsi. Ma il peggio doveva venire. Il clima e le malattie misero a dura prova il gruppo delle missionarie. In un alloggio di fortuna, esposte alla calura opprimente e al lezzo carico di bacilli, estremamente affaticate nel lavoro senza tregua con i lebbrosi, nutrite di poche verdure malsane, solo poche, quelle pi robuste, resistettero. La tentazione di soccombere e mollare tutto divenne estremamente allettante. Ma suor Rosa, no, lei rimase, testarda e certa che l era il posto dove il Signore laveva destinata. Per anni non mise piede sul suolo italiano. Combatt strenuamente contro la fame, la stanchezza, lo sconforto e la malattia dei suoi fratelli sfortunati. E rimase. Io volevo scappare dopo un giorno. Iniziai a ripensarci. Anche la visita a una casa di accoglienza per disabili gravi, che si trovava vicino alla missione, mi fece comprendere come anche nelle situazioni difficili si poteva reagire e costruire unesperienza importante di vita. Quando mi imbarcai per

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Hyderabad, quasi mi dispiacque. Ma avevo anche bisogno di aria pi fresca e di spazi aperti. Limpatto con il piccolo aeroporto ancora quasi in costruzione fu un po particolare per la massiccia presenza di uomini e donne musulmani che gridavano e facevano una grande confusione allarrivo di parenti o amici. I pesanti veli e le voci gutturali mi stordirono non poco. A fatica riuscimmo a districarci in quella massa informe e avvistammo lautista di Padre Luigi, Balaswami, col cartello Welcome, Giouanni and Piera. Rassicurante, col suo largo sorriso che scintillava sul viso nero, lindiano caric i nostri bagagli e partimmo per Nalgonda. Sospiro di sollievo. Per due ore, attraversammo villaggi brulicanti di vita, mercati variopinti ai lati della strada, i soliti miscugli pazzeschi di spezie che per avevano un odore sano, quasi stuzzicante. Animali tranquilli e noncuranti delle macchine, attraversavano indolenti. Musichine insopportabili come campanellini striduli facevano da colonna sonora a tutto quell andirivieni che per almeno era vivace e ciarliero. Lontano dallangosciante nube ammorbante dellimmensa citt, anche la povert era pi sopportabile. La missione di Padre Luigi aveva un ingresso degno del ranch di JR : unenorme cancellata con le iniziali del centro (LHC, Leprosy Health Centre) e guardie allentrata. Allinterno, un grande giardino con piante rigogliose e fiori dal profumo inebriante, una grande armonia composta e elegante dove la natura accoglieva con ordine gli edifici dellospedale, del collegio, del convento e delle officine. Laria quasi ferma, ma pura. I

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bambini che giocavano festosi ci corsero incontro, volevano una foto. I malati, quelli che potevano camminare, ci salutarono con discrezione. Il chiaro accento lombardo di Luigi ci accolse con il suo solito brio. La lunga barba bianca e il sigaro tra i denti, sembrava Fidel Castro anziano. L, lui, boss della carit integrale, era nel suo regno. Padrone del telegu, il dialetto dellAndhra Pradesh, salutava, richiamava, domandava. Alcuni gli correvano incontro, poi velocemente si allontanavano. Sbrigavano commissioni, facevano consegne e impartivano ordini. Altri, semplicemente, lo guardavano, chinavano il capo con qualche parola appena biascicata. Il tono del missionario era sempre sostenuto e autorevole. Ci fece fare il giro del centro, uno dei pi grandi dellIndia per la cura della lebbra. Trenta anni di sacrifici e di dedizioni erano tutti l, nelle pietre di quegli edifici e nel lavoro che quotidianamente vi veniva svolto. Dagli ambulatori al lebbrosario, dalla fisioterapia ai laboratori per le protesi e le carrozzine, dalla casa per gli ospiti a quella di Luigi, tutto era lentamente fiorito dallimpegno incessante di quel ruvido prete che era arrivato in quel luogo desolato e arido e lo aveva trasformato in un villaggio fiorito dove erano di casa laccoglienza e la solidariet. Quasi tutti ind, la presenza di cristiani decisamente scarsa come anche le conversioni. Ma non era questo un cruccio per il padre. Arrivato poco pi che trentenne, sconvolto e impotente dinanzi al flagello della fame e della malattia, aveva fatto i bagagli per tornare in patria. Ma un lebbroso che lo aveva implorato: Non vogliamo il tuo lavoro, vogliamo te! gli

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era parso un segno della Provvidenza che lo chiamava a restare. E meno male. In tutti quegli anni a venire, di miracoli ne sarebbero avvenuti parecchi. Aiuti in denaro e materiali piovvero da tutto il mondo. Come pure il riconoscimento ufficiale del governo indiano dellattivit educativa e medica del centro. In pi di quarantanni, migliaia e migliaia di lebbrosi curati e guariti, altrettanti bambini accolti, nutriti e istruiti, posti di lavoro per sorveglianti, cuochi, medici e paramedici, fabbri e falegnami. E continue gare di solidariet in varie parti del mondo, con linvio di denaro raccolto nei modi pi disparati e volontari. Avremmo fatto parte anche noi per quasi 20 anni della coorte dei sostenitori del centro col progetto Adozioni a distanza e con i proventi di lotterie e vendite di beneficenza. Lincontro con le suore fu simpaticissimo, Giovanni ritrov le sue vecchie amiche spagnole, Montserrat e Emilia, che ci coccolarono con t e pasticcini al cocco. Donne semplici, forti e generose dallabbraccio tenace a dal sorriso mai spento. L