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IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO c c o o l l p p i i s s c c e e a a n n c c o o r r a a : : f f u u o o r r i i g g l l i i S S p p u u r r s s L L a a m m a a l l e e d d i i z z i i o o n n e e

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Il periodico on line per gli amanti della palla a spicchi d'oltre oceano

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IL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANOIL PERIODICO ON LINE PER GLI AMANTI DELLA PALLA A SPICCHI D’OLTRE OCEANO

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Con la girandola e con la giostra deiplayoff in pieno svolgimento è tempoanche dei primi riconoscimenti a livellopersonale. Il clou lo si raggiungerà ovvia-mente quando a saltare fuori sarà il nomedell’Mvp della Lega, ma per il momento cipossiamo anche accontentare del primo‘Awards’ e cioè quello che dell’allenatoredell’anno che va ad un allenatore che daquattro anni sta cercando di portare la suasquadra a quel famoso e ambito anello.Dopo aver guidato nell’ultima regular sea-son a un numero record di vittorieCleveland, 66, il coach dei Cavaliers MikeBrown è stato nominato allenatore dell’an-no. Al suo quarto anno ai Cavs, dalla giu-ria di giornalisti sportivi di carta stampatae televisione di Stati Uniti e Canada Brownha ricevuto 355 punti ed è stato votato 55volte al primo posto. Nettamente staccatoil secondo di questa classifica, RickAdelman degli Houston Rockets con 151punti, terzo Stan Van Gundy degli OrlandoMagic con 150 punti. «Mike Brown è una

di quelle rare persone chef a sempre lacosa giusta al momento giusto - dice ilproprietario dei Cavaliers Dan Gilbert -. E’intelligente, disinteressato e gran lavorato-re. E’ curioso e voglioso di imparare. E’filosoficamente preparato e le sue decisio-ni derivano dal suo forte pensiero filosofi-co. Rimane fermo alla sua strategia del“primo, difendere” quando sarebbe piùfacile non ricorrervi. Come essere umano,Mike tratta tutti con rispetto, non importachi sono o da dove vengono». Mike Brown. «Io non mi sento come unomotivatore - Brown ha detto di recente. Ionon ho voglia di dare una rah-rah discorsoo qualcosa di simile ai miei ragazzi, milimito ad allenare. Ho iniziato come alle-natore della difesa per due anni prima diarrivare a Cleveland e ora tutti d'un tratto,ho avuto modo di fare non l’allenatore, mail capo allenatore. Mi ci è voluto un po’ ditempo per imparare fino in fondo e fare almeglio il mio dovere, ma alla fine ne èvalsa la pena».

‘Nba Awards Coach of The Year’: la statuetta va in Ohio nella bacheca

personale di Mike Brown

E finalmente giunge il momento di John Stockton, DavidRobinson, Jarry Sloan e sua maestà Michael ‘Air’ Jordan

‘Hall of Fame’ classe 2009Finalmente avrà urlato qualcuno. E’ ilgiusto riconoscimento di una carriera aldi sopra di ogni singolo commento altriavranno detto. Fatto sta che la classe del2009 della Hall of Fame ha fatto conten-ti davvero tutti quelli che hanno un bri-ciolo di amore per questo sport e perquesta Lega. Il perché è giustificato daiquattro nomi che da soli potrebberoanche identificare la Nba del loro tempodel loro periodo o perché no anche quel-la contemporanea, visto che uno dei‘celebrati’ è ancora in giro per gli Statesper giocarsi partite, vittorie e quant’al-tro, anche se dalla panchina. JohnStockton, David Robinson, MichaelJordan ed il signore che è ancora in atti-vità come allenatore: Jerry Sloan. Ladecisione da parte del NaismithMemorial Basketball Hall of Fame èstata praticamente inutile, visto che iquattro ‘moschettieri’ sono stati elettipraticamente subito alla loro prima ‘can-didatura’ (per essere eletti risultano esse-re necessari 18 su 24 voti disponibilindr) e alzi la mano chi magari non sifosse aspettata una cosa del genere. MICHAEL JORDAN. «Per un giocatoree una persona competitivo come meessere qui questa sera e ricevere questoriconoscimento, non è la cosa più faciledel mondo perché prendi coscienza chela tua carriera è completamente e defini-tivamente terminata. Il mio pensiero è

stato sempre quello di essere in grado diritornare e giocare a Basket a questolivello, ma ora e dopo questo riconosci-mento è come se fosse arrivata la scrittagame over. Ma detto questo è un onoreessere nella Hall Of Fame e per me sitratta di un riconoscimento che va dedi-cato a Dean Smith, visto che senza di luinessuno avrebbe mai potuto vedereMichael Jordan giocare a basket».JOHN STOCKTON. «Se devo essere sin-cero nella mia vita non avevo mai pensa-to di finire qui ed entrare nella Hall ofFame del Basket, quello che mi interes-sava era solo studiare ed andare a scuo-la. Ancor più sincero quando dico chenon c’ho pensato durante la mia carrie-ra, e questo è l’unico momento in cui storealizzando quello che mi sta accaden-do. DAVID ROBINSON. «Se dovessi sceglie-re una notte nella mia carriera, sarebbeprobabilmente camminare fuori dalcampo come un campione, e sapendoche stava per essere il mio ultimo ricor-do di pallacanestro».JERRY SLOAN. Non presente alla ceri-monia, ma per lui due parole le ha speseJohn Stockton: «Per me non è stato soloun allenatore, un mentore o una guida,ma soprattutto un amico. E’ un uomoincredibile e per me è stato un onoreaver trascorso la mia carriera con lui inpanchina».

Il momento di mettere in mostra la maglia della Hall of Fame e alcuni scatti d’altri tempi

Mike Brown con il premio destra i voti con i quali si è aggiudicato il titolo

Stars ‘N’ StripesStars ‘N’ Stripesideato da: ideato da: Domenico PezzellaDomenico Pezzella

scritto da:scritto da: Alessandro delli PaoliAlessandro delli PaoliLeandra RicciardiLeandra Ricciardi

Tommaso StaroTommaso StaroNicolò FiumiNicolò Fiumi

Michele FalcoMichele Falcoinfo, contatti e collaborazioni: info, contatti e collaborazioni:

[email protected]@hotmail.it

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

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Diciamo che vale quanto un titolo diMvp della stagione. Il riconoscimentopiù alto per chi entra a far parte dellanuova famiglia e del nuovo sistema digioco. C'è chi è più pronto, vistimagari i trascorsi, in un sistema chedi simile, forse ha solo l'intensità dialcune partite, e chi lo è di menoimpiegando più tempo per sfondare edimostrare tutto il proprio valore. Piùche ricordare chi questo trofeo l'havinto negli ultimi anni, forse sarebbemolto più interessante indicare unpaio di nomi che questo trofeo nonl'hanno vinto, visto che alla loroprima esperienza non hanno certofatto tuoni e fulmini. Vedi per esem-pio il caso di Jermaine O'Neal permesi e mesi ha scaldato la fredda pan-china dell'Oregon nel Rose Gardencasa dei Trailblazers. E pure qualcosi-na questo giocatore l'ha pur dimostra-ta. Non allo stesso modo della powerforward dell'Indiana, ma nemmeno il

primo anno Nba di un certo altrosignore che di nome fa Kevin Garnett,fu entusiasmante, tanto da far dubita-re in molti se il salto direttamente dal-l'High School non fosse stato troppoazzardato; provate a dirlo adesso.Insomma percorsi diversi ma non perquesto l’ex Memphis non è destinatoa diventare una superstar, anzi dicia-mo che il tutto è già scritto nel suopersonale firmamento.DERRICK ROSE: «Sin dal primomomento in cui ho messo piede inquesta Lega il mio pensiero e il miointento è stato quello di portare a casaquesto trofeo e ce l’ho fatta, nonostan-te la concorrenza».JOAKIM NOAH: «Penso che pochealtre persone abbiano fatto quello cheha fatto Derrick quest’anno. Ditemiun solo giocatore che nella sua cittàha portato la sua squadra ai playoffcon tutte le distrazione che ci possonoessere».

‘Nba Awards’: Come da copione lamatricola dei Bulls, Derrick Rose, si

aggiudica il ‘Rookie of the year 2009’

A soli 23 anni il centro degli Orlando Magic, Dwight Howard diventa il giocatore più giovane a vincere il ‘Kia Defense Player of the Year’

‘Superman’ spodesta Garnett«Come vuoi che tutti ti ricordinocome un grande saltatore, come coluiche ha vinto la gara delle schiacciatecon il mantello di Superman o vuoiessere ricordato per qualcosa altro?».«Vorrei essere ricordato come unodei migliori giocatori».«Bene allora inizia con la difesa».Questo il dialogo che il ‘Superman’della Florida ha intrattenuto con unodei ‘Big Man’ più importanti dellaLega Dikembe Mutombo. E vistocome è andato a finire la votazioneper il Kia Defensive Player of theYear il discorso fattogli dall’africanodei Rockets deve essere servito ecome. Miglior rimbalzista dell’NBAcon 13,8 a partita e ha anche il mag-gior numero di stoppate a partita,2,9. Numeri che lo mettono in gran-dissima compagnia per quantoriguarda i giocatori che nella stessastagione hanno portato a casa la clas-sifica dei rimbalzi e delle stoppate.Una categoria esclusiva nella qualecompaiono i nomi di Bill Walton,Kareem Abdlu-Jaabar, HakeemOlajuwon e Ben Wallace, ma soloperché le stoppate sono state inseritenel conto ufficiale delle statistiche apartire dal 1973. Numeri hanno aiu-tato gli Orlando Magic a raggiungereil terzo posto nella EasternConference. Nella speciale classificastipulata per mezzo dei voti di 111giornalisti di carta stampata e televi-sione di Stati Uniti e Canada il trevolte All-Star ha preceduto LeBronJames (Cleveland) e Dwyane Wade(Miami). Howard diventa cosi il piùgiovane cestista a vincere il trofeo diDifensore dell’Anno succedendo in

ordine di tempo a Kevin Garnett chelo scorso anno più o meno di questoperiodo alzò la prima statuetta alcielo per poi alzare quella più impor-tante di tutte.OTIS SMITH: «Probabilmente lacosa più importante e più impressio-nante di questo riconoscimento stanel 16esimo posto di Turkoglu e ilfatto che lo stesso Howard abbia ini-ziato e finito questa stagione con unpensiero fisso nella mente: essere ilmiglior difensore dell’anno. E ora c’èriuscito».COACH STAN VAN GUNDY: «Esserearrivato a conquistare la statuetta e ilriconoscimento di miglior difensoredell’anno è una cosa rimarchevole edi enorme importanza per un ragaz-zo di 23 anni. Generalmente il latodifensivo viene fuori col passare deltempo, e da questo punto di vistacredo che Dwight abbia bruciato piùdi una tappa, ma nel senso buono deltermine».LEBRON JAMES: «A dire il vero citenevo molto più che quest’anno chenegli anni scorsi. Non che in passatonon mi curassi o non mi preoccupas-si del lato difensivo del gioco, masolo che quest’anno l’ho curato anco-ra visto che era una parte del tuttoper migliorare sempre di più».Ed infine come non poteva arrivarela dichiarazione da ‘joker’ del bambi-none in maglia numero 12 che cosiconclude la sua conferenza stampa:«Sono grato e devo ringraziare i mieicompagni che permettono ai lorouomini in difesa di arrivare fino alferro e permettermi, in questo modo,di stopparli…».

Alle due estremità i risultati delle votazioni del Rookie of The Year e Miglior Difensore. In mezzo Dwight Howard

Derrick Rose al momento di ricevere il premio

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Decisione facile e praticamente unanime che ha visto trionfare ilfolletto dei Dallas Mavericks. Battuti JR Smith e Nate Robinson

Jeson Terry miglior sesto uomoMolto probabilmente la decisione piùscontata da prendere al momento del-l’assegnazione dei premi di fine anno.Non poteva essere altrimenti ed alloranella stanza dei bottoni, ma anche esoprattutto da parte di chi di questosport ci vive, c’è stata una unanimitàsconcertante e devastante che ha asse-gnato al cecchino del Texas JasonTerry il riconoscimento di ‘Sestouomo dell’anno’. Per l’ex Atlanta il riconoscimento èarrivato come avvenne per lo stessoManu Ginobili, al termine di una sta-gione in cui l’esterno dei Dallas Mave-ricks è stato ‘costretto’ a scalare diposto e quindi passare dallo startingfive alla panchina, ma non per deme-riti, ma solo per essere utilizzato comearma tattica o se vogliamo come ‘kil-ler’ della partita. Il risultato? 576 dei possibili 605punti, compresi 111 dei 121 voti daprimo posto, da un insieme di giorna-listi (per entrare in questa specialeclassifica i giocatori devono esserepartiti dalla panchina in più dellametà delle partite disputate nella sta-gione appena conclusa sesto uomo in63 delle 74 partite da lui giocate nellaregular season, Terry ha totalizzato19,6 punti, 2,3 rimbalzi e 3,4 assist dimedia a partita per i Mavericks.

Secondo e nettamente distanziato laguardia dei Denver Nuggets JR Smithcon 155 punti seguito da Nate Robin-son dei New York Knicks con 113punti. Questo l’albo d’oro:1982-83 Bobby Jones, 76ers1983-84 Kevin McHale, Boston Celtics1984-85 Kevin McHale, Boston Celtics1985-86 Bill Walton, Boston Celtics1986-87 Ricky Pierce, Bucks1987-88 Roy Tarpley, Dallas 1988-89 Eddie Johnson, Phoenix Suns1989-90 Ricky Pierce, Bucks1990-91 Detlef Schrempf, Pacers1991-92 Detlef Schrempf, Pacers1992-93 Clifford Robinson, Portland 1993-94 Dell Curry, Charlotte Hornets1994-95 Anthony Mason, New York 1995-96 Toni Kukoc, Chicago Bulls1996-97 John Starks, New York 1997-98 Danny Manning, Phoenix 1998-99 Darrell Armstrong, Orlando 1999-00 Rodney Rogers, Phoenix 2000-01 Aaron McKie, 76ers2001-02 Corliss Williamson, Pistons2002-03 Bobby Jackson, Sacramento 2003-04 Antawn Jamison, Mavericks2004-05 Ben Gordon, Chicago Bulls2005-06 Mike Miller, Memphis 2006-07 Leandro Barbosa, Phoenix 2007-08 Manu Ginobili, San Antonio 2008-09 Jason Terry, Dallas Mavericks

Immagini del nuovo vincitore del titolo di sesto uomo dell’anno: Jason Terry

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

Flip Saunders è ufficialmente ilnuovo allenatore dei WashingtonWizards, reduci da una delle peg-giori stagioni della loro storia. Hafirmato un contratto quadriennaleda 18 milioni di dollari. Saunders eI Wizards avevano raggiunto unaccordo verbale più di una settima-na fa, il 54enne tecnico ha firmato ilcontratto martedì sera. Sarà uffi-cialmente presentato in una confe-renza stampa giovedì. Saunderssuccede al coach ad interim EdTapscott che ha portato a termine lastagione a seguito dell’esonero di

Eddie Jordan dopo una vittoria e 10sconfitte. Saunders ha un record di587 vittorie e 396 sconfitte in 13 sta-gioni NBA, 10 con Minnesota e 3con Detroit. Vanta sette stagioni da50 vittorie e ha raggiunto le finali diConference quattro volte, una voltacoi Timberwolves e tre con iPistons.Resta vuota, almeno per il momen-to, invece, la panchina dei Kingsdopo la decisione del front officecaliforniano di licenziare coachNatt e tutto il suo staff. E ora parteil più classico dei toto allenatori.

I Kings licenziano Natt, Washington siaffida alle mani di Flip Saunder per la

nuova rinascita e gestire Arenas

L’ex timoniere di Timberwolves e Pistons Flip Saunders

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L’infortunio durante gara2 in Oregon contro i Trailblazers,potrebbe essere l’ultima goccia di una carriera lunga 18 anni

Dikembe Mutombo: True HeroDavvero difficile trovare ilpunto di inizio principale dalquale poi iniziare a parlare diun uomo che seppur vincen-do poco o quasi niente, èdestinato ad essere un grandedi questo gioco, un grande diquesta Lega per quello che hadato dentro e fuori dalcampo. A dire il vero perquello che il lungo africanoha dato, ha fatto e ancora fafuori dal campo necessitereb-be un articolo o meglio unnumero di Star n Stripes inte-ramente dedicato a lui.Semplici e non pienamenterispecchianti quella che è lasua attività umanitaria nonsolo in America in quella chegeneralmente viene indicata echiamata con il nome di ‘NbaCares’, ma soprattutto quellache l’uomo dai tanti nomi(Dikembe MutomboMpolondo Mukamba Jean-Jacque Wamutombo ndr) èriuscito a fare per il suo Zairee perchè no per la sua Africa.Ormai non si contano i ‘presi-denti spirati’ che dall’Americahanno preso come destina-zione lo stato Africano per lacostruzione di Ospedali,

scuole e tutto quello che può servireper una vita decente. Il tutto potreb-be sembrare un atto o un gesto belloe dovuto, ma il tutto va oltre visto cheDike non ha mai dimenticato da doveè venuto e come si è costruito tuttoquello che attualmente gli è attorno.Inventore del ‘Not in my House’ conil gran ditone che si agitava al seguitodi ogni stoppata quando era inmaglia Nuggets. Eroe silenzioso nellalotta contro il gigante ShaquilleO’Neal nella serie Finale dei Sixerscontro i Lakers del 2001. Una serieche forse meglio incarna quello che èil Mutombo uomo: tante botte, tanticontatti e mai una parola fuori posto,mai una lamentela, ma solo parole disprono e di coraggio per i compagni.Etica lavorativa e morale che nehanno fatto una sorta di ‘guru’ unasorta di uomo saggio o se voglia o di‘vecchio saggio’ cosi come era usanzanei villaggi africani. Lo stesso ruolodi saggio che in questa stagioneHouston (a dire il vero la stessa pro-posta gli era arrivata anche daBoston ma l’africano ha deciso di tor-nare in Texas ndr) gli aveva chiesto disvolgere a 38 anni di età e alla sua18esima stagione da professionista,specie nei confronti di chi magariaveva bisogno in certi momenti diuna parolina in particolare per gesti-re un carattere non proprio da angio-letto (vedi Ron Artest) o magaridispensare quei consigli da ‘vecchiomarpione d’aria’ che tanto servivanoe che di sicuro serviranno ancoraanche ad un giocatore dotato dalpunto di vista del talento come YaoMing. Insomma una figura che l’Nba è abi-tuata a vedere anche se solo in pan-china dalla quale ha sempre avutoqualcosa da dire ai suoi compagni.Quella caduta sotto il tabellone diPortland Trailblazers, che gli è costa-ta oltre un infortunio al ginocchio,ma addirittura qualche lacrima per iltanto dolore, sembra aver fatto scat-tare quella molla che forse in pochipensavano potesse scattare: il ritiro.Questa l’idea immediatamente dopoil fatto con tanto di dichiarazioni:«Per me il basket fa già parte del pas-sato, mentre ero a terra ho pianto mapoco dopo ho ringraziato il signoreper questi 18 anni di carriera». Il con-dizionale però è d’obbligo. Certo lacomponente fisica è quella principa-le, l’età è quella che è ma con uncombattente come lui nessuna stradaè preclusa, persino quella di rivederloancora in campo. Due immagini che ritraggono tutto l’impegno di Dikembe Mutombo al di fuori del parquet di gioco

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Non viene dalla Russia, ma da un paesino dellaprovincia americana: Lewisville, e il suo amore èil basket. Una cascata, magari non di diamanti,ma comunque di dollari, gli è precipitata addos-so nel momento del suo arrivo nella NBA.Missione Gold(finger), l’ha centrata l’estate del2008, a Pechino, portandosi a casa la medagliad’oro olimpica. Non sappiamo se abbia anche la

licenza d’uccidere come James Bond, il perso-naggio romanzesco e cinematografico di IanFelming, ma, solo per i nostri occhi, smazza assi-st pregiati che i suoi compagni di squadra tra-sformano in canestri spettacolari. CP3 il suonome in codice, Paul, Chris Paul, il suo veronome. Chris è un predestinato al successo. Nascea Lewisville il 6 magio del 1985 e, a 17 anni,vince già il suo primo trofeo di MVP quandoprende parte al torneo AAU con il team del‘Kappa Magic’. Frequenta la locale West Forsyth

DIDI

AALESSANDROLESSANDRO DELLIDELLI PPAOLIAOLI

Altro giro altra corsa, altra serie di playoff ed altra sconfitta per CP3. Quella contro iNuggets potrebbe addirittura minare il suo rapporto con i suoi New Orleans Hornets

My names is Paul, Chris Paul

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High School che trascinerà al record di 27 vintee 3 perse, nel suo anno da senior, fermandosisolo alle Eastern Regional Finals. Nella sua car-riera ai ‘Titans’ realizza una media di 30,8 punti,8 assist, 5 rimbalzi e 6 rubate a partita e, al suoultimo anno viene eletto Mr. Basketball dellostato del North Carolina, premio assegnato dal‘Charlotte Observer’, inserito sia nel quintettoideale che nell’elenco dei migliori prospetti diHigh School di tutti gli Stati Uniti e indicato daAssociated Press come miglior giocatore di HighSchool del North Carolina. Ma più di ogni altroriconoscimento o premio, è un episodio verifica-tosi all’inizio del suo ultimo anno all’High Schoola catalizzare l’attenzione dei media. Chris Paulrealizza 61 punti nella partita d’esordio. 61 comegli anni di suo nonno Nathaniel Jones, ucciso daalcuni malviventi qualche sera prima. Paul entrain campo con tutta la rabbia che ha in corpo e laindirizza nel verso giusto, sfoderando una pre-stazione super. Raggiunta quota 61, Paul decidedi sbagliare il tiro libero concessogli per un fallosubito e cristallizzare così il punteggio sulla cifraesatta degli anni dell’amato nonno. Da migliorprospetto dello stato, Paul sceglie il programmacestitico della Wake Forest University e si affidaalle cure di coach Skip Prosser. Nel suo primoanno in maglia ‘Demon Deacons’, Chris esprimetutto il suo potenziale, riscrivendo alcuni recorddell’ateneo. Conclude con 14.8 punti a gara (conil 46.5% da oltre l’arco dei 3 punti e quasi il 50%dal campo), 6 assists a gara, 3.2 rimbalzi e 2.7recuperi ad incontro in 33.5 minuti di utilizzo a

serata. Numero uno per recuperi, 84, nella storiadel college di Wake Forest, nonché dell’interaAtlantic Coast Conference, ma anche per gli assi-sts (183), per la percentuale da tre punti e perquella dei tiri liberi (con l'84.3%). E il freshmanche ha avuto più minuti di utilizzo nella storiadell’ateneo, superando Frank Johnson nel 1977ed è terzo per numero di partite disputate, dietroa Tim Duncan e Josh Howard. Nominato Rookiedell’anno della ACC; il suo nome e’ inserito nelprimo quintetto ideale All-Defensive Team dellaACC e nel terzo All-ACC. Convocato dalla nazio-nale USA Under 20, concluderà la sua esperienzaai campionati di categoria con l’oro. Nel suosecondo anno in maglia bianconera Paul incre-menta le proprie statistiche: 15.2 punti (col45.1% dal campo, il 47.4% da oltre l’arco el'83.4% dalla lunetta), 6 assists, 4.5 rimbalzi e 2.4palle rubate con la media minuti pressoché inva-riata. L’anno da sophomore però sarà ricordatoper il pugno rifilato a Julius Hodge di NorthCarolina, episodio che a CP3 costerà la squalificae a Wake Forest l’eliminazione dai quarti di fina-le della ACC, proprio a causa dell’assenza delproprio play, punto di riferimento. Paul decideche due anni di college sono sufficienti e si rendeeleggibile al draft dell’anno di grazia 2005. Ledinamiche di un draft NBA sono fuori da ognicomprensione logica ed il talento di Chris Paulscivola alla quarta posizione. Prima di luiMilwaukee sceglie Bogut, Atlanta, MarvinWilliams e Utah il play Deron Williams, poi NewOrleans poi Chris Paul. CP3 ha tutte le qualità

per emergere anche nei ‘pro’: 1.80 cm per 79 kg,ball hadling di pregiatissimo livello, mani velociin difesa come dimostrano i record abbattuti alcollege per palle rubate, visione di gioco e capa-cità di finire in tripla doppia sinistramente similia quelle di Jason Kidd, un mostro sacro nelruolo di play. Paul non delude: primo quintettorookie e il titolo più ambito per un primo anno

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NBA, vale a dire il Rookie of The Year 2006 conquistato alla media 16.1punti (con il 43% dal campo e l'84.7% dalla lunetta), 7.8 assists, 5.1 rim-balzi e 2.2 palle rubate a partita. Insomma, al solo primo anno, Chris sicandida a simbolo di una franchigia e di una città, New Orleans in fase diricostruzione, sportiva e sociale. Lui non si tira indietro e risponde con lesue giocate spettacolari, in campo, e fuori, partecipando alle varie iniziati-ve per le vittime dell’uragano Katrina. Il rendimento degli Hornets nelcorso delle successive stagioni cresce parallelamente alle sue cifre (17,3punti , 8.9 assists, 4,4 rimbalzi e 1,8 rubate a partita al secondo anno; 21,1punti, 11,6 assists, 4,0 rimbalzi e 2,7 rubate nell’anno della sua consacra-zione il 2008). Il rendimento dei ‘calabroni’si innalza vertiginosamente,Tyson Chandler, David West e Peja Stojakovic beneficiano della vicinanzae delle assistenze di CP3. Paul vince la classifica degli assist con 11,6, vieneinserito nel primo quintetto NBA e nel secondo quintetto difensivo.Trascina di forza gli Hornets alla post season ed è in lizza per il trofeo diMVP della regular season. Ai play-off sono i San Antonio Spurs, campioniin carica, a negargli la finale della Western Conference, ma solo a gara 7 e,come capita ai grandissimi di questo sport le sue cifre crescono al cresceredell’importanza delle gare (24.1 punti, 11.3 assists, 4.9 rimbalzi, 2,3 rubate

nelle 12 gare disputate). Discorso diverso per il titolo di MVP. Il riconosci-mento va a Kobe Bryant che nell’ultima parte della stagione porta i suoiLakers al primo posto della Eastern Conference a scapito proprio dei NewOrleans Hornets. La stagione è comunque trionfale per Chris e si conclu-derà nel migliore dei modi all’Olimpiade di Pechino, con la medaglia d’oroal collo e la consapevolezza di essere considerato il numero uno dei play-maker dell’intero globo terrestre. La dirigenza Hornets capisce le potenzia-lità della squadra e inserisce un James Posey nel motore. L’obiettivo è rag-giungere nel più breve tempo possibile il titolo NBA. La sfida è dura, laWestern Conference lo è ancora di più. Al momento i ‘calabroni’ sono inlotta per il titolo della Southwest Division e il rendimento di Chris Paul èda MVP: nelle 72 gare disputate finora, 22, 5 punti, 11 assist, 5,4 rimbalzi e2,8 rubate ed è saldamente in testa alla classifica degli assist. Nel’ultimomese ha guidato gli Hornets ad un record di 11-5 meritandosi il titolo diWestern Conference Player of the Month. Tutto questo forse non basteràper ottenere il riconoscimento di MVP dell’anno. Paul finirà per essere vit-tima della grande sfida Kobe vs. LeBron. State tranquilli perché CP3 nonsi arrenderà facilmente, come James Bond, porterà a termine la sua mis-sione. Sia essa il titolo di MVP o l’anello NBA.

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Rapido excursus attraverso quelli che saranno i protagonisti dei prossimi anni.Lebron guida la spedizione, Howard, Durant, Paul e Roy i principali antagonisti

Ad LBJ lo scettro della Nba futuradidi

DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

Il passato è per i nostalgici, il presente è per chi non vuole ne guardarsi indie-tro ne prolungare lo sguardo troppo avanti. E il futuro? Beh il futuro è riser-vato a chi magari va avanti di qualche fotogramma su tutto, trasportandoquello che è in quello che presumibilmente sarà o se vogliamo sicuramentesarà. La Nba è il mondo ideale per tutti e tre i tipi di soggetti. Un mondo incui c’è spazio per chi ancora non riesce a togliersi dalla mente le giocate o inomi dei mostri sacri o di coloro che hanno reso possibile l’evoluzione attualedella Lega: c’è posto per chi ha messo per un attimo nell’angolino dellamemoria quanto successo negli anni addietro e si gode il presente di un cam-pionato che nonostante tutto e i campioni che ormai appartengono al ricor-do, resta sempre uno dei più spettacolari di questo ‘pianeta’ dal punto di vistacestistico. Ed infine c’è chi, invece, si diverte nel prendere quello che accadeoggi e spostarlo un po’ più in la nel tempo. Come? Prendendo cosa? La rispo-sta è molto facile: prendendo chi magari oggi ha ancora un’età tale da essereconsiderato quanto meno giovane e con ancora tanti anni di carriera davantie cercare di spedirli in un’altra data cosi come Martin McFly faceva con la

sua Delorian. Noi l’abbiamo fatto e quello che ne è venuto fuori è che trameno di un lustro la National Basketball Association si ritroverà catapultatain un’altra era dove quelli che ora sono i campioni di oggi e con età un po’ piùavanti saranno il ricordo del passato, mentre i giovani rampante un presentemolto più roseo di quanto si possa immaginare. Un discorso che per alcunipotrebbe anche essere considerato campato in aria, ma bastano un paio diesempi per dimostrare come questo piccolo esperimento ha più di una fonda-menta e più di una ragione per essere fatto. Lebron James (24), DwightHoward (23), Chris Paul (23), Kevin Durant (20), Brandon Roy (24), DeronWilliams (24), Derrick Rose (20), Andrew Bynum (21), senza contare chi inquesta Lega cio deve ancora entrare. E se l’età non basta a convincervi behallora di seguito riportiamo le statistiche di ognuno di questi giocatori che tranon molto si cuciranno (per qualcuno è cosa già fatta basti pensare a ‘TheReal Chosen One’ o Chirs Paul o ancora Dwight Howard ndr) addosso defini-tivamente l’etichetta di superstar assoluta in un mondo cestistico che si ripo-polerà di più di una rivalità anche se poi alla fine solo uno sarà il ‘Re dei Re’.

22000099 SSeeaassoonn SS ttaa tt ii ss tt ii cc ss

PPPPGG 2288 ,,44RRPPGG 77 ,,66AAPPGG 66 ,,55

NNee ii pp ll aayyoo ff ff

PPPPGG 3333 ,,55RRPPGG 1100 ,,55AAPPGG 66 ,,55

22000099 SS ttaagg iioonnee RReeggoo llaarr ee

PPPPGG 2200 ,,66RRPPGG 1133 ,,88AAPPGG 11 ,,44

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di Domenico PezzellaE’ il dubbio amletico che al momento pervadeed invade la mente di coach Phil Jackson. Nonche il timoniere Zen si faccia prendere daicosiddetti ‘grilli per la testa’, ma quello legatoal suo numero 17 è un rompicapo a cui deveessere trovata una soluzione ed anche in fretta,specie per il bene dei Lakers e per l’obiettivocomune: l’anello. Al momento del suo ritornoin campo e dalle sue ultime prestazioni diregular season era no in pochi a pensare che lagestione di Bynum sarebbe stata una specie diguaio per il tecnico dei gialloviola. Prestazionidi un certo livello di un certo fatturato (16punti il 9 di aprile contro Denver, 13 controPortland, 18 contro Memphis e 22 contro gliUtah prima dell’inizio della post season ndr)che avevano riportato nella vetrina losangelinaun giocatore si proveniente da un infortunioserio, ma in grado di tenere il campo e diriprendersi il suo posto all’interno dello star-ting five di LA, ed invece...Ed invece quellodelle ultime uscite di di regular season è statosolo fumo negli occhi. Una grossa nube alzatada soffi di vento rappresentati nella nostrametafora da canestri facili con palla general-mente alzata al di sopra del ferro con KobeBryant da questa parte dell'arcobaleno, da unritmo di gara non certo elevatissimo ed ingenerale un andamento al limite del blandoper favorire anche il suo rientro dal punto divista psicologico. Tutto sembrava funzionare

nel verso giusto, tutto sembrava andare nelladirezione migliore per i Lakers e per lo stessoBynum, ma poi ecco arrivare i playoff. Unaltro campionato, un altro tipo di gioco, unaltro tipo di intensità e il dilemma di cui sopraha preso vita in un amen. Il primo sintomo, edanche quello più evidente, è stata l'esplosività.La serie con i Jazz poteva rappresentare iltrampolino di lancio dello stesso Bynum con-tro una front line non certamente fisica ed altao con un giocatore (il gemello Collins l’unicavera alternativa ndr) capace di contrastare lasua altezza in post basso. Gara1 e gara2 leunica ad essere timidamente consideratebuone per lui, ma i segnali non erano certoincoraggianti. Ricezione profonda a pochi cen-timetri dal canestro tentativo di schiacciata efallo subito. Per tutti poteva sembrare un’azio-ne normale, ma non per chi era abituato avedere i Lakers prima del suo infortunio oquanto meno per lo staff tecnico gialloviola.La sua esplosività non è nemmeno paragonabi-le a quella di una volta, quando si sarebbe por-tato palla e difensore sin dentro al canestroinvece di arrivare addirittura sul primo ferro esubire il fallo. Se poi a tutto questo ci mettia-mo che la mobilità dei lunghi dei Jazz e la suastaticità, allora il resto della serie è presto chespiegata: sette minuti in gara3 e gara4 dove hachiuso con rispettivamente 4 e 2 punti. Sonostati 12, invece, i giri di lancette concessi dacoach Jackson in quello che sembrava il ‘gar-

bage time’ di gara5, ecco sembrava.Nell’ultimo atto della serie Bynum ha dimo-strato di non essere a posto non solo fisica-mente, ma anche mentalmente. Il suo atteggia-mento in campo non è stato quello di un gio-catore voglioso di scendere in campo, di man-giarsi gli avversari dopo i tanti minuti in pan-china (motivazione ufficiale riservata allamossa tattica legata all ’utilizzo di LamarOdom contro Okur e in generale un repartolungo abbastanza mobile specie sui pick androll che coinvolgevano Deron Williams e aturno Carlos Boozer o Mehmet Okur ndr).Insomma l’atteggiamento di chi era li per casoo comunque costretto ad essere in campo inuna serie che non è mai stata la sua cosi comelo stesso Bynum si aspettava. Ed ora? Il com-pito più arduo: rimetterlo in piedi sia dalpunto di vista fisico che mentale. All’orizzontesi proietta quella che potrebbe essere la serieche lo rilancerebbe contro un ‘big man’ di altolivello, contro un giocatore dove i suoi centi-metri e la sua stazza potrebbero fare la diffe-renza. Già ma Bynum avrà la forza mentale,dopo questo primo turno di rialzare la testa edi fare come gli comanda Phil Jackson sapen-do che poi da un momento all’altro potrebbedi nuovo finire in panchina cosi come spessoaccade nei momento chiave del quarto perio-do? E come diceva una famosa canzone: «Loscopriremo solo vivendo...» e nel caso di speciesolo vivendo la serie con i Rockets.

Dubbio amletico per coach Phil Jackson specialmente alla luce della seriegiocata dal numero 17 contro gli Utah Jazz. E ora si spera nei Rockets e Yao

Bynum o non Bynum?

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

Molto probabile che al momento della forma-zione del ‘Big Three’ chiunque in terra delMassachusetts, ma in generale in giro perl’America una domanda se l’è chiesta: chi saràil ‘Big Three’ più importante? Quale quelloindispensabile sia nella vittoria della scorsastagione sia in quella che può essere la corsa altitolo di quest’anno? Altrettanto probabile chein quella sede in gran parte degli stessi ‘Amleti’abbiano dato a se stessi la medesima risposta,quella che può essere parafrasata nelle parole

di un noto letterario italiano, AlessandroManzoni: «Ai posteri l’ardua sentenza…». Unarisposta che magari qualcuno poteva pensaredi avere, precisamente, tra tanto tempo, edinvece non hanno mica dovuto aspettare tanto.Una stagione. Questo il tempo necessario aitifosi di Celtics ed in generali agli addetti ailavori per avere l’illuminazione giusta in mate-ria. Questo il tempo necessario per capire cheil vero elemento indispensabile, la vera pedinafondamentale, il vero ago della bilancia bian-

coverde era The Big Tickett al secolo KevinGarnett. Che l’ex Minnesota è un leader nato epronto a prendersi le sue responsabilità, nonera certo una novità, ma che potesse mancarecosi tanto ad una squadra fatta non certamen-te dagli ultimi della classe, questo davveroforse in pochi se lo aspettavano. Dal quel 25marzo (data dell’ultima partita giocata daparte del talento di Farragut Academy HSIllinois) però, giorno dopo giorno, partita dopopartita la sua assenza si è sentita e come. Non

I ‘defender Champion’ dovranno scalare la montagna che porta alla conquista ‘back to back’ senza il suo leader che assisterà in borghese per tutti i playoff

Quant’è dura senza KG...

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LE STATISTICHE DEI BOSTON CELTICS NEI MESI DI REGULAR SEASON

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in termini di punti, non in termini di canestripesanti o di responsabilità offensiva, visto chegente come Pierce o Ray Allen non fanno certomancare nulla a Doc Rivers da questo punto divista. A mancare è quella grinta che soloGarnett sapeva e sa mettere sui ventotto metridi campo quando la faccenda si faceva compli-cata. L’innato talento di guidare i compagni disquadra nella propria di metà campo cosicome un generale con le sue truppe durante labattaglia. A mancare è quel suo modo di farcapire agli avversari che dal quel momento inpoi si faceva sul serio e che doveva fare i contiprincipalmente con lui. Momento che nonbisognava certo intuire o immaginare, dalmomento che KG te lo faceva capire e basta econ atteggiamenti poi nemmeno tanto inequi-vocabili. Pressione sul portatore di palla sindalla rimessa con il suo classico battere lemani a terra prima di tornare nella sua posi-zione naturale al centro dell’area colorata,bloccare il tiro scagliato da chiunque a gioco

fermo e dopo un fischio. Questi i marchi difabbrica di un giocatore che da quel momentorivolta la sua squadra come un calzino nelvero senso della parola. Ed ora? Beh ora tuttoquesto è quello che manca principalmente aiCeltics. Mancano quelle urla che dalle partipiù vicine a canestro dirigevano come undirettore d’orchestra tutta la difesa. Ognunodei suoi compagni dipendeva da quello chediceva in difesa, ognuno dei suoi compagniaveva sempre un momento (a volte anche senon per volontà propria ndr) per ascoltarequello che aveva da dire o consigliargli omagari urlargli contro dopo qualche ‘fesseria’.Opinione comune agli addetti ai lavori, che glistessi Allen e Pierce sarebbero addirittura deidifensori migliori quando in campo c’era ilnumero 5. Ma purtroppo ora non c’è più e nonci sarà per il resto della stagione e quindi deiplayoff.«Dobbiamo smetterla di pensare a come sareb-be stato con Kevin o se ci fosse stato Kevin

questo non sarebbe successo e via dicendo.Garnett resterà fuori per tutta la stagione equindi dobbiamo fare da soli e non credo chesia tanto male». Lo sfogo di coach Doc Riversnei confronti dei giornalisti al termine dellasconfitta di Gara1 contro i Bulls di qualchesettimana fa. Parole inequivocabili e dirette,con ogni probabilità, principalmente alla squa-dra che non sicuramente non aveva ancorametabolizzato lo scotto di dover giocare e didover fare a meno della pedina più importantedel roster. La serie con i Bulls è stato un vero eproprio campanello d’allarme spento grazie almaggior talento dei biancoverdi e l’inesperien-za di una squadra che alla fine ha fatto la dif-ferenza nonostante momenti di ottima e genia-le pallacanestro. Ma l’allarme non è minima-mente cessato, anzi, sui Celtics e sul back toback c’è sempre l ’ombra del 23 in magliaCavaliers e l i si che l ’assenza di Garnettpotrebbe essere l’arma decisiva per impedire ilback to back all’armata di Boston.

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I Cleveland Cavaliers sono un rullocompressore, Pistons asfaltati

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Michael Jordan prima di prendere possesso della Lega dovette pas-sare sul cadavere dei Detroit Pistons che abdicarono nella famosapartita in cui il campo venne abbandonato prima della sirena finaleper non dover stringere la mano a quei Chicago Bulls che per anni sierano fermati contro l’ostacolo Pistons e ora, finalmente, agguanta-vano quella che sarebbe stata la prima di 6 Finali in 8 anni. Bene, ilparagone James-Jordan è assai inflazionato, le tipologie dei giocato-ri decisamente differenti, LeBron una Finale l’ha già giocata, ma ilcomune denominatore Detroit Pistons è lì da osservare. Chiaro, que-sti Pistons schiaffeggiati a piacimento dai Cavs non hanno nulla ache vedere con i Bad Boys di Isiah Thomas, ma è difficile non nota-re, sempre per rimanere in tema di similitudini, che la corsa playoffsdei Bulls di MJ si chiuse nel giugno 1991 contro i Los AngelesLakers, e se si guarda al tabellone Ovest di questi playoffs 2009 l’in-diziata numero uno per il posto nella finalissima viene proprio daL.A. e veste la maglia gialloviola. LeBron ha dominato la serie contro i Pistons con cifre spaventose(32 punti, 11.3 rimbalzi e 7.5 assists di media con più del 50% dalcampo), ma soprattutto ha fatto tutto questo dando sempre l’impres-sione di giocare con le marce basse inserite, quasi non volesse spen-dere troppe energie. Cleveland nel suo insieme ha dato una prova diforza notevole, mandando un chiaro segnale a chi vuole vedere iLakers come favoriti per l’anello. Le due gare della Quicken LoansArena sono state quasi non competitive, con i Pistons a contatto nelprimo tempo, salvo uscire dalla partita alla prima vera sportellata daparte degli avversari. A Detroit le cose sono cambiate di poco. Ingara 3 è sembrato quasi che i Cavs volessero lasciare la gioia di unaW alla squadra del Michigan che però è stata incapace di produrreun qualcosa di positivo in attacco non raggiungendo nemmeno i 70punti a referto. A quel punto il team di coach Mike Brown (che va aformare con LBJ la coppia Allenatore-Giocatore dell’anno, altro sto-

rico risultato per la franchigia dell’Ohio) non ha perso tempo, chiu-dendo senza troppi patemi i discorsi in gara 4 e concedendosi cosìun lungo riposo in vista del secondo turno contro gli Hawks, arrivatiinvece fino all’ultima partita contro i Miami Heat. Non è però stata solo la serie di LeBron James. E’ stato, infatti,anche il vero esordio di Mo Williams nella postseason (in passatosolo 5 partite a 15 minuti di media con i Milwaukee Bucks nel2005/2006, per altro eliminati proprio da Detroit). Il giocatore consi-derato come l’aggiunta decisiva per la strepitosa stagione diCleveland è solo alla prima di una lunga serie di prove del nove, e inquesto caso è andato in maniera abbastanza altalenante. Esordiointerlocutorio con 12 punti e 5/14 al tiro, bene gara 2 e 4 (rispettiva-mente 21 e 24 punti con 7 assists in entrambe le occasioni), unmezzo disastro in gara 3 (2 punti e 1/11 dal campo). Come giàaccennato in precedenza non era questa la serie più probante e forseè stato il modo migliore per rompere il ghiaccio con i playoffs,sapendo di avere a disposizione qualche chances di sgarrare in più.Il suo contributo in fase di costruzione di gioco e le sue percentualial tiro dalla lunga distanza continuano a rimanere la discriminanteper tenere il livello di gioco dei Cavs a un livello superiore. Il restodella squadra ha girato molto bene specialmente in fase difensivadove Detroit è stata tenuta alla fantascentifica cifra di 78 punti apartita, non concedendone mai più di 84. Varejao è definitivamenteun giocatore che nel pitturato sposta gli equilibri con tutte le piccolecose che fà (lecite o meno...), Ilgauskas prosegue la sua carriera met-tendo in croce le difese col tiro dalla media distanza e in fase difen-siva ha comunque braccia lunghe per disturbare le incursioni avver-sarie dentro il pitturato, mentre Joe Smith è tornato da subito a farsentire il suo peso nelle rotazioni, facendo scalare Ben Wallace addi-rittura in posizione di 4° lungo che a ben vedere è un notevole lusso.West, Gibson e Szczerbiak hanno poi pensato a portare ciò che ser-

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44 00viva dal perimetro per un attacco che ha prodotto quasi 94 punti dimedia tirando col 46% dal campo.L’altra faccia della serie, invece, sono gli sconfitti, i Detroit Pistons.Se fino ad ora sono stati elogi per una squadra, ora si tratta di ana-lizzare quello che probabilmente è stato l’ultimo atto di una grandesquadra, che per anni è stati ai vertici della Lega, con due Finali Nbadisputate, un’anello di Campioni infilato al dito e una serie infinitadi Finali di Conference disputate. Come spesso accade la storia si èconclusa male, con una squadra ormai allo sbando, senza più quellaprecisa identità di squadra dura, difensiva, di “blue collar players”che l’aveva contraddistinta negli ultimi anni, avendo perso anche ilcondottiero principe, quel Chauncey Billups MVP nelle Finals del2004, sostituito da Allen Iverson, chiaramente solo di passaggio inMichigan, ma soprattutto sostituito per fare spazio a RodneyStuckey, in effetti il migliore dei suoi nella serie (15 punti e 5 assistsdi media). Una squadra che è andata incontro al proprio destino inmaniera consapevole e senza dare l’impressione di poter fare nulladi serio al riguardo. Michael Curry ha provato a impostare, almenooffensivamente, la serie cercando di sfruttare giochi in post bassoper i suoi esterni maggiormente dotati di chili (Stuckey) o centimetri(Prince). L’esperimento ha retto solo per poco, ma quando le palleperse e i tiri sbagliati hanno cominciato ad essere un problema da lìsono nati i terrificanti contropiedi dei Cavs che hanno posto rapida-mente fine ai giochi. Come detto Stuckey ha dato prova delle suedoti, sorprendendo inizialmente la difesa avversaria che ha impiega-to parecchio tempo per prendergli le misure. Le sue accelerazioni,aggiunte al già citato gioco in post sono state uno dei pochi motiviper cercare di ridare vita a una serie altrimenti troppo scontata.Rasheed Wallace, invece, è stato la brutta copia di se stesso, forse inmaniera neanche troppo involontaria, mentre Rip Hamilton è finitostritolato nella difesa degli uomini in maglia vinaccia. L’unica nota

positiva è stata Will Bynum. Il mancato acquisto della VirtusBologna, emerso nel finale di stagione nelle rotazioni degli esternidopo la defezione di Iverson, ha prodotto 12 punti di media in menodi 20 minuti di utilizzo, tirando con percentuali vicine al 50%. E’ giàstata fatta valere l’opzione di prolungamento sul suo contratto e saràlui uno dei giocatori da cui ripartire, visto che in diversi (Wallace,Hamilton e McDyess, ma non è da eslcudere nemmeno Prince) sonogià con le valigie pronte per raggiungere nuove destinazioni. Ora ledue squadre pensano ai rispettivi futuri, che non potrebbero esserepiù differenti. I Cavs continuano la loro missione verso il primoanello della loro storia, i Pistons iniziano una ricostruzione chepotrebbe essere molto dolorosa.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITALJ: «Il lavoro mi ha portato ad essere quello che sono»Antonio McDyess: «Impossibile fermare i Cleveland»GAME 1: Will Bynum: «Non basta una sola per-sona per fermare LeBron, ce ne vogliono 5!Dobbiamo assolutamente cercare di fare tutto ilpossibile almeno per rallentarlo».Zydrunas Ilgauskas: «LeBron è veramente inar-restabile quando è concentrato sul raggiungereun obiettivo. Quando è in queste condizioni, conlui puoi solo scegliere il tuo veleno».LeBron James: «Il nostro attacco è cambiato inmaniera radicale in questi anni. All’inizio lapalla spesso era ferma e dovevo attaccare io ilcanestro per far succedere qualcosa. Ora invecetutti sono coinvolti. Come gioco d’attacco siamoal top di sempre».GAME 2: LeBron James: «Nel quarto periodo cisiamo sentiti già con la vittoria in tasca e abbia-mo smesso di giocare. La cosa più importante èvincere, ma sappiamo di non poter permettercidi non chiudere prima partite del genere».

Antonio McDyess: «Sembra che niente vada nelverso giusto per noi. Dobbiamo giocare la parti-ta perfetta per avere una chance. Loro in attaccosembrano riuscire a fare tutto ciò che vogliono,ma almeno c’è di positivo che dopo questa parti-ta possiamo ripartire da ciò di positivo chehanno fatto i ragazzi della panchina nell’ultimoperiodo».GAME 3: Mike Brown: «Una volta che LeBronha deciso ‘Bene, non stanno fischiando i falli. Micarico comunque la squadra sulle spalle e laporto alla vittoria’, tutta la squadra ha cambiatoatteggiamento e ha giocato in maniera piùaggressiva. E’ stato esaltante».Michael Curry: «I grandi giocatori fanno grandigiocate, e questo è quello che LeBron James è.Un grande giocatore».GAME 4: LeBron James: «Ognuno nasce con undeterminato numero di capacità. Il tutto sta nel

prenderle, metterle assieme e lavorarci sopra. Lamia etica lavorativa mi ha portato ad essere ilgiocatore che sono oggi».Michael Curry: «E’ una specie di cambio dellaguardia. Una volta scambiato Chauncey Billupssapevo che questa squadra non sarebbe più statala stessa».

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Gli Hawks passano tra le‘fiamme’ degli Heat e di gara 7

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La serie di primo turno più bella è stata Boston-Chicago, la più sconta-ta Cleveland-Detroit, la più equilibrata forse Portland-Houston, la piùdura e cattiva senza alcun dubbio Atlanta-Miami. 7 partite piene zeppedi contatti al limite, falli duri, spesso cattivi, tecnici e antisportivi. 6blowout più una gara 4 combattuta che ha definitivamente indirizzatola serie con Atlanta che aveva tremato dopo la sconfitta casalinga ingara 2. Lo spettacolo non è sempre stato ospite dei parquet dellaPhilips Arena e dell’American Airlines Arena, ma se qualcuno amava iltestosterone questa è stata la sua serie. Una serie che è stato esattospecchio delle squadre che si sono affrontate, due squadre emozionali,che vivono una sull’atletismo e l’altra sulle prestazioni fenomenali diDwyane Wade. Miami sembrava avere in mano la serie dopo la secondapartita in cui le 6 triple a testa del numero 3 e di Cook avevano letteral-mento stordito gli Hawks, salvo mostrare tutti i difetti di inesperienzadi un roster molto giovane in alcuni ruoli molto importanti (play-maker,Chalmers, 6° uomo, Beasley, tiratore dalla panchina, Cook).Dopo una gara 3 dominata a dir poco è arrivata la suddetta sconfittanella partita successiva. Da lì in poi tutto sulle spalle di Wade. Ma que-sti sono i playoff, e anche se sei un fenomeno, e Wade lo è (29 punti, 5rimbalzi e altrettanti assists di media), una serie da solo non la puoivincere.Michael Beasley (12+7 col 38% dal campo) ha confermato tutti i pro-blemi messi in mostra durante la regular season rimanendo fuori dallaserie per le prime 4 partite, salvo riabilitarsi un minimo nelle ultime 3,ma nel complesso senza dare un contributo sufficiente. Ancora troppoimmaturo offensivamente e soprattutto difensivamente, ha faticato acapire i momenti della partita, spesso forzando tiri (addirittura 25 ingara 6) e alimentando ulteriori dubbi sul suo possibile futuro in questaLega. Il talento è dalla sua, la testa non si sa. Anche Mario Chalmers,lui invece molto positivo durante l’anno, ha assaggiato il clima deiplayoff subendo un giocatore espertissimo come Mike Bibby. Le cifrenon sono disastrose (7 punti, 4 assists), ma in generale il suo impattosulle partite, specie nei momenti difficili, in cui dovrebbe essere il play-maker a mettere la palla nelle mani dei compagni giusti, non è stato

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44 33all’altezza, cosa comunque non drammatica considerando che il ragaz-zo è al primo anno. Hanno fanno decisamente più male le parole diWade a fine serie, che in sostanza ha detto che Beasley e l’ex Kansasnon sono giocatori adatti ai playoff, parole equivalenti ad una solennebocciatura.CI sarebbe poi il capitolo Jermaine O’Neal, arrivato da Toronto perdare un riferimento importante sotto canestro e uscito con le ossarotte, letteralmente, dalla serie. Pachulia lo ha malmenato (ma, peramor di cronaca, va detto che non è stato l’unico a subire il trattamen-to) e lui è andato sotto, finendo anche per saltare la decisiva gara 7.Per il resto le statistiche sono lì a parlare, una volta tanto: 13 punti esoli 4 rimbalzi. Non è riuscito ad essere quel giocatore che dovevatogliere un pò di peso offensivo dalle spalle di D-Wade e dentro l’areaha subito di tutto da Horford e compagnia, anche per un gap di atleti-smo ormai incolmabile.In definitiva Miami ha commesso il grave errore di non trovare almenouna seconda credibile opzione offensiva da porre al fianco del proprioleader, per difendere il vantaggio acquisito dopo gara 3. Atlanta hapareggiato e poi viaggiato sulle ali dell’entusiasmo una volta tornata acasa, spinta da un pubblico infuocato. La stagione, comunque, è daconsiderarsi postiva. Il quinto posto ad est è stato un successo e adogni modo si è arrivati alla settima partita contro una squadra certa-mente più completa.Che ora se la vedrà con Sua Maestà MVP LeBron James, avendo dimo-strato ancora di essere una compagine che se riesce a metterla sull’ago-nismo, sul contropiede e sull’atletismo può fare almeno un pò di paura,specie in casa.Josh Smith ha continuato la sua crescita come all-around di livello AllStar. Il tiro da fuori manca ancora di continuità ed è probabilmentequello che lo separa dal divenire un vero e proprio fenomeno a livelloassoluto, ma nel frattempo ha scherzato la front line degli Heat con

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penetrazioni, movimenti di forza in area e volate terminate con pode-rose schiacciate in contropiede. Come tutta la squadra deve cambiarel’approccio e il rendimento in trasferta (cosa peraltro complicata dall’o-stilità da parte del pubblico della Florida per un tentativo di schiaccia-ta in mezzo le gambe nel garbage time di gara 6) dove spesso non rie-sce a rendere come in Georgia. L’altro leader della squadra, JoeJohnson, ha avuto pure lui i suoi problemi, specialmente all’inizio dellaserie, ma ha poi piazzato le prestazioni decisive in gara 5 e 7 (25 e 27punti) per mandare gli Hawks al secondo turno. La prima opzioneoffensiva continua a rimanere lui, ma contro Miami ha avuto difficoltàad attaccare il ferro per concquistare tiri liberi con l’attacco che èandato un pò a singhiozzo, figlio più in generale di una squadra abba-stanza discontinua e che se non riesce a incendiare la partita con qual-che giocata di pura energia rischia sempre di prendere delle severe pas-

sate, come puntualmente accaduto in questa serie. Per cercare di ovvia-re a questo problema è necessario recuperare appieno sia Horford cheMarvin Williams, entrambi con problemi fisici che ne hanno limitato irendimenti, con Williams out per alcune partite. Hanno posto una falladalla panchina Flip Murray e Zaza Pachulia. Il primo è uno dei gioca-tori più imprevedibili della Lega e entramdo in campo ha alternativa-mente lanciato i parziali vincenti o distrutto le speranze di vittoria deisuoi con le sue scelte offensive, mentre il secondo, idolo incontrastatodel pubblico di casa, ha lavorato durissimo sotto i tabelloni facendo illavoro sporco contro i lunghi avversari e alla fine risultando decisivoper coach Mike Woodson.Ora come detto sotto con i Cavs, ma l’impressione è che Johnson e socisiano già soddisfatti di essere arrivati qua, consci del fatto che controLBJ e la sua truppa non ci sarà molto su cui negoziare.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITAJosh Smith: «Ci siamo tolti la scimmia dalla spalla»Dwayne Wade: «Una stagione incoraggiante»GAME 1: «Non possiamo, nè dobbiamo pensarea nessun altro» ha detto Joe Johnson.«Dobbiamo essere padroni del nostro destino».GAME 2: «Non abbiamo iniziato il match con laconcentrazione dovuta - il commento di JoshSmith - e non abbiamo giocato di squadra».Dwayne Wade: «Semplicemente ‘This is whereamazing happens’»GAME 3: «Sapevamo che il palazzo sarebbestato elettrico, così siamo partiti con l'accelera-tore premuto» ha detto Wade. «Siamo ancheriusciti ad essere davvero concentrati nellanostra metà campo».«Non siamo assolutamente fuori dai playoff» hadetto Mike Woodson. «Ma non possiamo gioca-re come abbiamo fatto stasera».GAME 4: «Questi sono i playoff» ha detto ilcoach degli Heat Erik Spoelstra. «Dobbiamoconcentrarci per le prossime 48 ore per essere informa fisicamente, prepararci mentalmente e

farci trovare pronti per la partita». «Non è finita» ha detto il coach degli HawksMike Woodson. «Ora dobbiamo tornare a casa.Siamo sopravvissuti a questa trasferta, ora tor-niamo ad Atlanta e vinciamo gara 5». GAME 5: «Non è certo un bel segno» ha dettoZaza Pachulia, uno dei panchinari di Atlanta.«Nei playoff c'è bisogno di tutti». «Alla fine si è trasformato in uno show da gioco-lieri, hanno davvero cercato di umiliarci» hadetto Spoelstra».GAME 6: «Non c’è nessuna pressione su di noi -afferma Wade - siamo gli sfavoriti in questaserie». Josh Smith non ha dubbi: «La parolaGara 7 parla da sola, sarà il campo a decidere».GAME 7: «Ci siamo tolti la scimmia dalla spalla:Atlanta is back, l’intera città è tornata- hadichiarato Smith».«Sono contento uguale - le parole di Wade - unastagione incoraggiante».

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

Orlando è ‘Magic’ anche senza‘Superman’, Phila rimandata ad ottobre

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Una serie girata in due partite. Una serie girate nelle ultime due partite,quelle che hanno permesso ai Magic di staccare il primo biglietto, ilprimo tagliando e di presentarsi al cospetto della detentrice del titolo,anche se poi tecnicamente e temporalmente sono stati i Celtics (prossimiavversari ndr) gli ultimi ad iscrivere il proprio nome all’interno delle pros-sime semifinals della Eastern Conference. Gara5 e gara6. Questi i duematch a cui si faceva riferimento in precedenza e che hanno delineato lastrada finale. A dire il vero secondo alcuni addetti ai lavori la stoccatavera e propria Orlando l’ha mandata a bersaglio con quel tiro allo scaderedi Hedo Turkoglu che ha pareggiato la serie e che ha dato o meglio resti-tuito a coach Sten Van Gundy un giocatore che poi ha fatto tutta la diffe-renza del mondo. Insomma una sorta di prolungamento di quello scorciodi gara4 le due successive; una sorta di battaglia inutile per i Sixers checon ogni probabilità hanno pagato lo scotto carissimo (cosi come nellascorsa stagione ndr) di essere ancora una squadra giovane, ancora unasquadra poco abituata a giocare partite di altissimo livello nel giro dipoco tempo e di pochi giorni, specie poi se si è con le spalle al muro.Presentarsi in gara6 tra le mura amiche del Wachovia center per poi esse-re presi a schiaffi in piena faccia dai Magic privi di Dwight Howard è sin-tomo prima di tutto di una concentrazione e di una situazione psicologicasostanzialmente non tranquilla. Andre Miller, Teo Rathliff e DonyellMarshall gli unici che nel roster dei Sixers possono garantire un briciolodi esperienza in questo tipo di partita, ma troppo poco sia per talento cheper carta di identità con il solo metronomo ex Clippers a provare a guida-re a fare da lanterna ad una serie di giovani soldati che non appenaavranno la consapevolezza piena ed assoluta di essere un esercito di gran-de valore potranno anche camminare e combattere da soli, ma non ades-so. Situazione che i Magic non potevano non sfruttare, non potevano nongirare a proprio vantaggio, anche perchè il team della Florida qualchegiocatore di esperienza e con partite importanti alle spalle dovrebberoanche avercelo. Primo fra tutti il turco ex Sacramento e poi RashardLewis. L’ex Seattle non avrà certo sul suo curriculum quella famosa serie,ma soprattutto quella famosa gara7 contro i Los Angeles Lakers del 2002

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nella Sacramento migliore mai vista in questa Lega, ma di sicuro dai suoianni passati ai Sonics e al fianco di giocatori di livello e di esperienza,dovranno pur contare, ed infatti...Ed infatti è stato proprio l’uomo silen-zioso (cosi come lo era stato prima di uscire allo scoperto, Gortat eroe digara5 con 11 punti e 15 rimbalzi) fino a quel momento e decidere il tuttocon una prestazione che ha restituito a coach Van Gundy l’altro giocatoreche gli era mancatoIL FUTURO.QUI PHILADELPHIA: L’imperativo e la domanda principale che si sta-ranno ponendo nella stanza dei bottoni è quella legata al futuro o meglioa quello che sarà il primo nodo da sciogliere per mettere in campo i Philadel futuro: il coach. Questa l'incognita da risolvere, l’incognita da elimina-re in un’equazione, che a conti fatti, ha dato dei buoni risultati e delle

ottime indicazioni. Insomma Tony Di Leo o non Tony Di Leo? Questo ilproblema, questo il dilemma da risolvere consapevoli con sarà nemmenol'ultimo, visto che da qui alla ripresa delle ostilità per il team dell’amorefraterno ci saranno tappe importanti come quella dell’inserimento dicolui che nell’estate scorsa era arrivato con il compito di portarePhiladelphia al piano superiore rispetto alla passata stagione, colui per ilquale il front office ha fatto uno sforzo economico non indifferente perassicurare un giocatore di livello per questa Lega, Elton Brand, ma che hafatto vedere ben poco sia dal punto di vista tecnico-tattico (mal si conci-liava con il sistema denominato ‘Phila old style’ o per meglio dire al runand gun della passata stagione) che dal punto di vista proprio di conti-nuità. Insomma un’estate rovente, un’estate ricca di temi e di certezze,specialmente che il gruppo resta un qualcosa di intoccabile se si vuolerivedere i Sixers lottare per un qualcosa che non sia un primo turno diplayoff elettrizzante, ma niente di più di questo.QUI ORLANDO: E ora pensando al futuro, di sicuro non sarà dispiaciutoallo staff tecnico guidato da coach Sten Van Gundy l’allungamento finoall’ultima gara prevista dal calendario dei prossimi avversari. Di sicurol’ambiente sarebbe stato al settimo cielo se il nome degli stessi sarebbestato diverso e magari ci fossero stati i Bulls anziché dei Celtics, ma nonsi può avere tutto dalla vita. Senza contare che per diventare grandi biso-gna battere i grandi e con tutto rispetto per i giovanotti di Chicago e diDel Negro quale migliore consacrazione per i Magic che cercare di passa-re alla finale dell’Est battendo i campioni in carica. Una serie interessan-te, che si preannuncia ricca di temi tecnici compreso quello della filosofiadi base della squadra. Incentrare tutto sul tiro da tre punti contro unasquadra che ha nel centro e nel mezzo il suo punto meno forte per nondire debole, potrebbe essere un vero pericolo per i Magic, anche se snatu-rare il gioco di una squadra in questo momento non è nemmeno la cosaideale da fare. Ma i playoff sono fatti di aggiustamenti, di partite viste eriviste e di sicuro a Van Gundy e soci non saranno sfuggite quelle giocatein regular season anche se si trattava di Celtics diversi e con un doppiovuoto in più nella front line con le assenze di Powe ma soprattutto di KG.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITAVan Gundy: «Che bravi senza Howard»Di Leo: «Abbiamo concesso un po’ troppo»GAME 1: «E’ stata una buonalezione per noi» ha dettoTurkoglu. «Non ti puoi permette-re di andarci facile contro nessu-no nei plaoff»GAME 2: «Tre sere fa abbiamomesso i tiri giusti» ha detto ilcoach dei Sixers Di leo «questasera abbiamo avuto alcune possi-bilità di prenderci i tiri importantima li abbiamo falliti».GAME 3: «E’ stato il tiro piùimportante della mia carriera» hadetto Young «è stato un tiro for-tunato e sono contento di averlomesso e che la palla sia finitanelle mie mani».GAME 4: «Il coach ha fiducia inme ha detto Turkoglu, che era 7

su 30 dal campo nella serie «hachiamato un gioco per me e iosono contento di aver realizzato iltiro».GAME 5: «Dwight Howard è ungrande giocatore ma si trattienetroppo nell’area dei tre secondi,sia in attacco che in difesa» attac-ca Di Leo «è un grande giocatoree non ha bisogno di questi van-taggi».GAME 6: «L’unica cosa che hodetto ai ragazzi negli spogliatoi,prima della gara, è stata: siategrandi!» ha detto coach Stan VanGundy «abbiamo aumentato ilnostro valore senza colui che è ilnostro uomo simbolo in mezzoall’area pitturata: Dwight»

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Celtics, i regnanti non mollano il tronoRose e i Bulls resistono ben sette gare

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Una serie epica, 23 anelli in totale (anche se solo uno nell’ultimo decennio)per due delle tre squadre più titolate di sempre, 371’ di emozioni (9 gare eun quarto FIBA per intenderci) e una delle sfide più avvincenti che la sto-ria dei playoff NBA abbia mai ricordato. Tutto ciò è stato Boston Celtics-Chicago Bulls, l’accoppiamento più incerto ed imprevedibile del primoturno della postseason 2009, non solo dell’Est, ma dell’intera Lega. Allafine l’hanno spuntata i verdi di Doc Rivers, capaci di sudare sette camicie(e sette gare) malgrado l’assenza di uno dei Big Three, Kevin Garnett, aibox da metà febbraio per problemi ad un ginocchio. Ma anche i Toridell’Illinois hanno dovuto rinunciare ad una pedina fondamentale del cali-bro di Luol Deng, il che ha ridotto ancor di più la già ridotta rotazione dicoach Vinnie Del Negro, alla sua prima annata da capo allenatore. Si dice-va serie emozionante e come può essere altrimenti? Sette overtime, scartiminimi in 5 delle 7 gare e tanta adrenalina. Alla fine la maggior esperienzadella formazione di ‘Beantown’ è stata decisiva nelle gare interne. Pierce eAllen (il vero ago della bilancia) si sono fatti trovare pronti nei momenticaldi e con qualche errore in meno la serie sarebbe andata in archivioanche prima. Rondo è stato superlativo (19.4 punti, 9.3 rimbalzi e 11.6assist) ed ha viaggiato su cifre astronomiche degne di colossi del calibro diMagic Johnson o Kidd. I lunghi Davis e Perkins sono progrediti con il pas-sare delle gare e a turno si sono rivelati preziosi nel dare il loro apportoalla causa. La nota negativa è stata la panchina, incapace di incidere adovere: Moore e Marbury semplici comparse, House troppo intermittente,seppur decisivo in gara-7. L’infortunio di Powe, poi, assottiglia ulterior-mente il reparto lunghi di Doc Rivers, mentre Scalabrine ha dimostrato diavere una marcia in più da ‘4’ atipico negli ultimi match, guadagnandosi iltitolo di ‘best-kept secret’ del primo turno. Purtroppo a Boston quest’annomancano atleti preziosissimi del calibro di Cassell e Posey. I Bulls hannolottato finché fisico e mente hanno retto. Impensabile giocare quasi ottogare in sette elementi (Hunter si è sempre accontentato delle briciole e pergli alti giusto una toccata e fuga) e alla lunga la stanchezza ha pesato. PerDerrick Rose non poteva esserci esordio migliore nei playoff e, anche secon qualche pausa, il numero uno del draft 2008 ha dimostrato di chepasta è fatto. Quando lui ha girato i suoi sono stati sempre in partita ohanno primeggiato. Sarà un caso ma, ‘bella’ a parte, nei 4 ko non ha maibrillato. Gordon ha spesso cantato e portato la croce nei frangenti decisivie Salmons ha giocato la sua prima postseason da protagonista. Chicagopoteva e doveva vincere le sfide nel pitturato, ma non sempre i tre internihanno offerto garanzie in contemporanea. Troppo alterni Thomas e Miller,mentre Noah sì è fatto sentire soprattutto a rimbalzo, pur mostrando otti-me giocate in attacco, dove i suoi limiti tecnici sono più evidenti. EHinrich, spesso usato per fancobollare Rondo, non è riuscito ad essereefficace su entrambi i lati del campo perdendo a volte lucidità nella metàcampo avversaria. Ora per i Celtics ci saranno gli Orlando Magic, chehanno riposato di più, ma devono fare i conti con assenze pesanti del cali-bro di Jameer Nelson e Courtney Lee, L’ostacolo più grande da superaresarà ‘Superman’ Howard in vernice, sena dimenticare che Lewis eTurkoglu se in forma sono scomodissimi per chiunque. Dal canto suoBoston ha un duo difficilmente arginabile (Allen-Pierce) e un Rondo cosìnon farà dormire sonni tranquilli a ‘Skip to my Lou’ Alston.

LA CRONACALA CRONACAGARA-1 - La serie si apre immediatamente con un upset (103-105Chicago) e uno straordinario Derrick Rose, il rookie of the year 2009, chegela i fan del TD Banknorth Garden esordendo nei playoff con 36 punti areferto (12/12 dalla lunetta, compresi i liberi che valgono l’overtime) e 11assist. Il giovane ‘cervello’ dei Bulls sfida a suon di penetrazioni RajonRondo (29), ringrazia la serata ‘no’ di Allen (4 punti con 1/12, 0/6 da 3) e ilregalo di Pierce (23) che butta al vento la chance di chiudere il match al48’ fallendo un libero che si stampa sul ferro. Nel prolungamento è TyrusThomas a chiudere i conti con 8 dei suoi 16 punti segnati per lo più lonta-no dall’anello, ben spalleggiato sotto le plance da Brad Miller e Noah,dominanti a rimbalzo.GARA-2 - L’orgoglio di Boston però è duro a morire e già nella secondasfida al Garden la musica cambia: Ray Allen è indemoniato e cancella ilflop dell’avvio con un trentello e la tripla della vittoria (118-115) sulla sire-

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44 33na, mentre Rondo è autore di una esaltante tripla doppia (19 punti, 12rimbalzi e 16 assist) che gli consente di stravincere il duello con Rose, chesi ferma a 10 e 7 assist. Per Chicago Gordon fa pentole e coperchi (42 con6/11 da 3), in un duello a suon di triple tra ex UConn con Allen, mentreMiller (16+9) rende più di Thomas e Noah, quest’ultimo reo di chiudere ilritardo sul siluro decisivo di Allen. Le altre note liete per il trifoglio vengo-no da un ‘Big Baby’ Davis da 26 punti e 9 rimbalzi. Proprio gli extraposses-si conquistati sotto i tabelloni dai lunghi di casa (Perkins 16 punti e 12carambole) si rivelano fondamentali, anche a scapito di una panchinaimproduttiva e di un Pierce da ‘soli’ 18 punti. GARA-3 - La disputa si trasferisce nella Windy City sull’1-1 e subito i bian-coverdi riconquistano il vantaggio del campo restituendo ai Chicago Bullslo sgarbo patito in gara-1. L’86-107 finale non dà alibi a Noah e compagnied è l’unico match a senso unico. I Celtics devono rinunciare anche all’al-tro lungo Powe, il cui ginocchio ha ceduto nella seconda lotta, ma il back-court del Massachusetts è inarrestabile. Pierce (24), Rondo (20 e 11 rim-balzi) e Allen (18) annichiliscono i rivali e soprattutto Gordon e Rose nonriescono ad incidere sulla partita. Anche Marbury, stranamente, dà unbuon apporto (13 e 5 assist) e le cifre ottime dall’arco (11/21) confermanola superiorità del pacchetto esterni di Doc Rivers. Impressionante,poi, laquantità di Glen Davis 14 punti, 9 rimbalzi, 6 assist, 6 recuperi e 3 stoppa-te. Chicago, invece, tenuta in piedi da Gordon (15), Salmons e Hinrich (14a testa), dimostra di avere poche energie ed alza ben presto bandiera bian-ca, perdendo ben 22 palloni e sbagliando tanto anche dalla linea dellacarità. GARA-4 - Ma chi pensava che il cappotto della ‘prima’ allo United Centeravesse indirizzato la serie verso il New England si sbagliava. I Bulls soffro-no, ma dopo due supplementari piegano 121-118 Boston. Derrick Roseflirta con la tripla doppia (23+11+9), fallita per un assist, ma ben settebiancorossi vanno in doppia cifra. Gordon (22, compreso il missile terra-aria che impatta al termine del primo overtime) è una costante, mentreSalmons (20) ne mette 8 nel secondo extratime e firma la stoppata decisivasu Pierce. Tutti danno il loro contributo: dal pino Miller e Hinrich (ottimo

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in regia) combinano 30 punti in tandem, mentreTyrus Thomas griffa una doppia doppia (14+10).Tra i bostoniani, che prima allungano la garacon una tripla di ‘He got game’ Allen (28 e fonda-mentale nel primo OT) e poi restano a galla gra-zie a Pierce (29), magistrale performance diRajon Rondo che fa registrare la seconda tripladoppia di fila (26+11+11) che però stavolta nonevita il ko, così come è vana la sostanza diPerkins (15) e Davis (10+11) in vernice. Ed èancora parità.GARA-5 - La quinta al TD Banknorth Gardennon delude e anche qui servono 5’ aggiuntivi perdecretare il vincitore. Un’altra battaglia nella bol-gia verdeggiate, la terza finita oltre i canonici 48’,che arride ai Celtics (106-104) di super-Rondo(28 punti, 8 rimbalzi e 11 assist), decisivo nellarisalita da -11. A chiudere il match è ‘Double P’che con 10 dei suoi 26 punti lancia il team dellacosta Est nonostante qualche forzatura di trop-po. Perkins (16+19 e 7 stoppate) e Davis (21punti) stavolta fanno buona guardia nel pittura-to, contro i discreti Noah (11+17) e Thomas (12).Di contro Rose non brilla e Gordon (26) non hapercentuali esaltanti dal campo. Hinrich (19) eSalmons (17) si danno da fare, ma lo 0/2 di BradMiller a 3” dalla sirena condanna la banda DelNegro alla resa. GARA-6 - Fortuna che si ritorna allo UnitedCenter, il tempio che dal ’94 vide ‘Sua Altezza’Jordan regalare giocate incredibili e il secondothreepeat al pubblico dell’Illinois. Questa gara è

il simbolo di una serie combattutissima, 128-127in favore dei Bulls dopo ben tre supplementari.Un’altalena di emozioni: da un lato Salmons(35), Rose (28) e un infallibile Miller (23 con 8/9dal campo e 10 rimbalzi), dall’altro Ray Allen,che ne infila 51 con 9/18 da 3, Davis (23) e Pierce(22+9). L’intensità non manca per tutti e 63 iminuti ma a decidere l’incontro sono JoakimNoah e Derrick Rose. Il pivot a 35” dalla fine sul126-125 ruba un pallone che vale platino a Piercee va a realizzare subendo anche fallo di PSquare, che arriva a quota sei penalità e lascia ilmatch. Il 2+1 dell’ex Florida è un’ipoteca ma valealtrettanto la stoppata di Rose su Rondo (stavol-ta più al servizio dei compagni, visti i 19 assist) a3” dal fischio finale. Ininfluenti i due errori inlunetta del playmaker, visto che Boston non rie-sce ad effettuare la preghiera conclusiva. GARA-7 - La ‘bella’ della ‘instant classic’ dell’an-no va in scena sul parquet incrociato del nuovoBoston Garden. E i Leprecauni non si lascianoscappare l’occasione di chiudere definitivamentei conti. Il 109-99 di fine gara è più netto dellasuperiorità mostrata da Pierce (20) e compagni.Due protagonisti inattesi si rivelano ‘Veal’Scalabrine (8) e Eddie House (16 con 4/4 nelletriple), capaci di rendersi efficaci sia nello strap-po del secondo periodo, che risulterà poi decisi-vo, sia nel rintuzzare il prepotente rientro deiBulls. Ray Allen è ancora una volta in grado dispostare gli equilibri, seppur dimezzando il fattu-rato della precedente sfida (23 con 2/5 da 3) e le

seconde linee sono finalmente protagoniste esopperiscono all’assente ingiustificato Rondo, acorto di ossigeno proprio nell’incrocio conclusi-vo. Gordon si affida più al fisico che alla tecnica(33, con 15/15 ai liberi), mentre Rose approfittadel calo del dirimpettaio per bruciarlo in entrata.I turnover restano il problema principale deiTori che sprecano un’infinità di occasioni eanche le percentuali ne risentono. Il cast di sup-porto non dà una grande mano alle due stelleospiti, mentre Davis (15) e un Perkins da 13+14finalmente riescono a tener testa a Noah e socinell’area dei 3”. Nel periodo conclusivo i viag-gianti spaventano la truppa di Rivers. Hirnich eGordon riportano a -3 (89-86 a -5’39”) Chicago,ma prima una tripla di House e poi l’infallibilePierce dalla lunetta tengono a debita distanza ilsodalizio dell’Illinois. Pericolo scampato per i campioni uscenti chehanno lottato con le unghie e con i denti perrestare ancora in gioco, ma per proseguire lacorsa almeno fino alla finale di Conference, cheal momento sembra l’obiettivo massimo raggiun-gibile da questi Celtics, servirà un salto di qua-lità da parte di tutti e una difesa più convincenterispetto a quella mostrata nel corso delle settebattaglie disputate contro la squadra allenata daVinnie Del Negro. Chicago, invece, esce a testaalta e contro i pronostici di illustri analisti edopinionisti che consideravano un fuoco di pagliail brillante rush finale della franchigia di WindyCity. E con un Rose da favola...

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POSTPARTITAL’orgoglio di Pierce: «Finché non ci battono i campioni restiamo noi»Coach Vinnie Del Negro: «Un’esperienza molto utile per il futuro»

GARA 1: Derrick Rose: «Siamo entrambimolto competitivi in campo - dice sullasfida con Rondo -. Ho cercato di attaccar-lo sempre. È stato divertente».Doc Rivers: «Spero che questa sia la sve-glia e ci faccia capire che i Bulls nonsono solo un team felice di essere neiplayoff».GARA 2: Paul Pierce: «Siamo molto fidu-ciosi perché sentiamo di non aver ancoragiocato un buon basket. Il meglio deveancora venire».Vinnie Del Negro: «Abbiamo concesso 21rimbalzi. E’ impensabile vincere una garacosì, specie nei playoff».GARA 3: Glen Davis: «Quando giochiamoun basket da Celtics credo sia difficilesegnare contro di noi. Oggi l’abbiamo

solo fatto meglio».Vinnie Del Negro: «Abbiamo sbagliatotanti tiri liberi e la circolazione di palla èstata pessima; bisogna dare merito aiCeltics, sono i campioni in carica e gioca-no fuori casa meglio di chiunque».GARA-4: Ben Gordon: «Tutti quelli concui ho parlato mi hanno detto che questaè la serie più emozionante che abbianomai visto».Rajon Rondo: «Siamo pari e ce la gio-chiamo, ma bisogna dar loro merito dirimanerci incollati, continuando a com-battere».GARA 5: Paul Pierce: «Fino ad oggi nonavevo giocato bene in questa serie, maper me era arrivata l’ora di lasciare ilsegno».

Joakim Noah: «Pierce è stato incredibile,tutti hanno scagliato tiri pazzi ed è statatutta una questione di chi ha preso il tirodecisivo a fine gara. Abbiamo avuto lenostre chance, ma li possiamo battere».GARA 6: Derrick Rose: «E’ totalmenteassurda, ma penso sia difficile non amar-le questa sfida».GARA 7: Paul Pierce: «È stata una lungaed estenuante serie, per quanto miriguarda una delle più difficili mental-mente. Grazie a Dio abbiamo superato iltest e finché qualcuno non ci sbatte fuorisiamo ancora noi i campioni». Vinnie Del Negro: «Era la prima volta permolti dei nostri ragazzi. Credo che un’e-sperienza come questa ci sarà utile per ilfuturo e può solo farci migliorare».

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

I Lakers cedono il passo una solavolta e ora sotto con Houston

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Fuori uno. I Lakers battono gli Utah Jazz e cancellano il nome delprimo avversario e le prime cinque partite dal countdown verso quelloche dovrebbe essere il primo titolo dell’era assoluta di Kobe Bryant.Un titolo inseguito per troppo, tanto tempo e al quale, ormai, il figliodi Jelly Bean non può più rinunciare. Questo sembra essere l’annobuone, questo sembra essere la stagione giusta per fare quel passo inavanti che la scorsa stagione, invece, mancò ai gialloviola per evitareche i Celtics tornassero sul tetto del mondo. Le prime prove generalisono state fatte in quella che poteva essere anche una serie scontata,ma che ha offerto comunque degli spunti importanti, nella buona enella cattiva sorta, in casa Lakers ed in casa Utah ed in generale perdue formazioni che sono destinate a vivere un finale di stagione total-mente diverso. Cinque partite per scrollarsi di dosso un cliente scomo-do, pericoloso, ma che alla fine ha fatto quello voleva solo ed esclusi-vamente in gara2, la prima alla Energy&Solution Arena tra i tifosi dicasa. Ad onor del vero i Jazz hanno faticato tantissimo anche in quelmatch vinto con tiro allo scadere di Williams dopo due episodi in cuiera stata Los Angeles a comandare nella versione della serie all’ombradi Hollywood. Una Los Angeles che in casa è generalmente tutt’altrasquadra a partire dal suo leader a partire da colui che comanda lelegioni verso la crociata più importante. Un Kobe casalingo ed uno datrasferta se vogliamo dividere cosi i capitoli del ‘Mamba’. Ecumenico,passatore e altruista, lasciando che i compagni si prendano le lororesponsabilità per poi entrare in azione in quei momenti che lui defi-nisce come del bisogno. Se ne sono accorti i Jazz che nelle prime dueuscite hanno dovuto fare i conti con i vari Gasol, con i vari Odom,Ariza e a sprazzi anche con Andrew Bynum, prima che Ronnie Brewerpotesse scoprire cosa volesse dire marcare Kobe Bryant. Un modo digiocare che i giolloviola hanno tentato di mettere in atto anche nellaprima a Utah scoprendo che poi non era il caso di scherzare con ilfuoco lontano dal parquet dove tutta Los Angeles si sente più forte edallora ecco venir fuori la prestazione da Kobe Bryant di Kobe Bryantche ha dato un segnale forte e chiaro. Cosi come forte e chiaro è arri-

vato il messaggio che quella angelina è una squadra che presenta una‘disfunzione’ che in vista dell’obiettivo finale può anche essere perico-losa e non poco. Gialloviola che hanno dimostrato una facilità disar-mante nello accendere e spegnere l’interruttore del gioco e del talento.Un qualcosa che di sicuro non fa felice Phil Jackson che per esempionella gara conclusiva è stato addirittura costretto a fare due delle coseche forse odia di più a partire dal momento in cui il match per ilcoach Zen è entrato all’interno di quel momento e di quella fase che ingenere prende il nome di ‘garbage time’ e cioè: chiamare time out efermare la rimonta degli avversari rimettendo in campo il suo quintet-to migliore, ancor di più se poi Utah nel caso di specie lo ha fatto conle seconde linee. Un tassello su cui lavorare, un tassello che di sicurogli addetti ai lavori a curare gli avversari, delle altre formazioni che sidovranno ritrovare i Lakers sulla strada, avranno preso nota con unbel asterisco e da mostrare a chi di dovere. Una situazione preoccu-pante, visto che di fronte Los Angeles non si ritroverà sempre unasquadra dal mancato killer istinct o magari con la testa altrove impre-parata a contrastare difensivamente il momento del ritorno alla nor-malità per Kobe e compagni, specie se poi i prossimi avversari porta-no il nome di XXXXX. Ma la prima serie del 2009 non ha dato solosegni un tantino preoccuapanti (all’interno dei quali rientra anche laquestione Bynum trattata a parte qualche pagina dietro ndr), maanche delle certezze per lo staff tecnico del coach che oltre a barba ebaffi per questione di scaramanzia si è anche presentato alla prima deiplayoff con l’anello vinto nel 2002. Lamar Odom. Questo il nome piùin voga tra gli addetti ai lavori losangelini, questo il nome più in vogatra la stampa locale, ma soprattutto questo il nome più atteso da partedi tutti i Lakers. L’ex Miami è stato la chiave di volta della serie.L’arma principale in difesa di coach Jackson che per i suoi servigi èstato costretto addirittura a relegare a tanti minuti di panchina il rien-trante Bynum in netta difficoltà nei confronti di una front line avver-saria non certo congeniale alle sue caratteristiche fisiche. Insommacon questa serie il newyorkese di Rhode Island ha dimostrato che le

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44 11velleità da titolo dei Lakers dipenderanno tanto dal suorendimento e dal suo approccio ai match e per informa-zioni chiedere agli Utah Jazz. Utah Jazz che da par lorohanno chiuso una stagione difficile, con tanti contrastiall’interno e si avviano alla definizione di un roster all’in-terno del quale ci saranno alcune cose da chiarire e dasistemare. Prima di tutto quella legata alla situazione diCarlos Boozer. L’ex Duke da quando ha fatto sapere divolersi comunque guardarsi attorno al termine di questastagione per cercare qualcosa di meglio, ha visto cambia-re più di una cosa all’interno dello spogliatoio e non soloper colpa dei compagni. Il suo atteggiamento in alcunicasi da giocatore che pensa più al futuro che al presente,hanno un po’ fatto storcere il naso ai compagni di squa-dra. Non magistrale la sua serie contro i Lakers anche sedalla sua l’ex Cavs potrebbe utilizzare l’attenuante di unoscontro impari contro i vari Gasol, Bynume etc (sotto pervelocità e impegno contro il catalano, sotto per centime-tri contro Bynum e sotto anche contro Odom che hafatto praticamente il bello ed il cattivo tempo) per via dicentimetri. Ma in certi casi le attenuanti contano a poco, specie sepoi sei alla ricerca di un nuovo contratto che potrebbeanche arrivare dalla squadra attuale. Insomma non unabella situazione e che contrasta fortemente con quella,invece, di Deron Williams. I Jazz ripartiranno da lui, dacolui che non ha mai mollato, da colui che è stato mag-giormente penalizzato da una situazione che necessità diuna chiarezza; si ma dopo i quindici giorni di distaccototale di Jerry Sloan che come sempre li passerà su di untrattore a controllare la semina nel suo ranch. Trascorsi iquindici giorni la nuova stagione di Jazz potrà essereconsiderata ufficialmente avviata.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITAJackson: «Stufo di portare sempre lo stesso anello»D-Williams: «Gli infortuni ci hanno penalizzato» GAME 1: «Sono stufo d’indossare sempre lostesso», ha detto Jackson parlando di quello del2002, ultimo titolo vinto coi Lakers. «L’ho indos-sato per sette anni ormai».GAME 2: «Iniziamo forte per poi permettereloro di tornare in partita. Sta diventando unacostante ma stiamo lavorando per evitare tuttoquesto». Parola di Andrew Bynum.«Un giorno Deron diventerà un bad boys -dichiara Bryant - dal punto di vista del giocato-re, un bad boys che cambia le partite, è questoquello che ha dimostrato».GAME 3: «Stasera li abbiamo attaccati spesso,invece di lasciar fare loro ciò che volevano», hadetto il coach di Utah, Jerry Sloan. «Abbiamoreso loro la vita difficile».«Questo è il nostro tipo di partita, un incontrogiocato molto in difesa», ha detto Williams.«Oggi abbiamo giocato alla grande in difesa, e il

tabellino lo dimostra».GAME 4: «Non siamo mai riusciti ad avvicinarciabbastanza per marcarlo», ha detto il coach diUtah, Jerry Sloan. «Si è preso molte responsabi-lità ed ha aiutato i suoi compagni a giocarecome volevano».«Venivo da una terribile performance», ha dettoBryant con un ghigno, «e' bello rispondere conuna partita come questa».GAME 5: «Dobbiamo impegnarci di più sul latodifensivo, specialmente quando entrano incampo le seconde linee», ha detto Bryant.«Abbiamo una settimana prima della prossimaserie e possiamo lavorare con calma su questoora».«Gli infortuni ci hanno penalizzato e non siamostati in grado di trovare il ritmo giusto», hadetto Deron Williams. «Non ci siamo impegnatiabbastanza come avremmo dovuto per vincere».

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DDOMENICOOMENICO PPEZZELLAEZZELLA

I Rockets sfatano il tabù e mandano a casa i Trailblazers

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E già il tutto potrebbe essere considerato come una sorta di successo,come una sorta di obiettivo positivo, come una sorta di stagione salvae siamo solo al passaggio del primo turno di playoff e di approdo allasemifinale della Western Conference contro i vice campioni dei LosAngeles Lakers. Beh il perché di questo positivismo, di questo esseregià contento, molto probabile che sarà noto e conosciuto a tutto ilmondo Nba e a chi da l di fuori segue e ha seguito la storia recentedella franchigia texana. Un tabù, un muro invalicabile nonostante itanti tentativi della società di mettere a disposizione di chi sedeva inpanchina un roster comunque di livello. Ed allora ecco svelato l’arca-no, ecco spiegato il motivo di tanti sorrisi e di tanta gioia mostrata daldue, strano e micidiale allo stesso tempo, Ron Artest e Yao Mingdurante l’ultima conferenza stampa che ha poi chiuso la questionelegata ai Blazers. I Rockets insomma, sfatano il tabù, sfatano la male-dizione e superano il primo turno di playoff, il primo da quando èatterrato in terra texana il cinesone di 2,20. E detto questo e primaancora di passare ad un’analisi di una delle serie più entusiasmanti ebelle da vedere di tutti i playoff, specie dal puntio di vista tattico, unapiccola parentesi va aperta: e McGrady? Beh vuoi o non vuoi è capita-to ancora. Cosa? Beh che la squadra di T-Mac passi il turno o comun-que compia quel passo in avanti sia come gioco che come risultati,quando il suo nome non è in panchina o comuqneu tra le persone con-vocate e pronte a scendere in campo per giocare. E’ successo aToronto, è successo ad Orlando e ora è successo a Houston. Non certoun toccasana per il morale e l’autostima di un giocatore che, va detto,è stato comunque falcidiato dagli infortuni, o quando era sano non haavuto quella fortuna e quella spinta dagli Dei del Basket che si merita-va. Di sicuro in Texas se ne sarà parlato, anzi se ne è parlato, ma disicuro in casa Rockets si sarà sdrammatizzato, si sarà cercato di por-tare il discorso altrove specialmente in vista del prossimo avversario eli si che se i Rockets mandassero a bersaglio quello che può esseredefinito più che un semplice colpaccio ma una vera e propria impresatitanica, allora l’argomento non potrà più essere scavalcato. Ma perquesto c’è tempo, cosi come per i conti della serie contro i Lakers (incorso d’opera ndr) ed allora ecco che il tutto si sposta su quello che èstato nella sfida contro i giovani terribili di coach Nate McMillan equindi i Portland Trailblazers. Una serie che in tanti degli addetti ailavori avevano pronosticato a favore della franchigia dell’Oregon,anche all’ultima gara possibile, contando anche sul fattore cabala dicui sopra. Ed invece Houston ha dimostrato di avere le carte in regolae due ‘international’ con le ‘intangibles’ grandi come i ranch del Texas.Yao Ming e Lui Scola. Questi i punti cardini dai quali partire e suiquali si è poggiata la serie dei texani. IL primo dominatore assolutodell’area. Coach McMillan non è mai riuscito a trovare un antidotobuono e giusto per fermare o limitare il mandarino sin dalla primapalla a due. Lo status ancora di matricola, nonostante sia al suosecondo anno di professionismo, almeno sulla carta, di Greg Oden ed itanti falli fischiati a suo carco (cosa che tra l’altro ha fatto sbottare lostesso timoniere dei Blazers con messaggi anche inequivocabili percercare di tutelare il suo giocatore) non hanno aiutato alla causa diPortland. Przybilla c’ha provato, ma non gli si poteva davvero chiederepiù di quanto ha fatto su tutti i ventotto metri del campo cercandoanche di attaccarlo (tra l’altro senza tanto successo e continuità,anche perchè l’attacco andava verso altri porti ndr) in fase offensivacon risultati che potremmo definire rivedibili. Alla fine i quasi ventipunti a partita e quasi 10 rimbalzi hanno fatto tutta la differenza diquesto mondo. Per quanto riguarda l’argentino, beh da qualche altraparte del Texas (San Antonio ndr) qualcuno avrà sicuramente pensatoche quello in maglia Rockets era il ‘gaucho’ giusto da portare a casa.Un rebus irrisolvibile, un cubo di Rubick impraticabile per Portland,LaMarcus Aldridge e coach McMillan. A tratti l’ex Tau ha messo in

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22 44scena dei veri e propri clinic di attacco e difesa dimostrando ancorauna volta qualche piccolo passo in avanti dei giocatori d’area Fiba neiconfronti di chi per parità di anni di Professionismo sono consideratipari età. Un repertorio di fondamentali fronte e spalle a canestro cheha inebriato non solo gli aficionados del Toyota Center, ma anchequelli del Rose Garden che hanno assistiti attoniti a gran parte dei 12punti e 8,8 rimbalzi abbondanti che formano il fatturato dell’argenti-no in questa serie. Beh tutto qui si chiederà qualcuno? Tutto in questidue giocatori la chiave del successo? Assolutamente no, ma elencarlitutti non sarebbe proprio cosa facile da fare. Di sicuro quello che pos-siamo fare è inserire il nome di Ron Artest all’interno di questo suc-cesso. L’ex Sacramento ha fatto le prove generali di difesa sprecandogran parte delle proprie energie correndo dietro per il campo aBrandon Roy, consapevole che sarà ‘costretto’ a farlo dietro a KobeBryant in quello che sarà lo scontro verità tra i due. La mano ed iltalento newyorkese di ‘Ron-Ron’ poi è cosa indescrivibile e unica spie-gazione dei 17,1 punti ‘silenziosi’ di una serie vissuta da protagonista.E i Blazers? Beh Portland torna a casa o meglio va in vacanza con unabella dose di rammarico, ma soprattutto con una dose doppia se nontripla di consapevolezza nei propri mezzi. Una squadra giovane e riccadi talento destinata ad essere protagonista ancora per tanti anni diquesta Lega. Una squadra che ha avuto la riconferma di Brandon Roycome stella assoluta e la conferma che con questa stagione ed espe-rienza nei playoff alle spalle, LaMarcus Aldridge possa diventare quel-la spalla ideale per formare un duo di indubbio valore e riportare lafranchigia dell’Oregon in auge. Insieme a questi due però c’è tutto unprogetto da salvaguardare, da tenere assieme e da far crescere, senzadimenticare le questioni salariali. Insomma l’impresa è ben chiare riu-scire a tenere insieme questo gruppo ancora per una o magari qualchealtra stagione e sperare in una crescita esponenziale per un futuroprossimo brillantissimo.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITAYao: «Finalmente ho fatto un grande passo in avanti»Brandon Roy: «Abbiamo tanto amaro in bocca»GAME 1: «Abbiamo provato a giocare dietro dilui», ha detto Przybilla. «Ci adegueremo per laprossima partita. Ha realizzato ogni tiro perciòdobbiamo fare qualcosa».GAME 2: «Questa è una grande qualità di Yao, èestremamente efficiente», ha detto il compagnoShane Battier. «Non molti giocatori nel torneosono in grado di giocare così, segnando ognitiro».GAME3: «Abbiamo giocato di squadra», ha dettoScola. «Ed è per questo che possiamo permetterciuna serata no di Yao e vincere ugualmente. E' unaspetto positivo».«Mi hanno chiuso sempre», ha detto Roy, decimomiglior realizzatore della NBA. «Artest e Battierhanno fatto un ottimo lavoro, neanche i blocchisembravano funzionare. E quando funzionavano,c'erano gli altri a coprire in area». GAME4: «Non è finita fino a che non avrannovinto 4 partite» ha detto McMillan. «Siamo stati

punto a punto con loro in entrambe le partite gio-cate in Texas, quindi siamo fiduciosi anche sesarà una partita-stagione». «L'ho semplicemente letto prima che agisse» hadetto Hayes. «Sono corso lì e mi sono piazzatofuori dall'area protetta, è stato davvero fonda-mentale. Il coach aveva bisogno di me e della miadifesa». GAME 5: «Assolutamente la nostra più bruttapartita di questa serie. Speriamo che per controla prossima possa essere la nostra migliore - leparole confuciane di Yao».GAME 6: «E' un bel passo in avanti per me», hadetto Yao. «Anche quando il tempo stava per fini-re, non credevo che stesse succedendo realmente.Ora dobbiamo andare avanti».«E' stata una bella esperienza per noi», ha dettoRoy. «Siamo tutti felici per questa grande stagio-ne, ma ora abbiamo l'amaro in bocca poichèforse potevamo giocare meglio in questa serie».

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AALESSANDROLESSANDRO DELLIDELLI PAOLIPAOLI

Il derby texano va ai MavericksSan Antonio fa subito le valigie

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Il derby texano, nei play-off, è ormai un classico. I Mavs si affida-no a Wunderdirk e al vincitore del premio come sesto uomo del-l’anno, Jason Terry. Gli Spurs, privi di Manu Ginobili fino al ter-mine della stagione e con The Big Fondamental sempre alle presecon fastidi fisici, partono con il vantaggio del fattore campo.Vantaggio che perdono immediatamente in gara 1. Prima vittoriaesterna nella post season per Dallas; non accadeva dal 2006 annoin cui la banda Cuban raggiunse la finale contro gli Heat. Ilprimo atto del Derby finisce 105 a 97 con Josh Howard, 25 punti,hombre del partido.In gara 2 riscatto immediato dei ragazzi di coach Popovich. SanAntonio non perdeva due gare in fila nei play-off dal lontano2002 e il record rimane immutato. Tony Parker si prende i riflet-tori con 19 punti nel solo primo quarto, 27 all’intervallo e 37 con16 su 22 dal campo e standing ovation al termine del match.Mavs abbattuti e dominati 105 a 84. sull’1 a 1 la serie si spostaall’American Airlines Center.Nella terza sfida capita qualcosa di ‘storico’. 88-67 il punteggiofinale. Una sconfitta senza precedenti per gli Spurs, i 67 puntirealizzati, rappresentano ilo minimo storico per San Antonio.Coach Popovich, a 7:42 dalla fine del terzo quarto, non può faraltro che far accomodare i suoi big in panchina risparmiandoliper gara 4 e ammainare bandiera bianca. Wunderdirk, con 20punti e 7 rimbalzi, guida la carica Mavs ponendo una candidatu-ra seria al superamento del turno. Candidatura che si trasformain qualcosa di sempre più concreto e vicino nel secondo matchgiocato tra le mura amiche; è ancora Josh Howard a guidare isuoi alla vittoria, 28 punti nel 99-90 finale. Non bastano aineroargento la rinascita di Duncan (25 punti e 10 rimbalzi) e laprestazione super di Mr. Longoria, che con 43 punti eguaglia ilrecord franchigia di George Gervin.

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106 a 93 è invece il risultato di gara 5 che segna, molto probabilmente, la fine dell’era San Antonio. E’ la prima volta che Duncan nonsupera un turno di play-off. L’età avanza inesorabilmente e l’unico giocatore di rilievo piuttosto giovane è il francese Parker (26anni). Coach Popovich avrà molto sui cui riflettere quest’estate.Invece Rick Carlisle si gode gli ottimi Mavs, 11 vinte delle ultime 14 partite, superamento del turno, grazie anche ad un Wunderdirksempre concreto (31 punti 9 rimbalzi) e Josh Howard (17 punti 8 rimbalzi), esaltato dal coach nel post gara.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITACarlisle: «Josh Howard è stato il nostro Mvp»Greg Popovic: «Abbiate pietà, nessuna statistica»C’era davvero poco da dire. C’era davveropococ che commentare se non le classichecose che tutto sarebbe stato diverso e miglio-re con Manu Ginobili in campo. Ed alloraecco tutte le dichiarazioni più importanti epiù cocenti della serie più scontata sulcampo di questo primo turno facendo ecce-zione quella andata in scena principalmentealla Quiken Loans Arena il cui risultato nonera nemmeno quotato.GAME 1: «Dobbiamo convincerci che Manunon sarà dei nostri - ha detto Popovich -.Continuando a pensare a come sarebbe conGinobili in campo, rischieremmo di perderela nostra coesione interna» GAME 2: «Devo cercare di avere una menta-lità offensiva durante tutti i possessi - hadetto Parker -. Anche se non vado a segnarepersonalmente, devo cercare di attaccare il

canestro per magari scaricare a un compa-gno».GAME 3: «Abbiate pietà», ha detto Popovich,ridendo. «E’ stato già abbastanza dover assi-stere a questo. Ora volete farmi vedere anchele statistiche?».GAME 4: «La gente potrebbe dire che Dirknon segni abbastanza, ma Dirk sta giocandonel modo giusto, paziente e non prende catti-vi tiri - dice Jason Kidd, commentando i soli12 punti di Nowitzki - non credo che debbanecessariamente segnare 30 punti per farvincere Dallas, questa la serie ne è la dimo-strazione»GAME 5: «Credo che Howard sia il nostroMVP della serie - ha detto coach RickCarlisle, nel giorno del compleanno di Josh -.Ha giocato alla grande, era sempre lì pernoi».

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AALESSANDROLESSANDRO DELLIDELLI PPAOLIAOLI

I Nuggets umiliano New Orleans,che accoppiata Billups-Melo

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Si prospettava come una delle serie più affascinanti del primo turno play-off. E invece è stata una dele più scontate. Nel 2004, nel corso della regu-lare season, i Detroit Pistons acquistarono Rasheed Wallace, mossa deci-siva nella corsa al titolo. I Pistons cominciarono a volare e si aggiudicaro-no l’anello, in finale contro i Lakers. L’effetto potrebbe essere lo stesso,l’impatto, fino a questo momento è stato devastante. CI rifieriamo allatrade dell’anno che ha portato Chauncey Billups sulla costa ovest e harivoluzionato i Nuggets che, con l’MVP delle finali del 2004, raggiungonola seconda posizione nella Western Conference ed eguagliano il recordfranchigia di 54 vittorie nell’arco di una stagione. La maturità di Billups,le indubbie doti di leader e di realizzatore, sono la causa principale dellavittoria contro gli Hornets. Chris Paul e hanno tentato l’assalto al secondoround, ma sono crollati di fronte alla squadra di George Karl. In gara unoc’è spazio solo per la prestazione super di Billups: 36 punti, 7 su 8 da trepunti (career high e record di squadra). Un parziale di 21 a 0 a cavallo trail terzo ed il quarto periodo di gioco stronca New Orleans; la partita fini-sce 113-84. Stesso protagonista e successo bissato in gara 2, sempre nelColorado. Le ‘Pepite’ di Denver vincono (108-93) e si portano sul 2 a 0.Ancora Billups miglior giocatore in campo con 31 punti, coadiuvato da‘Melo Anthony: 22 punti e 9 assist. La difesa asfissiante dei Nuggets hanuovamente annichilito i giocatori della Lousiana. Per Paul (13 punti e 14assist) e compagni non c’è stato nulla da fare.Il riscatto di Chris arriva in gara 3. Gli Hornets alzano il livello fisico delloro gioco e riescono a vincere il match. Una battaglia durissima caratte-rizzata da numerosi falli e contrasti durissimi; a farne le spese è proprio ilplay ex Wake Forest che subisce numerosi contatti, di cui ne subirà glieffetti nelle successive gare. Nonostante tutto, Paul realizza 32 punti con-diti da 12 assist e tiene accesa, insieme con Posey (13 punti e 9 rimbalzi),suo il rimbalzo decisivo nei secondi finali, la fiammella della speranza dei‘calabroni’. Fiammella che si spegne e non poco nella gara 4, sempre aNew Orleans. Più che un match è una vera e propria mattanza. 121 a 63

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44 11per Anthony e soci. Inutile dire che i record negativi della storia dei play-off vengono riscritti. Coach Karl gongola e si prepara a festeggiare ilsuperamento del primo turno. Chris Paul, ai minimi storici (4 punti e 6assist), risente della terribile battaglia di gara 3. Il destino di New Orleanssembra segnato, come di fatti poi lo sarà. Però gli Hornets, in gara 5,hanno venduto cara la pelle. Privi di Tyson Chandler, hanno battagliatopunto a punto con i Nuggets, fino a quando la premiata ditta Chauncey &‘Melo (34 punti per Anthony e 13 con 11 assist per Bullpus) guida un par-ziale di 24-4 a metà del terzo periodo di gioco, annichilendo New Orleans(107-86). Dopo 5 eliminazioni al primo turno, Denver ce l’ha fatta. Guai asottovalutarli. I Nuggets daranno filo da torcere a chiunque. Coach Karl èun allenatore di primissimo livello con esperienza notevole, anche nellapost season (finale del 1996 sulla panchina dei Sonics). JR Smith sembraaver trovato la giusta dimensione all’interno del team (15 dei 20 punti digara 5 sono arrivati nel mega parziale che ha chiuso la serie). ‘Melo è ilrealizzatore e il più talentuoso. E poi c’è Billups, il leader. Lui c’è giàstato, Lui sa come si fa. Lui vuole portare la sua città a vivere un sognochiamato Larry O’ Brian Trophy.

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DIETRO LE QUINTE: TUTTI I POST PARTITAPaul: «Il segreto di Denver? Billups»Melo: «Non pensavo di vincere di 58»GAME 1: «Ho trovato il ritmogiusto è stata una di quelle sera-te speciali»ha detto Billups dopola prima apparizione postseasonnella sua città natale.GAME 2: qual è la differenza tragiocare duro e giocare sporco? «Solitamente è vincere o perde-re», ha detto il coach deiNuggets, George Karl. «Se vincipensi aver giocato duro, se perdipensi che gli avversari abbianogiocato sporco. Le serie deiplayoff sono molto intense epotremmo già essere al punto incui noi odiamo loro e loro odia-no noi. Ed è giusto che sia così».GAME 3: «Questa è la parte

divertente dei play-off, tutti icontatti, tutti i falli antisportivi»dice Chris Paul. «Tu non vuoicerto scontrarti, prendere botte,ma dopo che lo hai fatto sorridie pensi che è la natura di questosport»GAME 4: «Non pensavo di vince-re di 58 punti - ha detto Anthony-. «Non pensavo che nessunopotesse vincere di 58 punti neiplayoff».GAME 5: «Chauncey è la migliorcosa che sia capitata a Denver» -ha detto Paul -. «La mentalitàche ha portato è qualcosa che lifarà andare almeno fino in finaledi conference».

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Guardi la Virtus Roma e ti accorgi, ictu oculi, di un’insanabile dicotomia alsuo interno. Una separazione netta, una spaccatura profonda difficile da col-mare, ancor più da comprendere e giustificare. Ma facciamo prima qualchepasso indietro. E’ il 12 Giugno 2008. Sono circa le 22,30 di un caldo giovedìquando al PalaMensSana il campionato di LegaA manda in scena il suo ulti-mo sussulto; nell’impianto toscano, colmo all’inverosimile, scorrono i titolidi coda della stagione e, contestualmente, si accendono i riflettori sul trionfodella Montepaschi. E’ il terzo scudetto per la truppa di Minucci; il secondoconsecutivo. Un tricolore giunto a coronamento di un torneo sostanzialmen-te perfetto, reso addirittura sublime da un record di 18 vittorie di fila e,sopra ogni cosa, da uno strapotere di gioco imbarazzante tanto per la con-correnza quanto per i media, chiamati rispettivamente a scrivere e a com-mentare un film dal finale decisamente troppo scontato. Scorrono i consuetifiumi di parole. Elogi e panegirici rivolti -meritatamente- ad una società dialtissimo profilo che con programmazione, competenza, lungimiranza eprofessionalità aveva saputo trasformare in realtà un sogno che, agli occhidei contradaioli, sembrava, fino a qualche anno prima, neanche lontana-mente immaginabile. In un simile contesto, la Lottomatica era in un cantuc-cio remoto, a leccarsi con rabbia ma con tanto orgoglio le proprie ferite.Più orgoglio, a dirla tutta, rispetto al senso di frustrazione provato per esserearrivata fino alla fine di un tragitto tanto lungo quanto tortuoso, salvo poivedere l’avversario tagliare per primo la linea del traguardo. Quell’orgogliodi chi, in ogni caso, era consapevole di aver plasmato sì un’opera incompiu-ta, ma comunque degna espressione di uno sforzo incredibile e di un cam-pionato vissuto sempre sopra le righe. Andava, così, in archivio la stagione2007/2008 ed arrivava, dal presidente Toti, il più classico dei “rompete lerighe”. Tutti in vacanza, dunque. Tutti o quasi. Sì, perché Dejan Bodiroga,

fido del n. 1 giallorosso, già iniziava a pianificare le prime strategie per darecontinuità all’ambizioso progetto finalizzato a consacrare la capitale nelgotha della palla a spicchi. Decine di contatti, innumerevoli colloqui con ivari procuratori a fare da premessa ai movimenti di mercato in entrata eduscita. Facevano, così, le valigie, tra gli altri, Fucka, Stefansson e “pezzi danovanta” come Erazem Lorbek ed il beniamino David Hawkins. Le impor-tanti partenze, però, erano compensate da arrivi altrettanto suggestivi: allacorte di Repesa, infatti, giungevano Sani Becirovic, Angelo Gigli, AndreHutson, Primoz Brezec, Luigi Datome. Ma l’interesse degli addetti ai lavori edei tifosi era tutto proiettato verso il vero “crack” messo a segno daBodiroga: Brandon Jennings. Un nome probabilmente sconosciuto ai più;un nome, in realtà, che nel mondo dorato della NBA era già arcinoto ed ilmotivo di tanta popolarità era tutto racchiuso in un talento che, da oltreo-ceano, facevano sapere essere fuori dal comune. Il baby-fenomeno nasce aCompton (California, USA) il 23.10.1989 e fin da piccolo dimostra particola-ri attitudini col pallone tra le mani. E, in effetti, il talento donatogli damadre natura si palesa in tutta la sua grandiosità quando Brandon inizia agiocare prima alla Dominguez High School, poi all’Oak Hill Academy. Lì sicomincia realmente a comprendere lo spessore di un ragazzo nato per gio-care a pallacanestro. 1,85m per 77kg di peso; uno “scricciolo”, come si dice aRoma. Eppure in quel fisico minuto si nasconde una tecnica sopraffina,un’esuberanza atletica indicibile, una genialità abbacinante; in poche parole,un fuoriclasse. Invero, le cifre prodotte al liceo sono, per certi versi, ai limitidella realtà: 35,5 punti di media, 5 rimbalzi, 7,5 assist e 4 recuperi a partita.Roba da far innamorare chiunque. Terminata l’high-school, il buonBrandon viene reclutato da Arizona e, in particolare, da coach Lute Olson,evidentemente già invaghito dell’”enfant-prodige” californiano. Ma è in que-

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I giallorossi, sotto la guida dell’ex casertano Nando Gentile, veleggiano nelle zone alte della classifica; per il baby-fenomeno, però, un ruolo da attore si, ma non protagonista

Lottomatica -Brandon Jennings, pensavo fosse amore invece…

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sto momento che avviene l’imponderabile. Con una scelta a sorpresa, dettataverosimilmente dalla scarsa attitudine del ragazzo a cimentarsi sui libri distudio e dalla contingente necessità di pazientare ancora un anno prima dispiegare le vele verso la lega di David Stern (la NBA non consente il tessera-mento di ragazzi di età inferiore ai 19 anni), il ragazzino decide incredibil-mente di bypassare l’università -e quindi l’eventuale possibilità del cosiddet-to “one&done”, ossia un anno di college prima del basket professionistico- edi scegliere l’Europa come sua scuola di formazione in vista di quello chesarà. Ed è, appunto, in questo momento che viene suggellato il binomioJennings-Roma. Un matrimonio sancito lo scorso mese di Luglio; un’unione,per certi versi, poco “laboriosa” considerato l’immediato incontro delladomanda del giocatore (assistito dal procuratore Sonny Vaccaro) e dell’of-ferta della società capitolina. In soldoni, il contratto ha durata triennale (peruna cifra intorno ai 1,2 milioni di dollari) con “nba escape” al termine diogni stagione. E’ precisamente il 16 Luglio quando Brandon mette per laprima volta piede in Italia incontrando stampa e fotografi nell’incantevoleCasina Valadier di Villa Borghese. Sorrisi, tono deciso che sembra nonrispecchiare affatto la sua tenera età, tanto carisma. Dopo l’incontro con lastampa, passeggiata per Roma insieme all’inseparabile mamma Alice eshopping nelle migliori griffe del centro storico (le sue preferite sono Gucci eLuis Vitton). Inizia così la sua avventura nel Bel Paese. Un’avventura per cuisi mobilitano tutti. A partire dagli addetti ai lavori, smaniosi di vedere all’o-pera un piccolo genio della palla a spicchi; per finire ai media, calamitati a

quello che, per certi versi, sembra assumere i connotati di un fenomeno dabaraccone. Vi è addirittura un giornalista dell’ESPN che per circa due setti-mane conta i suoi passi, lo segue come un’ombra, cerca di carpire ognigesto, ogni frase, ogni espressione del volto; tutte cose che un giorno -nean-che tanto futuro- si potranno raccontare parlando di quella che pare esseredestinata a diventare una delle stelle più luminose nel firmamento del basketmondiale. In un battibaleno scorre via la pre-season, tra tornei e scrimmagenel corso dei quali il ragazzino venuto da lontano offre, ad intermittenza,sprazzi del suo talento. Si arriva, quindi, alla data fatidica. E’ il 12 Ottobre: ilgiorno in cui prende inizio la storia “giocata” di Jennings in gare ufficiali. LaVirtus esordisce in campionato in un PalaLottomatica che, in verità, da piùparti, si credeva potesse offrire un diverso colpo d’occhio. A rendere visita aigiallorossi è la matricola Eldo Caserta. Gara a senso unico? Neanche a pen-sarlo. Soltanto un tiro a fil di sirena di Jaaber consente ai suoi compagni diaggrapparsi ad un over-time segnato dalla mano torrida dalla lunetta diBecirovic e da qualche fischio “casalingo”. Vince la Lottomatica. PerJennings 21 minuti di utilizzo, 7 punti, percentuali al tiro rivedibili e 2 invalutazione. Sette giorni dopo i capitolini sbancano agevolmente ilPalaDozza; Young Money (come lui stesso ama definirsi in ragione della suacapacità di guadagnare fior di quattrini a dispetto della sua tenera età) vedeil campo solo per 14 minuti senza incidere: 3 punti e 1 in valutazione. Nelfrattempo, anche l’Eurolega tiene a battesimo il ragazzino. Il trend, in ognicaso, non accenna a migliorare col passare del tempo: contro Biella la sua

presenza è impalpabile come il suo tabellino: 17 minuti, 1 punto, -1 invalutazione. Il fatturato di Jennings sembra iniziare a riflettere, comemeglio non potrebbe, il gioco ed i risultati deludenti di una Virtus che“floppa” letteralmente cinque partite di fila. Un pokerissimo di sconfit-te che sanciscono una crisi in cui Jasmine Repesa si riconosce, manupropria, come il solo capro espiatorio: arrivano, quindi, le sue dimis-

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sioni e la contestuale promozione a head-coach di Nando Gentile. Un incari-co che pare inizialmente essere ad interim, considerata la ritrosia dell’ex“principe di Tuoro” a farsi carico di una situazione difficile da gestire (e lagià precedente esperienza fallimentare sulla panchina di Imola). Poi, comespesso accade, i dubbi si dissolvono e per il casertano la fiducia si trasformaa tempo indeterminato. Improvvisamente la sensazione è che anche perJennings le cose possano cambiare; e in meglio. Sì, perché da un lato c’è unnuovo allenatore che, allevato in giovinezza da un guru di baby-talenti comeTanjevic, sembra conoscere a menadito come forgiare il suo talento; dall’al-tro, c’è la decisione della società di mettere fuori squadra una figura ingom-brante come quella di Allan Ray, reo -da quanto è dato conoscere- di nonessere in sintonia con il resto del gruppo (a Gennaio, poi, arriverà la risolu-zione del contratto con l’ex Celtic). Eppure, Brandon seguita a fornire proveche entusiasmano davvero poco i “Warriors” ed il resto della piazza.Prestazioni, talvolta, discrete; molto più spesso ai limiti della sufficienza e,comunque, poco in linea con un talento enorme che è perfino arduo quanti-ficare. Lo stesso dicasi per l’avventura in Eurolega dove i giallorossi, nel frat-tempo, conquistano le top-sixteen. In campionato, improvvisamente, la trup-pa di Gentile inverte la rotta iniziando a seminare successi a destra e amanca: la striscia di vittorie ne conta 9 consecutive che le permettono, inmen che non si dica e tra lo stupore generale, di scalare posti in graduatoriafino a meritare il titolo di “anti-Siena”. Invece, per il n. 11 giallorosso nonarriva la tanto auspicata sterzata della sua stagione. Il suo minutaggio nondecolla, le sue apparizioni nello starting-five sono sempre più sporadiche, ilsuo apporto non risulta mai imprescindibile. A Gennaio, poi, scoppia un“caso” che lo riguarda molto da vicino e che coinvolge anche i piani alti dellasocietà presieduta da Claudio Toti. Da una nota emittente televisiva italianavengono riportati alcuni spezzoni di un’intervista che “Young Money” avreb-be, qualche giorno prima, rilasciato al New York Times. Tra le altre cose, silegge -e neanche troppo tra le righe- un certo malcontento del ragazzo cheparla anche di ritardi nei pagamenti delle sue spettanze da parte della fran-chigia capitolina.Una situazione che genera un evidente imbarazzo tra le parti. LaLottomatica, con un apposito comunicato, si affretta ovviamente a smentireseccamente il tutto; lo stesso fa Jennings, consapevole di un passo falso cheavrebbe potuto decisamente evitare. Passata la tempesta diplomatica, sitorna a giocare. Contro la GMAC Bologna, il ragazzino griffa la sua miglioreprestazione in cui fa segnare anche l’high-stagionale: 27 minuti e 14 punti,con il 55% dal campo. Ma quello fatto vedere al cospetto della Fortitudo è

solo un fuoco di paglia. Si torna, infatti, alle vecchie abitudini; vecchie abitu-dini che -come canta Mick Jagger in un suo famosissimo hit- sono decisa-mente dure a morire. Brandon, dal punto di vista tecnico-tattico, non entrain sintonia con il resto della squadra. Dunque, quello che doveva essere uncrack del mercato capitolino assume le nitide sembianze di un “flop”. E la genesi della spaccatura -quella di cui parlavamo all’inizio del racconto-all’interno della squadra giallorossa trova la sua ragione d’essere in un inve-stimento che, da più parti, si credeva potesse far compiere alla Lottomaticail salto di qualità sul parquet e nelle strategie di marketing e che, col passaredel tempo, si è trasformato in una mossa apprezzabilissima per audacia ma,a conti fatti, decisamente sbagliata. Sbagliata perché messa in atto proprionel momento in cui all’ombra del “Cupolone” c’era la malcelata voglia diconfermarsi nei piani altissimi del “basket-system” e di migliorare i già egre-gi risultati della stagione passata; sbagliata, sopra ogni cosa, perché si è pun-tato tantissimo su un giocatore con le spalle ancora troppo esili per reggerela pressione psicologica tipica della palla a spicchi nostrana e neanche lonta-namente paragonabile a quella a cui si è sottoposti quando si cresce e simatura (?) nei college a stelle e strisce. Proprio la maturità, allo stato dellecose, pare essere il principale tallone d’Achille di Jennings, i cui funamboli-smi mostrati in allenamento e nell’high-school non hanno trovato adeguatoriscontro in una realtà che -inutile nasconderlo- predilige la sostanza allaforma. Non c’è che dire: le cose su cui il ragazzino dovrà ancora lavorare permeritare sul campo i galloni del “predestinato” sono decisamente tante. Apartire dall’applicazione in difesa, principale lacuna del bagaglio tecnico delcaliforniano e retaggio di una cultura statunitense restia ad inculcare neigiovani un fondamentale imprescindibile per il basket del vecchio continen-te. Passando per uno stile “barocco” di intendere la pallacanestro decisa-mente da limare proprio in ragione del fatto che il suo futuro ed il suo desti-no non verranno scritti sui playground, nei quali spesso apparire è meglioche essere. Per finire, alla capacità di leggere con lucidità le situazioni digioco e di operare un’opportuna selezione di ciò che è bene fare o evitare. Iltutto con la Lottomatica ferma a guardare la sua lenta evoluzione e con l’a-maro in bocca per una travolgente passione provata, fino a qualche mese fa,per il baby-prodigio che non si è mai trasformata in vero amore. Intanto,nonostante l’esperienza non propriamente esaltante di Brandon stia peraffrontare l’ulteriore durissimo banco di prova della post-season, da oltreo-ceano rimbalzano voci che accrediterebbero l’attuale n. 11 giallorosso tra leprimissime scelte del prossimo draft. Contraddizioni della NBA, ad oggi,onestamente difficili da comprendere.

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Chi di voi non ha sognato almeno una voltadi correre con le braccia alzate sui 72 scali-ni dell’Art Museum di Philadelphia avendo“Gonna fly now” come colonna sonora??

Ma Philadelphia non è solo la città di Rocky! sembra rappresentare anchela città dell’innovazione: un ruolo del tutto familiare per la città con piùantica tradizione storica d’America, si trova nello Stato dellaPennsylvania ed é la seconda città per estensione sulla costa atlanticadegli USA, è situata sulle rive occidentali dell'estuario del fiumeDelaware, che la separa da Camden, nel vicino stato del New Jersey.Essendo il Delaware navigabile anche da navi di grosso tonnellaggio,Philadelphia è dotata di un importante porto. L'altro corso d'acqua dirilievo che attraversa la città è il fiume Schuylkill, che convenzionalmentesegna il confine occidentale del centro storico, è ufficiosamente divisa innumerosi quartieri. Fra questi, i più importanti sono Andorra,Roxborough, Northern Liberties, Old City, Bustleton, Somerton,Manayunk, Center City, Queen Village, Kensington, Frankford, UniversityCity, Strawberry Mansion, Chestnut Hill, Fishtown, Port Richmond,Germantown, Mount Airy, Wynnefield, Chinatown, Fox Chase, SouthPhilly, Society Hill ed il Museum District; Philadelphia, in italianoFiladelfia ed informalmente Philly è una città dinamica, ricca di attrattivetipiche di una grande metropoli, pur mantenendo comunque il fascino diuna piccola città. Basta il suo nome per richiamare alla mente laDichiarazione d’Indipendenza, la Costituzione degli Stati Uniti,l’Independence Hall, la Campana della Libertà e Benjamin Franklin. OggiPhiladelphia risplende come mai, per la gioia di residenti e turisti, la cittàdove è nata l'America offre molto di più che la semplice storia. I suoi pia-cevoli quartieri residenziali suscitano un particolare interesse per la lorodiversità. Una fiorente vita artistica la rende un grande centro culturale,con una vasta scelta di musei ed esposizioni, musica classica e balletto

sono solo alcune delle esperienze culturali che si possono godere; Inoltrepossiede una peculiarità rara rispetto alle altre metropoli americane: lagente vive nel cuore della città. E' veramente un grande piacere passeggia-re per le sue strade, ed è anche molto semplice ritrovarsi in quanto le stra-de sono suddivise in isolati di forma più o meno quadrata;non è perciòdifficile girare il centro cittadino a piedi, in qualsiasi stagione, perchéPhiladelphia è bella ed affascinante con qualsiasi clima: sotto la neve conle decorazioni natalizie, con gli alberi che in primavera fioriscono lungo isuoi bei viali. Si possono trovare centinaia di ottimi ristoranti, il cui arre-damento è così bello che spesso sono stati usati come sfondo per le scenedi grandi film. A Philadelphia si possono provare le cucine di tutto ilmondo, rivisitate, in un ambiente che renderà il pasto un ricordo indi-menticabile .Da non dimenticare lo shopping, due vasti centri commer-ciali, tra i più estesi ed importanti del Paese si trovano a circa 30 minutid'auto dal centro di Philadelphia. Negozi raffinatissimi e boutiques si tro-vano in centro di Philadelphia. Tenete presente, infine, che gli articolid'abbigliamento e le calzature sono esentasse nello Stato dellaPennsylvania.COME ARRIVARE E COME MUOVERSILa US Airways collega giornalmente l'Italia con Philadelphia, con volidiretti di sole nove ore da Roma e Milano e, stagionalmente da Venezia; èquindi facile da raggiungere, sicuramente uno dei più comodi punti d'in-gresso negli USA. Entro i confini cittadini si trovano due aeroporti, ilPhiladelphia International Airport , (Giudicato dal Wall Street Journal ilmigliore aeroporto degli USA e si trova a soli 13km dal centro della città ).ed il Northeast Philadelphia Airport. Per raggiungere Philadelphia dall’ae-roporto in taxi occorrono circa 15 minuti e il costo della corsa è di 29 dol-lari. Un servizio di Bus vi porterà in città con tempi di percorrenza dicirca 30 minuti. La linea R1 della metropolitana offre una corsa ognimezz'ora, e collega l'aeroporto con il centro di Philadelphia, la Stazione

ferroviaria Amtrak ed ilPennsylvania ConventionCenter. Il costo del biglietto èdi 5.50 dollari a persona, seintendete rimanere più gior-ni, è preferibile noleggiareuna macchina. In aeroporto sitrovano le maggiori catene diautonoleggio oppure potetefarvi un’idea sul sitowww.alamo.it o su www.easy-car.it i prezzi non sono moltoalti, il noleggio di una mac-china economica come unaChevrolet Aveo oscilla tra i160 e i 180 euro per settima-na. Inoltre Per notizie aggior-nate sugli arrivi e partenzedall'Aeroporto Internazionaledi Philadelphia è a disposizio-ne il sito web www.phl.orgoppure dagli USA si può chia-mare il numero verde 800-PHL-GATE.DOVE DORMIRE.I prezzi sono, in genere,molto variabili e dipendonodal periodo dell ’anno. Glihotel più economici che si

Il tour di ‘On The road’ fa scalo a Philadelphia, Pennsylvanya, nella città della storia e dell’indipendenza americana e quella cinematografica dello ‘stallone’ italiano: Rocky

‘The city of the brotherly love’DIDI

LLEANDRAEANDRA RRICCIARDIICCIARDI

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55 00SSTTAARRSS ‘‘NN’’ SSTTRRIIPPEESSOONN TTHHEE RROOAADD

trovano al centro della città sono :Confort Inn Downtown Historic in ChristopherColumbus Blvd. situato nel quartiere storico a500m dall’ Indipendence Hall .Troverete prezziche variano tra i 70 e gli 80 per camera doppiaa notte.Rodeway Inn in Walnut street a pochi isolatidall’ Independence National Historical Park,prezzi tra gli 80 e i 90 per camera doppia anotte.B.W. Center City in 22nd street situato nel cuoredi Philadelphia vicino alle più famose attrazioni.Prezzi sempre tra gli 80 e i 90 per camera dop-pia a notte.Chi ha disponibilità economiche più elevatepuò godersi il lusso ed i confort del RittenhouseHotel situato nella piazza da cui prende il nomeuna delle zone più prestigiose della città. Prezziche vanno tra i 310 e i 320. Per altre informazio-ne potete consultare i sitiwww.octopustravel.com, www.tripadvisor.itIL TEMPOIl clima è umido e continentale con numeroseprecipitazioni. Nelle pianure l'estate è abbastan-za lunga e l'inverno mite, con temperaturemedie annuali che si aggirano intorno ai 12°C aPhiladelphia e 10 nelle valli centrali. Negli alto-piani viceversa, l'estate è breve e l'inverno lungoe gelido. L'influenza del Lake Eire, infine, miti-ga la regione che gli sta intorno, rendendo l'esta-te lunga, ma fresca (19°C di media) e l'invernobreve (-2°C di media).Ricordatevi che . Per visi-tare una città ed un paese è comunque indispen-sabile conoscere le previsioni del tempo chepotete trovare sui siti: www.paesionline.it ewww.ilmeteo.it COSA VEDEREL'INDEPENDENCE HALL E L'AREA STORICA:Una visita a Philadelphia non può che iniziaredall'Independence National Historical Park, "ilmiglio quadrato con più storia dell'America".Nel parco, sono infatti compresi molti degli edi-fici dell'epoca coloniale e della Rivoluzione. Iltour può cominciare al Visitors Center, dovesono disponibili mappe e cartine e dove vieneproiettato un filmato introduttivo di circa trentaminuti, Independence. I primi edifici che siincontrano sono l'imponente First Bank of theU.S. e la Second Bank of U.S., in stile greco, sipuò proseguire con l'Independence Hall dovevennero stilate sia la Dichiarazioned'Indipendenza, nel 1776, che la Costituzionedel 1787,che si trova in Chestnut Street. Nelleimmediate vicinanze è poi situata la CongressHall, dove venne tenuto il primo Congresso degliStati Uniti e dove venne adottata la prima Cartadei Diritti, mentre nella Carpenter’s Hall, nel1774 venne tenuto il Primo CongressoContinentale. A nord dell'Independence Hall troviamo ilLiberty Bell Pavillon, che ospita la famosaCampana della Libertà, quest’ ultima venne fusada una Fonderia di Whitechapel a Londra nel1751, per celebrare l'anniversario della Carta deiPrivilegi, redatta da William Penn, cui si devel'estrema tolleranza dello Stato dellaPennsylvania. Ma una volta arrivata in America,la campana presentava una crepa e venne fusanuovamente, posta in cima alla State House,

faceva sentire i suoi rintocchi in occasione deimaggiori avvenimenti pubblici come quandochiamò i cittadini di Philadelphia a raccolta perla prima lettura pubblica della Dichiarazioned'Indipendenza. L'ultima volta che si sono uditii rintocchi della Campana è stato in occasionedel compleanno di George Washington nel 1846.Sebbene Liberty Bell sia rimasta da allora silen-ziosa, la campana è il simbolo di libertà e d'indi-pendenza per tutto il popolo americano.Proseguendo con il nostro tour più a nord tro-viamo la Franklin Court, dove sorgeva la casa diBenjamin Franklin,nel cui sotterraneo sorge oraun museo.Vicino all'Independence Hall, puòessere interessante vedere una delle succursalidella Zecca di Stato americana, la U.S. Mint.Affascinanti sono anche: La Elfreth's Alley eArch Street, la prima è la strada residenzialepiù vecchia d'America e le case che vi si affac-ciano vantano oltre duecento anni di vita: quinel primo weekend di giugno vengono celebratii Fete Days, durante i quali è possibile visitaregli edifici e si tengono dimostrazioni di lavoriartigianali dell'epoca coloniale. Le case sonovisitabili anche il primo venerdì di dicembre.Mentre in Arch Street, sorge la casa di BetsyRoss, la sartina incaricata da GeorgeWashington di progettare e cucire la bandieraamericana. Chi volesse visitare la tomba diBenjamin Franklin la potrà trovare invece nelcimitero della Christ Church. Notevole è ancheil primo museo dedicato esclusivamente allacultura nera, l'Afro American Historical andCultural Museum e per terminare abbiamo ilPenn Landing, il più grande porto fluviale esi-stente al mondo, dove si trovano l'Uss Olympia el'Uss Becuna: la prima è una nave dell'epocadella guerra ispano-americana, mentre il secon-do è un sommergibile della Seconda GuerraMondiale. Ma ci sono molti altri posti da visita-re,come: City Hall, La Pennsylvania Academy ofFine Arts, La Rosenbach Museum and Library,Champs Elysees d’America, Il PhiladelphiaMuseum of Art, Love Park, L’HorticulturalCenter, L’University Museum of Archeology andAntropology e le due università (Drexel

University e University of Pennsylvania).SPORTSe siete interessati ad un'esperienza sportivaricordate che Philadelphia è una città molto atti-va che mette a disposizione del visitatore unavastissima scelta di eventi sportivi. Vi basteràcliccare sullo sport che v'interessa per sceglierel'evento sportivo preferito. Le squadre diPhiladelphia giocano in tre diversi campi pressoil Complesso Sportivo, quattro miglia a Sud delcentro città.Citizens Bank Park:Philadelphia Phillies (MLB-Baseball)Lincoln Financial Field:Philadelphia Eagles (NFL-Football americano)Wachovia Center:Philadelphia Flyers (NHL-Hockey su ghiaccio)Philadelphia 76ers (NBA-Basket)Philadelphia Wings (Lacrosse)Anche il golf è uno sport molto praticato aPhiladelphia, perciò esiste una scelta infinita dicampi, ubicati in splendidi parchi, oppure suiprati che costeggiano le rive dei due fiumi chebagnano la città.CURIOSITA’• E’ una Città multietnica, è una città ricca sottol’aspetto multiculturale ed è riconosciuta comedestinazione multietnica numero uno degliUSA.Philadelphia.• E’ una moderna metropoli interamenteWireless con connessione accessibile e gratuitaanche dai parchi• E’ il secondo maggior centro di ricerca ed edu-cazione nel settore medico scientifico degli USA.• I primati storici della città sono numerosi: ilprimo zoo, la prima biblioteca pubblica, laprima zecca, il primo museo, la prima scuola dibelle arti.• La città ospita 250.000 studenti e 50 tra colle-ge e università. Inoltre numerosi sono i centri diricerca in ogni settore.Allora ricapitoliamo: salite i 72 scalini dell’ArtMuseum canticchiando “ na na na…na naaaaa”,portatevi il pc per usufruire della connessione,mangiate, bevete e…Fate tanto SHOPPING!!!!!Insomma: BUON DIVERTIMENTO…

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