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Il management nelle cooperative sociali: I QUADERNI DELLE OPERE SOCIALI IL MANAGEMENT NELLE COOPERATIVE SOCIALI: PECULIARITÀ E BEST PRACTICES Progetti I QUADERNI DELLE OPERE SOCIALI peculiarità e best practices di Simone Poledrini Prefazione di Bernhard Scholz Partner scientifico Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices Il contesto politico, economico e sociale in cui oggi le cooperative sociali si trovano ad operare è notevolmente cambiato rispetto agli ultimi anni. Di fronte a tali cambiamenti le cooperative sociali sapranno farvi fronte e saranno in grado di trasfor- mare questi aspetti da pericoli in opportunità? L’adeguamento richiesto molto probabilmente riguarderà più aspetti, il rapporto con le persone in situazione di svantaggio, con la pubblica amministra- zione e così via. La presente pubblicazione si vuole soffermare su uno degli aspetti che saranno necessari per far fronte al cambiamento richiesto, e cioè l’adozione e l’utiliz- zo di una cultura manageriale all’interno di queste realtà economiche e sociali. Per fare ciò sono state intervistate e studiate quattro cooperative sociali: Cometa Formazione di Como, il Gruppo Pinocchio di Rodengo Saiano (Bs), In Opera di Rimini e Solidarietà e Lavoro di Busto Arsizio. Tali cooperati- ve “senior” – così sono state chiamate nel progetto “Esperienze per crescere” di cui questa pubblicazione è parte – si caratterizzano per essere delle eccellenze dal punto di vista manageriale e sociale. Simone Poledrini è ricercatore a tempo determinato in Economia e gestione delle imprese e docente di Gestione dell’innovazione d’impresa alla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia. Svolge attività di ricerca sul tema degli aspetti di management nelle cooperative sociali e su queste tematiche collabora, dal 2010, con il dipartimento ricerche della Fondazione per la Sussidiarietà. Per FrancoAngeli ha curato il volume collettaneo “Le imprese senza scopo di lucro” (2010). Il Progetto ESPERIENZE PER CRESCERE è stato finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi dell’art. 12, c. 3, lett. f), legge n. 383/2000 – Direttiva 2009.

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Progetti

I QUADERNI DELLE OPERE SOCIALI

peculiarità e best practices

di Simone PoledriniPrefazione di Bernhard Scholz

Partner scientifico

Il management nelle cooperative sociali:peculiarità e best practices

Il contesto politico, economico e sociale in cui oggi le cooperative sociali si trovano ad operare è notevolmente cambiato rispetto agli ultimi anni. Di fronte a tali cambiamenti le cooperative sociali sapranno farvi fronte e saranno in grado di trasfor-mare questi aspetti da pericoli in opportunità? L’adeguamento richiesto molto probabilmente riguarderà più aspetti, il rapporto con le persone in situazione di svantaggio, con la pubblica amministra-zione e così via.

La presente pubblicazione si vuole soffermare su uno degli aspetti che saranno necessari per far fronte al cambiamento richiesto, e cioè l’adozione e l’utiliz-zo di una cultura manageriale all’interno di queste realtà economiche e sociali. Per fare ciò sono state intervistate e studiate quattro cooperative sociali: Cometa Formazione di Como, il Gruppo Pinocchio di Rodengo Saiano (Bs), In Opera di Rimini e Solidarietà e Lavoro di Busto Arsizio. Tali cooperati-ve “senior” – così sono state chiamate nel progetto “Esperienze per crescere” di cui questa pubblicazione è parte – si caratterizzano per essere delle eccellenze dal punto di vista manageriale e sociale.

Simone Poledriniè ricercatore a tempo determinato in Economia e gestione delle imprese e docente di Gestione dell’innovazione d’impresa alla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Perugia. Svolge attività di ricerca sul tema degli aspetti di management nelle cooperative sociali e su queste tematiche collabora, dal 2010, con il dipartimento ricerche della Fondazione per la Sussidiarietà. Per FrancoAngeli ha curato il volume collettaneo “Le imprese senza scopo di lucro” (2010).

Il Progetto ESPERIENZE PER CRESCERE è stato finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi dell’art. 12, c. 3, lett. f), legge n. 383/2000 – Direttiva 2009.

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Il managementnelle cooperative sociali

I QUADERNI DELLE OPERE SOCIALI

peculiarità e best practices

di Simone PoledriniPrefazione di Bernhard Scholz

Partner scientifico

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7 Prefazione, di Bernhard Scholz

9 Introduzione

13 1 Le opere coinvolte nel progetto 13 1.1 La cooperativa In Opera 14 1.1.1 I dati principali 16 1.2 Il “gruppo” di cooperative sociali Pinocchio 18 1.2.1 La struttura organizzativa e i principali dati di bilancio 21 1.3 La cooperativa Solidarietà e Lavoro 23 1.3.1 L’assetto organizzativo e la struttura manageriale 25 1.4 Cometa Formazione s.c.s. 28 1.4.1 Cometa

31 2 Il management nelle cooperative sociali: aspetti introduttivi 31 2.1 Sulla natura della cooperativa sociale 34 2.2 Modelli di management delle cooperative sociali

41 3 Formazione, pianificazione e controllo delle strategie 41 3.1 Tipologie e processo di formazione delle strategie delle imprese 44 3.2 La pianificazione e il controllo strategico: aspetti generali 45 3.3 Alcune best practices in ambito strategico

51 4 Struttura organizzativa e risorse umane 51 4.1 Le principali caratteristiche del modello organizzativo delle cooperative

sociali 53 4.2 Spunti di best practices per migliorare la struttura organizzativa e il

contributo delle risorse umane

60 5 Ulteriori osservazioni sul management delle cooperative sociali

60 5.1 L’importanza della funzione commerciale 62 5.2 Gli aspetti economico-finanziari: alcuni cenni 65 5.3 Il contesto territoriale per lo sviluppo delle cooperative sociali

67 Bibliografia

SOMMARIO

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Prefazionedi Bernhard Scholz

La presente pubblicazione racconta l’esperienza imprenditoriale di alcune coopera-tive sociali, principalmente di tipo B, e ne descrive alcune best practices per agevolare un confronto basato sull’esperienza professionale e organizzativa.

Questo lavoro vuole contribuire in modo particolare al chiarimento di alcune anno-se problematiche che caratterizzano il mondo del no profit. Per esempio, in alcuni casi, si è tentati di credere che la professionalità manageriale non sia necessaria, perché nell’ambito del no profit è sufficiente far leva sulla forza e sulla spinta ideale degli ope-ratori. In altri casi, si pensa che il mercato con le sue regole sia un impedimento, se non addirittura l’opposto, agli obiettivi perseguiti dalle imprese sociali e, in generale, dalle realtà no profit. Questi approcci, sebbene rispecchino elementi di verità, limitano il potenziale sviluppo dell’imprenditorialità nel mondo del no profit, dove invece ce n’è grande necessità.

Le organizzazioni no profit, la professionalità dei collaboratori e il mercato sono tutti fattori che hanno una medesima origine, ovvero il desiderio dell’uomo di esprime-re se stesso costruendo, creando qualcosa di utile per il mondo. Qualsiasi gesto compiu-to da un uomo nasce da questo desiderio, sebbene di frequente capiti che esso venga confuso o ridotto a una mera istintività. Ma nei tanti casi in cui tale desiderio originale viene posto a fondamento di un obiettivo sociale, anche la professionalità manageriale che ne consegue - in quanto nata dalla stessa radice - può diventare una vera valorizza-zione dell’impegno ideale, rendendolo più consistente, efficace e duraturo.

Anche la collaborazione fra operatori no profit e profit, che riguarda non solo ma con maggiore frequenza le cooperative di tipo B, può trovare uno sviluppo virtuoso senza sottrarsi al libero mercato. Se ambedue le parti hanno condiviso l’obiettivo di collaborare per raggiungere e affermare un posizionamento forte e riconosciuto sul mercato stesso, allora diventa possibile “negoziare” in un modo ragionevole modalità e condizioni che rispettino le necessità e le esigenze delle parti. La cooperativa non può chiedere all’azienda di lavorare in perdita, ma quest’ultima può decidere di investire nell’avvio di una collaborazione con una cooperativa di diversamente abili, per esempio comprando macchinari speciali, o raggiungendo il ritorno economico su un investimen-to in un lasso di tempo più prolungato ma mantenendo un altissimo livello di qualità del prodotto, garantito da un rapporto di fiducia e da una stretta collaborazione. Una tale negoziazione, possiamo anche dire un tale dialogo aperto e costruttivo, per essere vero ed efficace, richiede che ognuna delle parti abbia una chiara coscienza della propria identità imprenditoriale e delle proprie capacità. Solo così diventa possibile evitare che ci sia una parte più “forte” che condiziona una parte più “debole”.

Il presente lavoro racconta di cooperative sociali che, avendo questa coscienza, hanno trovato e continuano a trovare, insieme con le aziende clienti, i modi migliori per

Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

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raggiungere l’obiettivo comune. A volte questa collaborazione porta anche a innovazio-ni tecnologiche, come la macchina “waterjet” progettata e costruita proprio partendo dalle limitazioni degli svantaggiati che adesso la utilizzano rendendo l’azienda cliente più competitiva di prima; ma sempre porta una novità umana.

Comportarsi da “impresa”, usando gli strumenti tipici di questa, come il manage-ment professionale – ci dice questo libro – non significa tradire il proprio obiettivo sociale o metterlo un po’ da parte perché “c’è la legge del mercato”: significa centrarlo in pieno e perseguirlo nella maniera migliore possibile, diventando sempre più capace di soddisfare il desiderio per cui la cooperativa è nata e opera.

Il progetto Esperienze per Crescere, da cui deriva questa pubblicazione, ha per obiet-tivo che le cooperative sociali più sviluppate, più efficaci, si può anche dire di successo, aiutino le più piccole – o comunque quelle nate da poco – a crescere, trasferendo loro innanzitutto la consapevolezza che per raggiungere la meta occorre un metodo – e que-sto metodo è possibile per tutti. In questo senso anche questo progetto ha come scopo ultimo aiutare ognuno a “tirare fuori” il meglio di sé dall’esperienza che vive.

Bernhard ScholzPresidente della Compagnia delle Opere

I quaderni delle Opere Sociali

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

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IntroduzioneIl contesto politico, economico e sociale in cui oggi le cooperative sociali si trovano ad

operare è notevolmente cambiato rispetto agli ultimi anni. Tali mutamenti provengono da due “forze” principali.

La prima è stata generata dalle cooperative sociali stesse, le quali sono notevolmente cresciute dal punto di vista strategico e gestionale, acquisendo, in molti casi, i più sofisticati strumenti di management esistenti.

La seconda riguarda l’ambiente di riferimento. Da una impostazione di welfare state si sta passando ad una di tipo welfare society, così molti servizi sociali che fino a pochi anni fa erano esclusiva delle amministrazioni pubbliche oggi sono erogati anche da soggetti privati con finalità pubbliche. Alcuni dei tradizionali mercati di riferimento delle cooperative sociali stanno scomparendo, basti pensare al caso delle cooperative di tipo B e dei contratti in conto terzi. Questa forma contrattuale non sembra offrire più le opportunità di un tempo, sebbene per anni abbia costituito una grande opportunità di lavoro per il non profit, perché oggi, a seguito della globalizzazione, le commesse si sono spostate all’estero, con la delocalizzazione della produzione di imprese italiane, oppure verso nuovi clienti come, per esempio, le imprese cinesi. Inoltre, con la legiferazione sull’impresa sociale1 anche le società di capitali e di persone potranno svolgere attività non profit. Questo, anche se per il momento non costituisce del tutto un pericolo, porterà nel prossimo futuro all’ingresso nei tipici mercati di riferimento delle cooperative sociali di nuovi competitors, anche provenienti da altri mondi, come appunto quello delle società di capitali e di persone.

Tutti questi fattori, come detto, stanno cambiando in modo irreversibile le stesse cooperative sociali e il loro contesto di riferimento. Sapranno esse far fronte a tali cambiamenti e trasformare questi aspetti da pericoli in opportunità? L’adeguamento richiesto molto probabilmente riguarderà più aspetti, il rapporto con le persone in situazione di svantaggio, con la pubblica amministrazione e così via. La presente pubblicazione si vuole soffermare su uno degli aspetti che saranno necessari per far fronte al cambiamento richiesto, e cioè l’adozione e l’utilizzo di una cultura manageriale all’interno di queste realtà economiche e sociali.

Per fare ciò sono state intervistate e studiate quattro cooperative sociali: Cometa Formazione di Como, il Gruppo Pinocchio di Rodengo Saiano (Bs), In Opera di Rimini e Solidarietà e Lavoro di Busto Arsizio. Tali cooperative “senior” – così sono state chiamate nel progetto “Esperienze per crescere”2 di cui questa pubblicazione è

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I quaderni delle Opere Sociali

parte – si caratterizzano per essere delle eccellenze dal punto di vista manageriale e sociale. In queste realtà, cioè, non si percepisce uno scontro tra lo sforzo di realizzare la propria mission sociale e l’utilizzo di metodologie manageriali, come spesso in tante altre realtà simili sembra accadere. Il punto di partenza da cui è nata la presente ricerca è la constatazione che il management è uno strumento, né buono né cattivo, ma come tutti gli strumenti dipende dall’uso che se ne può fare. Le realtà presentate si caratterizzano per un uso avanzato di tecniche manageriali per l’organizzazione, la strategia, la finanza, ecc., indirizzate a realizzare la mission sociale.

La metodologia della ricerca adottata è stata quella delle interviste dirette al personale dirigente, agli addetti, e in alcuni casi anche ai clienti, delle quattro cooperative sociali. Le interviste sono state condotte in due fasi. Nella prima è stato somministrato un questionario, che si trova nell’appendice della pubblicazione, e successivamente, alla luce delle risposte ricevute, sono state condotte le interviste nelle sedi delle cooperative. Per ciascuna di queste sono state effettuate più visite, oltre a varie integrazioni telefoniche con diversi esponenti delle organizzazioni intervistate.

L’obiettivo della ricerca è stato quello di fare emergere delle best practices da ognuna delle quattro cooperative, così che altre cooperative sociali o studiosi del settore non profit possano ricavare degli utili suggerimenti da tali esperienze. Ciascuna best practice indicata nella pubblicazione è stata situata all’interno di un contesto di riferimento generale, così che chi utilizzerà tali strumenti di “aiuto” li potrà interpretare in un ambito teorico più ampio, indispensabile per poter effettuare il paragone con la propria realtà organizzativa. Infatti, le best practices presentate non vanno viste come delle verità assolute da seguire a tutti i costi, ma come delle occasioni di miglioramento da inserire nel contesto di riferimento in cui ciascuna cooperativa sociale opera. In altre parole, i suggerimenti devono essere letti e utilizzati in modo critico.

Nel primo capitolo vengono presentate le quattro cooperative sociali, con la loro storia, l’attività svolta e alcuni dati principali di riferimento. Il capitolo seguente presenta alcuni elementi teorici e culturali indispensabili per affrontare i capitoli successivi sulle best practices. Gli ultimi tre capitoli presentano i principali risultati della ricerca, inerenti, in ordine di capitolo, agli aspetti riguardanti la formazione, la pianificazione e il controllo delle strategie, alla struttura organizzativa e le sue risorse umane e, in fine, agli aspetti della funzione commerciale e finanziaria e al ruolo del territorio nello sviluppo delle cooperative sociali.

Sebbene l’autore della presente pubblicazione sia unico, in realtà il lavoro presentato è il frutto congiunto dell’impegno di un gruppo di persone che ci ha lavorato negli ultimi nove mesi circa. A tale proposito si desidera perciò ringraziare dal più profondo del cuore Domenico Pietrantonio, Paolo Zambelli, Francesca Facchinetti e Stefano Gheno che, come CDO-Opere Sociali, hanno diretto la parte scientifica e progettuale della ricerca presentata. Tuttavia, senza la grande disponibilità di Erasmo Figini, Giorgio Lamperti, Francesco Luoni, Alessandro Mele, Massimo Montesano, Massimo Piva,

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Walter Sabattoli e Simone Vezzali, cioè i dirigenti e gli operatori delle cooperative intervistate, tutto questo non si sarebbe potuto realizzare. Il pensiero va anche a Giorgio Vittadini e Monica Poletto che hanno creduto in chi ha fatto questa ricerca più di quanto lui credesse in sé. Questo spirito di grande stima e di capacità di scommessa nell’altro è senza dubbio, a parere di chi scrive, una delle caratteristiche della CDO e CDO-Opere Sociali che più la contraddistingue da tutte le altre realtà associative. Per ultimo, si ringrazia Bernhard Scholz per aver voluto scrivere la prefazione alla presente pubblicazione.

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I quaderni delle Opere Sociali

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

1. Le opere coinvolte nel progetto

1.1 La cooperativa In Opera

In Opera, cooperativa sociale di tipo B, è stata costituita a Rimini nel 1998 con lo scopo di promuovere il reinserimento sociale di persone in condizioni di disagio e di svantaggio sociale (ex carcerati, ex tossicodipendenti, disabili fisici e psichici). In questi anni la mission della cooperativa è stata perseguita attraverso l’attivazione di percorsi riabilitativi focalizzati sull’inserimento lavorativo attraverso servizi alle imprese, attività produttive o di assemblaggio e confezionamento. Oggi la cooperativa opera in quattro principali aree di business: logistica, igiene, call center e “altro”.

La prima area affianca le imprese clienti nel loro processo produttivo e di stoccaggio delle merci in entrata e in uscita. Per esempio, tra queste c’è un’importante azienda italiana che opera nel settore ittico: questa è aiutata nella fase della lavorazione dei pesci e nella pulizia dei macchinari e degli ambienti di lavoro.

I servizi di igiene sono rivolti alla pulizia di ambienti o macchinari di imprese industriali. Tale settore, pur avendo un suo carattere distintivo in termini di lavoro e di personale addetto, si interseca con l’area logistica, così che la cooperativa può, in molti casi, offrire un prodotto integrato al cliente: dalla pulizia dei locali alla collaborazione nel processo produttivo. Il perseguimento della strategia di diversificazione del servizio offerto al cliente ha permesso da un lato di proporre alle imprese un “aiuto” sempre maggiore e a 360 gradi e, dall’altro lato, di impiegare personale svantaggiato in differenti situazioni lavorative, secondo le capacità e i limiti di ciascuno.

L’attività di call center è svolta, tra gli altri, per il Servizio sanitario regionale, per il quale sono svolti i servizi di CUP e CUPTEL. Tramite questi servizi, In Opera effettua per conto delle Ausl la prenotazione degli esami.

Infine, l’ultima area strategica comprende l’attività di data entry.L’attuale parco clienti si è formato negli anni. Dal 1998 la cooperativa si occupa

della gestione del parcheggio dell’ospedale di Rimini, tra il 2004 e il 2005 ha iniziato l’attività di prenotazione telefonica di visite specialistiche (CUPTEL) per le Ausl di Rimini e Ravenna. Nel 2005 è partita l’attività di pulizie per importanti aziende del territorio quali la Maggioli Spa e la Cad Sati. Sempre nello stesso anno è iniziata la collaborazione con la SEA s.r.l., un’importante società che trasforma, confeziona e commercializza prodotti ittici (in particolare seppia e molluschi). L’anno successivo ha preso il via, come outsourcing, la gestione di una piattaforma di distribuzione libri per la Opportunity Spa. Gli operatori della cooperativa svolgono attività di confezionamento libri, carico e scarico dei vettori. Dal 2009 In Opera coordina il centralino del Comune di Rimini e ha aperto un’officina riparazioni che svolge vari tipi

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I quaderni delle Opere Sociali

di manutenzioni (attrezzature ginniche, biciclette elettriche, ecc.).Lo sviluppo di In Opera in questi anni è stato possibile per il fatto che la cooperativa

è riuscita a coniugare l’esigenza di inserire nel mondo del lavoro persone appartenenti a “categorie protette” e i bisogni dei propri clienti: aziende pubbliche e soprattutto private. Lavorare per queste ultime con personale svantaggiato non ha causato una minore capacità di risposta, in termini qualitativi e quantitativi, alle esigenze del cliente ma invece ha mostrato la capacità di interpretare e saper rispondere a tali bisogni. Infatti, in molti casi la cooperativa ha iniziato una collaborazione con il cliente in modo marginale, ma poi quest’ultimo, soddisfatto di come il lavoro veniva svolto, ha aumentato la commessa oppure ha offerto nuovi servizi. Ovviamente tutto questo è stato possibile per la presenza di un’accurata e intensa attività di management da parte del c.d.a. e della sua dirigenza. Gli aspetti gestionali, organizzativi e strategici non sono lasciati al caso, ma curati fino ai minimi particolari. Come dice Simone Vezzani, direttore della cooperativa: «Noi facciamo un “esasperato” controllo di gestione e stiamo attenti il più possibile a tutti gli aspetti organizzativi e strategici, perché abbiamo un margine basso, per cui non possiamo permetterci degli sprechi o delle inefficienze». L’esperienza di In opera non solo smentisce quanto spesso è affermato sulle cooperative sociali, cioè che l’importante è fare la carità e che tutto il resto viene da sé, ma è stata proprio la natura e l’attività “sociale” svolta che ha richiesto, per continuare ad effettuarla, di strutturarsi e sfruttare adeguati strumenti di management.

Un’ultima osservazione va fatta sul nesso esistente tra In Opera e il consorzio Target Sinergie di cui essa fa parte. Il rapporto con quest’ultimo non è appena riconducibile agli aspetti formali, cioè la fornitura di una serie di servizi e la possibilità di acquisire importanti appalti, ma si basa sul fatto che le cooperative consorziate, sia sociali (di tipo A e B) sia di lavoro, si riconoscono parte del medesimo gruppo, pertanto tutte le decisioni strategiche e alcune fasi dell’operatività delle singole cooperative sono studiate e prese unitariamente e nell’interesse dell’intero gruppo-consorzio.

1.1.1 I dati principali

Nel 2009 hanno lavorato nella cooperativa 165 persone, mentre nel 2008 e 2007 erano state rispettivamente 101 e 96, con una crescita occupazionale nel triennio di riferimento pari al 72% circa (fig. 1.1). Rispetto alle quattro aree di business della cooperativa la ripartizione del personale è la seguente: 35 alla logistica, 26 all’igiene, 46 al call center e 58 al resto.

Nel 2009 il personale svantaggiato è stato pari a 39 unità, con un aumento di 14 unità rispetto al 2007. La distribuzione del personale svantaggiato nelle quattro aree di business è stata abbastanza omogenea, tranne per il call center che nel 2009 ha impiegato

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

14 addetti, mentre le restanti tre aree, logistica, igiene e “altro”, hanno rispettivamente dato lavoro a 10, 7 e 8 addetti. Anche per quanto riguarda la tipologia di disabilità, nel 2009 si è avuta una sostanziale uniformità nel numero di addetti, così ripartiti: disabilità fisica 13, psichica 10, ex detenuti 8, ex tossicodipendenti 8.

Fig. 1.1: Distribuzione del personale per categoria e settore di attivitàFonte: In Opera (2010, pag. 14)

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Tab. 1.1: Fatturato per area di business dal 2007 al 2009Fonte: nostra elaborazione da In Opera (2010, pag. 27)

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I quaderni delle Opere Sociali

Nell’ultimo esercizio considerato il fatturato complessivo è stato di 2.101.916 euro, con un incremento di circa il 62% rispetto al 2007 (tab. 1.1). Nel medesimo esercizio la ripartizione del fatturato si è concentrata principalmente su due aree di business: la logistica per circa il 33% del fatturato totale e gli altri servizi insieme ai parcheggi per il 30% circa. Queste due sole aree di business fatturano oltre il 63% del fatturato totale. Per quanto riguarda l’andamento nel periodo 2007-2009, la logistica conferma la sua rilevanza con una crescita pari al 61% circa, ma i parcheggi e gli altri servizi hanno mostrato un tasso di crescita molto rilevante aumentando rispettivamente dell’800% e del 300% circa. Igiene e call center sono stati abbastanza stabili incrementando il fatturato rispettivamente del 20% e del 14%.

1.2 Il “gruppo” di cooperative sociali Pinocchio

Il Gruppo Pinocchio di Rodengo Saiano (BS) è costituito da tre cooperative sociali: la Pinocchio Group c.s. onlus, cooperativa di tipo B che si occupa della gestione degli inserimenti lavorativi in ambito agricolo attraverso tre aziende (“Il Meleto”, la “Sant’Ambrogio” e “Il Ronchetto”); la Pinocchio s.c.s. onlus, cooperativa sociale di tipo A che gestisce i servizi sociosanitari attraverso comunità terapeutiche e psichiatriche, centri d’ascolto e residenze protette; e la Cartotecnica Pinocchio s.c.s. onlus, cooperativa di tipo B che effettua l’inserimento lavorativo in ambito non agricolo attraverso un laboratorio di cartotecnica, servizio trasporto disabili e servizio di lettura dei contatori.

La storia del gruppo è iniziata nel 1986, quando, a seguito dell’entrata in vigore della legge Gozzini3, la Caritas locale e le Ancelle della Carità offrirono uno stabile con sei ettari di terreno annesso e delle risorse finanziarie per un progetto che potesse coinvolgere dei detenuti in un programma di reinserimento lavorativo. Per questo il 6 maggio 1986 fu costituita la cooperativa di solidarietà Comunità Nuova (poi divenuta Pinocchio Group). Inizialmente nella struttura erano accolti, durante la giornata, dei giovani tossicodipendenti detenuti in semilibertà, che venivano poi riaccompagnati in carcere la sera. La comunità diurna si era posta come obiettivo il reinserimento nella società di tali persone attraverso la proposta di un lavoro.

Dopo i primi anni, il gruppo dirigente della cooperativa decise di affiancare al progetto lavorativo anche un progetto di tipo educativo, per la consapevolezza che il reinserimento lavorativo ha ragione d’essere se collocato al termine di un programma terapeutico-educativo in cui l’utente possa avere la possibilità di maturare una sua identità per affrontare le richieste della realtà senza ricorrere alla mediazione della droga. Il progetto si concretizzò nel 1992, dopo l’acquisto di un’azienda agricola (che oggi è “Il

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Meleto”) e la ristrutturazione del cascinale che ne faceva parte. I terreni dell’azienda erano destinati ad attività ortofrutticole, favorevoli alla realizzazione di attività ergoterapiche, svolte dalla Comunità Terapeutica Pinocchio (CTP). Nel 1994, i primi ospiti di CTP, concluso il proprio percorso, daranno vita al Centro di reinserimento sociale (CDRS), una dimora per coloro che non vogliono tornare alle proprie case di provenienza ma provare a “vivere da soli”.

Nel 1993, in obbedienza alla legge 381/914 appena entrata in vigore, Comunità Nuova si trasforma in Pinocchio Group c.s. onlus, cooperativa di tipo B, per gestire le attività lavorative e il reinserimento dei soggetti svantaggiati; nello stesso anno si costituiscono la Pinocchio s.c.s onlus, che si occupa dell’area sanitaria, e l’associazione Amici del Gruppo Tedos, che a tutt’oggi coordina le attività dei volontari che prestano servizio nelle diverse cooperative del gruppo.

Negli anni successivi l’utenza pian piano cambia volto: l’uso di droghe nuove e solo in apparenza “meno pericolose” aumenta le conseguenze psichiatriche e sanitarie della tossicodipendenza. Per questo nel 2003, si apre la Comunità psichiatrica residenziale a media protezione “Il Brutto Anatroccolo” (IBA), che accoglie i pazienti con doppia diagnosi e si costituisce la Cartotecnica Pinocchio s.c.s. onlus per il reinserimento, tramite le attività di legatoria e cartotecnica, soprattutto di persone con disabilità provocate da una tossicodipendenza prolungata.

Vengono anche avviate attività di sostegno alle famiglie dei tossicodipendenti, dapprima con il Centro di ascolto “La Porta” (2004), poi con la costituzione della Campus s.c.s onlus, che svolge progetti e servizi per famiglia, minori e prevenzione, in collaborazione con il centro di Solidarietà della Compagnia delle Opere di Brescia (2005).

Nel 2005 il gruppo Pinocchio e altre cooperative bresciane costituiscono la cooperativa sociale Il Mago di Oz, con il compito di organizzare un servizio tossicodipendenze, parificato a quello pubblico, detto Servizio multidisciplinare integrato (Smi). Il Smi, che nasce grazie alla nuova legislazione della Regione Lombardia ed è un’esperienza-pilota per l’Italia, effettua la diagnosi e orienta gli utenti verso i percorsi terapeutico-riabilitativi opportuni (ambulatoriali o residenziali).

Nello stesso anno il gruppo decide di potenziare il reinserimento tramite attività agricole prendendo in affitto nuovi terreni, tuttora in conduzione sotto forma di due aziende, “Il Ronchetto” (vigneti IGT) e “Sant’Ambrogio” (vigneti, ortofrutta e biomasse).

Nel 2007, prendono il via alcune nuove attività: il “Progetto energie alternative” che vede realizzare un impianto fotovoltaico in una delle aziende agricole, gestito dalla Cartotecnica Pinocchio; il laboratorio creativo “La Bottega di Pinocchio” (laboratorio di falegnameria di CTP); e un laboratorio teatrale in IBA.

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I quaderni delle Opere Sociali

1.2.1 La struttura organizzativa e i principali dati di bilancio

Dal punto di vista organizzativo, sebbene le tre cooperative godano di personalità giuridica autonoma e siano formalmente indipendenti l’una dall’altra, non lo sono dal punto di vista sostanziale ed effettivo. Le tre cooperative del “gruppo” Pinocchio sono infatti legate tra di loro dalla medesima storia e da un gruppo di persone, quelle che hanno la responsabilità della governance, che fanno da collante per l’organizzazione dell’intero gruppo. Così la struttura organizzativa non rispecchia l’indipendenza giuridica di ciascuna cooperativa ma la considerazione da parte del gruppo dirigente di essere parte della medesima storia e organizzazione nel suo complesso. Come mostra la figura 1.2, i responsabili di progetti e sviluppo, del personale, dell’area finanza, degli acquisti e qualità e la segreteria sono “centralizzati” e si occupano delle necessità di ciascuna delle tre cooperative. Il valore di tutto ciò è ancora più rilevante se si considera che le tre cooperative, dal punto di vista formale, non sono legate nemmeno dall’appartenenza ad un consorzio, sebbene tale scelta sia presente nei loro piani strategici. Ciascuna cooperativa ha la propria autonomia e funzionalità dal punto di vista operativo, ma tutte le scelte di tipo strategico e non rutinarie sono prese tenendo conto dell’andamento dell’intero gruppo.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Fig. 1.2: Organigramma del “gruppo” Pinocchio nel 2011Fonte: Pinocchio

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I quaderni delle Opere Sociali

Nel 2009 il fatturato del gruppo è stato di poco inferiore a 2.200.000 euro, mostrando una continua crescita nell’ultimo triennio preso in considerazione (tab. 1.2). La ripartizione percentuale del fatturato tra le tre cooperative è avvenuta nel modo seguente: Pinocchio il 46%, pari a circa un milione di euro; Pinocchio Group il 40%, pari a 874.000 euro; Cartotecnica il 14%, equivalente a poco più di trecentomila euro. Quest’ultima nel triennio 2007-2009, raddoppiando la propria quota di fatturato, ha mostrato il tasso di crescita maggiore, mentre la Pinocchio Group è rimasta pressoché stabile, con una crescita dell’8%, e la Pinocchio è cresciuta di poco meno del 30%. Nell’ultimo anno, la suddivisione del fatturato tra settore pubblico e privato ha rispecchiato il trend nazionale secondo il quale le cooperative di tipo B hanno una quota di clienti privati maggiore di quelle di tipo A: la Cartotecnica Pinocchio e la Pinocchio Group hanno avuto rispettivamente il 26% e il 36% del fatturato proveniente da privati, mentre la Pinocchio solo il 5%.

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Tabella 1.2: Fatturato e addetti del “gruppo” Pinocchio dal 2007 al 2009Fonte: Pinocchio (2009 e 2010)

Nel 2009 le tre cooperative hanno avuto 53 addetti dei quali 13 appartenenti alla categoria protetta. La ripartizione tra le cooperative è nel modo seguente: alla Cartotecnica lavorano 12 addetti, di cui 4 svantaggiati, alla Pinocchio 21 e alla Pinocchio Group 20, di cui 9 svantaggiati. Nel triennio considerato il numero di addetti è passato da 35 a 53. La Cartotecnica ha mostrato l’incremento maggiore, da 3 a 12, mentre la Pinocchio e la Pinocchio Group hanno avuto una crescita più contenuta, rispettivamente di 5 e 4 addetti.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

1.3 La cooperativa Solidarietà e Lavoro5

Solidarietà e Lavoro è una cooperativa sociale di tipo B nata nel 1995 a Busto Arsizio per iniziativa di alcuni soci di un’altra cooperativa, tuttora in attività, che effettua servizi alla persona. Un utente di quest’ultima espresse il desiderio di poter fare un lavoro “vero”, come tutti, non da disabile, e per rispondere a questo fu costituita Solidarietà e Lavoro (da ora in avanti indicata con SolLav). Lo scopo della cooperativa è quello di realizzare la piena integrazione degli individui svantaggiati, come prevede la disciplina riguardante la cooperazione sociale. L’art. 5 dello Statuto stabilisce che la cooperativa si adopera per «l’organizzazione e la gestione di attività lavorative e produttive [...] nelle quali realizzare l’integrazione lavorativa di persone socialmente svantaggiate, in misura non inferiore al 30% dei lavoratori». Lo sviluppo della cooperativa è avvenuto nell’area del Comune di Busto Arsizio che è caratterizzato dall’essere un territorio ad alta concentrazione d’imprese e queste, da subito, sono state un’importante occasione di lavoro per la SolLav. Anche in questo caso è contraddetta quella certa visione delle cooperative sociali come organizzazioni destinate a lavorare prevalentemente per il settore pubblico, perché non sarebbero in grado di raggiungere gli standard qualitativi solitamente richiesti dalle imprese for profit.

La produzione iniziale della cooperativa consisteva nella realizzazione di piccoli assemblaggi per conto terzi, principalmente per il settore idraulico, meccanico, elettrico, elettromeccanico e del confezionamento. L’attività era costituita da lavorazioni di tipo labour-intensive che non richiedevano l’impiego di macchinari o tecnologie avanzate. Oggi, invece, la produzione si è evoluta e sviluppata, sia dal punto di vista tecnologico che organizzativo, per la produzione di guarnizioni. L’evoluzione produttiva e manageriale della cooperativa è stata originata dalla stretta partnership tra la SolLav e la Vito Rimoldi S.p.A., azienda di Legnano produttrice di guarnizioni industriali.

La cooperativa opera anche in altri due business. Il primo ha come cliente un’importante azienda italiana operante nelle telecomunicazioni per la quale viene effettuata l’attività di rigenerazione di modem, mentre il secondo consiste nell’inviare agli utenti del cliente un nuovo dispositivo e nel contattarli, tramite call center, per verificarne l’avvenuto ricevimento. La presenza di relazioni di tipo formale e informale, per esempio con le associazioni di categoria o con altri imprenditori, ha favorito la nascita e lo sviluppo delle tre business unit. Come dice Luoni, «quando il cliente di una nostra business unit va dai suoi clienti “porta” anche noi nella sua valigetta, nel senso che quando riceve delle proposte che lui non è in grado o non è interessato a realizzare, ma potrebbe essere

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un’occasione per noi, il cliente propone il nostro nome. In molti casi questo ci ha permesso di ottenere un nuovo business. Quello che facciamo nello stabilimento di Olgiate è iniziato in questo modo». Tra i fattori che hanno contribuito alla crescita della cooperativa, oltre a quelli di tipo formale, hanno dunque giocato un ruolo molto importante gli aspetti per così dire informali, quali l’appartenenza a una rete di rapporti, la stima reciproca e la volontà di rischiare sulla libertà e iniziativa di ogni singolo individuo.

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Tab. 1.3: Dipendenti e fatturato della SolLav dal 2007 al 2009 Fonte: nostra elaborazione su bilanci d’esercizio della SolLav dal 2008 al 2010

Nel 2009 il personale dipendente alla SolLav è ammontato a 27 addetti, tra i quali 17 appartenenti alla categoria protetta delle persone svantaggiate. Queste costituiscono dunque oltre il 60% del totale del personale della SolLav, mostrando un assetto organizzativo e produttivo basato per la maggior parte sulla forza lavoro di questi e un utilizzo minore dei normodotati. Tale elevata percentuale impressiona ancora di più se si osserva che nello stesso anno la cooperativa ha venduto per circa il 70% del suo fatturato al settore privato che, come si sa, richiede ai propri fornitori standard qualitativi elevati. I 27 dipendenti sono stati ripartiti nelle tre business unit nel modo seguente: 10 all’assemblaggio, dei quali 7 svantaggiati, 9 alle lavorazioni meccaniche, dei quali 6 svantaggiati, 8 ai servizi, di cui 5 svantaggiati (tab. 1.3). Tra il 2004, anno dell’adozione del modello a partnership, e il 2010 il totale degli addetti è passato da dodici unità a ventotto, con un incremento di sedici unità in sei anni, mentre nel periodo precedente la partnership, tra il 1996 e il 2003, l’incremento era stato di sole sette unità in sette anni.

Il fatturato è ammontato, nel 2009, a oltre 700.000 euro ed è stato prodotto per 307.000 euro circa dall’assemblaggio, per poco meno di 210.000 euro dai servizi informatici e per il resto dalle lavorazioni meccaniche (tab. 1.3). Come osservato in precedenza, i due settori dell’assemblaggio e delle lavorazioni meccaniche, i cui clienti appartengono al settore privato, rappresentano con circa 500.000 euro il 70% del fatturato della SolLav. Tale fatturato negli ultimi tre anni considerati è cresciuto del 47% circa.

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1.3.1 L’assetto organizzativo e la struttura manageriale

L’assetto organizzativo e manageriale della cooperativa può essere visto e analizzato su due differenti livelli. Il primo è di tipo intra-aziendale, vale a dire che riguarda principalmente gli aspetti organizzativi in senso stretto all’interno della cooperativa, i rapporti tra l’alta direzione e il nucleo operativo. Il secondo è di tipo interaziendale e coinvolge le relazioni esistenti tra la cooperativa e il Consorzio Servizi Sociali (CSS). Di fatto il modello organizzativo è unico, ma questo può essere visto e analizzarlo dalle due prospettive.

Dal punto di vista meramente “interno” la governance e l’organizzazione della cooperativa sono strutturate nel modo seguente. Il Consiglio di amministrazione è composto da sette persone e il presidente Luoni, oltre a ricoprire la carica di direttore generale, svolge la funzione commerciale della cooperativa. Gli uffici di staff offrono i seguenti servizi: Qualità-Sicurezza-Privacy, Legale/Appalti, Commerciale/Progetti, ICT, Amministrazione e finanza, Personale, Affari generali. Tali servizi sono forniti in parte dal Consorzio Servizi Sociali, a cui la SolLav appartiene, e in parte da una società esterna della quale lo stesso Consorzio si serve. Ciascuna business unit ha un responsabile che settimanalmente si incontra con il direttore generale per mettere in comune i punti di forza e di debolezza dell’unità di business oltre che per impostare il lavoro della settimana.

L’adesione al Consorzio si caratterizza per una serie di aspetti formali (come le determinazioni contrattuali), ma soprattutto per quelli così detti immateriali (quali la fiducia, l’amicizia e la condivisione di ideali comuni). Il vertice strategico e gestionale della SolLav, così come quello delle altre cooperative, risiede all’interno del Consorzio, non formalmente ma di fatto. Il Consorzio, pertanto, è anche il luogo nel quale sono discusse e prese le decisioni strategiche delle singole cooperative. Alla base di questo meccanismo vi sono appunto l’amicizia e la fiducia reciproca che gli imprenditori delle cooperative consorziate condividono.

Oggi il Consorzio Servizi Sociali è costituito dalle cooperative sociali Solidarietà e Servizi, City Service, Solidarietà e Lavoro, Domus Opere ed Età Viva, che hanno tutte come mission la condivisione del bisogno delle persone, al quale rispondono attraverso la progettazione e realizzazione di servizi e offrendo opportunità di lavoro. Il CSS, oltre che con i propri soci, ha rapporti e legami stabili con il Consorzio Lepanto (consorzio sociale che si occupa di trasporto disabili e persone con ridotta mobilità negli aeroporti) e la Cooperativa Incontro (cooperativa di produzione e lavoro che si occupa di servizi ambientali e generali).

Il rapporto tra la SolLav, le altre cooperative consorziate e il Consorzio per lo sviluppo delle cooperative può essere sintetizzato in due aspetti. Il primo riguarda la fornitura di servizi specializzati da parte del consorzio, quali l’amministrazione e

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la finanza, la gestione del personale, la qualità, sicurezza e privacy, il servizio legale e appalti, gli affari generali, l’ICT, la formazione, la gestione eventi e i servizi generali. Non doversi occupare di questi servizi ha permesso alle singole cooperative di concentrarsi sui rispettivi core business. Da un lato, gli uffici di staff del Consorzio hanno ridotto, per le singole cooperative, i costi dei servizi utilizzati, grazie alla ripartizione dei costi fissi tra più soggetti; dall’altro i servizi offerti caratterizzano per avere un’elevata qualità e innovatività, che le singole cooperative, a causa delle piccole dimensioni, non sarebbero state in grado di ottenere.

Il secondo aspetto riguarda la gestione strategica e organizzativa delle cooperative. Queste hanno utilizzato il Consorzio come luogo per condividere e prendere insieme, tenendo conto di tutti i fattori particolari, le decisioni strategiche. Ad oggi, dal punto di vista dell’assetto strategico e organizzativo il Consorzio è costituito da tre divisioni: multiservice, disabili e minori. Alle singole divisioni non corrispondono direttamente le cooperative, ma i prodotti che queste offrono, per cui all’interno di una divisione si possono trovare più cooperative e alcune di queste fanno parte di più divisioni. Ogni divisione ha un suo responsabile, il quale coordina il lavoro della parte che riguarda la propria divisione indipendentemente dalle cooperative che ne fanno parte. Perciò, per esempio, il responsabile della divisione disabili supervisiona il lavoro della cooperativa Solidarietà e Servizi e della SolLav perché l’attività di entrambe ha a che fare con il medesimo target di persone, nonostante egli sia formalmente il presidente e direttore della sola Solidarietà e Servizi. All’interno delle divisioni ci sono i settori, con un responsabile di riferimento per ciascun settore, e dopo questi ci sono i prodotti-servizi. La SolLav fa parte del settore Lavoro. Per ultimo ci sono le unità operative, che nel caso della SolLav sono rappresentate dalle tre business unit descritte in precedenza: assemblaggi, servizi informatici e lavorazioni meccaniche. Questo assetto, che comprende e supera la formale gerarchia tra i vari componenti delle cooperative consorziate, ha permesso al CSS di svolgere la funzione di centro direzionale nel quale vengono, all’interno di un’amicizia, discusse e prese le decisioni rilevanti non solo delle singole cooperative, ma dell’intero gruppo. Le decisioni strategiche e i rischi che ciascuna cooperativa si assume sono presi in un’ottica di gruppo.

Luoni descrive come segue la sua esperienza all’interno del CSS: «Noi lavoriamo insieme non per una questione giuridica, ma per delle facce, per un rapporto che c’è tra di noi. Lavorare insieme è fondamentale, per cui io cerco sempre il confronto con le altre persone. Tutto questo non è il frutto di qualcosa di istituzionale, ma nasce dall’amicizia tra di noi, ci siamo organizzati in questo modo per aiutare l’operatività delle singole cooperative. Tra di noi i legami non sono solo di natura gerarchica. Questa modalità di condividere le nostre strategie mi permette di allargare l’orizzonte dei possibili scenari futuri di sviluppo in termini di opportunità, rischi e possibili minacce, perché gli altri, operando in altri settori e contesti territoriali, mi danno una visione più ampia rispetto al mio solo mercato o territorio».

I motivi del successo del CSS e delle sue cooperative sono molteplici. Su tutti

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

prevalgono lo spirito di fiducia reciproca e l’“abitudine” a rischiare l’uno sull’altro. Domenico Pietrantonio6, presidente della cooperativa Solidarietà e Servizi, che si occupa di servizi per persone disabili, afferma: «È una questione umana, che c’entra con la professionalità e la capacità d’intrapresa. Per noi metterci insieme ha voluto dire non tanto e non solo fare un progetto, ovvero mettere a punto delle strategie di sviluppo, ma partire dal fatto che eravamo amici, quindi da amici abbiamo scommesso innanzitutto sul lavorare insieme, sul nostro desiderio di crescere e svilupparci. In tutte le organizzazioni ci sono dei problemi, delle esigenze, ma quando ci si mette insieme avendo a cuore questo livello, il tutto è guardato da un altro punto di vista».

Questa amicizia ha avuto la capacità di intervenire per sostenere l’operatività che la gestione di un’impresa richiede. Daniele Giani7, presidente del CSS, testimonia lo spirito ideale e la forza umana di questi imprenditori: «Fin dall’inizio abbiamo anche investito nella formazione ed educazione del nostro personale, perché la professionalità ha un senso se esprime di più la nostra umanità, quindi noi puntiamo molto su questo. Per noi se uno lavora bene è più contento e quindi più se stesso, e quindi più umano. Se uno lavora male, come fa ad essere contento? Puntiamo molto anche sulla libertà delle persone, per questo noi facciamo la formazione solo per chi la vuole, perché se uno non vuole essere formato non può essere costretto. Noi vogliamo che la persona realizzi sempre più se stessa attraverso l’esercizio della propria libertà, ma libertà non vuol dire fare quello che ti pare, ma è una responsabilità. Questa deve essere libera, perché se è qualcosa che ti costringe non è vera responsabilità!».

1.4 Cometa Formazione s.c.s.Cometa Formazione nasce nel 2003 dall’esperienza di Cometa, luogo di accoglienza in cui ragazzi e famiglie sono introdotti al senso della vita nella semplicità dei gesti quotidiani e nel rispetto della storia di ognuno, per offrire ai giovani un’opportunità di crescita attraverso percorsi educativi e formativi.Come Cooperativa sociale, che opera nella formazione professionale e nei servizi per il lavoro, Cometa Formazione interviene nelle situazioni di abbandono scolastico e di difficoltà di apprendimento, spesso determinate da un disagio personale, familiare e/o sociale. L’offerta formativa è rivolta prevalentemente a ragazzi in Diritto Dovere d’Istruzione e Formazione (DDIF), oltre che a giovani e adulti mediante corsi di formazione e attività di orientamento all’inserimento lavorativo.

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Nel settembre 2009 è stata inaugurata la nuova sede, la Scuola Oliver Twist. La Scuola propone opportunità educative, di studio e di lavoro a ragazzi tra i 14 e i 18 anni, percorsi sperimentali di prevenzione e contrasto alla dispersione scolastica e fornisce strumenti adeguati per facilitare l’inserimento lavorativo. A tale riguardo la mission della cooperativa persegue la creazione di «un luogo di accoglienza ed educazione aperto al territorio per i ragazzi e le loro famiglie, che li aiuti a costruire un progetto personale e professionale coerente con la propria specificità. Per far ciò Cometa Formazione offre opportunità formative che tengono in adeguata considerazione la dimensione relazionale, affettiva, cognitiva e comportamentale, coniugano il percorso educativo con l’apprendimento di adeguati strumenti di formazione tecnica e avviano percorsi di accompagnamento e inserimento nel mondo del lavoro.

Nella formazione Professionale e nei Progetti sperimentali è prevista l’alternanza scuola-lavoro, momento qualificante del percorso formativo: rappresenta un’esperienza che interseca aspetti personali, professionali e di relazione, favorendo l’apprendimento integrato di conoscenze, abilità, comportamenti, compiti e attività»8.

La metodologia educativo-formativa di Cometa Formazione è dettata dalla concezione unitaria della persona e dei suoi bisogni, che supera la semplice dimensione scolastica e tiene conto di tutte le sue dimensioni personali e dell’intero contesto in cui è inserito (sociale, familiare e personale).

Un’ottica educativa unitaria, con al centro la persona, nella certezza che “chiunque è educabile”, non nel senso che per tutti valga la stessa modalità, ma in una dinamica di personalizzazione che si configura in compiti di apprendimento significativi, unitari e reali.

Nel corso degli anni, contemporaneamente all’attività formativa rivolta ai ragazzi, nella consapevolezza che l’educazione è un processo che dura tutta la vita, sono nati dei corsi di formazione permanente rivolti ad adulti, occupati e disoccupati. L’evoluzione delle attività di Cometa Formazione nell’ambito dell’educazione dei giovani si sta sviluppando nell’ambito di un progetto innovativo denominato Liceo Artigianale all’interno del quale la proposta è centrata su un apprendimento basato sull’esperienza come veicolo per introdurre e raggiungere la conoscenza. L’esperienza del lavoro, con la sua visibilità degli obiettivi e del prodotto delle proprie mani (per cui ci si senta capaci e protagonisti di ciò che si realizza), facilita il percorso dei ragazzi verso la conoscenza e l’apprendimento: dal “fare” si arriva al “conoscere”, dall’esperienza alla conoscenza.

Lo sviluppo di questa proposta nasce dalla stretta partnership educativa e formativa con le aziende e gli artigiani del territorio lariano, che si sono coinvolti nella progettazione dei percorsi di formazione non solo con l’accoglienza dei ragazzi in azienda, ma anche con lezioni e percorsi di accompagnamento educativo e formativo.

8 A. Savorana (a cura di), Il Liceo del lavoro. Il caso Scuola Oliver Twist, Guerini e Associati, 2010, p. 99.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Il coinvolgimento del mondo del lavoro ha introdotto nella scuola il fascino dell’esperienza reale, affiancandola all’approccio teorico che altrimenti, rimanendo isolato, sarebbe stato meno interessante per i ragazzi.

Nello specifico, le attività di formazione riguardano quattro aree. La prima è inerente alla formazione professionale e si realizza attraverso l’offerta di un corso triennale per operatore del settore tessile9, il corso triennale per addetto sala bar10, entrambi con la possibilità di quarto anno di specializzazione11, e il corso triennale per Operatore del legno.

La successiva area riguarda l’offerta di percorsi sperimentali di contrasto e recupero della dispersione scolastica (Liceo del Lavoro e Minimaster alberghiero). Si tratta di un sistema di interventi educativi integrati di alternanza scuola lavoro, che spaziano dal recupero degli apprendimenti e delle competenze operative alle attività di orientamento, rimotivazione e ricostruzione della persona. Queste attività sono prevalentemente rivolte a ragazzi di età compresa tra i 14 e i 18 anni.

La terza area riguarda la formazione di adulti (occupati, disoccupati e inoccupati). Questa è effettuata in collaborazione con aziende, università e enti di formazione. Si tratta di percorsi finalizzati all’aggiornamento e sviluppo delle competenze in ambito aziendale, per favorire la crescita professionale del lavoratore, il mantenimento della propria impiegabilità nelle evoluzioni del mercato del lavoro, in diversi settori.

L’area si occupa anche della formazione degli apprendisti e in questo ambito, in particolare, sono stati realizzati due percorsi di formazione per l’acquisizione di competenze trasversali e specialistiche per apprendisti provenienti dai settori del tessile, alberghiero e della ristorazione.

La quarta area è nata dalla necessità di proseguire l’accompagnamento dei ragazzi in uscita dalla Scuola anche durante l’inserimento lavorativo e la ricerca del lavoro, sono nati i servizi di accompagnamento e orientamento che nel tempo si sono aperti anche a giovani e adulti inoccupati, occupati e disoccupati, impegnati nella ricerca del lavoro e nell’inserimento lavorativo.

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I quaderni delle Opere Sociali

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Tab. 1.4: Inquadramento professionale del personale dipendente di Cometa Formazione s.c.s. nel 2009Fonte: Cometa Formazione (2010, pag. 26)

Per la gestione di una tale complessità Cometa Formazione si avvale di personale qualificato. Nel 2009 Cometa Formazione si è avvalsa di 129 collaboratori: di questi, 33 sono dipendenti, i restanti si ripartiscono tra collaboratori a progetto, 27, collaboratori occasionali, 34, collaboratori professionali, 32, stagisti e soci lavoratori per un totale di 3 persone. I lavoratori dipendenti, come mostra la tabella 1.4, variano la loro attività da quella di direzione, 3 in totale, a quella di project manager/coordinatore, docente, ecc.

1.4.1 Cometa

Cometa è una realtà di famiglie impegnate nell’accoglienza, nell’educazione di bambini e ragazzi e nel sostegno delle loro famiglie. Il punto di forza di Cometa è la sua storia che si è sviluppata nel tempo facendosi metodo e progetto capace di incontrare e rispondere ai bisogni che si sono via via presentati. Nell’esperienza di Cometa, la famiglia si scopre soggetto educativo di fronte alla dispersione delle vite dei giovani e capace di rilanciarli nella positività dell’esperienza umana, educando i ragazzi alla responsabilità attraverso la condivisione quotidiana di tutti i loro bisogni nel segno della bellezza come esperienza possibile: essere accolti in un luogo bello fa percepire ai ragazzi una preferenza inaspettata: tutta quella bellezza è stata fatta solo per loro. Recuperare questo gusto del bello e parteciparne non è un estetismo o un lusso, ma un fattore essenziale per il cammino educativo12.

Il “Mondo Cometa” ad oggi è composto da sette enti:

12 Il Liceo del Lavoro, op. cit., p. 97.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

�� Associazione Cometa dal 2001 offre servizi legati all’affido residenziale e diurno (4 Comunità familiari e 60 famiglie in rete) e al sostegno alle famiglie.

�� La cooperativa il Manto è costituita nel 2006 per offrire a bambini e ragazzi della scuola primaria e secondaria supporto scolastico e accoglienza diurna.

�� Dal 2003 Cometa Formazione svolge attività di orientamento e formazione a minori attraverso la realizzazione di corsi di formazione per l’assolvimento dell’obbligo formativo e percorsi sperimentali di orientamento e rimotivazione scolastica. Nel 2009 è stata inaugurata la nuova sede, la Scuola Oliver Twist

�� Associazione Sportiva Cometa dal 2002 opera e sviluppa la conoscenza e la pratica delle attività motorie e sportive anche nella dimensione ricreativa, culturale e formativa, mettendo al centro la crescita della persona.

�� Contrada degli Artigiani nasce nel 2008 come cooperativa di produzione e lavoro per introdurre i ragazzi al mondo del lavoro e si propone preminentemente di realizzare un contesto lavorativo artigianale, una bottega scuola, in cui inserire i giovani in percorsi di educazione attraverso il lavoro. Ad oggi le botteghe artigiane sono quattro: tappezzeria, falegnameria, decorazione e restauro.

�� Fondazione Cometa dal 2001 promuove attività sociali e di accoglienza mettendo a disposizione gli immobili acquistati, ristrutturati o realizzati per l’educazione di minori

�� Associazione Amici di Cometa, fondata nel 2006 da imprenditori con lo scopo di promuovere le attività e le iniziative di Cometa.

Cometa ha avuto in questi anni uno sviluppo assolutamente imprevisto e imprevedibile; il cuore di questa realtà è l’esperienza delle quattro Comunità Familiari che accolgono 24 bambini in affido, oltre ai 14 figli naturali13. Al centro è la famiglia come soggetto primo e principale dell’educazione e luogo in cui uno abbia la possibilità di fare il proprio cammino educativo secondo quello che è e non in virtù dell’ambito da cui proviene o di quello che altri si aspettano.

Cometa accoglie 90 bambini e ragazzi nelle attività educative diurne durante l’anno scolastico, 130 minori per quelle sportive e, durante il periodo estivo sono circa 200 in minori coinvolti nelle attività.

Inoltre, operando nella scuola secondaria di I e II grado, Cometa può raggiungere assai più ragazzi: nel 2009, ha accompagnato circa 1.000 adolescenti nel percorso

13 Il Liceo del Lavoro, op. cit., p. 103

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I quaderni delle Opere Sociali

scolastico, con attività di orientamento e rimotivazione allo studio. Oltre a questo, 260 ragazzi frequentano i percorsi professionali e sperimentali nella Scuola Oliver Twist di Cometa Formazione.

I percorsi educativi della scuola hanno coinvolto 250 aziende, 200 volontari e 250 operatori retribuiti; tra questi, gli specialisti di counseling e orientamento e quelli che supportano le attività educative, dipendenti della cooperativa Il Manto.

Nel 2007, Cometa era presente al Meeting di Rimini con una mostra sulle proprie attività. Questo ha permesso numerosi incontri e una più vasta conoscenza dell’opera. Nel solo anno 2009, 8.000 persone sono andate a visitare Cometa; all’inaugurazione della Scuola Oliver Twist ne erano presenti 2.000.

Cometa sta ampliando i propri spazi con il progetto “La città nella città” per l’accoglienza e l’educazione di giovani e famiglie. Questo prevede la costruzione, accanto alla Scuola Oliver Twist, di un edificio multifunzionale in cui troveranno posto nuove Comunità familiari, laboratori e botteghe artigiane e uno spogliatoio per il campo sportivo. Le attività coinvolgeranno circa 350 ragazzi e 400 operatori, retribuiti e volontari.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

2 Il management nelle cooperative sociali: aspetti introduttivi

2.1 Sulla natura della cooperativa sociale

I capitoli successivi metteranno in evidenza una serie di buone pratiche manageriali rivolte alle cooperative sociali. Per capire appieno tali suggerimenti occorre per prima cosa avere ben presente che cosa sono le cooperative sociali; solo così le proposte potranno essere recepite in modo adeguato.

Alla domanda “che cos’è una cooperativa sociale” si può rispondere in vari modi, cioè secondo vari punti di vista. Nella prospettiva giuridica le cooperative sociali hanno delle caratteristiche che le rendono simili alle cooperative tradizionali – per esempio entrambe non hanno scopo di lucro – ma allo stesso tempo si differenziano da queste per tre motivi principali (Mori, 2008). Innanzitutto, le cooperative sociali perseguono «l’interesse generale della comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini»14. Secondo, possono avere dei soci volontari che non partecipano alla distribuzione dell’utile cooperativo, pur potendo trovarsi in posizioni di controllo. Nella pratica, questo principio sancisce la separazione dei volontari in un gruppo dominante e un gruppo beneficiario. Per ultimo, vi è la possibilità, per le così dette cooperative sociali di tipo B, di avere tra i propri soci ordinari delle persone svantaggiate da inserire nel mondo del lavoro, come gli ex tossicodipendenti, gli ex detenuti, i disabili e tutte le categorie previste dalla normativa15. Questi aspetti fanno sì che oggi le cooperative sociali, dal punto di vista giuridico, costituiscono un unicum, perché non fanno parte né delle società né delle cooperative come descritte nel Libro V del Codice Civile, ma appartengono al così detto settore non profit. Eppure, anche all’interno di questo si distinguono per il fatto che possono svolgere attività d’impresa, per esempio di tipo agricolo, industriale, commerciale, oltre che l’erogazione di servizi per il raggiungimento del proprio scopo non profit. Si ricorda che gli altri soggetti che appartengono al settore non profit – per esempio, associazioni, fondazioni, organizzazioni di volontariato, enti ecclesiastici, istituzioni sanitarie, ecc.16 – non possono invece svolgere attività d’impresa, così come stabilito dal Libro I del Codice Civile17.

Se dal punto di vista giuridico è ben definito che cosa sono le cooperative sociali, da quello economico e organizzativo lo è di meno. Infatti, secondo l’immaginario comune

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I quaderni delle Opere Sociali

sia al mondo del for profit sia a quello del non profit (nonché al pubblico) le cooperative sociali non sarebbero delle imprese. Dal punto di vista economico, invece, con il termine “impresa” non si indica l’adozione di una particolare forma giuridica piuttosto che un’altra, ma lo svolgimento di un’attività economica professionalmente organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (Saraceno, 1979). L’impresa si caratterizza per avere un determinato oggetto (produzione, scambio, ecc.) e specifiche modalità di svolgimento di tale attività, dal punto di vista organizzativo, economico e professionale. Per esempio, la gestione dell’impresa deve avvenire con criteri che prevedano un’adeguata copertura dei costi con i ricavi e bisogna che tali ricavi siano principalmente provenienti dall’attività tipica dell’impresa. Se dunque le cooperative sociali si avvicinano al resto degli attori del settore non profit per la condivisione di un obiettivo che non è il lucro, se ne distanziano per quanto riguarda i mezzi che utilizzano per raggiungere tale obiettivo. Infatti, il mezzo principale utilizzato dalle cooperative sociali per il raggiungimento della propria mission sociale è proprio l’erogazione di servizi sotto forma di attività d’impresa. In questa ottica le cooperative sociali sono «un’impresa di servizi generalmente ad alto contenuto di relazionalità, capace di generare fiducia e di attivare reti sociali in funzione di un fine condiviso non egoistico. […] Anche quando l’attività principale dell’IS18 è di tipo industriale oppure legata al terziario per le imprese o, ancora, non rivolta direttamente alla singola persona, l’IS può essere ricondotta alla fattispecie dell’impresa di servizi» (Benevolo, 2003, pag. 3). L’ultimo caso nel brano citato fa riferimento alle cooperative di tipo “B”, che rientrano nella tipologia d’impresa di servizi per il fatto che erogano il servizio di trovare occasioni di lavoro a persone in situazione di svantaggio.

Il management, con tutti i suoi strumenti e regole, è una possibilità di aiuto a raggiungere meglio e prima l’obiettivo della cooperativa sociale, secondo le specificità di ogni realtà organizzativa. Ne consegue che l’utilizzo di appropriati strumenti di management non è un’opzione facoltativa per ciascuna realtà ma un’esigenza, per poter raggiungere nel modo migliore lo scopo dell’organizzazione. Il management è uno strumento, e in quanto tale può essere usato bene oppure male, ma in ogni caso rimane uno strumento indispensabile per la gestione, crescita e sviluppo di ogni realtà d’impresa, cooperative sociali incluse. Tuttavia, il concetto appena esposto è tutt’altro che chiaro e diffuso all’interno delle cooperative sociali, dove spesso certi strumenti economici non vengono utilizzati perché se ne ignora l’esistenza o, in altri casi, sono addirittura ritenuti non necessari per il raggiungimento della mission sociale. Come afferma la Codini (2007, pag. 99), «in numerose organizzazioni non profit è riscontrabile una forte separazione culturale e un giudizio assai differenziato fra le attività della gestione caratteristica dell’ente e le attività specialistiche di supporto a queste, fatto che raramente si verifica per le imprese. Le attività di supporto, infatti, sovente vengono percepite dai membri

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

dell’organizzazione non profit come di rango inferiore rispetto alle prime, perché non sono correlate direttamente alla “buona causa” dell’organizzazione non profit. La funzione amministrativa e quella di gestione del personale, per esempio, possono essere considerate meno “nobili” rispetto a quelle operative tipiche dell’organizzazione non profit».

Un altro aspetto che necessita di un breve chiarimento è la concezione di profitto che molti operatori delle cooperative sociali hanno. Questi, in molti casi, percepiscono il profitto come un elemento negativo o non necessario, invece che riconoscervi un indispensabile indicatore del buon andamento della cooperativa. In effetti la presenza di profitto all’interno di una cooperativa sociale non solo è indispensabile per poter perseguire l’attività nel tempo, ma è anche sintomo di una buona ed efficiente gestione organizzativa e strategica della stessa: «un profitto di qualità è frutto della capacità di innovare – a livello di prodotto, di processo, di assetto organizzativo, di rapporti di filiera – così da avanzare lungo gli assi della qualità, del servizio, della riduzione di costi. L’impresa sana non si adagia sulle conquiste raggiunte, ma continuamente si pone in discussione e rinnova se stessa» (CDO, 2010, pag. 6). Ciò non toglie che certe attività di una cooperativa sociale possano essere mantenute anche se in perdita, come alcune delle cooperative oggetto della presente ricerca testimoniano. Può accadere, infatti, che attività economiche di una cooperativa sociale o di un consorzio di cooperative sociali non riescano a “mantenersi” da sole, ma che comunque si decida di proseguirle perché inerenti alla mission della cooperativa. Tutto ciò deve comunque essere programmato e monitorato e avvenire all’interno di una strategia più ampia attraverso la quale riuscire a coprire le eventuali perdite. Per esempio, è ammissibile assumere alcune persone svantaggiate perché altrimenti non troverebbero altro impiego, anche se “generano” una perdita (vale a dire che il costo per farle lavorare è superiore al ricavato del loro lavoro); ma non è possibile ragionare in questo modo per l’intera cooperativa, perché non sarebbe in grado di perdurare nel tempo.

Un’ultima osservazione: spesso si sente parlare del bisogno di una maggiore managerializzazione delle cooperative sociali come se questo fosse un bisogno dettato dalla modernità dei tempi e dall’epoca in cui viviamo oggi. Va invece sottolineato che nel corso dei secoli ogni qualvolta un’opera di carità (non profit, diremmo oggi) si è sviluppata ed ha raggiunto grosse dimensioni è sempre stata gestita con gli strumenti di management più evoluti del tempo. La managerializzazione delle opere non profit non è un “problema” delle cooperative sociali del ventunesimo secolo, ma di tutte le opere di carità che si sono evolute e sviluppate nel corso dei secoli. Come evidenzia Cova (1997, pag. 32), «se si pensa che le citate istituzioni romane19 disponevano in quel periodo di entrate per 320.000 scudi l’anno, delle quali 192.000 di pertinenza degli otto ospedali, è di tutta evidenza il forte impegno richiesto per l’amministrazione di patrimoni formati da terreni, crediti verso i pubblici e i privati, impieghi in mutui ed è altrettanto evidente come tutto

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questo comportasse specifiche competenze professionali se si voleva che quelle istituzioni fosse ben amministrate».

In conclusione va osservato – potremmo dire come prima tipologia di best practice – che all’origine di una cooperativa sociale gestita in modo efficiente e avanzata dal punto di vista manageriale vi sono delle persone che riconoscono l’utilità e la bontà di questi strumenti. In altre parole, solo se chi ha la responsabilità gestionale e strategica di ciascuna cooperativa è consapevole del bisogno e dell’utilità degli strumenti di management, questi potranno essere realmente efficaci per ciascuna opera e le best practices presentate nei successivi capitoli potranno essere recepite. Diversamente non ne saranno colti i segni caratteristici nella loro profondità. Pertanto la prima best practice consiste nel concepire, dal punto di vista economico, la propria cooperativa sociale come un’impresa e come tale bisognosa di strumenti adeguati ad essa. Questa consapevolezza è tutt’altro che scontata, perché spesso all’interno delle cooperative sociali si crede che la buona volontà dei singoli basti a tenere in piedi la cooperativa: invece «perché una realtà di solidarietà si sviluppi in modo efficace non è sufficiente un generico spirito di altruismo, occorrono anche grande professionalità e forte capacità di innovazione» (Vittadini, 1997, pag. 16).

2.2 Modelli di management delle cooperative sociali

Prima di affrontare i capitoli successivi, inerenti alle best practices evidenziate dalla ricerca condotta, occorre un’ultima precisazione, necessaria per recepire in modo corretto quanto verrà detto in seguito. Le best practices di management provenienti da una organizzazione non possono essere seguite alla lettera e in modo acritico come se fossero delle verità assolute, per due motivi. Prima di tutto perché in quanto esperienza viva di una data organizzazione non è detto che siano replicabili in altre. Poi, perché ciò che ha funzionato bene in una cooperativa potrebbe non essere opportuno e adeguato in altre realtà o addirittura creare delle difficoltà. Ciascuna cooperativa sociale ha una propria storia, un contesto territoriale di riferimento, un certo ambito di azione, un proprio prodotto-servizio e soprattutto le persone che l’hanno costituita. Tutti questi fattori fanno sì che ciascuna organizzazione sia non ripetibile ed è bene così, ma appunto ciò comporta che quello che funziona per un’organizzazione può non funzionare per altre. Eppure, avendo chiaro tutto ciò, rimane vero che osservando delle cooperative sociali “di successo” è possibile da queste imparare come hanno affrontato certi problemi, come si sono organizzate per soddisfare meglio le esigenze dei propri clienti, oppure come sorvegliano costantemente l’andamento dei costi, e tanto altro. Tutto ciò, se osservato in modo critico e paragonato con il contesto personale e storico di ciascuna cooperativa, può allora diventare un aiuto.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Per facilitare tale lavoro di osservazione e paragone tra le best practices proposte e la situazione della propria cooperativa sociale, saranno presentati tre modelli di management delle cooperative sociali rielaborati sulla base della ricerca condotta e della letteratura disponibile (Borzaga & Depedri, 2003; Codini, 2007; Costa & Nacamulli, 1997). Secondo tali modelli c’è, o dovrebbe esserci, una certa corrispondenza tra le scelte effettuate in ambito manageriale in materia di strategia, struttura organizzativa, funzione commerciale, ecc. e le caratteristiche della singola cooperativa. La classificazione presentata, pur riconoscendo le evidenti peculiarità di ogni singola impresa, propone una serie di similitudini che accomunano tutte le cooperative sociali che si posizionano all’interno del medesimo modello. Si vuole sottolineare che non esistono a priori degli strumenti di management migliori di altri, ma che la loro scelta dipende dalle caratteristiche dell’impresa in termini di numero di addetti, fatturato, complessità nei rapporti con i clienti e fornitori e così via. Pertanto, sapere in quale tipologia di modello la propria cooperativa si colloca è un utile aiuto per paragonare gli strumenti proposti con quelli adottati. Là dove non si verificasse corrispondenza tra questi due elementi, allora le best practices che saranno presentate risulteranno un utile strumento per rimodellare la propria struttura strategica e organizzativa sulla base di quanto proposto. Per l’analisi, e in modo soltanto esemplificativo20, si farà riferimento alla classificazione seguente: piccola è una cooperativa con meno di 15 addetti e con un fatturato inferiore a 500.000 euro; media è quella fino a 50 addetti e 1000.000 euro di fatturato; oltre questi valori, la cooperativa è considerata grande.

Il primo modello, l’aziendalizzazione implicita, si caratterizza per essere rappresentativo di cooperative sociali di piccole dimensioni in termini sia di fatturato sia di numero di addetti (tab. 2.1). Il prodotto-servizio offerto è unico o è presentato in poche varianti, in ogni caso solitamente si opera all’interno di un unico business. Il contesto territoriale di riferimento, per quanto riguarda i clienti-utenti, i fornitori e le istituzioni con cui si hanno dei rapporti, è localizzato e circoscritto in un ambito geografico ben definito e di limitate dimensioni: uno o pochi comuni, in ogni caso non oltre la propria provincia. La concorrenza non presenta grosse problematicità e il mercato è abbastanza stazionario e poco dinamico. Le cooperative che presentano le caratteristiche appena evidenziate solitamente non effettuano una programmazione strategica di medio-lungo periodo e le decisioni, anche quelle di tipo strategico, sono prese solo in base all’esperienza pregressa. Sono effettuate operazioni a basso contenuto di rischio, ma anche a basso tasso di crescita e di sviluppo dell’impresa. La struttura organizzativa si caratterizza per essere altamente informale e non specializzata: all’interno della cooperativa “tutti sanno fare un po’ di tutto” a seconda dei problemi e delle situazioni che emergono. Il nucleo operativo è privo di autonomia decisionale indipendente dal vertice strategico, il quale è

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I quaderni delle Opere Sociali

consultato anche per le decisioni di tipo operativo. Sono pressoché assenti una struttura commerciale formalizzata e, spesso, una generica cultura commerciale,

Il modello dell’aziendalizzazione esplicita si caratterizza per essere costituito da cooperative di medie dimensioni in termini di fatturato e addetti (tab. 2.2). Queste offrono più prodotti-servizi con un elevato grado di differenziazione, a seconda delle caratteristiche dei propri clienti-utenti. Inoltre, sono solitamente cooperative sociali diversificate per cui operano in più business con più prodotti. Il contesto geografico di riferimento è solitamente la propria regione o quelle limitrofe. La concorrenza è vivace e la gestione delle relazioni con i fornitori e i clienti-utenti è abbastanza complessa in termini qualitativi e quantitativi. Le cooperative di questo genere fanno già uso di meccanismi di pianificazione e programmazione strategica a medio e lungo termine, anche se spesso sono fortemente influenzate dalle emergenze, che le portano a modificare il piano strategico per rispondere al cambiamento. Le risorse umane fanno parte di una struttura organizzativa ben definita all’interno della quale i compiti sono delineati e spesso agevolati dall’uso di routine organizzative. Con tale termine si intendono delle regole di comportamento prefissate per la risposta a problemi emergenti; praticamente, l’impresa adotta delle regole di comportamento affinché l’organizzazione sia in grado di sapere che cosa fare di fronte a degli imprevisti. Ulteriore caratteristica della struttura organizzativa di questo tipo di imprese è la presenza di manager tra il vertice strategico, che solitamente coincide con il gruppo o il singolo fondatore, e la base operativa. Per ultimo, l’impresa riconosce l’aspetto commerciale come rilevante, tanto da effettuare degli investimenti saltuari in comunicazione, ma di fatto non vi è una funzione aziendale dedicata e l’operatività è demandata al vertice strategico.

L’ultimo modello, quello dell’aziendalizzazione avanzata, rappresenta imprese di grandi dimensioni (tab. 2.3). Queste, ovviamente sono differenziate, cioè offrono il medesimo prodotto-mercato in più combinazioni, e solitamente sono diversificate, vale a dire che la loro attività si concentra in più aree di business. Il contesto di riferimento è il territorio nazionale, per cui la concorrenza e i rapporti con i propri clienti e fornitori, nonché le istituzioni pubbliche, richiedono molte attenzioni, risorse e personale appositamente dedicato. Dal punto di vista organizzativo la cooperativa si struttura in un modello nel quale vi sono manager a capo delle varie aree funzionali e all’interno di queste vi è del personale specializzato, professionale e competente. La programmazione strategica è legata a logiche e meccanismi di pianificazione, con un orizzonte temporale di medio-lungo periodo e il monitoraggio è effettuato in modo costante e sistematico per verificare i risultati effettivamente raggiunti. La parte commerciale trova spazio all’interno di una vera e propria funzione aziendale, con personale dedicato e risorse finanziarie investite.

Un’ultima osservazione, sempre per capire l’importanza e l’utilità dei modelli di management appena presentati, va fatta riguardo al concetto di path dependency. Con tale termine si intende il fatto che l’esperienza passata e accumulata dagli individui

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

e dalle organizzazioni influenza le loro scelte. Questo è ovvio, certamente: ma lo è meno il fatto che in molti casi tali scelte sono influenzate dalla storia pregressa in modo negativo. Infatti, l’esperienza esistente all’interno delle organizzazioni influenza in maniera significativa le possibilità di cambiamento future e tende a privilegiare forme di trasformazione incrementale dell’esperienza passata piuttosto che privilegiare cambiamenti di tipo radicale. Così i mutamenti radicali sono rari e ciò che si osserva più facilmente nella realtà empirica di molte imprese è la continuità tra il passato e il futuro piuttosto che l’emergere di cambiamenti radicalmente innovativi. Questo fenomeno si chiama path dependency. Frasi del tipo “Abbiamo fatto sempre così!” oppure “Perché mai dovrei cambiare se fino a oggi ha sempre funzionato?” esprimono, senza dubbio, una certa verità, per esempio perché certi modi di operare hanno effettivamente permesso a un’impresa di crescere e svilupparsi. È anche vero, però, che questo atteggiamento può bloccare la crescita futura e perfino “rovinare” un’impresa. A mano a mano che una struttura organizzativa cresce, sempre più spesso le regole che l’hanno sviluppata all’inizio possono non essere più valide. Per esempio, se agli inizi della vita di un’impresa il suo fondatore era in grado di controllare e gestire tutti i suoi aspetti, in una dimensione media d’impresa questo non è più possibile. Il rischio, molto più frequente di quanto si possa credere, è quello di non accorgersi dell’accadere di tutto ciò. Per questo motivo è necessario che ciascuna organizzazione periodicamente – per esempio ogni cinque anni, o prima se il fatturato o il numero degli addetti cresce molto – rivaluti sia la propria struttura organizzativa sia le prassi manageriali utilizzate, con un approccio fortemente critico verso lo status quo al fine di individuare eventuali punti critici e quindi di miglioramento. Su questo il confronto con altre imprese o consulenti esterni può essere un importante aiuto per individuare le criticità interne. Infatti, uno dei problemi della path dependency è proprio il fatto che un imprenditore, essendo abituato a fare sempre in un certo modo, può non accorgersi dei cambiamenti necessari per continuare a crescere. Così si può verificare il caso di una cooperativa sociale che ha le caratteristiche di un modello di aziendalizzazione esplicita, ma utilizza ancora gli strumenti e la struttura organizzativa del modello ad aziendalizzazione implicita.

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Tab.2.1: Il Modello dell’aziendalizzazione implicitaFonte: Nostra elaborazione

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

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Tab. 2.2: Il Modello dell’aziendalizzazione esplicitaFonte: Nostra elaborazione

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I quaderni delle Opere Sociali

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Tab. 2.3: Il Modello dell’aziendalizzazione avanzataFonte: Nostra elaborazione

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

3 Formazione, pianificazione e controllo delle strategie

3.1 Tipologie e processo di formazione delle strategie delle imprese

Per strategia d’impresa si intende l’insieme delle decisioni adottate e delle azioni da eseguire per raggiungere degli obiettivi di medio e lungo periodo all’interno di un ambiente definito. Di fatto tutte le organizzazioni nel momento in cui prendono delle decisioni lo fanno alla luce di una strategia, che sia esplicita o meno. In altre parole, tutte le azioni intraprese sono sempre il frutto di una decisione presa in precedenza, che prende il nome di scelta strategica. Anche quando un’impresa si muove sembrando che non abbia una strategia ben definita, in realtà la decisione che la fa muovere è una scelta strategica, cioè quella di non avere una strategia definita. Così si vuole affermare che ogni scelta d’impresa è il frutto di una decisione strategica fatta in precedenza. Pertanto, visto che la strategia è alla base delle azioni effettuate dalle organizzazioni è bene, affinché ciascuna impresa effettui le scelte giuste, che la strategia sia il frutto di un processo meditato, e non improvvisata, e che sia pianificata e controllata nel tempo.

Le strategie aziendali possono essere di tre tipi (Ferrucci, 2000): di crescita, competitive e collaborative. Le strategie di crescita sono, come indica la parola, quelle che portano ad una crescita dimensionale dell’impresa, quali la diversificazione e l’integrazione verticale. La diversificazione consiste nell’allargamento del processo produttivo ad una nuova combinazione di prodotto (o servizio) e mercato servito. È un esempio di tale strategia il gruppo Pinocchio21 che offre l’opportunità dell’inserimento lavorativo agli ex tossicodipendenti dopo aver offerto il servizio per il recupero di persone in situazione di tossicodipendenza, realizzato attraverso la Comunità terapeutica Pinocchio. In questo caso la diversificazione consiste nell’operare in due settori tra loro collegati, ma diversi per finalità e utenti da coinvolgere.

La strategia d’integrazione verticale, assai più rara all’interno del mondo delle cooperative sociali, è invece l’allargamento del proprio processo produttivo o di erogazione del servizio all’interno della medesima filiera tecnologica produttiva22.

Le strategie competitive si basano sulla capacità delle imprese di realizzare un profitto superiore a quello dei concorrenti. Tale risultato può essere ottenuto con vari tipi di

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azione. La leadership di costo è la capacità di un’impresa di produrre beni o erogare servizi ad un costo unitario inferiore a quello dei concorrenti. La differenziazione si ha quando un’impresa riesce a commercializzare un prodotto con caratteristiche (tangibili e intangibili) che i clienti riconoscono superiori a quelle dei prodotti simili offerti dai concorrenti. La focalizzazione consiste «nella ricerca di una posizione di vantaggio assoluto nei costi o di differenziazione in un’area molto circoscritta (una nicchia) del mercato» (Fontana & Caroli, 2006, pag. 121). L’innovazione è l’ottenimento di un vantaggio, rispetto ai concorrenti, dato dallo sfruttamento di un nuovo prodotto, processo produttivo, organizzativo, ecc. Per ultimo si ha l’internazionalizzazione, che consiste nel vendere o produrre beni o servizi all’estero. Va detto che quest’ultima tipologia di strategia è pressoché inesistente nel mondo delle cooperative sociali.

L’ultimo raggruppamento è quello delle strategie collaborative. In questo caso le imprese cercano di ottenere un vantaggio operando in collaborazione più o meno stretta con altri soggetti. Tali collaborazioni, dette anche alleanze fra imprese, possono essere formali, per esempio attraverso la costituzione di una joint venture, oppure informali, cioè basate sulla reciproca fiducia. Le alleanze, inoltre, si distinguono in base ai partecipanti all’accordo: si possono avere alleanze di tipo orizzontale, cioè tra imprese operanti nel medesimo settore (in altre parole, tra concorrenti), verticale, tra fornitore e cliente, e laterale, cioè tra soggetti appartenenti a settori e filiere produttive differenti. Per esempio, la Solidarietà e Lavoro ha sviluppato una nuova macchina che utilizza la tecnologia waterjet. Tale risultato è stato ottenuto attraverso una duplice collaborazione, di tipo verticale, tra la SolLav e il proprio cliente Vito Rimoldi s.p.a., e di tipo laterale per il coinvolgimento del Politecnico di Milano.

Lo sviluppo delle strategie di tipo collaborativo tra cooperative sociali, per esempio attraverso la costituzione di un consorzio o la partnership con il proprio cliente, è un terreno fertile sul quale basare la crescita delle cooperative sociali. Per questo motivo nei paragrafi successivi, all’interno delle best practices presentate, tale punto sarà ripreso ed approfondito.

C’è un ultimo aspetto da sottolineare: in base a quali criteri le imprese dovrebbero scegliere la strategia da adottare, tra le varie possibilità esistenti? Sinteticamente si può dire che i fattori che più influenzano tale scelta sono due: l’ambiente competitivo di riferimento, con le sue peculiarità, potenzialità e difficoltà, e le caratteristiche dell’impresa, in particolare le risorse possedute. Per ambiente competitivo di riferimento si intende il luogo dove «operano gli attori e si manifestano le forze che direttamente interagiscono con l’attività economica dell’impresa, contrastando o favorendo lo svolgersi delle diverse componenti di questa attività» (Fontana & Caroli, 2009, pag. 22). Rispetto a questo le imprese devono fare attenzione a cinque differenti aspetti (Porter, 1991): l’intensità e le caratteristiche della concorrenza nel settore, la possibilità che imprese nuove entrino nel settore, la concorrenza indiretta esercitata da beni o servizi aventi funzioni d’uso simili, il potere contrattuale dei fornitori e quello dei clienti.

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Figura 3.1 Strategie aziendaliFonte: nostra elaborazione

Tra le caratteristiche, con il termine risorsa si intendono tutti quei fattori, sia tangibili sia intangibili, posseduti dalle imprese e che ne determinano i punti di forza e di debolezza in un determinato momento (Caves, 1980). Ne è un esempio il possesso di marchi, know-how tecnologico, skills, routine organizzative, ecc. In particolare le risorse delle imprese possono essere a loro volta suddivise in quattro differenti tipologie (Grant, 2001): materiali, immateriali, umane e finanziarie. Le prime includono la tecnologia utilizzata dall’impresa e tutti gli strumenti e i beni tangibili in possesso dell’impresa per la realizzazione del processo produttivo. Le seconde sono costituite da quegli aspetti che danno valore all’impresa ma non sono tangibili, come è il caso della conoscenza. I brevetti, pur avendo ovviamente una loro fisicità, rientrano in questa tipologia di risorse appunto per l’aspetto immateriale che rappresentano. Le risorse umane sono rappresentate da tutte le persone che lavorano all’interno dell’impresa. Per ultimo vi sono le risorse finanziarie. È importante che ciascuna impresa, nel decidere il proprio assetto strategico, sia in grado di coniugare nel modo migliore le risorse possedute con le caratteristiche e le esigenze del mercato. Così facendo viene fuori quello che contraddistingue tutte le imprese di successo, come mostrano i casi presentati nel volume, e cioè il possesso di un vantaggio competitivo duraturo. Infatti, per operare in un mercato, e per rimanervi con successo nel tempo, non è sufficiente produrre beni

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o erogare servizi, ma occorre farlo meglio dei propri concorrenti; solo così ciascuna impresa è destinata a crescere e a rafforzarsi nel tempo.

3.2 La pianificazione e il controllo strategico: aspetti generali

La strategia, una volta decisa, deve assumere la forma di un esplicito piano strategico, altrimenti rischia di rimanere un insieme astratto di idee prive degli aspetti formali necessari a concretizzarle. Il piano strategico è un documento scritto che contiene gli obiettivi, le azioni da adottare per raggiungerli, le unità organizzative da coinvolgere e le risorse da impiegare nel medio-lungo periodo23 per realizzare la strategia scelta.

La pianificazione strategica si basa su sei aspetti principali. Primo, deve avere la forma di un documento scritto. Poi, deve essere sistematica, cioè individuare e spiegare in modo dettagliato tutte le fasi previste. Terzo, deve avere un orizzonte temporale di medio-lungo periodo, pur prevedendo al suo interno il raggiungimento di obiettivi intermedi di breve periodo. Quarto, richiede il coinvolgimento della struttura organizzativa e questo spesso implica dei cambiamenti in essa: infatti non è possibile raggiungere certi obiettivi strategici se la struttura organizzativa non è adeguata. Poi, devono essere descritte le strategie da utilizzare per raggiungere ogni obiettivo intermedio e infine il piano deve considerare e dettagliare le implicazioni di ordine operativo. In altre parole, il piano strategico deve essere uno strumento sulla base del quale poter impostare l’operatività dell’impresa. I contenuti della pianificazione devono arrivare fino ad impostare e controllare le decisioni operative da prendere quotidianamente a livello organizzativo.

Il documento di pianificazione strategica ha anche una funzione di comunicazione importante, oltre che per l’organizzazione interna, per gli stakeholder esterni, quali le istituzioni pubbliche del territorio, gli istituti di credito, altri possibili finanziatori e tutti coloro che possono essere interessati dallo sviluppo dell’impresa. Questi soggetti, infatti, da tale documento possono ricavare le informazioni necessarie a capire dove e come l’impresa vuole dirigersi nei prossimi anni.

Il controllo strategico ha l’obiettivo di monitorare periodicamente la congruenza tra l’andamento dell’impresa, in termini di risultati raggiunti, e gli obiettivi stabiliti nel piano strategico. Per costruire un adeguato sistema di controllo occorre un altrettanto efficace sistema informativo interno. Infatti, solo se quest’ultimo è sufficientemente sviluppato sarà possibile conoscere e misurare i cambiamenti intercorsi a livello organizzativo e strategico. Va evidenziato, a questo proposito, che il sistema informativo deve essere in grado non solo di fornire al gruppo dirigente i dati sull’andamento dell’impresa, ma di tradurre tali dati in informazioni leggibili e interpretabili. Oggigiorno, infatti,

23 Cioè, dai tre ai cinque anni.

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quanto più le organizzazioni sono grandi, tanti più dati hanno al loro interno riguardo a tutti gli aspetti della gestione, dal rapporto con il personale a quello con i fornitori e i clienti. Tuttavia c’è bisogno che tali dati siano trasformati in informazioni leggibili e interpretabili per poter prendere le decisioni adeguate.

Il processo di controllo va utilizzato in un’ottica di miglioramento continuo: dalle verifiche effettuate, infatti, potrebbero emergere delle criticità tali da richiedere azioni correttive del piano strategico.

Il piano strategico non deve essere visto come un documento da attuare a tutti i costi, ma invece come la strada scelta dall’impresa per arrivare agli obiettivi scelti. Questi nel corso del tempo possono cambiare, oppure possono cambiare le modalità per raggiungerli. L’importante è che il cambiamento apportato sia sempre concepito all’interno di una strategia più grande e non sia appena la reazione a un problema emergente. Nel paragrafo successivo sarà approfondita al riguardo una best practice di aiuto rispetto a un comportamento distorsivo utilizzato spesso all’interno delle cooperative sociali.

3.3 Alcune best practices in ambito strategico

I. La mission come strumento di partecipazione e condivisione reale della strategia e della sua attuazione.

Oggigiorno all’interno del mondo delle cooperative sociali si è abbastanza affermato l’uso della mission come strumento di comunicazione di valori e obiettivi. Tuttavia, ci sono ancora degli aspetti al riguardo che debbono essere approfonditi, quali le modalità di identificazione della mission, come formularla e come ridefinirla con il passare del tempo. Praticamente, al di là di quanto viene formalmente dichiarato, sembra che il tema della mission, all’interno delle cooperative sociali, debba essere ancora approfondito nei suoi aspetti più operativi, perché tale strumento è un’indispensabile bussola per dirigere, con l’intera organizzazione, l’impresa verso gli obiettivi strategici.

Brevemente, per mission si intende «l’insieme dei valori e degli obiettivi che un’organizzazione […] dichiara alla base delle proprie scelte e delle proprie modalità di lavoro per la produzione di beni e/o l’erogazione di servizi» (Taraschi & Zandonai, 2006, pag. 48). La mission è un documento che rispecchia i valori e i principii a cui si rifà un’organizzazione, nonché gli obiettivi che si vogliono raggiungere nel medio-lungo periodo e i mezzi che si decide di adottare. In altre parole, la mission sintetizza le attività svolte e quelle che si vorranno svolgere. Perché possa avere una reale efficacia e incisività per l’organizzazione, tale dichiarazione ha bisogno non appena di essere enunciata ma di essere condivisa il più possibile da tutta l’impresa. Solo così sarà auspicabile un suo reale compimento.

A tale riguardo si suggeriscono cinque fasi per arrivare alla formulazione di una

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mission il più possibile condivisa da tutta l’organizzazione.1. Incontro introduttivo d’impostazione del lavoroIn questa prima fase occorre suddividere le responsabilità operative e di risultato, individuando le persone che poi svolgeranno, lungo il processo di formazione della mission, le varie fasi e all’interno di esse gli specifici compiti. Occorre inoltre stilare un elenco degli stakeholder, interni ed esterni all’organizzazione, che si vorranno interpellare per enunciare o riformulare la mission aziendale. 2. Analisi dei documenti esistenti Prima di effettuare nuove proposte occorre fare un’accurata analisi dei documenti riguardanti l’impresa già esistenti a livello interno ed esterno, quali materiali divulgativi della propria storia e delle attività svolte, i bilanci sociali, le carte dei servizi, ecc.3. Somministrazione di un questionario La fase successiva prevede la somministrazione di un questionario agli stakeholder interni, quali i soci, i dipendenti e i volontari. Lo scopo è di comunicare, da un lato, l’intento dell’iniziativa e, dall’altro lato, venire a conoscenza delle motivazioni e delle aspettative degli intervistati. Questo ultimo aspetto deve essere ben studiato per far emergere, da parte di chi compila il questionario, suggerimenti e informazioni sullo stato attuale delle cose e sulla direzione da prendere in futuro. Il questionario, per facilitare l’emergere di opinioni anche contrastanti con l’organizzazione, deve essere anonimo. Le domande, dopo aver chiesto informazioni generali su chi compila il questionario, come l’età per classi, il ruolo ricoperto all’interno dell’organizzazione, ecc., possono vertere sui seguenti aspetti: gli elementi di insoddisfazione e soddisfazione rispetto alla funzione svolta, i punti di forza e di debolezza dell’organizzazione, le cose che andrebbero cambiate e quelle da mantenere, gli elementi prioritari per la mission. 4. Interviste mirate all’interno e all’esterno dell’organizzazione La quarta fase prevede l’effettuazione di una serie di interviste di approfondimento ai componenti dell’organizzazione, selezionati in modo da avere una congrua rappresentatività di tutti gli ambiti organizzativi. In questa fase sarà anche utile coinvolgere, sempre attraverso interviste, gli stakeholder esterni, quali, per esempio, i rappresentanti degli enti locali, i fornitori, i clienti. L’importante è che i soggetti coinvolti percepiscano l’intervista come un modo di essere partecipi alla crescita, miglioramento e sviluppo della cooperativa sociale. Come se loro stessi facessero parte dell’organizzazione. In altre parole questa fase, oltre a recepire informazioni, deve raggiungere l’obiettivo di coinvolgere e far sentire parte dell’organizzazione, oltre che il personale interno, gli stakeholder esterni. 5. Formulazione della dichiarazione di missionTutti i materiali raccolti, una volta terminate le quattro fasi precedenti, vanno rielaborati e disaggregati per aree tematiche, in base alle aspettative e ai nodi critici

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emersi. Successivamente, gli spunti ricevuti potranno essere sintetizzati in un report finale che oltre a contenere tutti gli aspetti emersi in generale, conterrà la proposta della dichiarazione di mission. Questa sarà successivamente consegnata agli organi direttivi i quali provvederanno a formulare la definitiva dichiarazione di mission da sottomettere all’assemblea dei soci per la sua definitiva approvazione.

Con l’esplicitazione di queste cinque fasi si è voluto prima di tutto mettere in luce il fatto che ciò che veramente rende la mission uno strumento utile per impostare le strategie d’impresa e coordinare l’operatività quotidiana è che il processo di formulazione sia effettuato in modo partecipato tra i componenti interni ed esterni all’organizzazione. Così che quando andrà perseguita, la mission sarà sentita come parte di tutti i portatori di interesse della cooperativa sociale.

II. Dalla strategia problem solving a quella strategic planningUn ulteriore aspetto positivo emerso nelle cooperative sociali intervistate, rispetto

all’universo delle cooperative sociali italiane, non è tanto che le prime effettuano un processo di pianificazione strategica mentre le altre no, perché ormai, a parte realtà molto piccole o appena create, questo è perseguito, in modo più o meno formalizzato, da tutte le cooperative sociali. La differenza sta nel fatto che, poi, tale piano è spesso disatteso per far fronte ai problemi emergenti. In generale, tra le cooperative sociali si osserva una struttura organizzativa che nella sua operatività è più influenzata da un approccio di tipo problem solving, cioè la risoluzione di problemi emergenti, piuttosto che di tipo strategic planning, cioè il perseguimento di quanto stabilito nel piano strategico. Un approccio strategic planning non significa perseguire gli obiettivi prefissati a tutti i costi, indipendentemente da quanto può accadere lungo la via, ma invece paragonare il problema emergente, per individuarne una soluzione ragionevole, con il piano strategico prefissato. Per questo è molto importante l’utilizzo di strumenti per il controllo strategico con una frequenza almeno trimestrale, così che possa essere fatta una verifica tra dove l’organizzazione si trova e dove aveva pensato di voler essere in quel momento.

III. Il mix di offerta strategicaTra le strategie competitive elencate in precedenza quella solitamente più adottata e

perseguita dalle cooperative sociali è quella della focalizzazione, attraverso una riduzione dei costi. Tale strategia ha il vantaggio, e questo è il motivo della sua grande diffusione tra le cooperative sociali, di risultare molto appetibile ai clienti per l’offerta di un prodotto o servizio abbastanza competitivo in termini di prezzo. Tuttavia, essa ha il grande svantaggio di basare la relazione con il cliente quasi esclusivamente sul vantaggio di un prezzo più basso, per cui, di fatto, si è costantemente ricattati o si corre il rischio di perdere la commessa perché un concorrente ha offerto il medesimo servizio o prodotto

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a un prezzo inferiore.Diversamente le cooperative intervistate durante la presente ricerca hanno mostrato

di non adottare una singola strategia, ma un mix strategico tra leadership di costo, innovazione e differenziazione. Praticamente, il prodotto o servizio offerto si caratterizza per essere altamente competitivo sul prezzo finale, ma non per questo è di minore qualità, intesa anche come capacità di soddisfare le richieste del cliente. Inoltre, i prodotti e servizi offerti si caratterizzano per avere degli aspetti innovativi. In molti casi, le innovazioni apportate sono risultate semplici, ma hanno comunque fatto la differenza rispetto ai concorrenti. Per esempio, la Solidarietà e Lavoro offre al proprio cliente delle guarnizioni differenziate, entro margini di costo competitivi e prodotte con processi altamente innovativi, per le quali è stata realizzata appositamente una macchina che utilizza la tecnologia waterjet. L’utilizzo delle tre strategie insieme fa sì che il rapporto con il cliente non sia basato esclusivamente, come avviene nella maggioranza dei casi delle cooperative sociali italiane, sul tirare il prezzo al ribasso, ma sull’offerta di altre leve quali, appunto, l’innovazione e la differenziazione.

IV. I consorzi di imprese cooperative come occasione per salvaguardare l’identità delle singole opere, ma con la forza del grande gruppo

La legge n. 381 del 1991, che disciplina le cooperative sociali, prevede che le disposizioni stabilite per le cooperative sociali si estendano anche ai consorzi costituiti come società cooperative, purché la base sociale sia costituita per almeno il 70% da cooperative sociali. Tale fenomeno si è molto diffuso nel mondo delle cooperative sociali, perché esse in media sono caratterizzate da una dimensione piccola e quindi hanno trovato nel consorzio una serie di vantaggi che altrimenti non avrebbero avuto. In sintesi i principali vantaggi riconducibili all’adesione ad un consorzio tradizionale sono dati dai seguenti aspetti:1. facilita la collaborazione tra le cooperative consorziate;2. fornisce servizi di supporto e di consulenza tecnica ed amministrativa, come l’ufficio

legale, buste paghe, sistemi informatici, ecc.;3. coordina il rapporto con gli enti pubblici, per esempio per la partecipazione ad

appalti;4. effettua attività di formazione del personale.

A questi tradizionali benefici i consorzi a cui aderiscono due delle quattro cooperative intervistate, cioè In Opera e Solidarietà e Lavoro, aggiungono un rilevante plusvalore24. Per queste cooperative, infatti, il consorzio è il luogo nel quale sono condivise le strategie e gli investimenti di ciascuna cooperativa. Praticamente, sebbene dal punto di vista giuridico il consorzio abbia solo lo scopo di fornire certi servizi ai soci, in realtà esso opera

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anche, e soprattutto, come luogo decisionale per l’impostazione strategica e operativa delle singole cooperative associate. Questo permette di gestire le singole cooperative in un’ottica non “solitaria” ma di gruppo, con tutti i vantaggi, oltre che i rischi, di prendere delle decisioni insieme ad altri soggetti. Ovviamente, perché questo si possa realizzare concretamente tra differenti imprenditori è necessario che questi riconoscano e abbiano in comune dei fattori, per esempio gli stessi ideali, che possano fare da collante tra di loro. La modalità nella quale i consorzi si sono organizzati, cioè come una holding, pur non essendo giuridicamente tali, sta dando e ha tutti i suoi vantaggi.

Questa è senza dubbio una strada da percorrere per tutte quelle cooperative sociali che, essendo di piccole e medie dimensioni, non sono in grado di raggiungere una massa critica adeguata per sostenere i costi necessari a sviluppare internamente certe competenze: un esempio su tutti è l’utilizzo di sofisticati strumenti di controllo di gestione attraverso appositi software applicativi e gestionali. In questo modo, inoltre, le cooperative hanno la possibilità di far parte di una realtà sia economica sia informale di sostegno ai rischi e alle difficoltà che quotidianamente ogni imprenditore deve affrontare.

Un’ultima osservazione da fare è che, nell’esperienza della cooperativa In Opera, l’appartenenza a un consorzio costituito non esclusivamente da cooperative sociali, ma anche da cooperative di lavoro, ha aiutato lo svilupparsi di una cultura professionale e manageriale “seria” che tante volte manca agli operatori del mondo delle cooperative sociali.

V. La cultura dell’innovazione come vantaggio competitivo duraturoTra i tanti fattori che accomunano le cooperative sociali intervistate vi è il fatto che

tutte hanno basato il proprio sviluppo e la filosofia d’impresa su una o più innovazioni. I cambiamenti che sono stati apportati rispetto al consueto modo di fare certe cose hanno permesso a ciascuna di ottenere un vantaggio competitivo duraturo nel tempo, all’interno del mercato di riferimento, rispetto ai propri concorrenti. L’innovazione è alla base dello sviluppo e della crescita di ogni realtà economica, che sia for profit o non profit (Poledrini, 2010). Per questo, anche le cooperative sociali sebbene siano una realtà di solidarietà non possono esimersi dall’avere una grande professionalità e una forte capacità di innovazione (Vittadini, 1997).

Per esempio, le cooperative intervistate hanno innovato il tradizionale rapporto tra for profit e non profit, stringendo un forte rapporto di tipo collaborativo con le aziende del primo tipo. Nel caso della SolLav si può parlare di una vera e propria partnership con un’impresa for profit. Solitamente i rapporti economici tra le imprese for profit e quelle non profit sono spinti solamente, o principalmente, da motivi di carità, mentre la convenienza economica per le parti for profit è lasciata in secondo piano. In questo caso, invece, le cooperative intervistate mostrano che il rapporto che hanno creato con i loro clienti è riconosciuto, anche dal punto di vista economico, realmente utile ad entrambe le parti.

Occorre, però, rilevare che non è sufficiente essere stati innovativi, bisogna continuare

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a esserlo anche nel futuro. La concorrenza e la velocità di cambiamento dei mercati impongono la generazione continua di innovazioni. Queste, ricordiamo, non debbono per forza riguardare nuovi prodotti o servizi, ma possono consistere anche in nuovi modelli organizzativi, in nuove strategie, ecc. (Vignali, 2006). Gli stessi punti elencati tra le presenti best practices, possono fungere da spunto per lo sviluppo di innovazioni manageriali e organizzative.

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4 Struttura organizzativa e risorse umane

4.1 Le principali caratteristiche del modello organizzativo delle cooperative sociali

La gran parte delle cooperative sociali italiane si caratterizzano per avere una struttura organizzativa di tipo “semplice” (Borzaga & Depedri, 2003; Codini, 2007), cioè costituita da tre elementi principali: accentramento decisionale, compiti e responsabilità non ben definiti e un basso livello di formalizzazione.

La prima caratteristica consiste nel fatto che tutte le decisioni di ordine strategico e quelle operative più importanti sono affidate ad un’unica persona, in alcuni casi, e in tanti altri ad un gruppo abbastanza ristretto rispetto alle dimensioni dell’intera struttura organizzativa. Tutto ciò ha una sua spiegazione e giustificazione nel fatto che la maggioranza delle cooperative sociali sono nate dall’iniziativa di una singola persona o di un piccolo gruppo, in molti casi di amici. Questi, poi, continuando l’attività della cooperativa, ne hanno assunto anche la gestione strategica e operativa. I vantaggi di tale comportamento sono riconducibili a due fattori. Per prima cosa il gruppo dirigente ha, in ogni momento, una visione unitaria e specifica della vita della cooperativa, non essendoci passaggi intermedi tra loro e il nucleo operativo e produttivo. Secondo, questo aspetto fa sì che le decisioni possono essere prese in modo rapido, perché i “decisori”, anche a livello operativo, si concentrano in un numero molto ristretto di persone. Di contro, quando la dimensione dell’organizzazione inizia a crescere in termini di personale addetto, o semplicemente di volumi produttivi, questo modus operandi genera una serie di problemi. Tra questi si ha il fatto che il vertice strategico può trovarsi sovraccarico di decisioni da prendere, soprattutto in ambito operativo, con il grande rischio dell’illusione di controllo. Questo è un fenomeno che accade quando il vertice strategico, abituato a processare direttamente un certo tipo di informazioni e a prendere le decisioni inerenti, non si accorge che il volume di tali informazioni aumenta a tal punto da sfuggire al controllo del vertice; così, inevitabilmente, le decisioni prese non tengono conto di tutti gli aspetti e hanno una elevata probabilità di risultare inopportune. Un’altra difficoltà è la mancanza dello svilupparsi di una cultura manageriale all’interno dell’organizzazione, questo perché, di fatto, tra il vertice e la fase operativa non vi sono linee manageriali o di responsabilità intermedie, se non marginali. Questa assenza porta anche ad un altro problema che è quello della dipendenza operativa, oltre ovviamente che strategica, dal ristretto gruppo dirigente di riferimento, con la conseguenza che se il gruppo dirigente viene a mancare, anche momentaneamente, l’attività si ferma. Per ultimo va osservato che – sebbene tale problema non si ponga ancora, vista la giovane età delle cooperative sociali italiane – in futuro sorgerà la questione della successione e dell’avvicendamento

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del gruppo dirigente. Come sostengono Taraschi e Zandonai (2006, pag. 44), tra le cooperative sociali italiane c’è la «necessità di rinnovare i gruppi dirigenziali favorendo un “cambio di consegne” tra i dirigenti “pionieri” (spesso con forti accenti carismatici) che hanno contribuito a fondare tali imprese e le “nuove leve” che si affacciano a queste posizioni». Al contrario, in molti casi il gruppo dirigente non incentiva lo sviluppo di personale idoneo a succedere nella responsabilità strategica e operativa della cooperativa, non ponendo le basi per l’inevitabile cambio generazionale che prima o poi avverrà.

La seconda caratteristica del modello “semplice” è riconducibile al fatto che, all’interno della struttura organizzativa, sia il nucleo operativo sia quello dirigente si caratterizzano per essere in grado di ricoprire, all’occorrenza, vari ruoli e mansioni. In altre parole, “tutti fanno un po’ di tutto”. Questo ha il grande vantaggio di rendere la struttura organizzativa molto flessibile e in grado di rispondere in modo veloce ai cambiamenti provenienti dal mercato. Inoltre, tale modo di fare stimola un elevato grado di responsabilità e coinvolgimento personale del gruppo operativo, perché si riconosce il proprio compito identificato non tanto con un unico ruolo all’interno dell’organizzazione, ma con il contribuire al più grande scopo di aiutare la cooperativa a raggiungere gli obiettivi prefissati attraverso tutti i suoi aspetti. Così vi è, per esempio, una forte intercambiabilità dei ruoli e delle mansioni all’interno del nucleo operativo e tra dirigenti. In un contesto del genere la disponibilità personale è elevata e i problemi organizzativi in termini di spostamenti d’orario o di mansione sono molto bassi o pressoché inesistenti. Di contro vi sono due principali difficoltà legate a questa caratteristica. La prima è che l’assenza di mansioni lavorative specifiche non permette lo svilupparsi di competenze e mansioni specializzate, disincentivando la professionalizzazione delle risorse umane. Inoltre, si può verificare nel corso degli anni una perdita di stimoli per le risorse umane perché non si verificano occasioni di progressione nella carriera interna all’organizzazione.

Per ultimo, le cooperative sociali a struttura organizzativa semplice si caratterizzano per un basso livello di formalizzazione. Ciò sta a significare che le regole scritte sono pressoché inesistenti o molto scarse e il clima organizzativo è molto familiare. Questo ovviamente è una grandissima risorsa e forza di questo tipo di organizzazioni per il fatto che facilità l’autoresponsabilizzazione di tutte le unità organizzative e dà alla struttura della cooperativa una elevata flessibilità e capacità di risposta ai problemi emergenti. Dall’altro lato, però, vi è un maggiore rischio di errore per il fatto che, non essendoci riferimenti formalizzati, in molte circostanze le decisioni vengono prese in modo arbitrario e non sempre risultano le più opportune. Un altro aspetto problematico è legato alla trasferibilità del know-how all’interno dell’organizzazione, perché questa, non essendo abituata allo sviluppo di procedure formali per la standardizzazione delle mansioni, svilupperà a fatica strumenti idonei a tale scopo.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

4.2 Spunti di best practices per migliorare la struttura organizzativa e il contributo delle risorse umane

Quanto detto fino ad ora ha lo scopo di descrivere quelle che sono le principali caratteristiche, in termini di pregi e difetti, della gran parte delle strutture organizzative delle cooperative sociali italiane. Tali aspetti non debbono essere cambiati radicalmente, perché, come è stato sottolineato, sono ricchi di punti di forza; ma, essendoci anche delle debolezze, è bene operare su queste per aumentare l’efficienza organizzativa di queste strutture. A tale scopo saranno presentate, di seguito, delle possibili azioni correttive sotto forma di best practices (tab. 4.1). Tali suggerimenti derivano dalla ricerca condotta e da altre esperienze nazionali nel settore delle cooperative sociali (Borzaga & Depedri, 2003; Poledrini, 2010).

I. Dall’accentramento operativo al “decentramento” decisionaleQuesto punto non fa riferimento alla delega di decisioni di carattere strategico,

che è giusto che rimangano accentrate nel gruppo dirigente, sebbene sia utile che siano condivise con la base dell’organizzazione; riguarda invece alcune decisioni di tipo operativo che di solito ricadono anch’esse sul vertice strategico. Se in prima approssimazione può risultare strano che decisioni di tipo operativo siano, in alcuni casi, accentrate, di fatto l’evidenza empirica e anche molta letteratura sul tema mostrano che spesso avviene così (Costa & Nacamulli, 1997). Ovviamente, non si fa riferimento a tutte le decisioni operative ma solo a quelle che hanno carattere non rutinario e che richiedono di effettuare delle scelte importanti. In questa fattispecie, se l’organo preposto a prendere questo genere di decisioni è il vertice strategico, con l’aumentare di tali occasioni, esso può subire un sovraccarico di tipo decisionale. In questo caso è auspicabile introdurre nell’organizzazione figure che facilitino la gestione dell’operatività e alleggeriscano l’impegno del vertice. Una figura di responsabilità di questo tipo, nell’organizzazione, può anche svolgere le seguenti funzioni:· articolare gli obiettivi generali in sotto-obiettivi operativi;· fissare le regole per il raggiungimento di tali obiettivi;· dare le indicazioni di carattere operativo;· facilitare il passaggio delle informazioni dal nucleo operativo al vertice strategico

e viceversa.Tali risultati possono essere ottenuti in due differenti modi, a seconda del grado

di delega del potere lungo la scala gerarchica della struttura organizzativa che si vuole concedere. Un primo modo riguarda l’autonomia decisionale sulle scelte operative attraverso l’introduzione della figura di un responsabile di squadra. Tale scelta, oltre al beneficio di alleggerire il vertice dell’organizzazione, offre il vantaggio di

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responsabilizzare alcune persone all’interno dell’organizzazione con la possibilità di aumentare la loro capacità di iniziativa e di migliorare il loro apporto all’organizzazione. In alternativa, delegando maggiori responsabilità, può essere introdotto un manager con responsabilità di una o più funzioni dell’organizzazione. Quest’ultima ipotesi è la migliore dal punto di vista dell’incremento della professionalizzazione della struttura organizzativa, ma ha lo svantaggio evidente, e per questo non è sempre applicabile, di imporre all’organizzazione costi maggiori per pagare la nuova figura professionale. Di fatto, è una strada non sempre percorribile; o quanto meno lo è solamente per quelle cooperative sociali che hanno una dimensione d’impresa media o grande25.

Tra i due estremi appena evidenziati vi può essere una molteplicità di sfumature. Tra le possibilità, sarà evidenziato di seguito il ruolo del facility manager come felice risoluzione organizzativa, per le cooperative sociali, dei problemi accennati.

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Tabella 4.1: Best practices sull’organizzazioneFonte: nostra elaborazione

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

Il ruolo del facility manager nelle cooperative socialiOgni struttura organizzativa è influenzata da più variabili quali, per esempio, il settore di riferimento, i beni-servizi prodotti, il rapporto con i clienti, le caratteristiche delle proprie risorse umane, ecc. Come si sa le cooperative sociali di tipo B hanno tra i loro addetti persone in situazione di svantaggio. Questo aspetto ovviamente influenza in modo determinate le strutture organizzative di questa tipologia di organizzazioni. Tra i vari “strumenti” utilizzabili per la valorizzazione e l’efficienza di queste strutture vi è l’introduzione del facility manager. Questo è stato introdotto dalla Solidarietà e Lavoro al fine di facilitare le relazioni esistenti tra gli operatori svantaggiati e i vari responsabili di produzione.La sua figura non è quella dell’educatore classico, così come molte cooperative sociali hanno, ma di una persona che contribuisce a tenere unite le esigenze del personale svantaggiato con quelle della produzione. Infatti, per esempio può accadere che il responsabile della produzione, quasi inevitabilmente, si possa focalizzare troppo su di essa, andando a perdere di vista, o non accorgendosi, di eventuali bisogni o esigenze che possono sorgere tra il personale svantaggiato. Così, interviene il facility manager affiche l’organizzazione non perda di vista tutti gli aspetti di ciascun operatore svantaggiato. Francesco Luoni, presidente e direttore della solidarietà e Lavoro, al riguardo dice: «Nel lavoro con la persona il facility manager ha una funzione di facilitatore. Gli svantaggiati hanno già una persona di riferimento che è il loro responsabile di produzione. Il rischio, però, è che alcune volte le cose possano come sfuggire, perché, per esempio, si è troppo focalizzati sulla produzione o su aspetti tecnici. Questa figura ha il compito di affiancare il responsabile nell’osservare in maniera di distaccata la persona svantaggiata per individuare tutte le azioni da mettere in campo affinché la persona svantaggiata possa essere felice e valorizzato in tutti i sua aspetti mentre è al lavoro».

Figura 4.1: Ruolo del facility managerFonte: nostra elaborazione

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Inoltre, sebbene le relazioni tenute dal facility manager sono prettamente con l’organizzazione interna, i suoi benefici, in termini di prodotto finale, ricadono anche nel rapporto con il cliente, perché quest’ultimo può beneficiare, così, di un lavoro fatto meglio. In quest’ottica, la presente figura professionale può essere vista come di contributo a tre differenti livelli: con i responsabili di produzione, operatori svantaggiati e con i clienti (fig. 4.1).Dal punto di vista organizzativo, nel caso della Solidarietà e Lavoro il facility manager assume la funzione di organo di staff in seno alla direzione centrale, per cui è privo di autorità gerarchica ed è dotato di elevate capacità relazionali con il personale svantaggiato e non dell’organizzazione.

II. Da “tutti un po’ di tutto” alla specializzazione professionaleLa seconda tipologia di best practice suggerita riguarda l’aspetto della divisione

e specializzazione del lavoro. Rispetto a questo punto, occorre premettere che non sempre e per tutte le cooperative sociali è possibile ed è utile ricercare tale risultato. Per esempio in strutture di piccole o piccolissime dimensioni spesso c’è bisogno che gli addetti siano in grado di fare un po’ di tutto, perché l’organizzazione di fatto non ha un proprio prodotto o servizio ben definito, ma una rosa di prodotti e servizi. Pertanto le commesse, così come i clienti, variano nel tempo e con esse le mansioni che le varie squadre dell’organizzazione devono svolgere.

A parte il caso appena evidenziato, tuttavia, è auspicabile che in presenza di un business definito la cooperativa sociale si strutturi in modo da avere degli addetti con compiti lavorativi ben definiti. In generale, questo risultato si può raggiungere attribuendo a ciascuno dei compiti prevalenti ma non esclusivi, per cui rimane la possibilità che tutti facciano un po’ di tutto ma ognuno inizia a specializzarsi su certe mansioni ben definite. Nello specifico si suggerisce l’utilizzo del teamwork.

Il ruolo del teamworkL’utilizzo dei teamwork è una pratica abbastanza diffusa nelle cooperative

sociali. I gruppi di lavoro sono squadre specializzate in una macrofunzione, come per esempio le squadre del verde che puliscono i parchi pubblici. Al loro interno, gli addetti sono specializzati in funzioni diverse; secondo l’esempio precedente, c’è una specializzazione nel lavoro di potatura, nella rimozione dei residui, ecc.

L’uso dei teamwork facilita: • le relazioni tra i componenti dell’organizzazione. Questo aspetto assume

particolare importanza nelle cooperative sociali di tipo B, per l’inserimento lavorativo di persone in situazione di svantaggio;

• la flessibilità del lavoro, perché i teamwork possono essere costituiti e

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

ricostituiti nel corso del tempo. Questo rappresenta un forte vantaggio per le organizzazioni che operano in ambienti mutevoli e che richiedono dunque capacità di adattamento ai cambiamenti.

III. Da una cultura associativa a una cultura aziendaleUno degli aspetti che caratterizza e differenzia una struttura organizzativa

d’impresa da un’associazione è che la prima ha al suo interno un insieme di regole e procedure formalizzate che guidano i comportamenti nelle situazioni concrete del lavoro, attraverso un processo di standardizzazione dei processi operativi. Ciò avviene attraverso la redazione di regolamenti, mansionari o altri strumenti che specificano le azioni da intraprendere, con un grado di dettaglio variabile. Un esempio di questo sono la valutazione e il lavoro per obiettivi e le routine organizzative.

La valutazione e il lavoro per obiettiviLa valutazione delle attività svolte dagli addetti delle cooperative sociali,

ad oggi, di fatto non è uno strumento molto diffuso. Spesso ad un processo formalizzato e svolto con periodicità dal gruppo dirigente si preferiscono dei meccanismi di autovalutazione e/o di autocontrollo. Questi possono portare a forme di comportamento opportunistiche da parte di alcuni componenti dell’organizzazione e a disincentivare i lavoratori più bravi, che si vedono premiati quanto chi lavora di meno o peggio di loro.

Diversamente il metodo della direzione e valutazione per obiettivi sviluppa un processo di responsabilizzazione degli addetti e li sprona insieme verso un medesimo obiettivo da raggiungere attraverso uno sforzo comune. Tale sistema prevede che gli obiettivi particolari siano concordati tra il gruppo dirigente e il nucleo operativo. Gli obiettivi strategici sono naturalmente decisi a livello d’impresa, poi si stabiliscono obiettivi intermedi per i gradi gerarchici presenti nell’organizzazione: dirigenti, quadri intermedi, gruppi di lavoro e singoli operatori. Praticamente, ogni compito di ciascun singolo operatore serve a raggiungere un obiettivo specifico del livello superiore, che, a sua volta, è necessario per raggiungere gli obiettivi generali dell’organizzazione.

Il processo prevede il susseguirsi delle seguenti fasi:• definizione degli obiettivi per ogni unità operativa;• verifica della coerenza tra gli obiettivi delle diverse unità organizzative;• valutazione delle risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi;• costante monitoraggio degli obiettivi o sotto-obiettivi eventualmente

raggiunti.Al raggiungimento dei vari obiettivi, sia per singola unità operativa che per

squadra e intera cooperativa, possono essere collegati dei sistemi di premiazione del lavoro sotto varie forme, dalla gratificazione personale agli incentivi monetari.

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Questi dipenderanno dalle peculiarità del personale addetto – per esempio, nelle cooperative sociali di tipo B dipendono dalla tipologia di svantaggio – e da quelle della struttura organizzativa: dimensioni, settore, ecc.

In conclusione, la direzione e valutazione per obiettivi è prima di tutto una cultura aziendale, cioè un modo di pensare, e poi anche un metodo di lavoro.

Il ruolo delle routine organizzativeLe routine organizzative sono dei comportamenti e delle regole formalizzate

che si concretizzano in una sequenza di azioni coordinate che agli individui di una organizzazione è chiesto di svolgere. Si tratta di uno strumento in grado di aiutare gli addetti di una organizzazione ad adottare un certo comportamento, secondo quanto stabilito dal vertice strategico, al verificarsi di un determinato fatto. Se il comportamento auspicato genera un risultato soddisfacente e i responsabili dell’organizzazione premiano chi lo ha compiuto, tale comportamento tende, solitamente, ad essere ripetuto di nuovo dai componenti dell’organizzazione. Le routine organizzative non emergono da sole ma vanno sviluppate e spesso si tratta di un processo lento. Occorre perciò che la direzione centrale impieghi tempo e risorse al fine di crearle e, nel tempo, di svilupparle.

IV. Le caratteristiche e le potenzialità delle persone in situazione di svantaggio: alcune best practices per le risorse umane

Operare con personale in situazione di svantaggio richiede, ancora di più rispetto ad altre situazioni organizzative, una particolare attenzione alla persona e alle sue esigenze. Intendiamo che tale attenzione è necessaria in ogni contesto organizzativo o d’impresa ma che, per esempio, una cooperativa sociale di tipo B al riguardo dovrà avere un supplemento di attenzione particolare, proprio per il rispetto e il bisogno umano che una persona in situazione di svantaggio richiede ed esprime. Ogni individuo rappresenta, con la propria storia, sensibilità, tipo di svantaggio, un “caso” a parte e non ripetibile o replicabile in nessuna categoria concettuale.

Tuttavia è anche da considerare che, così come tutte le persone normodotate, pur nella loro unicità, possono avere delle caratteristiche che le accomunano (il contesto culturale, certi temperamenti affini, ecc.), è possibile fare la medesima notazione per le persone in situazione di svantaggio proprio in relazione al tipo di disagio che presentano.

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

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Tabella 4.2: Griglia per l’orientamento lavorativo di personale svantaggiatoFonte: nostra elaborazione su informazioni da In Opera

Nel corso dell’esperienza delle cooperative intervistate sono emerse, al riguardo, varie considerazioni sul fatto che chi è in una determinata situazione di svantaggio ha delle capacità particolari rispetto ai così detti normodotati. Per esempio, certi lavori troppo rutinari e monotoni, per un normodotato possono risultare faticosi da affrontare, con la conseguenza di basse prestazioni lavorative, mentre una persona in situazione di svantaggio può trovare in tale tipo di lavoro una grande occasione di aiuto a sé – come forma di autorealizzazione – e all’impresa per cui lavora, perché contribuisce in modo utile e reale. In altri casi, è il tipo stesso di svantaggio a far emergere certe caratteristiche.

A partire da ciò, come esempio delle capacità peculiari legate al tipo di svantaggio, si propone una griglia sintetica delle differenti tipologie di svantaggio all’interno della disabilità psicologica e delle potenzialità lavorative connesse a ciascuna (tab. 4.2).

La tabella ha solo lo scopo di mostrare che, pur nel pieno rispetto delle diversità di ogni singola persona, è possibile trovare e dunque occorre imparare a riconoscere le potenzialità e la forza di ogni individuo, svantaggiati compresi. Tale forza è dentro alle caratteristiche di ognuno, incluso chi si trova in una situazione di svantaggio.

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5 Ulteriori osservazioni sul management delle cooperative sociali

5.1 L’importanza della funzione commerciale

Ciò che caratterizza la maggioranza delle cooperative sociali italiane, ma si potrebbe dire in generale delle piccole e medie imprese, è una serie di limiti culturali e strutturali rispetto alla funzione commerciale. Per quanto riguarda gli aspetti culturali, le piccole e medie realtà imprenditoriali italiane risentono dell’equivoco di pensare di vendere ciò che producono. Diversamente, l’impostazione dovrebbe essere di produrre ciò che si vorrà poi vendere e ciò che si vorrà vendere dovrà essere il frutto di un’accurata ricerca di mercato per determinare i gusti e le esigenze dei consumatori In quest’ottica, il mercato con le sue esigenze, ma anche con le contraddizioni che la domanda spesso ha, è il punto di partenza di ciò che si andrà a produrre o a offrire come servizio. Questa impostazione tende a porre il mercato come punto focale e i tentativi dell’impresa sono volti prima di tutto a capirne le esigenze, poi, attraverso la produzione, a soddisfarle.

Per quanto riguarda gli aspetti strutturali e organizzativi inerenti alla parte commerciale, va osservato che la maggioranza delle cooperative sociali, anche quelle di medie dimensioni, è carente di personale appositamente dedicato a questa funzione. Spesso chi si occupa della fase commerciale è chi ha la responsabilità ultima dell’organizzazione o chi si occupa della produzione. In entrambi i casi la funzione commerciale mostra (o perlomeno rischia di mostrare) delle inefficienze. Quando è gestita dalla direzione generale, vi è il rischio che questa non riesca a fare fronte a tutte le esigenze che una funzione commerciale, anche solo dal punto di vista operativo, ha: per esempio, la ricerca di nuovi clienti, migliorare le modalità con le quali il prodotto è venduto o servito, ecc. Quando invece a curare la parte commerciale è la medesima persona che si occupa anche della produzione, si corre il rischio di privilegiare la fase produttiva-erogativa rispetto a quella commerciale, vale a dire le fasi della ricerca di mercato e della comunicazione del prodotto o servizio. Un bene può avere delle ottime qualità ma se queste non vengono comunicate in modo adeguato vi è il rischio che non siano percepite dagli acquirenti o potenziali tali. Pertanto, se si vogliono incrementare le vendite occorre investire in termini di risorse umane e finanziarie nella funzione commerciale.

Un altro aspetto, molto trascurato, della parte commerciale è lo sviluppo dei marchi e più in generale di strategie di branding. Queste solitamente vengono percepite esclusivamente come un costo e pertanto, di fatto, non vengono considerate tra le modalità strategiche da adottare. Non c’è dubbio che la creazione di un marchio e la fidelizzazione dei clienti attraverso le varie forme di comunicazione esistenti sono

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Il management nelle cooperative sociali: peculiarità e best practices

un costo, ma è anche vero che, se effettuate bene e in modo adeguato, portano a dei risultati, in termini di fatturato, maggiori dei costi sostenuti per ottenerli.

Un ultimo aspetto che caratterizza l’universo delle PMI italiane, e tra queste vi sono anche moltissime cooperative sociali di tipo B, è l’adozione della produzione in conto terzi. Il contoterzismo in Italia dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso ha costituito una forte e utile occasione di crescita industriale per le nostre imprese. I grandi gruppi industriali hanno beneficiato di una manodopera a basso costo con un soddisfacente livello qualitativo della produzione. Da parte loro, i contoterzisti (o fasonisti) hanno sfruttato il presente meccanismo per poter sviluppare un’attività imprenditoriale in proprio. In molti casi, il contoterzismo è stato sviluppato da operai usciti dalla grande impresa che si sono messi in proprio. Questo meccanismo ha funzionato abbastanza bene anche come una sorta di ammortizzatore sociale rispetto agli attriti presenti nella grande industria nel corso degli anni ‘70 del ventesimo secolo (Volpato, 2008). A livello internazionale l’Italia, tra i Paesi maggiormente industrializzati, con questo meccanismo ha potuto godere di una competitività in termini di prezzo per il basso costo del lavoro che questo sistema riusciva a mantenere. Tuttavia, con l’inizio del secolo, si sono verificati una serie di fatti che hanno cambiato lo scenario competitivo mondiale, in primis l’ingresso della Cina nella competizione economica mondiale. Le imprese cinesi, in effetti, non hanno fatto altro che “imitare” la strategia perseguita da quelle italiane negli anni precedenti: vendere prodotti dei settori tradizionali, abbigliamento, tessile, calzaturiero, ma anche macchine industriali a basso contenuto tecnologico, a un prezzo competitivo. Così facendo, il modello italiano del contoterzismo è entrato, ed è tuttora, in crisi. In segmenti di mercato molto particolari e con una domanda ristretta e legata a un contesto territoriale specifico, per esempio vicinanza con il fasonista, può essere che la produzione in conto terzi trovi ancora degli spazi d’esistenza, ma non certo di sviluppo! Per tutte le altre fattispecie, si può affermare che è un modello che deve essere sostituito.

Di seguito sarà presentata una best practice emersa da una delle cooperative intervistate, come possibile modello innovativo e alternativo alla tradizionale produzione in conto terzi.

I. Dal contoterzismo tradizionale alla partnership collaborativa.Il punto debole della produzione in conto terzi italiana è che questa, tradizionalmente,

si è basata su un livello dei prezzi basso come fattore di competitività. È vero che legata ad esso vi era, in molti casi, tutta una serie di servizi che il fasonista offriva al cliente, ma di fatto il fattore discriminante rimaneva il prezzo. Così, un modello alternativo a questo, per poter funzionare, deve modificare questo punto “debole”. Al riguardo il modello sviluppato dalla cooperativa Solidarietà e Lavoro rappresenta un’utile esemplificazione, perché risponde alla questione offrendo una “nuova” ipotesi di partnership con imprese che un tempo si sarebbero rapportate con il conto terzi.

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Tra la Solidarietà e Lavoro e un suo cliente, la Vito Rimoldi S.p.A., azienda di Legnano produttrice di guarnizioni industriali, si è stretto un forte legame. Formalmente il rapporto tra le due organizzazioni è un rapporto tra cliente e fornitore, ma di fatto si configura come una collaborazione operativa in tutte le fasi della produzione, tanto che nel corso degli anni la Vito Rimoldi S.p.a. ha trasferito la quasi totalità della propria produzione e del confezionamento alla SolLav. Così, racconta Luoni26, attuale presidente e direttore generale della SolLav, «il rapporto con la Vito Rimoldi S.p.A. è nato perché siamo passati dal solo dover fare un “tot” di pezzi l’anno a un rapporto che prevede il riconoscimento per noi di un bonus o di una penale per la produzione e una forte sinergia per la progettazione e lo sviluppo dei macchinari. Oggi il nostro cliente non ha più la produzione industriale, se non per piccoli numeri, il resto è tutto qui. Loro pensano alla qualità e allo sviluppo dei nuovi prodotti e noi siamo il loro braccio operativo e produttivo. Perciò la qualità, l’innovazione di prodotto e di processo e gli aspetti commerciali sono curati dal cliente. Alla produzione ci pensiamo noi». Un ulteriore passo nello sviluppo della partnership è in corso e riguarda lo spostamento dell’attività produttiva della SolLav in un capannone adiacente a quello della Vito Rimoldi S.p.A. Ciò permetterà, anche dal punto di vista logistico, una collaborazione sempre più stretta tra le due organizzazioni.

Il rapporto tra la SolLav e la Vito Rimoldi S.p.A. è senza dubbio regolato da aspetti contrattuali, come per esempio la tempistica della consegna dei prodotti o il loro prezzo, ma ciò che costituisce e definisce la base del rapporto tra le due organizzazioni è un insieme di aspetti non contrattualizzabili come la fiducia e la stima reciproca. Questo fa sì che il rapporto non si configura come una classica relazione fornitore-cliente, ma come una partnership in cui entrambi i soggetti si riconoscono parte di un progetto comune da costruire e mantenere insieme nel tempo.

5.2 Gli aspetti economico-finanziari: alcuni cenni

Le cooperative sociali italiane soffrono, dal punto di vista economico-finanziario, di una serie di problematiche che possono essere ricondotte a tre aspetti principali (Chang Cyril & Tuckman, 1992): scarsa dimensione patrimoniale netta, facile vulnerabilità delle fonti di finanziamento, margine operativo netto negativo.

Il primo aspetto si riferisce al fatto che le cooperative sociali solitamente presentano una situazione patrimoniale netta inadeguata rispetto all’attività economica e produttiva

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che vogliono svolgere, per cui si verifica uno squilibrio tra la dimensione patrimoniale netta e l’attività economica sostenuta. La scarsezza del patrimonio netto è data dal basso livello di capitale sociale e delle annesse riserve possedute. Ciò genera una difficoltà nel reperire ulteriori risorse finanziarie dall’esterno sotto forma di credito bancario o nel ricorso al mercato finanziario sotto altre forme, tipo l’emissione di titoli. Tale situazione è ovviamente comprensibile in una fase iniziale dell’attività della cooperativa, ma lo è di meno in una fase avanzata, perché allora è sintomo o di una incapacità ad integrare il patrimonio netto attraverso il risultato d’esercizio oppure di una gestione avventata nell’investire quest’ultimo.

Il secondo aspetto è riconducibile all’eccessiva concentrazione delle fonti di finanziamento in un numero ristretto di soggetti. In generale, quanto maggiore è la concentrazione dei soggetti da cui si ricevono i finanziamenti, cioè quanto più ridotto è il numero dei finanziatori, tanto più alto è il rischio di dipendenza dal comportamento di questi ultimi, il che compromette l’operatività dell’impresa.

L’ultimo aspetto riguarda la valutazione del margine operativo netto. Con tale termine si intende la capacità di un’impresa di coprire i costi della gestione caratteristica attraverso le entrate da gestione caratteristica. Quanto più tale valore è positivo tanto più elevata sarà la capacità dell’impresa di creare ricchezza attraverso la propria attività caratteristica. Da questo punto di vista la debolezza delle cooperative sociali italiane sta proprio nel fatto di non essere in grado di coprire i costi ed avere un margine operativo netto, per cui l’attività viene finanziata attraverso le risorse “solidaristiche”, cioè il fund raising (donazioni, sussidi, quote sociali) oppure attraverso risorse prevalentemente pubbliche, attraverso contributi dagli enti pubblici. In tutto questo il rischio è che con l’attuale crisi economica-finanziaria e del welfare state tali contributi pubblici diminuiscano, mettendo in crisi le strutture societarie che vi fanno grande affidamento.

Rispetto ai problemi appena evidenziati, occorre notare che, prima di tutti gli strumenti che possono, eventualmente, essere utilizzati, la vera questione è di tipo culturale e cioè che ogni singola cooperativa sociale si adoperi e si strutturi dal punto di vista strategico e organizzativo in maniera tale da mettersi in grado di mantenersi prevalentemente con la propria attività.

Di seguito saranno messi in luce alcuni aspetti emersi dalla ricerca condotta.

I. Sviluppo delle tecnologie ICT Quanto più le dimensioni di un’organizzazione crescono, tanto maggiori saranno

le informazioni da gestire e le decisioni da prendere. Tra le caratteristiche di un buon imprenditore vi è proprio la sua capacità di rielaborare le informazioni e di prendere decisioni. Tuttavia, molto spesso i dati aziendali non sono esplicitati, cioè messi a disposizione in forma tale da poterli utilizzare, oppure sono talmente tanti che, date le capacità oggettivamente limitate di una qualsiasi persona, non possono essere tutti considerati e analizzati. In questo le tecnologie ICT sono d’aiuto perché

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sono in grado di estrapolare, analizzare e organizzare un’enorme quantità di dati e di metterli a disposizione degli imprenditori per prendere le giuste decisioni. Su questa via occorre investire tramite l’acquisizione di software specializzati, la formazione del personale interno e la ricerca di consulenze esterne in grado di far fare all’impresa il salto necessario in termini culturali per integrare tali tecnologie all’interno dell’organizzazione.

Tutto ciò è ancora più pregnante per quanto riguarda gli aspetti della gestione economico-finanziaria d’impresa. Tali strumenti sono in grado di far emergere in tempo reale le informazioni occorrenti per prendere le decisioni necessarie in ambito gestionale e strategico. Per esempio, vi è il controllo di gestione. Con tale termine si intende l’utilizzo di un insieme di procedure, norme e strumenti a supporto delle funzioni di direzione e di coordinamento, per monitorare l’andamento della gestione in modo puntuale.

L’utilizzo o meno di appositi software gestionali non potrà essere effettuato da qualsiasi cooperativa sociale, per eda sempio è sconsigliare quando gli oneri di tali software siano eccessivi rispetto alle dimensioni dell’organizzazione; ma va detto che, in simili casi, non è neanche necessario. Ciò di cui invece c’è bisogno è il possesso di un’adeguata cultura al fine di monitorare e controllare l’equilibrio economico-finanziario nel tempo e prendere le decisioni strategiche e organizzative sulla base di questo.

II. L’utilizzo del fund raising come strumento integrativoCome accennato, il fund raising non deve servire a sostituire le entrate d’impresa

necessarie per la sostenibilità dell’operato dell’organizzazione, ma le può molto utilmente integrare. Perché ciò possa avvenire, tuttavia, occorre strutturare tale attività in modo serio, cioè fornendole risorse e tempo. La raccolta fondi non si improvvisa, come spesso si crede; è invece un’attività che ha degli strumenti e delle regole proprie. Sinteticamente saranno presentati tali elementi.

Prima di tutto l’attività di fund raising deve, più o meno, seguire le seguenti sei fasi (Messina, 2003):

1. Definizione della buona causa per la quale si effettuerà la richiesta di fondi. Dal successo di tale comunicazione dipenderà la buona riuscita o meno di tutte le fasi successive;

2. Analisi dell’organizzazione attraverso la swot analysis. La raccolta fondi, perché possa essere efficace, ha bisogno dell’impiego di risorse finanziarie. Occorre pertanto fare un’analisi per valutare la convenienza dei costi che si sosterranno rispetto ai benefici che se ne potranno ricavare;

3. Analisi dell’ambiente. In questa fase si cercherà di capire le caratteristiche dell’ambiente a cui ci si vorrà rivolgere per la raccolta fondi, in modo particolare studiando eventuali settori già troppo affollati, in modo da scartarli, individuando i segmenti più sensibili alle tematiche proposte, ecc.;

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4. Progettazione e pianificazione delle attività con lo scopo di stabilire gli obiettivi, le scadenze e gli strumenti di valutazione;

5. Realizzazione dell’attività di raccolta. In questa fase si effettua la ricerca vera e propria, con una particolare attenzione al monitoraggio periodico dell’attività in svolgimento rispetto a quanto era stato programmato;

6. L’ultima fase riguarda la valutazione al termine dell’attività di fund raising, nella quale si misura il ritorno economico rispetto agli investimenti effettuati, e quindi se è stato raggiunto un risultato e se sono stati commessi degli eventuali errori. Tutto ciò deve essere effettuato in vista della futura attività di fund raising che la cooperativa vorrà effettuare.

Come si diceva, l’attività di fund raising ha dei costi; spesso però vengono sottovalutati tanti strumenti che possono risultare efficaci per tale attività e che sono vantaggiosi dal lato economico. Tra questi si evidenziano:

• la posta elettronica;• il telemarketing, cioè un’azione di sensibilizzazione attraverso l’uso del telefono.

Rispetto a questo si ricorda che esistono software come Skype con cui i costi della telefonata sono notevolmente ridotti (o anche azzerati) rispetto alle reti telefoniche convenzionali;

• eventi e iniziative speciali, cioè l’organizzazione di particolari momenti con lo scopo di far conoscere la cooperativa, l’attività che svolge e i bisogni di natura economica o finanziaria che ha;

• campagne di tesseramento dei soci; questa modalità, oltre a portare risorse tramite il pagamento della quota, ha il grande vantaggio di far partecipare la persona allo scopo e all’attività della cooperativa.

5.3 Il contesto territoriale per lo sviluppo delle cooperative sociali

La natura relazionale dei servizi offerti dalle cooperative sociali fa sì che il contesto territoriale, con i suoi attori di riferimento e la sua cultura, svolga un ruolo determinante per lo sviluppo e la crescita delle cooperative stesse. Ciò è vero anche all’inverso. Il rapporto, insomma, può essere visto da due punti di vista. Da un lato le cooperative sociali contribuiscono allo sviluppo del territorio operando in ambito sociale e cercando di rispondere al meglio a quelli che possono essere i bisogni e le necessità dei contesti geografici in cui si trovano. Dall’altro lato, il territorio stesso è fattore di aiuto all’operare delle cooperative sociali in vari modi, dall’offerta di risorse, finanziarie e non, alla possibilità o meno di agevolare (basti pensare alla burocrazia) l’operatività di ciascuna cooperativa.

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Tuttavia perché tale rapporto sia realmente utile occorre ricercarlo e porre in essere degli strumenti adeguati al fine di sviluppare e incrementare i legami tra il territorio, con tutti i suoi vari attori, e le singole cooperative.

I. Le potenzialità del bilancio socialeTra gli strumenti più adeguati per rispondere a tale necessità di coltivazione dei legami vi è il bilancio sociale. Questo è un documento che, oltre a rappresentare il quadro economico, finanziario, organizzativo e l’assetto della governance di una cooperativa, è un utile strumento di comunicazione per trasmettere a tutti gli stakeholder esterni che cosa realmente fa l’organizzazione. Tuttavia, il bilancio sociale non è sufficiente farlo, occorre anche comunicarlo e saperlo comunicare bene. Le modalità per far questo sono molteplici e tra queste vi sono: offrire la possibilità di scaricarlo dal sito della cooperativa, inviarlo per posta ai principali stakeholder di riferimento, organizzare un incontro di presentazione, ecc. Al riguardo De Vogli (2006, pag. 128) afferma: «per le aziende non profit il bilancio sociale non è (non dovrebbe essere) solo “un imprevisto strategico” o l’adempimento a un obbligo normativo, ma un must esistenziale di natura ontologica».

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ESPERIENZE PER CRESCERE

ENTE FINANZIATORE:Ministero del Lavoro e delle Politiche SocialiLINEA DI FINANZIAMENTO: Fondo per l’Associazionismo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (ex legge 383/2000), per l’anno finanziario 2009.AMBITO D’INTERVENTO: Inserimento lavorativo di disabili e di soggetti svantaggiati.OBIETTIVI:Obiettivo generale:Capitalizzare l’esperienza di alcune organizzazioni non profit associate, che operano nell’ambito dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, elaborando strumenti e metodi di lavoro che diventino patrimonio comune, del mondo cooperativo, istituzionale ed imprenditoriale.Obiettivi specifici:1. Conoscere e modellizzare esperienze “di successo” di organizzazioni operanti nell’ambito dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati;2. Creare una rete stabile tra imprese profit e non profit;3. Sostenere e prendere in carico 56 persone disabili e in situazione di disagio sociale.

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ATTIVITÀ REALIZZATE:%� studio di casi e modellizzazione delle buone pratiche. Sono state individuate e studiate

quattro organizzazioni associate a CDO Opere Sociali (denominate “organizzazioni senior”) che vantano un’esperienza d’eccellenza nel settore dell’inserimento lavorativo di persone disabili e in situazione di disagio. Finalità dello studio è stato quello di individuare un metodo di lavoro proficuo per incontrare e collaborare con l’impresa in termini organizzativi, gestionali, di creazione di partnership, di metodologie di inserimento e di supporto educativo alle persone in situazione di disagio.

%� attività di tutoraggio. Le organizzazioni senior si sono messe in gioco per la propria esperienza positiva, accompagnando alcune realtà meno esperte (denominate “opere junior”) nel loro percorso di crescita e sviluppo. Attraverso l’attività di tutoraggio è stato possibile sperimentare gli strumenti e le buone prassi individuate attraverso la ricerca – studio.

%� inserimento lavorativo di cinquantasei persone disabili o in situazione di marginalità. Le “opere junior” hanno sperimentato gli strumenti ed i percorsi individuati con le “opere senior” attraverso l’attivazione di percorsi di inserimento lavorativo.

%� incontri locali e nazionali tra imprenditori, opere sociali, associazioni di categoria e enti culturali in campo cooperativo;

%� elaborazione di proposte e suggerimenti alle istituzioni locali e nazionali per migliorare l’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati

ENTI COINVOLTI: Enti Senior:Coop. Solidarietà e lavoro di Busto Arsizio (VA),Coop. In-opera di Rimini,Coop. Pinocchio di Rodengo Saiano (BS),Cometa Formazione SCS di Como.Enti Junior:Coop. Work & services di Copparo (FE),Coop. Il carro di Paullo (MI),Coop. Solidarietà nuova di Vedano Olona (VA),Coop. Don Sandro Dordi di Porto Viro (RO),Coop. Hobbit di Piano D’Accio (TE),Coop. Colap di Monte San Savino (AR),Coop. Parsifal di Palermo,Ass. Servizio e promozione umana di Alcamo (TP).

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CDO OPERE SOCIALI CDO Opere Sociali è un’associazione di secondo livello che raccoglie oltre 1.400 realtà non profit iscritte a Compagnia delle Opere; ne fanno parte cooperative, associazioni, enti morali e fondazioni distribuite su tutto il territorio italiano.CDO Opere Sociali si pone come unico obiettivo quello di offrire un aiuto agli associati e, attraverso di loro, alle persone che ad essi si rivolgono, mai sostituendosi alla libertà delle opere e di chi in esse è impegnato, ma favorendo il più possibile il loro protagonismo.Molteplici sono i settori di intervento delle realtà associate: educazione e istruzione, disabilità, anziani, lotta alle dipendenze, inserimento al lavoro, cultura, sport, povertà e lotta allo spreco, ambiente, famiglia e minori, assistenza socio sanitaria, accoglienza, immigrazione e cooperazione internazionale.

ContattiCDO Opere Sociali Via Legnone 4 - 20158 Milano - Tel. 0236723900 - Fax 026694008e-mail: [email protected]

Partner scientificoFondazione per la Sussidiarietà La Fondazione per la Sussidiarietà è stata costituita nel 2002 quale luogo di dialogo tra soggetti impegnati a “sostenere la persona nel suo itinerario formativo, di presenza e di espressione nella società” (Art. 2 dello Statuto). In coerenza con tale obiettivo promuove iniziative di approfondimento culturale su temi sociali, economici, politici e scientifici, svolgendo attività di formazione e comunicazione per mezzo di corsi, convegni, seminari, pubblicazioni. Affianca enti e realtà profit e non profit nella programmazione culturale. Promuove e realizza progetti di ricerca. Il suo operato trae ispirazione dal principio di sussidiarietà che afferma il primato della persona rispetto alla società e della società rispetto allo Stato, affinché ogni decisione attinente l’interesse generale sia presa al livello più vicino al cittadino.

ContattiFondazione Sussidiarietà Sede centrale/ Head office: Via Torino 68 - 20123 MilanoTel. +390286467235 - Fax +390289093228e-mail: [email protected] - www.sussidiarieta.net