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Introduzione Nicola Rossi, Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi 1. Una scommessa vinta Proviamo a immaginare, con un piccolo esperimento mentale, che nel marzo del 1861 Camillo Benso conte di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia appena proclamato, avesse detto a Henry J. Temple, terzo visconte di Palmerston e primo ministro di Sua Maestà britannica, e a Otto von Bismarck, dal 1862 cancelliere del re di Prussia e presto dell’Impero: «Scommettiamo che tra centocinquant’anni l’Italia avrà un livello di benessere medio simile a quello dei vostri paesi?». Tanto Palmerston quanto Bismarck erano stati presi alla sprovvista dalla rapida conclusione del processo di unificazione dell’Italia. Palmer- ston, attento soprattutto all’incombere della guerra civile americana, aveva tenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo e, in ogni modo, distratto nei confronti degli eventi italiani del biennio 1859-61. Bismarck aveva nei confronti degli italiani ben scarsa considerazione, e pensava all’unifica- zione della penisola solo quale utile contrappeso meridionale all’Impero asburgico. Il Regno Unito, all’apice della propria potenza, godeva di un reddito per abitante almeno doppio rispetto a quello del Regno d’Italia in formazione. La Prussia si apprestava a unificare la Germania, potenza economica emergente e protagonista della seconda rivoluzione industriale. La penisola italiana vivacchiava, invece, da quasi due secoli in un lento declino economico dal quale solo allora si cominciavano a intravedere pallidi segni di ripresa. Di fronte al presidente del Consiglio del neo- nato Regno d’Italia, Palmerston e Bismarck avrebbero educatamente nascosto un sorriso di commiserazione, cercando di dissuadere il conte di Cavour dal puntare anche una sola bottiglia di Barolo sulla possibilità di un successo tanto strabiliante della nascente Italietta. Oggi sappiamo che Cavour avrebbe vinto la sua temeraria scommessa. In un secolo e mezzo il reddito medio degli italiani è cresciuto di quasi 13 volte. Poco più degli Stati Uniti (12 volte) e di Francia e Germania (11 volte), molto più del Regno Unito (7 volte), anche se meno di Spa- gna e Irlanda (15 e 16 volte, rispettivamente), e ancor meno di alcuni paesi scandinavi (Norvegia e Finlandia moltiplicano il proprio reddito per 20 durante lo stesso periodo, la Svezia per 18).

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Page 1: Nicola Rossi, Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi · Nicola Rossi, Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi 1. Una scommessa vinta Proviamo a immaginare, con un piccolo esperimento mentale,

IntroduzioneNicola Rossi, Gianni Toniolo e Giovanni Vecchi

1. Unascommessavinta

Proviamo a immaginare, con un piccolo esperimento mentale, che nel marzo del 1861 Camillo Benso conte di Cavour, presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia appena proclamato, avesse detto a Henry J. Temple, terzo visconte di Palmerston e primo ministro di Sua Maestà britannica, e a Otto von Bismarck, dal 1862 cancelliere del re di Prussia e presto dell’Impero: «Scommettiamo che tra centocinquant’anni l’Italia avrà un livello di benessere medio simile a quello dei vostri paesi?».

Tanto Palmerston quanto Bismarck erano stati presi alla sprovvista dalla rapida conclusione del processo di unificazione dell’Italia. Palmer-ston, attento soprattutto all’incombere della guerra civile americana, aveva tenuto un atteggiamento piuttosto ambiguo e, in ogni modo, distratto nei confronti degli eventi italiani del biennio 1859-61. Bismarck aveva nei confronti degli italiani ben scarsa considerazione, e pensava all’unifica-zione della penisola solo quale utile contrappeso meridionale all’Impero asburgico. Il Regno Unito, all’apice della propria potenza, godeva di un reddito per abitante almeno doppio rispetto a quello del Regno d’Italia in formazione. La Prussia si apprestava a unificare la Germania, potenza economica emergente e protagonista della seconda rivoluzione industriale. La penisola italiana vivacchiava, invece, da quasi due secoli in un lento declino economico dal quale solo allora si cominciavano a intravedere pallidi segni di ripresa. Di fronte al presidente del Consiglio del neo-nato Regno d’Italia, Palmerston e Bismarck avrebbero educatamente nascosto un sorriso di commiserazione, cercando di dissuadere il conte di Cavour dal puntare anche una sola bottiglia di Barolo sulla possibilità di un successo tanto strabiliante della nascente Italietta.

Oggi sappiamo che Cavour avrebbe vinto la sua temeraria scommessa. In un secolo e mezzo il reddito medio degli italiani è cresciuto di quasi 13 volte. Poco più degli Stati Uniti (12 volte) e di Francia e Germania (11 volte), molto più del Regno Unito (7 volte), anche se meno di Spa-gna e Irlanda (15 e 16 volte, rispettivamente), e ancor meno di alcuni paesi scandinavi (Norvegia e Finlandia moltiplicano il proprio reddito per 20 durante lo stesso periodo, la Svezia per 18).

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XII introduzione

Avrebbe l’Italia unita potuto fare meglio? Per rispondere alla do-manda, se la si giudica interessante, un modo plausibile è proprio quello di rifarsi alle condizioni iniziali del processo di unificazione, quelle prevalenti negli anni attorno al 1861, e alle aspettative che allora nutri-vano osservatori informati, come appunto i massimi leader politici della Gran Bretagna e della Prussia. Qualora accettassimo questo esperimento mentale, sarebbe difficile sfuggire alla conclusione che, almeno sotto il profilo economico, l’Unità d’Italia abbia portato a risultati positivi, del tutto inattesi.

2. Dallaperiferiaalcentro,epoi?

Il processo di sviluppo economico dell’Italia non fu agevole né, tantomeno, lineare. Al momento dell’unificazione politica, gli abitanti della penisola erano «poveri», con un reddito pro capite paragonabile a quello medio dell’Africa odierna [Maddison 2010]; oltre il 40 per cento della popolazione disponeva di un reddito neppure sufficiente a soddisfare i bisogni essenziali (cap. 8, Povertà).

Poveri erano, dunque, gli italiani in confronto ai paesi più avanzati, e anche numerosi. Completata l’unificazione, nel 1870, il re d’Italia si ritrovò con quasi 28 milioni di sudditi (il 2,2 per cento della popola-zione mondiale), contro i 38-39 milioni di Francia e Germania e i 31 del Regno Unito. In un’epoca in cui ancora si contavano le potenziali baionette, si trattava di un patrimonio importante che conferiva al nuovo Regno lo status di «potenza», seppure di rango minore. Dal punto di vista economico, la forza demografica dava all’Italia un peso pari quasi al 4 per cento del prodotto mondiale, superiore alla quota attualmente detenuta dal nostro paese. Appena creato, dunque, il nuovo Regno entrò nel club, istituito molto più tardi, delle maggiori «potenze economiche» (la quinta in Europa): faceva parte di un immaginario Gruppo dei Dieci (G10), assieme a Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Giappone, Cina, India, gli imperi asburgico e russo.

Il Regno d’Italia era, tuttavia, un gigante dai piedi di argilla e come tale venne percepito dai suoi contemporanei (non pochi, anzi, erano i governi che prevedevano o si auguravano che la nuova costruzione po-litica non avesse la forza di sopravvivere). La secolare divisione politica si era tradotta in una condizione di arretratezza che interessava molti settori. Carenze importanti riguardavano le istituzioni che tutelano i diritti di proprietà, la sicurezza dei cittadini, l’efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione [Ciocca 2007; Cerroni 1998]. Nell’era oramai avanzata delle ferrovie le infrastrutture di trasporto risultavano del tutto inadeguate [Cannari e Chiri 2003; Giuntini 1999b]. Mancava un disegno unitario per rendere l’istruzione elementare obbligatoria

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per tutti (cap. 5, Istruzione). I mercati dei beni, dei capitali, del lavoro erano ancora fortemente segmentati [Toniolo, Conte e Vecchi 2003; Federico 2007b].

Ci volle tempo per superare questa pesante eredità, e non stupisce dunque che nell’Italia che celebrava il primo cinquantennio di vita unitaria il reddito medio per abitante fosse cresciuto del 50 per cento appena rispetto al 1861 (cap. 6, Reddito).

Guardando oltre il Prodotto interno lordo per abitante il quadro si fa tuttavia più incoraggiante. Se infatti nel 1861 l’italiano medio poteva aspettarsi di vivere poco meno di 30 anni, una manciata di mesi in più del suo antenato romano di due millenni prima, cinquant’anni più tardi la «speranza di vita alla nascita» aveva raggiunto i 46 anni. Nel 1863, su 100 nati, più di 23 non raggiungevano il primo anno di vita; erano già meno di 15 a cinquant’anni di distanza (cap. 3, Salute).

L’altezza media delle reclute (indicatore sintetico di buona nutri-zione) aumentò, fra il 1861 e il 1911, da 162 a 165 centimetri (cap. 2, Stature). L’italiano medio raggiunse una dieta accettabile sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo (cap. 1, Nutrizione). La quota di cittadini analfabeti scese dal 79 al 38 per cento della popolazione (cap. 5, Istruzione). Per la prima volta la piaga millenaria del lavoro minorile mostrò segni di arretramento: l’incidenza dei minori al lavoro passò dal 65 al 45 per cento (cap. 4, Lavoro minorile). Si ridussero anche le vistose disuguaglianze nella distribuzione del reddito (cap. 7, Disuguaglianza) e la quota degli italiani poveri diminuì, dal 1861 al 1911, di quasi 14 punti percentuali, passando dal 44 al 30 per cento (cap. 8, Povertà). Nel complesso, il paese si era avviato nella direzione giusta, pur se a velocità ridotta.

I cento anni successivi furono quelli nei quali, per usare un’immagine felice di Vera Zamagni [1993], l’Italia si mosse «dalla periferia al centro». Nonostante la Grande Crisi – i cui effetti, oggi lo sappiamo [Giugliano 2010], furono severi anche in Italia – il Pil pro capite, tra il 1913 e il 1938, aumentò del 23 per cento. Continuò il progresso nella speranza di vita, nella mortalità infantile, nella statura media. L’analfabetismo si dimezzò ulteriormente, si ridusse il lavoro minorile. Diminuì, sia pure marginalmente, la disuguaglianza e, quantomeno fino al 1921, diminuì anche la povertà assoluta.

Come sappiamo, fu solo nel secondo dopoguerra che l’economia italiana prese a correre più velocemente di quella della maggior parte degli altri paesi (gli economisti usano il termine «rincorsa»). Contraria-mente al comune convincimento, non fu un miracolo. Gli anni del boom economico si spiegano con la capacità che gli imprenditori e i lavoratori italiani, sostenuti da un ceto politico consapevole della posta in gioco, mostrarono nell’utilizzare i vantaggi comparati del paese per agganciare la lunga fase espansiva dell’economia mondiale [Crafts e Toniolo 2010].

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XIV introduzione

La tecnologia fordista importata dagli Stati Uniti si adattava bene a un paese di bravi ingegneri e lavoro abbondante, sufficientemente istruito, disciplinato. Il livello di reddito medio dei primi anni Cinquanta era sufficiente ad alimentare la domanda dei beni di consumo durevoli che uscivano dalla catena di montaggio: il frigorifero, la lavatrice e la mitica «Nuova 500», che nel 1957 aveva sostituito la «Topolino». Per questi stessi beni, la domanda estera cresceva a ritmi sostenuti, trainando ul-teriormente la crescita dell’economia italiana.

Nel 1961 gli italiani potevano attendersi, in media, di raggiungere i 69 anni e ormai solo 4 neonati su cento non arrivavano al primo com-pleanno. Le reclute misuravano ormai più di un metro e settanta d’al-tezza. Oltre 9 italiani su 10 erano in grado di leggere e scrivere (anche se lo stesso non poteva dirsi per le italiane). Cresceva la disponibilità giornaliera di calorie e crollava l’incidenza del lavoro minorile. Se nel 1931 si viveva, mediamente, in quattro in tre stanze, nel 1951 già si stava un po’ più larghi e nel 1973 ancor di più: tre in tre stanze [Toniolo e Vecchi 2010]1.

La crescita rapida, nel quadro dell’«età dell’oro» dell’economia europea, continuò sino all’inizio degli anni Settanta, consentendo la conquista di nuovi livelli di benessere. Non era però tutto oro quel che luccicava in quegli anni: al contrario, dietro ai risultati positivi appena ricordati si celavano non solo i progressi di una collettività, ma anche e forse soprattutto la ricerca di «soluzioni facili» per far fronte alle difficoltà. Retribuzioni e merito presero direzioni diverse. Pensioni e contributi sociali si separarono per incontrarsi nuovamente solo qualche decennio più tardi. Entrate e uscite nel bilancio pubblico trovarono facile riconciliazione solo in un debito crescente.

La storia degli anni Settanta e Ottanta è forse più nota. L’Italia dell’economia, della politica, del sindacato stenta ad aggiornare i mo-delli culturali forgiati negli anni della rapida crescita a un mondo in rapido cambiamento tra fine del sistema monetario di Bretton Woods (1971), shock petroliferi (1973 e 1979-80), nuove tecnologie, mercati dei capitali in via di globalizzazione. A tensioni sociali crescenti, una guida politica debole e miope rispose dapprima con l’inflazione poi con la spesa pubblica in disavanzo. Il sindacato, da «organizzazione generale», rappresentante interessi maggioritari nel paese, si trasforma lentamente in tutore di interessi «sezionali» di corporazioni armate le une contro le altre [Rossi e Toniolo 1996].

1 Si trattava di case di proprietà in un caso su tre, in cui la stanza da bagno era disponibile in un caso su quattro, il telefono in un caso su dieci, il frigorifero (la vecchia «ghiacciaia» elettrica) in un caso su trenta, il riscaldamento centrale in un caso su dieci.

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La politica, la cultura, le istituzioni giungono impreparate alla nuova fase di espansione dell’economia mondiale che a partire dalla metà degli anni Novanta avrebbe spostato rapidamente, violente-mente, il baricentro economico del mondo. Giungono impreparate alle nuove tecnologie, ai nuovi mercati, ai nuovi rapporti di lavoro. L’Italia che in epoca giolittiana e, ancor più, nel ventennio aureo del secondo dopoguerra aveva saputo tanto bene adattarsi e trarre van-taggio dall’espansione dell’economia mondiale, reagisce malamente all’irrompere della «seconda globalizzazione». L’ingresso nell’euro, per quanto partecipato, non corrisponde a mutamenti di fondo nelle attitudini delle classi dirigenti del paese. La produttività ristagna, il reddito medio scende sotto quello dell’Europa occidentale, si inizia a parlare di declino [Toniolo e Visco 2004; Rossi e Toniolo 1996]. Si insinua una lenta, quasi impercettibile, tendenza dell’economia e della società a realizzare una crescita stentata, a ridurre la ricchezza accumulata, a rimanere immobili di fronte ai grandi mutamenti che esplodono nella cosiddetta «seconda globalizzazione». Si accresce lo iato tra il paese e i centri decisionali. Si fanno più evidenti le contese per la difesa di piccole o grandi posizioni di rendita.

Non mancano i progressi in alcuni campi: la speranza di vita, pari a 72 anni nel 1971, cresce al ritmo di tre anni in ogni decennio e supera gli 80 anni all’inizio del XXI secolo. La mortalità infantile, ancora non trascurabile nel 1971, tende a raggiungere un plateau «fisiologico». In termini di calorie pro capite l’Italia sale sul podio a livello mondiale (e, per la verità, comincia a mostrare i sintomi della sovralimentazione). Gli italiani vivono ormai, mediamente, in tre in cinque stanze, di proprietà in sette casi su dieci, in cui non mancano il locale bagno separato, i termosifoni, il frigorifero, la lavatrice, la televisione; compare, in quattro casi su cinque, il box per l’amatissima automobile. Continuano a cre-scere le stature medie, anche se per l’italiano medio il metro e novanta e la «costituzione adeguatamente armoniosa» dei corazzieri rimangono ancora obiettivi proibitivi.

L’indice di disuguaglianza, dopo essere precipitato dal 40 per cento circa del 1971 a poco meno del 30 per cento nel 1982, risale nei decenni successivi oscillando fra il 33 e il 35 per cento e accompagnandosi, per un verso, alla cronicizzazione di fenomeni di marginalità sociale e, per altro verso, a un significativo ampliamento della fascia di popolazione a rischio di povertà (cap. 9, Vulnerabilità) [Cies, vari anni]. Si arresta il processo di riduzione della diffusione della povertà che era scesa fino al 4 per cento nei primi anni Ottanta e oscilla poi intorno a quel valore nel trentennio successivo.

Nel primo decennio del nuovo secolo la crescita rallenta significa-tivamente, dimezzandosi addirittura rispetto al ventennio precedente. L’Italia perde colpi, visibilmente, rispetto ai principali partner europei,

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XVI introduzione

che a loro volta perdono terreno rispetto agli Stati Uniti e ancor più nei confronti dell’Asia emergente. Gli anni del secondo dopoguerra appaiono, in un’ottica di lungo periodo, come il risultato di una straor-dinaria combinazione di circostanze – favorevoli e colte con successso dal paese – più che come una significativa e permanente modifica delle tendenze di lungo periodo (cap. 6, Reddito). Si rafforza l’idea che l’Italia, riconquistata faticosamente una posizione di spicco, possa nuovamente perderla come già era accaduto fra Seicento e Settecento [Draghi 2010; Revelli 2010; Ciocca 2007].

3. Quantounitaèl’Italiaunita?

C’è, negli ultimi centocinquant’anni della storia d’Italia, un elemento strutturale, apparentemente ineliminabile: il divario territoriale.

Gli economisti hanno buone ragioni teoriche per pensare che il reddito di un’area arretrata cresca più rapidamente di quello di un’area più ricca compiendo così, secondo la loro terminologia, un processo di «convergenza». Vi sono ampie conferme empiriche che questo si verifichi a lungo andare, soprattutto negli stati unitari che condivi-dono un comune quadro istituzionale e sperimentano, solitamente, un elevato grado di integrazione economica. In Italia questo non è avvenuto. Anche il nostro Mezzogiorno ha subito una rivoluzione economica inattesa al momento dell’unificazione politica. Il reddito medio dei cittadini del Sud è cresciuto grossomodo di 10 volte (cap. 6, Reddito) e con esso sono migliorati tutti gli indici di benessere dei quali abbiamo parlato: speranza di vita, altezza, mortalità infantile, alfabetizzazione, incidenza del lavoro minorile, disuguaglianza e povertà. Ma l’andamento di queste variabili (con l’eccezione della speranza di vita) è stato, nel migliore dei casi, parallelo, non convergente, rispet-to all’andamento registrato al Nord. Si tratta di una peculiarità tutta italiana, con le implicazioni sociali e politiche ben note e che non mancano di riemergere periodicamente in occasione delle celebrazioni degli anniversari dell’Unità.

Dalle prime discussioni «scientifiche» di fine Ottocento sulla «que-stione meridionale» a oggi, permane un dissenso sulla dimensione del divario tra il Nord e il Sud del paese al momento dell’Unità. Alcuni studiosi hanno recentemente riproposto la tesi secondo la quale il di-vario regionale nella produzione industriale fosse meno marcato nel 1861 che nel 1913 [Fenoaltea 2003b; Daniele e Malanima 2007]. La politica economica dei governi dell’Italia unita, in particolare la politica doganale, sarebbe stata responsabile dell’allargamento della forbice tra il Nord e il Sud negli anni successivi all’unificazione. È la vecchia tesi di Giustino Fortunato, fondata ora su basi empiriche più solide ma forse

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introduzione XVII

non ancora conclusive [Fortunato 1911]2. Le stime riportate in questo volume (cap. 6, Reddito) segnalano, certo, un approfondirsi dei divari territoriali in termini di reddito fra il 1871 e il 1911, ma sottolineano anche come si sia trattato di dinamiche di portata limitata a partire da una situazione iniziale in cui il divario non era poi così trascurabile: nel 1871 il reddito pro capite del Mezzogiorno rappresentava l’84 per cento del reddito pro capite medio del Centro-Nord3. Quarant’anni dopo, nel 1911, si attestava intorno al 76 per cento. Ci troveremmo, dunque, nel primo cinquantennio, di fronte a un allargarsi del divario Nord-Sud, ma di proporzioni tutto sommato contenute.

Nei successivi trent’anni il reddito pro capite meridionale scese fino a toccare il 60 per cento del reddito medio pro capite delle regioni centro-settentrionali. Il punto di minimo fu toccato nel 1951 con il 49 per cento (54 per cento se tenessimo conto dei diversi livelli dei prezzi prevalenti nelle diverse aree del paese). Questa tendenza si invertì negli anni Sessanta e Settanta ma fu un fenomeno di breve momento: nel quarantennio successivo la dinamica divergente riprese vigore.

In termini di divari territoriali molto poco sembra essere cambiato nell’ultimo secolo. Le leggi speciali di Zanardelli dell’inizio del Nove-cento, l’intervento straordinario del secondo dopoguerra (con la parziale eccezione della prima, notevole, stagione della Cassa del Mezzogiorno), la nuova programmazione della fine del Novecento: tutto è passato come acqua sulla pietra.

Quasi tutti gli indicatori di benessere esaminati in questo volume, dalla seconda metà del’Ottocento a oggi, dipingono un Mezzogiorno più arretrato del Nord del paese. Non mancano le eccezioni, anche importanti. Valga per tutti l’esempio della mortalità infantile, che mostra una tendenza di fondo registrata analizzando numerosi altri indicatori del benessere. Negli anni in cui nacque lo stato unitario Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto erano le regioni caratterizzate dai tassi più elevati di mortalità infantile. Cinquant’anni più tardi, nel 1911, in vetta alla classifica Puglia e Sicilia si aggiunsero alla Lombardia. Dopo altri cinquant’anni, la maglia nera era passata a Basilicata, Puglia e Campania. Nel 2007, ultimo anno per il quale sono disponibili le necessarie rilevazioni, il tasso di mortalità

2 Si potrebbe osservare, infatti, che la presenza di industria manifatturiera non indica da sola eguaglianza di condizioni economiche complessive. Nell’economia della metà dell’Ottocento era cruciale la produttività in agricoltura. E c’era mani-fattura e manifattura: quella che sparì al primo soffio della concorrenza non aveva la medesima valenza economica (e sociale) di quella che si era già affermata nel confronto con il mercato.

3 La correzione dei divari territoriali per tener conto dei diversi livelli dei prezzi non è possible per le decadi immediatamente successive all’Unità (cap. 11, Costo della vita). Non è il caso però di dare per scontato che tener conto dei diversi livelli dei prezzi avrebbe necessariamente ridotto quei divari.

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infantile è pari al 2,9 per mille nell’Italia settentrionale e al 4,2 per mille nel Mezzogiorno. A scanso di equivoci, è bene essere chiari: nel campo della salute l’Italia ha raggiunto risultati di assoluta eccellenza. Ma non tutta l’Italia ha camminato alla stessa velocità.

A conclusioni simili si giunge anche nel campo dell’istruzione. A distanza di centocinquant’anni dall’Unità è certamente vero che l’alfabetizzazione delle diverse circoscrizioni è andata uniformandosi, anche se si è dovuto attendere oltre un secolo, forse di più, prima di potere archiviare la questione analfabetismo4. È altrettanto vero che nel 2006 poco meno di uno studente meridionale quindicenne su due aveva scarse competenze in matematica (contro uno su tre nella media italiana) e poco più di uno su tre stentava nell’area della lettura (contro uno su quattro nella media italiana). Così com’è vero che i laureati in matematica, scienze e tecnologia meridionali erano pari all’8 per mille degli abitanti, contro il 14,5 per mille del Centro-Nord.

E che dire di un indicatore per certi versi «comprensivo», capace di sintetizzare cioè l’effetto di fattori economici e ambientali sulle con-dizioni di vita, come la statura? Nel 1861 3,2 centimetri separavano i settentrionali dai meridionali, 2,8 centimetri li separavano nel 1980 (in corrispondenza, cioè, dell’ultima leva prima dell’abolizione della coscri-zione obbligatoria): si tratta di una persistenza ultra-secolare laddove si sarebbe atteso un processo di convergenza. Circa la disuguaglianza della distribuzione dei redditi, tanto il Nord quanto il Sud hanno seguito un processo di sviluppo economico perequativo, associato cioè a una riduzione della disuguaglianza. Ma oggi, così come ieri, l’indice di Gini computato sui redditi dei meridionali si distanzia in misura non trascura-bile dall’indice corrispondente relativo al Centro-Nord. Sulla stessa linea si collocano i dati relativi alla povertà, i quali mostrano una riduzione significativa e generalizzata nel corso del secolo e mezzo post-unitario, ma a fine corsa, nel 2008, i tassi di diffusione della povertà meridionali risultano quadrupli rispetto a quelli settentrionali, mentre erano meno che doppi nel 1861. Divari ancora più ampi si riscontrano quando si considera la vulnerabilità economica delle famiglie. In questo caso i dati non consentono che uno sguardo parziale, limitato al quarto di secolo più recente, e mostrano che mentre le regioni del Nord hanno registrato un successo significativo nella riduzione della fragilità finanziaria delle famiglie, nel Mezzogiorno il rischio di povertà è aumentato e riguarda ormai oltre la metà della popolazione residente (cap. 9, Vulnerabilità). In questo caso, peraltro, il problema non è quello di un Sud più lento del Nord, ma di un Sud che marcia in direzione opposta: la vulnerabilità alla povertà delle famiglie meridionali è in aumento, contrariamente a quanto avviene per le famiglie settentrionali.

4 Tullio De Mauro [2010] spiega, peraltro, che l’analfabetismo non è scomparso.

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introduzione XIX

La mancata convergenza tra il Sud e il Nord del paese segnala un fallimento dello sviluppo economico italiano e delle classi dirigenti che lo hanno guidato? Questa domanda presuppone che il principale obiettivo economico dello stato unitario fosse quello di promuovere lo sviluppo in un quadro di maggiore omogeneità economica tra le diverse aree. Su questo punto però le opinioni possono legittimamente divergere. Le ragioni del persistere della divergenza nei redditi regionali sono molte: alcune legate alla politica economica, altre totalmente indipendenti da essa, quali per esempio fattori geografici, socioculturali, e perfino istituzionali nella misura in cui le istituzioni unitarie non abbiano avuto applicazione omogenea nel paese. In quest’ultimo caso, la responsabilità dello stato unitario sarebbe quantomeno indiretta, meno facile da individuare nella carenza o inadeguatezza di politiche di sua diretta competenza.

I padri ottocenteschi dell’Italia unita non ritenevano che fosse compito dello stato alleviare la povertà e tutelare la salute (molti di essi erano, invece, convinti che lo fosse diffondere l’istruzione elementare). Oggi, inutile sottolinearlo, vi è largo consenso sul fatto che la promozione di alcune dimensioni del benessere – istruzione, salute e riduzione della povertà – sia primaria responsabilità di uno stato moderno. Con gli occhi di oggi, quelli con i quali sempre si guarda alla storia, osserviamo che il fallimento dello stato unitario nel garantire una diffusione del benessere uniforme sul territorio difficilmente può essere contestato.

4. SeCavoureGaribaldiavesserofallito

Quale che sia il giudizio – storico, politico, perfino etico – del lungo persistere di divari territoriali in molte dimensioni del benessere, le spie-gazioni del fenomeno sono più d’una. Vanno – senza pretesa di essere esaustivi – dal peccato originale della «conquista regia» alla storia del Mezzogiorno meno ricca di civiltà urbana e pertanto, secondo alcuni, meno efficace nel generare quella capacità sociale (social capability) che, insieme alla fiducia nei propri concittadini e nelle istituzioni (social ca-pital), molti ritengono indispensabile allo sviluppo economico moderno [Putnam 1993; Abramovitz 1989]. Non è questo il luogo per passare una volta di più in rassegna questi o altri fattori o di discuterne il merito. È il caso, piuttosto, di porsi due domande difficili che aleggiano intorno alle celebrazioni unitarie. La prima: ne è valsa la pena? La seconda: supposto che si risponda in modo affermativo alla prima domanda, ne vale ancora la pena?

Diciamo subito che gli autori di questo capitolo introduttivo – econo-misti per formazione e quindi forse anche per forma mentis – ritengono vi siano buone ragioni economiche per valutare positivamente l’espe-rienza dell’Italia unita, con tutti i limiti che abbiamo sintetizzato. Ma

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XX introduzione

non di sola economia si tratta. Vi sono altre ragioni, non meno forti, per ritenere che la storia italiana ed europea degli ultimi centocinquant’anni sarebbe stata indesiderabilmente diversa in assenza di un’Italia unita. Ragioni storiche, culturali, linguistiche, sociali, politiche. Ragioni che – senza paura di essere accusati di retorica – chiamiamo sinteticamente ideali, patriottiche.

Una parte importante, e per molti aspetti nuova, della storia economica dell’Unità d’Italia è raccontata nelle pagine dei capitoli che seguono. Ciascuno può farsene un giudizio. In questo giudizio si può assumere l’Unità come un dato di fatto e argomentare che, nelle circostanze dome-stiche e internazionali date, avremmo potuto ottenere tassi di crescita più elevati, una più equa distribuzione personale del reddito, una sostanziale uguaglianza territoriale del benessere, per esempio tramite diverse po-litiche economiche. È un tema sempre aperto, di difficile formulazione analitica e storica ma comunque interessante. Non è, tuttavia, la strada per impostare una risposta alla domanda se sia valsa la pena di creare un’Italia unita. Per affrontarla, bisogna fare un esperimento mentale ben più complesso di quello sull’ipotetica scommessa tra Cavour, Palmerston e Bismarck dal quale siamo partiti. Si tratta di immaginare un mondo «controfattuale», nel quale non si fosse realizzata l’Unità. Vediamo già gli storici levare gli scudi: la storia non si fa con i «se». Certo. Ma solo un esperimento «controfattuale» consente di impostare una riflessione sugli effetti dell’evento Unità, isolandolo da tutto il resto: impresa evi-dentemente non facile.

Immaginiamo che gli austriaci avessero vinto a Solferino e San Martino e che Garibaldi non fosse mai partito da Quarto. E immaginiamo che non si fossero presentate successivamente occasioni militari favorevoli a creare un Regno d’Italia. Invece di trasformarsi in entità economica di dimensioni considerevoli (un membro del «G10» ottocentesco), la penisola sarebbe rimasta divisa in sette piccoli stati (supponendo magari che, nel 1919, il presidente Wilson avesse sposato la causa «nazionale» di un Lombardo-Veneto indipendente). Il maggiore di questi stati – il Regno delle due Sicilie – avrebbe avuto, dopo il 1861, una popolazione poco superiore agli 8 milioni. I più piccoli, i ducati di Parma e Modena, non avrebbero raggiunto i 500.000 abitanti ciascuno. In astratto poco male: la dimensione demografica del Regno di Sardegna o del Lombardo-Veneto era simile a quella del Belgio e della Svezia (dotata però di un enorme territorio), maggiore di quella dei Paesi Bassi (peraltro potenza coloniale) e della Svizzera. Quali sarebbero state, in queste circostanze, le opzioni economiche aperte ai piccoli paesi della penisola italiana?

Nel quadro internazionale della cosiddetta «prima globalizzazione», gli stati italiani avrebbero dovuto organizzarsi come piccole economie aperte quali erano, appunto, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera. Avrebbero dovuto puntare tutto sullo sfruttamento dei propri vantaggi compa-

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rati, costruendo la prosperità nazionale unicamente sulla capacità di esportazione. Ma i vantaggi (quantomeno assoluti) nell’esportazione di prodotti agricoli non erano forti; altre risorse naturali erano quasi del tutto assenti. Lo sviluppo della manifattura avrebbe trovato un ostacolo formidabile nella modesta dimensione del mercato interno e quindi nella difficoltà di sfruttare economie di dimensione, importantissime nei settori trainanti della seconda rivoluzione industriale. Ben presto ai singoli stati della penisola si sarebbe posta un’alternativa secca. Avrebbero potuto puntare, come la Germania di mezzo secolo prima, alla costruzione di uno Zollverein (unione doganale)5 italiano oppure arroccarsi entro i propri confini, al riparo di inefficienti barriere tariffarie. In questo caso, avrebbero avuto difficoltà a costruire infrastrutture di trasporto e comunicazione trans-nazionali, a finanziare grandi progetti portuali a beneficio di tutti, a costruire mercati finanziari efficienti.

Se gli stati italiani, come è probabile, avessero puntato all’unione doganale, avrebbero presto sentito la necessità di unificare moneta, mercati finanziari e istituzioni. Se avessero seguito il modello tedesco ottocentesco avrebbero alla fine realizzato anche l’unità politica. Se non ne avessero avuto la forza, l’esperienza dell’Europa post-bellica mostra che si sarebbero imbattuti in problemi economici superabili solo con la creazione di uno stato federale unitario. Qualora non fossero stati capaci di creare l’unione doganale (i problemi di coordinamento sembrano essere sempre maggiori in Italia che altrove) la somma delle economie dei singoli stati sarebbe stata più debole e meno capace di produrre ricchezza di quella dell’Italia unita. L’economia della penisola e delle singole regioni non avrebbe avuto il successo che, con tutte le qualificazioni che si vogliono, ha arriso all’Italia unita.

Se Garibaldi e Cavour non fossero esistiti o avessero fallito, gli stati italiani avrebbero prima o poi creato un’unione doganale il cui sbocco, nel tempo, sarebbe inevitabilmente stato l’unità politica, seppure pro-babilmente in forma federale. In questa prospettiva, la scelta federale avviata negli anni Novanta e solo oggi prossima alla conclusione appare come un esito sotto molti punti di vista necessitato: rallentato, forse, dagli eventi novecenteschi ma in molti sensi implicito nella diversità delle tante realtà che geograficamente fanno l’Italia. Una diversità che è essa stessa fonte primaria dell’identità italiana. Anche sotto questo profilo non vanno sottovalutate le tante indicazioni presenti nei capitoli di que-sto volume. Una per tutte: la riconsiderazione di un luogo comune in tema di istruzione primaria e cioè l’idea che lasciare alle autorità locali l’onere di provvedere i servizi scolatici sia stato alla radice della scarsa

5 Zollverein è un termine che indica l’unione doganale istituita dalla Prussia nel 1834 fra i trentotto stati della Confederazione tedesca al fine di creare un’ampia zona di libero scambio e migliorare i flussi commerciali interni [Cameron e Neal 2005].

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performance dell’Italia unitaria in quel campo (cap. 2, Istruzione). È probabile che, nella media, ciò sia stato ma non già per la limitatezza delle risorse locali: quel che i dati sembrano suggerire è proprio la re-lazione virtuosa fra responsabilità e performance.

Avendo risposto affermativamente alla prima domanda («è valsa la pena di unificare l’Italia?»), resta da affrontare la seconda: sono ancora valide le ragioni economiche dello stare insieme all’alba del XXI secolo? La «seconda globalizzazione» è molto diversa dalla prima. L’irrompere sulla scena economica internazionale di giganti demografici quali la Cina e l’India sovverte l’ordine eurocentrico durato per mezzo millennio. È ormai luogo comune, ma non lo era pochi anni fa, riconoscere che il Pacifico sia il centro, il motore, dello sviluppo planetario. La Cina riconquista il posto preminente nell’economia mondiale che aveva occupato sino all’inizio del Novecento grazie al numero dei propri cittadini. I cinesi godono ancora di un livello di benessere relativamente modesto (il loro reddito medio non raggiunge il 15 per cento di quello statunitense) ma la combinazione di un’enorme forza demografica con un’economia assai vivace, che sembra non dare segni di affaticamento, mette la Cina al centro delle dinamiche che stanno configurando l’economia dei prossimi decenni. Al centro, ma non come attore unico. L’India e i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sono tutti attori di peso crescente. Gli Stati Uniti, indeboliti da grandi errori militari e di politica estera oltre che dalla crisi economica, restano depositari della principale forza produttiva mondiale e capaci di una straordinaria vitalità che, probabilmente, ci stupirà ancora una volta.

Con attori di questo calibro impegnati a riscrivere la storia del mon-do, quale destino potrebbe arridere a un’indipendente «Italia di sopra» o a un’autonoma «Italia di sotto»? L’Unione europea arranca, rischia l’emarginazione, pur essendo – nell’insieme – la seconda potenza eco-nomica del mondo. Le ragioni dello «stare insieme» sono più forti che mai e al tempo stesso diverse che per il passato. Oggi si tratta di «stare insieme» nell’Europa e per l’Europa. Dopo centocinquant’anni, l’Italia unita ha senso in una partecipazione sempre più stretta all’Europa unita, la sola in grado di ridare a tutti gli italiani – del Nord, del Centro e del Sud – la chance di partecipare a un futuro di benessere, oltre che di civiltà, nelle pensabili e impensabili evoluzioni dell’economia mondiale dei prossimi decenni.

5. Successopienoomezzosuccesso?

Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fino a questo punto avrà colto il nostro punto di vista: è difficile dire se e in che misura il processo unitario sia stato un «successo». Il giudizio dipende dalla

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valutazione che oggi diamo delle difficoltà che gli italiani dovettero superare per ottenere il livello di benessere oggi raggiunto. Difficol-tà naturali, come la virtuale assenza di materie prime e la posizione geografica periferica; difficoltà derivanti da un passato di divisioni, dall’atavica diffidenza verso lo stato e al tempo stesso dall’aspettarsi troppo dallo stato stesso; difficoltà derivanti da una cultura per lungo tempo riluttante a comprendere le esigenze dello sviluppo economico moderno. L’elenco potrebbe continuare: con quali mezzi, in quale mo-mento storico avrebbe potuto l’Italia superare meglio di quanto abbia fatto le difficoltà alle quali si è trovata dinanzi nel cammino verso lo sviluppo economico moderno? È una domanda che gli storici sono restii a porsi e che probabilmente non può trovare risposta con i metodi di ricerca normalmente utilizzati.

Resta la constatazione innegabile che nel corso dell’ultimo secolo e mezzo il nostro paese ha invertito un declino che durava da quasi duecento anni, da quando l’Italia centro-settentrionale era la regione più ricca d’Europa e quindi, forse, del mondo. È vero che la crescita si è rivelata molto più rapida di quanto si attendessero gli italiani nel 1861, o nel 1911, o forse anche nello stesso 1946, all’indomani della proclamazione della Repubblica. Ma questa osservazione è meno vera, con ogni probabilità, per gli italiani che solo quindici anni più tardi, nel 1961, festeggiarono il primo centenario dell’Unità con un’economia che cresceva a tassi mai prima registrati, forse non sostenibili nel lungo andare e che infatti diminuirono, come nel resto del mondo occidentale, a partire dai primi anni Settanta.

Successo pieno o mezzo successo, dunque, secondo gli angoli di visuale. Questa banale considerazione mette in guardia contro la tenta-zione di «fare bilanci» sbrigativi applicando logiche binarie a processi storici complessi che da quelle logiche tendono a rifuggire. Ma si tratta di una tentazione alla quale, soprattutto in occasione degli anniversari, non è facile sottrarsi. E infatti, i bilanci non sono mancati in passato né mancheranno in futuro [Fenoaltea 1998]. Sul piano economico si è trattato prevalentemente di bilanci basati sull’andamento del reddito e delle sue componenti. Altre importanti dimensioni del benessere (non sempre correlate al reddito) sono state trascurate o analizzate con scarso rigore. Sotto questo aspetto le ricerche delle quali dà conto questo libro costituiscono un apporto significativo alle conoscenze esistenti sino a oggi. Non era sinora disponibile, per un arco di tempo tanto lungo, una mole di informazioni quantitative così ricca e ampia sul benessere degli italiani – nelle sue diverse espressioni – e sulla sua distribuzione fra i cittadini e le aree geografiche che compongono il paese: dalle condizioni di vita, in termini generali, alle condizioni di lavoro, dall’alimentazione alla salute, dall’istruzione al reddito, dalla disuguaglianza alla povertà (sperimentata o temuta).

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I capitoli che seguono offrono – per la prima volta – la solidità di una ricostruzione quantitativa in grado non solo di corroborare la lettura e l’interpretazione degli storici ma anche di riproporre in termini diversi questioni già note o di avanzarne di nuove. Fra le prime, la persistenza delle disparità territoriali è forse il caso più evidente. Fra le seconde, la permanenza e, soprattutto, la «resistenza» di fenomeni che si riteneva-no quasi scomparsi: la sottonutrizione e la cronicità della povertà. Ma anche il riemergere – fra le smagliature di una rete di protezione ieri assente e oggi obsoleta – di fenomeni che certo non possono definirsi nuovi: aumentano infatti alcuni rischi che pensavamo dimenticati come la povertà, e si dilatano le disuguaglianze sociali.

6. L’ordinelogicodellecose

In occasione dei precedenti anniversari l’enfasi era stata posta in primo luogo sugli aspetti economici della vicenda unitaria: sul reddito o sui consumi degli italiani. Le ragioni di questa attenzione erano com-prensibili. Molte di quelle che oggi chiamiamo dimensioni individuali del benessere – dalla nutrizione all’istruzione, dalla salute alle condizioni ambientali – non erano e non sono altro che componenti di ciò che definiamo capitale umano, della sua qualità oltre che della sua quantità. In maniera non dissimile, le dimensioni collettive del benessere – di-suguaglianza e povertà, per esempio – non erano e non sono altro che componenti di ciò che oggi definiamo capitale sociale. Capitale umano e sociale concorrevano e concorrono, indirettamente, interagendo con il capitale fisico e con la tecnologia, a determinare l’evoluzione del reddito, presente e futuro. Quest’ultimo sembrava quindi sintetizzare ragionevolmente bene l’operare di molteplici fattori che oggi chiamiamo «dimensioni del benessere» ma che fino a qualche decennio fa consi-deravamo come elementi costitutivi del potenziale produttivo di una collettività e quindi della sua potenza economica.

Nel corso degli ultimi decenni, soddisfatti pian piano nel mondo occidentale i bisogni materiali, si è diffusa l’opinione che in realtà la distanza si allargasse fra il contenuto informativo di misure come il Prodotto interno lordo e il messaggio implicito in misure di benessere di carattere non strettamente economico. Progressivamente, quello che inizialmente era un problema di misurazione, si è tradotto in un problema ben più profondo: quello della (parziale) alternativa per la società fra obiettivi economici e obiettivi non necessariamente economici genericamente indicati come «qualità della vita». Quelli che inizialmente erano input per la produzione di reddito e dunque benessere (un livel-lo adeguato di nutrizione, di condizioni di salute, di istruzione) sono ormai considerati output, ossia elementi del benessere stesso, e l’enfasi

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si è spostata su altri aspetti, sul livello del benessere medio, sulla sua composizione, sulla sua distribuzione.

La crescita economica non può essere vista come fine a se stessa. Essa stessa è un mezzo per un fine. Se, fino alla seconda metà del Novecento, il fine era inteso da molti in termini di potenza (gli otto milioni di baionette...), oggi il fine dell’attività economica si identifica con la crescita del benessere dei membri di una data collettività (sovente identificata con lo stato), con la sua distribuzione, con la «qualità della vita» nei suoi molteplici aspetti. Sulla capacità di creare e distribuire benessere si valuta oggi, esplicitamente o implicitamente, il «successo» di una collettività, delle sue istituzioni, delle sue politiche.

Non essendo il «benessere» facilmente definibile né, tantomeno, comparabile tra individui e collettività diverse, la valutazione del «suc-cesso» di una società non può prescindere da una misurazione delle tante dimensioni del benessere anche se queste si prestano con grande difficoltà ad essere tradotte in un indicatore sintetico [Giovannini 2010]. In quest’ottica, potremmo fermarci qui e concludere che, come si è già osservato, questo è quel che ha cercato di fare la ricerca condotta in questo volume: misurare l’andamento nel tempo del benessere degli italiani nei suoi diversi aspetti, monetari e non monetari. Abbiamo vo-luto quantificare le diverse componenti che contribuiscono a generare ciò che complessivamente e astrattamente chiamiamo «benessere di una collettività».

Se ci fermassimo qui perderemmo probabilmente di vista alcune delle questioni che la stessa storia unitaria contribuisce a riportare alla nostra attenzione. Come dimostra, ad esempio, l’evolversi recente del rapporto sino-americano, il tema di fondo – lungi dall’essere quello del superamento della crescita – è e rimane quello della competizione economica fra collettività, e in questa competizione le «dimensioni del benessere» devono essere oggetto d’attenzione in quanto sono, certo, fini in sé ma sono anche elementi condizionanti della crescita futura e dei suoi caratteri.

L’esempio dell’istruzione dovrebbe essere sufficientemente con-vincente. L’analfabetismo di ritorno, la bassa scolarizzazione, la scarsa qualità dell’istruzione non segnalano solo il mancato raggiungimento di un obiettivo ma sono, soprattutto, indicatori anticipatori di una futura ridotta capacità competitiva del paese. Sia pure in termini diversi si può aggiungere l’esempio della salute. Una speranza di vita di cui andare or-gogliosi può anche preannunciare (se non associata a una corrispondente speranza di vita in buona salute) tensioni non facilmente superabili nei conti pubblici e, di conseguenza, può porre limiti ulteriori alle possibilità economiche del paese. Alla disponibilità di un numero di calorie secondo solo a quello degli Stati Uniti non è probabilmente estraneo quel patri-monio enogastronomico nazionale che ha contribuito a rendere l’Italia

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famosa nel mondo. Ma nel momento in cui (e già accade) si traducesse in sovralimentazione e poi in obesità avrebbe ricadute non trascurabili in termini di salute e quindi in termini di benessere economico futuro.

In questo senso l’ambizione della ricerca che qui si presenta va un po’ oltre il tentativo, che certo ci pare importante perché condotto per la prima volta in modo sistematico lungo quindici decenni, di offrire una misura dell’evoluzione di numerose dimensioni del benessere. L’ambizione è anche e soprattutto quella di contribuire a ricordare a noi tutti l’ordine logico delle cose, chiarendo a noi stessi, nell’occasione del centocinquantenario, i termini della questione: il miglioramento della qualità della vita di una collettività nel suo insieme e dei suoi singoli membri non sono conseguiti una volta per sempre, ed esistono anzi dubbi sulla solidità di alcuni suoi elementi e sulla loro futura sosteni-bilità economica.

L’Italia deve tornare a crescere come ha fatto nella maggior parte degli anni della sua storia unitaria, consapevole del fatto che la crescita sostenuta (quella documentata nel capitolo 6, Reddito, con un Pil per abitante in aumento del 5-6 per cento annuo nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale) ha rappresentato l’eccezione piuttosto che la regola dal 1861 a oggi. Osservato in questa prospettiva, il percorso unitario – così come emerge dalla ricostruzione dei capitoli che seguono – appare ancora incompleto e segnato da elementi di fragilità. I decenni che abbiamo alle spalle ci danno tutti gli elementi per pensare che gli italiani possano farcela ma ci indicano anche dove e come possano fallire.

Nel festeggiare con orgoglio questo primo secolo e mezzo di vita unitaria non è, dunque, nostra intenzione limitarci a offrire un quadro del nostro passato, in molte delle sue sfaccettature: fermarci al ricordo – per quanto ora documentato secondo gli standard scientifici della co-munità internazionale – della nostra storia. Pensiamo, infatti, che il paese abbia, come poche volte nella sua storia unitaria, soprattutto bisogno di indicazioni per il futuro. Alcune sono fornite dalla storia ricostruita in questo volume; ma la storia da sola non basta, a meno che non sia accompagnata dalla voglia di farla, la storia.

Volendo dare credito alle indagini demoscopiche, sembrerebbe che gli enormi progressi ottenuti nell’ultimo mezzo secolo in fatto di benes-sere abbiano influito in modo che a prima vista appare relativamente modesto sulla soddisfazione della vita percepita dagli italiani. Questi i risultati che emergono dalle indagini condotte da Eurobarometro nel corso degli ultimi trent’anni sulla «felicità» e sul livello di «soddisfazio-ne della vita» degli italiani. Ciò non stupisce. Ciascuno di noi valuta le condizioni proprie e dell’ambiente in cui vive in ciascun momento con scarso riferimento al passato. I livelli di benessere raggiunti dagli indi-vidui e dalle collettività vengono presto dati per scontati. Gli psicologi usano il termine habituation per definire questo fenomeno. La memoria

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storica di un passato anche relativamente vicino si perde rapidamente. Le pagine che seguono vogliono contribuire a restituire agli italiani quella memoria storica, nella speranza che ciò li induca a capire che il benessere, diversamente dai diamanti, non è per sempre. Anzi.

Garantire ai figli il livello di benessere conosciuto dai padri è un’operazione possibile solo se ci si pone, collettivamente, l’obiettivo di spezzare alcune delle continuità che hanno segnato questi ultimi centocinquant’anni di storia italiana. Solo se si scriverà a chiare lettere sulle nostre scuole e sulle nostre università che un capitale umano non adeguatamente e opportunamente istruito è un capitale umano quasi inservibile. Solo se si ricorderà che un capitale sociale incrinato dalla frattura territoriale diventa parzialmente inutilizzabile (nel senso che se il Mezzogiorno non cresce quanto e più del Settentrione almeno per un po’ e se il Settentrione non riprende a crescere il paese non crescerà quanto necessario). Solo se non si aspetterà il prossimo anniversario, la prossima ricorrenza, la prossima commemorazione per ricordare a noi stessi e agli altri che l’Italia ha bisogno di sostituire «all’ansia della rincorsa» (una forza che è servita in passato, ma non è più sufficiente nel mondo di oggi), uno «spirito animatore, una ambizione nazionale. Desiderio di eccellere come paese, fiducia nelle sue forze, sguardo lungo» [Padoa Schioppa 2007]. Il 2061 è vicino, e il bilancio che gli italiani di allora faranno è tutto scritto nelle scelte degli italiani di oggi.

Ornella
Casella di testo
Estratto da In ricchezza e in povertà - Il benessere degli italiani dall'Unità a oggi di Giovanni Vecchi Il Mulino, Bologna, 2011 495 pagine, € 40,00 http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=14930