s a g g i s t i c a · 2019. 1. 2. · in noi la lirica corno inglese, una delle prime di ossi di...
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S A G G I S T I C A
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A COLLOQUIO CON
EUGENIO MONTALE
Saggi di
Giulia Bevilacqua Martina Bianchini Alberto Bisti
Serena Cerasa Vittoria Chiappini Arianna Coletta
Silvia Compagnucci Marta Dolino Sara Fasanari
Riccardo Gasbarri Chiara Giannini Laura Luce Lanzi
Mariele Laurenti Elena Mancini Luca Manfredi
Giulia Moscaroli Sarah Paris Adelaide Pescatori
Vittoria Pontremolesi Laura Maria Ribaudo Lisa Santoni
Stefano Simone Roberta Troccaioli Sara Villa Avila
Gaia Venci
A cura di
Gianluca Zappa
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Per un “nuovo” Montale
Aridità, desolazione... sono parole che si sono imposte come
costitutive dell’immagine di Montale, se non l’unica di certo quella più
diffusa nella scuola e nella cultura italiana, che è giunta fino a noi.
Male di vivere, pessimismo, malinconia, senso di afa, prigione dentro
un muro. E’ innegabile che tutto questo ci sia nelle sue liriche. Ma
bisogna ascoltare il poeta quando circa vent’anni dopo, nel 1946,
scrisse quella sua intervista immaginaria in cui, ricordando la genesi
degli Ossi di seppia, affermava: “Il miracolo era per me evidente come
la necessità. Immanenza e trascendenza non sono separabili”
(Intenzioni, intervista immaginaria, da La Rassegna d’Italia, I, n.1,
gennaio 1946).
Questa compresenza di due elementi opposti e irriducibili crea in
Montale una continua contraddizione che è una legge rischiosa, come
lui la definisce, in quanto non lascia tranquilli, ma “occorre vivere la
propria contraddizione senza scappatoie”. Al tempo del suo primo
libro di poesie questa polarità tra un qui e un altrove innervava tutto:
“Mi pareva di essere sotto a una campana di vetro, eppure sentivo di
essere vicino a qualcosa di essenziale. Un velo sottile, un filo appena
mi separava dal quid definitivo”.
Questa sensazione si rafforzava in lui nell’incontro con il mare: “Tutto
era attratto e assorbito dal mare fermentante”. Fermento, trasalimento,
miracolo, prodigio, attesa… parole altrettanto importanti e ricorrenti
nella poesia di Montale.
Cosa pensiamo tutti? Che in Montale regni desolazione e aridità. Ma
leggendolo con cuore aperto e libero da opinioni consolidate e
analizzando in particolare le liriche che compongono la sezione
Mediterraneo, dobbiamo dire che c’è molto di più e ci troviamo quasi
dalla parte dell’autore contro i suoi interpreti.
Al cospetto del mare Montale ritrova in sé quella legge rischiosa che
costringe a vivere una contraddizione: essere vasto e diverso e, allo
stesso tempo, fisso e piccino. Sarebbe molto più facile, e Montale lo sa
e ce lo dice, essere o l’una o l’altra cosa. Dissolversi nella vastità o
rassegnarsi nella fissità ed essere scabro ed essenziale come un
ciottolo indifferente:
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scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
(Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale)
E’ così che lo vede, lo sente Solmi. Ma la lirica prosegue: Altro fui. E’
così che si vede e si sente Montale. Per questo la legge del mare è
anche severa, ineludibile: l’osso di seppia, il relitto della vita, il
correlativo oggettivo dell’aridità del vivere rimanda sempre al mare. Il
ciottolo roso e sofferente dice il mare. La contraddizione è giusta.
L’immobilità dei finiti se consente di stupirsi di fronte alla vastità e al
tripudio del mare vale la pena. Se il cuore, tanto importante per questo
poeta, può ogni tanto essere scosso da trasalimenti, è giusto e
desiderabile vivere dolorosamente la contraddizione:
Questo pezzo di suolo non erbato
Si è spaccato perché nascesse una margherita.
(Giunge a volte, repente)
Che nasca una margherita nell’aridità del vivere è un miracolo che
genera un trasalimento che a sua volta scioglie ciò che era indurito.
Rivolto al mare, Montale dice:
[…] tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
(Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale)
La sezione Mediterraneo si conclude con una preghiera commovente:
[…] a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla di un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
(Dissipa tu se lo vuoi)
Il poeta ci ha dato qui una chiara definizione del proprio segreto.
Chi brucia non è freddo, non è morto, non è cinico, non è desolato, non
è nichilista. Non è il Montale a una sola dimensione che conosciamo.
Questo lavoro di ricerca a più mani è il tentativo di presentare il
Montale che abbiamo scoperto, quello che significativamente (e
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sorprendentemente) apre gli Ossi di seppia con un “Godi” (In limine) e
li chiude con un “rifiorire” (Riviere), anche in questo caso due verbi
emblematici di un’apertura, di una disponibilità a quel più in là che
tutte le immagini portano scritto, sotto la volta del cielo.
Venendo a presentare le ricerche qui pubblicate, diremo innanzi tutto
che sono frutto della partecipazione alla diciassettesima edizione del
concorso nazionale “I colloqui fiorentini” indetto dall’associazione
Diesse Firenze, alla quale hanno partecipato trentatre studenti del
triennio Classico e Linguistico del Liceo “Mariano Buratti” di Viterbo.
Mi hanno coadiuvato nello svolgere il progetto le docenti Lorella
Alparone e Carla Lamanna. Devo anche sottolineare l’importanza del
sostegno e dell’interesse dimostrato dal Dirigente scolastico Clara
Vittori, fondamentale per lo svolgimento e la riuscita del progetto.
Dopo il convegno di Firenze, il lavoro è continuato con la
progettazione e la realizzazione di una mostra a pannelli presso la
biblioteca comunale di Sutri (Viterbo), realizzata grazie ad una
sinergia tra il Liceo e la locale amministrazione comunale (si ringrazia
in particolare il dott. Tommaso Valeri per la collaborazione).
La prima pista di ricerca che proponiamo, dal titolo Lo strumento da
non “scordare”, è dedicata alle ragioni del cuore, così come emergono
dalle liriche di Montale. La parole cuore è tra le più ricorrenti in Ossi
di seppia e tra l’altro in testi esemplari come Corno inglese. Le
intuizioni e le profonde riflessioni del poeta hanno attirato l’interesse e
coinvolto la sensibilità degli studenti.
Segue un lavoro incentrato su certe suggestioni dei testi di Montale,
legate agli elementi naturali, La zona intermedia ovvero il terzo status.
In effetti il poeta ha un rapporto molto stretto con la natura, alla quale
affida, come è nella tecnica del correlativo oggettivo, il compito di
rappresentare dimensioni profonde. Qualcuno ha proposto di seguire
questa pista, desideroso di scoprire se portasse ad una più precisa
comprensione del mondo dell’autore.
Non poteva mancare un approfondimento sul già citato tema del
miracolo, del prodigio, che a nostro parere dovrebbe diventare un
elemento sempre più connotativo della poesia di Montale. E’ la tesi
che svolge la ricerca Resta lo spiraglio. È poco e forse è tutto, andando
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a verificare, in un viaggio lungo quasi tutta la produzione dell’autore,
la persistenza dell’imprevisto che salva.
A testimonianza di quante varie suggestioni sono nate dalla lettura del
poeta, ecco un’ulteriore approfondimento, quello relativo al tempo:
Una scheggia fuori dal tempo. In effetti l’ossessione del tempo che
passa, che distrugge, che porta via tutto con sé, anche e soprattutto
quello che ci è più caro nella vita, ha sempre accompagnato Montale, il
quale, inoltre, si è spinto ad identificare il problema di “ammazzare il
tempo” come il vero unico grande problema dell’uomo moderno.
Altri studenti hanno invece sentito come molto vicino il problema della
contraddizione, che costituisce infatti l’argomento della ricerca
successiva. Una contraddizione che non si risolve mai in Montale, che
si autorappresenta in una situazione di “soglia”, come sempre ad un
bivio, senza avere la determinazione necessaria per scegliere una
strada. E non fa specie che dei giovani siano rimasti affascinati da
questa situazione.
Infine un racconto inedito, di Stefano Simone, studente che ha
partecipato al concorso della sezione narrativa prendendo l’abbrivio
dal verso che chiude la sezione Mediterraneo di Ossi di seppia e che
forse raffigura meglio il nostro autore. E’ una bellissima storia che
parla dell’incontro di un giovane con Montale e che ha il suo punto
culminante in un dialogo che si svolge tra i due. Si tratta dunque di un
racconto che mette in scena quel colloquio segreto che ognuno di noi
può fare con un grande poeta che in modo straordinario riesce a
leggere anche la nostra vita mentre sta cercando di leggere la sua.
Che è precisamente l’esperienza che tutti, docenti e studenti insieme,
abbiamo fatto durante questa affascinante avventura.
G.Z.
Agosto 2018
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La peculiarità dei saggi qui presentati, e in un certo senso il loro
stesso valore, è quella di risultare dall’impatto diretto degli studenti
con i testi di Montale, con il contributo e la mediazione dei docenti.
Si è programmaticamente escluso ogni riferimento ai contributi critici
e pertanto è impossibile stilare una bibliografia.
Delle singole citazioni si darà conto all’interno dei saggi.
Per quanto riguarda la produzione di Montale si è fatto riferimento
alla seguente edizione:
Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Mondadori
2015
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Lo strumento da non “scordare”
Le ragioni del cuore nella poetica di Montale
Di
Silvia Compagnucci
Chiara Giannini
Mariele Laurenti
Giulia Moscaroli
Lisa Santoni
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Questo lavoro di ricerca nasce dall'intensa emozione che ha provocato
in noi la lirica Corno inglese, una delle prime di Ossi di seppia. La
lirica vive di una fortissima tensione interna, è costituita da un unico
lungo periodo che termina nella proposizione principale, posta alla
fine. E in quella frase conclusiva c'è una struggente invocazione:
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
Questa sorta di grido ci ha coinvolte. Quella parola conclusiva, isolata,
a costituire un solo verso, ha attratto la nostra attenzione. Montale
poeta del cuore? Sì, anche. E con sorpresa ci siamo accorte che questa
parola tornava spesso nelle sue liriche. Ma il nostro interesse è stato
catturato anche da quell'aggettivo, scordato, così inusuale, così
ambiguo e allo stesso tempo espressivo. Cosa voleva dire il poeta? Che
il cuore suona male, è stonato? Oppure che il cuore è stato lasciato da
parte, come uno strumento inservibile?
È molto complesso riuscire a stabilire che cosa si intenda con la parola
“cuore”.
Anatomicamente parlando il problema potrebbe essere risolto in breve
tempo: il cuore è solo un muscolo carneo che lavora costantemente per
tenerci in vita.
Tutto però si complica quando si inizia a voler capire che cosa
rappresenti simbolicamente il cuore, quale significato abbia per
ciascuno di noi (quante volte usiamo questa parola senza intendere
solo un muscolo!) e soprattutto cosa rappresenti per un poeta.
A nostro parere una lirica di Ossi di Seppia, intitolata Quasi una
fantasia, può aiutarci a capire quel complesso di desideri che
costituiscono il contenuto della parola cuore. La riportiamo
integralmente:
Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
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lista un barlume le finestre chiuse.
Torna l'avvenimento
del sole e le diffuse
voci, i consueti strepiti non porta.
Perché? Penso ad un giorno d'incantesimo
e delle giostre d'ore troppo uguali
mi ripago. Traboccherà la forza
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m'affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali.
Avrò di contro un paese d'intatte nevi
ma lievi come viste in un arazzo.
Scivolerà dal cielo bioccoso un tardo raggio.
Gremite d'invisibile luce selve e colline
mi diranno l'elogio degl'ilari ritorni.
Lieto leggerò i neri
segni dei rami sul bianco
come un essenziale alfabeto.
Tutto il passato in un punto
dinanzi mi sarà comparso.
Non turberà suono alcuno
quest'allegrezza solitaria.
Filerà nell'aria
o scenderà s'un paletto
qualche galletto di marzo.
Analizzando la poesia abbiamo notato come i desideri che affollano
quella parte di noi che esprimiamo con la parola cuore sono tutti
espressi al futuro e sono dipendenti da un’idea di miracolo,
incantesimo.
Passiamoli rapidamente in rassegna: il primo desiderio è quello
appunto di vivere un giorno d’incantesimo che liberi dalla schiavitù
dell’abitudine, dalla noia asfissiante del grigiore di giorni sempre
uguali. È il desiderio che la vita sia sempre nuova e che non si debba
sprofondare nella monotonia. Chi di noi non ha mai provato qualcosa
di un simile?
“Traboccherà la forza/ che mi turgeva…” È espresso qui, in secondo
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luogo, il desiderio di dispiegare liberamente tutte le proprie
potenzialità, senza condizionamenti o limiti, andando oltre i confini
prefissati (“Subisserò alte case, spogli viali”). Di nuovo quindi
un’aspirazione alla libertà.
Il terzo desiderio esprime la possibilità di abitare un luogo “lieve” e
puro, come la neve intatta, un paese innocente, come quello cui
aspirava l’altro grande nostro poeta del Novecento, Giuseppe
Ungaretti.
Nella strofa successiva Montale esprime un desiderio di senso,
rappresentandosi come qualcuno in grado di leggere il reale e di
capirne il significato in modo leggero, senza sforzo (“Lieto leggerò i
neri/ segni”).
C’è poi il desiderio che niente di ciò che è stato vada perduto
irrimediabilmente, ma che sia sempre innanzi, vivo e presente.
Infine si parla di un’allegrezza che niente e nessuno possa turbare.
Se volessimo sintetizzare potremmo dire che l’aspirazione del cuore
umano è quella di elevarsi a qualcosa di più grande di ciò che si è, di
infinitarsi, per usare un verbo creato da Montale. Il nostro cuore è in
un rapporto misterioso con l’infinito e quando riesce in qualche modo
ad avvicinarsi ad esso prova una gioia che non può essere turbata,
quello stato d’animo con cui Montale apre la sua raccolta Ossi di
seppia:
Godi se il vento ch’ entra nel pomario
vi rimena l’ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
(In limine)
Il cuore come luogo del desiderio
Abbiamo dunque visto che il cuore è quella tensione costante verso
l’infinito che è presente in tutti gli uomini e senza la quale non si
riuscirebbe a vivere.
Anche quando la vita ti fa piegare il capo, anche quando vieni a
contatto con l’afa, ovvero quella strana sensazione di vanità del tutto,
anche in questi momenti ecco che il cuore palpita ancora, ecco che
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appaiono nuovamente le “due ghiandaie”. Stiamo ovviamente
evocando una delle immagini più significative di Montale, quella che
chiude la lirica A vortice s’abbatte della sezione “Mediterraneo” di
Ossi di seppia, dove risulta evidente l’importanza che il poeta dà a quei
trasalimenti dell’anima che sono in grado di distoglierci dalle nostre
preoccupazioni, dai nostri dolori e ci permettono, anche se per un
breve momento, di respirare in modo diverso. Perché in fondo si tratta
di questo, di avere la fiducia che tutto non sia sempre
obbligatoriamente fonte di affanno, ma che si possa percepire una
chiamata alla bellezza e alla felicità in tutto ciò che ci circonda che si
tratti di una persona, di un evento, o anche di un paesaggio.
È un attimo incantato:
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.
(A vortice s’abbatte)
E cosa può essere il cuore se non la sede in cui è possibile percepire
questi attimi di bellezza, il luogo in cui l’uomo ha il presentimento che
vi sia ancora qualcosa per cui sperare, per cui sognare?
Nella poesia di Montale appare chiaro che la fonte di questi
trasalimenti per lo più deriva dall’impatto con qualcosa di naturale, e
in particolar modo con il mare; in un’altra poesia della sezione
Mediterraneo, Ho sostato talvolta nelle grotte, egli afferma che
proprio il mare con il suo continuo cambiamento, con tutti i suoi
segreti, con la sua potenza è riuscito a ridestargli il cuore, è riuscito a
fargli capire che vi è una legge in questo mondo che non può essere
violata, ovvero quella che il cuore tenderà sempre all’infinito, ai
mutamenti, alla bellezza e non smetterà mai di trasformarsi, di
evolversi: “Così, padre, dal tuo disfrenamento/ si afferma, chi ti guardi,
una legge severa”, ovvero quella secondo la quale l’uomo non può per
sua natura accontentarsi di ciò che ha, ma è portato a desiderare
sempre di più perché senza desiderio, e quindi senza battito, non c’è
vita.
Questo richiamo all’infinito si può trovare anche nelle piccole cose,
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come in un gesto, in un profumo o in un fiore e il nostro cuore è
sempre lì per ricordarci che bisogna continuare a desiderare una nuova
letizia, una nuova fonte di gioia.
Tutti almeno una volta nella vita siamo stati attratti da qualcosa di
apparentemente insignificante e che, invece, ci ha rivelato i suoi segreti
spingendoci a chiederci se sia vero che tutto esiste per un motivo, che
anche il dolore e i momenti di afa della vita servono a qualcosa,
magari per rammentarci che la vita è preziosa e che bisogna sempre
continuare a far battere il nostro cuore e non lasciare che si assopisca.
Il cuore esperimenta il rapimento con cui ci lasciamo trasportare da ciò
che ci circonda verso mete sconosciute, verso una bellezza desiderata,
verso ciò che si nasconde dietro l’apparente realtà degli oggetti. È così
che anche un piccolo fiore diviene fonte di ispirazione e si carica di un
significato profondo per il poeta, che è stato in grado di ascoltare il
segreto che proprio quel fiore aveva in serbo per lui.
In Portami il girasole Montale chiede che gli venga donato un fiore
che nella sua stessa essenza rappresenta la speranza di un contatto con
il cielo, da poter trapiantare nella sua anima ormai offuscata e stanca:
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.
La poesia si conclude con l’aspirazione ad una fusione totale con il
cielo, in un movimento di liberazione dalla prigione dei limiti umani,
come se non ci possa essere vita senza una morte:
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.
Si capisce allora perché Montale non chieda alla vita una stabilità
rassicurante, un aspetto razionalmente comprensibile e dominabile,
quanto piuttosto la possibilità di un continuo trasalimento, cioè di una
novità, di un imprevisto:
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Mia vita, a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto ormai lo stesso
sapore han miele e assenzio.
Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.
Il cuore è il luogo del desiderio di infinito e non può accontentarsi di
movimenti vili, cioè che non lo mettano in contatto in qualche modo,
anche se raramente, con quell’infinito.
Il cuore è uno strumento scordato
Se il cuore esprime tutta l’esigenza di cui abbiamo parlato finora, è
anche vero è uno scordato strumento, in quanto risulta spesso incapace
di risuonare armonicamente con la realtà.
In Corno inglese da una parte troviamo il vento, l’orizzonte di rame, il
cielo e il mare, cioè la natura che suona e risuona, dall’altra parte il
cuore del poeta, disarmonico e dimenticato. Il cuore è scordato perché
si oppone al palpitare delle cose che suonano nelle loro variazioni e
rappresentano l’armonia della natura, qualcosa di non traducibile.
Il sole sta tramontando sul mare. Il vento, soffiando, fa suonare i rami
degli alberi. Il poeta vorrebbe essere in unione con la natura, al cui
spettacolo sta assistendo, ma ne è escluso, perché il suo cuore non è in
accordo con lei e con la sua armonia. Gli Eldoradi, nella poesia
rappresentano una realtà superiore, l’infinito, che si intravede appena
dalle malchiuse porte.
Il cuore di Montale vorrebbe ricominciare a suonare, vorrebbe essere
ripreso dalle mani della natura, pur essendo un relitto abbandonato.
Corno inglese esprime il desiderio di trovare un accordo del cuore con
la realtà naturale, ma questo è uno strumento ormai incapace di
“accordo”, incapace di partecipare al canto melodioso della natura che
lo circonda.
In un’intervista rilasciata nel 1951 (Sulla poesia, a cura di G. Zampa,
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Milano 1976) il poeta affermava: “Avendo sentito fin dalla nascita una
totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia
ispirazione non poteva essere che quella disarmonia”. La sentiamo in
molte liriche del poeta, come ad esempio in Giunge a volte repente,
dove Montale ribadisce la rottura dell’accordo, dell’armonia tra cuore
e natura, facendo riferimento in questo caso al mare:
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
Montale sente di aver perso ogni possibilità di dialogo con il mare, che
per lui è sempre stato fondamentale. Non riesce più ad accordare alle
voci delle onde il suo parlare e questo produce un doloroso
ripiegamento pieno di un vuoto esistenziale.
Nella poesia Crisalide il poeta definisce questa condizione una “tortura
senza nome che ci volve/ e ci porta lontani”, una tortura che non si
spiega, che accompagna l’uomo, stretto tra un desiderio di volo verso
lontani approdi e l’immobilità della sua limitata esistenza.
Nelle prime strofe il poeta si illude di poter trovare una via d’uscita
dalla sua triste condizione, di poter vedere la barca di salvezza, ma alla
fine tutto si trasforma in un’amara tortura, poiché “non restano/
neppure le nostre orme sulla polvere;/ e noi andremo innanzi senza
smuovere/ un sasso solo della gran muraglia”.
Il senso di sconfitta scaturisce dal percepire che “forse tutto è fisso,
tutto è scritto/ e non vedremo sorgere per via/ la libertà, il miracolo,/ il
fatto che non era necessario!” (cioè non potremo mai realizzare
veramente i desideri del cuore).
L’uomo non può fare nulla per innalzarsi dalla condizione in cui si
trova e vivrà per sempre la tortura del cuore e se prima riusciva a
vedere le cose in maniera dolce, ora, a causa di questa tortura, diventa
tutto nero.
La disarmonia di Montale e la sua chiusura nel mondo vengono
espressi nella poesia In limine, in cui il poeta esorta il suo interlocutore
a trovare un’apertura nella rete che ci stringe, ad evadere dallo stato di
angoscia e tortura al di qua dall’erto muro e uscire fuori.
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Del resto già nella più antica lirica di Ossi di seppia, la celebre
Meriggiare pallido e assorto, Montale aveva evocato, attraverso le
immagini e soprattutto i suoni, questa condizione di disarmonia
percepita dal cuore con triste meraviglia:
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Come è noto, in questi celebri versi il poeta esprime tutta l’angoscia di
vivere chiuso da un muro invalicabile che rende la sua esistenza
un’amara tortura.
In Gloria del disteso mezzogiorno viene descritto nell’ora più calda
della giornata un paesaggio arido, desolato in cui non c’è più traccia di
vita, in cui il sole è tanto forte da rendere incerti i contorni.
La vita del poeta è come il paesaggio descritto nelle prime due strofe,
immerso nell’arsura e senza alcuna ombra a terra; il sole alto è al di
qua di un muretto oltre il quale c’è l’ora più bella: egli si ritrova
nell’eterna attesa della pioggia.
Altre volte la disarmonia è generata dalla percezione che ciò che si
desidera è una realtà ormai fin troppo lontana e irrecuperabile.
Ad esempio ne La farandola dei fanciulli sul greto vedendo dei
fanciulli giocare tra di loro, egli rivede in qualche modo il sé stesso
fanciullo ed ha nostalgia di quei tempi d’oro, soffre il distacco dalla
condizione infantile, dalle antiche radici rispetto alla vita tetra e
angosciosa che conduce.
Montale ha nostalgia di un passato felice, che è rappresentato dalla
gioventù: i fanciulli tra risa e giochi spensierati gli ricordano quei
momenti che desidera con tutto il cuore, ma che con amarezza sa che
non potranno mai tornare. Sebbene lo desideri, il passato non può
comparire in un punto dinanzi.
Si ritrova la stessa tematica nella celebre Cigola la carrucola del
pozzo, in cui il poeta vede il riflesso del suo passato nel ricolmo
secchio che sale alla luce, ma nel momento in cui cerca di sfiorarlo
subito esso si deforma, “si fa vecchio,/ appartiene ad un altro”, poiché
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ora c’è una distanza che impedisce di raggiungere il ricordo; si sente,
dunque, la tortura di non poter più essere felici come lo si era nel
passato, di non poter ritrovare la stessa armonia di quel cuore che si
aveva da bambini.
In pratica tutte le esigenze che avevamo riscontrato nella lirica Quasi
una fantasia vengono completamente disattese in altri celebri luoghi
montaliani. Non c’è possibilità di novità, né di prodigio, il passato è
irrecuperabile, un senso di vuoto e di noia subentra al sentimento della
forza, ma soprattutto sembra via di scampo, nessuna libertà e il mondo
è una prigione.
Il cuore ha un’esigenza di significato
Di fronte a questa situazione profondamente contraddittoria, il cuore
umano si scopre bisognoso di sapere e la tentazione (propria di ogni
gnosi) è quella di affidarsi alla conoscenza, alla scienza, alla filosofia,
ai libri. È un’esigenza di significato, che nasce dalla domanda: perché
questa tortura? Perché questa disarmonia? Questo desiderio di
conoscenza lo abbiamo visto espresso in una lirica della sezione
“Mediterraneo”, Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, nella quale
Montale si rappresenta come una persona che nel cercare di scoprire il
male che tarla il mondo avrebbe avuto bisogno dell’ausilio di una
sempre maggiore indagine razionale (“m’occorreva il coltello che
recide/ la mente che decide e si determina”) sostenuta da altri libri. Ma
subito dopo il poeta dice di non voler rinunciare alla pagina rombante
del mare, capace di sciogliere i groppi interni, cioè di sfare il gelo del
cuore. Montale, dunque, non sembra voler rinunciare alle ragioni del
cuore.
Durante il nostro lavoro su questo poeta ci siamo imbattuti
nell’intervento del professor Costantino Esposito alla sesta edizione
dei “Colloqui Fiorentini” («Leggere Pavese con Agostino», Una
ragione inquieta. Interventi e riflessioni nelle pieghe del nostro tempo,
Edizioni di Pagina), in cui l’autore riporta l’esperienza personale di
Pavese. Egli in Feria d’agosto racconta un incontro e una
conversazione con un interlocutore abbastanza insolito: il campo di
granturco. Come Pavese ascoltando “il fruscio dei lunghi steli mossi
nell’aria” ricorda qualcosa che aveva dimenticato, così Montale fa la
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stessa esperienza di fronte al mare. Nella lirica Antico, sono ubriacato
dalla voce il suono delle onde del mare che si infrangono sulla costa
diventa l’invito ad una rievocazione memoriale.
E se Pavese definisce l’orizzonte di quel campo di granturco familiare,
Montale chiama padre il mare, attribuendogli delle movenze
tipicamente umane (“La casa delle mie estati lontane/ t’era accanto, lo
sai […] Tu m’hai detto primo/ che il piccino fermento/ del mio cuore
non era che un momento/ del tuo”). Pavese a distanza di anni,
rivedendo lo stesso campo, si accorge che, pur essendo morto in lui il
bambino che per la prima volta lo aveva incontrato, nulla è cambiato:
persiste in lui ancora quel grido. Allo stesso modo Montale scrive:
“Come allora oggi in tua presenza impietro/ mare”. Così come
accadeva quando era bambino, il poeta di fronte al mare, è colto da
sgomento.
Gridare o rimanere impietriti davanti a qualcosa che suscita stupore o
paura sono manifestazioni di un cuore che conosce la realtà secondo un
approccio che non è quello razionale.
Perché queste emozioni scaturiscono proprio dall’incontro con il mare
o con il campo di granturco? Pavese risponderebbe: “Quel giorno fu un
campo; avrebbe potuto essere una roccia impendente sopra una strada,
un albero isolato alla svolta di un colle, una vite sul ciglio di un balzo.
Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure
naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi
sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso”.
Montale, invece, nella Intervista immaginaria (apparsa su «La
Rassegna d’Italia», I, n. 1, gennaio 1946) ebbe a dire: “Negli ‘Ossi di
seppia’ tutto era attratto e assorbito dal mare fermentante, più tardi vidi
che il mare era dovunque, per me, e che persino le classiche
architetture dei colli toscani erano anch’esse movimento e fuga”.
Se in Pavese questo incontro è descritto come un’esperienza vissuta,
nella poesia precedentemente citata Montale si rivolge direttamente ad
un “tu”, al mare. Costantino Esposito ricorda che già Sant’Agostino
aveva evidenziato come l’essere umano sia un “esse ad”, ovvero un
essere in rapporto con altro da sé. Non a caso, quindi, è molto
ricorrente nelle poesie di Montale il riferimento ad un “tu”, con il quale
il poeta instaura un dialogo.
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In questo dialogo si manifesta appunto quel desiderio di significato di
cui parlavamo poco sopra.
Nel momento in cui Montale torna ad aderire con tutto sé stesso al
richiamo del mare, quest’ultimo entra dentro di lui. Sciogliendosi nella
dimensione illimitata del mare il poeta scrive: “Sensi non ho; né senso.
Non ho limite” (Potessi almeno costringere, in Mediterraneo), per cui
egli sembra tornare ad essere un tutt’uno con l’elemento naturale.
Lo stesso avviene per Pavese di fronte al campo di granturco: “Nulla
mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo
entrare in me stesso”. È qui rappresentato un modo diverso di
conoscenza, un modo diverso di possedere la realtà. Spiega Costantino
Esposito che è diverso dire il mondo c’è (è la conoscenza della ragione,
la conoscenza dei libri) e dire invece il mondo mi aspetta. Questa è
appunto la conoscenza del cuore, quella che accomuna il genio di
Montale e di Pavese.
Che cosa vuol dire, allora, che il campo di granturco, in Pavese, o, nel
caso di Montale, il mare entra nel cuore dello spettatore? Vuol dire che
piace? Che suscita in questo qualche sentimento? No, molto di più:
vuol dire che la realtà chiede dell’uomo, dell’essere umano che ha di
fronte, che la realtà c’è veramente quando si scopre il nesso tra la
realtà e l’io. Questo è il significato delle cose: scoprire la relazione tra
l’io dell’uomo e le cose che lo circondano.
Costantino Esposito nel suo intervento afferma: “Il significato delle
cose è quando ci sei tu che ospiti, che accogli il darsi della realtà e
chiedi perché, quando la realtà ti colpisce e ti chiedi perché: quando
avviene un incontro tra l’altro da me e il mio io”. Pavese ritrovandosi
di fronte al campo di granturco capisce di avere innanzi una certezza,
“di aver come toccato il fondo di un lago che mi attendeva”.
L’attesa, però, è un fenomeno ambiguo: può essere una sospensione,
ma anche un presentimento, può arrestarsi in una lontananza o può
aprirsi ad un’imminenza. Al tempo stesso questa attesa nasce dall’esser
stato già raggiunto, dall’aver già incontrato l’altro da sé, come Montale
già da bambino aveva incontrato il mare e Pavese il campo di
granturco.
Il desiderio di conoscenza è uno strano fenomeno, in cui accade
l’incontro tra la nostra attesa e il richiamo delle cose. Ed è proprio
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questo che ci dice la poesia di Montale; la nostra attesa è suscitata da
un richiamo, un segno della realtà; e la realtà, da parte sua, diventa
significativa solo nell’orizzonte di quell’attesa.
Un’esperienza di conoscenza è descritta nella poesia I limoni, in cui
Montale scrive:
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Il profumo che dilaga dei limoni fa sciogliere i groppi del cuore e
permette un approccio completamente diverso alla realtà. La ragione
“profumata” dai limoni lavora in modo diverso per conoscere l’altro da
sé, il mondo circostante.
Con Montale scopriamo che si instaura quasi un rapporto d’amore tra
noi e la realtà. Questo desiderio amoroso di conoscere ciò che ci
circonda è inteso come la capacità di accogliere la provocazione del
reale, di ascoltare la voce delle cose che toccano, smuovono e
commuovono, alla ricerca del senso, della loro verità e del fatto che
loro esistano proprio per noi.
L’incontro con la realtà che entra dentro di noi, come il mare e il
campo di granturco, è così forte, che l’esperienza rimane vivida in noi
anche a distanza di anni. Come Montale rivedendo il paesaggio delle
Cinque Terre, dove ha trascorso i momenti più intensi della sua
infanzia, anche ognuno di noi facendo ritorno in un luogo in cui il
cuore un giorno ha avuto una sorta di trasalimento non potrà far altro
che dire: “Eppure resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è
tutto”. E questo è un sapere molto più profondo di quello dei libri…
Non “scordare” il cuore
Se di fronte alla complessità del reale la prima tentazione è quella di un
approccio meramente razionale, una seconda tentazione, ben più grave,
è quella di assumere una posizione che tenta di ridurre quella
complessità.
È proprio la tentazione di “sentirmi scabro ed essenziale/ siccome i
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ciottoli che tu volvi”. Insomma essere una pietra, oppure un animale,
un essere senza ragione, non uomo intero; ma la poesia di Montale è
un richiamo continuo a non essere superficiali, a non scordare la via
del cuore, anche se questo può costare molta fatica e disagio. La
«legge rischiosa» del mare insegna ad essere “vasto e diverso/ e
insieme fisso” e, quindi, tiene insieme fattori molto diversi: il piccolo e
l’immenso, il sempre mutevole e il fisso. Per questo è una legge
rischiosa e difficile da seguire.
L’uomo si trova, così, di fronte ad un bivio: essere scabro ed
essenziale, oppure essere come la margherita che nasce da un “pezzo
di suolo non erbato”.
Se chi vive come una margherita è più fragile e sensibile e riesce a
commuoversi di fronte al rombo del mare, permettendogli di sciogliere
i groppi del proprio cuore, chi vive come un sasso, scordatosi del
proprio cuore, è freddo e arido come un morto: e proprio come un
morto non sente più il desiderio di andare oltre l’ostacolo che si
frappone tra la natura e l’uomo.
Un cuore di pietra non riuscirà mai ad emozionarsi davanti allo
spettacolo della natura, a commuoversi di fronte alle piccole cose, al
miracolo di una margherita che nascendo spacca un pezzo di suolo non
erbato.
Scordandosi del cuore, l’uomo, come un morto, rischia di cadere
nell’abitudine e di lasciar spegnere così il fuoco del desiderio,
rimanendo, quindi, intrappolato nella tortura, dalla quale non riesce a
liberarsi. È l’immagine dell’uomo che non si volta, di quello che non
vede l’ombra che la canicola stampa sullo scalcinato muro.
L’invito che Montale offre ai lettori all’interno della sua poesia è
proprio quello di mantenere questa posizione di apertura verso lo
stupore, verso l’ignoto, di chiedere continui trasalimenti e, quindi, di
non ridursi ad essere appena scabro ed essenziale.
Di fronte al bivio Montale sceglie di seguire la via del cuore e ce lo
dice chiaramente:
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace – uomo che tarda
all’atto, che nessuno, poi, distrugge.
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Nonostante la fredda insensibilità del cuore di pietra, come afferma lo
stesso Montale in So l’ora in cui la faccia più impassibile, arriva un
momento in cui anche chi sembra più arido e distaccato prova dolore,
accompagnato da “una cruda smorfia”.
Non riesce, quindi, a scordare completamente il proprio cuore e a
rimanere indifferente di fronte alla vita.
Molte volte siamo indirizzati ad una vita banale e superficiale, che è
esattamente ciò che Montale cerca di combattere nelle sue poesie:
combatte la tentazione di ridurre la complessità del reale.
Ad esempio nella poesia Non chiederci la parola possiamo leggere:
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato/ l’animo nostro
informe”. Emerge qui la decisa volontà del poeta di voler salvare
questa sua condizione complicata e complessa, che per lui è un valore,
non un difetto, come apparirebbe a tutti gli altri.
Alla fine della poesia Montale afferma che il cuore può farci sapere
con certezza “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” e che non può
quindi arrivare alla verità assoluta.
E quindi tutti siamo portati ad eliminare, in quanto non “squadrabili”,
le esigenze del cuore.
Quello che il clima culturale in cui viviamo ci spinge continuamente a
ti mettere da parte, perché la vita deve essere “semplice” e
possibilmente senza contrasti e contraddizioni.
La soluzione migliore sembra essere quella di rivolgersi ad altro:
successo, denaro, fama, carriera, informazioni, social network… In
questo modo l’uomo si sente più leggero, più scabro ed essenziale, per
usare le parole di Montale, poiché è concentrato solo sul proprio
benessere superficiale e materiale. Il cuore in realtà può essere un
valido strumento di conoscenza, anche se la strategia di tutti è quella di
dimenticarlo, di metterlo da parte.
La poesia di Montale insegna questa continua disponibilità, questa
apertura al mistero. È bello, dunque, concludere con dei versi, anche
commuoventi, che rappresentano un’invocazione al mistero.
Abbiamo iniziato con un’invocazione al vento e chiudiamo con la
struggente invocazione al mare, a cui il poeta si rende in umiltà, con un
atteggiamento che mette da parte la pretesa della propria misura umana
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e confessa tutta l’intensità del desiderio che abita nel suo cuore:
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall’ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d’un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
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La zona intermedia ovvero il “terzo status”
Terra, aria, mare e fuoco nella poesia di Montale
Di
Vittoria Chiappini
Sara Fasanari
Sarah Paris
Roberta Troccaioli
Gaia Venci
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È la presenza dell’elemento naturale che più ci ha colpito leggendo
Ossi di Seppia e allo stesso tempo il modo in cui Montale parta da una
visione della natura come “segno”, cioè come qualcosa che rimanda a
qualcos'altro, a un “di là”, recuperando un approccio quasi medievale
della realtà come simbolo. La tecnica del correlativo oggettivo, del
resto, non fa che utilizzare elementi fisici per esprimere sentimenti,
stati d'animo, la vita interiore. Soprattutto in Ossi di Seppia il poeta
utilizza la natura, la sua natura, quella dell'infanzia, il paesaggio di
Monterosso delle Cinque Terre e carica gli elementi naturali di un
significato particolare.
A noi piaceva questa chiave di lettura per avvicinare l'opera di Montale
alla nostra sensibilità. L'approccio simbolico, tipico del medioevo, è un
approccio spirituale, mistico, proprio di una visione religiosa della
realtà, molto diversa dall'approccio positivistico. Nelle liriche lette è
come se avessimo colto un profondo senso di ricerca del poeta, quasi
come se la sua sensibilità e la sua unica capacità di vedere le cose ci
aprisse un varco anche sul suo particolare senso di spiritualità.
Il presente lavoro parte dunque dalla ripresa degli elementi naturali,
radunati secondo l’impianto classico dal più pesante al più leggero:
terra, acqua, aria e fuoco.
La terra è la rappresentazione della vita, la nostra aridità, la disarmonia
del vivere, il patire, la sete, il freno, le radici che ti bloccano. Nello
stesso tempo il morso: a volte uno si attacca al suol, altre volte
vorrebbe disfarsene. La terra è il luogo dove si svolge il dramma
dell'esistenza umana, è piena di ferite, è il luogo del male di vivere. È
sulla terra che si percepisce il senso di oppressione.
L’acqua è principalmente rappresentata dal mare, il Padre, l’Antico,
l'origine, il mistero iniziale, il poema ignoto, ciò che ridesta il vasto,
l'infinito, l'altrove, l'origine che lascia in eredità qualcosa che si sente
proprio.
L'oggetto del desiderio, l'oltre a cui si aspira.
L’aria è rappresentata dal cielo e soprattutto dal vento, è l'Eldorado,
l'Eden, il miracolo che viene dall'al di là, una sorta di apparizione
divina, è la musica del vento, è l’inaspettato, il vento che feconda e
riporta alla vita; è l’elemento attraverso cui appare la donna - angelo,
come in Ti libero la fronte dai ghiaccioli. In questo caso è gelido, è
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connesso ad una sorta di segreto a cui può partecipare solo il poeta
stesso, segreto che può essere a volte piacevole e a volte terribile.
Il fuoco (come elemento) è il desiderio, la tensione verso l'alto, verso il
calore, ma è anche luce, e si collega all’immagine del girasole che
tende per sua natura al cielo ma poi si riversa a terra. Come l’uomo che
tende verso l’alto.
A conclusione dei paragrafi dedicati a ciascun elemento, proponiamo
come ultimo quello sull’Agave sullo scoglio, lirica esemplificativa,
capace di riassumere in sé la presenza di tutti gli elementi che entrano
in contatto tra loro, con le connotazioni fino a qui emerse.
Infatti Montale non tratta gli elementi come realtà a sé stanti, isolate,
ma li mette in relazione, creando delle immagini più complesse e
ricche di significati.
Il vento, ad esempio, entra in contatto con la terra e la feconda: questa
si trasforma in orto e c’è un vero e proprio rifiorire, verbo con cui tra
l’altro si concludono gli Ossi di Seppia.
L’Agave sullo scoglio termina con l’immagine di qualche uccello di
mare che se ne va nel cielo, come se abitasse una sorta di zona
intermedia tra cielo e terra (zona non pesante come la terra né vero e
proprio possesso celeste), una zona metafisica dove non si sosta mai
ma si va sempre più in là. E’ questo il “terzo status”, così tipico di un
poeta che ha voluto dirci che la realtà non è mai tutta e solo così come
la vediamo.
Terra
La terra siamo noi, noi esseri umani, noi che assomigliamo a Montale.
Ogni essere umano ha delle necessità fisiche, come la fame e la sete,
proprio come la terra.
Nelle poesie che abbiamo letto ed esaminato, specialmente in quelle di
Ossi di seppia, l’elemento della terra ritorna spesso in termini di
dipendenza da qualcos’altro. La terra è un’esigenza. E’ arida perché ha
bisogno dell’acqua, assolata, bisognosa di riparo. Nella lirica In limine
troviamo l’intervento del vento, del soffio che porta vita, tanto che il
sostantivo terra è sostituito da pomario, perfetta rappresentazione di
una realtà inaspettatamente viva.
Nella maggior parte delle poesie di Montale infatti la terra è arida,
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assetata, scotta, è rovente, è il simbolo della condizione stessa del
poeta, condizione che egli spesso rappresenta esprimendo un senso di
oppressione. E’ una terra arida, perché l’uomo viene definito privo di
tutto; assetata, perché ha bisogno di un altro elemento per
sopravvivere; rovente, proprio come Montale, che è in continua ricerca
del mistero, per cui brucia di desiderio di poter arrivare al suo
obiettivo, ad uno stato di giusta finitezza.
Ma se si parla della terra, non si può non fare accenno anche al mare,
al rapporto che questa terra ha con esso, la terra che si trova di fronte al
mare, che discende al mare o che è bagnata da esso.
Come la terra anche il poeta si rivolge di continuo al mare e si
confronta con esso: si definisce immobile e non vasto, proprio come la
terra, come se fosse obbligato a rimanere dov’è, senza potersi muovere
perché bloccato dalle radici, e soffre perché ha questo forte desiderio
di essere come il mare, vasto e mobile, mentre lui è come una terra
bruciata.
In Portami il girasole il secondo verso recita: nel mio terreno bruciato
dal salino; vediamo come il poeta tenti di spiegarci il suo stato
d’animo: egli arde di desiderio (bruciato-fuoco) e questa immagine è
ulteriormente dall’aggettivo salino, che rimanda sì al mare, ma
soprattutto all’intensità dolorosa del suo desiderio. Il girasole, invece, è
connesso con il cielo, l’aria, un’altra dimensione, più libera e felice che
si vorrebbe trapiantare nell’immobilità della terra. Ma tra cielo e terra
non c’è contatto.
La lirica Cielo e terra si conclude proprio con il poeta che afferma
Ma se così non è può fare senza
di noi, sue scorie, e della nostra storia.
Perfetta presentazione del fatto che il cielo è in grado di cavarsela in
modo totalmente autonomo, mentre la terra, e quindi l’uomo, no.
Questa terra sofferente e smaniosa, che sente l’invito del mare, ma non
può rispondervi per la sua immobilità; che cerca il cielo, ma non può
sperimentarlo, per la sua pesantezza, è la rappresentazione
dell’esistenza umana, condannata ad un desiderio acre, senza speranza
di soluzione.
Anche se a volte capita che il cielo, col suo vento, la tocchi
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misteriosamente e le dia la possibilità, pur se solo per un istante
benedetto, di trasformarsi e rifiorire…
Acqua/Mare
L'elemento dell'acqua in Montale è prevalentemente rappresentato dal
mare, compagno costante della sua vita fin dall'infanzia. Nell'intervista
immaginaria, pubblicata il primo gennaio del 1946 su La rassegna
d'Italia (I, 1), il poeta dichiara che “negli Ossi di seppia tutto era
attratto e assorbito dal mare”, connettendo così la propria poesia
direttamente all'esperienza dell'incontro con la distesa marina, la cui
legge rischiosa è “esser vasto e diverso/ e insieme fisso”, una
definizione che ci mette subito di fronte alla complessità del simbolo,
capace di tenere insieme realtà molto diverse tra loro e, in qualche
modo, specchio dell'animo del poeta, che sente la contemporanea
presenza in sé della fissità e dello slancio verso la vastità.
In Montale il mare è un simbolo ricco di aspetti e complesso, al quale
egli si rivolge specialmente nelle liriche della sezione “Mediterraneo”
di Ossi di seppia, su cui in particolare ci soffermeremo in questo
paragrafo.
Il poeta definisce il mare con l’importante appellativo di “Padre” e lo
collega direttamente alla sua esperienza di adolescente. Nella poesia
Antico, sono ubriacato dalla voce... il poeta dichiara di aver avuto
sempre, sin da piccolo, contatto diretto con il mare, dal momento che
la casa di Monterosso in Liguria era accanto a quell’immensa distesa
d’acqua che tanto ha attratto il poeta per tutta la sua vita:
La casa delle mie estati lontane
t'era accanto, lo sai […]
Come allora oggi in tua presenza impietro, mare.
L'ultimo dei versi citati ci dice che una sorta di shock dell'ignoto
provato da Montale in presenza del mare è rimasto tale nelle
successive fasi della sua vita.
Durante l'infanzia la distesa del mare ha svolto il ruolo di compagna di
gioco, di totale orizzonte; col passare degli anni, invece, ha assunto
significati molto più profondi. Solo una cosa è rimasta invariata: lo
sgomento che il poeta prova davanti al mare. Quest'ultimo viene
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identificato con la parola “antico”, come se fosse considerato un
antenato, un essere autorevole da rispettare, un mistero traboccante di
segreti e di conseguenza anche qualcosa che non potrà mai essere
capito del tutto; nel sentirlo parlare “dalle sue bocche”, il poeta
ammette di essere impietrito alla sua presenza, inebriato e ubriacato
dalla sua voce.
ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo.
C’è in questa lirica un senso di sgomento, ma allo stesso tempo lo
stupore di sentire una profonda corrispondenza: Montale, pur nella sua
piccolezza di fronte alla vastità del mare, si percepisce come un
“momento” di quella grandezza. Ne nasce come una misteriosa
appartenenza, vissuta in modo totale soprattutto da bambino.
Crescendo egli perde la capacità di entrare direttamente in
comunicazione col mare. È proprio questo che il piccolo Montale non
era in grado di percepire fino in fondo: la sua condizione di inferiorità
di fronte al mare.
La percezione della distanza da quell’età felice genera un senso di
indegnità e nello stesso tempo fa scaturire una sorta di desiderio verso
quella realtà che gli appare quasi infinita, un ardore che salva ma che
contemporaneamente preannuncia il profilarsi di una straziante realtà:
quella di sentirsi costretto ad una continua oscillazione fra una
condizione di fissità e il desiderio di sciogliere le vele e salpare.
La fissità è debolezza, è ciò che causa l’accumularsi delle inutili
macerie nel profondo di noi stessi e senza la vastità, la mobilità,
l’eternità che il mare rappresenta, nessun uomo, primo fra tutti il poeta
stesso, potrà mai essere scosso da un trasalimento, poiché la vita di
Montale e di tutti gli altri uomini è secco pendio, è lento franamento.
L’uomo rimane a terra e pur sentendosi attratto, pur avendo bisogno di
quel “giuoco di anella”, non riesce ad entrare nel circolo di
quell’infinito fermentare marino, non può depurarsi dalla sua “lordura”
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poiché è troppo rischioso essere sia vasti che fissi.
Ecco il contrasto, la grandissima antitesi che tormenta Montale, che lo
dilania insinuandogli la tentazione di vivere passivamente e con
rassegnazione come un rottame roso dalla salsedine, come un osso di
seppia sballottato dalle onde.
Tuttavia il mare, nonostante riveli al poeta una dura realtà che non
avrebbe mai voluto conoscere, eleva attraverso le salmastre parole il
suo cuore ad uno stato di estasi, che dolcifica come miele, dona pace e
tranquillità, anche se per poco, e riesce a impiantare una piccola
speranza per un miracolo inatteso.
Questa azione armoniosa e gratuita che il mare svolge è esplicitata
nella lirica Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale:
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.
e anche in Scendendo qualche volta:
Ma bene il presentimento
di te m'empiva l'anima.
Il poeta, di fronte all’estasi prodottagli dal mare, non rimpiange nulla,
come se provasse una sorta di devozione per questo “mostro sacro”,
che con il suo avvolgersi e disciogliersi raggiunge il cielo, si fa
discepolo di una sorta di volontà buona e divina.
Il poeta ha bisogno del mare, al quale tra l’altro attribuisce una
funzione liberatoria e purificante. Imitare il mare significa
svuotarmi così d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
(Antico sono ubriacato dalla voce)
Il presentimento e la visione del mare, oltre ad una purificazione,
producono nel poeta una specie di immedesimazione, che libera dalle
aride steppe che gli incatenano il cuore, da tutto ciò che lo costringe
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ancorato a terra.
Or, m’avvisavo, la pietra
voleva strapparsi, protesa
a un invisibile abbraccio;
la dura materia sentiva
il prossimo gorgo, e pulsava;
e i ciuffi delle avide canne
dicevano all’acque nascoste,
scrollando, un assentimento.
Tu vastità riscattavi
anche il patire dei sassi:
pel tuo tripudio era giusta
l’immobilità dei finiti.
Chinavo tra le petraie,
giungevano buffi salmastri
al cuore […].
(Scendendo qualche volta)
In questa poesia la “dura materia”, i “ciuffi delle avide canne” e lui
stesso rappresentano il “male di vivere”, “l’immobilità dei finiti”,
senza i quali però non proveremmo alcuna ammirazione guardando le
“nascoste e strepeanti acque”. Tutta la natura sembra affrettarsi verso
queste ultime; “pulsa”, “si protende”, vuole abbeverarsi, desidera
colmare la sete, desidera essere sfiorata da quell' “abbraccio”, poiché
solo questo abbraccio misterioso procura benessere e dona sollievo.
Per Montale il mare è vastità e, davanti a questa, anche il patire dei
sassi (la dura disarmonia della vita) è consentito e ha un senso.
Così, padre, dal tuo disfrenamento
si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
Ed è vano sfuggirla: mi condanna
s'io lo tento anche a un ciottolo
róso sul mio cammino,
impietrato soffrire senza nome,
o l'informe rottame
che gittò fuor del corso la fiumara
del vivere in un fitto di ramure e di strame.
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Il mare, in Ho sostato talvolta nelle grotte, è descritto come un
genitore dalla cui forza esala una legge che non è solo rischiosa, ma
anche severa: una volta entrati in rapporto con lui non si può più
tornare indietro, rendersi indifferenti, perché tutto reclama la sua
vastità. Al poeta forse sarebbe piaciuto essere come un ciottolo,
sarebbe stato più facile affrontare la vita proprio rifugiandosi
nell’insensibilitò. Ma avrebbe rinunciato ad una parte essenziale di se
stesso.
In ogni caso, a volte, si sente il peso, la fatica di vivere ad un livello
così alto, quando invece ci si potrebbe accontentare di sopravvivere.
In Giunge a volte, repente si sente con massima intensità la sofferenza
di Montale in quei momenti in cui l’animo sembra ribellarsi alla
grandezza del mare, alla sua natura disumana (nel senso di troppo
grande e difficile per l’uomo). Così si scava un profondo distacco
dovuto ad un'immensa differenza tra l'identità del piccino uomo e
quella del vasto mare.
D'improvviso si delinea quindi come un crollo, un collasso, sia nel
rapporto instaurato sia nel poeta stesso, che non può far altro che
ripiegarsi nella sua fragilità. L'armonia della voce marina si trasforma
in musica “scordata”, in sinfonia sorda, fastidiosa all'udito; e quella
fermentante mobilità che il poeta tanto invidiava, ora diventa irritante
alla vista, gli risulta ostile, come fosse un'offesa al suo essere.
È come la difficoltà che un figlio prova di fronte ad un padre che
riconosce troppo superiore, quel rancore che nasce dalla precisa
coscienza di non poter essere in tutto e per tutto uguale.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.
Ma questo disagio, significativamente, non rimane l’ultima parola,
viene superato di slancio.
Nella lirica successiva, Noi non sappiamo quale sortiremo, c’è il
recupero di un rapporto che pareva compromesso:
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è che un poco del tuo dono
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sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Il poeta porta dentro di sé un dono che gli è stato concesso, una sorta di
imprinting che resterà vivo per l'eternità tra le righe delle sue poesie.
Dopo tanta disarmonia messa a tema nelle poesie precedenti, in Potessi
almeno costringere l'autore desidera riarmonizzare il colloquio con
l'elemento e poter farlo andare d'accordo con il suo balbo parlare.
Ovviamente è impossibile, in quanto l’uomo non ha parole adatte ad
esprimere l’inesprimibile. Tuttavia il senso di sconfitta, che porta
provvisoriamente ad un nuovo ripiegamento sul proprio limite, viene
ancora una volta superato di slancio sentendo la forza sonora del mare
che cresce. Il poeta si sente di nuovo travolto e inebriato dalla
grandezza che ha di fronte e così si lascia andare all'infinto. I
“pensieri” tristi gli fuggono come per magia dalla mente e, provando
un senso di rinascita e, sentendo la liberazione dei groppi interni, si
sente spiritualmente congiunto al mare, tanto da percepire un senso di
illimitatezza, non più vincolato né al tempo né allo spazio.
È questa la risposta al delirio d’immobilità che perseguita il Montale-
Arsenio, una risposta salvifica che viene invocata nell’ultima poesia di
Mediterraneo, Dissipa tu se lo vuoi, dove Montale attribuisce al mare il
diritto di fare ciò che vuole: può annullare persino la sua stessa vita se
lo desidera, se vuole può sgretolarla come fa la spugna con il segno di
un pezzo di gesso su una lavagna.
Nei versi finali, invece, usa l'immagine di un bastone di legno
consumato dalla fiamma del fuoco, ed è proprio questo fuoco il senso,
lo scopo della vita dell'autore: ardere di desiderio, di attesa, di speranza
in un evento impossibile, ignorato e però creduto. Quello che conta a
questo punto, per Montale, non è imitare il mare nella sua gloria
(inarrivabile), ma nell' ansimare, poiché in quell'ansimare si rispecchia
la stessa ansietà del cuore umano.
Così il poeta si può solo “rendere in umiltà” al mare, anche, o proprio,
non sentendosi degno del suo respiro, capace di calmare e colmare
tutto. Il mare è dolcezza, è forza, è richiamo vitale, è sete d'infinito.
Il profumo del vento marino, la salsedine, il soave concerto che le onde
fanno approdando sulla sponda o infrangendosi sulla scogliera
ridestano in Montale ricordi d'infanzia, la speranza in un miracolo e la
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consapevolezza della propria condizione umana. Senza il mare niente
vivrebbe, niente da deserto, diverrebbe orto.
Aria, vento
Godi se il vento ch'entra nel pomario
vi rimena l'ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquiario.
Questi sono i primi versi di In Limine, lirica con cui Montale apre la
sua raccolta poetica Ossi di Seppia. Proprio in questa poesia è
contenuto uno degli elementi che più ricorre nelle sue varie raccolte: il
vento. L’elemento porta un’ondata di vita, un cambiamento
nell’esistenza dell’uomo e della natura stessa, permette di vivere in una
maniera diversa, nuova, più intensa, trasformando il reliquiario in orto.
Il vento riesce a soffiare anche in un groviglio di cose oramai messe da
parte, quasi dimenticate, a cui nessuno pensa, rivelandosi così come un
prodigio imprevisto.
Montale torna subito a cantare il vento in Corno inglese:
Il vento che stasera suona attento
– ricorda un forte scotere di lame –
gli strumenti dei fitti alberi e spazza
l'orizzonte di rame
dove strisce di luce si protendono
come aquiloni al cielo che rimbomba
(Nuvole in viaggio, chiari
reami di lassù! D'alti Eldoradi
malchiuse porte!)
e il mare che scaglia a scaglia,
livido, muta colore
lancia a terra una tromba
di schiume intorte;
il vento che nasce e muore
nell'ora che lenta s'annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
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Qui il vento è l’input che dà inizio una straordinaria avventura.
Montale riesce a mescolare l’arte della musica con la natura creando
una vera e propria melodia in un tramonto estivo. Il vento, suonando
attraverso gli alberi, che diventano come delle lame che stridono fra
loro, sgombra il cielo e lascia apparire delle strisce di luce provenienti
dall’alto, più precisamente da porte mal chiuse che, quasi per sbaglio,
lasciano intravedere ciò che vi è dietro, ovvero regni pieni d’oro, come
li chiama il poeta, Eldoradi, inaccessibili all’uomo. È come se dietro
quegli spazi di cielo si nascondessero delle speranze o dei desideri che
l’uomo nutre ma che stando a terra non può realizzare; questi si
trasmutano sotto forma di vento e recano all’essere umano lo stesso
sentimento bramato. Il vento nasce e nello stesso tempo muore,
ricordando così il ritmo delle onde del mare che sbattono sul
bagnasciuga. In questa sinfonia, Montale spera che il vento possa
soffiare nell’unico strumento scordato in quel momento, ovvero il suo
cuore.
Altrove il vento è la passione che travolge, che brucia e non a caso
viene accostato ad una figura femminile. Come nella lirica Falsetto di
Ossi di seppia, la cui protagonista è la giovane Esterina Rossi,
conosciuta dal poeta in vacanza sulle Cinque Terre, colta nel momento
del passaggio da ragazza a donna. Un passaggio delicato, presentato
come un’insidia:
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento
Il vento è qui connotato come un aggressore violento, dotato di una
forza travolgente e irresistibile. E infatti vince. La ragazza sente il
richiamo del mare e, spinta dal vento, si tuffa verso il suo divino amico
che la accoglie fra le sue braccia. Il vento è come un forza irrazionale
che spinge dentro una nuova avventura, che anche il poeta vorrebbe
vivere in pienezza e tuttavia rimane immobile, bloccato. Il vento passa
e invita, ma la terra resta ferma.
Il poeta non è della razza del vento, né della razza del mare:
Ti guardiamo noi, della razza
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di chi rimane a terra.
Il vento, l’aria, appartengono al campo semantico del cielo, questo
luogo lontano dalla terra dove spesso si muovono uccelli in volo e, più
tardi, la donna-angelo. Creature della libertà felice o dell’amore che ha
compassione della terra e che non esitano ad affrontare viaggi
pericolosi pur raggiungere il poeta. Prendiamo ad esempio la lirica Ti
libero la fronte dai ghiaccioli, contenuta nella raccolta Le occasioni:
Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l'ombra nera, s'ostina in cielo un sole
freddoloso; e le altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
Quella a cui Montale toglie i ghiaccioli dalla fronte è Clizia, la donna-
girasole.
Ella non è come le altre, ma è una donna-angelo, che, come Beatrice di
Dante, ha viaggiato attraversando distanze oceaniche per raggiungere il
poeta direttamente nella dimensione terrena in cui si trova.
Le conseguenze di questo viaggio sono visibili sul corpo dell’angelo:
le sue ali sono state travolte dalle raffiche dei cicloni e il suo aspetto è
stanco, sopraffatto.
La natura stessa sembra percepire la condizione di Clizia infatti il sole
è freddo, proprio come lei, nonostante sia mezzogiorno. Non si passa
impunemente dall’aria alla terra.
Fuoco, luce e calore
“Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
(Dissipa tu se lo vuoi)
L’immagine simbolica che si attribuisce spesso al fuoco, è proprio
quello della luce, di un qualcosa di divino, non terrestre. Un qualcosa
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di speciale, che non appartiene a questo mondo, pur poggiandosi sulla
terra, spesso bruciata, come quella presente in Montale, arsa dalla forza
del sole in cui il fuoco è spesso in relazione con la terra e con l’aria.
Potremmo dire che il fuoco, che sempre tende verso l’altro,
rappresenta molto bene il bruciante desiderio dell’uomo che si
protende verso un “più in là”, una dimensione che non è la sua. Il
bruciore che si evoca è dunque il martirio del cuore desiderante.
E’ come un’eterna preda di questo desiderio che si presenta Montale
nei versi conclusivi della lirica che chiude Mediterraneo, dove il poeta
afferma che ormai della sua vita non rimane altro che bruciare come un
ramo. E’ come se nella sua vita continuasse a bruciare di desiderio per
qualcosa che non ha ancora ricevuto e che non può smettere di
bramare.
L’immagine torna spesso in Montale:
Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino.
In questo famoso incipit la funzione del fuoco che brucia è assegnata al
sale, ma il campo semantico è lo stesso e di nuovo siamo in una
situazione di tensione, di forte legame tra la terra e qualcosa d’altro.
Infatti il girasole, oggetto del desiderio, esprime la necessità del sole,
che è luce senza la quale non può sopravvivere.
Il poeta fa una richiesta: vuole che gli si porti un girasole perchè sia
trapiantato in una terra arsa e bruciata. Ma, ci siamo chiesti, come può
nascere la vita da un terreno così poco fertile? Non è possibile.
Montale è alla ricerca di qualcosa un po’ più grande di un semplice
girasole. Sta chiedendo un miracolo. La sua richiesta potrebbe esser
interpretata come una preghiera, nella speranza di ricevere questo
miracolo. Notevole il significato simbolico che viene attribuito al fiore:
non più come un essere vivente inanimato, ma quasi come un angelo,
attraverso la personificazione del volto giallino.
La tendenza naturale delle fiamme di andare contro la forza di gravità
ed elevarsi verso il cielo, corrisponde un po’ al desiderio dell’animo
del poeta di innalzarsi verso l’alto, l’irraggiungibile cielo. È questo che
Montale desidera, questo è il suo desiderio impossibile che lo costringe
a bruciare. Riuscire ad arrivare al cielo. E questo bruciare lo logora, è
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un ardere che consuma.
Sostantivi come Trasparenze e verbi come, ad esempio, vapora, fanno
capire quanto ci stiamo allontanando dalla materialità per giungere
all'essenza. Il girasole è ormai simbolo di un'ebbrezza che rischiara la
visione delle cose. La luce diventa qualcosa di fronte alla quale non si
può fare altro che impazzire. E Montale in questa occasione sta
chiedendo alla sua Musa (luce) di essere illuminato.
Il fuoco nelle poesie di Montale, come abbiamo visto, può assumere il
ruolo, forse più traslato, di luce. Può essere la luce di una candela, del
sole, o del caminetto acceso in una casa, che continua ad ardere, come
nella lirica Il fuoco che scoppietta.
Il testo si apre con un’immagine molto casalinga: un caminetto con il
fuoco che scoppietta, un uomo addormentatosi davanti, forse grazie al
tepore. Poi il fuoco torna ad essere luce, una luce abissale. L’aggettivo
produce qui un ossimoro, dal momento che quando parliamo di abissi
nella nostra mente immaginiamo profondità, buio, freddo; ci riferiamo
agli abissi marini, sempre oscuri, che mettono paura.
Montale definisce questa luce come bugiarda, di finto bronzo, perché
gli oggetti riflettendo la luce, appaiono come se fossero altro da quel
che sono. In questo caso il poeta ci parla di una luce che inganna, che
camuffa la realtà.
Lo stesso accade in altri luoghi di Ossi di seppia:
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che si incrina
(Felicità raggiunta, si cammina)
Anche qui abbiamo la relazione inaspettata tra caldo (il barlume, la
luce) e il freddo del ghiaccio che si incrina. L’antitesi suggerisce di
nuovo una forma di inganno, causato dai sensi umani, vista e tatto. La
prima ci permette di osservare, capire e ammirare, ma anche illuderci,
sognare; con il secondo si torna alla realtà, che può essere molto
diversa. Il miraggio è un prodotto della luce. La “felicità raggiunta”
non è che illusoria.
C’è poi il valore soprannaturale del simbolo della luce e Montale,
appassionato cultore di Dante, lo sa benissimo. nel mondo simbolico
come qualcosa di soprannaturale e di sacro.
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E’ un simbolo ancestrale, che è presente nei miti primitivi, nella
Bibbia, nei Vangeli. Quando gli angeli vengono sulla terra e
annunciano o appaiono agli uomini, sono sempre circondati da una
grande luce accecante. Nella filosofia, Aristotele elabora un concetto
della luce che pur nella sua apparente immaterialità, è fondante della
corporeità dell'universo. La luce infatti coincide con il quinto
elemento, una materia eterna e fluida che circonda tutti i corpi la cui
consistenza contingente è data dai quattro elementi tradizionali. Quindi
la luce è alla base dell'essere fisico animato ed inanimato. Tendere alla
luce significa tendere all’essenza.
Luce e calore del fuoco sono entrambi presenti, in modo più ricco e
complesso, nella lirica Sul muro grafito di Ossi di seppia, dove si
percepisce un senso di privazione. L’ombra prodotta dal muro grafito
rende quasi finito il cielo, gli toglie la luce e la dimensione infinita. Il
poeta sembra poi provare nostalgia per un fuoco che un tempo arse
nelle vene delle persone. Gli manca questo bruciore che l’umanità un
tempo aveva e che oggi sembra aver perso irrimediabilmente.
Torniamo allora al desiderio: luce e fuoco. Senza di questi elementi
resta il freddo e l’opacità.
Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l’arco del cielo appare
finito.
Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.
Forme opache e sparse. Privazione di senso, di luce, di stupore.
“Riposo freddo”, il contrario di bruciare sempre.
“L’agave sullo scoglio”
La lirica L’agave sullo scoglio è un testo nel quale Montale mette
insieme tutti e quattro gli elementi naturali in modo esplicito, o
solamente evocandoli.
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Le tre parti di cui è composta la lirica sono caratterizzate dalla
presenza costante e cangiante del vento. Il punto di vista del poeta
sembra quello di un regista che riprende silenzioso tre diverse scene; il
vento è colto in tre manifestazioni diverse, lo Scirocco, la Tramontana
e il Maestrale, ed ognuna di esse è il correlativo oggettivo di una
condizione interiore.
Lo Scirocco rappresenta il momento in cui si sente l’immobilità della
vita con un senso di oppressione, come se si fosse sotto una cappa,
mentre il calore sembra che “frigga la materia”; la Tramontana è
invece il vento gelido che permette di vedere le cose senza foschie,
nella loro situazione reale, che è tragica, è un crollo universale:
Ogni forma si squassa nel subbuglio
degli elementi; è in un urlo solo, un muglio
di scerpate esistenze: tutto schianta
l’ora che passa: viaggiano la cupola del cielo
non sai se foglie o uccelli - e non son più.
Alla fine con il Maestrale giunge misteriosamente la dolcezza di una
carezza momentanea, un miracolo che trasforma tutta la terra e genera
una sorta di speranza; si intravede allora la possibilità di un “più in la”.
Il poeta si identifica con l'immobile agave abbarbicata sul terreno
roccioso e arido che si affaccia sul mare e sul quale cerca di
sopravvivere. La condizione della pianta è una metafora calzante delle
sensazioni del poeta che si sente schiavo di un mondo, la terra, che non
gli appartiene. In Scirocco scrive:
Oh alide ali dell'aria
ora son io l'agave che s'abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d'alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
L'uomo, come l'agave, racchiude all'interno dei suoi bracci gonfi i
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boccioli, che fioriscono raramente in un’ebrietudine tarda, dando
un'illusione momentanea di rinascita.
La terra in sé, è vista come un elemento immobile in estrema
contrapposizione ad aria, acqua e fuoco, elementi che hanno la
capacità di movimento e di modellare la terra che, in ogni caso, subisce
silenziosa il loro passaggio e senza i quali non potrebbe esistere.
Il vento, nella prima e nella seconda lirica, è arido e provoca effetti
negativi sulla terra e, in particolare, sull'agave. Dai versi sembra
emergere una cacofonia generale. In Tramontana, tutto è confuso e la
terra è sentita come nemica::
E tu che tutta ti scrolli tra i tonfi
dei venti disfrenati
e stringi a te i bracci gonfi
di fiori non ancora nati;
come senti nemici
gli spiriti che la convulsa terra
sorvolano a sciami,
mia vita sottile, e come ami
oggi le tue radici.
In questi versi, Montale sottolinea come l'agave sia schiava delle sue
radici che spesso odia ma di cui, come in questo caso, ha bisogno,
poiché proteggono la sua vita sottile dalle intemperie, evitando che sia
spazzata via dal vento e quindi allontanandola dal pericolo.
Il poeta-agave, immobile sullo strapiombo, riesce a vedere se stesso e
le cose intorno a lui grazie al riflesso del mare, come se fosse uno
specchio, fisso ma in continuo movimento, come le altre immagini che
vede riflesse attraverso esso e che gli ricordano di essere bloccato e di
non poter andare oltre. Montale riflette sui turbamenti dell'uomo che è
solo un passeggero sulla terra, in pratica nemmeno questo elemento gli
appartiene del tutto ed esso causa l'angoscia per una condizione
incomprensibile che non dà pace.
Nella terza parte, Maestrale, il paesaggio ritrova attimi di tranquillità,
da reliquiario diventa orto; sembra che il vento porti con sé una
sinfonia, addirittura l’agave fiorisce e si sente rinascere. Negli ultimi
versi ecco una novità leggera:
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Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano
scritto:
“più in là!”
Il poeta scorge un uccello che vola nella zona intermedia tra la distesa
marina e l’azzurro cielo che lui definisce fitto, quasi invalicabile, come
un limite che nemmeno gli uccelli possono varcare. Nella zona
intermedia c’è un movimento continuo, una continua tensione e una
sensazione: che la realtà non è solo quella che vediamo o che
tocchiamo ma c’è molto di più.
Quell’uccello che vola è forse lo stesso poeta, che ora abita la zona
intermedia, tra cielo e terra, dove si viaggia sempre col cuore e col
desiderio. E’ il “terzo status”, come Montale lo definirà anni dopo
nella lirica Credo di Altri versi:
Credo vero il miracolo che tra la vita e la morte
esista un terzo status che ci trovò tra i suoi.
Il “terzo status”
Quella che Montale definisce così è dunque la zona intermedia, non è
la vita (il cielo), non è la morte (la terra). È “sotto l’azzurro del cielo”
dove vola l’uccello di mare in cerca del più in là. Montale rappresenta
sé stesso e anche la sua Musa (Clizia) come abitanti di questa zona. Ma
questa è un po’ la condizione di tutti. In effetti siamo tutti uccelli di
mare che volano tra vita e morte in cerca del più in là.
Abbiamo evocato i quattro elementi per scoprire che Montale non li
tratta come se fossero a sé stanti, ma nelle loro relazioni: il vento
feconda la terra e il reliquario, un ammasso di cose morte, da inaridito
diventa orto; il fuoco va verso il cielo, la stessa agave è sballottata dal
vento, è aggrappata allo scoglio e la terra sotto di essa arde, brucia, si
protende verso l’alto come il fuoco. Montale riesce a intrecciare in
maniera armoniosa tutte le parti della natura, avendo indagato a fondo
le sue componenti: Per lui anche solo un pezzo di suolo crepato,
un’alga su uno scoglio, una folata di vento e uno spiraglio di luce
significano sempre più di quello che in realtà sono.
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Leggendo i versi di questo autore si impara a vedere le cose in maniera
diversa. Noi abbiamo imparato a chiederci il perché delle cose e a
cercare risposte alla nostra fame di conoscenza. Montale non è solo “il
male di vivere”, ma è anche colui che ci ha insegnato a interpretare i
messaggi della natura, a superare gli ostacoli del visibile e soprattutto a
tenere lo sguardo fisso verso un oltre misterioso e affascinante.
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Resta lo spiraglio. È poco e forse è tutto.
Eugenio Montale: il poeta del miracolo
Di
Serena Cerasa
Riccardo Gasbarri
Luca Manfredi
Stefano Simone
Sara Villa Avila
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Scriveva nel 1926 Sergio Solmi, recensendo gli Ossi di seppia, che
“un’atmosfera di arida e riflessa desolazione sembra mordere d’ogni
parte la materia di questa poesia”, vi rinveniva un “clima lucido e
deluso” (S. Solmi, Montale 1925, da “Scrittori negli anni”, Il
Saggiatore 1963).
È questa l’immagine di Montale che è giunta fino a noi.
Noi non vogliamo negare che l’aridità e la desolazione siano presenti
nelle sue poesie, ma sicuramente non è tutto, c’è molto altro.
All’immagine di Montale come il poeta del male di vivere, noi
vogliamo rispondere con l’immagine di Montale come il poeta del
miracolo. Montale non solo “parla del miracolo” o “tende al
miracolo”, nella sua poesia il miracolo accade.
Leggendo le sue poesie abbiamo respirato il miracolo, lo abbiamo
sentito forte e intenso come il profumo dei limoni, perché Montale
crede nel miracolo.
C’è un documento importante che dimostra questa apertura di Montale
alla dimensione del miracolo: è l’intervento che il poeta fece in
occasione del VII centenario dalla nascita di Dante a Firenze il 24
Aprile del 1965. In questo saggio, poi pubblicato con il titolo
Esposizione sopra Dante (in Il secondo mestiere – Prose, vol. II, I
Meridiani, Mondadori), Montale affermava di credere, sostenendo la
tesi del Pietrobono, che Beatrice “non solo visse, ma fu un effettivo
miracolo”. Poi aggiungeva:
“Per chi crede, come me, che i miracoli possono essere sempre in agguato
davanti alle nostre porte e che la nostra esistenza è tutta un miracolo la tesi del
Pietrobono non può essere combattuta con argomenti razionali.”
Sono affermazioni importanti, inequivocabili, che dicono già molto
rispetto alla tesi che vogliamo sostenere.
Non si deve pensare a miracoli grandi, eclatanti, straordinari, ma a
miracoli quotidiani, quasi impercettibili, brevi, ma allo stesso
rigeneranti come una boccata d’aria fresca. Un’apertura, una
spaccatura, un passaggio, uno spiraglio, appunto, qualcosa che è
accaduto, che è poco e forse è tutto.
Il titolo della nostra tesina nasce dalla scoperta, nella poesia I miraggi
(in Quaderno di quattro anni), di un'eco dei versi “Eppure resta/ che
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qualcosa è accaduto, forse un niente/ che è tutto” (Xenia II, 13).
È singolare il fatto che Montale si esprima quasi con le stesse parole.
Le due liriche si richiamano a vicenda. Secondo noi, mettendo in
relazione i due testi, quel “qualcosa” di cui parla il poeta, è lo
spiraglio, cioè il miracolo.
Tante volte nelle poesie di Montale si assiste a qualcosa di prodigioso,
ad un imprevisto che sconvolge l’ordine stabilito delle cose, che rompe
l’immobilità (l’immoto andare), che rinfresca dall’arsura:
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.”
(A vortice s’abbatte, Ossi di seppia).
Questo prodigio sembra manifestarsi come
uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.”
(I limoni, Ossi di seppia)
Nella poesia Prima del viaggio (Satura) Montale ci rivela che un
imprevisto è la sola speranza, perché è grazie all’imprevisto che
l’uomo riesce a fare un’esperienza di libertà che lo mette in contatto, in
rapporto con qualcosa di più grande.
Nella poesia di Montale è quasi sempre presente la sensazione che ciò
che lo separa dall’oltre (il celebre muro) non è completamente chiuso,
appaiono spesso delle fessure: “D’alti Eldoradi/ malchiuse porte”
(Corno inglese, Ossi di seppia); “da un malchiuso portone/ tra gli
alberi di una corte/ ci si mostrano i gialli dei limoni” (I limoni, Ossi di
seppia).
Montale è aperto all’oltre perché è come se avesse percepito qualcosa e
da quel momento è sempre in tensione e viene continuamente
risvegliato da un presentimento, un avvenimento, un trasalimento, un
incontro che lo desta misteriosamente.
Ha scritto il filosofo Costantino Esposito (che ci troveremo a citare di
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