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Page 1: CENTRO EUROPA RICERCHE · Carlo Padoan, Antonio Pedone, Gianni Toniolo Rapporto CER: pubblicazione periodica a carattere economico. Anno XXXII Direttore responsabile: Anna Maria Lombroso
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CENTRO EUROPA RICERCHE

l Centro Europa Ricerche è una società di ricerca che elabora studi nel campo dell’economia applicata. Le analisi del Cer comprendono previsioni di breve e medio periodo sulle tendenze dell’economia italiana, valutazioni quantitative su provve-dimenti di politica economica, studi monografici di finanza pubblica, politica tributaria, politica monetaria e politica industriale. Il Cer è tra gli istituti chiamati con regolarità, anche nella forma delle audizioni parlamen-tari, a fornire valutazioni e commenti sulle prospettive economiche e, in particolare, sulle tendenze della finanza pubblica. Per le previsioni, le analisi e le simulazioni di politica economica il Cer utilizza i suoi modelli econometrici, macroeconomici e di microsimulazione, che sono continuamente aggior-nati e migliorati. Il modello macroeconomico, oltre a consentire la previsione delle princi-pali grandezze economiche e degli andamenti della finanza pubblica permette di sot-toporre a verifica l'impatto sull'economia delle manovre governative. Il modello di microsimulazione rende possibili le valutazioni dell’impatto distributivo sulle famiglie di provvedimenti di natura fiscale e tariffaria, integrando informazioni sui redditi e sui consumi. I rapporti Cer sono riservati ai sottoscrittori di un abbonamento. Per la presentazione dei rapporti il Cer organizza incontri-dibattito riservati agli abbonati.

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Centro Europa Ricerche S.r.l. Via G. Zanardelli, 34, 00186 Roma Tel. (0039) 06 8081304 E-mail: [email protected] www.centroeuroparicerche.it Presidente Onorario: Giorgio Ruffolo Presidente: Vladimiro Giacché Vicepresidenti: Matteo Arpe, Claudio Levorato Direttore: Stefano Fantacone Comitato scientifico: Marcello Messori (presidente), Emilio Barucci, Massimo Bordignon, Agar Bru-giavini, Stefano Caselli, Innocenzo Cipolletta, Claudio De Vincenti, Massimo Egidi, Paolo Guerrieri, Marco Lossani, Mauro Maré, Maria Rosaria Maugeri, Giulio Napolitano, Giovanna Nicodano, Pier Carlo Padoan, Antonio Pedone, Gianni Toniolo Rapporto CER: pubblicazione periodica a carattere economico. Anno XXXII Direttore responsabile: Anna Maria Lombroso Iscrizione n. 177 del 6 maggio 1998 del Registro della Stampa del Tribunale di Roma Proprietario della testata: Centro Europa Ricerche S.r.l. C.C.I.A.A. Roma: R.E.A. 480286 Edizione: Centro Europa Ricerche S.r.l.

Stampato al CER – agosto, 2014

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In ritardo

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Il Rapporto è stato chiuso con i dati disponibili al 6 agosto 2014. Hanno collaborato alla redazione del rapporto: Felice Cincotti, Carlo Cristiano, Laura Dragosei, Piero Esposito, Stefano Fantacone, Petya Garalova, Sergio Ginebri, Ronny Mazzocchi, Carlo Milani.

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Sommario 7

L’economia internazionale nella prima parte del 2014 11IL NUOVO DIBATTITO DI POLITICA MONETARIA E L’AGGIUSTAMENTO DEI PAESI EMERGENTI 11LA CONGIUNTURA INTERNAZIONALE 18LE ESOGENE 22Riquadro. La crescita delle esportazioni durante la crisi: un confronto tra Italiae Germania 24

La previsione macroeconomica 29Riquadro. Gli effetti del quantitative easing all’europea 41

Le prospettive della finanza pubblica 45L’IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA 45UN CONFRONTO CON LE STIME UFFICIALI 48LA PREVISIONE NEL DETTAGLIO 49GLI OBIETTIVI EUROPEI 55Riquadro. La legge di stabilità per il 2014 e la perequazione delle pensioni 61 Il concetto di disoccupazione strutturale nella letteratura economica 63

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Sommario e conclusioni

1 La ripresa dell’economia italiana è in ritardo. Nel primo semestre il prodotto ha conti-nuato a flettere, con una contrazione dello 0,3 per cento. Riteniamo che nella se-conda parte dell’anno l’attività possa segnare un recupero anche significativo, al più sufficiente, tuttavia, per portare la variazione del Pil appena al di sopra dello zero (+0,1per cento). Resta ampio lo scostamento venutosi a creare fra gli indicatori qua-litativi e le variabili reali. Secondo le relazioni statistiche misurate sul passato, agli at-tuali livelli della fiducia di famiglie e imprese dovrebbero già corrispondere variazioni positive del prodotto; tanto che il nostro indicatore CoinCer è tornato in territorio e-spansivo da fine 2013. Le ragioni di questo scollamento sono presumibilmente da ri-cercare nella profondità della crisi vissuta dalla nostra economia, che non può esse-re assimilata a un normale episodio ciclico. Le famiglie hanno registrato una contra-zione dei propri redditi mai osservata nel ciclo economico degli ultimi settant’anni e ugualmente fuori dimensione è stata la compressione della capacità produttiva uti-lizzata. La percezione di un miglioramento del contesto generale tarda così a tradur-si in scelte di consumo e investimento, all’interno di quello che può definirsi come un vero e proprio fenomeno di isteresi, ossia la mancata reazione di una variabile al mu-tare dei fattori che, in condizioni normali, ne influenzano la dinamica. La stima di un recupero dell’economia nella restante parte del 2014 si basa proprio sulla constata-zione che alcune delle determinanti di breve periodo della crescita sono comunque in miglioramento: il reddito disponibile delle famiglie torna ad aumentare (0,9 per cento a fine 2014), i margini sono in recupero, i tassi di interesse diminuiscono. Fattori che potrebbero portare l’economia su tassi di crescita dell’1,3 per cento nel 2015 e dell’1,5 per cento, in media, nel biennio 2016-2017. Nello scenario da noi prospetta-to, la domanda interna aumenterebbe a partire dal prossimo anno, accompa-gnando un rafforzamento delle esportazioni, stimate aumentare solo del 2,1 per cen-to nel 2014. 2 La ripresa ritarda anche a causa di uno scenario internazionale divenuto meno favo-revole. Come già analizzavamo nel Rapporto 4/2013, la normalizzazione della politi-ca monetaria statunitense ha innescato un rientro dei capitali dall’area emergente, a cui si accompagnano svalutazioni dei cambi e riduzioni dei disavanzi correnti. Il so-stegno fornito dalle economie in via di sviluppo all’espansione degli scambi mondiali si è momentaneamente indebolito e le nostre esportazioni ne risentono, tanto che nel secondo trimestre il commercio estero ha fornito un contributo negativo alla cre-scita. Altri paesi europei stanno soffrendo l’aggiustamento di bilancia dei pagamenti

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delle economie emergenti, a cominciare dalla Germania la cui produzione industria-le è diminuita dall’inizio dell’anno, più che nel resto dell’Eurozona. L’analisi condotta nel primo capitolo del Rapporto mostra come la volatilità dei mo-vimenti di capitale da e verso i paesi emergenti rappresenti un elemento di instabilità per l’economia internazionale. Il dibattito teorico e le scelte di policy stanno riconsi-derando l’opportunità di introdurre vincoli amministrativi, per impedire che le politi-che di stabilizzazione adottate in particolare negli Stati Uniti producano indesiderati effetti di spillover sui paesi più deboli. Crescente attenzione sta, inoltre, ricevendo fra i paesi emergenti l’ipotesi di sviluppare accordi finanziari regionali, come strumento per isolare l’area da shock di origine esterna. 3 Le incertezze del quadro internazionale evidenziano i ritardi della politica economica europea. La normalizzazione della politica monetaria statunitense e l’aggiustamento dei paesi emergenti sono infatti fenomeni fisiologici rispetto agli andamenti osservati negli ultimi sei anni, ma di fronte ad essi l’Eurozona si trova in posizione di vulnerabili-tà. L’attenzione quasi esclusiva dedicata al tema della restrizione fiscale e alle pro-cedure di sorveglianza reciproca contribuisce infatti a prolungare il vuoto di doman-da interna, esponendo il ciclo europeo alle fluttuazioni del commercio mondiale. Al-lo stesso tempo, l’enfasi posta sulle riforme strutturali perde di credibilità, perché gli effetti di queste ultime dipendono strettamente dalla presenza di un ambiente e-spansivo esterno, come quello che poté sfruttare la Germania nella prima parte del passato decennio. 4 Anche il quadro della politica economica italiana è ancora in cerca di una compiu-ta definizione. I vincoli europei obbligano alla ricerca di difficili equilibri nella gestione del bilancio pubblico, ma alcune scelte restano incompiute. La riforma dell’Imu va-rata lo scorso anno, lascia aperti ampi spazi di incertezza, con le aliquote di tassazio-ne 2014 ancora non definite, mentre la spending review continua a essere intesa come politica di taglio e non anche come occasione per indirizzare maggiori risorse verso obiettivi capaci di rafforzare le potenzialità di sviluppo di lungo periodo. In mancanza di una visione strategica più ampia, lo scambio che viene prospettato, fra minore tassazione e minori spese, si scontra con la cruda contabilità dei moltipli-catori, che assegnano un impatto recessivo a una manovra così impostata. Una via di uscita, da noi già prospettata in passati Rapporti, potrebbe essere quella di porre in prospettiva la promessa di minore tassazione, sottoscrivendo un impegno che, in-dipendentemente dai risparmi che si riuscirà ad ottenere sul versante della spesa, re-stituisca agli operatori parte del maggior gettito che deriverà dal recupero ciclico. Le scelte di consumo e investimento funzionali al rafforzamento del ciclo troverebbe-ro così incentivo nella promessa di una minore tassazione marginale.

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5 L’assenza di crescita riporta al centro della discussione la preoccupazione per la te-nuta dei conti pubblici. Ci si interroga sulla necessità o meno di una nuova manovra correttiva. Stimiamo, nel terzo capitolo del Rapporto, che l’indebitamento si collochi per il terzo anno consecutivo al 3 per cento del Pil, mancando gli obiettivi program-matici, ma restando all’interno del primigenio parametro di Maastricht. Alla fine del periodo di previsione il disavanzo scenderebbe all’1,5 per cento del prodotto, l’avanzo primario salirebbe al ragguardevole livello del 3,2 per cento (2,1 per cento alla fine di quest’anno). La riduzione prospettata è più lenta di quella compatibile con l’obiettivo di medio termine europeo (MTO); riteniamo però che, nella posizione ciclica in cui si trova l’economia italiana, ulteriori sforzi fiscali non siano sostenibili. An-che perché, nella legislazione vigente, la manovra di finanza pubblica conserva comunque un’impostazione restrittiva, sia pur con intensità decrescente: la correzio-ne ha dimensioni pari a 10 miliardi nell’anno in corso, a 6 miliardi nel 2015, a meno di 4 e 1 miliardi, rispettivamente, nel 2015 e nel 2016. Solo riduzioni più significative dell’output gap, non nuove correzioni, permetteranno di migliorare i risultati di bilan-cio e, in una prospettiva più lunga, di ridimensionare il livello del debito. É opportuno che l’impegno a reperire nuove risorse sia indirizzato alla sola copertura di provvedi-menti già annunciati, quali il bonus fiscale per il 2015, o di altre misure inderogabili (CIG in deroga, missioni di pace etc.). 6 Il Rapporto dedica una particolare attenzione al tema dell’indebitamento struttura-le, presentando alcune simulazioni (nel capitolo terzo) e ripercorrendo la letteratura che ha definito il concetto di NAIRU, posto alla base della metodologia di calcolo utilizzata dalla Commissione europea. Per la politica di bilancio italiana, il passaggio ad obiettivi di saldo strutturale ha una virtù importante: saremo infatti obbligati a conservare la disciplina fiscale anche in fasi di crescita dell’economia, senza dubbio una capacità che nel passato è mancata ai nostri governi. Si parla però di una virtù che potrà essere apprezzata solo una volta usciti dall’emergenza crescita e che non ci sembra giustificare la richiesta di aggiustamenti supplementari che viene dalle au-torità europee. Soprattutto, ci sembra venuta l’ora di mettere in dubbio la validità dell’impostazione analitica proposta dalla Commissione e di proporre radicali modi-fiche di essa. Vi sono due problemi che rendono a nostro avviso inadeguato lo schema di calcolo posto a presidio delle procedure di sorveglianza. Il primo è la scel-ta di definire il tasso di disoccupazione strutturale come una semplice funzione del tasso di disoccupazione effettivo e non come un parametro atto a misurare l’obiettivo della piena occupazione. La ricognizione teorica svolta nel Rapporto ri-corda come questa approssimazione possa risultare accettabile per realtà econo-miche come quella degli Stati Uniti, dove la disoccupazione strutturale presenta sto-ricamente margini di oscillazione molto limitati. Le indicazioni della letteratura sconsi-gliano, di contro, l’utilizzo di un indicatore come il NAIRU se la disoccupazione struttu-

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rale ha ampi margini di variabilità nel tempo, come è sempre stato in Europa, e in si-tuazioni di straordinario ampliamento dell’output gap, come sono quelle odierne. Ciò significa, dal punto di vista teorico, che l’Europa dovrebbe evitare di utilizzare il NAIRU come indicatore di servizio della politica economica. É stata invece compiuta la scelta opposta creando un unicum nel panorama internazionale: soltanto nell’Eurozona il NAIRU, determinando il livello del saldo strutturale, ha un valore nor-mativo tanto cogente. Non vi sono ragioni per conservare questa scelta. 7 Il secondo problema nasce dal fatto che, anche volendo prescindere dalle difficoltà di misurazione, il NAIRU è un indicatore che nasce nell’ambito della letteratura di po-litica monetaria, che ne fa uso per la sua capacità di anticipare i movimenti del tas-so di inflazione. Nessuno schema di politica monetaria si spinge, peraltro, a suggerire l’utilizzo del solo NAIRU come base per le scelte delle banche centrali. Rispetto a queste indicazioni teoriche, il modello europeo di governance fiscale compie una vera e propria eterogenesi dei fini: il NAIRU viene utilizzato come unico indicatore per governare le scelte di bilancio pubblico. In sostanza, è come se si fosse deciso di re-golare la politica di bilancio in base all’andamento degli aggregati monetari, di-menticando che questi sono utili per controllare l’inflazione, ma che la loro attinenza con le grandezze fiscali è molto indiretta. Questa assenza di basi teoriche rivela co-me il modello europeo abbia affidato a una “cattiva tecnica” il controllo delle poli-tiche di bilancio. Una soluzione inefficiente, perché risolve in modo distorto il proble-ma dell’assegnazione degli strumenti agli obiettivi. L’inadeguatezza del modello è dimostrata dal fatto che, a causa di un eccesso di restrizione fiscale, l’Eurozona è molto vicina alla deflazione, con un andamento dei prezzi non compatibile con le misure di Nairu proposte dalla Commissione. 8 In queste condizioni, la politica monetaria europea soffre di un sovraccarico di fun-zioni, a cui la Bce cerca di far fronte con un nuovo tentativo di disallineamento dalle scelte operate negli Stati Uniti (decoupling). A giugno sono stati abbassati i tassi ed è stato lanciato un nuovo programma di misure straordinarie, con cui contrastare la spirale deflazionistica che minaccia la ripresa dell’area. Da metà luglio il tasso di inte-resse a breve termine nell’area euro si colloca così al di sotto di quello statunitense. Anche sul segmento a lungo termine i tassi di riferimento europei sono inferiori a quelli statunitensi. L’impatto delle nuove misure potrebbe cominciare a manifestarsi dopo l’estate, trasmettendo impulsi significativi all’economia italiana (0,7 punti di maggiore crescita in un biennio, secondo le stime presentate nel primo capitolo del Rapporto). Occorre augurarsi che gli stimoli monetari non vengano annullati da richieste di ulterio-ri inasprimenti sul lato fiscale.

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L’economia internazionale nella prima parte del 2014

IL NUOVO DIBATTITO DI POLITICA MONETARIA E L’AGGIUSTAMENTO DEI PAESI EMERGENTI 1 Gli andamenti dell’economia internazionale della prima metà del 2014 sono stati in-fluenzati dal combinato disposto di due elementi, legati fra loro da un nesso di cau-salità: da una parte, nel ruolo di variabile indipendente, l’uscita dalla fase di politica monetaria non-convenzionale negli Stati Uniti; dall’altra, come variabile dipendente, l’aggiustamento in corso nei paesi emergenti. La normalizzazione della politica monetaria statunitense ha preso avvio ormai oltre un anno fa, con l’annuncio del cosiddetto tapering, che a sua volta riflette un dop-pio ordine di considerazioni: la presa d’atto del superamento della crisi finanziaria e del ritorno dell’economia in prossimità del punto di pieno impiego; la constatazione del progressivo esaurirsi degli effetti reali attribuibili alle misure non convenzionali. Come è noto, nel periodo 2007-2013, le operazioni di quantitative easing e l’acquisto su larga scala di asset finanziari hanno enormemente aumentato la dimensione dei bilanci delle banche centrali, in particolare della Federal Reserve e della Banca d’Inghilterra e, più recentemente del Giappone. Parziale eccezione è la Bce, il cui attivo è aumentato meno che altrove e comunque solo fino a metà 2012, tanto che l’autorità monetaria europea è oggi quella che più si trova vicino alla situazione pre-crisi (grafico 1). Se la prima ondata di misure non-convenzionali è considerata unanimemente effi-cace (1) nella sua azione di ripristino di normali condizioni di liquidità sui mercati, al-cuni recenti lavori (2) segnalano come, una volta superato l’apice della crisi finanzia-ria, gli annunci delle autorità monetarie avrebbero avuto una efficacia temporale limitata, con un impatto contenuto sui tassi a lunga e sulle aspettative di crescita. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, alcune stime indicano che la trasmissione di impulsi ulteriori all’economia reale avrebbe necessitato di acquisti di titoli da parte della

(1) IMF, “Global Impact and Challenges of Unconventional Monetary Policy”, IMF Policy Paper, Sep-tember 2013. URL: http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2013/090313.pdf (2) Thornton, D.L., 2014. “Has QE been Effective?”. Economic Synopses 3, Federal Reserve Bank of St. Louis. URL: http://research.stlouisfed.org/publications/es/article/10050

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Grafico 1. Totale attivo delle banche centrali (numero indice, dic. 2007=100)

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Federal Reserve Bank of England Bank of Japan ECB Federal Reserve doppi rispetto a quelli effettivamente realizzati, con un peso sul Pil che avrebbe dovuto raggiungere il 50 per cento, contro il 24 per cento osservato (3). Una direzione di intervento verso la quale l’autorità statunitense non ha ritenuto di do-versi avvicinare, avviando invece l’uscita dal periodo di misure non convenzionali. 2 Anche in questa fase di normalizzazione, il ciclo della politica monetaria statunitense continua a esercitare effetti importanti sulle economie emergenti. Ciò è dovuto al fatto che i flussi internazionali di capitale continuano a essere prevalentemente go-vernati dalla percezione del rischio legata agli sviluppi macroeconomici e finanziari dei paesi industrializzati, piuttosto che da quelli dei paesi emergenti (4). Secondo sti-me econometriche della Banca Mondiale (5), circa il 60 per cento dei deflussi di ca-pitale dai paesi industrializzati ai paesi emergenti avvenuti fra il 2009 e il 2013 sareb-bero stati indotti da fattori esterni alle condizioni macro e alle scelte di politica eco-nomica dei BRICS. Più in generale, i diversi studi condotti dalle principali istituzioni monetarie mondiali (6) concordano nel rilevare un aumento della volatilità dei flussi di capitale provocato dalle misure monetarie non convenzionali e la conseguente

(3) Wen, J., 2014. “Evaluating Unconventional Monetary Policies. Why aren’t they ore effective?”. Working Paper 028B, Federal Reserve Bank of St. Louis. URL: http://research.stlouisfed.org/wp/2013/2013-028.pdf (4) FMI, 2013. “Spillover report”, IMF Multilateral Policy Issues, July. URL: http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2013/070213.pdf (5) Più in dettaglio, il 4% sarebbe dovuto alla fissazione del tasso di sconto ufficiale fissato dalla FED, il 13% alle politiche di quantitative easing, il 20% ai tassi di interesse a lungo termine dei titoli americani e il 26 dalla volatilità dell’indice azionario S&P500, vedi Banca Mondiale, 2014. Global Economic Pros-pects: Coping with Policy Normalization in High-income Countries, 8, Gennaio. (6) Bluedorn, J., Duttagupta, R., Guajardo, J., Topalova, P., 2013. “Capital Flows are Fickle: Anytime, Anywhere”. Working Paper WP/13/183, International Monetary Fund. URL: http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp13183.pdf

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Grafico 2. Flussi di capitale verso i paesi emergenti (media mobile a 4 termini, in miliardi di dollari Usa)

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BRICS, Turchia, Messico, Cile, Polonia e Indonesia Totale paesi emergenti maggiore probabilità che i paesi emergenti siano soggetti a fenomeni di sudden stop, come quelli in corso dall’estate dello scorso anno (grafico 2). Nella fase di allentamento della politica monetaria statunitense precedente, gli af-flussi di capitale verso i paesi emergenti hanno determinato un apprezzamento sia nominale che reale delle valute locali, con conseguente peggioramento del saldo delle partite correnti. I flussi di capitale in entrata hanno inoltre determinato un boom negli aggregati creditizi e nei corsi azionari, facendo così aumentare la domanda interna e aggravando ulteriormente – seppur seguendo un altro canale - il saldo del-le partite correnti. I flussi di capitale in ingresso hanno infine contribuito ad aumenta-re la leva finanziaria del settore privato (in particolare delle imprese), andando ad incrementare anche la domanda di valuta estera. Se da un lato l’andamento del credito e del prezzo delle azioni - così come quello più generale della domanda ag-gregata - avrebbero richiesto una politica monetaria restrittiva, l’apprezzamento del cambio (che pure aveva avuto effetti benefici sull’inflazione interna) rendeva diffici-le perseguire questo tipo di politica, soprattutto se gli obiettivi dichiarati delle banche centrali erano quelli relativi ad un determinato target del tasso di crescita dei prezzi. Inoltre, una politica di alti tassi di interesse avrebbe incentivato ulteriormente l’afflusso di capitali, aggravando la pressione sulla valuta e peggiorando il saldo di conto corrente. In sostanza, i paesi emergenti si sono trovati privi di strumenti per con-tenere gli afflussi di capitale, nonostante i segni di surriscaldamento dell’economia e il deterioramento del saldo estero. 3 L’inversione della politica monetaria statunitense ha innescato il necessario processo di aggiustamento, attraverso la repentina svalutazione dei tassi di cambio che, nel corso del 2014, ha raggiunto, in molti paesi, dimensioni ragguardevoli (grafico 3). Ri-spetto alle crisi valutarie degli anni Settanta e Ottanta, i fondamentali economici più robusti delle economie emergenti hanno consentito di conservare una generale stabilità del sistema economico. Tuttavia il rapido deprezzamento della valuta e –

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Grafico 3. Tasso di cambio in alcuni paesi emergenti (valuta nazionale - dollaro USA)

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Turchia Cina Indonesia Brasile Cile Sudafrica più in generale – il massiccio e improvviso deflusso di capitali ha fatto rivedere bru-scamente al ribasso le prospettive di crescita per i paesi emergenti. Le economie più colpite sia nella primavera del 2013 che all’inizio di quest’anno sono state quelle che, nel precedente biennio, avevano registrato più forti apprezzamenti del cambio reale e più consistenti aumenti del deficit di partite correnti. Alcuni contributi empirici evi-denziano come i movimenti di capitale seguirebbero un tipico sentiero random walk, per cui il miglior previsore dei sudden stop sarebbe costituito dalle dimensioni del precedente afflusso di capitali (7). 4 Fra la primavera del 2013 e il giugno di quest’anno molte banche centrali dei paesi emergenti sono state costrette ad adottare politiche monetarie restrittive proprio per far fronte al rapido deteriorarsi delle condizioni interne, a seguito della fuga dei capi-tali (grafico 4). La Turchia ha aumentato il tasso di riferimento di 400 punti base, la Russia di 200 e l’Indonesia di 175. India e Sudafrica si sono invece limitate a 50 punti base, mentre il Brasile ha dovuto alzare i propri tassi di ben 375 punti base, soprattut-to a causa del brusco deprezzamento del real e il conseguente aumento dell’inflazione interna. Viceversa, nei paesi emergenti, che negli anni precedenti erano stati meno soggetti ai flussi di capitale in ingresso e alle fluttuazioni del tasso di cambio, le autorità di poli-tica monetaria hanno avuto minori necessità di intervenire. Dove un intervento c’è comunque stato, esso è stato legato a problematiche interne o al perseguimento di particolari strategie di crescita e ha avuto segno prevalentemente espansivo. In Cile

(7) Agosin, M., Huaita, F., 2012. “Overreaction in Capital Flows to Emerging Markets: Booms and Sud-den Stops”. Journal of International Money and Finance 31, pp. 1140-1155.

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Grafico 4. Tassi di riferimento delle banche centrali

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Turchia Russia Indonesia Brasile Cile Sudafrica e in Messico il taglio dei tassi di interesse è stato dovuto soprattutto ad un previsto ral-lentamento della crescita economica, mentre nella Repubblica Ceca l’inflazione è rimasta al di sotto del target e la banca centrale ha cercato di deprezzare il cambio soltanto per incoraggiare ulteriormente l’export. La Polonia ha dovuto tagliare più volte i tassi vista la tendenza deflazionista che la stava accomunando all’area euro. Infine, in Cina la banca centrale ha mantenuto ferme le scelte di politiche monetaria precedenti, procedendo però ad un rallentamento della crescita della massa mo-netaria e del credito (8). 5 La volatilità dei movimenti di capitale da e verso i paesi emergenti segnala come le politiche statunitensi di stabilizzazione del ciclo generino importanti effetti di spillover sulle economie emergenti. Ciò sta riportando al centro del dibattito teorico il tema del coordinamento delle politiche monetarie. Si è infatti indebolita la posizione di quanti ritengono che il risultato ottimale possa essere conseguito attraverso il solo impegno delle banche centrali a rispettare i propri obiettivi interni, sia in termini di inflazione che in termini di output gap e disoccupazione (9). Tale visione era complementare a quel-la esistente prima della grande crisi per quanto riguarda la regolamentazione del set-tore finanziario: la micro-regolamentazione di ciascuna istituzione finanziaria e banca-ria sarebbe stata sufficiente a garantire la stabilità di tutto il sistema finanziario naziona-le e internazionale. La crisi finanziaria ha messo in seria discussione questo tipo di ap-proccio. Ora lo sforzo si sta indirizzando, attraverso il Financial Stability Board, verso lo sviluppo di una vigilanza comune sia di tipo microprudenziale che di tipo macropru-denziale, al fine di garantire con maggiore efficacia la stabilità del sistema finanziario. (8) Bank of International Settlements, “Monetary Policy struggles to nomalise”. 84th Annual Report. (9) Taylor, J.B., 2013. “International Monetary Policy Coordination: Past, Present and Future”. Working Paper 437, Bank of International Settlements.

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A tale impegno, però, non ha finora fatto seguito un eguale sforzo per cercare un maggiore coordinamento delle politiche monetarie. 6 I paesi in via di sviluppo hanno, di conseguenza, avviato da qualche tempo un’autonoma politica di contenimento degli spillover. Visto che i canali attraverso cui le esternalità si trasmettono alle economie emergenti sono i flussi di capitale e i movimenti dei tassi di interesse, si è cominciato a fare largo uso di vincoli ai movi-menti di capitale e di politiche di gestione del tasso di cambio. Da questo punto di vista i BRICS si sono avvantaggiati di un deciso cambio di paradigma nel campo del-la letteratura economica: la visione a lungo dominante secondo cui la totale libera-lizzazione dei movimenti di capitale sarebbe stata sempre e comunque benefica è stata infatti messa in forte discussione. I presunti benefici indiretti dell’apertura del conto capitale – ovvero lo sviluppo di un settore finanziario più efficiente – più che l’effetto ormai vengono considerati come la causa dei flussi monetari in entrata (10). Inoltre, anche gli effetti diretti dei movimenti di capitale su crescita, occupazione e benessere sociale sembrano essere assai meno apprezzabili di quanto inizialmente pensato (11). Si è fatta così progressivamente strada una letteratura che vede nei vincoli ai movimenti di capitale un elemento positivo: i controlli temporanei – solita-mente nella forma di sussidi/tasse sui flussi, o sotto forma di vincoli amministrativi – so-no considerati ottimali ed efficienti, soprattutto quando i tassi di cambio sono flessibili (12). 7 Bisogna tuttavia ricordare come i paesi in via di sviluppo mostrino generalmente tassi di crescita del prodotto più elevati, una inflazione più sostenuta e di conseguenza dei tassi di interesse di equilibrio più alti rispetto a quello dei paesi industrializzati. Gli andamenti demografici e il livello di reddito pro-capite suggeriscono inoltre che tali differenze continueranno a persistere per molti anni. Più che da fattori ciclici e con-tingenti, il gap di rendimento fra i vari investimenti fra paesi industrializzati e paesi emergenti sembra dettato da fattori strutturali, difficilmente correggibili con forme di controllo temporaneo. Allo stesso modo, il suggerimento di compensare l’afflusso di capitali dall’estero con politiche fiscali restrittive rischia di risultare non solo politica-mente difficile, ma anche inefficiente. Infatti, la politica fiscale non è quasi mai neu- (10) Bank of International Settlements, 2009. “Capital Flows and Emerging Market Economies”, CGFS Publication 33, Committee on the Global Financial System, gennaio. URL: http://www.bis.org/publ/cgfs33.pdf (11) Obstfeld, M., 2009. “International Finance and Growth in Developing Countries: What have we learned?”. NBER Working Paper 14691. (12) Ostry J.D., Arora V., Habermeier K., Weeks-Brown R., 2012. “The Liberalization and Management of Capital Flows: an Institutional View”, IMF Staff position Note. URL: http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2012/111412.pdf

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trale dal punto di vista redistributivo: una stretta fiscale realizzata soprattutto con un piano di riduzione della spesa pubblica potrebbe favorire i possessori del capitale, generando effetti macroeconomici perversi (13). Infine, le forme di controllo ammini-strativo dei movimenti di capitale dovrebbero essere accompagnate da appropriati interventi sul mercato delle valute che, pur conservando una certa flessibilità dei tassi di cambio, garantiscano la creazione di sufficienti riserve in valuta estera da utilizzare nel caso di improvvisi deprezzamenti. Tuttavia, il rischio è che queste misure, se prese in maniera non-coordinata, finiscano per spaventare gli investitori e conducano ad una progressiva frammentazione del mercato finanziario globale. 8 Una possibile via d’uscita, di cui si è cominciato a parlare da qualche tempo, po-trebbe essere quella di realizzare linee preferenziali di liquidità anche per i paesi e-mergenti, sulla scorta di quanto già realizzato a partire dal 2007 fra le banche cen-trali dei paesi industrializzati (14). L’esistenza di tali strumenti avrebbe ridotto l’impatto negativo dei deflussi di capitale soprattutto in occasione delle turbolenze della pri-mavera 2013 e dei primi mesi di quest’anno. Restano su questo punto però forti resi-stenze da parte delle banche centrali dei paesi più avanzati. Esistono linee di liquidi-tà precauzionale gestite dal FMI, ma queste – oltre ad essere probabilmente insuffi-cienti - sono ancora viste in modo negativo dai paesi emergenti, data la stigma da sempre associata a chi ne faceva utilizzo in passato (15). Crescente attenzione sta invece ricevendo, fra i paesi emergenti, lo sviluppo di ac-cordi finanziari regionali, sulla scorta di quanto già successo con il Chiang Mai Initiati-ve - un fondo creato durante la crisi asiatica del 1997-98, ma di fatto mai utilizzato - o del fondo ESFS/ESM in Europa. I BRICS hanno proposto da tempo un accordo per la creazione di un fondo di circa 100 miliardi di dollari, favorendo anche accordi bilate-rali per linee di liquidità. Questo tipo di accordi regionali potrebbero costituire un nuovo strumento a disposizione dei paesi emergenti per gestire la volatilità dei mo-vimenti di capitale, qualora risulti difficilmente percorribile la soluzione di un maggior

(13) Gallagher, K., Ocampo, J.A., 2013. “IMF’s New View on Capital Controls”. Economic and Political Weekly XLVIII(12), pp. 10-13. URL: http://www.ase.tufts.edu/gdae/Pubs/rp/Gallagher_EPW_Capital_Controls_2013.pdf (14) La crisi dei mutui subprime, l’aumento del rischio di credito e il conseguente aumento della do-manda di liquidità aveva messo sotto forte tensione il mercato interbancario in dollari. Venne quindi attivata nel dicembre 2007 una linea di liquidità in dollari sia con la BCE che con la banca centrale elvetica. Tale facilitazione venne estesa nei mesi successivi ad altre 12 banche centrali e tuttora resta in vita con 5 banche centrali (BCE, Banca d’Inghilterra, Banca del Canada, Banca del Giappone, Banca centrale svizzera). Nell’aprile 2009 la FED ha introdotto anche una linea di liquidità in valuta e-stera con le 4 principali banche centrali mondiali. Tale decisione mirava a fornire liquidità in valuta e-stera alle varie istituzioni. (15) FMI, 2014. “Review of Flexible Credit Line, the Precautionary and Liquidity Line, and the Rapid Fi-nancing Instrument”. IMF Policy Paper, gennaio. URL: http://www.imf.org/external/np/pp/eng/2014/012714.pdf

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coordinamento fra le politiche monetarie dei paesi avanzati- e segnatamente degli Stati Uniti- e dei paesi emergenti. LA CONGIUNTURA INTERNAZIONALE 9 L’aggiustamento dei paesi emergenti ha importanti riflessi sulla dinamica degli scambi mondiali e, di conseguenza, sulla congiuntura internazionale. Le importazioni di quest’area hanno cominciato a rallentare, con saggi di variazione scesi, tra gen-naio e maggio, dal 5.4 all’1 per cento, mentre le esportazioni registrano, da aprile, forti saggi di espansione (+7,6 per cento a maggio, grafico 5, Paesi emergenti). Al contempo, le importazioni conservano saggi di variazione stabili nei paesi avanzati, che sperimentano però una riduzione delle vendite all’estero (Figura B). Dunque, compressione della domanda interna e svalutazione del cambio si stanno tradu-cendo in un assorbimento dei disavanzi di parte corrente dei paesi emergenti, che passa sia attraverso minori importazioni, sia per maggiori esportazioni. Queste ultime, trovano assorbimento nei mercati delle economie avanzate, i cui prodotti sono in-vece spiazzati dalla perdita di competitività subita attraverso l’oscillazione dei cam-bi. L’area avanzata vede, in questa fase di aggiustamento, indebolito il sostegno fornito dalle crescenti esportazioni verso il resto del mondo, trovandosi piuttosto nella condizione di sostenere, attraverso maggiori acquisti, il riequilibrio dei paesi emer-genti. 10 Le dinamiche di crescita risentono di questa ricomposizione degli scambi. Nel primo trimestre dell’anno, il Pil mondiale è cresciuto del 3,9 per cento (3,8 per cento nel quarto trimestre 2013, grafico 6) (16). Fra le economie avanzate, l’area euro conti-nua a caratterizzarsi per tassi di crescita inferiori alla media. In assenza di domanda interna, i paesi europei devono d’altronde appoggiarsi al traino delle esportazioni verso il resto del mondo, che si è indebolito per le ragioni fin qui analizzate. Evidenza immediata delle difficoltà incontrate dalle economie europee a causa delle mutate condizioni del commercio mondiale è fornita dalla produzione industriale tedesca, che in questa prima parte dell’anno è diminuita più che altrove (grafico 7). Proprio la Germania è l’economia che maggiormente ha sfruttato la domanda dei paesi e-mergenti, ampliando la gamma delle proprie esportazioni dal tradizionale settore dei beni strumentali a quello dei beni di consumo, riuscendo così ad isolarsi dalla crisi del debito sovrano che ha interessato i suoi principali partner europei. L’economia tede-sca è quindi la prima a risentire del minore assorbimento dell’area emergente.

(16) Variazioni ponderate dei tassi di crescita delle principali economie emergenti e avanzate (esclusi gli Stati Uniti) pari al 49 per cento del Pil mondiale.

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Grafico 5. Il commercio estero nel 2014 (variazioni % tendenziali)

Paesi emergenti

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Importazioni Esportazioni

Paesi avanzati

0,00,51,01,52,02,53,03,54,04,5

gen-14 feb-14 mar-14 apr-14 mag-14

Importazioni Esportazioni Grafico 6. Stime della crescita dell’economia mondiale (variazioni % tendenziali)

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Grafico 7. Produzione industriale (numero indice, gennaio 2014=100)

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Italia Germania Francia Spagna

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11 Più in generale, si deve osservare come l’economia dell’Eurozona sia particolarmen-te esposta all’indebolimento dei flussi di commercio estero per l’assenza di politiche di sostegno della domanda interna. La normalizzazione della politica monetaria sta-tunitense e l’aggiustamento dei paesi emergenti sono infatti fenomeni fisiologici ri-spetto agli andamenti osservati nel recente passato. L’economia americana è tor-nata in prossimità del pieno impiego, mentre l’area emergente ha effettiva necessità di ridurre la propria posizione debitoria con l’estero. Al contempo, il Giappone ha in-trapreso aggressive misure di rilancio, che contemplano interventi di rafforzamento della domanda interna. L’Eurozona è invece rimasta concentrata sui programmi di restrizione fiscale, a cui sono per ora conseguiti la flessione di consumi e investimenti e la necessità di ricercare la fonte della crescita nelle sole esportazioni. Le fluttuazioni del commercio mondiale sono dunque particolarmente perniciose per Il ciclo euro-peo. Inoltre, a causa delle politiche di austerità, il ciclo dei paesi dell’Eurozona si tro-va in ritardo rispetto a quello statunitense e ciò aumenta l’esposizione a uno shock innescato dall’inversione della politica monetaria della Fed. L’eccezione è costituita dalla Germania, anch’essa in situazioni di pieno impiego e in grado di sopportare un prospettico inasprimento monetario; da un punto di vista congiunturale, anche l’economia tedesca subisce però la minore domanda dei paesi emergenti. Infine, l’avanzo commerciale dell’Eurozona verso il resto del mondo, molto aumentato nel passato biennio, sospinge l’apprezzamento dell’euro (grafico 8), riducendo i margini di competitività dell’industria europea. 12 Questi fattori sono alla base del nuovo tentativo di disallineamento della politica monetaria europea (decoupling), della quale si vuole conservare l’intonazione e-spansiva, rispetto a quella statunitense. A giugno la Bce ha ulteriormente abbassato i tassi e ha lanciato un nuovo programma di misure straordinarie, per la spirale defla-zionistica che minaccia la ripresa dell’area euro (vedi riquadro “La crescita delle e-sportazioni durante la crisi: un confronto tra Italia e Germania”). Da metà luglio il tasso di interesse a breve termine nell’area euro si colloca così al di sotto di quello statuni-tense (grafico 9). Anche sul segmento a lungo termine i tassi europei sono inferiori a quelli statunitensi. Il rendimento dei bond, dopo il balzo di un anno fa, si è stabilizzato al 2,7 per cento, mentre il tasso sui bund tedeschi ha continuato a scendere, e si colloca all’1.35 per cento (grafico 10). É ugualmente proseguita la flessione dei rendimenti sui titoli degli altri paesi dell’Eurozona. Per tutta la prima metà dell’anno, la benevolenza dei mercati nei confronti dei titoli di debito europei ha trovato riscontro nelle dinami-che degli indici azionari, risultate più accentuate di quelle degli Stati Uniti: a fine giu-gno, l’indice STOXX Europe 600 registrava un aumento dell’8 per cento rispetto a ini-zio anno, contro il 7.3 per cento dell’S&P 500 (grafico 11). Nel corso del mese di

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Grafico 8. Tasso di cambio dell'euro verso le principali valute internazionali (numero indice, gennaio 2014=100)

9095

100105110115120125130135140

gen-13 mar-13 mag-13 lug-13 set-13 nov-13 gen-14 mar-14 mag-14 lug-14

Dollaro USA Yen giapponese Sterlina inglese Yuan cineseRupia indiana Rublo russo Real brasiliano Rand sudafricano

Grafico 9. Tassi di interesse a breve termine

0,0

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gen-11 lug-11 gen-12 lug-12 gen-13 lug-13 gen-14 lug-14

Stati Uniti Area euro Grafico 10. Rendimento dei titoli di Stato decennali

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Stati Uniti Area euro Italia Francia Spagna

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Grafico 11. Indici di borsa USA e UE

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Stati Uniti Area euro luglio, il mercato europeo ha però invertito l’andamento, segnando una perdita del 2 per cento. La crescita delle quotazioni azionarie statunitensi è invece proseguita, interrompendosi solo nell’ultima settimana di luglio. LE ESOGENE 13 Il quadro delle variabili esogene internazionali è stato rivisto al ribasso rispetto alla previsione precedente. Il rallentamento del blocco dei paesi emergenti e del com-mercio mondiale nella prima metà dell’anno in corso sono ci hanno portato ad ab-bassare la stima del commercio di quasi un punto nel 2014, quando stimiamo una crescita del 3,7 per cento. Per il 2015, in linea con la ripresa globale, ci attendiamo una crescita degli scambi commerciali del 5,5 per cento e del 6,5 per cento per il re-sto dell’orizzonte previsionale. Per l’anno in corso stimiamo un’espansione dell’economia statunitense dell’ordine del 2,2 per cento e una crescita sul 3 per cen-to nel periodo 2015–2018. In corrispondenza del rallentamento congiunturale nelle principali economie nell’area euro e della bassa crescita dei prezzi che ostacola la ripresa, stimiamo un saggio di variazione del Pil inferiore all’1 per cento nel 2014 e un graduale aumento fino all’1,8 per cento nel 2018. In linea con la politica monetaria espansiva della Bce i tassi di interesse nell’area euro si manterrebbero su bassi livelli nel prossimo biennio. I tassi a breve termine dovrebbero rimanere stazionari sullo 0,2 per cento; il primo aumento, allo 0,4 per cento, è previsto nel 2016 per arrivare all’1,1 per cento nel 2018. Il primo incremento dei tassi a breve statunitensi è atteso nel 2015 quando, di fronte al sentiero di crescita stabile, la Fed inizierebbe a riportare gra- dualmente i tassi a livelli più alti. Anche i tassi a lungo termine dovrebbero tornare sul 4 per cento alla fine del periodo di previsione. Rispetto alla previsione precedente prevediamo un apprezzamento leggermente più alto della moneta unica – 1,36 dol-lari – nel 2014 e come tasso di cambio dollaro-euro adottiamo l’ipotesi tecnica

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Tavola 1. Le esogene internazionali (variazioni percentuali)

2013 2014 2015 2016 2017

Pil Stati Uniti 1,9 2,2 3,0 3,0 2,8Pil Area euro -0,4 0,8 1,4 1,5 1,6Commercio mondiale 3,0 3,7 5,5 6,3 6,5Eurodivise a 3 mesi- euro 0,2 0,2 0,2 0,4 0,7- dollaro 0,3 0,2 0,8 1,5 1,8Tassi di interesse a lungo termine (a) - Area euro 1,6 1,4 1,5 2,0 2,6 - Stati Uniti 2,4 2,6 3,4 3,9 4,2Cambio dollaro-euro 1,3 1,4 1,36 1,36 1,36- variazioni percentuali 3,0 2,3 0,0 0,0 0,0Prezzi delle materie prime (in dollari)- petrolio (b) 109,0 106,0 104 100 98- beni energetici -2,7 -2,8 -1,9 -3,8 -5,8- materie prime non energetiche -3,8 -1,0 -1,0 2,0 2,0Prezzi all'import (in euro)Totale beni e servizi importati -1,9 1,4 1,6 2,0 1,9- manufatti 0,0 2,3 2,9 3,1 3,2- beni energetici -6,9 -1,9 -1,9 -3,8 -5,7- beni intermedi -2,1 1,0 1,6 3,2 3,6

(a) Tassi sui titoli benchmark.(b) Dollari al barile. dello stesso valore del cambio per periodo 2015–2018. La domanda globale ancora debole e le informazioni sui contratti futures sul prezzo del petrolio di qualità Brent ci portano ad adottare l’ipotesi di 106 dollari per barile nel 2014 e 104 dollari per barile nel 2015. Negli anni successivi il prezzo del greggio si dovrebbe mantenere poco sot-to i 100 dollari. La dinamica delle materie prime non energetiche nei primi sei mesi dell’anno in corso ha avuto ancora il segno negativo. Stimiamo una variazione di -1 per cento nel biennio 2014–2015 e una crescita positiva del 2 per cento nei tre anni successivi.

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RIQUADRO. LA CRESCITA DELLE ESPORTAZIONI DURANTE LA CRISI: UN CONFRONTO TRA ITALIA E GERMANIA Obiettivo di questo riquadro è di descrivere i principali cambiamenti avvenuti nella struttura ge-ografica e per categoria merceologica delle esportazioni italiane e tedesche nel periodo 2010-2013, con particolare attenzione al ruolo giocato dalle economie emergenti, nella duplice veste di mercati di destinazione di prodotti finiti e come parte della Catena di Produzione Globale. Nello specifico, vogliamo verificare se il cambiamento strutturale più recente rappresenti o me-no la continuazione di quello verificatosi nel periodo 1999-2007. L’indicatore utilizzato come misura della dinamica di cambiamento strutturale è costituito dalla differenza tra i contributi percentuali delle diverse aree geografiche alla variazione dell'export nel periodo 2010-2013 e quelli relativi al 1999-2007. Valori positivi indicano un’intensificazione del-le dinamiche pre-crisi, mentre l’indice è pari a zero nel caso di stabilità nei contributi alla crescita e negativo nel caso di una riduzione. Nel grafico A mostriamo l’andamento della differenze tra i valori dell’indicatore in questione per Italia e Germania sulle diverse aree geografiche. Come possiamo osservare, la differenza è posi-tiva sui mercati dell’Europa occidentale e le altre economie avanzate, mentre risulta fortemen-te negativa sull’area cinese (Cina, Hong Kong e Macao), Nord Africa e Medio Oriente (MENA) e il resto del mondo, che include principalmente i piccoli stati dell’Oceania e dell’America Latina. Un primo risultato è quindi che per la Germania negli ultimi anni la crescita dell'export è derivata in maniera sostanziale dalle economie emergenti, mentre l’Italia è ancora relativamente più o-rientata ai mercati tradizionali. Ci sono, tuttavia, alcune eccezioni a questa dicotomia in quanto l’Italia risulta aver spostato l’export in modo più marcato verso l’area balcanica, il Sud-Est Asiatico e l’America Latina. Nei grafici B-F mostriamo nel dettaglio l’andamento dell’indice nelle aree di maggior interesse e per tipologia di beni. In particolare, la distinzione tra beni di consumo (durevole, semi durevole e non durevole) e strumentali da un lato e beni intermedi dall’altro permette di tenere conto an-che dei cambiamenti intercorsi nell’importanza dei partner come mercati di sbocco o come partner produttivi. La riallocazione verso il sud est asiatico (grafico B) mostra come per entrambi i paesi la crescita di importanza dell’area abbia subito un’accelerazione. Per la Germania il fenomeno interessa principalmente i beni di consumo durevoli e semi durevoli e, in maniera ridotta, i beni strumenta-li, intermedi e parti e componenti, per i quali invece sembra esserci una maggiore intensificazio-ne dell’export italiano. Di converso, entrambi i paesi hanno aumentato maggiormente le quote di esportazioni di beni di consumo verso l’area cinese (Cina, Hong Kong e Macao) (grafico C). Per la Germania, l’aumento ha interessato anche i beni strumentali, intermedi e la componenti-stica, mentre per l’Italia si è ridotto il peso delle esportazioni di intermedi. Per quanto riguarda l’Europa Centro Orientale (grafico D), si può osservare per entrambi i paesi un’inversione di tendenza rispetto al periodo 1999-2007, con l’indice che assume valore negati-vo nella maggioranza dei casi. Per l’Italia, la variazione del peso dell’area è andata in direzione opposta, rispetto all’andamento pre-crisi, per tutte le tipologie di beni ad eccezione degli inter-medi. In Germania riduzioni dell’indice si sono verificate solamente per la componentistica e i beni di consumo durevoli, mentre si è verificato un forte aumento dell’importanza dell’export di beni di consumo non durevoli e semi durevoli.

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Grafico A. Riallocazione geografica relativa Italia-Germania (*)

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Area cin

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(*) Differenza tra Italia e Germania nella variazione delle quote geografiche dell'export 2009-2013 su 1999-2007. Chn=Area cinese, Mena=Nord Africa e Medio Oriente; resto del mondo (piccoli stati ame-ricani e dell’Oceania); paesi opt=SE, UK, DK; Europa non EU=NO, CH, IS; ea=Area euro. Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE. Grafico B. Riallocazione geografica nel Sud-Est Asiatico per tipologia di beni

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Germania Italia Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE.

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Grafico C. Riallocazione geografica nell'area cinese per tipologia di beni

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Germania Italia Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE. Grafico D. Riallocazione geografica nell'Europa Centro Orientale per tipologia di beni

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Germania Italia Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE. Per l’Italia la crescita d’importanza dell'area Balcanica (ex-Jugoslavia, Albania e Turchia) è do-vuta a un forte aumento del contributo alla crescita delle esportazioni di beni intermedi e com-ponentistica, mentre l’importanza dei beni di consumo si è andata riducendo. Per la Germania, al contrario, anche se in modo contenuto, per tutte le tipologie di beni c’è stato un aumento dell’importanza dell’area. Per finire, possiamo osservare nel grafico F come il risultato relativo all’area euro sia dovuto ad una più forte perdita di importanza per le esportazioni tedesche rispetto a quelle italiane. Men-tre per l’Italia la riduzione è alquanto uniforme tra le diverse tipologie di beni, per la

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Grafico E. Riallocazione geografica nei Balcani per tipologia di beni

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Germania Italia Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE. Grafico F. Riallocazione geografica nell'area euro per tipologia di beni

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Germania Italia Fonte: elaborazioni CER su dati COMTRADE. Germania il crollo è stato più marcato sui beni di consumo ed in particolar modo quelli durevoli. Questa evidenza è importante in quanto i beni di consumo hanno rappresentato la base della crescita dell’export verso l’area euro nel periodo 1999-2007 e dell’aumento del saldo commer-ciale tedesco. In sintesi, l’analisi condotta evidenzia da un lato come la Germania si sia spostata verso mercati più dinamici rispetto all’Italia e, dall’altro, come l’economia tedesca, dopo aver instaurato rela-zioni commerciali basate principalmente sulla delocalizzazione produttiva nel decennio scorso, abbia iniziato ad esportare in modo più massiccio beni di consumo verso tutte le aree emergenti. L’Italia, pur mostrando andamenti in parte simili, sembra trovarsi ancora ad uno stadio prece-dente in quanto, da un lato, il cambiamento strutturale è proceduto con minore intensità men-tre, dall’altro, gli aumenti di quota hanno riguardato, nella maggior parte dei casi, beni collegati alla delocalizzazione produttiva.

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La previsione macroeconomica

14 Il quadro di previsione che viene delineato sulla base degli indicatori congiunturali e delle attese sulle esogene internazionali, descritte in precedenza, mostra segnali di peggioramento rispetto al precedente Rapporto, sia con riguardo alla domanda in-terna sia rispetto a quella estera. Nel primo trimestre del 2014 il Pil reale è tornato nuovamente a ridursi (-0,08 per cento rispetto al trimestre precedente) dopo il risultato leggermente positivo dell’ultimo quar-to del 2013 (+0,13 per cento congiunturale) che aveva interrotto una recessione che durava da oltre due anni. Le stime preliminari dell’Istat per il secondo trimestre dell’anno in corso segnalano una ulteriore caduta del prodotto (-0,2 per cento), che dovrebbero riportare la nostra economia nuovamente in recessione tecnica. Le nostre previsioni per la seconda parte del 2014 evidenziano però il ritorno alla crescita, stimabile intorno ai 4 decimi di punto sia nel terzo che nel quarto trimestre del 2014 (grafico 12). Nel complesso il 2014 è atteso evidenziare una sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente (+0,1 per cento), un risultato inferiore rispetto alle nostre precedenti attese (tavola 2). In virtù di un migliore andamento atteso per la seconda metà di quest’anno, il 2015 dovrebbe mostrare una tendenza decisamente più positiva (+1,3 per cento), che è attesa ulteriormente consolidarsi nel successivo biennio (+1,4/+1,5 per cento). 15 Analizzando le singole componenti della domanda aggregata, si può osservare co-me il deludente risultato atteso per quest’anno nasca da un contributo positivo dei consumi privati (+0,2 punti percentuali) e delle esportazioni nette (+0,1 punti), a cui si contrappone quello negativo di investimenti(-0,2 punti) e consumi pubblici (-0,1 pun-ti) (grafico 13 e tavola 3). Per le scorte di prodotti, invece, ci si attende un contributo nullo. 16 Più nello specifico, i consumi delle famiglie, dopo il risultato ampiamente negativo del 2013 (-2,6 per cento) dovrebbero tornare a crescere dello 0,4 e 0,3 per cento nel 2014 e 2015, per accelerare fino allo 0,7 per cento nel 2017. Al buon risultato dei con-sumi privati dovrebbe, in particolare, contribuire l’andamento del reddito disponibile delle famiglie che nell’anno in corso è atteso tornare a crescere, sia in termini nomi-nali che reali, grazie al bonus Irpef erogato ai dipendenti con reddito inferiore ai 24 mila euro (grafico 14 e tavola 4). La mancata previsione, a legislazione vigente, del bonus Irpef anche per gli anni successivi al 2014 determinerebbe però

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una perdita di potere di acquisto nel 2015. La propensione al consumo, pari all’89,9 per cento nel 2013, è attesa rimanere pressoché stabile. Grafico 12. Andamento del Pil trimestrale

-5

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1

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2012.I 2012.III 2013.I 2013.III 2014.I 2014.III 2015.I 2015.III 2016.I 2016.III 2017.I 2017.III

var. congiunturale annualizzata var. tendenziale

Grafico 13. Contributi alla crescita del Pil

-7-6-5-4-3-2-101234

2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017

consumi privati consumi pubblici investimenti scorte export netto Grafico 14. Reddito disponibile delle famiglie

-5

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2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 201728,8

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nominale reale pressione fiscale (scala dx)

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Tavola 2. Principali indicatori economici (variazioni percentuali)

2013 2014 2015 2016 2017

Prodotto interno lordo -1,9 0,1 1,3 1,5 1,4Importazioni di merci e servizi -2,8 1,9 4,4 4,6 5,3Consumi finali nazionali -2,2 0,2 0,3 0,5 0,7 - delle famiglie -2,6 0,4 0,3 0,5 0,7 - collettivi -0,8 -0,4 0,3 0,5 0,5Investimenti fissi lordi -4,7 -1,0 2,7 4,7 4,2 - in costruzioni -6,7 -2,6 1,8 3,1 2,9 di cui in abitazioni -6,2 -2,2 1,6 2,7 2,8 - in maccIinari e attrezzature -2,6 1,8 5,2 5,3 5,4Esportazioni di merci e servizi 0,1 2,1 4,4 4,9 5,0Output gap -4,6 -4,5 -3,6 -2,6 -1,9Prezzi al consumo 1,2 0,2 0,8 1,2 1,4Deflatore del Pil 1,4 0,1 1,3 1,5 1,7Ragioni di scambio (a) 2,0 -1,2 -0,7 1,9 1,5Retribuzioni unitarie settore privato 0,3 0,5 0,5 0,7 0,9Clup settore privato 1,5 0,2 0,1 0,2 0,7Bilancia dei pagamenti: 0,7 0,7 0,6 0,5 0,4Indebitamento netto della PA (b) - in % del Pil -3,0 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5 - aggiustato per il ciclo -0,5 -0,5 -0,5 -0,6 -0,5 - aggiustato per il ciclo netto una tantum -0,8 -0,7 -0,4 -0,6 -0,6Avanzo primario della PA (b) - in % del Pil 2,2 2,1 2,3 2,7 3,2 - aggiustato per il ciclo 4,7 4,5 4,3 4,2 4,2Debito PA (defizione Ue) in % del Pil 132,6 137,3 137,3 136,2 133,4Tasso medio sui Bot (a) 0,9 0,6 0,5 0,8 1,3Tasso medio reale sui Bot (a) -0,4 0,4 -0,3 -0,4 -0,1Costo medio del debito (c) 4,0 3,7 3,6 3,5 3,6Reddito disponibile delle famiglie: - nominale 0,2 1,3 0,7 2,0 2,4 - reale -1,1 0,9 -0,3 0,7 0,9Propensione al consumo (d) 89,9 89,4 89,9 89,8 89,6Tasso di disoccupazione 12,2 12,7 12,5 12,0 11,4

(a) Valori percentuali.(b) Miliardi di euro.(c) Interessi passivi in percentuale del debito pubblico.(d) In percentuale del reddito disponibile.

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Tavola 3. Contributi alla crescita del Pil reale (valori percentuali)

2013 2014 2015 2016 2017

Importazioni merci e servizi 0,7 -0,5 -1,2 -1,3 -1,5Consumi finali -1,7 0,1 0,3 0,4 0,5 - delle famiglie -1,6 0,2 0,2 0,3 0,4 - collettivi -0,2 -0,1 0,1 0,1 0,1Investimenti fissi lordi -0,8 -0,2 0,4 0,8 0,7Variazione delle scorte -0,1 0,0 0,4 0,0 0,0Esportazioni di merci e servizi 0,0 0,6 1,4 1,6 1,7

Tavola 4. Reddito disponibile delle famiglie (variazioni percentuali)

2013 2014 2015 2016 2017

Reddito lordo disponibile nominale 0,2 1,3 0,7 2,0 2,4 reale -1,1 0,9 -0,3 0,7 0,9- risultato lordo di gestione 4,1 1,8 2,0 2,8 2,9- redditi da lavoro dipendente -0,5 -0,1 0,9 1,2 1,6- redditi da lavoro autonomo -3,1 -0,4 0,9 1,9 1,8- rendite e redditi da capitale -3,7 -0,3 4,7 9,0 11,3- prestazioni sociali 1,6 2,6 2,1 2,2 2,6- imposte sul reddito e sul patrimonio -2,3 -2,0 6,0 2,7 3,0- contributi sociali effettivi -0,4 -0,1 1,1 1,1 1,4- contributi sociali figurativi -0,5 -0,6 2,8 3,5 4,7

Redditi netti da lavoro (a) -1,6 -0,2 0,8 1,4 1,7Imposte sul reddito (b) -1,9 -3,8 6,7 2,5 2,7Redditi da lavoro al netto della tassazione -1,5 1,1 -1,1 1,1 1,3

Pressione fiscale sulle famiglie (in % del totale delle risorse delle famiglie) - complessiva 29,9 29,5 30,0 30,0 29,9 - al netto dei contributi figurativi 29,0 28,5 29,0 29,0 28,9 - al netto delle imposte sui redditi da capitale 28,7 28,0 28,5 28,5 28,4

Propensione al consumo (in % del reddito disponibile) 89,9 89,4 89,9 89,8 89,6

(a) Somma delle retribuzioni dei dipendenti e del reddito da lavoro autonomo al netto dei contributi sociali.(b) Al netto delle imposte sui redditi da capitale.

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17 I consumi pubblici sono stimati in diminuzione dello 0,4 per cento nel 2014, un risultato comunque migliore rispetto a quello dell’anno precedente (-0,8 per cento). Solo a partire dal 2015 è atteso un ritorno alla crescita, seppur moderata, dei consumi col-lettivi. I limiti imposti dai trattati europei del Patto di Stabilità, sia con riguardo al livello dell’indebitamento pubblico nominale sia per quello aggiustato per il ciclo econo-mico, continueranno infatti a costituire un forte freno alla spesa pubblica. 18 Gli investimenti fissi lordi sono stimati in calo dell’1 per cento nel 2014. Tale nuovo arretramento si sommerebbe alla precedenti cadute registrate nel 2013 (-4,7 per cento), nel 2012 (-8 per cento) e nel 2011 (-2,2 per cento). Per il 2015 le nostre atte-se sono per una ripresa degli investimenti nell’ordine del 3 per cento, con un’ulteriore accelerazione nel 2016 (+4,7 per cento) e un successivo rallentamento nel 2017 (4,2 per cento). Nel complesso l’andamento degli investimenti stimato permetterebbe di lasciare stazionario lo stock di capitale nella media del periodo 2014-2017 (+1,9 per cento nel decennio pre-crisi), tenendo anche in considerazione l’effetto di depaupera-mento degli investimenti effettuati negli anni passati e che dovranno essere sostitui-ti. Analizzando le diverse componenti si osserva come il risultato per l’anno in corso sa-rebbe per lo più imputabile all’andamento degli investimenti in costruzioni, che dopo la flessione del 6,7 per cento del 2013 continuerebbero a flettere del 2,6 per cento. Gli investimenti in macchinari e attrezzature dovrebbero invece segnare un’inversione di tendenza già partire da quest’anno. Stante l’attuale difficoltà delle imprese, soprattutto di minori dimensioni, nel reperire adeguate fonti di finanziamen-to dal canale bancario, la ripresa degli investimenti in macchinari è attribuibile es-senzialmente al recupero di redditività atteso per il 2014, come si riscontra dall’andamento del margine operativo lordo in percentuale del valore aggiunto to-tale (grafico 15). 19 Nel complesso, la domanda interna al netto delle scorte è attesa in leggera diminu-zione nell’anno in corso (-0,1 per cento), comunque in netto miglioramento rispetto al -2,6 per cento del 2013 (-4,6 per cento nel 2012). Per il 2015 ci attendiamo una ri-presa, con un incremento dello 0,8 per cento, che si consoliderebbe ulteriormente negli anni successivi fino ad attestarsi all’1,2/1,3 per cento. 20 Le scorte di magazzino, a differenza delle previsioni del precedente Rapporto, han-no determinato la flessione del Pil nel primo trimestre del 2014. Questo inatteso risulta-to può essere attribuito alla concomitanza di diversi fattori. Il credit crunch è forse quello più rilevante in quanto, oltre a limitare le capacità d’investimento delle

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Grafico 15. Margine operativo lordo e investimenti in macchine e attrezzature

-20

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2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017

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le

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212223242526272829

in %

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aggiu

nto

investimenti in macchinari e attrezzature MOL al netto della tassazione (scala dx) imprese, sta anche ponendo forti difficoltà nel reperimento del capitale circolante necessario alla ricostituzione delle scorte di magazzino nella prospettiva di una ri-presa della domanda interna. Altro fattore è attribuibile ai rischi di deflazione, che in Italia e negli altri paesi periferici dell’area euro sono sempre più elevati. Con un livello dei prezzi in caduta, infatti, le imprese rischiano di vedere il valore delle loro scorte di magazzino deprezzarsi, spingendole quindi a rinviare e a ridimensionare quanto più possibile la loro ricostituzione. Infine, l’incertezza sull’effettiva possibilità di una ripresa economica è un ulteriore elemento che sta vincolando fortemente le scelte degli imprenditori. Il contributo nullo alla crescita delle scorte previsto per l’anno in corso implica, co-munque, un loro buon andamento nella seconda parte del 2014, grazie anche alle attese di un miglioramento dell’accesso al credito dopo il lancio delle operazioni di rifinanziamento a lungo termine da parte della Bce (TLTRO), che implica importanti effetti di trascinamento per il 2015. In quest’ultimo anno il contributo delle scorte dovrebbe attestarsi a 0,4 punti di Pil, offrendo quindi un importante impulso alla ri-presa della domanda interna. 21 Passando alla domanda estera, le importazioni sono attese tornare a crescere nel 2014, con un incremento dell’1,9 per cento (-2,8 per cento nel 2013). La ripresa dei consumi privati è il principale fattore che spiega questa dinamica, insieme all’interruzione della caduta degli investimenti in macchinari e attrezzature. Il con-solidamento della crescita interna determinerebbe un’ulteriore accelerazione della dinamica dell’import attestandosi su valori intorno al 5 per cento nel biennio 2016-2017.

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Grafico 16. Output gap tra Pil reale e Pil potenziale

1.200

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1.500

1999 2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017

milia

rdi d

i eur

o a pr

ezzi

del 2

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gap i

n % de

l Pil p

otenz

iale

Output gap (scala dx) Pil reale Pil potenziale

22 Le esportazioni, che nel 2013 hanno registrato solo una modesta crescita (+0,1 per cento), non riuscendo quindi ad offrire un contributo sostanziale all’incremento complessivo del Pil, sono attese in lieve recupero nell’anno in corso, soprattutto gra-zie al moderato miglioramento delle prospettive di crescita dei paesi dell’area euro. Una crescita più sostenuta è attesa nei successivi anni con un incremento annuo del 4 per cento nel 2015 che sale al 5 per cento nel biennio successivo. 23 Il saldo delle partite correnti, dopo la buona performance del 2013, legata però es-senzialmente all’effetto depressivo della recessione sui consumi di beni e servizi esteri, è atteso in leggero peggioramento nell’anno in corso, per poi stabilizzarsi nel 2015 (tavola 5). Non essendosi però osservati miglioramenti di rilievo sia sulla produttività del lavoro che sul costo per unità di prodotto, variabili fondamentali per valutare il grado di competitività di un paese, le attese di ripresa economica porteranno ad un peggioramento dei conti con l’estero nel triennio 2016-2017, frenando quindi le po-tenzialità di un maggior sviluppo economico. 24 Nel grafico 16 è riportato l’andamento del Pil reale, dal lancio dell’euro fino alla pre-visione per il 2017, nonché il Pil potenziale da noi stimato utilizzando la metodologia applicata dalla Commissione europea e dal Tesoro Dal grafico si osserva chiaramente come le due recessioni del 2009 e del 2012-2013 abbiano avuto importanti conseguenze anche sulla crescita potenziale, determi-nando la sua sostanziale stabilità. In tutto il quadriennio di previsione, il Pil corrente è atteso attestarsi al di sotto del suo livello potenziale, da cui consegue la presenza di un output gap negativo anche nel 2017 (-1,9 punti percentuali, -4,6 nel 2014; tavola 6).

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Più nello specifico, il Pil potenziale è atteso tornare a crescere lievemente nell’anno in corso (+0,1 per cento), soprattutto grazie al contributo del fattore lavoro. Su Tavola 5. Bilancia dei pagamenti economica

2013 2014 2015 2016 2017

MILIARDI DI EUROConto corrente 12,1 10,1 9,3 8,7 6,9- Merci 36,9 38,8 37,6 36,5 34,4- Servizi 1,4 -1,2 -1,5 -1,8 -2,2- Redditi -10,2 -10,2 -9,3 -8,3 -7,3- Trasferimenti -16,0 -17,3 -17,5 -17,8 -18,0Conto capitale -1,3 0,2 -0,1 0,0 0,1

VARIAZIONI PERCENTUALIConto corrente 0,8 0,6 0,6 0,5 0,4- Merci 2,4 2,5 2,3 2,2 2,0- Servizi 0,1 -0,1 -0,1 -0,1 -0,1- Redditi -0,7 -0,7 -0,6 -0,5 -0,4- Trasferimenti -1,0 -1,1 -1,1 -1,1 -1,1Conto capitale -0,1 0,0 0,0 0,0 0,0

Per memoria:Ragioni di scambio (a) 2,0 -1,2 -0,7 1,9 1,5

(a) Variazioni percentuali.

quest’ultimo inciderebbero, a loro volta, il trend crescente della popolazione, delle ore lavorate e del tasso di partecipazione. Il tasso di disoccupazione di lungo perio-do compatibile con la stabilità dei salari (Nawru) è atteso invece rimanere stabile sul livello del 10 per cento. Solo a partire dal 2015 stimiamo un Nawru in miglioramento, che dovrebbe poi toccare il suo punto minimo nel 2017 al 9,3 per cento, valore pros-simo a livelli medi di disoccupazione registrati nel periodo pre-crisi. Dal 2015 il Pil potenziale dovrebbe evidenziare una maggiore crescita (+0,4 per cen-to), in accelerazione fino ad un modesto +0,6 per cento del 2017. Il basso profilo di crescita del potenziale è attribuibile al fattore capitale, che come visto in preceden-za risente direttamente delle deboli prospettive di investimento, e dalla produttività totale dei fattori, anch’essa influenzata dalle scelte d’investimento in ricerca e svi-luppo. 25 La distanza dal Pil potenziale è uno dei fattori che dovrebbe contribuire al conteni-

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mento del livello dei prezzi. Il progressivo ridursi dell’output gap dovrebbe però evita- re che la nostra economia si avviti nel circolo vizioso della deflazione. L’inflazione è Tavola 6. Pil potenziale e componenti

2013 2014 2015 2016 2017

VARIAZIONI PERCENTUALIPil potenziale 0,0 0,1 0,4 0,4 0,5Trend TFP -0,2 -0,1 0,0 0,0 0,1Capitale -0,3 -0,3 -0,1 0,1 0,3Lavoro 0,4 0,4 0,7 0,6 0,6- Trend ore lavorate 0,0 0,1 0,2 0,2 0,2- Popolazione 15-74 0,2 0,1 0,1 0,0 0,0- Trend tasso di di partecipazione (livello) 60,9 61,1 61,2 61,2 61,3- Nawru (livello) 10,0 10,0 9,8 9,6 9,3

CONTRIBUTI ALLA CRESCITATFP -0,2 -0,1 0,0 0,0 0,1Capitale -0,1 -0,1 -0,1 0,0 0,1Lavoro 0,2 0,3 0,5 0,4 0,4

Per memoria:Outputgap -4,6 -4,5 -3,6 -2,6 -1,9

infatti attesa pari allo 0,2 per cento nel 2014, per poi crescere progressivamente fino all’1,4 per cento nel 2017. La tendenza dei prezzi prossima allo zero attesa per l’anno in corso appare comunque distante dalla relazione osservata tra output gap e infla-zione dal 1995 al 2013, così come ampio è il divario osservato già nel 2013 (grafico 17). Una spiegazione della minor inflazione attesa a fronte dell’attuale livello di output gap può essere attribuito al fenomeno conosciuto in letteratura economica come trappola della liquidità, cioè della preferenza dei consumatori/risparmiatori di mantenere una più alta riserva di moneta, posto il livello pressoché nullo dei tassi d’interesse e l’elevata incertezza presente sui mercati. Il mantenimento di una più al-ta scorta di moneta implica però una riduzione della sua velocità di circolazione con conseguenze deflattive sul livello dei prezzi. 26 Sul fronte del mercato del lavoro, ci attendiamo un ulteriore peggioramento del tas-so di disoccupazione, che dovrebbe attestarsi al 12,7 per cento nell’anno in corso, contro il 12,2 per cento del 2013 (tavola 7). Posto il livello del Nawru, che come detto

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Grafico 17. Relazione tra inflazione e output gap dal 1995 al 2013

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1

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5

6

-0,06 -0,04 -0,02 0 0,02 0,04 0,06

Output gap

Inflaz

ione

2014

2013

Tavola 7. Occupazione e forza lavoro

2013 2014 2015 2016 2017

MIGLIAIA DI UNITÁPopolazione 59.700 59.900 60.200 60.380 60.380Forza lavoro (a) 25.542 25.497 25.441 25.432 25.406Occupati (a) 22.421 22.249 22.269 22.374 22.503Occupati (b) 23.295 23.194 23.273 23.440 23.626- settore privato 19.961 19.885 19.995 20.187 20.401 dipendenti 13.380 13.300 13.358 13.469 13.619 indipendenti 6.580 6.586 6.637 6.718 6.782- servizi pubblici 3.335 3.309 3.279 3.253 3.225Disoccupati (a) 3.120 3.248 3.173 3.058 2.903

VARIAZIONI PERCENTUALIPopolazione 0,4 0,3 0,5 0,3 0,0Forza lavoro (a) -0,3 -0,2 -0,2 0,0 -0,1Occupati (a) -2,0 -0,8 0,1 0,5 0,6Occupati (b) -1,9 -0,4 0,3 0,7 0,8- settore privato -2,1 -0,4 0,6 1,0 1,1 dipendenti -2,2 -0,6 0,4 0,8 1,1 indipendenti -2,0 0,1 0,8 1,2 1,0- servizi pubblici -0,7 -0,8 -0,9 -0,8 -0,9Disoccupati (a) 14,0 4,1 -2,3 -3,6 -5,1Tasso di attività (a) (c) 63,5 63,3 63,2 63,1 63,0Tasso di disoccupazione (a) 12,2 12,7 12,5 12,0 11,4NAIRU (d) 10,0 10,0 9,8 9,6 9,3

(a) Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro.(b) Contabilità Nazionale (unità standard di lavoro).(c) Rapporto tra forze di lavoro totali e popolazione tra 15 e 64 anni.(d) Tasso di disoccupazione a lungo termine.

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Tavola 8. Retribuzioni, redditi e costo del lavoro (variazioni percentuali)

2013 2014 2015 2016 2017

Retribuzioni unitarie - totale 0,1 0,6 0,6 0,7 0,9 - settore privato 0,3 0,5 0,5 0,7 0,9Redditi unitari da lavoro dipendente - totale 0,9 1,1 0,8 0,7 0,9 - settore privato 1,3 1,1 0,8 0,7 1,0 - servizi pubblici -0,6 0,9 1,0 0,9 0,9Massa retributiva - totale -0,5 -0,1 0,9 1,2 1,6 - settore privato -0,4 0,1 1,2 1,5 2,1 - servizi pubblici -0,7 -0,5 0,0 0,1 0,0Massa dei redditi da lavoro dipendente - totale -0,5 -0,1 0,9 1,2 1,6 - settore privato -0,4 0,1 1,2 1,5 2,1 - servizi pubblici -0,7 -0,5 0,0 0,1 0,0Produttività del lavoro - totale 0,1 0,6 0,9 0,7 0,6 - settore privato 0,1 0,6 1,0 0,8 0,6Clup - totale 1,5 0,0 -0,2 -0,1 0,3 - settore privato 1,5 0,2 0,1 0,2 0,7Mol settore privato - in % del valore aggiunto 27,8 29,0 31,4 33,5 35,2 - in % del valore aggiunto al netto della tassazione 20,0 21,3 24,4 26,3 28,1Variazione della TFP -0,5 0,5 1,1 1,0 0,7

in precedenza è da noi stimato pari al 10 per cento, ciò implica che quasi 3 punti di tasso di disoccupazione per l’anno in corso sono legati a fattori ciclici, tant’è che nei successivi anni è atteso un graduale miglioramento del mercato del lavoro. Nell’ultimo anno della previsione la disoccupazione ciclica dovrebbe attestarsi a cir-ca due punti. Il divario tra disoccupazione corrente e quella di lungo termine è un fattore che spiega il basso profilo atteso per le retribuzioni e per il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP, tavola 8).

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27 Il quadro previsionale molto debole descritto finora è soggetto a una forte variabilità, sia verso il basso ma anche verso l’alto. I fattori critici che potrebbero peggiorare ulteriormente il contesto economico deri-vano essenzialmente dall’estero. Anche i paesi core dell’area euro stentano a riparti-re dopo l’ultima recessione. Il modello di crescita export led sta infatti mostrando tutti i suoi limiti. In un quadro internazionale in cui, oltre al processo di aggiustamento del-le economie emergenti, si intrecciano problemi geopolitici, come la crisi in Ucraina, l’invasione della striscia di Gaza da parte di Israele, il rischio che la guerra in Siria pos-sa estendersi ad altri paesi, a turbolenze finanziarie, legate alla prospettiva del tape-ring da parte della Federal Reserve, al possibile scoppio di bolle speculative sui titoli di imprese specializzate nei social media, al rischio di un nuovo default dell’Argentina, il commercio mondiale è la prima variabile macroeconomica ad es-serne affetta negativamente. Dall’altro lato, possibili sorprese positive potrebbero nascere in Europa da un miglio-ramento del funzionamento del canale bancario, grazie alle soprarichiamate azioni straordinarie della Bce, a cui si potrebbe affiancare anche un vero e proprio quanti-tative easing i cui effetti di stimolo potrebbero essere particolarmente rilevanti (si ve-da il riquadro “Gli effetti del quantitative easing all’europea”), e da un’apertura da parte della Commissione Europea ad una maggiore flessibilità sulla politica fiscale, in particolare sul fronte degli investimenti pubblici.

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RIQUADRO. GLI EFFETTI DEL QUANTITATIVE EASING ALL’EUROPEA Nello scorso giugno la Bce ha presentato quattro importanti novità sul fronte delle politiche mo-netarie, convenzionali e non, al fine di avvicinare l’inflazione all’obiettivo del 2% e riattivare il normale meccanismo di trasmissione degli impulsi monetari all’economia. Oltre ad abbassare i tassi di interesse di 10 punti base, fino allo 0,15 per cento, portare ad un livello negativo il tasso sui depositi overnight (-0,1 per cento) e bloccare la sterilizzazione della liquidità immessa con il pro-gramma di acquisti di titoli di Stato previsto nell’SMP per circa 170 miliardi di euro, la mossa che desta sicuramente più interesse è relativa all’iniezione di liquidità prevista dalle TLTRO (Targeted Long Term Refinancing Operations). Il programma dei TLTRO consiste nella concessioni di prestiti di durata quadriennale da parte delle Bce alle banche dell’eurozona. Nella prima fase del nuovo programma l’ammontare finanziabile è pari a circa 400 miliardi di euro, corrispondente al 7% dei portafogli crediti delle banche nei confronti del settore privato al 30 aprile 2014, ad ec-cezione dei mutui immobiliari che non sono inclusi nel programma. I fondi del primo round di TLTRO verranno allocati tra settembre e novembre 2014; tra marzo 2015 e giugno 2016, inoltre, la Bce conferirà su base trimestrale ulteriore liquidità, pari al triplo dei prestiti netti compiuti a partire dal 30 aprile 2014. Il tasso di interesse che le istituzioni bancarie dovranno pagare a fronte della liquidità ricevuta sarà stabilito aumentando il tasso sulle main refinancing operations (MRO) del periodo di riferimento di 10 punti base. In altri termini, il costo per le banche di tali finanziamenti quadriennali sarà limitato allo 0,25 per cento. I rimborsi potranno aver luogo dopo 24 mesi dalla concessione del prestito e dovranno terminare entro settembre 2018. Le TLTRO, secondo quanto dichiarato anche dal presidente della Bce Mario Draghi, si sono ispi-rate al funding for lending (FLS) attuato dalla Banca d’Inghilterra negli ultimi anni. Il FLS prevede che tutte le banche possano ottenere dalla BoE un ammontare di liquidità pari al 5 per cento dei prestiti complessivamente erogati all’economia reale, avendo poi diritto ad ulteriori fondi a fronte dell’incremento dei finanziamenti. Non è prevista una quantità massima di liquidità che gli istituti bancari possono richiedere, è sufficiente che essi posseggano un adeguato ammontare di collaterale. Le banche inglesi dispongono attualmente di oltre 43 miliardi di sterline (52 miliardi di euro) di fondi ottenuti tramite il FLS. La variazione dei prestiti nella prima fase del FLS, tra giu-gno 2012 e dicembre 2013, ha avuto conseguenze non solo sulla quantità di fondi, ma anche sui tassi di interesse degli stessi: mentre le banche che aumentavano o mantenevano stabili i propri prestiti a imprese e famiglie ottenevano tassi dello 0,25 per cento, quelle che contraeva-no i fondi prestati sarebbero state sottoposte a tassi di interesse superiori. Per riduzioni inferiori al 5 per cento, le banche avrebbero dovuto pagare 25 punti base in più per ogni punto percentua-le di diminuzione; per cali superiori al 5 per cento, il tasso di interesse massimo era stabilito essere pari all’1,5 per cento (1). In realtà, le caratteristiche tecniche delle TLTRO le fanno distinguere dal FLS determinando alcu-ne criticità. Un primo aspetto critico delle TLTRO, già chiaro fin dall’inizio, è legato al fatto che l’incentivo non riguarda il comparto dei finanziamenti per acquisto di abitazioni, in quanto si vuole evitare il rischio dell’insorgere di bolle speculative sul mercato immobiliare, come osservato nel Regno _______________________ (1) Per maggiori dettagli si veda Barucci Emilio, Stefano Corsaro e Carlo Milani, 2014, Il funding for lending nella versione BCE, www.finriskalert.it.

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Unito. In realtà, i prezzi delle abitazioni nei paesi dell’area euro hanno assunto una dinamica for-temente differenziata. Se, infatti, in Germania e Finlandia i prezzi delle case sono aumentati di circa il 20 per cento rispetto ai valori pre-crisi, in Spagna sono diminuiti del 35 per cento e in Ir-landa del 50 per cento circa. I rischi di alimentare la creazione di bolle sono quindi ben diversi da paese a paese. Da questa considerazione poteva discendere l’opportunità di adottare un TLTRO asimmetrico. Altro aspetto ancor più critico per il raggiungimento dell’obiettivo di rimettere in moto il mercato del credito europeo riguarda i vincoli imposti alle banche sull’utilizzo dei fondi presi a prestito, che potrebbero essere pari, nella prima tornata di finanziamenti, a circa 400 miliardi di euro. La Bce ha infatti definito due diversi benchmark che serviranno da riferimento per valutare se una banca ha rispettato i criteri imposti, permettendole quindi di mantenere i finanziamenti ricevuti fino allo scadere naturale dell’operazione (quattro anni) o in caso contrario imponendole la re-stituzione con due anni di anticipo. Grafico. Benchmark imposti dalle Tltro

Fonte: Bce. Il primo benchmark riguarda le banche che negli ultimi dodici mesi hanno aumentato lo stock di finanziamenti erogati al settore non finanziario (grafico a). Per questa tipologia di istituti sarà sufficiente mantenere l’ammontare di impieghi invariato nel periodo compreso tra aprile 2014 e aprile 2016 per rispettare gli impegni e garantirsi il finanziamento agevolato fino alla scadenza del settembre 2018. Il secondo benchmark riguarda invece le banche che nell’ultimo anno hanno diminuito gli im-pieghi (generalmente gli istituti di credito dei paesi periferici, tra cui l’Italia), adottando quindi una politica di deleveraging (grafico b). In questo caso, gli istituti potranno continuare a diminui-re lo stock dei finanziamenti, in linea con il trend osservato, fino all’aprile del 2015 e poi mante-nere il livello inalterato per i successivi dodici mesi. In definitiva, da queste regole appare chiaro come le TLTRO siano ben distanti dalle caratteristi-che pensate per il FLS inglese. Nella migliore delle ipotesi, alle banche dell’area euro basterà non razionare ulteriormente il credito per finanziarsi a tassi prossimi allo zero. Per le banche del Sud d’Europa, piuttosto che finanziare imprese e famiglie stremate da una crisi economica pro-fondissima, sarà sicuramente più conveniente continuare a investire in titoli di Stato, mettendo

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quindi in pratica indirettamente quel quantitative easing che la Bce, dati i difficili equilibri interni al suo board, è così restia ad attuare direttamente. Così facendo, però, “l’abbraccio mortale” tra governi e banche si farà sempre più stretto, minando la stabilità dei sistemi finanziari nel caso in cui le turbolenze dovessero riaffacciarsi sui mercati. Nel presente riquadro vengono descritti i potenziali effetti di un programma di acquisti di titoli di Stato a medio-lungo termine da parte della Bce (cosiddetto quantitative easing). Al fine di effettuare la simulazione mediante il modello econometrico del Cer è stato ipotizzato che tale programma determini la riduzione dello spread Btp-Bund di 50 basis point (bp) nel 2014 e di 100 bp nel restante periodo di previsione. Gli effetti di questa politica monetaria espansiva so-no riportati nella tavola A. Tavola A. Impatto del quantitative easing della BCE (scarti in punti percentuali rispetto alla baseline)

2014 2015 2016 2017

Prodotto interno lordo 0,3 0,4 0,1 0,0Importazioni di merci e servizi 0,0 0,5 0,7 0,0Consumi finali nazionali 0,2 0,4 0,1 0,0 - delle famiglie 0,3 0,5 0,2 0,0 - collettivi 0,0 0,0 0,0 0,0Investimenti fissi lordi 0,3 0,9 0,7 0,2Esportazioni di merci e servizi 0,0 0,2 0,3 -0,1Output gap 0,1 0,5 0,6 0,5Prezzi al consumo 0,0 0,0 0,1 0,1Clup settore privato -0,2 -0,2 0,1 0,2Indebitamento netto della PA - in % del Pil 0,0 0,3 0,5 0,6 - aggiustato per il ciclo 0,0 0,0 0,2 0,3 - strutturale 0,0 0,0 0,2 0,3Debito PA (defizione Ue) in % del Pil -0,4 -1,2 -2,0 -2,6Costo medio del debito (a) 0,0 -0,1 -0,2 -0,3Tasso di disoccupazione 0,0 -0,1 -0,3 -0,4

(a) Interessi passivi in percentuale del debito pubblico. L’impulso offerto dalla Bce determinerebbe un maggior prodotto, nel 2014 e nel 2015, di 3 e 4 decimi di punto percentuale. A beneficiarne sarebbe essenzialmente la domanda interna, grazie a un profilo più elevato di investimenti e di consumi privati, entrambi favoriti da un più facile accesso al credito bancario. La maggior spinta sulla domanda interna determinerebbe, dal 2016 in poi, un più alto livello dei prezzi al consumo che provocherebbe il progressivo annullamento dei benefici derivanti da tale manovra. L’effetto complessivo nell’intero quinquennio 2014-2017 sarebbe in ogni ca-so molto rilevante, con un Pil nominale cumulato più elevato di circa 60 miliardi di euro. A trarne vantaggio sarebbero evidentemente anche i conti pubblici, aiutati sia dal miglior contesto macroeconomico sia dal più basso costo del servizio del debito pubblico. L’indebitamento nominale migliorerebbe di 3 decimi di punto di Pil a partire dal 2015, per poi avvantaggiarsi di un ulteriore mezzo punto di Pil all’anno in tutto il periodo compreso tra il 2016 e il 2017. Più contenuto sarebbe l’impatto sull’indebitamento strutturale, posto che la maggio-re crescita corrente determinerebbe la riduzione dell’output gap. Benefico anche l’impatto sul debito pubblico, che nel 2018 sarebbe più basso di circa 3 punti di Pil.

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Le prospettive della finanza pubblica

L’IMPOSTAZIONE PROGRAMMATICA 28 Nel Documento di Economia e finanza 2014 (DEF 2014) il governo ha ridefinito gli obiet-tivi di bilancio per il 2014-2018. Stretto tra la necessità di varare misure a sostegno della crescita e dell’occupazione e l’obbligo di rispettare le regole europee, l’esecutivo ha posposto di un altro anno il pareggio di bilancio strutturale, che nella precedente pro-grammazione nazionale era fissato per il 2015. L’obiettivo non è solo di evitare di de-primere ulteriormente i deboli segnali di ripresa, ma anche quello di “ritagliarsi” il tem-po necessario ad avviare e realizzare un ampio programma d’interventi strutturali con cui migliorare l’efficienza del bilancio pubblico e innalzare il potenziale di crescita del paese. La realizzazione di tali riforme, che coprono un ampio ventaglio di materie – dal mercato del lavoro, al fisco, dalla riorganizzazione della pubblica amministrazione alla ridefinizione degli assetti istituzionali del paese – è essenziale per poter disporre di una deviazione temporanea dal sentiero di convergenza proprio delle regole europee (si veda a tal riguardo, l’analisi svolta nel paragrafo 43, Gli obiettivi europei). Inoltre, gli o-biettivi di rilancio della crescita hanno finalmente acquisito una rilevanza maggiore che non quelli di correzione dei conti pubblici. I ristretti margini esistenti impongono di ricorrere ad una rigida ricomposizione del bi-lancio pubblico per compensare gli effetti delle misure espansive varate sull’indebitamento netto (17). In controtendenza rispetto all’impostazione seguita lo scorso anno (quando l’allentamento della stretta di bilancio, dati anche i maggiori spazi disponibili, è stato attuato aumentando la spesa), l’impulso anticiclico è stato realizzato attraverso una riduzione della pressione fiscale (18). In particolare, il cosid-detto bonus Irpef e il taglio dell’Irap (Dl 66/2014) sono finanziati in gran parte da una razionalizzazione della spesa pubblica, che ha interessato soprattutto gli acquisti di beni e servizi. Il taglio attuato consente di mettere da parte una dote (2,7 miliardi di euro per il 2015, 4,7 miliardi per il 2016, 4,1 per il 2017 e 2 per il 2018) da utilizzare per mettere a regime il bonus.

(17) Il potenziamento previsto del programma di smaltimento dei debiti commerciali, a differenza di quanto accaduto lo scorso anno, è stato finora limitato ai soli debiti relativi a spese correnti, i cui effetti si manifestano solo sul fabbisogno e sul debito e non anche sull’indebitamento netto. (18) Contribuiscono alla copertura anche aumenti di imposte. In particolare, per rimanere alle misure più significative, si aumenta l’aliquota della tassazione dei redditi di natura finanziaria dal 20 al 26 per cento e quella dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione delle quote di partecipazione al capitale di Banca d’Italia, dal 12 al 26 per cento.

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29 Per quest’anno quindi non è prevista alcuna correzione aggiuntiva del saldo di bi-lancio strutturale, se non quella definita dalla legislazione vigente. La correzione è in-vece prevista dal prossimo anno, in misura pari allo 0,2 per cento del Pil e allo 0,6 per cento a decorrere dal 2016. In tal modo l’indebitamento netto strutturale verrebbe riportato in equilibrio e l’indebitamento nominale migliorerebbe dal 2,6 per cento del Pil di quest’anno fino ad un avanzo dello 0,3 per cento del 2017. 30 Inoltre, il governo ha lanciato un programma di privatizzazioni da cui intende ricava-re risorse da portare a riduzione del debito per un ammontare annuo dello 0,7 per cento del Pil dal 2014 al 2017 e conta di recuperare dal programma di revisione del-la spesa pubblica 4,5 miliardi di euro nel 2014, 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016 da utilizzare per ridurre il cuneo fiscale. 31 Secondo le indicazioni contenute nel DEF, la revisione della spesa riguarderà i trasfe-rimenti alle imprese, la dirigenza pubblica, l’adeguamento ai costi standard in sanità, i costi della politica, gli stanziamenti per beni e servizi mediante una riorganizzazione delle procedure e delle stazioni appaltanti. Parte di tali risparmi sono già inclusi nel tendenziale di spesa: secondo il dettato della legge di stabilità 2014 e del Dl 4/2014 (0,5 miliardi nel 2014, che salgono a 4,4 nel 2015, 8,9 nel 2016 e 11,9 a decorrere dal 2017). Ad essi vanno aggiunti i tagli previsti a copertura della riduzione delle entrate deliberate nel cosiddetto decreto “Irpef” (3,1 miliardi nel 2014, 2,9 mld nel 2015 e 2,7 miliardi nel 2016). Secondo il programma originario entro quest’estate il governo do-vrebbe definire e implementare le misure necessarie con l’indicazione degli effetti per il 2014 e per il triennio successivo. In assenza di tale piano i risparmi, almeno quelli già programmati, verrebbero stabiliti mediante tagli lineari. 32 Nella legislazione vigente, la manovra di finanza pubblica conserva nel 2014 un se-gno restrittivo, anche se di entità più lieve rispetto al passato. Come si mostra nel gra-fico 18, la correzione aggiuntiva, in valore assoluto e in percentuale del Pil, dopo a-ver toccato nel 2012 il picco massimo è via via più contenuta fino ad annullarsi nel 2017. Per gli anni 2014-2015, la correzione aggiuntiva è pari, rispettivamente, a 10,4 e a poco meno di 7 miliardi di euro (rispettivamente lo 0,7 e lo 0,4 per cento del Pil, se-condo le nostre stime). 33 L’impatto incrementale per il 2014 risente delle decisioni “espansive” prese lo scorso an-no (sostanzialmente gli effetti della legge di stabilità per il 2013 e del decreto legge 35/2013, limitati dalla correzione imposta nello scorso settembre dal decreto legge

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120/2013 per mantenere entro la soglia del 3 per cento l’indebitamento netto), mentre per il 2015 è ampliato dal disposto dell’ultima legge di stabilità. Per circa metà (5,5 mi-liardi di euro), la maggiore stretta sul 2014 è comunque ascrivibile alle misure varate nel 2011, in seguito alle preoccupazioni suscitate dalla crisi dei debiti sovrani e sotto la pressione dell’aumento dello spread rispetto ai corrispondenti titoli tedeschi. Grafico 18. Correzione incrementale annua sui conti pubblici

-2.0000

2.0004.0006.0008.000

10.00012.00014.00016.00018.00020.000

2013 2014 2015 2016 2017-0,20,00,20,30,50,60,80,91,11,21,41,5

maggiori entrate nette minori spese nette in % del Pil (scala dx) 34 Per il 2014-2015 la stretta aggiuntiva si esercita sostanzialmente dal lato del conteni-mento delle spese: vanno a regime le misure di contenimento definite nel 2011-2012, potenziate dalla maggiore disciplina di spesa deliberata nella recente legge di stabi-lità a partire dal 2015, solo in parte compensate dalla maggiore spesa prevista per il 2014 dalla stessa legge di stabilità e dalla rinuncia al previsto aumento dal 2014 dei ticket sanitari (ricordiamo che secondo i principi della contabilità economica il getti-to dei ticket viene contabilizzato dal lato delle spese con segno negativo). Rimane sostanzialmente stazionaria, invece, la pressione esercitata dal lato delle entrate, anche grazie alla decisione di contenere il previsto aumento dell’aliquota IVA, sosti-tuendogli tagli di spesa pubblica (principalmente il decreto legge 95/2012, cosiddet-to di spending review). 35 A partire dal 2016 il contributo incrementale derivante dalla riduzione della spesa pubblica sostanzialmente si annulla. Ciò è dovuto anche alla costituzione del fondo per la messa a regime del bonus Irpef, che aumenta dal 2015 al 2016 di 2 miliardi di euro. Le maggiori entrate che costituiscono la stretta aggiuntiva prevista per il 2016 si possono sostanzialmente ricondurre alla riduzione delle tax expenditures, il cui impat-to stimato in via ufficiale passa nello stesso anno da 3 a 7 miliardi di euro (anche se un contributo è dato anche dai decreti approvati nel corso del 2014). L’ulteriore in-cremento di 3 miliardi atteso da tale misura nel 2017 secondo le nostre stime è so-

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stanzialmente compensato dagli effetti negativi delle cosiddette imposte ad ade-sione volontaria che assicurano nell’immediato all’Erario un maggior prelievo (sotto forma di imposta sostitutiva o di ampliamento di base imponibile) e che però riserva-no per il 2017 e per gli anni successivi vuoti significativi di gettito, a causa dell’evidenziazione di maggiori costi deducibili o di abbattimento di plusvalenze (19). UN CONFRONTO CON LE STIME UFFICIALI 36 Nella tavola 9 abbiamo messo a confronto le stime ufficiali, ricavate correggendo il quadro tendenziale presentato nel DEF 2014 per gli effetti dei provvedimenti adottati nei mesi scorsi, con le nostre previsioni, che saranno illustrate più nel dettaglio in se-guito. Più precisamente, rispetto a quella di partenza, i saldi di bilancio nella versione ufficiale ricostruita restano invariati. La differenza è costituita da una riduzione delle entrate tributarie nel biennio 2014-2015 e da un aumento nel 2016, compensato da una variazione opposta dal lato delle spese. Secondo tale ricostruzione le entrate aumentano nel quadriennio ad un tasso medio annuo del 2,3 per cento, con una ri-duzione della loro incidenza sul Pil di 0,6 punti percentuali (dal 48,2 per cento regi-strato nel 2013 al 47,6 per cento del Pil nel 2017). La spesa complessiva aumenta dell’1,3 per cento in media d’anno nel quadriennio con una riduzione in quota di Pil di 2,7 punti percentuali nel 2017. 37 Nelle nostre previsioni, l’indebitamento netto è superiore a quello ufficiale per tutto il periodo di previsione. Le differenze sono interamente riconducibili a una diversa sti-ma sull’andamento del saldo primario che nelle nostra previsioni si mantiene al di sot-to di quello del governo di 0,5 punti percentuali di Pil nel 2014, di 0,7 nel 2015 e di 0,9 punti nel biennio 2016-2017. Ampio è di contro il risparmio che il Cer valuta conse-guibile nella spesa per interessi, poco meno di 4 miliardi quest’anno e oltre 6 miliardi nel 2016, che attenua parzialmente l’impatto sul saldo di bilancio del minor avanzo primario previsto. Se si guarda alle differenze in valore assoluto, quelle relative alla dinamica delle entrate fiscali sono ben al di sopra di quelle relative alle spese prima-rie. Nel primo caso le differenze sono sostanzialmente riconducibili alle più basse sti-me di crescita dell’economia del Cer: in quota di Pil non c’è differenza tra la previ-sione ufficiale e la nostra per le entrate tributarie (ad eccezione del 2017), mentre ta-le differenza è relativamente più evidente per quelle contributive. Nel caso della spesa primaria la differenza rimanda sostanzialmente ad una differen-te stima tendenziale per importanti tipologie di spesa.

(19) La riduzione delle tax expenditures e la manovra sulle imposte ad adesione volontaria rientra in una strategia fiscale largamente utilizzata lo scorso anno che consente di recuperare gettito senza apparentemente introdurre espliciti inasprimenti impositivi.

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Tavola 9. Confronto tra le previsioni del governo e del CER (miliardi di euro)

Governo (a) CER (b) Differenze (a)-(b)2014 2015 2016 2017 2014 2015 2016 2017 2014 2015 2016 2017

Entrate totali 751,6 764,5 784,4 805,2 824,6 756,4 772,6 790,9 808,5 8,1 11,9 14,3 16,1 - % del Pil 48,2 48,2 48,2 48,0 47,6 48,4 48,2 47,9 47,5 -0,2 0,1 0,1 0,2- Entrate tributarie 468,4 479,5 493,6 508,1 521,9 473,2 486,1 501,1 515,7 6,3 7,5 7,0 6,2 - % del Pil 30,0 30,2 30,3 30,3 30,1 30,2 30,3 30,3 30,3 0,0 0,0 0,0 -0,1- Entrate contributive 215,0 216,3 221,3 226,8 232,5 214,6 217,1 219,6 222,9 1,7 4,2 7,3 9,6 - % del Pil 13,8 13,6 13,6 13,5 13,4 13,7 13,5 13,3 13,1 -0,1 0,1 0,2 0,3Spesa totale 798,9 806,3 817,7 830,6 839,7 803,3 813,4 824,0 834,8 3,0 4,3 6,5 5,0 - % del Pil 51,2 50,8 50,3 49,5 48,5 51,4 50,7 49,9 49,0 -0,5 -0,4 -0,4 -0,5Spesa primaria 716,9 723,7 735,2 744,8 753,9 724,3 736,1 745,5 754,0 -0,6 -0,8 -0,7 -0,1 - % del Pil 46,0 45,6 45,2 44,4 43,6 46,3 45,9 45,1 44,3 -0,7 -0,7 -0,7 -0,7Spesa per interessi 82,0 82,7 82,4 85,8 85,8 79,1 77,4 78,5 80,7 3,6 5,1 7,2 5,1 - % del Pil 5,3 5,2 5,1 5,1 5,0 5,1 4,8 4,8 4,7 0,2 0,2 0,4 0,2Indebitamento netto -47,3 -41,9 -33,2 -25,4 -15,1 -46,9 -40,8 -33,2 -26,3 5,1 7,6 7,8 11,1 - % del Pil -3,0 -2,6 -2,0 -1,5 -0,9 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5 0,4 0,5 0,5 0,7Saldo primario 34,7 40,8 49,2 60,4 70,7 32,1 36,5 45,3 54,5 8,7 12,7 15,0 16,2 - % del Pil 2,2 2,6 3,0 3,6 4,1 2,1 2,3 2,7 3,2 0,5 0,7 0,9 0,9

Fonte: elaborazioni CER su dati DEF 2014 corretto per gli effetti del Dl 66/2014.

2013

LA PREVISIONE NEL DETTAGLIO 38 Secondo le nostre stime, anche nel 2014 l’indebitamento netto rimarrebbe invaria-to in valore assoluto e in quota di Pil (come già nel 2013), giusto al di sotto della so-glia limite che schiude la procedura di deficit eccessivo (tavola 10). Peggiora lie-vemente il saldo primario, che passa dal 2,2 al 2,1 per cento del Pil, mentre migliora il saldo corrente (-0,5 per cento del Pil). In linea con il consolidamento della ripresa, stimiamo un risultato di bilancio più fa-vorevole nel triennio 2015-2017. In particolare, l’indebitamento netto si riduce nel 2015 al 2,6 per cento del Pil, per scendere al 2 per cento nel 2016 e all’1,6 per cen-to nel 2017. Migliorano anche il saldo primario e quello corrente, che a partire dal 2016 diventa positivo. 39 Il debito, secondo le nostre previsioni, aumenta nel 2014 la sua incidenza sul Pil di circa 5 punti percentuali, segnando con il 137,3 per cento un nuovo massimo stori-co. La dinamica stimata sconta sia il maggior fabbisogno dello smaltimento dei debiti verso i fornitori sia gli incassi del programma di privatizzazioni annunciato dal governo. Su di essa comunque incide in misura significativa la sostanziale staziona-rietà del Pil nominale.

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Tavola 10. Saldi di finanza pubblica

2013 2014 2015 2016 2017

MILIARDI DI EUROPUBBLICA AMMINISTRAZIONEIndebitamento netto -47,3 -46,9 -40,8 -33,2 -26,3Avanzo primario 34,7 32,1 36,5 45,3 54,5Spesa per interessi 82,0 79,1 77,4 78,5 80,7Saldo corrente -14,0 -8,2 -1,4 3,4 9,9Debito (definizione Ue) 2.069 2.148 2.203 2.248,6 2.272,3

IN % DEL PILPUBBLICA AMMINISTRAZIONEIndebitamento netto -3,0 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5Avanzo primario 2,2 2,1 2,3 2,7 3,2Spesa per interessi 5,3 5,1 4,8 4,8 4,7Saldo corrente -0,9 -0,5 -0,1 0,2 0,6Debito (definizione Ue) 132,6 137,3 137,3 136,2 133,4

A partire dal 2015 stimiamo una progressiva riduzione dell’incidenza del debito sul Pil, in linea con il miglioramento dei conti pubblici, e in particolare dell’avanzo primario, e, soprattutto, con una via via più vivace ripresa dell’economia, fino ad attestarsi nel 2017 al 133,4 cento del Pil. 40 Esaminando più da vicino la dinamica dei conti (tavola 11), nell’arco del quadrien-nio considerato stimiamo un aumento dell’1,8 per cento in media d’anno per le en-trate totali, dell’1,1 per cento per le spese complessive e dell’1,3 per cento per la spesa primaria. In quota di Pil, e in ragione della dinamica stimata del prodotto inter-no, secondo le nostre previsioni, le entrate complessive si riducono nel quadriennio di 0,7 punti percentuali, mentre le spese di circa 2,2 punti percentuali (1,7 punti percen-tuali, al netto degli interessi passivi). 41 Scendendo più nel dettaglio delle entrate, nell’anno in corso stimiamo un incremen-to della componente tributaria corrente dell’1,6 per cento. Alla riduzione dell’1,1 per cento delle dirette, su cui incide la riduzione attesa dell’IRE, si contrappone un au-mento del 4,3 per cento delle imposte indirette, trainate dall’IVA e dalle imposte sugli immobili (IMU e TASI).

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Per il triennio successivo, le entrate tributarie correnti aumentano, in linea con il miglio-ramento del quadro macroeconomico, ad un tasso più sostenuto, pari al 3 per cento in media d’anno, sostenute dalla ripresa della dinamica positiva delle dirette. Le entrate contributive, infine, si riducono dello 0,2 per cento nel 2014 e riprendono a crescere dall’anno successivo ad un tasso medio nel triennio pari all’1,3 per cento. La pressione fiscale continua a crescere nel 2014 (tavola 12), mentre si riduce nei tre anni successivi, riflettendo sostanzialmente la dinamica stimata del prodotto interno. In particolare, mentre la pressione tributaria cresce fino al 2015, quando raggiunge il 30,3 per cento del Pil, per poi rimanere stazionaria, quella contributiva diminuisce in tutto il periodo fino a toccare nel 2017 il 13,1 per cento del Pil. Con riferimento alla dinamica della spesa pubblica, stimiamo per i consumi collettivi, in linea con le previsioni di spesa per redditi e consumi intermedi, una nuova riduzione per quest’anno e aumenti a partire da quello successivo. A trainare la crescita della spesa del 2015 sarebbero i consumi intermedi che sono previsti aumentare ad un tasso via via più elevato senza però raggiungere gli importi del biennio 2011-2012. Tale an-damento sconta un profilo temporale dei tagli programmati, principalmente attraver-so la revisione del Patto di stabilità interno e il contenimento delle spese ministeriali e sanitaria, che sono meno incisivi a partire dal 2015. Al contrario stimiamo che la spesa per redditi si mantenga stazionaria, anche grazie agli effetti dei recenti provvedimenti introdotti nell’ultima legge di stabilità, che dovrebbero contribuire a mantenere in li-nea con il recente passato un più efficace controllo della dinamica. La spesa per interessi passivi, nelle nostre previsioni, si riduce nel biennio 2014-2015 ad un tasso medio del 2,9 per cento per tornare a crescere a partire dal 2016, quando si riporterebbe sul valore fatto registrare nel 2011. Su tale dinamica incide la riduzione dei tassi a breve e a medio-lungo termine e dello spread con i corrispondenti titoli tede-schi. Anche grazie all’allungamento delle scadenze dei titoli del debito pubblico, il co-sto medio del debito pubblico si riduce fino al 2016 per poi tornare ad aumentare. Alla ripresa della spesa per interessi contribuisce la dinamica del debito che pur declinante in quota di Pil cresce in valore assoluto in tutto il periodo. 42 Per le prestazioni sociali (tavola 13) stimiamo quest’anno una crescita del 2,4 per cento, che si riduce al 2,2 per cento nel biennio successivo, per poi risalire al 2,5 per cento nel 2017. La previsione sconta il contenimento della spesa pensionistica, grazie alla conferma del blocco delle indicizzazioni e al rallentamento della dinamica infla-zionistica, e di quella a sostegno della disoccupazione (vedi riquadro “La legge di stabilità per il 2014 e la perequazione delle pensioni”). In particolare, quest’ultima componente è suscettibile più delle altre di eventuali aggiornamenti, non solo per gli effetti della dinamica congiunturale, ma anche per quelli derivanti dall’annunciata riforma organica del mercato del lavoro (Jobs Act): una stima più precisa di tali ef-fetti richiede la conclusione del complesso iter normativo avviato e, più precisamen-te, l’approvazione, dopo quella del DL 74/2014, che semplifica e ottimizza il funzio-

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Conto consolidato delle amministrazioni pubbliche

MILIONI DI EURO2013 2014 2015 2016 2017

A. ENTRATE CORRENTI 742.406 749.282 765.711 782.956 802.097Imposte dirette 238.452 235.940 245.730 254.270 262.400Imposte indirette 225.847 235.569 239.227 245.629 252.586Contributi sociali 214.977 214.570 217.050 219.550 222.924Altre entrate 63.130 63.203 63.703 63.507 64.187B. ENTRATE IN CONTO CAPITALE 9.213 7.101 6.876 7.910 6.406C. TOTALE ENTRATE (A+B) 751.619 756.383 772.587 790.866 808.503D. SPESE CORRENTI 756.428 757.472 767.131 779.530 792.238Consumi collettivi 310.675 309.184 310.304 312.329 314.530di cui:- redditi 164.062 163.268 163.318 163.489 163.466- consumi intermedi 130.065 129.200 130.101 131.783 133.876Interessi passivi 82.041 79.059 77.353 78.523 80.724Prestazioni sociali 319.525 327.191 334.276 341.500 350.093Altre uscite correnti 44.187 42.038 45.197 47.177 46.891E. SPESE CORRENTI AL NETTO DEGLI INTERESSI 674.387 678.413 689.778 701.007 711.514F. SPESE IN CONTO CAPITALE 42.536 45.840 46.281 44.520 42.527Investimenti lordi 27.166 26.025 25.240 25.135 25.444Altre spese 15.370 19.815 21.041 19.385 17.083G. TOTALE SPESE (D+F) 798.964 803.312 813.412 824.050 834.765H. SALDO CORRENTE (A-D) -14.022 -8.190 -1.420 3.426 9.859I. INDEBITAMENTO NETTO (C-G) -47.345 -46.929 -40.825 -33.183 -26.262

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Tavola 11

VARIAZIONI PERCENTUALI (*) IN % DEL PIL2013 2014 2015 2016 2017 2013 2014 2015 2016 2017

A. ENTRATE CORRENTI -0,7 0,9 2,2 2,3 2,4 47,6 47,9 47,7 47,4 47,1Imposte dirette 0,6 -1,1 4,1 3,5 3,2 15,3 15,1 15,3 15,4 15,4Imposte indirette -3,6 4,3 1,6 2,7 2,8 14,5 15,1 14,9 14,9 14,8Contributi sociali -0,5 -0,2 1,2 1,2 1,5 13,8 13,7 13,5 13,3 13,1Altre entrate 4,9 0,1 0,8 -0,3 1,1 4,0 4,0 4,0 3,8 3,8B. ENTRATE IN CONTO CAPITALE 57,3 -22,9 -3,2 15,0 -19,0 0,6 0,5 0,4 0,5 0,4C. TOTALE ENTRATE (A+B) -0,3 0,6 2,1 2,4 2,2 48,2 48,4 48,2 47,9 47,5D. SPESE CORRENTI 0,6 0,1 1,3 1,6 1,6 48,5 48,4 47,8 47,2 46,5Consumi collettivi -0,8 -0,5 0,4 0,7 0,7 19,9 19,8 19,3 18,9 18,5di cui:- redditi -0,7 -0,5 0,0 0,1 0,0 10,5 10,4 10,2 9,9 9,6- consumi intermedi -1,4 -0,7 0,7 1,3 1,6 8,3 8,3 8,1 8,0 7,9Interessi passivi -5,1 -3,6 -2,2 1,5 2,8 5,3 5,1 4,8 4,8 4,7Prestazioni sociali 2,7 2,4 2,2 2,2 2,5 20,5 20,9 20,8 20,7 20,6Altre uscite correnti 7,2 -4,9 7,5 4,4 -0,6 2,8 2,7 2,8 2,9 2,8E. SPESE CORRENTI AL NETTO DEGLI INTERESSI 1,3 0,6 1,7 1,6 1,5 43,2 43,4 43,0 42,4 41,8F. SPESE IN CONTO CAPITALE -12,8 7,8 1,0 -3,8 -4,5 2,7 2,9 2,9 2,7 2,5Investimenti lordi -9,2 -4,2 -3,0 -0,4 1,2 1,7 1,7 1,6 1,5 1,5Altre spese -18,5 28,9 6,2 -7,9 -11,9 1,0 1,3 1,3 1,2 1,0G. TOTALE SPESE (D+F) -0,2 0,5 1,3 1,3 1,3 51,2 51,4 50,7 49,9 49,0H. SALDO CORRENTE (A-D) 217,1 -41,6 -82,7 -341,4 187,7 -0,9 -0,5 -0,1 0,2 0,6I. INDEBITAMENTO NETTO (C-G) 0,0 -0,9 -13,0 -18,7 -20,9 -3,0 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5

(*) Per il saldo corrente e l'indebitamento netto variazioni del rapporto con il Pil.

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Tavola 12. La pressione fiscale (in % del Pil)

2013 2014 2015 2016 2017

Pressione tributaria 30,0 30,2 30,3 30,3 30,3 Pressione contributiva (a) 13,8 13,7 13,5 13,3 13,1 Pressione fiscale (a) 43,8 44,0 43,8 43,6 43,4

(a) Al lordo dei contributi figurativi.

Tavola 13. Prestazioni sociali

2013 2014 2015 2016 2017

MILIONI DI EUROPensioni 273.659 279.712 285.538 291.583 299.370Prestazioni per la disoccupazione (a) 12.967 14.220 14.931 14.338 13.854Prestazioni per la famiglia (b) 6.580 6.762 6.938 7.125 7.268Totale prestazioni sociali 319.525 327.191 334.276 341.500 350.095

VARIAZIONI %Pensioni 2,2 2,2 2,1 2,1 2,7Prestazioni per la disoccupazione (a) 13,7 9,7 5,0 -4,0 -3,4Prestazioni per la famiglia (b) 1,1 2,8 2,6 2,7 2,0Totale prestazioni sociali 2,7 2,4 2,2 2,2 2,5

IN % DEL PILPensioni 17,5 17,9 17,8 17,7 17,6Prestazioni per la disoccupazione (a) 0,8 0,9 0,9 0,9 0,8Prestazioni per la famiglia (b) 0,4 0,4 0,4 0,4 0,4Totale prestazioni sociali 20,5 20,9 20,8 20,7 20,5

(a) Comprende cassa integrazione e indennità di disoccupazione (dal 2013 Aspi e Miniaspi) .(b) Comprende assegni familiari, prestazioni erogate dai comuni e assegno al secondo figlio. namento del mercato del lavoro, di uno specifico disegno di legge delega, il cui esame parlamentare è previsto per settembre, in materia di ammortizzatori sociali e servizi per l’impiego. Infine, secondo le nostre previsioni, la spesa in conto capitale aumenta di circa l’8 per cento nel 2014, per poi ridursi nel biennio 2016-2017 a un tasso medio annuo del 4,1 per cento. A trainare la ripresa sono i contributi agli investimenti in cui si contabilizzano la gran parte degli interventi previsti dall’ultima legge di stabilità. Gli investimenti fissi lordi si riducono nel triennio 2014-2016 a tassi via via più contenuti e ritornano ad aumentare nel 2017.

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GLI OBIETTIVI EUROPEI 43 Nella governance di bilancio europea il concetto fondamentale è l’Obiettivo di medio termine (Medium Term Objective - MTO), ovvero il saldo di conto economi-co della PA al netto degli effetti del ciclo e delle misure una tantum e temporanee. Per l’Italia, come è noto, tale obiettivo è pari a zero, ossia il pareggio di bilancio strutturale. Per il 2013, al netto degli effetti del ciclo e delle misure temporanee, l’indebitamento netto strutturale è stato del -0,8 per cento del Pil, che si ottiene correggendo l’indebitamento netto nominale (-3 per cento) per gli effetti del ciclo (-2,5 per cento) e delle misure one-off che, nel 2013, hanno peggiorato i conti per lo 0,2 per cento del Pil (tavola 14). Tavola 14. La finanza pubblica corretta per il ciclo (in % del Pil)

2013 2014 2015 2016 2017

Prodotto interno lordo -1,9 0,1 1,3 1,5 1,4Indebitamento netto -3,0 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5Spesa per interessi 5,3 5,1 4,8 4,8 4,7Tasso di crescita Pil potenziale 0,0 0,1 0,4 0,4 0,5Output gap -4,6 -4,5 -3,6 -2,6 -1,9Componente ciclica del saldo di bilancio -2,5 -2,5 -2,0 -1,5 -1,0Saldo di bilancio corretto per il ciclo -0,5 -0,5 -0,5 -0,6 -0,5Avanzo primario corretto per il ciclo 4,7 4,5 4,3 4,2 4,2Misure una tantum 0,2 0,2 -0,1 0,0 0,0Saldo di bilancio al netto delle una tantum -3,3 -3,2 -2,4 -2,0 -1,6Saldo di bilancio corretto per il cicloal netto delle una tantum (strutturale) -0,8 -0,7 -0,4 -0,5 -0,5Avanzo primario corretto per il cicloal netto delle una tantum (strutturale) 4,5 4,4 4,4 4,2 4,2Variazione saldo di bilancioal netto delle una tantum -0,2 0,1 0,8 0,4 0,5Variazione saldo di bilancio correttoper il ciclo al netto delle una tantum 0,8 0,1 0,3 -0,1 0,0

L’indebitamento netto strutturale si riduce, nelle nostre stime, al -0,7 per cento del Pil nel 2014 e allo 0,4 per cento nel 2015, per poi tornare a crescere nel biennio finale considerato. Al miglioramento stimato per l’indebitamento netto nominale, si som-mano gli effetti ciclici via via meno rilevanti e quelli delle misure temporanee che continuano a peggiorare i conti nel 2014, mentre danno un contributo alla riduzione del saldo strutturale nel 2015.

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L’avanzo primario strutturale, infine, si riduce in tutto il periodo di previsione. Nel bien-nio 2014-2015 è pari al 4,4 per cento del Pil, 0,1 punti percentuali in meno rispetto a quello registrato nel 2013, e al 4,2 per cento del Pil nel 2016-2017. Infine, la dinamica del debito in percentuale del Pil risultante dalle nostre previsioni (aumento nel 2014 e riduzione nel triennio successivo) non rispetta le regole stabilite per il rientro da livelli eccessivi. In particolare, nel 2015 il debito in percentuale al Pil, anche se corretto per gli effetti del ciclo, non si riduce di 1/20 all'anno rispetto alla media dei tre precedenti esercizi, come richiesto dalla disciplina europea. In modo analogo anche nel 2017, la quota del debito sul Pil è più elevata di quella richiesta. 44 La nostra previsione segnala come, a differenza di quanto assunto nei documenti programmatici e di quanto richiesto dal MTO, l’indebitamento strutturale non si an-nullerebbe; al contrario, tornerebbe ad aumentare nel 2016. Ciò significa che nella stima CER la riduzione dell’indebitamento nominale nel 2016-2017 sarebbe determi-nata dal miglioramento del ciclo - dunque da un aspetto non computabile nel saldo strutturale - piuttosto che da misure correttive di natura discrezionale. L’apparente paradosso è che la diminuzione del deficit comporterebbe, nell’ultimo biennio della previsione, un andamento addirittura deviante, non solo insufficiente, rispetto al MTO. In realtà, è questo un effetto tipico di un modello di governance centrato sulla grandezza di saldo strutturale. Partendo infatti dall’identità 1 ) dove il saldo strutturale Is, è definito come differenza fra l’indebitamento nominale In e la sua componente ciclica Ic, a sua volta misurata come prodotto fra l’output gap e un coefficiente di elasticità del bilancio pubblico al ciclo economico: 2) Le regole europee impongono che sia 3) Is=0 Questo implica che, nelle fasi di espansione, con OG positivo o in riduzione, l’indebitamento nominale debba costantemente migliorare in quota di Pil. Per l’Italia, secondo la misura di elasticità del bilancio pubblico al ciclo economico uti-lizzata dalla Commissione, la dimensione del miglioramento deve essere pari a 0,55 punti per ogni punto di riduzione dell’output gap. 45 Una rappresentazione ipotetica dei valori di indebitamento nominale ammessi sot-to la nuova regola europea è riportata nel grafico 19, dove è stato considerato l’intervallo di output gap effettivamente misurato dalla Commissione per l’Italia nel periodo 1965-2013 (compreso fra un minimo di -4,5 per cento toccato nel 1965 e nel 2013 e un massimo di 3,3 per cento raggiunto nel 1989). A regime, e conside-rando questo intervallo di oscillazione come rappresentativo anche del ciclo eco-nomico futuro, l’indebitamento italiano potrebbe risultare compreso fra un disa-

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vanzo massimo del 2,5 per cento del Pil e un surplus di quasi il 2 per cento (20). Con riferimento ai valori di surplus, si può osservare come il valore di massimo riportato nel grafico (1,9 per cento) sia molto vicino al dato del 1925, quando l’indebitamento ita-liano registrò un avanzo dell’1,7 per cento, il più elevato della serie storica dall’Unità a oggi. Va altresì osservato che, in oltre 150 anni, il bilancio pubblico italiano è stato in surplus solo 16 volte, l’ultima delle quali proprio nel 1925. Si noti anche che il per-corso tracciato nella prima parte della curva è sostanzialmente quello adottato dal DEF 2014, che prevede, entro il 2018, il passaggio da un disavanzo nominale del 3 per cento del Pil a un avanzo dello 0,3 per cento del Pil. L’adozione di una regola di pareggio del saldo strutturale rappresenta dunque, per la politica di bilancio italiana, una vera e propria rivoluzione. Per la prima volta, viene esercitato un vincolo stringente nelle fasi espansive del ciclo, imponendo la realizza-zione di avanzi di bilancio nominale che potrebbero avvicinare il 2 per cento del Pil. 46 I miglioramenti richiesti alla finanza pubblica in fasi espansive possono esser misurati anche attraverso apposite simulazioni, con cui cogliere gli effetti di una maggiore crescita sul saldo strutturale. Sono stati effettuati, a tal fine, due esercizi con il modello econometrico del CER, adattato per incorporare la metodologia di calcolo dell’output gap utilizzata dalla Commissione. Gli shock considerati sono i seguenti: • shock 1: rimodulazione del bilancio pubblico secondo le indicazioni contenute nel programma #lasvoltabuona; • shock 2: riforma del mercato del lavoro e dei prodotti. Grafico 19. Massimi valori di indebitamento ammessi in presenza di diversi livelli di output gap

-3,0

-2,0

-1,0

0,0

1,0

2,0

3,0

-4,5 -4,0 -3,5 -3,0 -2,5 -2,0 -1,5 -1,0 -0,5 0,0 0,5 1,0 1,5 2,0 2,5 3,0 3,5

Output gap

Indeb

itame

nto no

mina

le am

mess

o

Fonte: elaborazioni su dati Commissione europea

(20) Si noti che il percorso della prima metà della curva, che conduce a un avanzo nominale in presenza di una chiusura attesa dell’output gap, è quello già delineato nel DEF 2014 (0.3% nel 2018).

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Il primo shock simula gli effetti di un ampio spettro di misure di espansione del bilan-cio pubblico (bonus 80 euro, riduzione IRAP, investimenti in edilizia scolastica, ulteriori pagamenti debiti PA), coperti attraverso tagli di spesa, introiti associati a rientro capi-tali, maggiore Iva generata dal pagamento debiti PA, aumento tassazione sulle ren-dite finanziarie e incremento di altre entrate in conto capitale. Nello svolgimento dell’esercizio si è supposto che i tagli di spesa colpiscano effettivamente fenomeni di spreco e che, di conseguenza, essi possano favorire un aumento di efficienza della pubblica amministrazione. Assimilando questo aumento di efficienza a un incremen-to della produttività, l’esercizio incorpora una riduzione della dinamica del deflatore dei consumi pubblici rispetto allo scenario di base. Per tutto il periodo considerato, è stato inoltre imposto il vincolo dell’invarianza del saldo nominale, per cui le misure di tipo espansivo hanno sempre, nell’esercizio, una piena copertura. É stata così simula-ta una manovra di ricomposizione del bilancio pubblico che genera i suoi effetti e-spansivi non attraverso la variazione del saldo, ma per l’operare di valori diversi dei moltiplicatori fiscali. Il secondo shock misura gli effetti di un programma di riforme volto a rendere più ef-ficiente il funzionamento del mercato del lavoro e dei prodotti. Gli effetti sulla do-manda di questo programma sono stati ricavati dal DEF 2014 (tavola III.8 del Pro-gramma di stabilità). Ad esso si è aggiunto un impulso diretto sulla produttività totale dei fattori (TFP), pari all’1 per cento nel primo anno di simulazione e allo 0,2 per cento nei successivi periodi. La considerazione di un aumento di TFP è giustificata dalla na-tura stessa di un programma di efficientamento dei mercati, che ha fra i suoi obiettivi proprio quello di accrescere la produttività del sistema. I risultati degli esercizi in termini di crescita, output gap, indebitamento nominale e saldo strutturale sono confrontati con il profilo programmatico assunto nel DEF 2014. 47 Entrambe le simulazioni conducono a una maggiore crescita, anche se con tempi e intensità diverse. É interessante osservare come una manovra di ricomposizione del bilancio pubblico avrebbe effetti del tutto analoghi a quelli associabili a un programma di riforma dei mercati. In entrambi i casi, a fine periodo il livello del Pil effettivo risulterebbe superiore di un punto e mezzo rispetto al baseline. Il primo shock ha inoltre effetti più rapidi, mentre gli impulsi dello shock 2 tendono ad au-mentare nella seconda parte del periodo di simulazione. A questi andamenti simili in termini di crescita, corrispondono però differenze signifi-cative in termini di output gap (grafici 20 e 21). Il vuoto di prodotto si riduce nel caso dello shock 1, dal momento che un’accelerazione della crescita che passi attra-verso le componenti di domanda trasmette impulsi ritardati sul Pil potenziale. In al-tre parole, l’accelerazione della crescita effettiva anticipa quella della crescita po-tenziale e per questo l’output gap si riduce. L’output gap aumenta, invece, nello shock 2, che agisce direttamente sul Pil po-tenziale. Equivalenti in termini di impulsi trasmessi alla crescita effettiva, gli shock 1 e 2 si differenziano, quindi, per avere effetti opposti sul livello di output gap.

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Grafico 20. Variazioni cumulate del Pil sotto diversi shock

100

101

102

103

104

105

106

107

108

t t+1 t+2 t+3 t+4 t+5

Baseline Shock 1 Shock 2 Fonte: modello econometrico CER. Grafico 21. Livelli dell’output gap sotto diversi shock

-5,0

-4,0

-3,0

-2,0

-1,0

0,0

1,0

2,0

t t+1 t+2 t+3 t+4 t+5

Baseline Shock 1 Shock 2 Fonte: modello econometrico CER. 48 Ne conseguono diversi effetti sul saldo strutturale (grafico 22), che peggiora nel pri-mo esercizio e migliora invece nel secondo. Particolarmente rilevante è l’allontanamento dall’obiettivo del pareggio nel caso del primo shock. Trova così una misurazione compiuta il fatto, già evidenziato, che all’interno del nuovo mo-dello di governance europea il miglioramento delle condizioni di crescita non alle-via il vincolo di finanza pubblica, imposto attraverso il pareggio del saldo struttura-le. Rispetto a uno scenario di base, è necessario che a una crescita più robusta corrispondano miglioramenti più robusti del saldo nominale. Il saldo strutturale migliora invece, sensibilmente, nel caso del secondo shock, pas-sando in attivo già al tempo t+2. In questo caso, si aprirebbe quindi lo spazio per una manovra espansiva del bilancio, volta ad avvicinare, ma in questo caso dall’alto, l’obiettivo del pareggio. Ciò significa che, all’interno dello schema euro-peo, una discrezionalità sul livello dell’indebitamento nominale può essere recupe-rata solo dopo essere riusciti a stimolare un aumento del prodotto potenziale. La

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Grafico 22. Valori del saldo strutturale sotto diversi shock

-1,0

-0,8

-0,6

-0,4

-0,2

0,0

0,2

0,4

0,6

t t+1 t+2 t+3 t+4 t+5

Baseline Shock 1 Shock 2 Fonte: modello econometrico CER difficoltà, in questo caso, risiede nel fatto che, all’interno della metodologia euro-pea, gli effetti delle riforme strutturali sulla Tfp non possono essere anticipati, ma considerati solo dopo che si manifestano effettivamente sotto forma di un’accelerazione del Pil effettivo. Si ricadrebbe quindi nella situazione dello shock 1. Un paradosso che può essere superato solo in presenza di accordi specifici, tesi a riconoscere margini di flessibilità nell’applicazione delle regole, a fronte dell’attuazione di programmi di riforma. All’interno di questo schema, resta comunque aperta la questione della compati-bilità fra l’accresciuta severità delle regole e l’esigenza di recuperare più rapida-mente le perdite di reddito e prodotto subite nel 2008-2013. A tal riguardo, occorre porre la massima cura sulla valutazione delle metodologie adottate per il calcolo degli obiettivi di saldo strutturale, dalle quali dipende, per intero, la stance della politica di bilancio. Non poche perplessità suscita, a tal riguardo, l’utilizzo che, all’interno dello schema proposto dalla Commissione europea, vien fatto del con-cetto di NAIRU. Dedichiamo a questo argomento l’ultimo capitolo del Rapporto.

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RIQUADRO. LA LEGGE DI STABILITÀ PER IL 2014 E LA PEREQUAZIONE DELLE PENSIONI La modulazione del meccanismo di indicizzazione dei trattamenti pensionistici, che fino al 2013 operava per scaglioni di importo, dal 2014 agisce con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti. Ciò significa che mentre finora la fascia fino a 3 volte il minimo INPS, pari a 1.503 eu-ro lorde mensili nel 2014, di qualsiasi ammontare complessivo di pensione era comunque indiciz-zata al 100% e la riduzione della protezione riguardava soltanto le fasce di pensione superiore a tre volte il minimo, con il nuovo sistema tutte le pensioni di importo superiore a 1.503 euro mensili verranno indicizzate parzialmente per tutto il loro importo. Tavola. Indicizzazione prevista dalla legge di stabilità per il 2014

2014 2015 2016Fino a 3 volte minimo INPS

Da 3 a 4 volte minimo INPS

Da 4 a 5 volte minimo INPS

Da 5 a 6 volte minimo INPS

6 volte minimo INPS 40%

Fascia oltre 6 volte minimo INPS 0%

45%

45%

% DI INDICIZZAZIONEIMPORTO COMPLESSIVO

100%95%

75%

50%

Gli effetti del nuovo meccanismo di indicizzazione sono simulati nel grafico seguente, dal quale emerge la rapida perdita di potere di acquisto a cui andranno in contro i trattamenti pensionistici di importo medio-alto. Abbiamo ipotizzato che fino al 2020 sia mantenuto il meccanismo di indicizzazione in vigore per il biennio 2015-16, e che l’inflazione risalga al 2 per cento a partire dal 2017. Grafico. Perequazione automatica per importi al lordo della tassazione (numeri indici 1997=100, a parità di potere di acquisto)

86889092949698

100102

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

2020

2 volte minimo 4 volte minimo 5 volte minimo6 volte minimo 10 volte minimo

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Le pensioni fino a 4 volte il trattamento minimo, cioè circa due mila euro lorde nel 2014, nei pros-simi anni continueranno a registrare una sostanziale stabilità del loro potere di acquisto. E questo rimane vero sia se si prende come punto di riferimento il 1997, che il 2013. Per le pensioni superiori a due mila euro lorde nel 2014 la prospettiva nei prossimi anni è per niente rosea. Già le pensioni pari a 5 volte il trattamento minimo perderanno un altro 4 per cento del loro valore reale tra il 2014 e il 2020, cioè il doppio della perdita registrata tra il 1997 e il 2013. L’ulteriore a perdita tra il 2014 e il 2020 diventa del 6 per cento per quelle pari a 6 volte il trattamento minimo. Va da sé che se l’attuale meccanismo di indicizzazione per importi complessivi dovesse essere mantenuto negli anni a venire le perdite di potere di acquisto si cumulerebbero. Con una infla-zione del due per cento annuo, le pensioni medio alte perderebbero circa il dieci per cento del loro valore reale ogni decennio.

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Il concetto di disoccupazione strutturale

nella letteratura economica 49 Le recenti stime della disoccupazione strutturale nei paesi UE hanno suscitato pole-miche e preoccupazioni, sia per i valori assoluti sia per la velocità con cui le cifre tendono verso l’alto. Per il 2014, la Commissione Europea ha fissato i valori percen-tuali della disoccupazione strutturale al 20,0 in Spagna (era il 12,3 nel 2006), al 20,0 in Grecia (9,4 nel 2006) e al 13,3 in Portogallo (8,7 nel 2006). Anche per l’Italia, le stime dalla Commissione sono molto vicine al dato della disoccupazione rilevata, con un parametro strutturale al 10,9 nell’anno in corso a fronte di un dato pre-crisi del 7,8 nel 2006. Meno drammatiche, ma sempre molto preoccupanti, le stime OCSE, che per il 2014 vedono la disoccupazione strutturale al 21,5 in Spagna, 16,8 in Grecia, 12,2 in Portogallo, 9,9 in Italia (21). 50 Per disoccupazione strutturale si intende quell’unico livello della disoccupazione che è compatibile con un tasso di inflazione invariato. In dettaglio, i numeri appena citati si riferiscono più precisamente al tasso di inflazione salariale (NAWRU, non-accelerating wage rate of unemployment) per quanto riguarda le cifre della Com-missione Europea, e al tasso di inflazione vero e proprio per i dati OCSE (che sono quindi stime del NAIRU, non-accelerating inflation rate of unemployment), ma en-trambi i parametri sono proposti come misura della disoccupazione strutturale. Infine, nel quadro della impostazione teorica comune alle due diverse stime, il tasso di di-soccupazione strutturale è anche l’unico sostenibile nel lungo periodo. (Per semplici-tà, faremo di qui in avanti riferimento al solo NAIRU come sinonimo di disoccupazio-ne strutturale.) 51 Secondo la lettura più semplice e più diffusa della teoria che sta alla base del con-cetto di disoccupazione strutturale, qualsiasi riduzione della disoccupazione indi-pendente da una corrispondente diminuzione del NAIRU (ad esempio a seguito di politiche espansive volte a sostenere la domanda aggregata) è sempre un fenome-no reversibile, tale cioè da mettere in moto un processo adattativo che riporta la di- (21) Stime Commissione Europea, Spring 2014 e OCSE Economic Outlook 95, May 2014.

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soccupazione al livello iniziale, anche se in presenza di un tasso di inflazione più ele-vato. Inoltre, ulteriori tentativi di sostenere l’occupazione dal lato della domanda a-vrebbero il solo effetto di creare altra inflazione, mentre l’unico modo per far scen-dere la disoccupazione in modo stabile consisterebbe nell’attuazione di politiche che tendano a correggere il dato strutturale. Queste politiche sono attuabili solo sul lato dell’offerta, dove si dovrebbero rendere più competitivi tutti i mercati ed in par-ticolare il mercato del lavoro, in modo da stimolare la produttività e tenere a freno i salari. 52 Disoccupazione e inflazione sono sempre stati problemi fondamentali della macroe-conomia e della politica economica. Tuttavia, il modo di pensare i due fenomeni e la relazione che li lega si è evoluto molto negli ultimi decenni, né il progresso della ri-cerca sembra essersi arrestato. Fino ad un secolo fa, il problema della disoccupazio-ne era stato a malapena codificato, non se ne conoscevano con precisione le cau-se e lo si riteneva comunque un fenomeno di breve periodo legato al ciclo econo-mico. I primi studi sull’instabilità del potere d’acquisto della moneta sono invece più remoti nel tempo, ma connessi a forme monetarie a base metallica ereditate dall’antichità, la cui evoluzione verso i moderni strumenti monetari, del tutto slegati dalla quantità e dal valore di una qualsiasi merce denaro, iniziava anch’essa verso l’inizio del secolo scorso. 53 È solo a seguito dell’affermarsi della teoria keynesiana che inflazione e disoccupa-zione cominciano ad essere pensati entro un primo schema teorico complessivo, in cui la diminuzione della disoccupazione e l’aumento del livello generale dei prezzi sono le due possibili risposte del sistema economico a seguito di un aumento della domanda aggregata. Secondo la semplice partizione keynesiana, gli effetti di un aumento della domanda aggregata si ripartiranno sul tasso di disoccupazione e su quello di inflazione in una proporzione che dipende dalla quantità di risorse inutilizza-te presenti nel sistema – e quindi, in ultima analisi, dal livello iniziale del tasso di disoc-cupazione. Tanto più alta la disoccupazione, tanto maggiore sarà l’effetto di un aumento della domanda aggregata in termini di creazione di nuovi posti di lavoro; tanto più bassa la disoccupazione, tanto più un incremento della domanda aggre-gata andrà invece a ripercuotersi sui prezzi. In presenza di piena occupazione, il ca-so particolare della Teoria Generale pubblicata da Keynes nel 1936, un aumento della domanda si tradurrà soltanto in un aumento dei prezzi. 54 Dopo Keynes, teoria e politica economica hanno continuato a svilupparsi in base a questo schema. La conoscenza della relazione tra inflazione e disoccupazione andò affinandosi, soprattutto sulla base di alcuni fondamentali studi empirici pubblicati

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verso la fine degli anni ’50, ma rimase a lungo immutata la gerarchia degli obiettivi, che vedeva nella disoccupazione il problema principale e nel risvegliarsi dell’inflazione l’indicatore del limite delle politiche economiche volte alla piena oc-cupazione. Successivamente, la relazione tra inflazione e disoccupazione è rimasta centrale nella teoria e nelle politiche macroeconomiche, ma il modo di intenderla è profondamente cambiato, fino al formarsi del punto di vista che esclude la possibili-tà di una politica della domanda volta alla riduzione della disoccupazione. 55 Data l’entità del cambiamento di prospettiva, gli sviluppi della teoria vengono spes-so raccontati con toni drammatici. Si parla di rivoluzione e controrivoluzione, secon-do una schematizzazione rigida, in cui si tende spesso a dividersi tra ‘fede monetari-sta’ o ‘ritorno a Keynes’, Nuova Macroeconomia Classica o ‘eresia’ keynesiana. Al-cune osservazioni su come le stime del NAIRU sono state elaborate, interpretate e uti-lizzate fino ad oggi suggeriscono invece, a nostro avviso, l’utilizzo di schemi interpre-tativi meno rigidi e una certa prudenza nell’interpretazione dei dati attuali. 56 Il concetto di disoccupazione strutturale è stato introdotto nella letteratura econo-mica da Milton Friedman e da Edmund Phelps alla fine degli anni ’60. Se Keynes a-veva mostrato l’importanza delle aspettative nel funzionamento del mercato dei capitali, i due economisti statunitensi insistevano sul fatto che lo stesso fattore dove-va per forza avere una qualche incidenza anche su tutti gli altri mercati, e in partico-lare su quello del lavoro. Il modo in cui l’elemento delle aspettative venne inserito nei nuovi modelli economici riflette una impostazione ideologica opposta a quella di Keynes. Nelle nuove teorie, le aspettative incorporano la razionalità degli agenti e-conomici anziché la loro incapacità ad adattarsi ad un mondo il cui futuro è radi-calmente incerto, cosicché i mercati tornano ad essere istituzioni efficienti cui è con-veniente affidarsi. D’altra parte, in un mondo in cui l’inflazione era diventata più pre-vedibile che in passato, era forse inevitabile che gli economisti incorporassero questo elemento nei loro modelli. 57 Come abbiamo mostrato in un precedente rapporto (2/2013), mentre nei primi de-cenni della fase post-unitaria l’andamento dell’inflazione italiana è stato erratico, con oscillazioni tra fasi di inflazione e di deflazione, nel secondo dopoguerra l’inflazione diventa una situazione normale. Un andamento analogo si osserva in tutti i paesi avanzati, né ci si deve stupire di tutto ciò. Mentre fino ai primi del ‘900 era an-cora lecito pensare che il valore della moneta potesse dipendere dalla scoperta di una miniera d’oro in Sud Africa o in California, nel mondo attuale il valore della mo-neta è regolato dai banchieri centrali il cui compito è proprio quello di ridurre l’incertezza legata alle fluttuazioni dei prezzi. Nel rinnovato quadro storico, in cui an-

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che il ruolo della contrattazione collettiva è cresciuto in maniera rilevante, è normale aspettarsi che i salari tenderanno ad anticipare i movimenti dei prezzi. Anche l’ipotesi di una spirale prezzi-salari implicita nel concetto di disoccupazione strutturale ha quindi una sua logica, mentre la scelta di concentrarsi sulla competitività e la fles-sibilità del mercato del lavoro rappresenta una scelta più marcatamente politica. Se in passato si è talvolta cercato nella politica dei redditi, e quindi anche nella rappre-sentanza sindacale, lo strumento per contenere gli effetti inflattivi della crescita eco-nomica e di alti livelli occupazionali, la ricerca di una maggiore flessibilità e concor-renza sul mercato del lavoro, per sua stessa definizione, mira a limitare il potere delle organizzazioni dei lavoratori. 58 Oltre al suo significato politico più evidente, la ricerca della competitività ne ha un altro forse meno evidente ma più strettamente legato al concetto di NAIRU. Se inter-pretata in modo troppo schematico, la strategia della flessibilità e della concorrenza può fornire alla politica un pretesto per fermarsi molto presto nella ricerca di livelli occupazionali accettabili, inducendo a catalogare come ineliminabile una parte del problema occupazionale anziché tentare di risolverlo. Se la piena occupazione keynesiana segnava il limite oltre il quale il lavoro tornava ad essere a tutti gli effetti una risorsa scarsa, ora ci si concentra sul fatto che esiste un livello minimo di disoc-cupazione, per lo più di natura frizionale, che corrisponde all’equilibrio del sistema e che è pertanto ineliminabile, almeno nell’immediato. 59 Laddove i tassi di partecipazione al lavoro sono alti e la disoccupazione strutturale bassa, stabile, e in gran parte generata da lavoratori in rapido transito tra un’occupazione e l’altra, la politica economica può in effetti accontentarsi di pre-venire, oppure di correggere rapidamente, le fluttuazioni cicliche attorno al NAIRU. Altrove, si dovrà invece tentare di far crescere la produttività del lavoro più rapida-mente dei salari nominali, facilitando l’incontro tra domanda ed offerta sul mercato del lavoro, in modo da conciliare un’alta partecipazione alla forza lavoro con una più bassa disoccupazione strutturale. Ma in ciascuno dei due casi, e soprattutto nel secondo, si deve essere ragionevolmente certi di quale sia l’effettivo livello del dato strutturale. 60 Ciò che lascia perplessi, nelle elaborazioni attuali, è l’idea che la disoccupazione strutturale di un paese avanzato possa essere superiore al 20 per cento, magari rad-doppiando nell’arco di un decennio, tanto più se si pensa che la disoccupazione strutturale non può essere oggetto di misurazioni dirette ma solo di stime. Il concetto introdotto da Friedman e Phelps nasce infatti come ipotesi teorica, abbastanza inte-ressante da creare una nuova agenda di ricerca, ma non ancora sufficientemente

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definita da poter essere immediatamente tradotta in termini quantitativi e in misure definite di politica economica. Per verificare l’ipotesi, e poi per renderla utilizzabile ai fini pratici, a partire dagli anni ’70 diverse stime del NAIRU sono state introdotte e te-state empiricamente, stime che a loro volta hanno generato nuove ipotesi circa la stabilità del livello della disoccupazione strutturale e le determinanti della sua evolu-zione nel tempo. 61 Nel 1997, in un simposio sul NAIRU nel Journal of Economic Perspectives, alcuni dei più influenti economisti provarono a tirare le prime somme di un’attività di ricerca svolta su un arco di tempo ormai piuttosto lungo. Nel simposio, non mancano voci più nettamente critiche nei confronti del NAIRU, come quella tipicamente keynesia-na espressa da James Galbraith. D’altra parte, anche gli interventi di Joseph Stiglitz e di Robert Gordon, entrambi nettamente a favore dell’utilizzo del NAIRU come stru-mento della politica economica, ponevano il problema di come interpretare e misu-rare l’evoluzione del parametro nel tempo. Inoltre, se la soluzione di quest’ultimo problema sembrava alla portata degli economisti statunitensi, Olivier Blanchard e Lawrence Katz sollevavano già allora forti dubbi sulla possibilità e l’opportunità di af-fidarsi al NAIRU nell’orientare la politica economica europea. 62 La differenza fondamentale tra il caso statunitense e quello europeo, anche in una fase relativamente tranquilla (rispetto al post-2007) come l’ultimo quarto del secolo scorso, è la relativa stabilità dei tassi di disoccupazione osservata e delle stime del NAIRU negli Stati Uniti a confronto con la continua crescita della disoccupazione osservata in Europa e con la difficoltà di correlare questa crescita alla sottostante evoluzione del NAIRU. Per circa venticinque anni gli economisti americani si erano confrontati su stime del NAIRU che differivano tra loro al più per un punto percen-tuale. Inoltre, anche le variazioni nel tempo del tasso strutturale USA erano stimate entro un analogo ordine di grandezza attorno ad un livello piuttosto basso: quel 6 per cento che a lungo fu considerato come una sorta di tasso ‘naturale’ della di-soccupazione negli USA. Al contrario, l’esperienza europea raccontata da Blan-chard e Katz nel 1997 mostrava un tasso di disoccupazione osservata (nei paesi eu-ropei appartenenti all’OCSE) cresciuta da poco sopra il 3 per cento nel 1970 a quasi il 12 per cento un quarto di secolo dopo, una convinzione diffusa che nello stesso periodo anche il NAIRU europeo dovesse essere cresciuto e, soprattutto, nes-suna spiegazione del tutto convincente circa il quanto ed il perché il NAIRU euro-peo fosse cresciuto negli anni. 63 Nel clima di stabilità garantito dal contesto americano, l’esperienza sul NAIRU matu-rata da Stiglitz come capo dei consiglieri economici della Casa Bianca, permetteva

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non solo di confermare l’ipotesi di Friedman e Phelps ma anche di specificarla me-glio. Se il livello della disoccupazione si era in effetti dimostrato significativo nel pre-vedere l’andamento futuro dell’inflazione, l’esperienza cumulata dal governo ame-ricano aveva anche insegnato che gli scostamenti dal livello strutturale non erano da considerarsi particolarmente pericolosi. ‘Cercare’ il livello strutturale, forzando la disoccupazione verso il basso fino a risvegliare la dinamica dei prezzi, non compor-tava, secondo Stiglitz, il rischio di una esplosione dell’inflazione: le reazioni di quest’ultimo parametro si erano dimostrate abbastanza lente e abbastanza deboli da potere essere facilmente controllate. Inoltre, gli studi sull’evoluzione del NAIRU lungo gli ultimi decenni avevano portato ad introdurre nuove ipotesi teoriche per cui le fondamentali distinzioni tra conseguenze di breve e lungo periodo della politica economica, politica della domanda e dell’offerta, risultavano meno nette che in passato. 64 Facendo suo un concetto introdotto in letteratura proprio da Phelps (il c.d. effetto isteresi), Stiglitz notava come il trend di lungo periodo del NAIRU potesse dipendere – oltre che da vari altri fattori, come il potere sindacale o l’andamento demografico – anche dal ciclo economico. In particolare, fasi troppo prolungate di alta disoccupa-zione possono diminuire la produttività di coloro che rimangono inattivi e allo stesso tempo aumentare il potere di mercato degli insiders, con effetti perversi sull’andamento della produttività e dei salari che portano ad un incremento del livel-lo del NAIRU nel tempo. 65 L’idea, per niente eterodossa, per cui il NAIRU di lungo periodo non è indipendente dall’andamento del ciclo economico e dagli effetti di breve periodo della politica economica deve essere vista in relazione ad un altro elemento che caratterizza il quadro teorico attuale. Solo nelle interpretazioni più estreme, tipiche della Nuova Macroeconomia Classica, il concetto di NAIRU è associato all’idea per cui la politica economica è del tutto inefficace tanto nel breve quanto nel lungo periodo. Secon-do interpretazioni meno estreme, e ormai forse anche più diffuse, questo non succe-de. Da una parte, si tende ad assumere che gli shock (e le politiche) dal lato della domanda abbiano sempre effetti reali, cioè in termini di variazioni del PIL e dell’occupazione, almeno nel breve periodo. Dall’altra, si è portati sempre più ad approfondire l’ipotesi per cui variazioni abbastanza prolungate della domanda ag-gregata abbiano a loro volta effetti duraturi sulla produttività e quindi sullo stesso li-vello del NAIRU. 66 Nel simposio del 1997, quest’ultima precisazione era fatta propria da R. Gordon, che ne introduceva anche un’altra. Il padre di uno dei modelli più importanti tra quelli

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che incorporano il concetto di disoccupazione strutturale (triangle model) metteva in guardia dal cercare di misurare il NAIRU nei periodi in cui l’economia si discosta fortemente dal trend di lungo periodo. Secondo Gordon, in fasi storiche paragonabili alla Grande Depressione degli anni ’30, il NAIRU misurato dai modelli econometrici elaborati in fasi di relativa stabilità potrebbe facilmente incorporare le componenti cicliche e quindi ‘imitare’ (mimic) la disoccupazione ciclica, magari attestandosi su livelli superiori al 20 per cento. 67 A distanza di alcuni anni, l’imbarazzo di Blanchard e Katz rispetto al problema di mi-surare il NAIRU in un contesto non così stabile (e, occorrerebbe dire, non così omo-geneo) come è l’economia europea rispetto a quella statunitense, così come le os-servazioni di Stiglitz e Gordon, sembrano trovare ulteriore conferma. Se le attuali sti-me della disoccupazione strutturale nei paesi UE spesso divergono significativamente tra di loro, le stesse stime sembrano in effetti inseguire il dato della disoccupazione osservata anziché isolarne la componente di lungo periodo, mentre appelli per poli-tiche a sostegno della domanda, oppure contrarie a una mera ricerca della flessibili-tà sul mercato del lavoro arrivano da istituzioni, come l’OCSE e la Banca d’Italia, che certamente non mirano ad una nuova rivoluzione teorica ma che, più probabilmen-te, cercano di utilizzare l’analisi economica corrente in un modo più critico e meno dogmatico. 68 Il Governatore della Banca d’Italia ha recentemente citato studi del proprio istituto che mostrano una correlazione negativa tra aumento della flessibilità dei contratti di lavoro e aumento della produttività, suggerendo che i necessari investimenti in capi-tale umano sono possibili solo laddove l’orizzonte temporale entro cui il lavoratore è legato alla stessa azienda è sufficientemente ampio. Inoltre, negli ultimi due anni, gli Employment Outlook dell’OCSE hanno, da un lato, offerto stime della disoccupazio-ne in Europa in cui un peso maggiore viene dato alla componente ciclica (output gap) rispetto a quella strutturale (NAIRU), e, dall’altro, recepito l’ipotesi dell’effetto isteresi. Intravedendo un nesso sempre più stretto tra il crollo della domanda aggre-gata e dell’occupazione osservata ed il sottostante aumento del NAIRU, nell’Employment Outlook del 2013, l’OCSE arrivava persino a proporre misure a so-stegno della domanda come antidoto alla recente crescita della disoccupazione strutturale in Europa. 69 In un altro nostro precedente rapporto (3/2011), facevamo riferimento alle opposte posizioni espresse da Keynes e Pigou sulla disoccupazione inglese nel periodo tra le due guerre. Nel 1930, nell’ambito di quello stesso dibattito, Edwin Cannan osservava come fosse inutile cercare di salvare le vecchie industrie inglesi come il tessile o la si-

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derurgia nel tentativo di tamponare il problema della disoccupazione. Piuttosto, con lo spontaneo adattamento dell’economia britannica, che vedeva il progressivo e-saurirsi delle vecchie industrie manifatturiere esportatrici situate nelle Midlands ed un sempre più sviluppato settore finanziario e terziario attorno all’area metropolitana di Londra, le forze automatiche del mercato avrebbero progressivamente adattato le condizioni dell’offerta fino a riassorbire tutta la forza lavoro in eccesso. Può darsi che ad un economista come Cannan, con un’esperienza ultratrentennale come profes-sore alla London School of Economics, non sfuggissero quelle che probabilmente e-rano già le tendenze di sviluppo di lunghissimo periodo dell’economia inglese. D’altra parte, è difficile dare torto a Henry Clay, che rispondeva all’illustre economi-sta facendo notare che sì, forse il problema si sarebbe risolto da sé, magari nel 2000, o anche nel 1950, ma che i disoccupati del 1930 avevano qualche difficoltà ad as-sumere un orizzonte così ampio. È questo il concetto che Keynes espresse, non senza una certa brutalità, nella famosa frase per cui “nel lungo periodo siamo tutti morti”. 70 Allora come adesso, le questioni teoriche dibattute dagli economisti ne nascondono altre, di natura più profondamente morale e politica, che riguardano tutti. La discus-sione sui dati sulla disoccupazione strutturale in Europa implica scelte analoghe a quelle che si presentavano a uomini come Cannan e Clay, Pigou e Keynes, circa ot-tanta anni fa. Oggi come allora, si deve scegliere se orientare le scelte nel lungo pe-riodo affidandosi ad uno schema teorico precostituito, o se non convenga invece tenere viva la discussione sulla maggiore o minore corrispondenza tra quello sche-ma, i dati che l’economia ci offre e le esigenze della società. A nostro avviso, le re-centi stime della disoccupazione strutturale in Europa suggeriscono questa seconda strada come quella allo stesso tempo più prudente e più efficace.

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