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Machina TECNOLOGIA DELL’ANTICA ROMA Catalogo a cura di Marco Galli Giuseppina Pisani Sartorio Roma, Museo della Civiltà Romana 23 dicembre 2009 – 5 aprile 2010

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MachinaTECNOLOGIADELL’ANTICA ROMA

Catalogo a cura diMarco Galli

Giuseppina Pisani Sartorio

Roma, Museo della Civiltà Romana23 dicembre 2009 – 5 aprile 2010

Per il sostegno dato all’iniziativa si ringraziano:

Il Magnifico Rettore dell’Università di RomaSapienzaLuigi Frati

Il Preside della Facoltà di Lettere e FilosofiaFranco Piperno

CCOOLLLLAABBOORRAAZZIIOONNEE UUNNIIVVEERRSSIITTAA’’ DDEEGGLLII SSTTUUDDII““SSAAPPIIEENNZZAA””,, RROOMMAASi ringrazia il Laboratorio Formativo ‘Scienzae Tecnologia nell’antica Roma’ coordinato daMarco Galli per la redazione dei testi delcatalogo gli studenti del Corso di Laureatriennale in ‘Scienze Archeologiche e Storichedel Mondo Classico e Orientale’, del Corso diLaurea specialistica in ‘Archeologia e Storiadel Mondo Antico e dell’Oriente’ Facoltà diLettere e Filosofia, Università degli Studi diRoma ‘La Sapienza’, e della Scuola diSpecializzazione in Archeologia*.

Nell’ambito del Laboratorio Formativo siringraziano per la preziosa consulenza el’assistenza nelle ricerche e nella raccolta delmateriale documentario degli studenti iDocenti: Gilda BartoloniPatrizia Calabria (P.C.)Orietta Dora CordovanaLuigi Maria CaliòStella Falzone Cairoli Fulvio GiulianiLuisa Migliorati Clementina Panella (C.P.)Patrizio Pensabene (P.P.)Alessandra Ten

Si ringraziano per la collaborazione al Laboratorio: Filippo Carlà (F.C.)Antonio F. Ferrantes (A.F.F.)Enrico GallocchioTommaso Ismaelli (T.I.)Simone Pastor (S.P.)Giorgio Rizzo (G.R.)

Si ringraziano inoltre:L’Università “Sapienza” per il prestito di alcunireperti: gli inediti del Dipartimento di Scienze Storichee Archeologiche dell’Antichitàalcuni reperti della Coll. Pazzini del Museodella MedicinaIl Museo del Mare e della Navigazione anticadi S.Severa (RM) per il prestito della pompa disentina Claudio Mocchegiani Carpano per il prestitodei modelli ricostruiti di due navi (oneraria ecaudicaria)Filippo Benato per il prestito della Tabula Peutingeriana

TTeessttii iinnttrroodduuttttiivvii::Luciana Rita AngelettiPaolo BraconiLuigi Maria CaliòOrietta Dora CordovanaFrancesca Diosono (F.D.)Antonietta DosiStella FalzoneFranco FarinelliMarco Galli (Ma.G.)Anna Maria LiberatiLeonardo Lombardi (L.L.)Carla Martini (C.Ma.)Salvatore MartinoGiuseppina Pisani Sartorio (G.P.S.)Lorenzo Quilici Antonio Tamburrino

SScchheeddee aa ccuurraa ddii::Alessandro Aruta (Al. A.)Sergio Castronuovo (S.C.)Paola Ciancio Rossetto (P.C.R.)Marina Ciceroni (Ma. C.)Marianna Crispino (M.Cr.)Flavio Enei (F.E.)Raffaele Percivalli (R.P.)Valeria Valerio (V.V.)

SScchheeddee ddeell LLaabboorraattoorriioo::Alessandro Coticelli (A.C.)Alessandro Ferri (A. F.)Andrea Grazian (A.G.)Alessio Innocenti (A. I.)Antonello Siano (A. S.)Antonio Alfano* (A. A.)Alessandro Blanco (A. B.)Adalberto Ottati (A. O.)Arianna Villani (A. V.)Arianna Zappelloni Pavia (A. Z. P.)Cecilia Bongarzone (C. B.)Clara di Fazio (C. d. F.)Cladia Grillo (C.G.)Davide Scarpa (D. S.)Davide Iacono (D. I.)Danilo Vitelli (D. V.)Elena Scrugli (El. S.)Elena Silvestro (E.S.)Fabiana Carosi (F.C.)Francesca Balducchi (F. B.)Flavia Lollobattista (F. L.)Francesca Guiducci (F. G.)Flavia Piarulli (F. P.)Giovanna Patti (G. P.)

Giulia Caracciolo (G. C.)Ilaria Fani (I. F.)Leonardo Radicioni (L. R.)Lavinia del Basso (L. D. B.)Micaela Canopoli (M. C.)Martin Gretscher (M. G.)Marina Serena Nuovo* (M.S.N.)Renata Centola (R. C.) Riccardo Montalbano (R. M.)Riccardo Rudilosso (R. R.)Samuele Casarin (S. C.)Sara Trammannone (S. T.)Sara Bozza (S. B.)Serena Guidone (S. G.)Stefania Ocone* (S. O.)Silvia Stassi (S. S.)Vanessa Leggi (V. L.)Vincenzo Graffeo (V. G.) Valentina Purpura* (V. P.)

SSii rriinnggrraazziiaa iinnoollttrree::Francesco D’AndriaFrabricia FauquetJane FepferPhilippe LeveauAntonio Varone

Australasia Pty Ltd

CCrreeddiittii ffoottooggrraaffiiccii::Riproduzioni fotografiche dalle collezioni su concessione della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma;La Provincia di Roma – Servizio VI perl’autorizzazione alla pubblicazione delleimmagini della domus sotto Palazzo Valentini;La pubblicazione delle immagini del MuseoNazionale Romano a Palazzo Massimo sonostate autorizzate dal Ministero dei Beni eAttività Culturali, Soprintendenza museale peri Beni Archeologici di Roma;La pubblicazione delle immagini della Casadei Pittori, scavi di Pompei, sono stateautorizzate dal Ministero dei Beni e AttivitàCulturali, Soprintendenza Speciale per i BeniArcheologici di Napoli e Pompei;Didier Culot del Museo Gaumais.

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Con il patrocinio del

Con il contributo di

Ministero dell’Università ela Ricerca Scientifica(legge 6/2000 Progetti Annuali)

COMUNE DI ROMA ASSESSORATO ALLE POLITICHE CULTURALI E DELLACOMUNICAZIONESOVRAINTENDENZA AI BENI CULTURALI

SindacoGiovanni Alemanno

AssessoreUmberto Croppi

SovraintendenteUmberto Broccoli

Servizio Comunicazione e Relazioni EsterneRenata Piccininni, ResponsabileTeresa Franco

U.O. Intersettoriale Programmazione GrandiEventi - Mostre - Gestione del territorio -RestauriPatrizia Cavalieri, Dirigente

Servizio Mostre e Attività Espositive e CulturaliFederica Pirani, ResponsabileMonica Casini

Direttore Area MuseiU.O. Musei Archeologici e d’Arte AnticaClaudio Parisi Presicce, DirigenteCarla Martini

Servizio V Sistema Museale dei Fori Imperiali, Museo Civiltà Romana, CoordinamentoProgetti Multimediali e Progetti Europei,Servizio CivileLucrezia Ungaro, ResponsabileAntonio Di TannaAnna Maria LiberatiMaria Gabriella LilliAntonio InsalacoClotilde D’Amato

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ENTI IDEATORIAssociazione Piazza Duomo - SpoletoNiccolai snc – Firenze

Mostra a cura diRita Correnti

Catalogo a cura di Marco Galli Giuseppina Pisani Sartorio

COMITATO ORGANIZZATIVO Rita CorrentiGabriele NiccolaiLuigi Rizzo

COMITATO TECNICO-SCIENTIFICOOrietta Dora CordovanaMarco Galli Patrizio PensabeneGiuseppina Pisani Sartorio Lucrezia Ungaro

IMMAGINE MOSTRAPatrizia Boglione

FOTOGRAFIE ORIGINALI E GRAFICIFederica GiansantiMarco Grossi (Produzioni grafiche in Autocad)

MODELLAZIONE 3D e ANIMAZIONE Henrique Rossi ZambottiMirko Marini

UFFICIO STAMPA Fabio Fantoni

PROGETTO DI ALLESTIMENTO Studio di Architettura Marini - Bozzoni

ESECUZIONE ALLESTIMENTIPubli2m di Marcello Moroni - Spoleto

MachinaTECNOLOGIADELL’ANTICA ROMA

Museo della Civiltà Romana23 dicembre 2009 – 5 aprile 2010

CON LA COLLABORAZIONE DI

Ministero degli Affari Esteri

Associazione Piazza Duomo

Ha un titolo emblematico la mostra che inaugura al Museo della Civiltà Romana:“Machina. Tecnologia dell’antica Roma”. Il termine “Machina”, di etimologia latina,esprime in senso figurato lo “strumento per fare o compiere”; “Tecnologia” invece, di origine greca, esprime il saper fare con l’applicazione delle scienze fisiche alle arti e mestieri.Ecco che in mostra si trova l’eccellenza delle scoperte tecnologiche: strumenti fatti per le arti e i mestieri, prodotti dagli antichi Romani e dalle popolazioniitaliche e provinciali che all’epoca del dominio di Roma vi hanno concorso.Il primato scientifico-tecnologico raggiunto viene esaltato attraverso la storiadell’ingegneria civile, idraulica, militare, artistica e manifatturiera.Il percorso espositivo si offre come spunto di riflessione sul passato, per arrivare al presente e proiettarsi nel futuro, osando e valorizzando il manufatto: cento esempi di tecnologia suddivisi in reperti archeologici, ricostruzioni virtuali,macchine, meccanismi e opere in scala costruite ex-novo su studi di reperti etestimonianze fin qui pervenute. Rivolte anche alle industrie tecnologiche, affinché riscoprano le proprie radici culturali e,attraverso una valorizzazione culturale, le macchine costruite ex-novo sono esposte per essere toccate e fatte funzionare perché il principio tecnologico di funzionamentodeve essere chiaro e semplice.Una mostra interattiva ma anche didattica e scientifica che ha coinvolto grandi studiosi e studenti dell’antichità e ha interessato i tecnici moderni con iprocedimenti impiegati per razionalizzare, migliorare i cicli produttivi in qualunque settore dell’attività umana.

Umberto CroppiAssessore alle Politiche Culturali

e della Comunicazione del Comune di Roma

Comunicare a distanza è stata un’esigenza reale. Riusciamo a comprenderel’importanza di comunicare a distanza solamente quando non ci riusciamo più. Un telefono cellulare senza segnale oggi ci può gettare nell’angoscia; trovarsi in campagna con la macchina guasta può diventare una tragedia. Mentre l’impossibilità di comunicare nel mondo antico era un dato di fatto.Per cui la ricerca tecnologica sul modo di comunicare è antica almeno quanto l’uomo.Polibio nel II secolo avanti Cristo teorizza sull’uso dei falò per comunicare notizie a distanza nel corso di una guerra.“È chiaro a tutti in ogni questione, e specialmente nel caso della guerra, che la capacitàdi agire al momento giusto è determinante per l’ esito di un’ impresa, e i segnali col fuoco sono i più efficienti tra tutti gli accorgimenti che ci aiutano a fare questo...”È circostanza nota: per fare meglio del male, si elaborano macchine complesse, frutto della ricerca scientifica. Per cui:“Ora in passato, dato che i segnali col fuoco erano semplici falò, non potevano servireoltre un certo limite coloro che ne facevano uso. Infatti essi avrebbero potuto essere utilizzati sulla base di segnali stabiliti in precedenza, e poiché il numero degli eventi possibili è indeterminato, la maggior parte di essi sfuggivano la possibilitàdi essere comunicati col fuoco...Poiché è davvero impossibile possedere un codiceprestabilito per cose che non vi era modo di prevedere”.È un’osservazione fin troppo chiara. Il segnale di fuoco può voler dire tutto e niente al tempo stesso. È necessario perfezionare un sistema che permetta una comunicazione chiara. E il sistema c’é.La soluzione si trova combinando il fuoco con le lettere dell’alfabeto e pressappoco era questo il risultato.Dobbiamo immaginare il territorio coperto da stazioni ricetrasmittenti. Normalmente erano piccole torri sulle quali erano accesi i falò. Chi trasmetteva e chi riceveva aveva nelle mani una tavoletta sulla quale le lettere dell’alfabeto eranosuddivise in colonne e ognuna di esse occupava uno spazio determinato.Chi voleva comunicare poteva accendere un fuoco a destra, al centro o a sinistra sul tetto della torre: questo avrebbe indicato in quale zona della tavoletta si dovevacercare la lettera. In seguito il fuoco si accendeva e si spegneva seguendo una numerazione che corrispondeva al numero della casella dove cercare la lettera.Certamente non era un sistema rapidissimo e in più di una occasione il nemico sarà riuscito ad arrivare prima della fine del messaggio. Ma praticamente è sopravvissuto più o meno inalterato nel tempo, ispirazione indiretta per Samuel B. Morse, il padre del telegrafo moderno.

Umberto BroccoliSovraintendente ai Beni Culturali

del Comune di Roma

Viviamo tutti nell’evo moderno della specializzazione e del progresso e tutti possiamocomunicare con tutti in tempi reali.Nessuno potrebbe immaginare una vita senza telefono cellulare e non essere in gradodi utilizzare i sistemi moderni di comunicazione può rivelare una pericolosaarretratezza tecnologico-culturale.Oggi ci sembra impossibile immaginare un mondo senza la possibilità di comunicarein tempo reale. Eppure è fatto recente.8 giugno del 1959, un lunedì, la radio dà la notizia: da quel giorno sarà possibiletelefonare in teleselezione. Nasce quindi la teleselezione. In quell’Italia del telefonoliberalizzato, sta per arrivare il boom. Il 25 maggio di quell’anno il Daily Mail(da Londra) faceva piovere giudizi lusinghieri sulla nostra economia “L’Italia costituisceuno dei miracoli economici del continente europeo”. Quell’Italia della teleselezionepretendeva anche il frigorifero e la lavatrice, visto che in quell’ anno le loro venditeaumentano quasi del 50%. Quell’Italia della teleselezione aveva a disposizione ore se non giorni, per comunicare. Cinque ore di attesa per comunicare con Londra,prenotando la chiamata. Tre giorni per parlare con Teheran, sempre prenotando la chiamata. Quell’Italia della teleselezione è incomprensibile, oggi per noi appendiciumane del telefono cellulare che, però, ci permette di parlare subito con Teheran.Appendici umane, alla ricerca spasmodica della comunicazione ad ogni costo. Nel 1959 pochi comunicavano e in molti parlavano per strada, fra loro. Oggi i figli dellacomunicazione globalizzata, comunicano sempre di più e parlano sempre di meno.Quell’Italia della teleselezione assomigliava di più al mondo antico quando i nostriantenati comunicavano via lettera; i nostri antenati che aspettavano per giorni le novitàda un’ altra città; i nostri antenati che non erano poi così sicuri di far arrivare le loro parole a destinazione e talvolta si preferiva affidare i messaggi alla gente. La parola trasmessa di bocca in bocca poteva arrivare prima di ogni altro mezzo dicomunicazione, correndo semplicemente il rischio di essere deformata strada facendo.Verba volant, scripta manent sentenziavano gli antichi con un detto diventato proverbiale.Ma per noi oggi ha un significato diverso: le parole dette volano via e le parole scritterimangono sempre, dando alle parole scritte una preminenza sulle parole dette.Ma nel mondo antico non era esattamente così: le parole scritte rimangono e stannoferme, mentre le parole dette volano e possono arrivare ovunque. Nel mondo antico, la parola detta ha una forza superiore: la comunicazione è affidata alla parola detta,alla parola che passa di bocca in bocca e crea la fama. Un uomo importante deve il suo successo alle parole che volano lontane; la carta scritta tuttalpiù potrà conservare il suo nome impolverato.Gli antichi avevano visto lontano un paio di millenni or sono. Avevano saltato d’un colpo tutto il periodo della cultura scritta tramandata grazie agli amanuensi o divulgata con la stampa. Avevano saltato d’un colpo i millenni della carta stampataper arrivare al secolo della parola detta via etere e diventata all’istante parola eterea e divina. Volano parole nel secolo della televisione. Volano parole e consacrano mitifondati su parole strillate che passano da antenna in antenna. Miti fondati sulla parolao più spesso costruiti sulla parolaccia.

Proporre un tipo di cultura che possa coniugare ricerca e rigore scientifico, creatività edivertimento è la massima realizzazione per l’associazione Piazza Duomo che ha fattodi questa azione la sua missione. Il tema che accompagna la tecnologia è già statovisitato nel 2005 attraverso la presentazione dei modelli delle macchine di Leonardo daVinci, proprio nel Museo della Civiltà Romana e la proposta ebbe molto successo. Presentiamo questa volta un tema che ci è particolarmente caro quale quello dellatecnologia degli antichi Romani. Attraverso un punto di vista fenomenologico:utilitarismo inteso come spinta interiore al miglioramento e al progresso. Abbiamocercato di uscire dall’ovvio, lo sforzo è stato quello di dare in sintesi, ma nonsuperficialità, una visione completa della grandezza di una realtà di cui siamo direttieredi. Un’eredità che dovrebbe farci capire che forse, e sottolineo ironicamente forse,nel mondo l’Italia può dire la sua in fatto di tecnologia poiché ha nel DNA una grandee speciale tradizione. La mostra è volutamente didattica, rivolta ai bimbi, ai giovaniaccompagnati magari dagli insegnanti cui suggeriamo di focalizzare la metodologiascientifica e pratica.Abbiamo coinvolto importanti studiosi e archeologi italiani a dare il loro contributoscientifico e critico: tutti hanno risposto con entusiasmo e donato la loro opera. Per creare un legame importante con il mondo della formazione e della ricerca, abbiamocoinvolto gli studenti del corso in Scienze Archeologiche, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma: Marco Galli ha abbracciato l’ideaproponendo e coordinando la formazione del laboratorio universitario durato circa ottomesi. Il risultato è stato eccellente, a dimostrazione che la condivisione di elementi di studio, ricerca e lavoro possono convivere e produrre risultati positivi. Il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica ha ritenuto il nostro progetto valido.Vi è stata una condivisione piena con l’Assessore alle Politiche Culturali e ComunicazioneUmberto Croppi e con la Sovraintendenza ai Beni Culturali. Da questa collaborazione si è creato un team che ne ha percorso passo dopo passo lo sviluppo: fino alla completasimbiosi per un’azione forte di valorizzazione delle nostre ricchezze culturali, quali quelle del Museo della Civiltà Romana e dell’Antiquarium Comunale. Il progetto è stato così partecipato che abbiamo l’orgoglio di presentare degli ineditidell’Antiquarium Comunale, rimasti in cassa dallo scavo del 1933.È sempre della collezione comunale il busto di Anonimo del III d. C. che ha definitol’immagine di questa mostra: veramente è onesto dire che l’immagine è scaturita dal tema stesso per una sorta di affinità spontanea. Il segno tecnologico per eccellenza,le ruote a incastro dei meccanismi, come pensiero fisso della gens romana e segnodistintivo della creatività che può essere anche pratica. Abbiamo coinvolto il Ministero degli Affari Esteri affinché ci aiuti nel portare per ilmondo questa nostra proposta. E ne saremo fieri.Ci è d’obbligo, oltre che piacere, ringraziare la Fondazione Roma per la suapartecipazione. Le persone che sono state determinanti alla realizzazione del progetto sono molte:Giuseppina Pisani Sartorio è stata la più convinta e la più entusiasta una voltaconosciuto il progetto, sicuramente il suo intervento scientifico è stato di grande

arricchimento. Il suo insegnamento più grande è stato nella positività delle azioni edelle proposte. Senza di lei non saremmo arrivati a tale completezza. E grazie a leiabbiamo potuto mettere in risalto la collezione del Museo della Civiltà Romana.Ma la ricchezza più grande, che associa la mitica creatività italiana e il rigore scientifico– tecnologico di un “mondo che deve funzionare per migliorare” è rappresentato dallavoro di Gabriele Niccolai, che costruisce da trenta anni modelli di macchine emeccanismi in legno attraverso lo studio di fonti antiche. Lo sforzo maggiore è statoquello di ricostruire le macchine e i meccanismi che sono alla base del mondotecnologico romano. Ogni volta che comunicavamo per telefono, negli ultimi due anni,trasmetteva in modo quasi fanciullesco l’entusiasmo e la gioia di ritrovare attraverso itesti le cose che oggi ci circondano, già nelle macchine di un mondo che non è potutoarrivare fino a noi, per la deperibilità dei materiali con i quali si è costruita la grandezzadell’Impero romano quale i legno e i metalli pregiati.Auguriamo un grande divertimento nel conoscere la tecnologia dell’antica Roma.

Associazione Piazza Duomo

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La forte passione per la storia e l’ingegneria e grazie alle tecniche messe a puntonel nostro laboratorio, mi hanno portato a ricreare modelli di macchine e utensiliprogettati da personaggi come Vitruvio e Leonardo da Vinci. L’interpretazione di questi modelli è possibile grazie ad attenti studi sul De Architecturadi Marco Vitruvio Pollione, architetto e ingegnere romano del I secolo a.C.,contemporaneo di Cesare e Cicerone, dove si trovano passi dedicati alla costruzione delle mura urbane (libro I), degli acquedotti (libro VIII), all’utilità delle scienze (libro IX) e, infine, alla trattazione della machinatio, o costruzione di macchine ad uso civile o bellico (libro X). Vitruvio ispirò a sua volta Leonardo con i suoi “Codici” e parte degli ingegneri rinascimentali. La mia impresa comincia già agli inizi degli anni novanta realizzando alcuni prototipi di macchine in scala per lo studio e per la realizzazione di modelli più grandi, che oggi sono circa cinquecento, tutti realizzati accuratamente con materiali dell’epoca: legno, ferro, stoffa, cordame, bronzo. Si tratta di modelli componibili di facile trasporto.Il legno più usato in età romana, soprattutto in edilizia e in carpenteria, era l’abetebianco al sessanta per cento e il faggio per le parti più soggette all’usura. La protezione del legno dalle intemperie veniva risolta cospargendo della pece vegetale(ottenuta dalla resina di pino rosso), indispensabile per impermeabilizzare gli scafidelle navi, le anfore e altri oggetti d’uso comune. La pece aveva un problema di alta adesività e per questo era diluita con oli vegetali, i quali davano al legno il caratteristico colore rossiccio scuro, diverso dal naturale colore chiaro del legnoappena tagliato. Gli incollaggi avvenivano attraverso colle chiamate glutina a base di tessuti animali o di formaggio. Già Plinio il Vecchio scriveva che dall’abete siricavava la pece liquida. I modelli da noi riprodotti hanno questo caratteristico colorederivato, appunto, dall’applicazione di resine naturali protettive. Negli ultimi anni,grazie all’evoluzione dei sistemi informatici e ai software di grafica, è stato possibileelaborare i disegni originali e riproporzionarli così da realizzare macchine funzionantirispetto a modelli riprodotti cinquanta anni fa, che rivelano ormai tutti i loro limiti.L’obiettivo è di creare un’interattività tra il visitatore e le macchine che hanno fatto la storia dell’evoluzione meccanica, dove sono messi in evidenza i principi fisici che ne regolano il funzionamento. Questa visione permette il divertimento e la didattica sia degli adulti sia dei ragazzi,che possono avere un riscontro pratico degli studi che stanno effettuando. E suggerire un parallelo con il mondo tecnologico contemporaneo.

Gabriele Niccolai

Studi e riproduzioni di macchine e tecnologie diRoma antica

6. ComunicareComunicazione: segni, immagini, parole

SCHEDE 162

La comunicazione attraverso il sistema stradale 172Lorenzo Quilici

SCHEDE 177

Le comunicazioni marittime 179Salvatore Martino

SCHEDE 185

7. Le conquiste dell’agricolturaLe conquiste dell’agricoltura romana 196Paolo Braconi

SCHEDE 199

8. Legno e metalliLa lavorazione del bronzo e dell’argento 208

SCHEDE 210

La tecnica orafa in Età Romana 217Luigi M. Caliò

SCHEDE 219

Falegnameria e carpenteria 222Francesca Diosono

SCHEDE 226

9. Vetro e argillaIl vetro a Roma 230Carla Martini

SCHEDE 234

La lavorazione dell’argilla 237Silvia Pallecchi

SCHEDE 242

10. Tecniche artisticheTecniche artistiche di rivestimento parietale e pavimentale nel mondo romano 252Stella Falzone

SCHEDE 257

Tecniche della scultura in età romana 259Marco Galli

SCHEDE 265

11. Tecnologia per lo spettacoloScenografie e macchine per lo spettacolo 268Giuseppina Pisani Sartorio

SCHEDE 270

Tecnologia per stupire: gli automata nel mondo romano 280Marco Galli

SCHEDE 283

Abbreviazioni bibliografiche 285

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Sommario

Introduzione 15Rita Correnti

Machina Machinarum 23Franco Farinelli

Roma antica tecnologica 25Giuseppina Pisani Sartorio

Machina. L’esperienza tecnologica nel contesto mediterraneo antico 29Marco Galli

Economia e tecnologia dell’antica Roma 37Orietta Dora Cordovana

Uomini e machinae: la realtà di artigiani e associazioni professionali nel mondo romano 42Francesca Diosono

I Romani, la tecnologia e un futuro possibile 47Antonio Tamburino

SCHEDAScene di labor sulla Colonna Traiana 51

1. Tempo e SpazioL’integrazione spazio-temporale in Roma antica 60Antonietta Dosi

SCHEDE 67

2. Tecnologia nel costruireTecnologia nelle costruzioni 86Giuseppina Pisani Sartorio

SCHEDE 91

3. Tecnologia dell’acquaTecnologia idraulica 110Leonardo Lombardi

SCHEDE 113

4. Tecnologia militareNote di tecnologia militare romana 132Anna Maria Liberati

SCHEDE 136

5. Tecnologia nella medicinaLa tecnologia nella medicina dell’antica Roma 150Luciana Rita Angeletti

SCHEDE 154

12

Se consideriamo la vastità e la durata dell’Impero romano dobbiamo presupporre unagrande organizzazione politica dal carattere pragmatico e inevitabilmente tecnologico. Cisiamo dunque posti l’obiettivo di una rilettura della straordinaria tecnologia romana che hacontribuito alla costruzione e alla gestione dell’Impero. Lo abbiamo fatto partendo dasemplici domande. La più semplice e immediata, da cui è scaturita la natura della nostraindagine, è stata: sulla base di quali scoperte tecnico-scientifiche si è potuta svilupparel’antica Roma? Quanta scienza e quanta tecnologica hanno permesso l’esemplare camminostorico di un popolo che da un semplice “solco sul colle Palatino” ha conquistato egovernato tutte le terre intorno al Mediterraneo per mille anni? Quanto rimane oggi dellebasi poste dagli antichi romani con la loro tecnologia, nell’organizzazione, nella creazionedell’habitat (inteso come struttura), fondamentale al nostro contemporaneo vivere civile? Le indagini sulle scoperte e sulle innovazioni tecnologiche prodotte dagli antichi Romanile facciamo attraverso opere di ingegneria civile e idraulica, tecnologia agricola e mineraria,tecnologia militare e della chirurgia, tecnologia della produzione artistica e manifatturierache sono giunti fino a noi e che, in alcuni casi, continuano a vivere a nostra insaputa.Ma la lettura archeologica della tecnologia antica deve essere necessariamente ritradotta:non è un’operazione semplice, nel momento in cui questa materia ha ereditato dagli stessiantichi il “disprezzo” per la tecnologia. Fino a poco tempo fa l’archeologia era concentratasu una lettura dei reperti solamente attraverso codici iconografici e iconologici per tradurrele testimonianze artistiche, religiose e monumentali, evitando di prendere in considerazionecose che non si riconoscevano. Il cambio di prospettiva è iniziato alla fine del ‘900 con la “professionalizzazione” delmestiere di archeologo e attraverso una nuova lettura delle fonti. Specializzazione che grazieanche al contributo di altre discipline quali l’ingegneria, l’architettura, l’economia, lastatistica, la demografia, la sociologia e l’antropologia ci fa capire meglio come si èsviluppata la tecnologia e quanta influenza ha avuto nello sviluppo dell’antica Roma edell’intera area del Mediterraneo, così come poi esposto da Marco Galli in seguito.Porsi delle domande quali ‘cosa’, ‘come e perché’, naturalmente a fianco al ‘chi e dove’, èla nuova chiave di lettura che, grazie alle nostre conoscenze potrebbe addirittura portare auna risposta singolare quale quella dell’importanza della tecnologia dell’antica Roma per ilnostro sviluppo odierno. Il futuro in quest’ottica è trattato da Antonio Tamburrino, cheriprende l’idea della struttura territoriale dell’antica Roma nell’accezione di Roma caputmundi. Vi è nelle conquiste tecnologiche degli antichi una radice di attualità sociologica:esse sono avvenute per invenzione e per innovazione e miravano a una più razionalegestione quotidiana della vita, avente come principio base la concezione del benesseregenerale. Dopo la conquista e l’accatastamento di un territorio, attraverso un sistema dicomunicazione e di organizzazione dei trasporti (la moderna logistica, già inventata daiRomani), il principio sociale di benessere e appartenenza veniva “esportato” in tutti iterritori conquistati. Ritroviamo attraverso le vestigia romane dell’area del Mediterraneo

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Introduzione

Rita Correnti

machinarum dell’Impero romano. Una predisposizione caratteriale all’utilizzo delmeccanismo e al mondo delle macchine. Un genio tecnologico che, più che inventare, cerca di valorizzare e perfezionare, così comesi cimenta in una misurazione territoriale da cui risulta un forte senso dell’organizzazione:il territorio centuriato cioè misurato e ordinato, la costruzione di una rete stradale ancoraoggi funzionante, le comunicazioni e i trasporti per mare e per terra. Un altro assettofondamentale della visione e dell’espansione tecnologica dell’antica Roma è quello delclima e del paesaggio, che nel corso della storia ha accompagnato e influenzato tutte levicende umane, con il ruolo fondamentale della disponibilità e dello sfruttamento dellerisorse materiali ambientali che inevitabilmente condizionano le tecniche e le tecnologie.Così come ben illustrato nel saggio di Francesca Diosono a introduzione del capitolo sullafalegnameria.Lo sfruttamento delle risorse ambientali ci porta inevitabilmente a parlare di energia, anziquesta ne diventa la parola chiave. Tre erano le energie sfruttate principalmente in epocaromana, oltre a quella umana. Esse erano l’energia idraulica, l’energia eolica e l’energiaanimale. E tali rimasero fino agli inizi del XIX secolo. Il caso unico della macchina a vapore,simbolo della rivoluzione industriale del XVIII secolo, già inventata da Erone d’Alessandrianel I secolo d. C. ha una storia singolare per la realtà dell’Impero Romano a sottolinearequell’ottica razionale e utilitaristica del carattere connotativo dei romani: il rapporto costi -benefici per la costruzione della macchina a vapore non era sostenibile, quindi essa rimaseun unicum da laboratorio. Alla base della rinuncia della diffusione e utilizzazione di taleinvenzione vi è il convincimento della non razionalità dello sfruttamento dei combustibilifossili dal costo proibitivo, così come del legname o del carbone da ardere per losfruttamento di un’altra energia. E forse anche la mancanza di uno scatto, di un corto circuito tra invenzione, innovazioni eprogresso. Il progresso è un’invenzione relativamente moderna, forse per questo non neritroviamo il concetto tra gli antichi, così come il nostro concetto di produzione di massaper un mercato di massa.Ciò non significa che quello che era ritenuto veramente utile e funzionale allo sviluppo dellavita del tempo non fosse coltivato con estrema cura e diffusione. Infatti ben altra storia haavuto lo sfruttamento dell’energia idraulica attraverso il mulino ad acqua. Grazie alla nuova‘lettura’ archeologica, negli ultimi anni si è potuta ricostruire la rete dei tantissimi mulini adacqua presenti nell’Impero romano. Dove erano mulini ad acqua vi era un grosso sviluppopoiché a esso era legata la lavorazione agricola, mineraria, manifatturiera. Il mulino adacqua era presente sia nelle grandi proprietà terriere che nelle città e sicuramente eradiventato un luogo strategico per la sussistenza della popolazione (la macinazione dellefarine per il pane). La diffusione dei mulini ad acqua era quindi capillare e la loro costruzioneera sicuramente possibile anche a un livello meno abbiente.L’energia eolica di utilizzazione immediata, gratuita e rinnovabile, ma non immagazzinabile,era indispensabile per le comunicazioni, per i trasporti marittimi e gli scambi commerciali.Ben ne parla Salvatore Martino nel suo testo sulle comunicazioni marittime.L’energia a trazione animale fu alla base dello sviluppo della società agricola e i Romanierano agricoltori: un’energia disponibile ad libitumma troppo costosa per il mantenimentodegli allevamenti. La possibilità di sfruttare questi tipi di energia ha permesso, in tutti i settori economicidell’epoca, piccole e lente innovazioni tecnologiche. I costi dell’energia, malgrado la grandedisponibilità delle materie prime, erano alti e in una società dove le ricchezze erano perlopiùpubbliche l’utilizzazione delle innovazioni tecnologiche rimangono per lo più relegate agrandi progetti statali cui però concorrono i ricchi privati in una organizzazione ante litteramdi ‘project financing’.

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una stessa identica natura di mediazione e convivenza. L’elemento tecnologico chepotrebbe riassumere in una parola questa visione è il ponte. L’antica Roma ha riempitol’Impero di ponti. Che fondano i rapporti tra culture, tra economia e produzione in funzionedi una politica universale di strategie e progetti per lo sviluppo sostenibile del genereumano, già all’epoca raccolto in centri urbani pianificati.Dobbiamo in un certo modo porre chiarezza tra invenzione e innovazione: mentre inventaresignifica immaginare e realizzare un nuova tecnica magari derivante dalla necessità,innovare significa utilizzare l’invenzione a fini produttivi, come ha scritto Vitruvio “ (…)tutte quelle che trovarono utili ebbero cura di svilupparle gradualmente, attraverso lo studioe la tecnica, le istituzioni e gli insegnamenti (…)”. Così quel “gradualmente” lo leggiamo inmodo da capire che la tecnologia antica ha avuto uno sviluppo lungo, anonimo, sotterraneoe il manufatto finale forse era il risultato di un’opera corale. Nell'antichità la figuradell’inventore, come noi la concepiamo, non esisteva e non aveva una dignità a sé stante:esisteva certamente il sapiente, lo studioso o, più in generale, l'uomo di cultura. E a noi,oggi, risulta strano come non ci fosse una chiara conoscenza degli uomini tecnologici al difuori dei nomi massimamente noti. Infatti le fonti ci riportano solo nomi di inventoriappartenenti alle élites. Sicuramente si sconta in questo ambito una forte influenza delpensiero platonico che tendeva a ignorare il mondo della tecnica perché inferiore.Dobbiamo inoltre considerare che non vi era protezione giuridica delle invenzioni poichénon vi era una esigenza di mercato e le istituzioni stesse non erano particolarmentefavorevoli all’utilizzazione economica delle invenzioni. Per ragioni anche politiche. Lamancanza di una più ampia diffusione di importanti invenzioni tecnologiche fu determinatadal costo generale delle invenzioni, che potevano essere sostenute solo dallo Stato spessevolte in maniera strategica rispetto i territori. Mentre la tecnologia ‘quotidiana’presupponeva una diffusione capillare e, come asseriva Vitruvio, di generale utilità.Effettivamente il carattere peculiare dell’identità romana si sviluppa intorno al concetto chiavedi utilitas, dalla religione, alla gestione dello spazio e del tempo, alla politica, alla giustizia,all’economia, alla comunicazione, ai rapporti con le altre popolazioni e così via. Utilitas comevisione di fondo dell’espansione coloniale e imperiale di Roma, finanche nella celeberrimagestione del panem et circenses. Infine l’arte romana era massimamente utilitaristica, dove ilvalore dell’oggetto o della materia che lo componeva prevaleva sul valore artistico. È il pensierodominante che attraversa tutta l’arte romana: un’opera artistica vale solo se utile. Negli scrittidei grandi eruditi romani troviamo infatti un’alta considerazione delle opere di ingegneria odi tecnologia perché destinate a una funzione sociale. All’arte romana, tuttavia, vieneassegnato un altro compito utilitaristico: una volta acquisiti gli stilemi narrativi dell’arte greca,quella romana deve rappresentare quindi narrare e comunicare l’essenza di ideologiefunzionali al potere. Lo stilema narrativo codificato è usato per la chiarezza del racconto e perla propaganda delle virtutes degli optimi principes, in tutti i territori dell’Impero, da prenderea esempio perché simbolo dello Stato. È il caso del racconto che si legge sulla Colonna Traiana,che nel un saggio di Lavinia Del Basso ha una analisi improntata, oltre alla propaganda dellaconquista, anche alla propaganda del lavoro e dell’organizzazione tecnologica.Potrebbe essere filosoficamente dubbio parlare di un pensiero utilitaristico da parte degliantichi Romani, essendo il pensiero utilitaristico propriamente settecentesco, ma non cisbagliamo ad affermare che l’utilitas cioè l’utilità, il giovamento, il vantaggio, il profitto, ilbene o interesse generale e proprio, lo ritroviamo in tutte le azioni dell’epoca indagata. In fondo è proprio l’utilizzazione pratica di alcune scoperte greche che porta i Romani aconquistare le terre intorno al Mediterraneo: un vantaggio strategico dato anchedall’utilizzazione delle mappe cartografiche che, come ha magistralmente introdotto FrancoFarinelli, hanno avuto una forte funzione connotativa di rappresentazione statale.L’immagine cartografica traduce la volontà comportamentale statale e diventa la machina

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studiata. Abbiamo cercato di uscire dall’ovvio, lo sforzo è stato quello di dare in sintesi, manon superficialità, una visione completa della grandezza di una realtà di cui siamo direttieredi. Un’eredità che dovrebbe farci capire che forse, e sottolineo ironicamente forse, nelmondo l’Italia può dire la sua in fatto di tecnologia poiché ha nel DNA una grande e specialetradizione.

Non potevamo non partire dalla concezione dello spazio e del tempo e gli strumentitecnologici della loro misurazione, organizzazione e divisione. Così come Antonietta Dosici illustra, tempo e spazio sono le due categorie a fondamento della coscienza sensibile. Atale proposito i Romani hanno organizzato il calendario come suddivisione e laconseguente misurazione del tempo quale ‘tecnica di governo della società’. Hanno creatola gestione del territorio attraverso forme di accatastamento per la sistemazione deipaesaggi rurali e urbani. Per arrivare, come somma conquista e controllo del territorio, allacreazione della Forma Urbis, la pianta marmorea della città di Roma, che potremmoconsiderare come una sorta di piano regolatore per la pianificazione e progettazioneurbanistica.In un campo gli antichi Romani rimangono insuperati per spirito innovatore e razionalità:è il campo delle costruzioni, dove tutto è stato possibile grazie all’invenzione della maltacementizia e l’introduzione dell’arco a tutto sesto. Corredati da piccoli e grandi strumentiedili, dalle carrucole alle gru alle tecnologie per una migliore e sicura resa delle strutture: lagrande applicazione di elementi costruttivi come l’arco e la piattabanda armata, che hannopermesso la costruzione di ponti, edifici e teatri. La sezione è stata introdottamagistralmente da Giuseppina Pisani Sartorio con logica e precisione, come d’altronderichiede un argomento del genere.L’acqua e la tecnologia che la governa è un altro punto di eccellenza, elaborato per noi daLeonardo Lombardi: importante è sottolineare come i Romani pensassero all’acqua comebene pubblico, da cui deriva la progettazione della distribuzione per usi produttivi e per usiludici. Da una gestione pubblica delle acque si ha la costruzione di terme come centro disocializzazione e benessere sociale. Importanti rimangono le loro azioni per la ricerca ecaptazione di sorgenti, livellazione dei condotti, calcolo della pressione dell’acqua nelletubazioni, distribuzione controllata dell’acqua nelle città, attraverso l’uso di tecnologiemediate dai Greci, ma raffinate e diffuse dai Romani. Insuperata la costruzione degliacquedotti di Roma, ben 11. Infine rimane magistrale all’epoca la costruzione di fognature. La potenza dell’Impero romano è ben espressa dalla tecnologia militare, che per sua naturaha un effetto trainante per lo sviluppo di tutte le altre tecnologie (regola ancora oggi valida).Nella sezione dedicata alla tecnologia militare vengono esplorate le tecniche d’assalto e lemacchine belliche esposte e ricostruite, viene puntualizzata l’esistenza di una sorta dialfabeto luminoso per comunicare con segnali di fuoco tra le torri. La costruzione dellemura e del limes a difesa delle città e dell’Impero. Sicuramente è la sezione dove granderuolo svolgono le imponenti macchine ricostruite da Gabriele Niccolai, accompagnate dauna introduzione scientifica di Anna Maria Liberati.Nel campo della medicina e delle tecniche chirurgiche, come Luciana Rita Angelettisottolinea nella sezione da lei curata, gli antichi Romani hanno prodotto una invenzionefondamentale per lo sviluppo dell’umanità: l’ospedale da campo, il valetudinarium chediventa un presidio stabile e in muratura. Inoltre la pratica medica esercitata nell’anticaRoma, considerando il modesto bagaglio tecnico scientifico per la maggior parte derivatodalle conoscenze di medici greci d’epoca ellenistica, stupisce oggi per il grado di abilitàraggiunto sia per quanto riguarda l’intuizione diagnostica, sia per i mezzi utilizzati percurare le malattie ricorrenti. La comunicazione, introdotta da Lorenzo Quilici e Salvatore Martino, è una scienza non

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Un grande interesse nella nostra indagine sicuramente lo suscita il focus sul rapporto tratecnologica ed economia, sviluppato dalla Cordovana. Un rapporto che è stato il motoredella crescita e del rafforzamento dell’Impero, malgrado l’oscurantismo perpetratosull’argomento ‘innovazione e sviluppo’ da una certa scuola ‘di risentimento’ anglosassone,che ha male considerato lo schiavismo di origine romana. Nel testo di Orietta Cordovanasi indaga il motivo per il quale non si è prodotto il salto di ‘qualità’ verso la rivoluzioneindustriale. Si svela il concetto di globalizzazione ante litteram costituito attraverso ladeterminazione dei distretti industriali e la produzione seriale distribuita per le Provincedell’Impero, dove vi è una organizzazione del mercato e del lavoro molto razionale, grazieanche all’organizzazione della rete dei trasporti.Un’altra semplice domanda cui abbiamo risposto con questa mostra: come era organizzatoil mondo del lavoro? Vi erano delle organizzazioni di riferimento? E quale era il loroobiettivo? Domande cui diamo una risposta che ci rivela una certa ‘modernità’dell’organizzazione del lavoro e le sue leggi. Così come il testo di Francesca Diosonorisponde sull’argomento delle corporazioni quali antiche lobbies.Inoltre, quanto era diffuso il sapere tecnologico tra i lavoratori? Vi erano delle scuole diapprendistato o il sapere delle maestranze si tramandava oralmente? La popolazione eraper lo più illetterata e pochi erano coloro che conoscevano e potevano considerarsi dei‘professionisti’. È il problema della trasmissione del sapere e del saper fare, così comespiegato nel saggio di Giuseppina Pisani Sartorio.

Il titolo “Machina” è volutamente latino, con più significati, da macchina, ordigno, congegnoa macchinazione, inganno, artifizio e ancora a cavalletto (per pittori) a macchina da guerrae d’assedio. A dire che la mostra presenta macchine e testimonianze di tecnologia anticacon i suoi prodotti finali. In fondo l’antichità ci ha abituato alle più belle rappresentazioni iconografiche sul marmoe sulla pietra; ma quante volte possiamo dire di conoscere i meccanismi e la tecnologia cheè dietro a tale produzione?La mostra suggerisce un approccio e una fruizione ‘divertente’della materia esposta,attraverso la ‘manualità’ e la ‘manovrabilità’ della tecnologia dell’antica Roma grazie allaricostruzione di macchine perfettamente funzionanti, ricostruite dall’artigiano – artistafiorentino Gabriele Niccolai, che si possono toccare e far funzionare, affinché il principiotecnologico di funzionamento diventi chiaro e semplice.

I settori esplorati in mostra sono undici. La scelta di questi è stata fatta sulla basedell’importanza strategica del settore per lo sviluppo tecnologico dell’Impero, indagandoanche temi che risultano eccezionali per il loro valore contemporaneo. Eludendo latrattazione scientifica di base poiché non era nel nostro obiettivo. Le sezioni sono statecostruite partendo da reperti noti che, forse a causa della loro notorietà, si conoscono inmodo relativo, al di fuori ovviamente del mondo degli archeologi. Abbiamo inserito lo studiodi cose uniche quali la piattabanda armata e la piattaforma girevole. Un grande contributoè stato dato dal Laboratorio universitario coordinato da Marco Galli, le cui ricerche hannopermesso la costruzione filologica dei materiali presi in esame. Materiali fondamentalisenza i quali non si potrebbe parlare di conquiste tecnologiche; abbiamo anche privilegiatoil modo in cui venivano costruiti o trattati questi materiali di perfezione eccezionale perl’epoca.Volutamente la mostra è stata ospitata dal Museo della Civiltà Romana, dove, grazieall’apporto fondamentale di Giuseppina Pisani Sartorio, si è potuto seguire in modosincronico lo sviluppo degli argomenti e la loro completa ed esauriente trattazioneattraverso rimandi nelle sale del Museo che presentano in modo completo la sezione

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della pittura ad affresco, della composizione per tarsie, della scultura di grandi opere. Infondo ciò che ci regalano i siti archeologici è la testimonianza di un mondo altamentespecializzato nella produzione dei manufatti artistici. Una sezione che può presentare degliaspetti sconosciuti è quella della tecnologia nell’organizzazione degli spazi per ildivertimento e delle tecnologie dello spettacolo, curata da Giuseppina Pisani Sartorio eMarco Galli. Dall’architettura teatrale, anfiteatrale e circense alle scenografie nel teatro enell’anfiteatro. Straordinario è l’esempio dell’ascensore per fiere nel Colosseo. O ilfunzionamento del velum (la copertura dei teatri) e dell’aulaeum (il sipario). Ancora, ilmeccanismo delle ova e dei delfini, una sorta di conta giri nei circhi. Infine i vasi di risonanzavitruviani inventati per far arrivare bene la voce agli spettatori. Lo spettacolo non era solorappresentazione scenica, alcune volte presentava degli automatismi in funzionespettacolare, come rappresentazione del potere. In questo ambito la tecnologia sconfinanello stratagemma ingegnoso e massimamente creativo.I Romani antichi hanno rappresentato un’esplosione di creatività nel più ampio panoramadelle civiltà di quei tempi. E grazie a loro il mondo di allora ha fatto grandi passi avanti nellelinee più generali del progresso e della conquista della qualità della vita. Se ciclicamente citroviamo di fronte a crisi planetarie in cui non riusciamo a determinare una sicura utopiadel futuro che ci dia un percorso positivo da seguire, il nostro suggerimento è quello diripartire dalla creatività della machina romana, intesa nel più ampio aspettofenomenologico.

Bibliografia di riferimentoBresson 2006; Brun 2006; DeLaine 2006; Forni 2006; Frau 1987; La Rocca 1990; Lo Cascio 2006; Po-mey, Tchernia 2006; C. Svetonio Tranquillo, Vite dei Cesari, Milano 2006; Traina 2006; M. Vitruvio Pol-lione, De Architettura, a cura di F. Bossalino, Edizioni Kappa, Roma, 2002.

1 M.VITRUVIO P., De Architettura, 10, 1. 4: “Omnis autem est machinatio rerum natura procreata acpraeceptrice et magistra mundi versatione instituta. Namque animadvertamus primum et aspiciamuscontinentem solis, lunae, quinque etiam stellarum naturam; <ni> machinata versarentur, non habuissemusinterdum lucem nec fructûm maturitates. Cum ergo maiores haec ita esse animadvertissent, e rerum naturasumpserunt exempla et ea imitantes inducti rebus divinis commodas vitae perfecerunt explicationes. Itaquecomparaverunt, ut essent expeditiora, alia machinis et earum versationibus, nonnulla organis, et ita quaeanimadverterunt ad usum utilia esse studiis, artibus, institutis, gradatim augenda doctrinis curaverunt.”

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contemporanea ma, a nostro giudizio, inventata dagli antichi Romani. Il concetto dellacomunicazione delle idee e della propaganda imperiale non è minimamente basato suteorie (nostra fatica odierna) ma messo in pratica attraverso logiche iconografiche ediffusione delle immagini in oggetti quotidiani quali la moneta, la statuaria, la ritrattistica;trasportati a loro volta in tutte la parti dell’Impero sulle strade e sulle rotte marittime. Ilconcetto di strada è fondamentale e la costruzione della rete viaria è alla base dellacircolazione di uomini, idee e materie. Finanche il cursus pubblicus vale a dire il sistema diun servizio di trasporti regolamentato da leggi è una invenzione romana. La lettura delparticolare Editto dei Prezzi di Diocleziano, di cui sono stati rinvenuti frammenti in più partidell’Impero, ci riporta un altro aspetto fondamentale: la cura del livello di vita del popolominuto che, comunque, deve sapere che lo Stato li protegge con degli Editti. La sezione dellacomunicazione ha delle eccellenze che possono anche lasciarci sbalorditi per la loro efficaciaquali i vasi di Vicarello e la Tabula Peutingeriana. Leggiamo i vasi di Vicarello, grazie allacapace elaborazione multimediale, come una sorta di contemporaneo navigatore, cheaccompagnava all’epoca i viaggiatori e indicava loro il percorso da seguire. La TabulaPeutingeriana, come ci spiega Franco Farinelli, è elaborata come una mappa stradalepresentando una serie di ‘vignette’ ripetute il cui senso finale equivale al numero di stellecon cui oggi classifichiamo gli alberghi.I Romani nascono agricoltori e raggiunsero in questo settore la massima perfezione; alcuniloro strumenti rimangono tali per millenni. Secondo la visione dell’antica Roma qui losviluppo tecnologico è al suo culmine avendo soddisfatto le esigenze e le necessitàdell’epoca. Effettivamente lo sviluppo più importante si è avuto nel settore agricolo e, comePaolo Braconi sottolinea, le grandi invenzioni e innovazioni raggiunsero punte tali dieccellenza che rimasero tali fino al XIX secolo. Sapientemente ci mette in evidenzal’invenzione, assolutamente romana, dell’aratro a rotelle che è alla base della fortunaagricola (oltre alla ricchezza idrica) della Pianura Padana e di tutti i territori centuriati. Ilsettore agricolo è l’unico in cui vengono fatti degli investimenti anche a livello minimo (dasemplici contadini) poiché legati alla produzione immediata e di sostentamento quotidiano.Un aspetto fondamentale per un Impero tecnologico riguarda lo sviluppo della metallurgia,la ricerca delle materie prime, i distretti minerari (miniere d’oro, d’argento, di rame, stagno,ferro, piombo) per l’approvvigionamento delle stesse materie prime utili a realizzare tuttociò circonda l’uomo, dagli utensili, alla spada, alla decorazione architettonica. Ancora oggivi sono miniere di origine romana! Sicuramente l’eccellenza dei Romani risiede nella tecnicadella fusione dei metalli, argomento sviluppato da Claudio Parise Presicce. Nella stessasezione Luigi Caliò ci parla delle tecniche dell’oreficeria e dei metalli preziosi e dellaraffinatezza raggiunta. Un argomento precipuo riguarda la monetazione.Francesca Diosono, avendo parlato di organizzazione del lavoro, si riferisce in questasezione alla falegnameria e alle corporazioni dei fabbri e falegnami. Gli oggetti di uso quotidiano erano fatti di materie quali il vetro e l’argilla. Nella produzionedel vetro i Romani hanno prodotto oggetti di straordinaria bellezza. Ma l’argomento che cistupisce di più è il riciclaggio del vetro, di certo non per un discorso ambientale ma per ilcosto elevato della materia così come esposto da Carla Martini.Nel corso della nostra ricerca è risultato che l’esempio di produzione industriale su grandinumeri è rappresentato dalla lavorazione dell’argilla (mattoni, lucerne, ceramiche da mensa,ceramiche da trasporto), Silvia Pallecchi impronta il discorso in modo tecnico-scientifico.Nella sezione corrispondente abbiamo avuto il contributo di oggetti particolari che illustranola produzione dei vari distretti manifatturieri del Mediterraneo.La mostra presenta in modo innovativo le sezioni delle tecniche artistiche, curata da MarcoGalli e Stella Falzone. Andando oltre l’aspetto esteriore del bello, in queste due sezioniabbiamo cercato di focalizzare l’attenzione sulle tecniche della lavorazione: del mosaico,

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Machina machinarum

Franco Farinelli

Tabula Peutingeriana: Italia centrale e la città di Roma (Vienna, Biblioteca Nazionale) (da copia. Coll. privata)

Forma Urbis Marmorea:

zona di magazzini e abitazioni nel

Trastevere (fr. 33)

(da Forma Urbis 1960)

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caso delle tre città (Roma, Costantinopoli, Antiochia) che sulla Ta-bula appaiono personificate cioè rappresentate da un complesso disegni dominato da una figura d’incerto sesso, i rari edifici e le raris-sime strade che accompagnano lo schizzo sono semplici accessoridi quest’ultima, e non hanno quasi nulla o addirittura nulla di “rea-listico”, come s’esprimono i Levi.3

Il confronto con il mosaico di Madaba consente di precisare ulte-riormente il discorso, introducendo nuovi elementi d’analisi quali ilpunto di vista e lo scorcio prospettico. A farvi caso, più dei quattroquinti delle vignette della Tabula, tutte quelle che i Levi classificanocome “a doppia torre” e che ammontano in complesso al numero diquattrocentoventinove, sono disegnate in assonometria cioè comenoi davvero vediamo gli edifici, e poi ribaltate per così dire sul pianoorizzontale della pergamena, sicché esse si presentano in maniera si-stematicamente frontale al nostro sguardo. Differente è il caso deiquarantaquattro edifici dai Levi detti “a tempio”, le cui vignette (co-me del resto quelle dello scudo di Dura) introducono la variante del-l’angolo visuale, nel senso che rispetto alle precedenti esse impongonouno scarto all’occhio dell’osservatore tale che quest’ultimo, diversa-mente dalle prime, riesce a guardare contemporaneamente la fac-ciata e il lato dell’edificio, come fosse collocato di sbieco proprio incorrispondenza dell’asse che divide quella da questo. Ma il punto divista resta di una persona situata sullo stesso piano dell’oggetto cheguarda. Soltanto nella settantina scarsa di vignette restanti (le “aquae”,gli “edifici ad elementi paralleli”, le “cerchia di mura”) compare l’ar-tificio della veduta a volo d’uccello ovvero della prospettiva cavaliera

Ha scritto Jean-Jacques Wunenburger che ogni “immagine costituisceun territorio filosofico sconfinato, che è impossibile circoscrivere neilimiti di un’unica mappa”.1 Vale anche il rovescio: un’unica mappa,ogni mappa, costituisce un ambito filosofico sterminato, impossibilea confinarsi all’interno di un’unica immagine, a partire dalla propria.Le mappe (ma meglio sarebbe dire rappresentazioni geografiche) piùo meno direttamente ascrivibili alla cultura cartografica romana sono,oltre i due frammenti della imperiale e marmorea Forma Urbis, la Ta-bula Peutingeriana, le miniature del Corpus Agrimensorum, e (con qual-che estensione) il cosiddetto “Scudo” di Dura Europos e al massimoil mosaico di Madaba. È tutto ciò che rimane, o quasi, della grande tra-dizione latina che permetteva ai Romani, come a quel tempo si ama-va ripetere, di vincere stando seduti, appunto in virtù del potere produttivodell’immagine cartografica: produttivo di senso ma anche di com-portamenti, ed è proprio tale produzione a giustificare l’impossibilitàdi restringere il significato e la funzione della mappa a quel che la map-pa stessa immediatamente esibisce. Si prenda ad esempio la Tabula Peutingeriana, copia medievale diun originale itinerarium pictum d’età imperiale romana, o le illustra-zioni del Corpus Agrimensorum, anch’esse copie medievali di dise-gni che accompagnavano testi di carattere tecnico: esse sicompongono di vignette connesse da un rapporto espressivo e nonanalogico o mimetico con la struttura cui si riferiscono. Delle 555 vi-gnette di cui la Tabula si compone molte sono quasi uguali l’una al-l’altra perché quel che s’intende mettere in evidenza è il tipo dell’edificioe non le sue singole caratteristiche, sicché il singolo contrassegnopuò venir ripetuto all’infinito, in funzione non delle specifiche quali-tà architettoniche della costruzione ma del grado d’attrezzatura ri-cettiva che esso era in grado di offrire al fruitore del cursus publicuscui l’immagine della rete stradale imperiale e delle sue infrastruttu-re era verosimilmente destinata. L’ubicazione degli edifici in que-stione, e di conseguenza delle relative vignette, non è sempre collegatacon quella delle grandi città e neppure di centri abitati di una certaimportanza. Ma anche nel caso delle uniche sei città rappresentate,per differenti motivazioni, all’interno delle loro cinte murarie (Aqui-leia, Ravenna, Tessalonica, Nicomedia, Nicea, Ancyra) i monumen-ti appaiono molto scarsi e la loro illustrazione del tutto secondaria.E lo stesso vale per lo scudo di Dura Europos, anch’esso copia supergamena, però non posteriore al III secolo d.C., di una mappa iti-neraria che mostra il percorso lungo il Mar Nero e la strada che daBisanzio portava alla foce del Danubio e oltre, e sulla quale i luoghidi tappa sono segnati dall’immagine di un semplice edificio (pro-babilmente un tempietto) che ricorre invariata.2 Si aggiunga che nel

Solo uno sguardo, anche distratto, alla Colonna Traiana, al Colos-seo, alle terme di Caracalla, al pont du Gard, al teatro di Orange,ai 20 chilometri delle mura di Aureliano o al Monte Testaccio a Ro-ma con i suoi milioni di anfore trasportate e l’osservazione, più vol-te fatta dagli studiosi dell’antico, che i Romani in fatto di tecnologianon hanno fatto passi avanti rispetto ai Greci, anzi che si sia trat-tato di un “marcato regresso delle conoscenze scientifiche e tec-nologiche rispetto all’ellenismo” o che non hanno lasciato nessunatecnologia valida ai posteri, risulta di fatto confutata e confutabile.Il trasporto a Roma dell’obelisco da installare sulla spina del cir-co di Caligola richiese da 800 a 900 tonnellate di lenticchie percontrobilanciare le 322 tonnellate dell’obelisco e le 174 tonnellatedel piedistallo: si dovette costruire una nave adatta a quel caricoeccezionale. Anche se fu usata per un solo e straordinario viaggio,i costruttori non potevano rischiare di farla affondare e quindi do-vettero ricorrere alle conoscenze circolanti all’epoca di idrostati-ca, evidentemente eredi degli studi di Archimede (Plinio, NaturalisHistoria, 16, 201-202; Pomey, Tchernia 2006).A conferma di quanto sopra – e si tratta solo di casi esemplari –si possono portare poi, con la riflessione dello studioso e la ricer-ca dello scienziato, argomenti a favore di questa che non è una te-si, ma una constatazione della realtà di quanto ci è stato trasmessodal passato: e la ricerca archeologica, giorno dopo giorno, non faaltro che confermare quanto sopra.Le nostre conoscenze si basano sui testi scritti pervenutici – equindi su una tradizione letteraria di per sé discontinua e incom-pleta ed ormai ben nota e studiata – e sulle testimonianze mate-riali, che ci sono giunte, anch’esse incomplete e del tutto casuali,come sono appunto i dati di tipo archeologico, al contrario peròin continuo incremento; ed è anche vero che talvolta parti di og-getti ‘tecnologici’ non sono stati riconosciuti come tali da chi li ha

scavati per la loro incompletezza e frammentarietà ed una loro ‘ri-visitazione’ è spesso fonte di nuove scoperte. L’organo di Dion(sez. 11.7), così come il meccanismo di Antikythera (sez. 1.6) lapiù complessa macchina del mondo antico datata intorno all’80-50 a.C. di cui si abbia documentazione materiale, cioè archeolo-gica, dimostrano che è l’archeologia che potrà dare in futuro ripostealle nostre domande sulla tecnologia antica. Dalle testimonianzemateriali è possibile risalire alle idee, agli studi, alle analisi, allesperimentazioni, alle tecnologie che le hanno prodotte con un pro-cesso inverso, ma non per questo meno interessante e ricco discoperte, a quello che molti studiosi hanno fatto. L’archeologia re-gala fatti (Settis 1979).Esiste quindi la possibilità di ricostruire non solo machinae nelsenso di strumenti, ma anche i ‘procedimenti tecnologici’, spes-so anche molto semplici, che hanno portato a produrre oggetti emanufatti (come le ceramiche, i vetri, etc.), a trasformare alimen-ti (grano, olio, vino etc.), a trasportare a lunga distanza per maree per terra, a fare misurazioni e comunicazioni, in una commi-stione tra tecnologia ed economia, tecnologia e società o strati so-ciali in evoluzione, cercando tuttavia di non perdere di vista lacentralità dell’uomo, che ha sempre avuto l’obiettivo di migliora-re il suo vivere.Ad esempio, se guardiamo alla tecnica edilizia utilizzata per co-struire le terme di Caracalla, dobbiamo desumere che certi calco-li statici i Romani li conoscevano (DeLaine 1997). E conoscevanole reazioni chimiche delle malte, anche per realizzare costruzioniin acqua, come moli e ponti, o il punto di cottura e le misure stan-dard per la produzione in serie dei mattoni nelle fornaci della ‘Ti-ber Valley’, utilizzavano carpenteria modulare, tanto da accelerarenotevolmente i tempi di costruzione di edifici imponenti quali ap-punto le terme e gli acquedotti, non solo a Roma, ma in tutto l’Im-

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1 Wunenburger J.-J., Filosofia delle immagini, Torino 1999, p. 400.2 Levi A. e M, Itineraria Picta. Contributo allo studio della Tabula Peutingeriana,Roma, 1967, pp. 13-14, 145, 168, 176, 30-31; Dilke O.A.W., Itineraries andGeographical Maps in the Early and Late Roman Empires, in Harley J.B., WoodwardD. (edrs), The History of Cartography, I, Cartography in Prehistoric, Ancient, andMedieval Europe and the Mediterranean, Chicago and London 1987, p. 249.

3 Levi, Itineraria Picta, cit., pp. 151-159.4 Su tale distinzione si veda anzitutto: Robinson A.H., Sale R.D., Morrison J.L.,Muehrcke P.C., Elements of Cartography, New York 1984, pp. 286-288. Si veda

anche: MacEachren A.M., How Maps Work. Representation, Visualization and De-sign, New York-London 1955, pp. 257-258. Per qualche verso affine, sebbene nonidentica, la distinzione tra segni iconici e convenzionali di Keates J.S., Under-standing Maps, New York 1982, p. 67.

5 Peirce C.S., Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, Torino 1980, pp.156-159.

6 Eco U., Trattato di Semiotica Generale, Milano 1975, pp. 82-83.7 Schmitt C., Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehl-

schlag eines politisschen Symbols, Hamburg-Wandsbek 1938.

come si dirà in epoca moderna, che riproduce la visione di un osser-vatore che sovrasta quel che scorge, o addirittura si libra nell’aria. Evi-dentemente esiste nella Tabula una relazione diretta tra articolazionefunzionale della costruzione o dell’insieme di costruzioni oggetto del-la rappresentazione e complessità (anzi artificialità) del punto di vi-sta impiegato nella rappresentazione stessa. Anche il bizantino mosaicodi Madaba, che risale al VI sec. d. C., è costruito a tratti secondo latecnica a volo d’uccello, e la raffigurazione di alcune chiese e di altrestrutture è tale da consentire di identificarle. Ma (basta guardare lacentrale via colonnata della città di Gerusalemme e le sue mura) es-so presuppone almeno un triplice punto di vista, e a esaminare conattenzione è proprio tale moltiplicazione ad assicurare all’immagineil suo specifico carattere rappresentativo, la sua peculiare forma diaderenza alla realtà, il suo complessivo grado di mimetismo.Consideriamo adesso insieme la Tabula, lo Scudo, il mosaico di Ma-daba e il Corpus Agrimensorum, tutte rappresentazioni in cui il segnogeometrico e quello in vario grado mimetico perché assonometricheo a volo d’uccello entrano in reciproco rapporto. Molto più che allamatematica, cui Wittgenstein la riservava, si addice infatti al docu-mento cartografico la definizione di “un insieme di tecniche di di-mostrazione”, e per la sua comprensione è decisivo separare findall’inizio il fascio delle tecniche impiegate da tutte le possibili altre.E tutte queste mappe, con l’unica parziale eccezione del Mosaico, sifondano, con il linguaggio di Peirce, sulla natura “associativa” (asso-ciative) piuttosto che “pittorica” (pictorial) del segno stesso: i segninon sono del tutto simili all’apparenza del loro referente, ma si rap-portano ad esso attraverso la semplice analogia della relazione tra leparti di cui è composto.4 E si noti, di passata, che la diversità tra pit-torico e associativo corrisponde in pieno a quella che nel sistema del-le immagini di Peirce separa l’ipoicona dall’ipoicona diagrammatica.5

Allo stesso tempo non basta far riferimento, come si è appena ac-cennato, alla differenza tra rapporto espressivo e mimetico a pro-posito dei segni e ciò di cui essi stanno al posto, poichésimbolicamente si danno, anche nel caso di una mappa, almeno duelivelli o piani: quello di base, costituito dall’insieme delle unità cheveicolano il contenuto primario, stabilisce il livello denotativo, e indeterminate circostanze diventa a sua volta espressione di un con-tenuto ulteriore, caricandosi in tal modo di una funzione connotati-va. Per dirla con Eco: stabilita una convenzione “la connotazionediventa funtivo stabile di una funzione segnica il cui funtivo soggia-cente è un’altra funzione segnica”. Quel che insomma si produce èla cosiddetta “superelevazione dei codici”, per cui una significazio-ne è in grado di veicolare un’altra significazione, che corrisponde ap-punto ad una risposta comportamentale.6 Sotto tal profilo è alquantoagevole sostenere che la Tabula, lo Scudo, il Corpus e il Mosaico sod-disfano una funzione connotativa: e proprio per questo funzionano

come macchine, producono cioè comportamenti. “Se nella realtà ar-rivi qui, puoi comportarti soltanto come qui sulla mappa viene indi-cato”: è questo, a porvi mente, il senso finale delle vignette dellaTabula, che sono l’equivalente del numero di stelle con cui oggi clas-sifichiamo gli alberghi, cioè i servizi che sono in grado di offrire aiviaggiatori. In tal caso l’attivazione del comportamento di quest’ul-timi è esemplarmente significata dal fatto che una determinata si-tuazione è stata previamente significata. E lo stesso vale per le altrerappresentazioni geografiche in oggetto: per lo Scudo, anch’esso co-pia di un itinerario (“se arrivi qui ti fermi”); per le illustrazioni del Cor-pus, che era un manuale di misurazione per la sistemazione territoriale(“se queste sono le condizioni del terreno devi fare così”); per il Mo-saico, realizzato sul pavimento della chiesa affinché la gente pre-gasse, dunque in grado di comunicare molto più imperativamenteil da farsi (“se sei qui, devi pregare”).Ha scritto insomma Carl Schmitt7 che la meccanizzazione della rap-presentazione statale ha risparmiato al mondo ogni ulteriore deci-sione metafisica, sicché tutte le macchine sono derivate diconseguenza: ha dimenticato di aggiungere che tale meccanizza-zione è il prodotto dell’immagine cartografica, autentica machinamachinarum, e che essa ha fatto in Occidente le sue prime grandiprove con la cartografia romana.

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Madaba, Chiesa della Carta. Mosaico raffigurante la città di Gerusalemme

(fot. Studium Biblicum Franciscanum) (da E.A.A. s.v.)

Roma antica tecnologica

Giuseppina Pisani Sartorio

“Come facciamo a sapere quale sia veramente il bene supremo dell’umanità, Stephen? Noi nonabbiamo a disposizione il numero infinito di dati che hanno a disposizione le Macchine. Forse,tanto per fare un esempio che non ci è del tutto estraneo, l’intera civiltà tecnologica ha generatopiù angoscia e infelicità di quante non ne abbia eliminato. Forse sarebbe preferibile una civiltàcontadina o pastorale, con meno cultura e meno affollamento. Se così è, le Macchine dovrannomuoversi in quella direzione, ma senza dircelo, perché noi, nella nostra ignoranza piena dipregiudizi, accettiamo solo ciò a cui siamo abituati e quindi ci opporremmo a qualsiasicambiamento. O forse la risposta è l’urbanizzazione totale, oppure una società senza classi, oancora la completa anarchia. Non lo sappiamo. Solo le Macchine lo sanno e, perseguendo taleobiettivo, ci conducono verso di esso.”

Da Isaac Asimov, The Evitable Conflit (1950), da Io, Robot, (1950),

Mondadori-Urania 2003, pp. 296-297.

li con le descrizioni di ‘macchine utili’ semplicemente forse per-ché le prime erano più spettacolari, singolari, ‘gli artifizi’ colpiva-no di più la fantasia dei lettori e quindi gli scrittori di tecnologia lehanno descritte, mentre meno interessante era descrivere un tor-chio per spremere le olive o un tornio per fabbricare ceramiche(Traina 2006).Le invenzioni non nascono per partenogenesi o, oggi verrebbe dadire, neppure per la casualità di un input elettronico: dietro ogniscoperta c’è un uomo o più uomini (oggi, preferibilmente, unaéquipe). Le idee per fortuna viaggiano, vengono trasmesse, ela-borate, migliorate, trasformate. È il progresso: una catena di even-ti, che producono fatti, comportamenti o macchine che, in genere,tendono a migliorare la nostra vita.È difficile che un’idea, una invenzione sia fine a se stessa: nor-malmente un’idea ne produce altre, e poi altre ancora, al puntoche spesso è difficile riconoscere, nella scala gerarchica che si vie-ne così a creare, l’idea primigenia, dietro la quale c’è naturalmen-te il primo inventore.

Nel mondo romano non possiamo applicare leggi tecnologiche oeconomiche uguali per tutte le aree dell’impero, anche se i rap-porti tra i paesi all’interno del bacino del Mediterraneo erano giàcosì stretti da rendere interdipendenti le economie di alcune aree,come ad esempio l’importazione di grano dall’Egitto o dalla Sici-lia o quella dell’olio dall’Africa o dalla Spagna Betica verso l’Italiae il grado di tecnologia nelle varie produzioni poteva variare cosìtanto sia per aree che per tempi diversi da non poter costituire unastatistica accettabile: pur tuttavia queste aree di eccellenza tecno-logica ci sono state ed hanno certamente avuto un peso nella va-lutazione generale che possiamo dare dell’economia romana.E poi valgono sempre le ragioni della domanda e dell’offerta: ungrande progetto edilizio richiede organizzazione e materiali ade-guati nei tempi richiesti; i commerci interregionali dai centri ma-nifatturieri che esportavano verso altri mercati potevano usufruiredi collegamenti assicurati dal regime romano e che cessano nelmomento che l’amministrazione delle strade (la cura viarum) ces-sa la sua attività (sez. 6.13).

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Da “L’Encyclopédie di Diderot & d’Alembert, Art des mines”, Inter-Livres, 2002

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gionamento idrico a distanza, da parte di popolazioni le più di-verse: i Romani hanno imposto il loro modo di vivere e, impo-nendolo, hanno diffuso il loro modo di agire, di operare e di pensare.Gli stessi scienziati greci parteciparono a questa koiné intellettuale,affascinati dalla crescita della nuova realtà politica che si era af-facciata sul Mediterraneo. Non solo: talvolta tecnici romani ven-nero inviati negli stati confinanti quello romano quali consulentiper la costruzione di opere architettoniche (difese di città, dighe)(Traina 2006).Gli antichi hanno costruito macchine anche importanti, ma perporle in azione occorreva dell’energia: e quelle disponibili eranol’energia animale (nei trasporti di merci e persone e nell’agricol-tura), l’umana, ma anche l’idraulica (nella molitura, nelle minie-re), l’eolica (nei trasporti marittimi), solare, quella meccanicasemplice e quella termica (cottura dei mattoni e delle ceramiche,per fondere i metalli). Tra le altre l’energia idraulica era sicuramenteutilizzata nel I sec. a.C. per azionare il mulino ad acqua, come citestimoniano gli autori antichi da Strabone a Plinio ed era usataanche in altri campi in epoca pienamente imperiale, quali l’agri-coltura, l’irrigazione, l’estrazione dei metalli e la lavorazione deimarmi e del legno, uso che certamente ha aumentato la produ-zione nei singoli settori, agricolo, minerario, etc., tuttavia insuffi-cienti per poter fare quel salto di qualità che porterà all’invenzionedella macchina a vapore che, adottata in modo generale intornoal 1830, ha rivoluzionato la produzione manifatturiera e i traspor-ti (Wilson 2002).Non si tratta però di ‘inventarsi un mondo romano tecnologico’,ma ricostruire archeologicamente le macchine con i frammenti ole raffigurazioni pervenuteci e confrontandole con le descrizionidei testi scientifici contemporanei, dal momento che sistemi di ri-scaldamento di grandi ambienti sono stati trovati (sez. 2.14), chela livellazione e costruzione degli acquedotti (sez. 3.2) non pote-va essere realizzata senza strumenti di misurazione come la diop-tra (sez. 1.7-14) ed è impensabile la costruzione di tanti chilometridi strade poi percorse dai Romani senza immaginare un sistemadi conteggio delle distanze, dal momento che sia Erone che Vi-truvio hanno descritto l’odometro (sez. 1.13).Se vennero adottati in tutto l’impero modelli di comportamento,ma molto meno i modelli tecnologici, pur tuttavia il ‘modello del-la città romana’ a somiglianza di Roma lo troviamo sparso in tut-to l’impero. Il fatto poi che nel campo dell’edilizia si siano potutecostruire fortune economiche, come quella di Haterius Tychicus(sez. 2.3), grande appaltatore dello stesso anfiteatro Flavio, di-mostra che lo sviluppo di quell’attività era eccezionale e dovutosoprattutto a costruttori che investivano in tecnologia, cioè nel-l’uso di macchine anche per risparmiare in manodopera per ac-celerare i tempi di costruzione; se la famiglia degli Haterii eraeffettivamente legata al collegio dei fabri tignuarii, questo deve in-dicare lo stretto legame tra appalti di costruzione e la corporazio-ne dei falegnami (DeLaine 2003).La tradizione di marchingegni spettacolari (gli automata, v. sez.11) sembrerebbe far pensare ad una tecnologica lontana dalla pra-ticità, mentre dobbiamo considerare il fatto che oggi una mac-china lavatrice fa meno ‘storia’ di un missile nello spazio. Si sonoconservati i testi con le descrizioni di ‘macchine inutili’ e non quel-

pero. Se esaminiamo gli acquedotti, dobbiamo concludere che al-cuni concetti fondamentali di idraulica facevano parte del loro ba-gaglio di conoscenze, ereditato dai Greci e applicato dai Romanisu larga scala e per una vita migliore per tutti, come ben ricorda-no Frontino (De aquaeductu Urbis Romae,16), Plinio (Naturalis Hi-storia, 36, 123), Rutilio Namaziano (De reditu, 1, 97-102) o Cassiodoro(Variae, 7, 6, 2-3).Ma poi, chi erano i Romani? Da occidente ad oriente, da nord esud, popoli diversi ad un certo punto della loro storia si chiama-rono ‘Romani’ pur avendo origini, tradizioni, conoscenze, attitu-dini, organizzazioni sociali e religiose diverse e quindi atteggiamentidiversi, modi di pensare, cognizioni pregresse diverse gli uni da-gli altri e reazioni diverse a situazioni che richiedevano soluzionitecnologiche, anche in tempi diversi. Un altro problema era anchequello della lingua, cioè della trasmissione dei saperi: in epoca ro-mana questo avveniva preferibilmente in greco o era bilingue; Vi-truvio usa il 12% di grecismi nel suo libro, come d’altra parteabbiamo fatto noi ‘moderni’ nei neologismi in ingegneria, in me-dicina, in botanica e in altri ambiti scientifici.Machina: la parola latina indica nelle comuni accezioni dei voca-bolari, sia quello che noi oggi intendiamo per ‘macchina’, siaun’‘opera costruita ingegnosamente’ (Lucrezio: machina mundi),sia un argano per sollevare pesi, o una macchina da guerra e d’as-salto (machina arietaria) oppure, con significato traslato, ‘mac-chinazione, artificio, espediente, astuzia’. Se è vero che Vitruvio(De architectura, 10, 1.1) indica con il termine ‘machina’ solo lagru calcatoria, tuttavia più avanti definisce come machinae, oltrea quelle per sollevare pesi, anche quelle per sollevare acqua, l’or-gano idraulico e l’odometro (Settis 2005).Il termine machina è stato preso nel suo significato primario, cioèdi opere costruite dall’uomo in applicazione a principi tecnici teo-rici per facilitare, migliorare, le attività umane in tutti i campi delfare pratico e della vita di tutti i giorni. Di conseguenza si è prefe-rito utilizzare il concetto di ‘storia della tecnologia’ nel senso distoria dell’utilizzazione ottimale – da parte dei Romani – dell’in-sieme di tecniche e conoscenze scientifiche impiegate in vari set-tori per razionalizzare, migliorare, organizzare i cicli produttivi inqualunque settore e/o tutto ciò che può essere applicato alla so-luzione di problemi pratici, all’ottimizzazione delle procedure, al-la scelta di strategie, dove il fine ultimo è, da un lato, il miglioramentodella qualità della vita (ad es. in medicina non tanto le ricerca dirimedi generici e spesso più magici che salutari (placebo), quan-to la sperimentazione di tecniche chirurgiche, v. sez. 5) e quindiin generale il progresso, dall’altro anche alla ricerca di soluzionitecnologiche per distruggere la vita (sez. 4).Una delle domande che si sono posti gli studiosi è in che modopoteva avvenire la diffusione non tanto delle invenzioni quantodelle innovazioni tecnologiche, cioè la modificazione dei modi diproduzione al fine di renderli più efficienti e meno costosi: l’im-pero romano in questo senso fu certamente catalizzatore, tutta-via con forme di differenziazione da provincia a provincia a secondadelle vocazioni industriali dei vari territori (agricolo per Egitto eSpagna, metallurgico per Spagna, Gallia, Britannia). L’espandersidell’impero favorì certamente la diffusione, la condivisione di al-cune tecnologie di base, come ad esempio i metodi di approvvi-

homo faber-homo sapiens

La tecnologia studia i mezzi con cui l’essere umano agisce sul-l’ambiente in cui vive modificandolo. Questa definizione di tec-nologia richiama molti temi oggi di forte attualità che segnano ildibattito sul ruolo e sui confini delle nuove tecnologie, un accesodibattito spesso caratterizzato da posizioni contrastanti e da ri-svolti ideologici.Ma qual’era la consapevolezza e la visione degli antichi nei riguardidi una tematica, come quella del progresso tecnologico, sentitacosì viva e attuale? La mano è il primo strumento tecnologico con cui l’essere uma-no trasforma, contrasta, manipola il mondo che lo circonda: al-cune bellissime riflessioni di Cicerone, nell’opera ‘La natura divina’,rivelano piena coscienza e ammirazione per le risorse intellettua-li e le abilità manuali dell’uomo, in grado di trasformare la naturafino a crearne un’altra:

Quanto sono abili le mani che la natura ha dato all’uomo equanto numerose le arti di cui esse sono strumento! Infatti pos-siamo contrarre e distendere le dita grazie a giunture flessibi-li, e il dito non fatica in nessun movimento. Così la mano,accostando le dita, è in grado di dipingere, modellare, scolpi-re, di far scaturire suoni dalla lira e dal flauto. E oltre a questearti ricreative vi sono anche quelle necessarie: l’agricoltura(fig.1), l’edilizia, la tessitura e la cucitura di abiti e tutta la la-vorazione del bronzo e del ferro; da ciò si comprende che noiabbiamo conseguito tutto ciò applicando l’attività manualedegli artigiani (fig.2) a scoperte della mente e a percezioni deisensi, in modo da poter essere coperti, vestiti, protetti,e da ave-re città, mura, case e templi (…) con le nostre mani infine ten-tiamo di creare quasi una seconda natura nella natura

(trad. C.M. Calcante, Milano 1992)

Quam vero aptas quamque multarum artium ministras ma-nus natura homini dedit. Digitorum enim contractio facilis fa-cilisque porrectio propter molles commissuras et artus nullo inmotu laborat, itaque ad pingendum, fingendum, ad scalpen-dum, ad nervorum eliciendos sonos ad tibiarum apta manusest admotione digitorum. Atque haec ablectationes, illa ne-cessitatis, cultus dico agrorum extructionesque tectorum, te-gumenta corporum vel texta vel suta omnemque fabricamaeris et ferri; ex quo intellegitur ad inventa animo percepta sen-sibus adhibitis opificum manibus omnia nos consecutos, uttecti ut vestiti ut salvi esse possemus, urbes muros domiciliadelubra haberemus. (…) nostris denique manibus in rerum na-tura quasi alteram naturam efficere conamur

(Cicerone, de natura deorum 2, 150-152).

Quasi alteram naturam, dunque ‘quasi una seconda natura’, diceil più celebre oratore e politico di Roma antica, un altro ordine ol-tre a quello dato e conosciuto. Si è tentati di vedere in questa ‘se-conda natura’ una adeguata traduzione di quella capacità diadattamento all’ambiente naturale circostante di cui parlano og-gi le scienze antropologiche e sociologiche quando indagano lepiù diverse culture umane. ‘Fare’ e ‘saper fare’, ‘sperimentare’ e ‘creare’ si traducono per l’uo-mo antico in molteplici modi di combinazione ed elaborazionedell’ambiente fisico che lo circonda e di abile utilizzo dei mezzinaturali in esso disponibili. Nonostante posizioni contraddittorie,che spesso tradiscono un esplicito disprezzo nei confronti del la-voratore manuale e dell’esecutore tecnico dei mestieri, ritornaugualmente con forza nel pensiero antico la consapevolezza diun’umanità segnata da uno sforzo incessante di creare, median-te l’opera della sua intelligenza e delle sue mani, il ‘mondo dellavita’: ad inventa animo percepita sensibus, si tratta quindi di un’at-tività manuale applicata alle scoperte della mente e dei sensi, va-

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Anche se i Romani non facevano che copiare macchine o ripeterein maniera pedissequa risultati conseguiti dalla scienza ellenistica,secondo alcune tesi (Russo 2006), è pur vero che nel tardo impe-ro c’è stato un interesse nuovo per la sperimentazione e una dif-fusione mai riscontrata prima di macchine belliche e di accorgimentitecnici (Tomei 1982). Ed è anche vero che solo le condizioni sociali,economiche, strutturali createsi durante l’impero romano hannopotuto permettere una diffusione non delle teorie, ma della prati-ca di molte, se non delle più sofisticate, macchine; non forse in mo-do omogeneo, né coordinato, né continuo, né spesso consapevole,per imitazione, per imposizione, per opportunità, ma c’è stato edè alla base del comune vivere civile europeo. Senza l’intervento ‘ro-mano’ quindi le scoperte del mondo greco, e in particolare elleni-stico, non sarebbero andate lontano; Roma lo ha potuto fare perl’estensione territoriale raggiunta, per i contatti istituiti con altreculture, per l’autorità del suo potere: questo sì che è un merito, chepossiamo tranquillamente riconoscere ai Romani.In conclusione sembra opportuno riportare quanto scrive molto

chiaramente lo stesso Vitruvio nel De Architectura (10, 1.5-6):“Quan-to al nutrimento non avremmo poi abbastanza cibo se non fosse-ro stati inventati i gioghi e gli aratri per i buoi e per tutte le bestieda soma. E se non fossero stati ideati per la torchiatura delle olivedei torchi, dei verricelli, delle leve, noi non avremmo potuto gode-re del piacere dell’olio limpido o dei frutti della vite; e il trasportodi questi prodotti sarebbe impossibile se non fossero stati inven-tati i congegni meccanici (nisi inventae essent machinationes…) deicarri e delle carrette agricole per andare per via terra e quello dellenavi per andare per mare…C’è poi una infinità di apparecchi mec-canici dei quali non vale la pena di parlare perché sono di uso quo-tidiano: le mole…E gli altri congegni che hanno per ognuno un’utilitàpratica nella vita di ogni giorno”. E possiamo dire che Nerone e Luigi XIV vivevano allo stesso mo-do, disponevano delle stesse energie per muovere le loro mac-chine e le loro carrozze, facevano coltivare la terra con macchinemolto simili, macinavano il grano con i mulini ad acqua, estrae-vano minerali dalle miniere con argani e strumenti ‘romani’.

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Bibliografia di riferimentoCarandini 1980; Cracco Ruggini 2001, pp. 73-94; DeLaine 1997; DeLaine 2003, pp. 723-732;DeLaine 2006, pp.237-252; Di Pasquale 2004; Humphrey, Oleson, Sherwood 1998; Marcone 2006, p. 182, 192-193; Minonzio 2004, pp. 263-312; Oleson 2008; Pomey, Tchernia 2006, pp. 87-97, in particolare p. 94; Romano 1997, pp. 79-95; Russo 2006, pp. 23-29;Russo 2008; Settis 1979; Settis 2005; Solis Santos 1988, pp. 705-728; Tomei 1982, p. 63 ss.; Tomei, Tecnologia, pp. 273-302; Traina 2006, pp. 262-263; Wilson 2006, pp. 226-229; Wisseman, Wisseman 1994.

Machina:l’esperienza tecnologica nel contesto mediterraneo antico

Marco Galli

A me la semplice contemplazione della saggezza porta via molto tempo; la guardo stupefatto, comeguardo talvolta l’universo che spesso vedo con occhi nuovi. Nutro, perciò, venerazione per le scopertedella saggezza e per chi le opera. Mi piace venirne in possesso come se fossero eredità di molti. Questeconquiste, questi sforzi sono stati fatti per me. Ma comportiamoci come un buon padre di famiglia,ampliamo il patrimonio ricevuto; quest’eredità passi accresciuta da me ai posteri. Da fare resta ancoramolto e molto ne resterà, e a nessuno, sia pure fra mille secoli, sarà negata la possibilità di aggiungerequalche cosa ancora.

Seneca, Epistola VII, 64, 6-7 (trad. C. Barone, Milano 1989)

tratti più dalla storia delle invenzioni e dalla scoperta di “rivolu-zioni”, ritenute in grado di spiegare convenientemente trasforma-zioni repentine o radicali mutamenti rispetto al passato, chedall’osservazione dei processi di lunga durata e di reciproco in-flusso. Dall’altro gli storici si sono concentrati invece sulle com-ponenti sociali ed ambientali che determinano il network delle realtàlocali della cultura mediterranea, in particolare focalizzando il ruo-lo delle strutture politiche sull’avanzamento tecnologico e sullosfruttamento delle risorse produttive.Nella storia del Mediterraneo antico il ruolo della tecnologia non siprecisa pertanto come quello di un possibile catalizzatore di rivolu-zioni e di radicali transizioni tra periodi e sistemi culturali, quanto sidelinea piuttosto come una delle forze propulsive di più complessisistemi di risposta al bisogno di produttività, infine, come uno deimolti poteri che influiscono nella vita delle microlocalità.

Tra tradizione e innovazione: il network tecnologico dell’impero romano

Secondo quali parametri valutare l’esperienza tecnologica in unasocietà antica pluriculturale e policentrica quale quella romana? L’esperienza tecnologica è parte della realtà globalizzata dell’im-pero romano, durante il suo lungo percorso di formazione, costi-tuzione e disfacimento; più che ‘rivoluzioni’ o nette cesure siriscontrano invece linee di continuità di saperi e di tradizioni pree-sistenti accanto alla presenza di influssi innovativi, di rielabora-zioni e fenomeni di adattamento a livello locale. In questa otticaè consono parlare, in sostituzione di ‘tecnologia romana’, di unastoria della tecnologia durante l’età romana.L’agire tecnologico dell’uomo romano è quindi connaturato conle strutture geografiche, economiche e socio-culturali dell’ambientein cui si esprime. L’impero romano riuniva sotto di sé un territo-rio che si estendeva dall’Inghilterra settentrionale, in parte inclu-dendo anche la Scozia meridionale, fino ai margini del desertoafricano e alle cataratte del Nilo, mentre da Ovest a Est com-prendeva i territori da Gibilterra fino all’Eufrate: la sua superficieè calcolabile in ca. 6 milioni di km2. Lo spazio dominato da Romafu compreso in un’imponente rete stradale, dotata di numerosiponti, che attraversava le diverse province dell’impero per un’esten-sione che nel II sec. d.C. si può calcolare tra 80.000 e 100.000km: ma si trattava solo delle grandi strade romane a cui si devo-no aggiungere poi le strade locali. Con il principato di Augusto iniziò un periodo di quasi 250 anniche, nonostante sommosse locali e scontri militari per la succes-sione al trono, fu definito pax romana. L’imposizione del diritto,l’estensione di un articolato apparato burocratico amministrativo-tributario, la forza di un imponente esercito, instaurarono e pre-servarono a lungo nei territori conquistati l’imperium di Roma. Lapace relativa creò le premesse per un incremento demografico sen-za precedenti: nel momento di massima espansione nel II sec. d.C.la sua popolazione si aggirava sui ca. 60.000.000 di abitanti. Questi fattori, qui esposti in forte sintesi, condussero parallela-mente ad uno sviluppo economico notevole, che si rifletteva nelbenessere non solo dei ceti dirigenti e delle classi alte di Roma ma

anche le élites provinciali: l’esistenza di un ceto di consumatori fe-ce sì che, accanto ad una economia di sussistenza, ci fosse la ne-cessità di una produttività di più ampia portata e su vasta scala.Questo processo determinò a sua volta la richiesta di manodope-ra e di un ceto artigianale sempre più specializzato e, conseguen-temente, di una corrispondente organizzazione del lavoro secondocriteri di maggiore razionalità. Il fenomeno della razionalizzazione,cioè lo sforzo di migliorare il processo produttivo secondo le sem-pre maggiori necessità economiche, è strettamente connesso conil fenomeno dello sviluppo tecnologico, cioè del potenziamento edelle innovazioni nel campo delle applicazioni tecnologiche. Infatti, grazie al contributo offerto negli ultimi decenni dallo stu-dio dettagliato della documentazione archeologica e da una at-tenta valutazione delle fonti storiche (si pensi solo alle iscrizioni,un tempo solo marginalmente considerate, o la straordinaria mo-le di dati offerta dai papiri, addirittura ignorata) possiamo ricom-porre ora un quadro complessivo altamente diversificato, dove iconcetti di innovazione, stagnazione o, addirittura, recessione pos-sono coesistere a seconda dei periodi o delle microregioni inte-ressate. Rispetto al giudizio assai limitativo espresso nel passatoin relazione alla tecnologia antica nei termini di stagnazione, dimancanza di progresso e di potenzialità non sfruttate, l’archeolo-gia, di contro, ha aiutato notevolmente a recuperare con forzaun’immagine dell’impero romano dinamica, con un commercioattivamente basato sullo scambio monetale, con industrie urba-ne e rurali spesso a carattere estensivo, con una pianificazione perlo sfruttamento massiccio delle risorse naturali, a volte anche dram-matico nei suoi risvolti ambientali. Questo nuovo modo di impostare lo studio e la valutazione del-l’esperienza tecnologica nell’impero romano ha insegnato a diver-sificare e distinguere in relazione al preciso contesto sociale, allecondizioni ambientali e necessità economiche. Particolarmenteesemplificativo è il fatto che certe tecnologie tradizionali e mille-narie diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, come quelle rela-tive alla macinazione dei cereali e caratterizzate dall’impiego dellaforza animale, continuassero ad avere ampia applicazione, men-tre solo a fronte di determinate condizioni di sviluppo socio-eco-nomico avessero diffusione tecnologie innovative, come quella dellamacinazione dei cereali grazie all’impiego dell’energia idraulica. Lo studio delle fonti storiche e, soprattutto, la valorizzazione delleevidenze archeologiche testimoniano processi di diffusione e cir-colazione dei saperi diversificati e con forti interconnessioni. Da unlato un chiaro interesse per queste idee e la loro circolazione emer-ge dalle osservazioni degli autori antichi: esplicativi per queste in-terconnessioni sono i casi dei sistemi di irrigazione sperimentati adAlessandria, illustrati anche da Vitruvio in modo esaustivo. Dall’al-tro le applicazioni di nuove tecnologie sono documentate in tuttol’impero dalla Britannia all’Egitto in settori come l’estrazione mine-raria, l’attività delle cave, l’irrigazione, l’agricoltura, i trasporti.Dal Vallo di Adriano al deserto della Libia troviamo documentatoun quadro articolato di impianti per drenaggio, raccolta, distribu-zione e conservazione delle acque per scopi agricoli, domestici e ar-tigianali; allo stesso tempo sono emerse eclatanti dimostrazioni ditecnologia avanzata e concretamente applicata a impianti prodot-tivi su vasta scala: l’energia derivata dall’uso della forza dell’acqua

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le a dire inscindibile da processi intellettivi e cognitivi. Molti pen-satori ed intellettuali nel mondo ellenistico-romano, a partire daAristotele, hanno riconosciuto nella simbiosi tra intelletto inven-tivo e tecnica esecutiva un fattore essenziale per la conquista del-la natura e dello sviluppo dell’umanità.Per questo motivo il discorso sulla tecnologia è il discorso sul-l’insieme di saperi e di processi prima di tutto mentali che ma-nuali: il pensiero tecnologico fa parte di un ‘agire strategico’ messoin atto per risolvere un insieme di problemi che il singolo indivi-duo o il gruppo si trova ad affrontare. Quale coscienza avevanogli antichi di tale habitus fatto di riflessione e di abilità tecnica?Quali erano i campi di applicazione di tale ‘agire strategico’? Ancora una volta ci soccorrono le considerazioni di Cicerone chespesso sottolinea il potere creatore del lavoro e dell’industria del-l’uomo. Come viene efficacemente espresso nelle osservazionicondotte sul modo di agire responsabile (Cicerone, de officiis 2, 3-5), proprio alla combinazione di pensiero razionale, abilità tecni-ca e manuale si fanno risalire la medicina, la navigazione,l’agricoltura, il commercio, l’estrazione dei metalli, poi, continuandol’enumerazione, l’architettura, fino ai grandi progetti di regimen-tazione e distribuzione delle acque ed alle grandi opere di inge-gneria, come ponti e porti: tutti campi in cui si dimostra al megliol’esistenza, per un intellettuale e politico alla metà del I sec. a.C.,una concezione positiva del progresso della cultura umana attra-verso il potere creativo della tecnica. La concezione che univa l’abilità creativa dell’homo faber alla di-mensione raziocinante dell’homo sapiens non era frutto di unasupposta ‘mentalità romana pratica’: si trattava di una diretta con-tinuità con il pensiero di Aristotele che chiamava saggi coloro iquali si erano distinti in particolari scoperte tecniche, un’ereditàquesta che sarà sviluppata dal filosofo stoico Posidonio che, as-similando homo faber e homo sapiens, celebrerà il progresso tec-nico come parte dello sviluppo della saggezza. Una tale concezionedell’esperienza tecnologica come risultato di ratio e ars permette

di includere non solo l’agricoltura, l’estrazione delle materie pri-me, le attività produttive e costruttive su ampia scala, i mezzi ditrasporto ma anche l’amministrazione e le altre tecniche di ge-stione delle istituzioni. La storia della tecnologia antica non è quindi solamente una sto-ria di saperi, tradizioni e competenze tecniche gelosamente eredi-tate e custodite da un gruppo di specialisti, di pensatori teorici e diabili esecutori, ma anche quella del lungo ed intricato processo dielaborazione – ricezione – applicazione di conoscenze socialmentee culturalmente condivise. Per questa ragione, in antico come og-gi, il ‘fare’ e ‘il saper fare’ costituiscono attività non solo necessa-rie al funzionamento della società, ma strumenti di valorizzazionesociale dell’uomo, seppure con una gamma altamente diversifica-ta di sfumature secondo i contesti e gli ambiti cronologici. La complessità della dimensione tecnologica dell’uomo antico èconcettualmente inscindibile dal diversificato e frammentario qua-dro ambientale, culturale ed economico, in cui ha preso forma esignificato, vale a dire il bacino del Mediterraneo. È utile richia-mare il puntuale rimando a quella connectivity of microregions, aduna rete di connessioni esistenti tra realtà locali, recentemente for-mulato da Horden e Purcell, in cui si sintetizza l’immagine di unarticolato tessuto connettivo, dove convivono e interagiscono leculture mediterranee. Sullo sfondo di queste molteplici realtà locali il patrimonio dei sa-peri tecnologici si radica nella storia dell’ambiente e del suo sfrut-tamento pianificato ad opera dell’uomo; similmente il percorsotecnologico si sovrappone e si interseca con la storia commercialee le sue dinamiche economiche. Per questo motivo, dunque, non si può anteporre lo studio dellesingole invenzioni o delle singole innovazioni tecnologiche a quel-lo delle relazioni di potere - controllo - sfruttamento economicoche costituiscono i maggiori fattori determinanti il processo pro-duttivo nel Mediterraneo. Infatti, da un lato gli storici della tecnologia antica sono stati at-

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Fig. 1 Colonna di Traiano (113 d.C.), dettaglio con legionario intento alla

mietitura del grano (da calco, Roma, Museo della Civiltà Romana).

Fig. 2 Rilievo funerario (II sec. d.C.) con scena di bottega di artigiani intenti

al lavoro del rame (calco, Roma, Museo della Civiltà Romana).

Con una grande varietà di osservazioni tutto il libro decimo di Vi-truvio mette particolare enfasi su impianti e tecniche che rimpiaz-zano la forza umana con fonti alternative di energia tra le quali, primatra tutte, il potere dell’acqua.

Sulla base dello stesso principio si fanno girare anche i mulini adacqua, che sono uguali in tutto tranne per il fatto che a una del-le estremità dell’asse è fissato un tamburo dentato, e quest’ulti-mo, posto verticalmente di taglio, gira contemporaneamente allaruota. (…) ed è con la stessa rotazione che questo [scil. frumen-to] viene ridotto in farina.

Eadem ratione etiam versantur hydraletae, in quibus eadem suntomnia praeterquam quod in uno capite axis tympanum denta-tum est inclusum. Id autem ad perpendiculum conlocatum in-cultrum versatur cum rota pariter. (...) In qua machina inpendensinfundibulum subministrat molis frumentum et eadem versa-tione subigitur farina.

(Vitruvio, de Architectura 10, 5, 2).

La forza dell’acqua: essa rappresenta il primo sforzo di sfruttamentodelle risorse naturali da convertire in lavoro meccanico (sez. 3, 12). Al-le riflessioni di Vitruvio fanno eco alcune importanti annotazioni diPlinio, in particolare in un passo recentemente evidenziato da Lewisdove si parla di un procedimento per sgranare e triturare il grano:

Pistura non omnium facilis, quippe Etruria spica farris tosti ri-sente pilo praeferrato, fistola serrata et stella intus denticulata,ut, si intenti pisant, concidantur grana ferrumque frangatur.Maior pars Italiae nudo utitur pilo, rotis etiam, quas aqua ver-set, obiter et mola.

(Plinio, Naturalis Historia 18, 97)

Non tutti i cereali si macinano facilmente. In Etruria la spiga difarro abbrustolito viene schiacciata da un pestello con la puntadi ferro dentro un tubo dentellato, che ha all’interno una stelladentellata anch’essa, così che, se per caso pigiano con troppa for-za, i grani vengono scheggiati ed il ferro si spezza. La maggiorparte d’Italia adopera un nudo pestello, ed anche ruote che l’ac-qua mette in movimento, ed eventualmente anche la macina.

(trad. A. Aragosti et al., Torino 1984)

Si tratta di pisae, pestelli, azionati meccanicamente per l’impiego del-l’energia idraulica. Questo riferimento è di straordinaria importanzadocumentaria proprio perché si asserisce che questa tecnologia èdiffusa in maior pars Italiae, nella maggior parte della penisola. Leattente osservazioni di Vitruvio e di Plinio riservate al mulino ad ac-qua costituiscono una centrale testimonianza che la forza idraulicaera utilizzata già nella prima età imperiale su larga scala e secondoforme diversificate. Se a livello teorico questo poteva essere il quadro di riferimento chegli autori antichi di tecnologia verosimilmente restituiscono, qualepoteva essere invece il panorama concreto di impianti, di strutturee macchine produttive che lui aveva di fronte? L’approccio archeologico, a cui la generazione di storici come Finleyha guardato in passato con estremo scetticismo (v. il contributo diCordovana), si è rivelato al contrario per studiosi come Wikander edOleson, Pleket, Greene o, sul versante italiano, Lo Cascio uno stru-mento ermeneutico efficace, in grado di restituire l’immagine di unasocietà dinamica, di elaborare analisi ed interpretazioni sempre piùarticolate, all’interno di un confronto sistematico allargato a una plu-ralità di fonti. Ed è proprio nel caso dell’energia idraulica, special-mente in quello del mulino ad acqua, che gli ‘scettici’ citavano perprimo come esemplificazione del fallimento del progresso tecnolo-gico antico, che la messe di nuovi dati e l’attenzione ai contesti e al-

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fu impiegata con grande successo (fig.3) all’estrazione mineraria (ilcaso delle miniere spagnole), alla lavorazione delle pietre tramite idispositivi con la sega idraulica (l’esempio di Hierapolis di Frigia,Turchia, fig.4) gli impianti industriali per la macinazione (l’impo-nente contesto della prima età imperiale a Barbegal presso Arles). Quale immagine possiamo farci dunque dell’esperienza tecnologi-ca durante l’età del dominio di Roma nell’area del Mediterraneo enelle regioni limitrofe rispetto allo stato attuale delle ricerche e al no-tevolissimo ampliamento della documentazione archeologica in tut-te le regioni dell’impero? Un modello di lettura che si propone qui è quello di considerare latecnologia o le tecnologie alla stregua di un network fatto di centri eperiferie, di legami e diramazioni di intensità e qualità diverse, di con-nessioni più o meno dirette, che consentono o ostacolano il transferdi conoscenze e la loro concreta applicazione, che, infine, ne modifi-cano la ricezione e il loro riadattamento da un determinato contestoad un altro. Ma il network tecnologico era al contempo parte di un insieme chelo conteneva, il sistema dell’impero, con le sue tensioni politiche esociali, con i suoi fattori di crescita economica, con il suo mondo divalori e modelli culturali; per questo il discorso sulla tecnica costi-tuisce solo una pagina del più vasto discorso sul potere.

La macchina del mondo: pensiero scientifico e tecnologia nel mondo romano

“In Oriente, al tempo dell’impero romano, si favoleggiava di unpaese dove vivevano molti fabbricanti di “macchine veicoli di spi-riti”. Queste macchine venivano usate come strumenti di prote-zione («bloccano, arrestano, respingono, fanno ostacolo»),svolgevano attività commerciali, coltivavano i campi, effettua-vano catture ed esecuzioni. Questo paese era Roma (Roma-vi-saya)…”

(Giardina 1989).

Lo storico Andrea Giardina ha recuperato questa suggestiva imma-gine dell’impero romano come terra di macchine e, soprattutto, diuomini-macchina da un testo birmano in lingua pali del XI-XII seco-lo, ma basato su testi sanscriti precedenti: si tratta di una visione daparte dell’Altro, del non romano, di Roma come paese degli automi,dove l’elemento tecnico e quello umano tendevano a compenetrarsi egli uomini potevano assumere le sembianze di macchine dotate di spi-rito. Questa immagine del paese degli automi cristallizzatasi nell’im-maginario indiano è quindi un’efficace metafora di come, pressoculture non mediterranee, quell’esperienza o, piuttosto, quell’onni-presenza tecnologica fosse sentita come fattore peculiare al dominiodi Roma e percepita come una cifra caratterizzante di questa cultura. Ma quale era invece il quadro mentale in cui le macchine venivanoconcepite e vissute dall’uomo romano? In netto contrasto con l’esperienza contemporanea, che vede mac-china e nuove tecnologie correre continuamente il rischio, sotto ilpeso di istanze etiche e religiose, di collocarsi al di fuori o addirittu-ra ‘contro natura’, al contrario, nel pensiero antico l’evoluzione del-la macchina e delle tecniche non rappresenta un fattore didisgregazione dell’ordine naturale. L’autore che nella cultura roma-na è stato in grado di cogliere questo rapporto di equilibrio tra tec-nica e natura è Vitruvio, per il quale l’ideazione delle macchine è partedelle potenzialità concesse agli uomini:

Tutti i congegni meccanici devono la loro origine alla natura e il lo-ro principio fondamentale alla rotazione del mondo, da cui trag-gono lezione e insegnamento. (…) Quando dunque i nostri antenaticompresero la natura di tali fenomeni, trassero i loro modelli dallanatura e imitandoli, guidati dalle opere divine, svilupparono appli-cazioni utili all’esistenza. E così, a scopo di maggiore comodità, al-cune le realizzarono per mezzo delle macchine e delle loro rotazioni,altre per mezzo di strumenti, e quelle che capivano essere utili aibisogni si preoccuparono di perfezionarle con la riflessione teorica,con la ricerca tecnica, con l’istituzione graduale di una scienza.

(trad. A. Corso-E. Romano, Torino 1997)

Omnis autem est machinatio rerum natura procreata ac prae-ceptrice et magistra mundi versatione instituta. (…) Cum ergomaiores haec ita esse animadvertissent, e rerum natura sump-serunt exempla et ea imitantes inducti rebus divinis commodasvitae perfecerunt explicationes. Itaque comparaverunt, ut essentexpeditiora, alia machinis et earum versationibus, nonnulla or-ganis, et ita quae animadverterunt ad usum utilia esse studiis,artibus institutis, gradatim augenda doctrinis curaverunt.

(Vitruvio, de Architectura 10, 1, 4)

La natura offre il punto di partenza allo sviluppo dell’attività creatri-ce dell’intelligenza dell’uomo: tramite la costruzione di macchine ilpensiero tecnico trova nella natura il proprio campo d’azione e il pro-prio spazio creativo. In Vitruvio le tecniche ricevono dalla natura i va-lori di riferimento, divenendo, quindi, un valido mezzo di conoscenza.Alla luce delle riflessioni vitruviane si può concludere che nell’impe-ro romano la meccanica antica abbia sempre mantenuto un assettointerno sufficientemente forte e definito, tale da poter apparire comeun sapere scientifico (Repellini 1989).

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Fig. 3 Frammento di rilievo con scena

di nove minatori, da Linares, l’antica Castulo

(Spagna, oggi a Museo di Bochum,

v. sez. 8.1)

Fig. 4 Una città dell’impero

romano: Hierapolis di Frigia

(Pamukkale, Turchia). La città,

probabilmente fondata nel III sec.

a.C., vive in età imperiale

un’importante fase di sviluppo

economico grazie a numerose

attività artigianali e produttive

destinate non solo al fabbisogno

locale ma anche ad esportazioni

su larga scala: da numerose

iscrizioni e dalle fonti letterarie

emerge in particolare il ruolo della

produzione tessile e di lana tinta

con un pigmento vegetale simile

alla famosa porpora ma molto

più economico. Si conoscono

inoltre potenti associazioni di

mestieri, tra cui i tintori, tessitori,

i fabbri, e gli addetti al

funzionamento delle macchine

idrauliche (D’Andria 2003).

l’ambiente circostante ha apportato evidenze eclatanti sulla diffu-sione di impianti meccanici in agricoltura, nel campo minerario e inaltri settori di attività, quali il trasporto o gli impianti termali. L’eccezionale complesso del mulino di Barbegal nella Narbonese, sco-perto e scavato tra il 1937 e il 1939, si trova in 7 km ad ovest della cit-tà di Arles, l’antica colonia cesariana di Arelate, all’entrata della valledi Baux (fig.5). Si tratta di un edificio di 61 x 20 m, realizzato forse al-le fine del I sec. d. C., che si presenta simmetricamente diviso in duesettori, entrambi occupati da una serie di ambienti e separati da unascalinata centrale (fig.6). Il complesso era edificato alla base di unpendio, in una posizione ottimale per l’impiego mirato della forzaidraulica: scendendo dall’acquedotto costruito alla sommità della col-lina l’acqua era incanalata all’interno dell’edificio, dove, in due con-dotte forzate discendenti, andava ad azionare una serie di ben 8 coppiedi ruote a pala, disposte rispettivamente contro le facce interne deimuri est ed ovest del complesso (fig.7). Tale tipologia di impianto aruote multiple si attesta, pur con diverse soluzioni applicative, anchein altri casi in diverse regioni dell’impero: presso la città e il fiume diCrocodilo, 16 km a nord di Cesarea Marittima, a Chemtou e Testournella Tunisia settentrionale. Gli ambienti disposti ai lati della scalina-ta centrale dovevano servire, invece, come magazzini per i cereali ma-cinati: la capacità stimata di 4, 5 tonnellate per giorno di farina indicache si tratta di una produzione perfettamente in grado di soddisfarel’esigenze non solo dei 12.000 abitanti di Arles antica. Il complesso di Barbegal, alimentato dallo stesso acquedotto che ri-fornisce d’acqua la città, è un ottimo esempio di un impianto tecno-logico di grande impatto nel paesaggio, la cui produzione era destinataad un mercato più ampio di quello della città. Impianti come quello diBarbegal suscitano tutta una serie di importanti interrogativi su chiistruisse e organizzasse le nuove forze-lavoro, chi rendesse disponi-bile il capitale, se il guadagno nello stoccaggio e nella redistribuzione

della farina e di altri cereali macinati fosse maggiore del grano stesso,se i profitti e i vantaggi provenienti da impianti di tale complessità fos-sero maggiori rispetto a macine convenzionali. Infine sarà da chiedersise questa architettura “industriale” fosse di proprietà imperiale o mu-nicipale, privata o piuttosto gestita da un collegium di mugnai.Che l’impiego di tecnologie che, utilizzando una terminologia odier-na, potremmo definire ‘avanzate’ implicasse non solo una stretta re-lazione tra tecniche complesse e interessi di grandi investitori o digruppi organizzati nelle realtà urbane dell’impero romano, ma an-che comportasse di fatto l’esistenza di tutta una capillare infrastrut-tura di supporto (finanziaria, logistica, legislativa) è documentato daun interessantissimo dossier epigrafico provvisto di una ecceziona-le, quanto rara testimonianza iconografica, ritrovato recentementenella città frigia di Hierapolis (v. sez. 3, 13).Si tratta della parte laterale di un coperchio di sarcofago (fig.8), ri-trovato nella necropoli cittadina, che porta incisa un’iscrizione fune-raria con al centro la riproduzione a rilievo di un congegno meccanico.La datazione del monumento si circoscrive probabilmente nella pri-ma metà del III sec. d.C. Il testo in greco porta il seguente testo

M. Aur. Ammianos, cittadino di Hierapolis, esperto come De-dalo al lavoro con la ruota, realizzò (il meccanismo rappresen-tato) con l’abilità di Dedalo; e ora qui rimarrò

(trad. A. Ritti 2007)

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Fig. 5 Veduta aerea della valle di Baux, nei pressi dell’antica Arelate (Arles, Provenza): alla sommità del

pendio si distinguono i resti dei pilastri e degli archi che sorreggevano l’acquedotto, mentre in basso le

emergenze dell’eccezionale mulino di Barbegal realizzato probabilmente in età traianea (Foto Leveau).

Fig. 8 Hierapolis, coperchio di

sarcofago dalla necropoli nord con

rappresentazione a rilievo della sega

idraulica per tagliare la pietra e

iscrizione funeraria di M. Aur.

Ammianos: prima metà del III sec.

d.C. (da Ritti-Grewe-Kessener 2007)

Fig. 6 Pianta del complesso del mulino di

Barbegal: si riconosce il tracciato dei due

acquedotti che, confluendo in uno stesso bacino

collettore, vanno ad azionare la serie di 16 ruote

a pale; si tratta

di un edificio di 61 x 20m simmetricamente

diviso in due settori (da Leveau 1996).

Fig. 7 Modello ricostruttivo del mulino di

Barbegal, si tratta di una serie di ambienti

disposti sul pendio e separati da una scalinata

centrale, in una posizione ottimale per lo

sfruttamento della forza idraulica: l’acqua

incanalata all’interno dell’edificio in due condotte

forzate discendenti, andava ad azionare una serie

di ben 8 coppie di ruote a pala (Museo

Archeologico di Arles).

L’immagine scolpita a rilievo attesta con dovizia di particolari unamacchina con duplice sega per materiali litici azionata da forza idrau-lica: questa rappresentazione costituisce un unicum nel suo genere,perché non solo permette di ricostruire la macchina ma anche di ca-pirne il tipo di funzionamento. Come si evince dalla ricostruzioneproposta (fig.9) l’energia era generata dalla rotazione di una granderuota a pale sotto la spinta dell’acqua corrente: la potenza ottenutaera distribuita tramite una ruota dentata a demoltiplicatore. Questo,a sua volta, andava ad azionare contemporaneamente due ruote do-tate di leve che producevano l’oscillazione regolare delle due seghein metallo fissate in una struttura lignea e appoggiate sui blocchi datagliare. Per quanto concerne differenze e peculiarità tra antico e mo-derno, il congegno meccanico così ricostruito di Hierapolis illustraadeguatamente la concezione antica di machina come strumentosottoposto all’azione di una forza esterna, altresì capace di amplifi-carla e canalizzarla in modo da ottenere risultati diversamente nonperseguibili, se non con enorme sforzo. Simili impianti sono stati ri-costruiti sulla base dei reperti archeologici ritrovati ad Efeso e a Ge-rasa, ma databili non prima del VI sec. d.C.: l’eccezionalitàdell’esemplare da Hierapolis consiste proprio nella datazione estre-mamente più antica rispetto a questi impianti di età bizantina. Contro la spesso sostenuta concezione di isolamento o di emargi-nazione degli artefici antichi, come pure contro la separazione trautilità e finalità pratica di una creazione e il riconoscimento di un’in-trinseca genialità inventiva da parte di un ideatore, testo e immagi-ne sul sepolcro ierapolitano documentano un altro risvolto ineditodel rapporto tra artefice e creazione tecnologica. Dalle parole di Pli-nio comprendiamo il significato del rimando a Dedalo, mitica figu-ra del ‘primo inventore’: Ad aprire la prima bottega di falegname fuDedalo, il quale inventò anche la sega, l’ascia, il filo a piombo, la tri-vella, la colla, la colla di pesce (Plinio, Naturalis Historia 7, 198). Il ter-mine trochodaidalos, cioè ‘emulo di Dedalo nel creare un congegnoa ruote’, enfatizzato dall’espressione ‘per mezzo di una techne de-dalica’, sembra alludere, pur nella frammentarietà del discorso, aduna realtà sociale in cui c’era spazio per una gerarchia generata daiprocedimenti tecnici e dalle macchine, dove il fiero M. Aur. Ammia-nos meritava, per capacità e competenza, rispetto e dignità. Analogamente al testo anche la scelta dell’immagine, destinata adaccompagnare il defunto e a immortalarlo agli occhi della sua co-munità, marcava l’accento su quanto l’ideazione di un congegnomeccanico costituisse un valore fortemente rappresentativo: capa-cità tecnica e applicativa, quella creativa e innovativa appaiono stret-tamente associati al senso di identità civica e di stato sociale espressodal defunto.

Quale era lo sfondo sociale in cui viveva e lavorava il brillante in-ventore del congegno di Hierapolis? Contro l’idea di una qualsiasi forma di emarginazione di questi ar-tefici, la sintesi tratta dalla vasta documentazione epigrafica della cit-tà ci permette ricostruire un quadro variegato di associazioni: daquelle di chi lavorava il legno, a quelle per il marmo e gli altri mate-riali litici, assieme a coloro che invece utilizzavano il meccanismodella ruota per gli scopi agricoli. Ma tra tutte spicca soprattutto lasyntechnia degli hydraletai, vale a dire l’associazione di coloro chesono impegnati nell’ambito dei congegni meccanici ad energia idrau-lica: un network composto da chi inventa e progetta, costruisce edinstalla, ma anche presta lavoro di manutenzione e riparazione dimacchine concepite come quelle di Barbegal e di Hierapolis. Come la storia dell’impero di Roma costituiva un sistema di realtàdinamiche, in continua trasformazione e cambiamento, anche il pen-siero scientifico nella mentalità romana si profila come percorso ecreazione incessante: in un autore come Seneca si riflette ad esem-pio più volte l’immagine di scienza come cammino con ostacoli edifficoltà da superare, come sforzo costante, come processo creati-vo continuo. Le machinae, per noi esperibili come costrutti teoricinella prospettiva di autori come Vitruvio o come reali entità nelle evi-denze archeologiche (l’impianto dei mulini a Barbegal) o iconogra-fiche (il sarcofago di Hierapolis), furono adeguati strumenti dierogazione di energia, la cui potenza fu applicata con sforzo calibratoe intelligente a diversi ambiti di attività, apportando vantaggi eco-nomici e benefici concreti alla vita materiale e sociale della societàromana: esse restarono, dunque, per tutta la durata dell’impero unmezzo efficace di espressione del potere e del dominio di Roma.

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zioni nel contesto di società antiche o moderne è conquista dell’an-tropologia culturale. La definizione che ne fornisce il dizionario lin-guistico Treccani è per noi assai rilevante e chiarificatrice delleimplicazioni e delle categorie che essa coinvolge. «In antropologiaculturale tecnologia è l’insieme delle attività materiali sviluppate dal-le varie culture per valorizzare l’ambiente ai fini dell’insediamento edel sostentamento; in questo senso generale la Tecnologia costitui-sce una branca fondamentale della cultura e talvolta la si identificacon la cosiddetta ‘cultura materiale’, ma in realtà il suo significato èassai più esteso poiché la ricerca connessa alla tecnologia incide tan-to sulla conoscenza teorica della realtà e della natura costitutiva deimateriali, quanto sul loro uso e sulle loro proprietà con influenze di-rette nell’organizzazione sociale e politica». Se estrapoliamo alcuniconcetti chiave, appare evidente da questa definizione che ‘tecnolo-gia’ implica ‘conoscenza scientifica’ applicata a determinate condi-zioni ambientali, al fine di migliorare le condizioni di vita di un grupposociale che, tuttavia, mediante la sua cultura e il suo vissuto storico,incide e influenza variamente l’applicazione e l’entità stessa delleconquiste tecnologiche. Più semplicemente: scienza, tecnologia, am-biente/oikos (economia nel senso etimologico greco) e società cul-turale sono connesse in modo ineludibile. L’approccio antropologico ha rivoluzionato lo studio storico del mon-do antico e la percezione moderna di quelle variegate società e deiloro sistemi economici. Unitamente allo studio delle fonti letterariee in correlazione con le nuove tecniche metodologiche legate alla ri-cerca archeologica, nella prospettiva dell’antropologia culturale glistudi storici sul mondo antico si sono valsi e hanno dialogato anchecon discipline che spaziano, per esempio, dalla geologia alla paleo-botanica, alla paleontologia, dall’ingegneria idraulica e civile alla geo-grafia ambientale. Da ciò è derivato un aumento considerevole didati quantitativi e qualitativi disponibili per la ricostruzione storicadegli aspetti sociali ed economici del mondo antico. Ma, soprattut-to, è cambiato l’approccio metodologico nell’impostare le doman-de canoniche riguardanti le strutture economiche e le acquisizioniscientifico-tecnologiche del mondo greco-romano e il suo presunto‘decollo mancato’.Viceversa, tra gli anni ’60 e ’80 del secolo appena trascorso la vi-sione dell’economia e della tecnologia antica era ancora radicata al-l’idea monolitica di un sostanziale immobilismo e ‘sottosviluppo’del mondo mediterraneo. Moses Finley, studioso di economia an-tica all’Università di Cambridge sino al 1986 anno della sua morte,è stato tra i principali sostenitori di questo fallimento economicodel mondo classico. La sua ricostruzione storica dell’economia an-

Non v’è dubbio che il mondo romano e l’antichità classica in gene-rale non conobbero una rivoluzione industriale e tecnologica così co-me si ebbe in Europa e in Gran Bretagna tra il XVIII e XIX secolo.Studiosi dell’economia antica e medievale, archeologi o storici dellascienza non di rado si sono interrogati sulle cause del ‘decollo man-cato’ della tecnologia romana, con manifesto disappunto anche peril fallito salto di qualità verso l’industrializzazione che Roma, seppurepotenza politica ed economica del Mediterraneo antico, non fu ingrado di realizzare. Perché l’impero romano non riuscì a produrre ilsalto di qualità verso la rivoluzione industriale? I Romani erano con-sapevoli che diverse conoscenze scientifiche potevano migliorare lecondizioni della vita quotidiana? Quale era il rapporto tra scienza,tecnologia ed economia nel mondo antico?Questi interrogativi non cessano di suscitare tra esperti e meno esper-ti un acceso dibattito, tuttavia spesso ancora radicato su alcuni luo-ghi comuni fuorvianti e su erronee impostazioni dei non facili problemiimplicati nel trinomio scienza-tecnologia-economia. Senza pretesadi giungere a considerazioni esaustive e conclusive, in questa sedeintendiamo fissare alcuni dati importanti, che potranno aiutare nel-la lettura visiva dei prodotti di ciò che, per converso, definiamo tec-nologia romana. In primo luogo ci appare necessario:a) chiarire il significato e l’interdipendenza tra scienza e tecnologia,tra queste e le attività economiche;

b) superare e ribaltare la prospettiva erronea legata all’idea di unastagnazione scientifico-tecnologica e, quindi, economica del mon-do antico;

c) considerare adeguatamente anche le mentalità e i valori storico-culturali presenti e persistenti nella società classica romana peruna corretta valutazione dell’impatto scientifico e tecnologico sul-le economie antiche.

Al di là di queste premesse generali, infine, le singole sezioni di que-sta mostra con il loro impatto visivo immediato possono costituiretra le più valide testimonianze dell’effettiva relazione tra acquisizio-ni scientifiche, tecnologia ed economia nel mondo classico. Così lasemplice forza delle immagini può per se stessa offrire l’evidenzamigliore nel trovare qualche risposta a tali quesiti, senza ulteriore ri-corso alle parole.

Il modello finleyano: stagnazione tecnologica o progressoeconomico del mondo antico?

Il significato del termine ‘tecnologia’ e lo studio delle sue applica-

Economia e tecnologia nell’antica Roma

Orietta Dora Cordovana

Fig. 9 Disegno ricostruttivo del meccanismo progettato da M. Aur. Ammianos: la forza del getto d’acqua aziona il movimento della ruota che a sua volta fa funzionare le due seghe per il taglio dei blocchi (da Ritti-Grewe-Kessener 2007)

Bibliografia Argoud 1994; Basalla 1988; Brun 2006; Carandini 1979; Carandini 1980; Cordovana 2007; Cracco Ruggini1980; Cuomo 2007; D’Andria 2003; D’Andria-Caggia 2006; Domergue 1990; Domergue 2006; Domergue2008; Drexhage-Konen-Ruffing 2002; Finley 1973; Finley 1981; Frontisi-Ducroux 1975; Gara 1992; Gara 1994;Giardina 1989; Greene 1986; Greene 1994; Greene 2000; Greene 2006; Gros 1997; Hadot 1984; Horden-Purcell 2000; Lavan-Zanini-Sarantis 2007; Leveau 1995; Leveau 1996; Lewis 1997; Lo Cascio 2006; Meissner1999; Oleson 1983; Oleson 1984; Pleket 1967; Pleket 1988; Rakob 1993; Repellini 1989; Ritti 1995; Ritti-Grewe-Kessener 2007; Romano 1987; Rosumek 1982; Ruffing 2008; Traina 1994; Wikander 1981; Wikander1984; Wikander 1985; Wikander 1989; Wikander 2000; Wilson 2002; Ziman 2000; Zimmermann 2002

tica ha alimentato, da un lato, il pregiudizio ancora parzialmentediffuso nella mentalità moderna sulla presunta assenza di origina-lità e sulla scarsità di conoscenze scientifiche del mondo romano;dall’altro lato, ha contribuito a radicare l’idea che un’effettiva cre-scita economica e tecnologica non sarebbe stata una conquista de-cisiva del mondo classico.Nella ricostruzione storica di Finley la civiltà greco-romana non sa-rebbe stata in grado di sviluppare le conoscenze scientifiche e tec-nologiche ereditate dal passato. Nelle società classiche, infatti, nonvi sarebbe stata una applicazione pratica delle invenzioni scientifi-che ai fini di un incremento della produttività economica e per unmaggiore benessere collettivo. In altri termini: le conquiste scientifi-che delle scienze esatte (caratterizzate da metodo empirico dimo-strativo) non si sarebbero tradotte in scienza ‘applicata’ attraversole ‘invenzioni’. Le invenzioni a loro volta non si sarebbero tradotte in‘innovazioni’ – cioè tecnologia – con una ricaduta positiva sull’eco-nomia, cioè su quanto concerne l’organizzazione della produzionee la distribuzione delle ricchezze. Quali erano le ragioni di questamancata connessione tra scienza, tecnologia ed economia? Finleyindividuava nell’organizzazione stessa delle società antiche, forte-mente dominate dal sistema schiavistico, uno dei più grossi limiti alprogresso tecnologico ed economico: gli schiavi sarebbero stati pre-feriti e impiegati al posto delle macchine, inibendo così l’avanza-mento della tecnica. Lamentava anche il carattere poco incline agliinvestimenti produttivi delle classi dirigenti dell’impero romano, cheper un vizio di mentalità eccessivamente rivolta verso una miope te-saurizzazione di capitali era assai restia a finanziare nuove inven-zioni e applicazioni della tecnologia in vari settori economici. Tuttociò induceva Finley a costruire una visione semplificata e poco arti-colata del sistema economico antico, sostanzialmente statico e ca-ratterizzato da una continuità uniforme nel tempo e nello spazio.Non rilevava alcuna significativa trasformazione delle attività e pro-duttività economiche nei diversi luoghi del Mediterraneo e nel lun-

go periodo (una decina di secoli!) della dominazione romana. L’evo-luzione e le conquiste tecnologiche più significative specie in agri-coltura, il settore economico produttivo più importante, sarebberosopraggiunte solo a partire dal Medioevo (ad esempio il mulino adacqua, o l’aratro pesante), quando si sarebbe effettuata un’effettivaaccelerazione della produttività economica in Europa.La ricerca storica e le scoperte archeologiche successive agli anni ’80hanno in gran parte contrastato e smentito in modo puntuale il mo-dello economico di Finley. Nei suoi anni mancavano ancora le nu-merose scoperte archeologiche ed epigrafiche derivate dalle provinceromane del Mediterraneo; non si disponeva ancora dei dati interdi-sciplinari ad incrocio metodologico e comparativo tra l’antropologiaculturale e le discipline ambientali.È profondamente cambiato, infatti, il quadro delle testimonianze ar-cheologiche nella cultura materiale, come anche la disponibilità di do-cumentazione amministrativa e letteraria, arricchita ad esempio da uncerto numero di papiri egiziani e orientali, da iscrizioni, o dalla miglioreconoscenza degli scritti di agronomia. E sono notevolmente cresciutii dati qualitativi e quantitativi ricavabili dallo studio della cultura ma-teriale. Diversi manufatti che in un primo momento non erano statiriconosciuti, come il mulino ad acqua (sez. 3.12) (di contro databilegià in età ellenistico-repubblicana al III secolo a.C.) o a trazione ani-male, o la ruota idraulica (sez. 3.11) utilizzata nelle miniere per il solle-vamento di materiale, successivamente sono stati identificati concertezza e restituiti alla loro funzione originaria, grazie anche al mi-glioramento delle tecniche e metodi di indagine archeologica. Inoltre,l’attuale conoscenza dello sviluppo urbano nei secoli del dominio ro-mano, delle tecniche costruttive, utilizzate sia nell’edilizia pubblica cheresidenziale, e dell’incidenza demografica sul territorio hanno contri-buito a sovvertire totalmente l’idea di una sostanziale staticità del mon-do antico incapace di produzioni industriali e seriali, come ad esempiomattoni e ceramica, o utensili vari di uso quotidiano. Ma un dato distraordinaria importanza riguarda i calcoli recentissimi sull’inquina-

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mento dell’atmosfera nell’emisfero settentrionale, attraverso l’analisidei sedimenti glaciali e lacustri in Europa e in Groenlandia. I livelli dicontaminazione causati dall’estrazione mineraria, per i metalli desti-nati alla monetazione, durante l’età romana sono in assoluto i più al-ti e con picchi raggiunti successivamente solo durante la rivoluzioneindustriale. Risulterebbe da questi dati, infatti, che l’estrazione di ra-me, argento ed oro (sez. 8.1) sarebbe stata assai elevata in Europa so-prattutto tra il I secolo a.C. e il II d.C. Da ciò si può facilmente dedurreche l’entità dei traffici commerciali, in ambito europeo e mediterraneo,l’incremento della produttività economica, sostenuta dall’emissionedi monete imperiali, furono particolarmente intensi e sembrano re-stituire dati tutt’altro che conformi ad un quadro di stagnazione e de-pressione economica.Anche il progresso degli studi sulla schiavitù antica e sul sistema so-ciale e culturale romano hanno determinato una decisiva revisionedel modello di Finley. Alcune considerazioni di ordine storico e so-cio-ambientale hanno ridimensionato notevolmente l’idea che lamassiccia presenza di manodopera schiavile sul mercato del lavoroe nelle attività economiche abbia di fatto condizionato, con impattofortemente negativo, lo sviluppo tecnologico di età romana. In pri-mo luogo, dopo il periodo delle grandi conquiste di età repubblica-na, l’afflusso di prigionieri di guerra – cioè di schiavi – dovette ridursinotevolmente nella maggioranza delle province. In secondo luogo,nei periodi successivi alle conquiste anche la loro riproduzione na-turale dovette essere molto limitata, condizionata com’era da fatto-ri vari, quali le condizioni ambientali in cui viveva gran parte di essie, nondimeno, l’altissima mortalità infantile e femminile che afflig-geva in generale tutti i gruppi sociali della popolazione antica. Il fre-quente ricorso alle manomissioni, inoltre, secondo quanto previstodal diritto romano, da un lato limitava di fatto la disponibilità di for-za lavoro schiavile ma, dall’altro, riduceva sempre più le differenzetra manodopera schiavile e quella libera, con riflessi significativi sul-le condizioni e sul costo stesso del lavoro nel mercato produttivo.

In relazione, poi, alla mancanza di spirito imprenditoriale tra i grup-pi dirigenti romani, accusati da Finley di eccessiva attitudine alla te-saurizzazione, sono state sollevate altre obiezioni. Nei sistemiproduttivi legati alle principali attività economiche del mondo anti-co (in particolare in agricoltura, nelle attività manifatturiere, nel com-mercio) è stata osservata una indubbia propensione allarazionalizzazione economica delle risorse, degli investimenti e, quin-di, dei costi nell’adozione di nuove tecnologie da parte dei gruppipossidenti e imprenditoriali. Diversi documenti in papiri o negli scrit-ti degli agronomi hanno dato prove che contrastano l’idea finleyanariguardante quella sorta di miope tirchieria negli investimenti, chesarebbe stata caratteristica dei ceti abbienti dell’antichità. Numero-si esempi pratici mostrano come la mancata adozione di un’inno-vazione tecnica rispondesse di frequente a scelte economiche razionali,specie nel caso in cui i costi di produzione, installazione o manu-tenzione di una macchina fossero particolarmente elevati rispetto aiguadagni ricavabili. Un caso emblematico fra tutti è quello della mac-china di Erone (prototipo antico della macchina a vapore moderna),con la quale si sarebbe potuta sfruttare l’energia derivante dai gascompressi, se non fosse stato per i costi alquanto elevati di legno ecarbone nel Mediterraneo, materie prime essenziali per il suo fun-zionamento. La cosa non stupisce, se consideriamo che anche nel-la nostra avanzatissima società post-industriale i costi proibitivi dellatecnologia odierna impediscono, ad esempio, una commercializza-zione di massa delle autovetture ad idrogeno, o una diffusa utiliz-zazione di pannelli solari per lo sfruttamento di energia alternativache abbatta i livelli di inquinamento ambientale da anidride carbo-nica. In via collaterale, però, nel mondo antico abbiamo anche esem-pi di ‘calcolo del rischio’, con alti investimenti proprio in vista diguadagni elevati. Alcuni papiri egiziani (l’Archivio di Eronino) sonotestimonianza diretta di questa volontà rivolta alla massimizzazio-ne dei profitti, specie nei fondi di alcuni proprietari terrieri nella re-gione del Fayum durante il III secolo d.C. La razionalità economica

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Distribuzione dei mulini ad acqua

e delle seghe idrauliche

(da Brun 2006; rielab. grafica: F. G.)

Doppia ruota idraulica delle Terme

Stabiane a Pompei

(ricostruzione a 1/5 del vero

di L. Jacono.

Roma, Museo della Civiltà Romana)

nella gestione fondiaria sarebbe evidente in questi documenti chemostrano un sistema di contabilità alquanto sofisticato, nonché no-tevoli investimenti per il sistema di irrigazione dei campi e impiantiper il sollevamento dell’acqua (sez. 3.10). Ancora nel contesto nor-dafricano, ma questa volta in Tunisia, in un’iscrizione sepolcrale delI secolo d.C. il committente vanta di essere stato il primo ad impor-tare la viticoltura nell’area, sostenendo gli alti costi per il rifornimentoidrico della regione. Allo stesso modo, durante il principato di Clau-dio (41-54 d.C.) alcuni imprenditori avrebbero sostenuto le spese ele-vatissime per le grandiose opere di prosciugamento del lago delFucino, in vista degli ampi appezzamenti di terreno che avrebberoottenuto e degli alti profitti che ne avrebbero ricavato con lo sfrutta-mento nell’economia fondiaria (Svetonio, Claudio, 20).

Innovazione tecnica ed economia antica: gli artefici

Il settore agricolo, che nel mondo antico costituì la principale vocenella produzione economica, è quello in cui è possibile osservare chia-ramente l’entità e la qualità del legame tra innovazioni tecnologichee il loro impatto, per certi versi di ‘massa’, nell’economia antica. Unodei problemi principali nelle aree del Mediterraneo era quello dell’ir-rigazione artificiale dei campi (sez. 7), che comportava anche neces-sità di sollevamento delle acque fruibili dalle falde del sottosuolo odai fiumi. Un inventore anonimo nell’Egitto di età ellenistica sembraabbia progettato la ruota idraulica, che rivoluzionò del tutto l’irriga-zione in agricoltura. Ad essa nel III secolo a.C. fecero seguito altre in-venzioni (ad esempio la pompa idraulica di Ctesibio; la vite diArchimede; il sifone di Filone di Bisanzio) (sez. 3.3, 8, 10). E la stessaenergia ricavata dall’acqua fu estesamente utilizzata per la costru-zione di mulini in molte province dell’impero romano specie tra il I eil III sec. d.C. ma, soprattutto, nei processi di estrazione mineraria. Inquesto settore i Romani furono i primi a sviluppare la tecnologia idrau-lica connessa allameccanizzazione di tutte le fasi nei processi estrat-tivi e di lavorazione dei minerali e dei metalli. Gli ingegneri romanierano perfettamente in grado di sfruttare con estrema versatilità lastessa fonte di energia per scopi diversi; l’elaborazione tecnica rag-giunta dai loro impianti realizzati su vasta scala, ad un vero e propriolivello industriale, non ha avuto più eguali sino al XIX secolo.Lo sviluppo tecnologico nell’attività estrattiva e mineraria (sez. 8.1-3)costituisce un settore abbastanza sui generis nel quadro socio-eco-nomico antico, per i suoi altissimi costi e finanziamenti in prevalen-za di natura statale, per le sue interconnesse relazioni al controllopolitico ed economico di tutto l’impero. Recenti studi nelle minierespagnole di età romana hanno confermato i dati forniti da Plinio ilVecchio nella Storia Naturale (33.21.72-3) sulle tecniche utilizzate inquesto settore produttivo. Si rivelano particolarmente attendibili an-che i costi altissimi da lui forniti per la realizzazione degli impianti,che dovevano essere provvisti di un rifornimento idrico costante, ga-rantito dalla costruzione di uno o più acquedotti, che correvano persvariati chilometri dalle sorgenti sino all’area stessa delle miniere. Leragioni e l’impatto economico di queste innovazioni tecnologiche so-no fortemente legate alle esigenze politiche del potere centrale che,in primo luogo, era anche il principale committente in tecnologia,nonché artefice materiale degli investimenti. Le miniere, infatti, era-

no vitali per la disponibilità di moneta corrente imperiale che irrora-va qualsiasi attività economica, nonché gli alti costi sostenuti dallostato per le spese di guerra. I giacimenti minerari, del resto, forniva-no la materia prima per l’armamento di una società e di uno stato es-senzialmente bellico, che controllava a livello politico e sociale i maggioriraggruppamenti urbani dell’impero anche attraverso l’annona urba-na e militare, con continui e crescenti rifornimenti di grano e prodot-ti agricoli vari (specie olio, vino, carne di maiale). Tutto questo puòdare un’idea di quanto fosse complessa e sfaccettata la realtà dellasocietà antica. In essa coesistevano settori ad altissima innovazionetecnologica (con una prevalenza di finanziamenti imperiali) e altri am-biti economici in cui era anche frequente l’intervento di privati ab-bienti o di gruppi imprenditoriali, che di certo non potevano competerecon le finanze imperiali, ma che erano spesso gli artefici della rica-duta economica e della distribuzione di massa di quei prodotti frut-to dell’avanzamento tecnologico. Non di rado, come si è visto, neidiversi settori economici – quali l’agricoltura, il commercio, o l’attivi-tà manifatturiera – la ‘borghesia’ imprenditoriale e ‘industriale’ ro-mana teneva in conto principi di razionalità economica nei costi e nelcalcolo del rischio dell’innovazione tecnologica. Così l’attività e la ma-nodopera umana potevano essere preferite alle macchine nel caso incui queste si rivelassero troppo onerose nei costi. Al contempo, l’ap-proccio culturale in questo tipo di società – che non perde mai le sueconnotazioni schiavistiche – rimane sempre legato ad un’idea di in-terscambiabilità tra uomini e macchine: uomini di condizione umileo servile possono sostituire le macchine che, per questo motivo, inalcuni settori possono risultare del tutto superflue ed inutili. Dietroogni invenzione per il funzionamento di ogni macchina c’erano ca-tegorie diverse di uomini: quale era l’attitudine mentale romana neiconfronti di queste categorie sociali? L’umanità variegata che si muo-veva intorno alle macchine apparteneva comunque agli strati consi-derati inferiori nella società romana e per questo motivo non degnidi considerazione, oltre agli schiavi forza-lavoro da sfruttare per il mas-simo rendimento, uomini liberi, operai, artigiani e tecnici diversi.

«Tra macchine e strumenti la differenza sembra essere che l’effi-cienza delle macchine dipende dalla presenza di numerosi ope-rai, vale a dire dall’esercizio di una forza più grande, come nel casodelle baliste e delle presse dei torchiatori; al contrario è con la ma-no abile di un solo operaio che gli strumenti eseguono il compi-to loro assegnato, come nel caso delle rotazioni dello scorpioneo degli ingranaggi delle anisocicle. Strumenti e procedimenti mec-canici hanno dunque una necessità pratica: senza di loro non v’ècosa che non sia lenta e impacciata. Ogni meccanismo trova lasua origine nella natura e il suo principio nella rotazione del mon-do, che è stata guida e maestra. Infatti per prima cosa osservia-mo il sistema che il sole, la luna e i cinque pianeti costituiscono;se non vi fossero leggi meccaniche a regolare la loro rotazione,noi non avremmo, a intervalli regolari, la luce e la maturità deifrutti. Avendo i nostri progenitori osservato questi fenomeni, es-si trassero dalla natura dei modelli, imitandoli e ispirandosi alleopere divine, ne trassero delle applicazioni utili alla vita. E così leresero di più facile realizzazione, alcune attraverso le macchine ele loro rotazioni, altre a mezzo di strumenti: e così quelle cose dicui percepirono l’utilità pratica, con l’applicazione, la tecnica el’elaborazione teorica le fecero a poco a poco progredire».

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È questo l’esordio del decimo libro su L’architettura (de Architectura,10, 1.3-4), riguardante la meccanica e le invenzioni tecnologiche, com-posto da Vitruvio durante il principato di Augusto, verso la fine del Isecolo a.C. Il passo, frutto della sua formazione di architetto profes-sionista e tecnico, riflette in modo implicito la connessione tra quel-le che per gli antichi erano le arti liberali (matematica, retorica, musica,filosofia, che a quei tempi includeva anche fisica, astronomia, geo-metria) e la loro applicazione pratica per la realizzazione di strumentie macchine, utili in vari mestieri ed attività. Le arti liberali erano es-senziali nella formazione ed educazione dei cittadini liberi, apparte-nenti ai gruppi sociali benestanti, ma risultavano inevitabilmenteinvolgarite e svilite nel momento in cui i ‘tecnici’ le applicavano allapratica quotidiana dei lavori manuali. La mentalità aristocratica ro-mana distingueva nettamente tra attività intellettuali, esclusivamen-te finalizzate alla cura dello spirito, e tutte le altre attività che avesseroun fine pratico in ogni genere di mestiere e occupazione, anche nel-la medicina, in ingegneria e architettura, perfino nell’insegnamento.Non di rado questi ‘tecnici’ nelle attività pratiche, pur spesso apprezzatiper il loro ingegno, erano schiavi. Schiavi colti, ma pur sempre schia-vi, che potevano anche risalire la scala sociale grazie al loro talento,divenendo ‘emancipati’, cioè liberti. Altri, nati liberi, potevano fare for-tuna grazie alle loro conoscenze tecniche unite ad un acuto intuitoimprenditoriale. Plinio e Vitruvio riferiscono di un tale Caio Vestorio,oscuro apprendista presso un artigiano egizio, che introdusse a Poz-zuoli la tecnica del caeruleum, colorante azzurro a base di rame, svi-luppandola e perfezionandola. Fu anche artefice di importanti migliorienelle tecniche metallurgiche, nella lavorazione ceramica della sigilla-ta rossa e nel vetro soffiato. Divenuto ricchissimo fu anche amico diCicerone; prestava denaro, presumibilmente ad usura, e seppe tra-sformare la sua città in un avanzato centro manifatturiero e com-merciale. Nonostante il successo economico, però, uomini comeVestorio non potevano mai colmare il profondo divario socio-cultu-rale e per certi versi ideologico che li separava dalla nobiltà romana edai ceti alti in generale. E per quanto fosse assai variegata e social-mente articolata questa categoria di uomini legati al mondo della tec-nologia, attraverso arti e mestieri, attraverso l’imprenditoria, il pregiudiziodel Romano, libero cittadino e possidente, relegava questa umanitàa contesti ignobili, volgari e triviali per antonomasia.

La grande massa di lavoratori, operai ed artigiani, schiavi o liberidi condizione umile che fossero, costituiva il serbatoio naturale perla manodopera da impiegare nei vari contesti produttivi. Il proble-ma principale per gli imprenditori romani, però, spesso fu quellodel reperimento di manodopera qualificata o da addestrare per losviluppo di determinate competenze e abilità. Per questa ragionea volte si poteva preferire l’investimento in macchine e tecnologia,ma ciò che qui si deve evidenziare è che questa tendenza già illu-strata conviveva di fatto con la mentalità e necessità di non rispar-miare sulla forza lavoro umana a vantaggio delle macchine, lasciandopericolosamente inoperose ingenti masse urbane di individui conrisorse economiche assai spesso limitatissime. C’era dunque inquel contesto sociale e culturale un problema di ordine politico. Equesta sembra essere stata una delle preoccupazioni frequenti delpotere centrale per una efficace e corretta politica di welfare, di-remmo oggi. Ad esempio, così Svetonio a proposito dell’impera-tore Vespasiano:

«Ad un tale che gli proponeva di trasportare sul Campidoglio co-lonne gigantesche con poca spesa utilizzando un congegno mec-canico, Vespasiano compensandolo con del denaro per la suainvenzione lo congedò gentilmente senza tuttavia accettare la suaproposta dicendo “lascia che io sia in grado di nutrire il popolo mi-nuto”» (Svetonio, Vespasiano, 18).

In conclusione, il quadro che ricaviamo dall’insieme di queste ten-denze e coesistenze è dei più complessi, e di certo non può essereinterpretato secondo prospettive unilaterali. La tecnologia del mon-do antico mostra uno schema di progresso tutt’altro che lineare edevolutivo, interdipendente e legata com’è alle varie situazioni eco-nomiche e politiche nei tempi e spazi dei diversi sistemi sociali e cul-turali cui fa riferimento. E, soprattutto, nel mondo antico essa appareinterdipendente e legata ad una società le cui caratteristiche sonotutt’altro che semplici e ‘primitive’. Era quella romana una societàarticolata e complessa, con le sue regole culturali con le sue stratifi-cazioni e movimenti di scambio tra i vari gruppi, con possibilità diascesa e cambiamento di status, ma che non rinunciò mai alle suegerarchie e differenziazioni di classe.

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BibliografiaBresson 2006, pp. 55-80; Cuomo 2007; Domergue, Bordes 2006, pp. 197-223; Finley 1984; Geymonat,Minonzio 1998a, pp. 189-319; Geymonat, Minonzio 1998b, pp. 321- 458; Giardina 1989; Giardina 1997,pp. 233-264; Greene 1990, pp. 209-219; Greene 2000, pp. 29-59; Marcone 2006, pp. 181-195; Morel1989; Traina 1994; Traina 2006, pp. 253-269; Wilson 2002, pp. 1-32; Wilson 2006, pp. 225-236.

Il mondo del lavoro in epoca romana era assai più complesso edarticolato di quanto, forse, di solito si pensi. Esso, infatti cono-sceva nei vari settori delle vere e proprie figure di professionisti edi maestranze specializzate a cui era riconosciuto un ruolo socia-le oltre che una rilevanza economica. Con l’affermarsi dell’econo-mia urbana su quella rurale, infatti, si sviluppò una classe dilavoratori, intermedia tra coloro che detenevano il potere e la ric-chezza e i ceti più bassi, che arrivò a rappresentare uno dei grup-pi centrali della società dell’epoca, sempre più rispettato e integrato.L’artigiano da sempre ha basato la propria professionalità sul pos-sesso di conoscenze tecniche sia teoriche che pratiche che quali-ficavano i suoi prodotti e ne determinavano il valore e il costo;destinazione del lavoro dell’artigiano era, sempre e comunque, ilmercato. Quello artigianale era per di più un sapere pratico, unatecnologia empirica che si basava spesso sul ripetere e sull’adat-tare elementi già noti provenienti dall’esperienza, senza la vellei-tà di inventare nulla di nuovo, ma piuttosto di migliorare quantoappreso nel corso degli anni. Questo sapere era trasmesso di generazione in generazione at-traverso una diffusione orale e non scritta; al contrario, pochi de-gli autori dei trattati tecnici a noi pervenuti, come l’architettoVitruvio, avevano una conoscenza diretta di quanto avvenisse ma-terialmente nelle botteghe e nei cantieri, limitandosi a volte adenunciare principi teorici. Di tanti aspetti della vita quotidiana epratica di questi lavoratori, di conseguenza, in mancanza di datisia materiali che provenienti dalle fonti storiche noi ignoriamo qua-si tutto, come nel caso dell’organizzazione interna o dei probabi-li accorgimenti previsti per avere un minimo di sicurezza nel proprioluogo di lavoro. Ma, certo, ciò che possiamo cogliere grazie allevarie discipline storico-archeologiche è quanto sia cambiato, nelMediterraneo, nel corso dei secoli, il riconoscimento della pro-fessionalità posseduta che l’artigiano giungeva ad ottenere e laconseguente possibilità che ciò gli procurasse un’identità ed unruolo sociale.Anche se oggi ciò può apparire scontato, il presentare se stessi at-traverso il lavoro svolto e il mostrare, di conseguenza, orgoglio evolontà di essere valutati per esso è un portato quasi rivoluziona-rio della mentalità romana. I detentori del sapere professionalespecializzato, sia quelli nati liberi che i liberti (per non parlare de-gli schiavi) appartenevano alla plebe urbana e quindi ad una clas-se sociale certo non elevata; essi, però, attraverso il proprio lavoroed il guadagno accumulato grazie ad esso, potevano aspirare aduna vita migliore e ad una condizione persino agiata. I mestieri

banausici, cioè artigianali, fornivano concrete opportunità di asce-sa sociale sia all’interno della propria classe sociale sia, in alcunicasi, fino a raggiungere le classi superiori, magari col passaggiodi una o più generazioni. La società romana permetteva, infatti, alsuo interno opportunità di mobilità sociale notevoli sia per il mon-do antico che anche per molte delle epoche successive: la possi-bilità di giungere a ricoprire cariche politiche ed amministrative o,comunque, posizioni generalmente benviste e stimate nel conte-sto cittadino, quali in età imperiale sacerdozi come il sevirato1, nondipendeva esclusivamente dalla “nobiltà di nascita” ma anche dalpatrimonio e dalle risorse economiche accumulate nel corso de-gli anni attraverso la propria attività. Nonostante sia sempre rimasta una società profondamente clas-sista, il corpo sociale romano fu fino ad età tardo-antica caratte-rizzato da una rilevante fluidità ed in esso il figlio di un liberto,ossia di un ex schiavo, poteva in alcuni casi aspirare ad essere ac-colto nel senato locale, sempre se possedeva la necessaria di-sponibilità economica. Dunque l’artigiano, non essendo di solitoin grado di vantare una famiglia illustre o una tradizione di cari-che pubbliche di un certo livello alle spalle, poteva e voleva cele-brare con orgoglio la propria attività economica e le proprie capacità

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Ostia. Insegna della bottega di un carpentiere (da Pavolini 2000). La lastra di

terracotta era inserita nel muro esterno della bottega per indicarne l’attività

attraverso la rappresentazionie degli attrezzi in essa utilizzati: scalpelli, una

cazzuola, un martello da carpentiere, una riga e una squadra; la parte superiore,

oggi perduta, forse riportava il nome del proprietario.

Uomini e machinae:la realtà di artigiani e associazioni professionali nel mondo romano

Francesca Diosono

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Roma. Bassorilievo appartenente della tomba degli Antestii, una famiglia di

liberti. A fianco dei propri ritratt ha fatto riprodurre gli attrezzi usati nell’attività

lavorativa esercitata in vita. Appare interessante notare come l’elemento

identificativo personale (il ritratto) e l’elemento identificativo della propria

professione (gli strumenti) vengano rappresentati sullo stesso livello, quasi

attribuendo ad essi lo stesso valore (Roma, Musei Vaticani, da Amelung 1956).

Palmira. Stele funeraria di un cammelliere (da Zenobia 2002). L’influsso culturale

romano portò anche alle estreme propaggini orientali dell’impero il costume di

rappresentare nel proprio monumento funebre il lavoro che si svolgeva da vivi.

mi intensi e fondata sulla divisione e la specializzazione del lavo-ro, ma che comunque sarebbe erroneo definire, secondo i termi-ni moderni, una produzione industriale. Per quanto riguarda l’apprendistato, in molti mestieri il passag-gio di conoscenze avveniva di padre in figlio o da padrone a schia-vo; in questo secondo caso, spesso lo schiavo, una volta acquisitala libertà, poteva mettersi in proprio oppure rilevare l’attività incui già lavorava. Accadeva, infine, che artigiani specializzati ac-cettassero nella loro bottega adolescenti e/o bambini (sia nati li-beri che schiavi) che avrebbero lì lavorato per un periodo stabilitoallo scopo di imparare il mestiere. Nell’Egitto romano sono no-ti veri e propri contratti di apprendistato, chiamati didaskalikai.Tali apprendisti, non essendo ancora lavoratori specializzati, nonpotevano ancora fare parte delle relative corporazioni profes-sionali.5

Crescendo l’importanza dei lavoratori nella società a cui apparte-nevano, fin dai primi momenti emerse in loro l’esigenza di una

lavorative nonché, di conseguenza, il livello economico ed il gra-do di inserimento nel tessuto sociale raggiunti proprio attraversoqueste. Non a caso tante tombe romane raffigurano con insistenzagli attrezzi del mestiere esercitato in vita dal defunto, attraverso ilquale egli voleva essere ricordato. Porre nelle proprie iscrizioni fu-nebri e nei propri monumenti sepolcrali riferimenti di vario tipo alproprio lavoro significa, infatti, identificarsi con esso e conside-rarlo la propria massima espressione.Il lavoro si svolgeva nelle tabernae e nelle officinae, che potevanoessere di proprietà del lavoratore o in affitto o, ancora, di proprie-tà della corporazione a cui l’artigiano apparteneva. Le botteghe era-no spesso indicate in strada da un’insegna che piuttosto che riportareil nome dell’attività ne indicava visivamente alcune caratteristicheprincipali. Le corporazioni professionali potevano poi giungere adavere sedi imponenti, come nel caso del Piazzale delle Corpora-zioni di Ostia, portico in cui è possibile identificare, sulla base delmosaico pavimentale di ognuno degli ambienti, circa 60 sedi ap-partenenti ad altrettante corporazioni commerciali diverse. Le dimensioni delle botteghe e, di conseguenza, la quantità di lavo-ro che si svolgeva al loro interno dipendeva dal territorio in cui essesorgevano. Mentre in centri di piccola e media grandezza esse era-no di solito strutture semplici e comprendevano al proprio internopochi lavoratori, nelle grandi città le officine potevano raggiungereun’estensione assai maggiore e prevedere una complessa divisionedegli spazi al proprio interno; questa doveva probabilmente corri-spondere ad una suddivisione e specializzazione delle attività di co-loro che vi lavoravano e, forse, rispecchiare anche un’organizzazionegerarchica interna (ad esempio, ad Ossirinco una grande manifat-tura tessile in cui lavoravano numerosi operai prevedeva la figura delcapo officina, l’ergasteriarca2). Non bisogna, però, sottovalutare laquantità di produzione che poteva fornire anche un gran numero dipiccole botteghe artigiane diffuse nel territorio. Com’era dunque organizzata una bottega al suo interno e, di con-seguenza, la produzione? Disponiamo, anche in relazione a que-sto aspetto di pochi dati. Possiamo qui prendere il caso-tipo dellefornaci ceramiche. In età tardo repubblicana ed alto-imperiale, adesempio, la fornace di Scoppieto3 prevedeva postazioni contiguedi torni su cui operavano contemporaneamente più vasai, men-tre probabilmente il forno era in comune; ancora non si sono com-presi, però, il rapporto che collegava tra loro i vari vasai e le loroeffettive condizioni di lavoro. D’altro canto, un papiro di Ossirin-co,4 datato al III secolo d.C., mostra come funzionava una mani-fattura ceramica di anfore per il vino nell’Egitto romano dell’epoca.Questa era presa in gestione da un artigiano per un tempo limi-tato di 9 mesi con tutto il complesso di magazzini, camino, es-siccatoi, tornio e, naturalmente, la vera a propria fornace; il lavoroera suddiviso tra chi modellava l’anfora in argilla cruda, gli aiutantie gli addetti alla cottura dei pezzi. La produzione totale doveva es-sere di 15.000 anfore di qualità stabilita, che il proprietario del-l’impianto produttivo pagava all’affittuario (in tutto 4.800 dracme),mentre i pezzi prodotti in più rispetto alla quantità fissata resta-vano di proprietà dell’artigiano produttore che li immetteva diret-tamente sul mercato. Entrambi i casi esaminati, l’uno basato suldato archeologico e l’altro su fonti epigrafiche, fanno ricostruire ilquadro di un’attività artigianale complessa, caratterizzata da rit-

Roma. Ipogeo di Trebius Iustus. Il costruttore Trebius Iustus fece decorare la

propria tomba lungo la via Latina con scene che richiamavano la sua attività

professionale: costruttore. Questo particolare rappresenta una scena di cantiere

edile, con gli operai che lavorano su impalcature lignee per costruire un muro

di mattoni. (da riproduzione. Roma, Museo della Civiltà Romana).

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Solo con l’avvento di Roma, l’occupazione svolta diventa per l’uo-mo greco elemento di autoidentificazione principale; contempo-raneamente anche la decorazione dei monumenti funerari iniziaa prevedere con una certa frequenza la rappresentazione di sce-ne della vita quotidiana riferite al lavoro o degli strumenti in essoimpiegati.Non tutti i tipi di tecnici nel mondo romano trovavano utile farparte di un collegio professionale: non conosciamo, ad esempio,tranne che in rarissimi casi, associazioni di medici, pedagoghi oarchitetti. Forse perché questi erano già socialmente ed econo-micamente affermati come singoli professionisti e per questo sti-mati presso classi sociali di livello ben più alto rispetto a quelle acui essi appartenevano. Inoltre, la presenza di queste professio-nalità non era numericamente rilevante nel corpo sociale, comeinvece quella dei commercianti e degli artigiani. Queste ultime ca-tegorie avevano maggiore interesse ad associarsi tra loro. Da que-sto fatto si può dunque affermare come i collegia romaniassomigliassero più a corporazioni di arti e mestieri piuttosto chea moderni albi professionali. Appartenere ad un collegium permetteva ad un professionista diporsi non come singolo ma come membro di una comunità neiconfronti dello Stato, dei notabili locali, delle alte cariche ammi-nistrative, dei personaggi influenti; inoltre, egli poteva godere delruolo civile e della posizione nella gerarchia cittadina riconosciu-ti al collegio. La condizione sociale non era un limite per poter es-sere accettati in un collegio: vi accedevano, infatti, sia chi lavoravain proprio sia chi si trovava in una posizione subordinata rispettoad un altro artigiano o commerciante sia, infine, anche gli schia-vi, pur con l’approvazione del loro padrone.Il collegium era un’unione di persone (socii) che esercitavano lostesso mestiere e ne mettevano in comune vantaggi e svantaggi,spesso prendendo in appalto o in gestione luoghi di lavoro, mo-nopoli o mezzi di produzione. Oltre a questo, i soci avevano traloro in comune l’amministrazione delle finanze del collegio e dei

rappresentanza organizzata volta al raggiungimento di un rico-noscimento generale. All’epoca, per ottenere tale riconoscimentoda parte della comunità non bastava essere esperti nel proprio la-voro, imparato soprattutto sul campo, ossia nelle botteghe, e poiperfezionato negli anni con l’esperienza personale; serviva, piut-tosto, far parte di un più ampio corpo sociale di tecnici specializ-zati che fosse affermato a livello sociale e pubblico nel suocomplesso. A Roma, già durante la prima età repubblicana, lavo-ratori professionisti di diverse categorie, in special modo quelliche operavano in ambiente urbano, iniziarono ad associarsi tra lo-ro formando collegi professionali, al fine di potersi garantire mi-gliori condizioni di lavoro. Di fatto, alla base della nascita di uncollegio professionale (in latino collegium) stava la volontà da par-te dei lavoratori di tutelare i propri interessi, ottenere privilegi eco-nomici e controllare i mercati e i prezzi. Il diritto di associarsi era riconosciuto a Roma già nelle leggi del-le XII Tavole, alla metà circa del V secolo a.C.,6 e fin dalle prime te-stimonianze a noi note i collegi professionali si identificaronosempre attraverso il mestiere esercitato. A testimoniare come fuRoma nel mondo antico a diffondere la visione della propria atti-vità professionale come fonte di riconoscimento sociale e comeelemento identificativo personale da apprezzare e non da trascu-rare, si può proporre un interessante parallelo con l’atteggiamen-to a riguardo del mondo del lavoro e delle attività professionaliche contraddistingueva la Grecia ed il Vicino Oriente. Qui la men-talità, così come espressa ad esempio nella filosofia platonica, ten-deva piuttosto a disprezzare chi viveva del proprio lavoro manualee non concedere alcuna considerazione alla figura dell’artigiano,nonostante la perizia ed il livello di perfezione che egli poteva an-che raggiungere nel proprio lavoro. Si veda il caso dei pittori del-la ceramica attica, autori di opere di altissimo valore artistico ancoraoggi universalmente riconosciuto ma dei quali conosciamo il no-me solo grazie alle firme che a volte essi stessi apponevano suipezzi. Questo avveniva soprattutto perchè la loro non era consi-derata arte ma techne, per cui gli autori antichi che si occupavanodi arte non consideravano tali artigiani come degni di menzione.Per utilizzare come metro di paragone il sistema dell’organizza-zione del lavoro, si può certo affermare che qui la tradizione del-le associazioni fosse, sì, lunga e ricca, ma che queste si presentavanosempre e comunque legate a culti religiosi, a patronati aristocra-tici o a gruppi etnici; i collegi che nel mondo greco-orientale si de-finivano, piuttosto, in modo aperto o esclusivo attraverso l’attivitàprofessionale esercitata dai propri membri sono stati, invece, unaconseguenza dell’egemonia romana ed infatti sono apparsi solocontemporaneamente ad essa. In realtà, nel mondo ellenistico ilavoratori disponevano già di organizzazioni professionali di rife-rimento anche prima dell’avvento dei Romani nel loro territorio,ma avevano sempre preferito presentarle ufficialmente attraversola mediazione della sfera cultuale, senza dichiarare apertamentel’attività lavorativa esercitata, quasi a volerla dissimulare. Si trat-tava di un’ambiguità voluta, che si mantenne nel tempo anche do-po l’età ellenistica e che derivava da una società assai più staticarispetto a quella romana, dove, invece, come detto sopra, da sem-pre era l’attività professionale stessa a fornire prestigio a chi laesercitava.

Ostia. Mosaico della schola dei mensores.La sede del collegio dei mensoresfrumentarii, responsabili statali delcontrollo del grano dell’annona, eraincorporata in grandi horrea (magazzini)granari e comprendeva al suo interno siaun tempio dedicato a Cerere Augusta cheun ambiente collegiale con pavimentodecorato da un mosaico, in cui ifunzionari avevano fatto rappresentarecon dettagli particolareggiati una scenadel proprio lavoro. Mentre a sinistra unfacchino trasporta a spalle un sacco pienodi grano, a destra i mensores ne saggianola qualità e ne calcolano la quantitàattraverso i modii, contenitori ligneiaperti dalla capacità prestabilita; la manolevata in alto regge la rasiera con cui sipareggia il livello dei modii colmi. Ilbambino al centro tiene il conto delnumero dei modii riempiti, infilando inuna cordicella una tessera forata perognuno di essi (riproduzione. Roma, Museo

della Civiltà Romana).

no invece represse in modo sanguinoso.9 Fortunate o meno, taliproteste organizzate condussero nel V secolo, almeno in Oriente,a stipulare effettivi contratti di lavoro ed a registrarli davanti a ma-gistrati imperiali, come nel caso del contratto collettivo di lavorodei technitai di Sardi (nell’odierna Turchia) del 459 d.C.10

L’associarsi portava ai lavoratori vantaggi impensabili per un sin-golo individuo. I soci di un collegio, infatti, potevano gestire il pa-gamento delle imposte, controllare l’andamento dei prezzi sulmercato o quelli dei loro fornitori di materie prime, farsi aumen-tare il compenso riconosciuto, condividere costi d’esercizio e spe-se, assicurarsi una maggiore stabilità economica e la possibilità,in modo diretto o indiretto, di influenzare esponenti della pubbli-ca amministrazione a proprio vantaggio, aggiudicarsi monopoli,appalti, forniture pubbliche o la gestione di strutture pubbliche oattrezzature necessarie al proprio lavoro. Inoltre i membri dei collegi potevano beneficiare delle immunitàe dei privilegi che lo stato spesso concedeva a tali associazioni incambio della pubblica utilità che veniva loro riconosciuta. Tale uti-lità risiedeva soprattutto nella produzione e nel trasporto dei be-ni legati all’annona ed al rifornimento di Roma ma, più in generale,nella soddisfazione dei bisogni della comunità, con la costruzio-ne e la riparazione degli edifici, il riscaldamento delle terme, la di-sponibilità di cibo, materie prime e prodotti di ogni genere. Finoal II secolo, infatti, Roma si rivolse alle associazioni professionaliper chiedere loro un servizio di pubblica utilità connesso alle lorocapacità professionali, offrendo in cambio denaro o esenzioni fi-scali. Ad approfittare di questo erano soprattutto le corporazionilegate al trasporto ed al commercio, ma anche quelle dei fabri edei mugnai e panettieri. A partire dal III secolo poi, lo Stato ro-mano, davanti ad una progressiva crisi economica, trasformò mol-

beni mobili ed immobili di proprietà collegiale (che potevano an-che giungere a notevoli entità) e il regolamento a cui ognuno diloro doveva sottostare, ma condividevano anche culti ed altre pra-tiche religiose (sempre connesse alla loro sfera lavorativa), rap-porti politici con patroni e personaggi pubblici influenti, occasionisociali e conviviali pubbliche o interne all’associazione, attività as-sistenziali, la cura o la partecipazione ai funerali dei soci defunti.Inoltre, i socii potevano avere a disposizione la sede ufficiale delcollegio, la schola, in cui si riunivano sia per le cerimonie religio-se che per le varie occasioni sociali che caratterizzavano la vita as-sociativa. Conosciamo scholae di vari tipi e dimensioni, la più vastee lussuose sono quelle note a Roma ed Ostia, dove le corpora-zioni erano particolarmente ricche ed influenti. I collegi riuscivano ad esercitare una certa pressione per la difesadei propri interessi di corporazione e per rivendicare i propri dirit-ti, anche attraverso l’organizzazione di rivolte e veri e propri scio-peri (operis detractationes). Se però l’esempio più antico di scioperoè quello dei tibicines (i suonatori di tibia, uno strumento a fiato ri-cavato dall’osso da cui prende il nome) noto a Roma nel 311 a.C.,7

in età imperiale i maggiori disordini legati alle associazioni pro-fessionali caratterizzarono soprattutto l’Oriente, dove erano abba-stanza frequenti le proteste organizzate con cui l’autorità centralesi trovava costretta a scendere a compromessi data la loro rilevanzaeconomica, senza però smettere mai di considerarle una perico-losa fonte di agitazione sociale. Ad esempio, durante il regno diAdriano, a Pergamo scioperarono per alcuni giorni i membri di unasocietà di costruttori che stava lavorando ad un appalto statale:8 vi-sta l’urgenza di tale opera pubblica, il proconsole scese con essi apatti, detraendo però i giorni di protesta dalla paga. Altre rivolte,come quella dei lavoratori della zecca di Roma nel 274 d.C., furo-

I Romani e la Tecnologia

Nella storia della civiltà, i Romani hanno segnato una svolta fon-damentale: il passaggio dal mito alla realtà. Prima l’uomo era un viandante erratico e precario, in terra incogni-ta ed ostile. Non c’era, per la nostra specie, alcuna idea di perma-nenza nel tempo e nello spazio. L’unico elemento di riferimentoerano l’Olimpo e i suoi miti.I Romani decisero di andare oltre la precarietà e di cominciare a co-struire la permanenza. Il primo passo verso questa direzione fu quel-lo di entrare con convinzione e con decisione nel mondo reale. Ful’inizio per arrivare a prendere possesso della Terra e a costruirvi lastabile dimora del genere umano. Per rendere concreto questo obiettivo inventarono la Tecnologia.Essa favorì la più grande svolta della storia umana. Infatti da allorala tecnologia non solo è diventata una componente imprescindibi-le della società umana, ma ha dimostrato di avere una caratteristi-ca evolutiva assolutamente unica, che è la irreversibilità. Una voltaconquistata una nuova posizione, essa diventa un presidio perma-nente. Questa caratteristica, a sua volta, permette alla Tecnologia didiventare la base per salti evolutivi. In particolare c’è stato un saltodi qualità di incomparabile potenzialità, che ha già avuto effetti di-rompenti ma che altri e più inimmaginabili potrà provocare. La gra-vità estende il suo dominio. Questa svolta ha avuto origine quandola Tecnologia ha cominciato a elevarsi per tendere ad assumere ladimensione della Creatività.

L’arco e le vie del mondo

L’invenzione che meglio illustra le finalità della tecnologia è l’arco.Esso permette di vedere come i Romani riuscirono ad armonizza-re le forze e le potenzialità della natura con i progetti e con le aspi-razioni che li animavano. L’arco era stato scoperto molto prima deiRomani, ma il suo uso era rimasto estremamente limitato. Per su-perare un qualsiasi spazio vuoto si utilizzava da sempre la trave.Ma la trave poteva essere utilizzata al massimo per qualche me-tro. La ragione è che tutti i materiali naturali, dal legno alla pietra,resistono molto bene alla compressione, ma hanno un comporta-mento molto fragile agli sforzi di trazione. Questa caratteristica èuna conseguenza del fatto che sulla terra la forza dominante è lagravità. Essa è una forza di attrazione e quindi, per farvi fronte, sisviluppa una resistenza alla compressione a qualunque oggetto

reale, l’albero è attratto verso il terreno, l’acqua scende verso val-le, le montagne premono sulle placche geotettoniche. Tutto l’am-biente terrestre non sarebbe riproducibile su un corpo celeste congravità ridotta o assente. L’effetto della gravità è che tutte le strut-ture naturali del nostro pianeta non presentano sviluppi apprez-zabili in orizzontale; sulla Luna o su Marte potremmo avere strutturemolto più allungate.L’invenzione dell’arco sovverte totalmente la situazione. I Romanistudiano i limiti della natura e ne ricavano nuove potenzialità. In-fatti, nell’arco non ci sono più aree sottoposte a trazione, ma tuttala struttura è soggetta solo a forze di compressione. In questo mo-do gli spazi che si possono superare diventano sempre più ampi. Nascono i grandi edifici, gli acquedotti e soprattutto i ponti. Sono iponti che permettono ai Romani di prendere possesso della Terrae di fare incontrare i Popoli. È la Tecnologia che permette all’uomodi colloquiare con la natura e di armonizzarsi con essa.Anche la concezione urbanistica viene totalmente innovata.

La ‘città aperta’

Prima di Roma, tutte le città che avevano fatto la storia, da Gericoad Uhr, da Troia a Babilonia, da Atene a Sparta, erano città cinte dimura. Anzi, le mura erano la città. Erano ‘città chiuse’, non acces-sibili agli stranieri, con un unico centro dove si arroccava il poterepolitico e religioso; il resto era un agglomerato sostanzialmente in-differenziato. Le infrastrutture erano pressoché inesistenti. Una vol-ta che le mura erano conquistate dal nemico, la città era destinataa perire. Anche la cittadinanza era delimitata dalle mura. Chi nonera nato fra esse, non ne diventava cittadino. La ragione fonda-mentale era che ogni città viveva in una dimensione di mera so-pravvivenza, spaziale e temporale. Le guerre di conquiste eranoavventure tattiche, alle volte magari epiche, ma senza una visionestrategica di permanenza nelle terre sottomesse e di evoluzionecomplessiva delle popolazioni sconfitte.I Romani invece avevano deciso di andare oltre la contingenza e diinventare il futuro permanente, sia per i territori che per gli uomini. Per questo Roma divenne ciò che nessun’altra città era mai stata.Essa venne strutturata per interfacciarsi con tutto lo spazio ester-no, fino ai limiti del mondo allora conosciuto e per organizzare l’in-contro e l’interazione dei popoli, senza distinzione di razze e direligioni. In sostanza, Roma nacque per ospitare un progetto di svi-luppo progressivo e planetario.

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I Romani, la tecnologia e un futuro possibile

Antonio Tamburrino

Bibliografia di riferimento Ausbüttel 1982; Bergamini 2008; Bollmann 1998; Clemente 1972, pp. 142-229; Coarelli 2004, pp. 215-221; Cracco Ruggini 1973, pp. 272-287; De Ligt 2001, pp. 345-358; DeRobertis 1971; De Robertis 1981; Diosono 2007; Foraboschi 2006; pp.131-144; Gabba 1984, pp. 81-86; Gabba 1988; Giardina, Schiavone 1981; Kloppenborg, Wilson 1996;Lo Cascio 2000; Mennella, Apicella 2000; Patterson 1992, pp. 15-27; Patterson 1994, pp. 227-238; Royden 1988; Salamito 1990, pp. 163-177; Tran 2007; van Nijf 1997; Waltzing 1895-1900.

1 Il sevirato era un collegio sacerdotale dedito al culto degli imperatori e delle fa-miglie imperiali formato da sei membri e creato da Augusto; esso era aperto apersonaggi di estrazione sociale bassa, quali i liberti, ma che grazie alle propriedisponibilità economiche aspiravano a farsi strada nella gerarchia municipale.

2 POxy (Oxyrhynchus Papyri) 22, 2340.3 Si tratta di una fornace che produceva ceramica sigillata italica vicino a Todi, inUmbria, e che sorgeva nei pressi del fiume Tevere (Bergamini 2008)

4 POxy 1, 3595.5 POxy 1, 1029.

6 Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) sono state una delle più anti-che codificazioni scritte del diritto romano; elaborate da una commissione di die-ci uomini creata allo scopo (decemviri legibus scribundis) intorno al 450 a.C., furonopoi incise su 12 tavole di bronzo per renderle sempre consultabili e non alterabili.

7 Livio, 9, 30, 5-10.8 IGR (Inscriptiones Graecae ad res Romanas pertinentes) 4, 444.9 Aurelio Vittore, de Caesaribus 35, 6; Eutropio 9, 14; Scriptores Historia Augusta,

Aurelianus, 38, 2-4.10 CIG 3467.

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Per secoli, dunque, nel mondo romano l’attività artigianale per-mise a uomini ed, anche se in misura minore, a donne di condi-zione plebea di poter raggiungere un certo riconoscimento socialesia in virtù della loro appartenenza ad un collegium che grazie al-la propria competenza professionale ed al guadagno che da essaricavavano; da questo punto di vista, essi erano davvero arteficidella propria fortuna.

te attività commerciali ed artigianali in prestazioni obbligatorie neiconfronti dell’amministrazione centrale; in questo modo le asso-ciazioni professionali furono lentamente messe al servizio dellostato, fino a diventare a partire dall’epoca tardo-antica organizza-zioni obbligatorie a cui i lavoratori erano costretti ad aderire, cosìcome i loro eredi, continuandone a ricavare ancora, in cambio,vantaggi fiscali.

di 2000 anni fa. Rispetto al vecchio museo c’è un progresso che èmisurabile, è il caso di dirlo, in anni-luce. Il prossimo passo è l’in-terattività. Infine c’è l’olografia. Ci sono forti investimenti nella ri-cerca e sembra ora giunto il momento delle applicazioni pratiche.Abbiamo dunque a portata di mano la tecnologia per riprodurre informa assolutamente realistica le lotte dei gladiatori proprio nel-l’arena del Colosseo e la corsa delle bighe esattamente sulla pistadel Circo Massimo. Si tratta di riprendere con apparecchiature olo-grafiche quelle stesse scene di film, quali il Gladiatore, che hannoreso famosa nel mondo la Roma antica. Per millenni la geometriaeuclidea ci ha aiutati a capire il mondo e ad interagire con esso. Poici siamo accorti che c’erano dei limiti. I due estremi di una retta ten-dono in direzioni infinitamente opposte, dove la nostra cognizionee la nostra immaginazione diventano sempre più confuse ed im-potenti. Altra constatazione sconfortante è che le rette parallele pos-sono continuare a svilupparsi all’infinito, senza che noi riusciremomai a farle incontrare. A soccorrere questa nostra frustrante impo-tenza è arrivata infine la ‘geometria proiettiva’. I due estremi di unaretta alla fine convergono in un punto solo. Esso è sì un punto al-l’infinito, ma ha poi caratteristiche molto concrete e innovative. In-fatti in esso la retta si trasforma in cerchio e in esso tutte le retteparallele si incontrano. L’incontro degli estremi e dei paralleli è sta-to molto fecondo, basti pensare che su di esso è basata la teoriadella relatività. Un simile salto di qualità possiamo ottenerlo facen-do incontrare l’archeologia con la tecnologia. Nel Centro Storico cisono il Colosseo, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla, le Termedi Diocleziano, la Domus Aurea, la Basilica di Massenzio. Sono con-tenitori di straordinaria densità storica ma non contribuiscono alpulsare della vita più moderna, anzi alle volte la ostacolano. Con letecnologie più avanzate si può realizzare una loro ricostruzione fun-zionale. L’obiettivo è quello di utilizzarli per una ricchissima gam-ma di attività, che, senza soluzione di continuità storica, possonoandare da quelle per cui erano state originariamente costruite a quel-le contemporanee, fino ad attività di avanguardia.

Conservazione e InnovazioneCon questa rifunzionalizzazione tecnologica dei contenitori storici,l’archeologia sarà la carta decisiva, insieme alla soluzione integraledei problemi del traffico, per creare a Roma una qualità della vita dieccezionale valore. Di conseguenza si creerà una nuova e più qua-lificata domanda mondiale di localizzazione nella città di Roma.L’amministrazione pubblica, disponendo di un grande patrimonioimmobiliare, potrà utilizzare questa domanda come leva per un’ul-teriore crescita economica e culturale della città. Fra l’altro, ci sonoimmobili di alto valore storico ed estetico, che stanno perdendo laloro attuale funzione. Pertanto, ci sono le condizioni per cui una idonea gestione del pa-trimonio immobiliare pubblico di grande qualità può dare un con-tributo concreto e sostanziale al futuro di Roma Capitale.

La riqualificazione del TevereAttualmente la qualità delle acque del fiume, dalla città alla foce, èdi diversi ordini di grandezza al di sotto degli standard europei. Per-tanto, per motivi igienici, non dovrebbe essere permessa nessunaforma di navigazione né alcun tipo di fruizione del fiume. L’inqui-

namento del Tevere contamina anche il litorale. Questa situazionepersiste da decenni, nonostante gli ingenti investimenti pubblici afondo perduto e l’alto canone annuale di depurazione pagato daiRomani. Quest’assurdità è dovuta all’errore basilare di considerare il fiumecome collettore finale di tutto il sistema di fognature. Ma è il desti-no comune a tanti fiumi in Italia.Il risultato è che abbiamo dei fiumi-cloaca. Non è ipotizzabile nes-sun obiettivo di recupero, sia generale che particolare, se prima nonli rendiamo puliti. Inoltre, attualmente il Tevere ha solo una qualche parvenza di navi-gabilità. Essa è limitata ad alcune brevi tratte e non è operabile néin caso di piene né in caso di magre.Si pensa che tutte queste limitazioni siano dovute al regime tor-rentizio del fiume. In realtà i maggiori problemi sono emersi nel-l’ultimo dopoguerra, a seguito dei lavori eseguiti per consolidare lepile dei ponti. Un concreto recupero è possibile. In pratica, il Tevere può tornarenavigabile per oltre 100 Km e può essere ricostruito il rapporto direciproca accessibilità fra la città e il fiume. Per rendere davvero fun-zionale e vivificante questo rapporto, bisogna attivare il sistema del-la portualità che si era sviluppato per oltre 2000 anni. La città di Roma, al di là della leggenda della sua fondazione sul Pa-latino ad opera di pastori, con tutta probabilità era nata sull’acqua,ad opera di abili navigatori. I Romani avevano piena coscienza diquanto il fiume fosse stato decisivo nella loro storia, come attesta-to da Cicerone e da Plinio. Addirittura Servio sosteneva, nel IV se-colo d.C., che l’etimologia di Roma fosse “la città del fiume”. E, ineffetti all’origine dell’insediamento deve aver influito una situazio-ne idrodinamica molto favorevole. Essa consisteva nella presenzadi un corso d’acqua che correva lungo l’attuale via dei Cerchi, pa-rallela al Circo Massimo e che confluiva nel Tevere all’altezza del-l’anagrafe. L’area della confluenza costituiva un approdo naturale.Quest’approdo diventò strategico quando, approfittando dell’isolaTiberina, si realizzarono i primi ponti sul Tevere, e quando il Palati-no, con la sua posizione aggettante sul fiume, fu attrezzato comeuna rocca a difesa del porto. Nacque così il ‘Portus Tiberinus’, chepuò essere considerata la vera opera fondativa di Roma. La sua im-portanza fu tale che i Romani, per la sua protezione, crearono unloro proprio dio, che non aveva neppure un lontano parente nel-l’Olimpo greco. Il dio, nato e concepito a Roma, fu il dio ‘Portuno’,cioè il dio del Porto, inteso come porta di accesso alla città. Uno deipiù antichi monumenti romani, pervenuto fondamentalmente in-tatto, è a lui dedicato e si trova fra il Tempio di Vesta e la Bocca del-la Verità, all’imbocco di quello che era stato il ‘Portus Tiberinus’.Chissà quante volte capita di passarvi accanto senza neppure no-tarlo. E, tantomeno senza chiederci che cosa ci sta a fare lì da oltre2.500 anni.Quel tratto di fiume, oltraggiato con tanta disinvoltura e allontana-to dalla sua funzione originaria, grida vendetta e richiama attenzio-ne. Per lo sviluppo sostenibile della Città.

La “Mobilità 3.0” ovvero la pedonalizzazione integraleLa razionalità e il pragmatismo sono due peculiarità dell’antica Ro-ma. In quel tempo e con pochi mezzi il mondo è stato rivoluziona-

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Per questo fu riconosciuta come la ‘Caput Mundi’. È per questo chela ‘cittadinanza romana’ divenne subito sinonimo di ‘civiltà’. Per as-solvere a questa sua funzione, Roma non aveva più bisogno di mu-ra, né di fossati, né di ponti levatoi. Le due mura romane, quelleServiane e quelle Aureliane, marcarono solo l’inizio e la fine della suastoria. Nella fase della sua massima creatività, Roma non solo nonebbe bisogno di mura ma, al loro posto, ritenne di aver bisogno diinfrastrutture di comunicazione sempre più rapide e sempre più este-se verso il mondo. Lo scopo era quello di permettere ai Romani diraggiungere le più lontane regioni per realizzarvi acquedotti, fogna-ture, stadi, teatri, per amministrare la giustizia, per diffondere la cul-tura. E allo stesso tempo le stesse infrastrutture dovevano permetterea chiunque, dovunque fosse nato, di venire a Roma a portare le sueidee, le sue tecniche, le sue arti, la sua religione, la sua politica. E di diventare infine cittadino romano.

La ‘Forma Urbis’

A Roma, per tenere il tutto insieme e farlo funzionare armonica-mente, si arrivò a realizzare una ‘Forma Urbis’ assolutamente ge-niale. La città si realizzò con la sovrapposizione e l’integrazione diuna metropoli di terra con una metropoli di mare, fondendo i van-taggi di entrambe. La metropoli di terra si sviluppò sulla raggieradelle grandi vie consolari e delle vie traversali che da esse si dipar-tivano, per uno sviluppo di circa 100.000 km, quasi 4 volte la retedelle nostre attuali strade nazionali. La rete stradale fu completatada una organizzazione logistica senza precedenti. La catena milita-re di comando era in grado di raggiungere i principali presidi stra-tegici in un massimo di 5 giorni.Ma se è nota la grande capacità ed efficienza raggiunta dalla metro-poli di terra, molto meno nota è l’innovativa strutturazione della me-tropoli di mare. Essa si realizzò grazie alla trasformazione di unmodesto corso d’acqua, il Tevere in uno straordinario laboratorio diingegneria idraulica, con soluzioni prima di allora impensabili. Il tratto urbano del fiume fu completamente attrezzato con appro-di, darsene, cantieri. I porti imperiali di Claudio e Traiano permise-ro il trasbordo fra imbarcazioni fluviali e navi mediterranee. Così,imbarcandosi al centro di Roma, si raggiungevano i limiti del mon-do conosciuto. Da Roma oltre 100 imbarcazioni partivano tutti igiorni per esportare ed importare dal mondo uomini, mezzi, mate-riali, idee. L’idea dell’universalità non sarebbe diventata centrale nella civiltàromana senza l’apporto decisivo del Tevere.Fra le più straordinarie opere di ingegneria costruite dai Romani, lapiù geniale fu la ‘Forma Urbis’ della Capitale. Al centro vi fu la con-vinzione dell’universalità e dell’eccezionalità dell’uomo e quindi lanecessità di sviluppare le relazioni fra i popoli e fra essi e il territorio.

La Terza Roma

Dopo la capitale della Romanità e dopo quella della Cristianità, Ro-ma può diventare la capitale dello sviluppo tecnologico armonico.Per arrivarci si può seguire il percorso che già aveva portato una vol-

ta la città a diventare la ‘Caput Mundi’, con lo stesso concetto diqualità ripreso dallo scrigno dei secoli per ritornare a vivere il no-stro mondo in modo sostenibile. Grazie inoltre alla tecnologia di ul-tima generazione con gli stessi principi di sostenibilità che ereditiamodall’antichità. La sconfitta dell’entropia del nostro vivere quotidia-no passa attraverso la ripresa di antichi concetti sviluppati con nuo-vi strumenti.Se noi torniamo a considerare Roma ‘Caput Mundi’, quale esem-pio mondiale di sperimentazione tecnologica per la soluzione deiproblemi che sembrano irrisolvibili non possiamo che guardare al‘Progetto Urbis’ e la realizzazione di un nuovi tipo di mobilità chia-mata “Mobilità 3.0”.

Il ‘Progetto Urbis’

Il ‘Progetto Urbis’ riguarda la rinascita funzionale del Centro Stori-co. Esso si realizza lungo fondamentali innovazioni concettuali eprogettuali.

La riformulazione urbanisticaQuando Roma divenne Capitale d’Italia, i Piemontesi si poserol’obiettivo di modernizzare la città. Ma non furono all’altezza delcompito, perché non seppero tener conto della storia e non ebbe-ro né le idee né le finanze per realizzare una metropoli idonea ainuovi tempi. Ne derivò un impianto urbanistico sciagurato che sisovrappose in maniera devastante alla strabiliante ‘Forma Urbis’dell’antichità, senza risolvere i problemi dell’attualità. Basti consi-derare che l’impianto urbanistico consisteva nella distruzione diquel vitalissimo rapporto di mutua accessibilità che si era creato trala città e il fiume nel corso dei millenni e nell’utilizzare i Lungote-vere come assi principali di penetrazione stradale nel cuore dellacittà. Questo impianto urbanistico distruttivo permane ancora og-gi e continua a provocare i suoi danni, che si manifestano prima-riamente dalla crescente ingestibilità del Centro Storico.Quest’impianto urbanistico va archiviato. Bisogna riportare in vitala ‘Forma Urbis’ della città storica.

Archeologia e TecnologiaAlle volte gli estremi si toccano e la retta diventa un cerchio. Negliultimi anni ci sono stati grandi progressi tecnologici che possonocambiare radicalmente il ruolo dell’archeologia. Alcune applicazio-ni ne hanno già mostrato le grandi potenzialità. Facciamo specificoriferimento ai nuovi materiali, alla fotoricostruzione, all’olografia. Inuovi materiali acquistano proprietà sempre più elevate e diventa-no sempre più immateriali. Pertanto sui manufatti storici si potrannoprevedere interventi sempre meno invasivi, ma in grado di restitui-re loro completezza strutturale e funzionalità d’uso. La tecnica del-la ricostruzione visiva, facendo uso di un materiale del tutto speciale,che è la luce, è stata utilizzata con stupefacenti risultati per la valo-rizzazione del patrimonio archeologico rinvenuto sotto Palazzo Va-lentini. L’intervento è stato guidato da Piero Angela ed è stato eseguitoda un team internazionale che lavora sulla frontiera della realtà vir-tuale. Da lembi di pavimentazione stradale e da brandelli di co-struzioni patrizie, la tecnologia della luce ricrea scene di vita palpitante

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to: oggi con i nostri mezzi abbiamo l’obbligo di tentare delle solu-zioni altamente tecnologiche che invertano l’attuale tipo di svilup-po non armonico e distruttivo.Il “Progetto Urbis”potrà essere realizzato solo se si interverrà sulproblema della mobilità.Oggi, fra le metropoli europee, Roma ha la maggiore penetrazionedi auto e moto; e il più alto indice di incidentalità.Questa situazione deriva dal fatto che Roma, che 2000 anni fa ave-va realizzato la prima rivoluzione della mobilità, poi ha mancato,nel secolo scorso, la seconda rivoluzione, alimentata dall’energiameccanica.La soluzione del traffico romano è possibile solo se si innesca una nuo-va rivoluzione che si chiama: “Mobilità 3.0”, ovvero l’approdo a unapedonalizzazione integrale. Per fare questo c’è necessità di un’alter-nativa di mobilità. Essa si realizza con una rete di metropolitane leg-gere ad automazione integrale e ad alta flessibilità di tracciato. Ciòpermette di effettuare gli scavi in totale compatibilità con gli strati ar-cheologici, di avere stazioni capillari, al massimo ogni 200 m. e di of-frire un trasporto di qualità tale da non far rimpiangere l’auto privataLa mobilità ha contribuito in maniera decisiva al progresso degli ul-timi 100 anni. Ma oggi i suoi costi aumentano sempre più e stan-no ormai per superare i benefici.

Bisogna rapidamente azzerare i tre principali fattori limitanti. Ilprimo è l’inquinamento. Il secondo è il consumo di risorse nonrinnovabili. Infine, bisogna superare i limiti e gli errori della guidaumana passando subito alla guida automatica.La “Mobilità 3.0” costituirà la terza rivoluzione della mobilità e al-lo stesso tempo dimostrerà che è possibile abbandonare il vec-chio modello di sviluppo che genera sempre più entropia e portaa squilibri ambientali sempre più irreversibili. Il nuovo modello si svincola completamente dall’uso delle risor-se non rinnovabili ed azzera l’inquinamento. Inoltre, l’uomo si li-bera sempre più dai suoi limiti e dai suoi errori e quindi puòdedicarsi più intensamente a produrre nuovo benessere per sé eper la natura che lo accoglie. Per questo la “Mobilità 3.0” sarà un esempio di sviluppo armoni-co. Essa verrà messa a punto a Roma, ma poi verrà estesa al re-sto del Paese, interessando man mano tutte le altre attivitàproduttive. Ritrovare nella fenomenologia della tecnologia dell’antica Roma iltestamento e le linee guida per la Roma futura è l’azione più in-novativa che può produrre la cultura, il primo anello della catenadel valore. Il valore inteso come creatività per uno sviluppo ar-monico e sostenibile.

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Sulla colonna Traiana compaiono numerose scene di labor; si trattadi una scelta inconsueta per un monumento onorario, soprattutto separagonata con la colonna coclide aureliana, che ne presenta solodue. È dunque lecito chiedersi quale fosse il messaggio affidato a que-ste immagini nell’ambito della narrazione delle campagne daciche(101-102; 105-106 d.C.). Esse esaltano la disciplina ed i successi del-l’esercito romano e del suo imperatore e al tempo stesso, raffigu-rando scene di costruzione e di disboscamento, marcano un divariotecnologico e culturale tra l’impero ed il barbaricum e rappresentanole prime tappe della romanizzazione della nuova provincia dacica. È possibile istituire un confronto tra le scene di labor e quanto ci vie-ne narrato dagli autori di trattati militari: infatti essi sono soliti attri-buire le vittorie dell’esercito romano non al dispiegamento di uominio all’abilità sul campo bensì all’esercizio costante e alla perfetta pre-parazione logistica delle campagne. La parola exercitium (connessaanche etimologicamente con exercitus) indica l’insieme delle attivitàpraticate dai soldati in previsione delle fatiche della guerra: accantoall’esercizio fisico e all’uso delle armi, il labor giocava un ruolo fon-damentale in quanto stimolava la capacità del soldato di lavorare ingruppo, indispensabile in vista delle manovre militari. Accanto all’esercizio era importante un’accurata preparazione logi-stica della campagna militare; il generale Domizio Corbulone avreb-be affermato che le battaglie si vincono con la zappa, ossia con leopere di costruzione (Frontino, Stratagemata, 4, 7, 2). *

Costruzione di infrastrutture

Scene di costruzione (1-2): in primo piano alcuni legionari trasportano con dei secchi la terra ri-mossa (forse per la costruzione di un fossato) mentre alle loro spal-le i commilitoni sono impegnati nella costruzione di una passerellalignea e nel trasporto dei materiali. In primo piano sono visibili gli scu-di e gli elmi dei soldati conficcati a terra (v. n. 7) e ai lati i due ausilia-ri che montano la guardia. In alto l’imperatore si affaccia dalle muraed osserva i lavori assieme ai due comites, indicando uno dei legio-nari all’opera. Sullo sfondo viene rappresentato il castrum romano. Èda evidenziare che Traiano viene raffigurato frequentemente mentresovrintende alle opere di costruzione ponendole in tal modo sotto lapropria auctoritas (due di queste scene sono le uniche in cui l’impe-ratore è raffigurato in posizione frontale); non a caso Plinio il Giovaneloda Traiano per aver saputo raddrizzare la vacillante disciplina mili-tare (Panegirico, 6, 2; 18, 1) e, a differenza del predecessore Domizia-

Scene di labor sulla colonna traiana*

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no, aver accettato di dividere le fatiche della guerra con i propri soldati. Si nota inoltre che nei lavori di costruzione sono impegnati i legio-nari che hanno deposto a terra scudo ed elmo ma indossano la lo-rica segmentata (v. n. 7). Non sappiamo se essi effettivamenteindossassero la corazza durante le opere di costruzione (ed appa-re improbabile dato il peso e la scomodità), ma sappiamo dalle fon-ti che essi venivano addestrati a correre e portare pesi indossandola.Nel fregio la rappresentazione dei legionari loricati potrebbe ancheessere motivata dalla volontà di renderli chiaramente distinguibilidagli ausiliari, che montano la guardia. Tale ripartizione di compitiviene attestata anche dalle fonti: lo pseudo-Igino (De munitionibuscastrorum, 24) ad esempio afferma che i soldati della marina eranoimpegnati nella costruzione delle vie mentre i cavalieri mauri ed icacciatori pannonici costituivano la loro scorta; allo stesso modoCesare invia le legioni a fare foraggio mentre la cavalleria le segui-va (De bello Gallico, 5, 17, 2)

Costruzione di un accampamento (varie scene)(3-5): in primo piano si vedono i legionari intenti a scavare il fossato e atrasportare fuori la terra con l’uso di cesti; all’interno ed intorno alrecinto di blocchi squadrati trasportano i materiali da costruzione.Alcuni di essi stanno trasportando i blocchi sulle spalle, tenendolitramite delle funi e sacchi di terra.Le scene di costruzione documentano una realtà quotidiana del-l’esercito romano; i legionari dovevano infatti provvedere alla co-struzione degli accampamenti provvisori e permanenti. FlavioGiuseppe (Guerra Giudaica 3, 5) parlando degli impedimenta deisoldati romani afferma: “I fanti scelti che attorniano il comandan-te portano una lancia e lo scudo rotondo; il resto dei legionari ungiavellotto ed uno scudo oblungo ed inoltre una sega, un cesto,una piccozza ed una scure, poi una cinghia, un trincetto ed una ca-

tena e cibo per tre giorni; sicché poco manca che i fanti siano ca-richi come bestie da soma”. Presupponendo che tali fossero glistrumenti in dotazione anche in età traianea, si nota come i legio-nari venissero equipaggiati non solo per combattere ma anche persvolgere lavori di costruzione e di disboscamento ed affrontare si-tuazioni di emergenza. I soldati non venivano impegnati nelle ope-re di costruzione esclusivamente durante la campagna, ma anche

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nella fase dell’addestramento militare: lo Pseudo Igino infatti con-siglia di far scavare dei fossati ai soldati non per la loro reale utili-tà difensiva ma disciplinae causa; allo stesso modo Vegezio consigliail disboscamento (silvam caedere) come utile esercizio per tem-prare i corpi dei soldati alle fatiche della guerra. Nei periodi di inat-tività invece l’esercito veniva impiegato nella costruzione di operecivili: oltre al vantaggio economico di usare una manodopera benaddestrata e pagata a prescindere dall’utilizzo in azioni belliche, sicercava anche di scongiurare eventuali ribellioni.

Disboscamento

Scene di disboscamento (6-7): legionari abbattono gli alberi (gli strumenti che impugnavano eranointegrazioni metalliche al rilievo, andate perdute probabilmente inepoca tardo antica) mentre gli altri compagni trasportano il legna-me. I legionari in primo piano (7) stanno trasportando un grossotronco sospeso ad una trave tramite una fune. I soldati stanno pro-babilmente tagliando gli alberi e livellando il terreno per agevolare ilpassaggio delle truppe. Questa operazione serviva da una parte adeliminare gli ostacoli lungo il percorso e a ridurre il rischio di imbo-scate, dall’altra a procurarsi il legname che era il principale materia-le da costruzione di accampamenti, carri ed armi e serviva per ilriscaldamento e l’alimentazione dei balnea castrensi. Al di là del-l’utilità pratica immediata il disboscamento ha anche una forte va-lenza culturale: alle foreste che caratterizzano il barbaricum (Anonimo,De rebus bellicis 6, 2-3) si sostituiscono le strade e le città che sonol’emblema del mondo civilizzato.

Tecnica militare

Formazione a testuggine (8): i legionari romani eseguono la for-mazione a testuggine (testudo) durante l’assalto di una fortezza da-cica; la formazione a testuggine è il simbolo della disciplina e della

tecnica militare romana e si contrappone nella colonna ai disordi-nati attacchi dei daci.Assalto con ariete (9): i daci attaccano il fortilizio romano usando unariete per sfondare la parte centrale della recinzione. Il possesso diarmi più sofisticate accanto agli archi, ai giavellotti e occasionalmen-te ai massi da parte dei daci non deve tuttavia meravigliare: infattiCassio Dione menziona esplicitamente che una delle condizioni dipace imposta dai romani a Decebalo era “di consegnare le armi, lemacchine belliche e quelli che le costruivano” (Cassio Dione, 68, 9.5). Occupazione dell’accampamento dacico da parte delle truppe ro-mane (10): la scena raffigura i romani che appiccano le fiamme ai vil-laggi dei daci mentre questi scappano. Sullo sfondo si vede inveceTraiano che prende possesso dell’accampamento nemico, il qualeviene raffigurato con mura di blocchi lapidei squadrati ed una passe-rella di fronte alla porta che consente di attraversare il fossato. All’in-

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terno dell’accampamento si scorgono le insegne daciche con il dra-gone e numerose teste mozzate di romani su picche. Davanti all’ac-campamento si vedono invece due fosse contenenti pali aguzzi: sitratta di trappole che ricordano i ‘piccoli cervi’ menzionati da Vegezionell’ambito delle difese esterne del castrum romano.

Ponti

Costruzione di una palizzata lignea (11): il legionario è inginocchiato su una passerella lignea costruita sopraun fossato, di cui è ben visibile la balaustra, e sta piantando dei pali

nel terreno. Alle sue spalle sono visibili due pagliai di forma conicache compaiono anche nella prima spirale (scena 2-3 pp. 261-262) eche sono generalmente interpretati come strumenti per le segnalazionidiurne (potrebbe tuttavia trattarsi anche di foraggio per gli animali). All’inizio della prima guerra dacica: attraversamento su ponte dibarche: i legionari attraversano il Danubio su un ponte di barche,sulle quali è stata appoggiata una passerella lignea con una balaustradi protezione (12). Scena di pietasdi fronte al ponte di Apollodoro di Damasco sul Danubio(13): il ponte è provvisto di piloni in muratura sui quali si appoggianodelle centine in legno che sostengono il camminamento ligneo,provvisto di parapetto. L’ingresso del ponte è enfatizzato da un arco.L’importanza del ponte, emblema della superiorità tecnologica romana,è evidenziata dall’ampio spazio che l’epitome di Cassio Dione dedicaalla sua descrizione e dall’esistenza di coni monetali che lo raffiguranosul verso. Cesare, parlando del ponte ligneo sul Reno costruito inoccasione della brevissima campagna germanica, afferma (De bellogallico 4, 17): “Per queste ragioni che ho ricordato Cesare decise diattraversare il Reno ma riteneva che attraversarlo con imbarcazioninon fosse sicuro e conforme al prestigio suo e del popolo romano”.

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È quindi evidente che il ponte di Apollodoro non aveva solo uno scopopratico ma simboleggiava uno standard tecnologico e culturale chegarantiva il predominio di Roma sui popoli barbari.

Providentia

Mietitura (14): la scena mostra alcuni legionari romani mentre mietono il grano uti-lizzando delle falci e trasportano i covoni mentre in secondo piano icommilitoni tengono per le briglie i muli (di uno di loro è visibile ilbasto) e li caricano con il raccolto. Sullo sfondo si vede l’accampa-mento romano.

Approvvigionamento idrico (15): un legionario, oltrepassato un piccolo ponte di legno, si china e riem-pie un recipiente di acqua. La rappresentazione di approvvigiona-mento idrico viene ripetuta in modo più esteso nell’ambito dellaprima campagna dacica e una terza volta come rappresentazionesingola.Queste scene documentano la necessità (e anche le difficoltà) diprocurarsi del cibo in un territorio nemico durante la campagna militare,sulle quali anche i trattati militari richiamano l’attenzione. Vegezio af-ferma: “la scarsità di cibo logora l’esercito più di frequente di un com-battimento e la fame è più crudele della spada”. Una testimonianzaepigrafica dalla Mauretania (CIL VIII, 4322) ci informa su un distac-camento di soldati (vexillatio) mandato a fare il fieno (ad fenum se-candum). I trattatisti romani sottolineano l’importanza di porre gliaccampamenti nelle vicinanze di corsi o sorgenti d’acqua potabile inmodo tale da assicurarsene la disponibilità anche in caso di assedioprolungato. Negli accampamenti permanenti inoltre venivano di-sposte delle cisterne di raccolta dell’acqua piovana e dei magazzini(horrea) per la conservazione del frumento; altra fonte di approvvi-gionamento erano i prata legionis, ossia aree di pertinenza delle le-gioni destinate all’agricoltura e al pascolo. La scena di mietitura può essere letta in concomitanza con la spi-rale conclusiva del fregio, che mostra una teoria di animali pascen-

ti: entrambe le scene documentano la fertilità del suolo dacico, checon le due campagne è entrato a far parte dell’impero romano. Laprovincializzazione si traduce in benefici economici per il popoloromano di cui la stessa colonna Traiana, inserita nel nuovo com-plesso forense costruito ex manubiis, è la prova concreta. Del restoche la conquista di nuove province fosse finalizzata anche alla ne-cessità di sfruttare le risorse locali per il crescente fabbisogno del-l’annona romana viene provato dai documenti epigrafici (ILS 986:“Primus ex ea provincia magno tritici modo annonam populi Roma-ni adlevavit” dice orgogliosamente un legatus Augusti propretore ri-ferendosi alla provincia della Mesia dopo l’incendio del 62 d.C).

Musica

Marcia dell’esercito sbarcato sulla riva opposta del Danubio (16): in primo piano si vedono i suonatori di cornu (una tromba bronzearicurva, dotata di una barra metallica che permetteva di appoggiarelo strumento sulla spalla) che precedono i portastendardi. I cornici-nes compaiono da soli anche nelle scene di sottomissione (Settis, sce-na 91, p. 349). Secondo Vegezio (2, 22, 1) il loro compito era di darei segnali di avanzata e ritirata ai portainsegne mentre i tubicines (suo-natori di tuba) davano gli stessi segnali a tutto l’esercito: essi com-paiono associati nelle scene di sacrificio (scena 13, p. 271) e di lustratio(scene 189-190, pp. 447-448). La tuba veniva inoltre usata per rego-lare la vita nell’accampamento, la sveglia, le adunate ed i cambi del-la guardia (Flavio Giuseppe, III, 5, 2). Nelle scena di pietas di fronte alponte sul Danubio compare anche un suonatore in abiti civili (forseun sacerdote) che accompagna il rito con uno strumento simile adun doppio aulos, di cui non conosciamo il nome antico. Sulla colon-na non compare la raffigurazione della buccina menzionata da Ve-gezio tra gli strumenti di uso militare. La buccina è uno strumentoricurvo in cornu decorato d’argento che Vegezio pare confondere conil cornu bronzeo. Recenti analisi del passo (Vegezio 3, 5, 6) hanno per-messo di stabilire la lectio originale e di constatare che l’errore nascedall’ambiguità della parola corno, che in origine designava il materia-le usato e rimase anche quando si cominciò a fabbricarlo in bronzo;

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altra possibile fonte di errore è l’analogia con uno strumento medie-vale chiamato bucina e fatto appunto di corno. Vegezio definisce ilsuono della buccina ‘classico’ perché usato in presenza dell’impera-tore o durante le esecuzioni militari, effettuate sotto la sua autorità.Altre fonti invece (ad esempio Seneca, Thyestes, 798) sembrano allu-dere all’uso di questo strumento per regolare i cambi della guardia.

Medicina

Medici romani prestano soccorso ai soldati feriti (17):la scena rappresenta due soldati che sostengono un legionario sedutosu una sporgenza rocciosa mentre un medico tampona la ferita alginocchio di un ausiliario. L’ambientazione all’esterno indica che sitratta probabilmente delle prime cure prestate ai feriti; coloro cheriportavano ferite più gravi erano invece assistiti nell’ospedale castrense(valetudinarium). A partire dalle riforme augustee ciascuna coortedisponeva del suo medico personale, il quale era subordinato almedico capo, che era solitamente il medico personale dell’imperatore.Nel caso di Traiano conosciamo il nome del suo medico personale,Statilio Critone, autore di Commentari sulle campagne daciche, andatiperduti. La scena qui rappresentata è un unicum nell’arte onorariaed esalta l’operato dei medici romani contrapponendosi allenumerosissime immagini di Daci morenti, di fronte ai compagniinermi. A questa rappresentazione fa eco un passo dell’epitome diCassio Dione (68, 8, 2) che narra di come Traiano non avesserisparmiato neppure le sue vesti per farne delle bende per i soldatiferiti. Oltre alla caratterizzazione antinomica rispetto ai barbari, lascena documenta realisticamente la necessità di provvedere allasalute dell’esercito. La concentrazione di molti uomini in condizioniigieniche precarie rendeva l’esercito un veicolo di trasmissione diepidemie (celebre la ‘pestilenza di Antonino’ del 166 d.C, descrittada Galeno, che venne propagata dall’esercito di ritorno dalle campagne

partiche di Lucio Vero); per questo motivo gli autori di trattati militariinsistono sulla necessità di porre l’accampamento non solo in unaposizione strategica ma anche in relazione alla salubrità del luogo ealla presenza di acqua potabile e corrente. L’accampamento venivainoltre munito di servizi igienici come le latrine ed i balnea oltre acanali di scolo lungo le vie per evitare il ristagno delle acque.

Trasporti

Carico di imbarcazione (18, 19): due legionari stanno sistemando sopra l’imbarcazione da trasportodelle botti di legno, contenenti le provviste per la campagna; sulla ri-va si vedono altre botti di legno in attesa di essere caricate. La scenaprosegue mostrando altre imbarcazioni cariche di provviste alimen-tari imballate e legate con funi e trasporto di cavalli.

Trasporto delle armi sui carri (20-22):i legionari spingono carri a due ruote (plaustra) trascinati da muli, so-pra i quali sono collocate delle balistae. In altri casi troviamo carri adue ruote carichi di anfore ed armi oppure carri trascinati da buoi chetrasportano botti.

L.D.B.

BibliografiaBibliografia: Sulla colonna Traiana in generale: Settis et al 1988, Sulle scene dilabor nella colonna: Baumer et al 1991; Coulston 1990; Holscher 1980,Sull’esercito romano: Le Bohec 2003; Liberati, Silverio 1988, Sull’opposizioneromano/barbaro: Giardina 1989b, Sulla medicina: D’Amato 1993a, Sullamusica: Guidobaldi 1992, Sulle tecniche costruttive nell’antichità: Adam 1988;Giuliani 2006.

Fonti antiche: Cesare, La guerra gallica, Milano 1974 Flavio Giuseppe, Guerre desjuifs, a cura di Andrè Pelletier Parigi 2003, Frontino, Gli stratagemmi, a cura diFrancesco Galli, Lecce 1999, Plinio il Giovane, Carteggio con Traiano ePanegirico di Traiano, Milano 1963, Vegezio, L’arte della guerra romana, a curadi Marco Formisano, Milano 2003.

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* Le immagini sono state riprese dai calchi della Colonna Traiana, eseguiti trail 1861 e il 1862 per ordine di Napoleone III e concessi in deposito al Museodella Civiltà Romana in Roma, da Papa Pio XII nel 1950.

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Sezione 1

tempo e spazio

L’integrazione spazio-temporale in Roma antica

Antonietta Dosi

Fig. 1 – Ricostruzione del

calendario romano Giuliano

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rarchia politico-religiosa. Due collegi di sacerdoti si dividevano in-vece le competenze: gli auguri, depositari della tradizione etrusca ei pontefici. I primi osservavano il volo degli uccelli in un quadro spa-ziale delimitato secondo il rito e in uno spazio di tempo definito.Dalla loro interpretazione dipendeva l’inizio o l’annullamento del-l’azione progettata. I pontefici erano invece esperti del diritto sacroe custodi della tradizione religiosa, nonché arbitri del calendario(sez.1.1). Riti e superstizioni dovevano rendere favorevole il pas-saggio da uno spazio delimitato a un altro, da una frazione di tem-po all’altra. Dio dei passaggi era Janus (Giano), bifronte perchédoveva vedere nello stesso tempo dietro e davanti, l’interno e l’ester-no, il tempo che finisce e il tempo che comincia. Anche la porta sichiamava ianua, in quanto apriva un passaggio e januarius (il me-se di gennaio), perché apriva l’anno. Il rituale con il quale si inau-gurava il luogo delimitato dagli auguri determinava nel campospaziale un templum che l’augure tracciava con il suo bastone ri-curvo (lituum) e in cui osservava un porzione della volta celeste perproiettarla sulla superficie della terra. È ancora consuetudine oggiinaugurare un anno accademico, una sessione parlamentare, unedificio pubblico, una mostra, una piazza o una strada. Eppure nonsi pensa mai al significato della parola che ci dovrebbe suggerire co-me queste formalità ufficiali appartengano a un rituale che nel mon-do romano aveva avuto grande importanza. Il templum non eranecessariamente un tempio. Lo diveniva soltanto se era stato de-dicato a una divinità. Lo spazio davanti a un limite sacro era dettoprofanum (da pro e fanum, sacello), come profanus era definito l’uo-mo a cui non era consentito penetrare in un tempio consacrato, madoveva aspettare al di fuori. Dal che si comprende perché in italia-no sia detto profano chi o ciò che è estraneo al sacro (fig. 1).Era considerato spatium anche quello politico, dove si esercitava ilpotere militare (imperium) posto nelle mani di un protomagistra-to che rappresentava Roma. La sua sfera di competenza si chia-mava provincia che all’origine designava solo l’incarico. La provinciaportava il nome del popolo che bisognava prima di tutto vincere(pro-vincere). Oggi ancora la provincia è uno spazio territoriale sucui però si esercita solo un potere civile. La stessa osservazione va-le anche per la regione (regio). A differenza dell’Italia, che in età tar-do-repubblicana e imperiale era uno spazio inerme senza unitàmilitari ad eccezione delle forze pretoriane di sicurezza, l’imperocostituito dai territori conquistati fuori d’Italia era uno spazio ar-mato sotto il potere militare con guarnigioni nelle province e so-prattutto lungo le frontiere. Questo spazio imperiale gravitavaintorno all’Urbs, cioè a Roma.

Se un antico Romano, come Cicerone o come Seneca o Plinio o unsemplice cittadino, potesse uscire dai sotterranei della Storia e per-correre le nostre città e le nostre campagne resterebbe certamentesconcertato. Lo spettacolo della nostra corsa sfrenata nello spazio enel tempo lo sconvolgerebbe addirittura. Ben diverse erano, quandoviveva, le sue forme d’integrazione nello spazio e nel tempo. Vienequindi spontaneo chiedersi quali fossero queste forme e su quali ba-si fosse strutturata l’arte di vivere nella società romana.Per introdurci nella ricerca bisogna innanzi tutto conoscere i riti ele superstizioni che gli antichi Romani annettevano allo loro nozio-ne del tempo e dello spazio. La parola religio (da re-ligare) fu sem-pre legata con il bisogno di appropriarsi nel modo più rispettoso diuna porzione dello spazio infinito e del tempo eterno che apparte-nevano agli dèi. Si potrebbe dire che il popolo romano temesse sem-pre di non essere in regola con le potenze del tempo e dello spazio.E perciò nei rapporti fra se stesso da una parte e il tempo e lo spa-zio dall’altra si atteneva a un’attenzione scrupolosa, perché la reli-gione (religio) lo poneva sempre nella condizione di ‘obbligato’. Ogni atto importante era di conseguenza sempre congiunto conl’attesa della sua approvazione. In ogni momento sentiva egli il bi-sogno di salvaguardare un’armonia naturale, la pace con gli dèi (paxdeorum) che avrebbero potuto turbare le sue iniziative. Il rituale au-mentava le possibilità di successo e ciò che dai riti era stato accre-sciuto (auctum) diveniva santo, maestoso, venerabile (augustum). Quanto alla parola spatium, essa non designava lo spazio quale og-gi lo concepiamo come mondo, cosmo, immensità materiale e tri-dimensionale dell’universo. Indicava invece un quadro spaziale nelquale si svolgeva un’azione religiosa per condurre a buon fine unproposito nel tempo e nello spazio di cui ci si voleva appropriare.A dimostrazione di come questi due elementi fossero integrati traloro, diremo che anche per indicare una frazione di tempo si usavaspatium. Hoc spatio significa per Cicerone “in questo intervallo ditempo” (Orator, 2, 353). Fra lo spazio che, come il tempo, apparte-neva agli dèi e il quadro spaziale che serviva da scena all’agitazio-ne degli uomini esisteva una barriera. Qui si situava il momentocritico della sua appropriazione. Con questo atto, per il quale eranecessario l’intervento degli auguri e dei sacerdoti, si fondava undiritto riconosciuto tanto dagli dèi che dagli uomini. Anche il tem-po vissuto dagli uomini era il risultato dell’appropriazione di unafrazione del tempo universale. La grande arte consisteva nel saper-ne definire i limiti (regere fines) senza perturbare gli dèi. Queste operazioni rituali, all’origine erano dirette dal re del sacro(rex sacrorum) che per lungo tempo occupò il primo posto nella ge-

quistato determinando con esattezza ciò che doveva appartenere alpopolo romano (da distribuire ai coloni e ai veterani) e ciò che po-teva tornare agli abitanti assoggettati. Non soltanto misuravano edeterminavano i limiti delle proprietà pubbliche e private (sez. 1.14),ma integravano il tutto in una rete di vie intersecantesi ad angolo ret-to e definite da un’orientazione precisa secondo due assi: il cardo eil decumano; struttura che fino ad oggi si conserva in città che sonostate sedi di accampamenti militari. L’operazione di divisione delleterre era detta ‘centuriazione’. Con le sue vie, i suoi quadrati e i suoirettangoli, questa rete ha così profondamente segnato il suolo chetuttora in certe regioni, come nelle campagne di Cremona e di Fer-rara, ne appare ancora visibile il tracciato. I Romani avevano anchecreato un corpo di specialisti (agrimensores e mensores) incaricati dilimitare i terreni e definire i diritti. Questi geometri del passato nonsolo definivano i confini, ma come quelli attuali effettuavano perizie.Oltre alla tecnica delle limitazioni e all’impiego degli strumenti di mi-sura come la groma, l’odometro, l’abaco, il compasso ecc., eranoanche abili disegnatori (sez. 1.7-12). Alla fine della repubblica ne esi-stevano due categorie: i privati e i militari. Questi ultimi erano gli spe-cialisti della “castrametazione” o arte di disporre gli accampamentimilitari. Conosciamo la loro scienza perché tutti i loro testi tecnicisono stati in età moderna riuniti in un corpo che va sotto il nome diCorpus agrimensorum o De gromaticis.Agli albori della sua storia il territorio di Roma era rappresentatodall’ager romanus (agro romano) dapprima sede soltanto dei Ro-mani (Ramnes), poi anche dei Sabini e dei Latini (Tities e Luceres).Era uno spazio politico dominato dal diritto quirite (dominium exiure Quiritium). Si trattava, come si può immaginare, di un piccolonucleo urbano con la sua periferia rurale nella quale veniva eserci-tata l’attività agricola e pastorale. L’ager era diviso in tre parti: la pri-ma riservata al re e al culto, la seconda di proprietà collettiva (agerpublicus), la terza di proprietà privata (ager privatus). Benché sotto-messi allo stesso diritto romano lo spazio urbano e lo spazio rura-le avevano uno statuto differente. Entro la città l’esercito non potevaessere convocato e tanto meno stazionare. Anche la collocazionedelle tombe corrispondeva a un’organizzazione dello spazio dei

L’insieme dei territori posti sotto la dominazione di Roma racco-glieva la quasi totalità dell’orbis terrarum, il mondo allora conosciuto.L’idea della circolarità implicita sia in Urbs che in orbs, (entrambeconnesse con il verbo urbare (“tracciare un cerchio con l’aratro”),non richiamava soltanto il rito etrusco di fondazione della città, masottolineava la centralità della posizione di Roma. Nella formula ur-bi et orbi con cui oggi il Papa impartisce la benedizione solenne eraallora riassunta la potenza romana. E se l’orbs terrarum era il do-minio dello spazio, l’Urbs rappresentava e rappresenta tuttora quel-lo del tempo. Dal momento che Roma ha trionfato sulle vicissitudinidei secoli ed è rimasta la città eterna.Parlando dell’impero di Roma non possiamo fare a meno di chie-derci quale fosse la conoscenza che i Romani avevano del mondo.Sapevano dai Greci che la terra era un globo al centro della sfera ce-leste con due poli, i tropici e l’equatore. La loro conoscenza si fon-dava anche sui racconti dei navigatori, dei viaggiatori, deicommercianti, sull’esperienza acquisita dai militari inviati a esplo-rare regioni lontane. E gli scienziati del tempo erano riusciti a mi-surare la grandezza di questo globo e a redigere le prime carte. Maal di là del mondo conosciuto si estendeva un mondo incerto e an-cor più lontano: il mito sottentrava all’informazione. Questo insie-me di terre note e sconosciute costituiva l’ecumene (il mondo). Certo i Romani non scoprirono nuove terre, però esplorarono spazidi cui i Greci, prima di Alessandro Magno, avevano solo sentito par-lare. Nel periodo di maggiore espansione sembra che i Romani fos-sero arrivati a controllare quasi la metà dell’ecumene. L’apparizionesempre più frequente del globo terrestre sulle monete a partire da-gli anni 76-75 a.C. non lascia alcuno dubbio sulla loro pretesa di pos-sedere il dominio del mondo. La sua rappresentazione raggiunselivelli di precisione sempre maggiori, come dimostrano le loro cartegeografiche e corografiche. La realizzazione cartografica più note-vole fu la cosiddetta “carta di Agrippa”, un’enorme carta murale fat-ta collocare nel Campomarzio da Augusto, la quale descriveval’ecumene, mentre la forma di Roma venne incisa su marmo all’epocadi Settimio Severo ed esposta nel Foro della Pace (sez. 1.15).I Romani sapevano organizzare lo spazio progressivamente con-

Fig. 2 - Plastico di Roma arcaica

(progetto di L. Quilici. Roma,

Museo della Civiltà Romana)

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detta Quadrata, tracciato dal vomere dell’aratro di Romolo sul Pa-latino, era in realtà un terrapieno che circondava la città, un limiteinvalicabile per le divinità straniere, per i morti e per i militari. Al-l’interno del pomerio Romolo, e dopo di lui i successori, procedet-tero alla divisione del terreno e all’orientamento degli spazi pubblici,delle strade, dei vicoli in base alle regioni del cielo. All’incrocio delcardo e del decumano si trovava il centro civico e religioso dove erastata in precedenza chiusa la fossa centrale (mundus) che collega-va il mondo dei vivi con quello sotterraneo degli Inferi. Al centrogeometrico, sintesi dei focolari domestici, c’era anche il tempio diVesta dove le Vestali custodivano il fuoco perenne.L’occupazione dello spazio nelle città rispettava sempre determi-nate regole. A Roma la piazza principale (Forum) occupava anch’essail centro dello spazio urbano. Tali regole sono state più o meno ri-spettate anche in età moderna. Recentemente nelle grandi metro-poli si tende invece a creare spazi decentrati aventi una vita autonomarispetto a quella che oggi si chiama city e al tempo di Roma Urbs.Intorno al Forum erano disposti i templi e le basiliche. Ad ogni mo-do fra le molte città dell’Impero la Roma dei Cesari fu la meno ri-spettosa delle regole urbanistiche. Non ebbe mai un piano regolatoredegno di questo nome, tanto che a causa degli ingombri i traspor-ti commerciali si facevano generalmente di notte con grande fra-stuono, come racconta Giovenale in una sua satira. La città si fregiavaanche di grandi archi. L’origine dell’arco di trionfo fu probabilmen-te legata a un rituale di purificazione e di reintegrazione. Passandosotto l’arco il cittadino-soldato usciva dallo spazio sottomesso al-l’imperium militare per reintegrare lo spazio civile come semplicecittadino.Lo spazio ludico della città comprendeva i luoghi dove ilpopolo si rallegrava collettivamente degli spettacoli e dei giochi (tea-tri, odea, circhi, stadi, anfiteatri); quello civico era invece costituito

morti. Era vietato, per esempio, seppellire i morti entro la cinta del-le mura. Dopo la costituzione della repubblica, i due consoli ebbe-ro anch’essi compiti diversi a seconda che esercitassero il poteremilitare fuori dalla città o stessero dentro le mura come rappre-sentanti del potere civile. L’espansione dell’ager romanus fu il risul-tato delle conquiste che provocarono lo sviluppo dello spazio urbanoprimitivo (fig. 2). La città assorbì una parte della periferia, mentrequella parte dell’ager romanus che ne rimase escluso si trasformòin uno spazio geografico più vasto. Quando poi la conquista supe-rò i limiti geografici del Lazio, amministrare le terre pubbliche in-cominciò a diventare una preoccupazione per Roma. Fu necessariodefinire lo statuto dei territori lasciati alle città vinte e in seguito an-che quello delle città legate a Roma da trattati di diversa natura. Poi-ché queste ultime città non erano di diritto romano, costituivano undominio situato peregre, al di là dell’agro romano, cioè all’estero edetto per questo ager peregrinus.Estendendo ulteriormente le sue conquiste, Roma spinse semprepiù lontano l’insieme dei territori occupati da popolazioni nemichee sempre più in là i territori meno conosciuti. La dichiarazione diguerra alla città o allo Stato nemico che ai giorni nostri viene tra-smessa con dichiarazione motivata o come ultimatum da un am-basciatore, allora avveniva in maniera più spettacolare tramite isacerdoti Feziali che gettavano una lancia sul territorio nemico pro-nunciando formule rituali. Quando poi la lontananza dello spazionemico incominciò a complicare il compito dei Feziali, fu fatto ri-corso a una finzione giuridica. L’ager publicus, ormai vastissimo sirivelava intanto per lo Stato una fonte di notevoli rendite. Ma nonlo fu di meno per molti ricchi proprietari ai quali siffatte specula-zioni offrirono la possibilità di diventarlo ulteriormente. Segnato da cippi, il pomerio (pomerium) della Roma primigenia,

Fig. 3 – Plastico ricostruttivo di Roma

in età tardo antica

(progetto di I. Gismondi. Roma,

Museo della Civiltà Romana)

4) e anche il tempo opportuno e fuggiasco (Chairos). I Romaninon furono da meno.Ma dopo aver rappresentato il tempo con la fantasia occorreva de-terminarlo. Il primo metro che s’impose per la misura del tempo fuil giorno. Per calcolare una durata maggiore, parve possibile tota-lizzare i giorni successivi in una serie lineare (per esempio con chio-di o con tacche su una trave), sistema tuttavia inadeguato a strutturarelunghe e regolari durate di tempo. Sicché dopo l’alternanza del gior-no e della notte, gli antichi - che avevano osservato la serie delle tra-sformazioni che la luna subisce - intuirono il fenomeno della lunazioneo mese lunare. Incominciarono così a calcolare il tempo per lune.Anche a Roma il primo calendario di Romolo fu lunare. Venne poimodificato dal re Numa che vi aggiunse il mese di gennaio e di feb-braio. Ma il cielo impone alla vita terrestre un altro ciclo non menoimperioso: l’anno, il cui corso determina il ciclo stagionale della ve-getazione e della modificazione dei fattori climatici. L’anno lunareera il conto di un durata, non di un tempo assoluto in accordo conil sole e gli astri. Col passare del tempo lo sfasamento divenne taleche nel 46 a.C. l’equinozio dell’anno civile differiva da quello astro-nomico di ben tre mesi. Così nell’anno 708 dalla fondazione di Ro-ma, Cesare nella sua qualità di pontefice massimo decise di porrefine a queste irregolarità adottando un calendario che fosse il piùpossibile conforme all’anno solare. Malgrado questa rettifica, il di-vario si accentuò ancora nel corso dei secoli. I giorni del calendarioromano erano contraddistinti da lettere che avevano significato po-sitivo o negativo. Particolarmente importanti erano le nundinali chesi succedevano dal principio alla fine dell’anno per otto giorni e ser-vivano per fissare ogni nono giorno la data delle fiere e dei merca-ti. Sette giorni quindi intercorrevano dunque tra due lettere nundinaliproprio come i giorni della nostra settimana, istituita nel III sec. d.C.

dall’insieme dei luoghi in cui si discuteva l’avvenire della città e siprendevano decisioni. Nella Curia si radunava il senato per votare.Quanto alle assemblee del popolo (comitia), avevano luogo in se-di differenti. La presa degli auspici infine, poiché era necessario chein tale circostanza l’Urbs fosse tutta visibile, avveniva dall’Augura-culum dell’Arx da dove si dominava tutta la città.Lo spazio urbano di cui si è parlato era un ricalco armonico dellospazio privato che aveva anch’esso un focolare per centro, un alta-re per i sacrifici al dio tutelare, un’apertura verso il cielo e un’altraverso il mondo sotterraneo. La domus fu il punto di arrivo cittadinodello sviluppo spaziale privato della capanna primitiva che nello spa-zio rurale aveva dato vita alla casa di campagna. Era chiamato he-rediumperché trasmissibile (donde viene la parola “eredità”). Evolutasiin casa padronale in città, la domus ebbe due facciate, l’una sullastrada e l’altra sul giardino che gli architetti romani più qualificatisapevano disporre con gusto squisito e molta immaginazione. Masoprattutto le meravigliose ville suburbane della classe aristocrati-ca e dei nuovi ricchi offrivano fantasiosi giardini con passeggiateombrose e giochi d’acqua. In città l’esigenza continua di nuovi spa-zi edificabili provocava invece la diminuzione progressiva delle di-mensioni del giardino. Gli architetti incominciarono allora a creareall’interno delle case spazi verdi fittizi attraverso pitture murali inprospettiva e paesaggi illusori. Quanto al popolo minuto, abitava(sarebbe meglio dire che vi andava a dormire soltanto) in case a piùpiani (insulae) quasi tutte prive di ogni comfort e soggette a fre-quenti incendi (Fig. 3).Impotenti di fronte all’inarrestabilità del tempo, ma anche affa-scinati dall’imperscrutabile mistero del suo fluire, gli antichi ave-vano rappresentato antropomorficamente il tempo assoluto econtinuo (Aion, che ha la stessa radice della parola iuvenis) (fig.

Fig. 4 – Patera di Parabiago con

rappresentazione di Aion, il tempo

senza fine. IV sec. d.C.

(Milano, Civico Museo Archeologico;

riproduzione: Roma, Museo Civiltà

Romana)

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L’ora fu a lungo sconosciuta, tanto che nelle Leggi delle Dodici Ta-vole (metà del V sec. a.C.) non se ne trova ancora menzione. Dopola levata e il tramonto del sole, il loro primo punto di riferimento fuil centro della giornata, il mezzogiorno (meridies) ufficializzato nel338 a.C. Si determinarono così il mattino e il pomeriggio. L’invenzione dell’ora fu una grande conquista della civiltà. La suaorigine dovette essere probabilmente caldea, con un passaggio at-traverso la Grecia, visto che le orai compaiono nella mitologia gre-ca. I Romani la adottarono nel 273 a.C. e ne fecero un’unità di tempocivile e politica. Certo gli astronomi conoscevano le ore equinozia-li tutte uguali nel corso dell’anno, ma nella vita pratica il giorno na-turale era sempre diviso in dodici parti, il che comportava ore didiversa lunghezza in estate e in inverno. Quanto alla notte, avevaquattro vigiliae di tre ore ciascuna. Data la sua variabilità quantita-tiva era impossibile pensare alla rimunerazione dei lavoratori in ba-se all’ora. Per questo i Romani preferivano calcolare il lavoro compiuto.La divisione del giorno in dodici ore determinò un bisogno di pre-cisione nella misura del tempo. Esistevano di fatto due tipi di ore:l’una esteriore misurabile soltanto di giorno perché definita dallaposizione del sole, l’altra vissuta, conoscibile di giorno come di not-te perché del tutto indipendente dal corso del sole e misurabile, per

Agronomi come Columella ed eruditi come Varrone e Plinio com-posero anche calendari astro-agricoli minuziosi che contenevanoindicazioni per i lavori dei campi. Dopo l’affermazione del Cristia-nesimo, la Chiesa redasse un calendario liturgico che era insiemelunare per le feste mobili come Pasqua e solare per le feste fisse co-me Natale.I Romani avevano molti modi per datare gli avvenimenti. Il più no-to era il riferimento ai due consoli che esercitavano la loro funzio-ne in quell’anno. La loro entrata in carica segnava l’inizio dell’annopolitico e gli anni venivano contati dalla fondazione della città (aburbe condita).Si deve però dire tuttavia che, come altri popoli dell’antichità, i Ro-mani padroneggiavano meglio lo spazio del tempo. Alla sua preci-sione quantitativa preferivano la minuzia della sua espressionequalitativa. Il giorno civile aveva inizio, come oggi, a mezzanotte.Dies era il giorno e nox la notte. All’origine però dies era il cielo lu-minoso per la presenza del sole. Venne poi divinizzato nel nome diDiespiter (padre della luce) da cui derivò Jupiter, padre degli dèi. Dal-l’originario significato di luce, dies assunse in seguito un senso tem-porale e indicò il giorno. La notte, regno dell’oscurità, fu il tempo incui non si agiva.

esempio, dal fluire di una certa quantità d’acqua da un vaso in unaltro. Essa fu conosciuta con precisione maggiore quando divennepossibile consultare strumenti che indicavano l’ora solare calcola-ta scientificamente e quella vissuta misurata empiricamente. Il cittadino comune però non sapeva leggere l’ora e la chiedeva con-tinuamente: Quota hora est? “Che ora è?” L’ora dunque doveva es-sere annunciata. Nei primi tempi della repubblica era proclamata agran voce l’ora del mezzogiorno. Ne veniva dato annuncio ancheper convocare i comizi e le udienze in tribunale. Poi entrarono nel-l’uso le clessidre inventate dagli scienziati alessandrini. Allo scopodi conoscere l’ora concorreva anche l’osservazione della lunghezzadell’ombra. Fondamentale per il calcolo dell’ora diurna fu pertantolo gnomon inventato anch’esso, a quanto sembra, dai Caldei. Lagnomonica, che era la scienza e l’arte di costruire quadranti, ri-chiedeva necessariamente la competenza dell’architettura e del-l’astronomia per poter orientare bene le sue costruzioni.A Roma l’uso dei quadranti in breve si generalizzò e la loro fabbri-cazione divenne un’attività fiorente. Nel I sec a.C., secondo Gellio,Roma ne era già invasa (sez. 1.2-5). La costruzione più maestosa sitramanda fosse l’orologio solare (solarium) che Augusto fece edifi-care nel campo di Marte. Un altro grande passo nel perfeziona-mento del calcolo dell’ora fu infine l’orologio idraulico. Mentre lasemplice clessidra registrava solo il tempo di scorrimento dell’ac-qua, l’orologio idraulico era una clessidra verificata con un quadrantesolare. Il più noto è quello di Ctesibio descritto da Vitruvio (9, 8,2)sez. 1.4). Esistevano infine gli horologia viatoria, quadranti portatiliche erano dei veri e propri orologi dalle forme più varie e spesso as-sai curiose (erano forse gli antenati delle ‘cipolle’ che i nostri non-ni portavano nel taschino) (sez. 1.3).Ma il tempo non è mai stato a misura dell’uomo. A causa della suainafferrabilità, solo pratiche religiose scrupolosamente osservate po-tevano, come abbiamo detto, consolidarlo. E i pontefici dovetterodar prova di sapienza e di sottigliezza nell’arte di manipolare il tem-po. I giorni di festa potevano appartenere alla religione domesticao essere feste popolari o della religione di Stato. In ogni caso eranotutte feste di protezione, alle quali si aggiungeva la commemora-zione solenne e rituale dei grandi avvenimenti della storia di Roma.Non avevano tutti le stesse caratteristiche.Come avviene ancora oggi, alcuni facevano sospendere le normaliattività perché ciascuno adempisse ai suoi doveri religiosi, altri nonarrestavano che la vita pubblica e spesso solo per mezza giornata.Non tutti erano dunque di riposo. Erano inoltre detti fasti (da fas,‘lecito’) i giorni che la religione lasciava alle attività normali e nefa-sti (da nefas, ‘non lecito’) i giorni negati alle attività profane e uni-camente riservati agli dèi. Al calendario religioso fu dato il nome diFasti. Alla fine dell’anno liturgico bisognava sbarazzarsi del tempoconsumato. Il 14 marzo la folla cacciava a colpi di verga in direzio-ne dei nemici un uomo rivestito di pelli chiamato Mamurius Vetu-rius. Il giorno successivo, la festa di Anna Perenna indicava l’inizioeffettivo dell’anno nuovo. In precedenza (il 24 febbraio), nella ceri-monia del Regifugium, era già dovuto fuggire, secondo il rito, il redel sacro. Con questa fuga il re decaduto simboleggiava l’anno espul-so. Il nostro carnevale con il suo re, può essere considerato la so-pravvivenza di un rito di espulsione del tempo consumato e così il31 dicembre con lo scoppio dei mortaretti.

Abbiamo parlato dell’habitat del cittadino romano. Vediamo ora diseguirlo nei ritmi della sua vita. Grazie al calendario egli non era sol-tanto integrato nel tempo, ma anche continuamente reintegrato,perché si trovava indotto a passare da uno spazio-tempo a un al-tro, da quello del fas o diritto divino a quello dello ius o diritto civi-le, da quello della vita pubblica a quello della vita privata, da quellodell’attività a quello del tempo libero. La sua giornata si divideva indue parti: la mattina era riservata agli affari (negotium), il pomerig-gio alla distensione e allo svago. Il cittadino romano era mattinie-ro, perché si alzava con il sole. Questa levata, che incominciava conil saluto al patrono (salutatio), continuava dopo una più che fruga-le colazione (jentaculum) con una discesa al Foro, dove all’ora ter-za avevano inizio le inchieste giudiziarie. Il pasto del mezzogiorno(prandium) era consumato, spesso in piedi, con ciò che era rima-sto della sera precedente. A questo punto della giornata tutte le at-tività cessavano, perché il prandium segnava la fine delle ‘ore serie’,come le chiamava Plinio. Quella del bagno, alla nona ora d’inver-no, all’ottava d’estate era irrinunciabile. Con la coena, che era il pa-sto fondamentale, incominciava una nuova giornata quasi semprein compagnia di amici. La cena si concludeva all’imbrunire. Solo chigozzovigliava faceva, come oggi si dice, ‘le ore piccole’. Il tempo della vita era scandito anch’esso da tappe ben precise. Ilneonato, dopo la purificazione, se era maschio riceveva il nome pro-prio (praenomen), quello della famiglia e in seguito un sopranno-me. Al collo gli veniva appesa una bulla d’oro come amuleto diprotezione contro le forze maligne. Fino a sette anni era educatodalla madre, poi dal padre. Il bambino (puer) indossava la vestepraetexta, bianca con una bordura di porpora che tracciava intornoa lui uno spazio di protezione. La bambina (puella) aveva solo il no-me di famiglia del padre. Oggi i nostri giovani per motivi di studioo per la necessità di trovare un lavoro stabile si sposano in generefra i venticinque e i trent’anni. A Roma invece, il matrimonio, con-cordato fra le famiglie, aveva luogo a dodici anni per la fanciulla e aquattordici per il ragazzo, il quale, nonostante fosse già sposato,raggiungeva la maturità civica solo a diciassette anni e passava al-lora alla condizione di adulescens. Nei Liberalia (feste di Liber, diodel vino) egli deponeva la veste praetexta, indossava la toga virile eoffriva a Giunone la bolla d’oro che lo proteggeva; veniva condottosolennemente nel Foro ed entrava nella vita pubblica. In tale circo-stanza otteneva il diritto di voto (ius suffragii) che i nostri giovani so-lo da non molti anni hanno avuto con la maggiore età a diciotto eprestava subito servizio militare. Teoricamente doveva però atten-dere l’età di venticinque anni per poter redigere un testamento, maanche allora restava sottomesso al pater familias fino alla morte diquest’ultimo. Ogni cittadino apparteneva all’esercito attivo degli juniores dai di-ciassette ai quarantacinque anni e a quello sedentario e di riservadei seniores dai quarantacinque ai sessant’anni. Alla carriera politi-ca che comprendeva l’edilità, la pretura e il consolato accedevano irampolli della classe aristocratica e nobiliare, ma non mancavanointelligenti ambiziosi della classe degli affaristi che per meriti mili-tari o grazie a qualche appoggio riuscivano a penetrarvi. Tempo espazio esercitavano un ruolo anche nelle interdizioni imposte ai ma-gistrati. I tribuni della plebe, per esempio, magistratura plebea lacui attività potremmo avvicinare con molta approssimazione a quel-

Dal verbo calare deriva il termine calendarium,che originariamente designava solo lo scaden-zario sul quale venivano annotate le date delleoperazioni finanziarie (ad es. il rimborso dei pre-stiti). I curatores calendari erano incaricati di ri-scuotere le rendite della città. La tradizione attribuisce la creazione del primocalendario romano a Romolo. Il mitico fondato-re di Roma avrebbe istituito un anno della dura-ta di 304 giorni, suddivisi in 10 mesi partendo damarzo, i primi cittadini avrebbero quindi avutoun anno senza gennaio e febbraio. Questa ipo-tesi, sostenuta da diversi studiosi, è avallata dalnome dei mesi che riportano una numerazione:Quinctilis, cioè luglio, risulta il quinto mese a par-tire da marzo, e non da gennaio. Si trattava di uncalendario sostanzialmente basato sul ciclo lu-nare, ma che presentava senz’altro notevoli in-convenienti se già Numa, altro re leggendariodella storia romana, intervenne per modificarlo.Numa Pompilio infatti, cercando di allineare ilcalendario con il ciclo lunare, aggiunse nuovi gior-ni, fino ad arrivare ad un totale di 355, divisi in 12mesi; è a questo punto che entrano a far partedel calendario gennaio e febbraio. Veniva co-munque a crearsi uno sfasamento con il ciclo so-lare, e di anno in anno aumentava la distanza trala data calendariale ed il corso naturale delle sta-gioni, così che l’equinozio di primavera si trova-va a cadere in gennaio, o in novembre. Perrimediare a questo inconveniente Numa ricorseall’aggiunta di un mese, detto intercalare, che ve-niva inserito tra il 23 ed il 24 febbraio. La situa-zione nondimeno rimase piuttosto confusa, enel calcolare le date precedenti al 46 a.C. spessogli storici incontrano problemi in relazione a que-sto fatto.Solo nel 304 a.C. fu affisso in Roma vicino al Fo-ro il primo calendario nel quale erano indicati igiorni della convocazione dei comizi e nel 186a.C. il console M. Fulvio Nobiliore ne affisse unonel tempio di Ercole e delle Muse presso il CircoFlaminio (Livio, 9, 46). Una sistemazione definitiva venne da Cesare, chenel 46 a.C., aiutato dal matematico greco Sosi-gene, introdusse il cosiddetto anno giuliano, che,

con piccole modifiche, è sostanzialmente giun-to fino a noi. Giulio Cesare, nella sua qualità di pontefice mas-simo, decise di correggere le irregolarità accu-mulate con il conteggio dei giorni basati sul ciclolunare: nel 46 a.C. infatti l’equinozio dell’anno ci-vile differiva da quello astronomico di circa tremesi e l’inverno si era spostato in autunno. Ce-sare fece venire a Roma da Alessandria d’Egittol’astronomo greco Sosigene che suggerì di adot-tare l’anno solare, che era già stato calcolato esat-tamente dall’astronomo Ipparco di Nicea nel IIsec. a.C. in 365 giorni, 5 ore e 55 minuti (sbagliandosolo di 6 minuti in più). Venne adottato l’anno di365 giorni e il deficit annuale di un quarto di gior-no fu colmato con la creazione di un giorno sup-plementare ogni quattro anni, come giorno bisdel sesto giorno prima delle calende di marzo,donde bis sextus, che è il nome dato all’anno bi-sestile.Giulio Cesare per far quadrare i conti del calen-dario nell’anno 708 /46 dalla fondazione di Ro-

ma fu costretto ad aggiungere non solo un me-se intercalare di 23 giorni (detto mercedonio),ma anche due mesi supplementari di 33 e 34 gior-ni: pertanto si ebbe un anno che eccezionalmentefu di 455 giorni detto anche ‘anno della confu-sione’ e con il 1 gennaio del 45 a.C. entrò in vi-gore la riforma del calendario. A sua volta Augustoapportò altre correzioni al calendario giuliano al-ternando mesi di 30 e di 31 giorni.Nei calendari erano riportate sia le feste princi-pali, che le ricorrenze di cerimonie religiose, an-niversari di dediche di templi, i giochi e glispettacoli e, in età imperiale, anche avvenimen-ti storici, fino ai giorni natalizi e le assunzioni dicariche degli imperatori.Ma il calendario rappresenta soprattutto unesempio di debito culturale che la moderna ci-viltà occidentale ha nei confronti di quella ro-mana, poiché il calendario che noi usiamo èsostanzialmente ancora quello introdotto daGiulio Cesare nel 45 a.C.Tra le circa 50 testimonianze dei calendari romani,

Sez. 1.1 - Il calendario giuliano.Fasti Praenestini

Originale: Calendario di Verrio Flacco esposto nelForo di Praeneste (Roma, Museo NazionaleRomano a Palazzo Massimo)

Cronologia: 6-9 d.C.

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ni, pagani o cristiani che fossero, erano assai meno precipitosi dinoi contemporanei, ossessionati come siamo dalla velocità e dainostri progetti di futuro. Essi strutturavano l’ambiente su ciò cheera loro utile. La civiltà da loro costruita delineava la figura di unospazio-tempo definito e limitato, sottomesso, come abbiamo det-to, allo ius, cioè al diritto degli uomini e a quello spazio-temporaleinfinito e misterioso appartenente agli dèi e sottomesso al loro di-ritto, il fas. L’antico Romano viveva così in una simbiosi creatrice di armonia.La coscienza di un’integrazione perfetta, per quanto possibile, di-veniva una fonte di felicità (felicitas) se era sorretta da due qualità:il sentimento religioso dei doveri da compiere (pietas) e la lealtà eil rispetto degli impegni e della parola data (fides). Qualità che era-no il fondamento della virtus. Il che non escludeva che in certe cir-costanze, soprattutto nella tarda repubblica e sotto l’impero simanifestasse la crudeltà dei sentimenti e l’eccesso dei piaceri conla conseguente perdita dei valori. Non si dovrà dunque commette-re l’errore di conferire un carattere assoluto alla condizione di ar-monia che abbiamo sopra enunciato e credere che fosse durata finoalla fine dell’antichità. Sarebbe più giusto parlare di lunga e solidasopravvivenza di un’integrazione che fu più intensamente vissutanei tempi più remoti. Ma l’evoluzione della concezione irrazionale del mondo verso in-terpretazioni più razionali era ineluttabile. Oggi il cielo e il mondosotterraneo degli Inferi e dei morti non sono più in relazione conti-nua con la terra. La società profana ne elimina progressivamente leultime vestigia e solo la pratica religiosa ne salvaguarda ancora qual-cuna. Oggi i diritti prevalgono sui doveri. L’uomo che prima era vis-suto all’interno di un ‘tutto’ impregnato di divinità, si ritrova all’esterno.L’angoscia dell’uomo contemporaneo, sovente inconfessata, chepure si manifesta in molteplici maniere, potrebbe anche essere unavertigine provocata dalla mancanza di radicamento, di integrazio-ne, di comunicazione, perché a una religione come quella romana,fatta di attenzione scrupolosa, è sottentrata una religiosità spessosoltanto superficiale. Non vivendo più in simbiosi totale con il tut-to, l’uomo ha avviato una storia che continua ad accelerare ed èsempre meno integrata nel contesto naturale. Ai nostri giorni gli ecologisti predicano il ritorno alla natura, ma laloro visione si limita a preoccupazioni che riguardano solo l’avve-nire prossimo dell’uomo trascurando la nozione di sacro nell’inte-grazione spazio-temporale. Se però questo secolo appena iniziatovedrà un ritorno alla religione, non è escluso che questo ritorno deb-ba essere interpretato come quello di una religione che si riferirà auna lettura più attenta del contesto naturale in opposizione all’at-tuale rifiuto dello scrupolo, qual è appunto la negligenza (negligen-tia da nec- legere). La fine del mondo antico s’identificò dunque conla sparizione dello scrupolo nell’appropriazione dello spazio e nel-lo sfruttamento di un tempo qualitativo buono e favorevole. Tuttal’arte di vivere dell’antico Romano era invece legata a una formaequilibrata di integrazione spazio-temporale.

la dei nostri sindacalisti, non potevano restare assenti da Roma ungiorno e una notte. Ma quanto vivevano questi nostri Romani? È una domanda a cui èdifficile rispondere. L’istituzione delle classi censuarie permettevaall’amministrazione romana di sapere in modo abbastanza preci-so l’età dei cittadini, ma con le scarse notizie a nostra disposizionenoi non siamo in grado di conoscere la loro durata media di vita.Possiamo soltanto dire che Augusto, morto a settantasette anni,era quasi un’eccezione. Ciò non toglie che siano esistiti vegliardi au-torevoli, anche se oggi la loro età non parrebbe così avanzata. Sitrattava comunque di casi fuori del comune, la cui rarità avrebbepotuto dar ragione a Seneca, autore di un libro sulla brevità della vi-ta e anche spiegare perché a Roma l’idea della morte fosse semprepresente. Polibio ha descritto il rituale degli onori funebri: se la per-sona deceduta era illustre, il suo corpo veniva portato in gran pom-pa nel Foro presso i Rostri. Dopo l’elogio funebre pronunciato dalfiglio, il defunto veniva condotto fuori dalla città per essere crema-to o inumato nella tomba che la famiglia possedeva su una delle vieconsolari. Il ritratto del defunto di cera o dipinto su legno era con-servato all’interno della casa in un reliquario ligneo insieme a quel-li degli avi.Concludendo questa presentazione, che abbiamo cercato di ren-dere colloquiale, non possiamo fare a meno di pensare che se è ve-ro che del mondo romano esiste fino ad oggi una tradizione dicontinuità nell’uso delle parole e nel mantenimento di molte con-suetudini, è altrettanto vero che se ne evidenziano anche le diffe-renze. La più significativa riguarda proprio la modificazione dellerelazioni fra l’uomo e il suo contesto spazio-temporale che senzadubbio fu anche il fenomeno più importante fra quanti segnaronola fine di quel mondo. Il cambiamento certamente incominciò quan-do vennero scosse le strutture spaziali della città-stato su cui si fon-dava la repubblica dei primi secoli, costretta a confrontarsi con iproblemi sorti per amministrare e difendere uno spazio imperialesempre più vasto. Uscendo da uno spazio-tempo che affondava le sue radici nel ‘vir-tuoso’ passato degli antenati ed era garantito da un futuro che nonpoteva essere che l’eternità del presente, il conquistatore romanoera venuto in contatto con altre durate temporali che nelle varie par-ti dell’impero non parevano fluire con la stessa rapidità. Tentò diistituire un tempo unico comune a tutto l’impero, ma a malapenariuscì a realizzare una giustapposizione di tempi presenti molto ap-prossimativa coronata da un tempo ufficiale imperiale. Con l’avvento del Cristianesimo lo scorrere del tempo non fu più si-mile al movimento perenne di una grande ruota con il respiro reli-gioso del ritmo dei riti, delle feste, delle stagioni (tempo ciclico). Ilpresente, la cui lunghezza era sembrata una garanzia di eternità, di-venne solo un momento di attesa di fronte alla promessa di un fu-turo migliore in una vita che non era di questo mondo, entro ilquadro della fine dei tempi. In ossequio alla loro concezione del tempo e dello spazio, i Roma-

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Bibliografia di riferimentoChevalier et al. 1976; Dosi, Schnell 1992; Dupont 1989; Meslin 1978; Nicolet 1976; Nicolet 1983;Zaccaria Ruggiu 2006.

Augusto mirati alla sistemazione del CampoMarzio: tra l’Ara Pacis e i portici di Agrippa, Au-gusto ordinò che si costruisse un grandiosoorologio solare. Un obelisco egiziano trafuga-to ad Eliopolis nell’anno 12 a.C. e fatto costrui-re dal faraone Psammetico II intorno al 586 a.C.,oggi conservato a piazza Montecitorio, servivada gnomone dell’orologio. In questo modol’opera sarebbe stata due volte grandiosa: unoperché era la più grande del mondo per di-mensioni, secondo perché era realizzata utiliz-zando per gnomone un obelisco sacro agliegiziani per l’adorazione del dio Sole. L’operafu inaugurata il 9 d.C. e, stando a quanto ri-porta Plinio (Naturalis Historia 36, 71-73) fu rea-lizzata da un personaggio detto “FecondoNovo”, sulla cui figura rimangono molti dubbitra gli storici.L’ombra della sfera collocata sulla cima del-l’obelisco, che simboleggiava Augusto, il soleApollo, toccava l’Ara Pacis in un dato momen-to a confermare che Augusto era nato per lapace. Infatti quest’altare segnava la linea equi-noziale che coincideva con la data di nascitadell’imperatore (23 settembre) e con l’equino-zio autunnale. La grande meridiana era postaal centro di una superficie di 160 x 75 metri, co-stituita da lastre di travertino, sulla quale era di-segnato un quadrante con lettere bronzee, conl’indicazione delle ore, dei mesi, delle stagionie dei segni zodiacali.

E.S.BibliografiaBuchner E., s.v. Horologium Augusti, in LTUR III,1996, pp. 35-37 (con bibl. preced.); Dosi 1992;Daremberg, Saglio, s.v.; Morchio 1988; Oleson2008; Ricci, Suppa 1994; Rigassio 1988.

Sez. 1.3a.b - Horologia Viatoria

Originali: a) Monaco, PrähistorischeStatssammlung; b) Museo di Metz

dimensioni: a) diam. 3, 8; b) diam. 10, h. 4Provenienza: a) sconosciuta, acquistato a Istanbul;b) da Forbach

Riproduzioni: in gesso e metallo effettuate sullecopie del Römisch-Germanisches Zentralmuseum di Mainz am R.; Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. nn. 3902-3903

Si tratta di una meridiana portatile (a) per laprovincia della Bithinia, montata su un me-daglione bronzeo di Antinoo, coniato nellacittà natale dell’amato di Adriano, Bithinia-Claudiopoli, poco dopo il 134 d.C. Singolari ed eccezionali sono i rinvenimentidi orologi portatili, da tasca detti horologiaviatoria pensilia: si tratta di veri e propri oro-logi individuali di forma piccola e miniaturiz-zata, molto simili ai nostri moderni orologida tasca. Queste piccole meridiane erano con-tenute a volte in scatoline di osso (theca me-ridiana) o montate su un disco di bronzo dellagrandezza di una moneta, oppure usandoproprio una moneta sulla quale si saldavaun’asta e si incideva il quadrante con le ore:la piccola meridiana veniva poi esposta al so-le in modo che l’asta indicasse l’ora esattaA Roma e nell’Italia antica l’ora era un tempoutile, civile e politico: anche se gli astronomiconoscevano le ore equinoziali, tutte ugualinel corso dell’anno in un ciclo ‘giorno e not-te’ di 24 ore, nella vita pratica il giorno natu-rale dall’alba al tramonto era sempre diviso in12 parti, il che comportava ore di diversa lun-ghezza in estate e in inverno, cresceva a par-tire dal solstizio d’inverno, era uguale a quellanotturna all’equinozio, raggiungeva la duratamassima nel solstizio d’estate per poi de-screscere. Le ore notturne avevano quindi unandamento inverso rispetto a quelle diurne.Anche la notte era divisa in dodici parti rag-gruppate a tre a tre per formare quattro unitàchiamate vigiliae (veglie), termine che desi-gnava in origine il turno del soldato di guar-dia durante la notte (gruppi di quattro uomini,che restavano di veglia tre ore ciascuno). Ilconcetto di minuti era noto e venivano defi-niti con il termine di scrupuli, ma non è chia-ro in che modo potessero essere misurati.Un esemplare di orologio scoperto in Francia,vicino a Forbach (b) è costituito da un discodi bronzo inciso sulle due facce con un bordodi 5 mm, nel quale è disposto un foro conico.

Per regolarlo si poneva sulla linea del mese incorso un ago che girava intorno al centro. Te-nendo questo quadrante in posizione vertica-le, lo si faceva girare finché il sole inviavaattraverso il foro un raggio sull’ago. Un puntoluminoso indicava allora una delle sei linee ora-rie che tagliavano le linee dei mesi.

E.S.

Bibliografia Ardaillon E., s.v. Horologium, in Daremberg-Saglio,III, 1, p. 260; Borst 1997; Buchner 1976; Dosi, Schnell 1992; Eureka 2005; Oleson 2008,Turner 1994; Taub 1999.

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sopravissuti all’epoca antica, il più antico calen-dario giunto fino a noi è quello dipinto su into-naco trovato ad Anzio (Fasti Antiates maioresconsulares et censorii, conservato nel Museo Na-zionale Romano) ed è datato tra l’84 e il 55 a.C.,quindi precedente alla riforma di Cesare. Sullabase di questa documentazione archeologica edepigrafica possiamo farci un’idea di come si pre-sentava un calendario nel I sec d.C. Sull’esem-pio dei celebri Fasti Praenestini che sono tra i piùricchi e meglio conservati (6-9 d.C.) si riscontrache l’anno era diviso in dodici colonne verticaliaventi ciascuna in alto l’indicazione del nome delmese in forma abbreviata, ed in fondo il nume-ro totale di giorni per quel mese. In ogni colon-na erano poi riportate, per ciascun giorno, lelitterae nundinales, indicanti quando si sarebbesvolto il mercato. Si trattava delle prime otto let-tere dell’alfabeto, ripetute ciclicamente, in modoche, stabilita una data fissa, ad esempio il gior-no D, il mercato si svolgesse sempre in quei gior-ni. Alla lettera nundinale seguiva un numeroindicante i giorni mancanti alla successiva tra ledate fisse che scandivano il mese.I Romani infatti, per indicare un giorno del me-se, non contavano i giorni passati dal primo, co-me si usa ora, ma si riferivano al numero di giorniche mancavano ad una serie di date fisse, checadevano sempre nello stesso punto del mese.Questi giorni stabiliti, di origine molto arcaica eche sembrano richiamarsi ad un periodo in cuiil calendario coincideva con le fasi lunari, sono:- le Calende (K) che cadono sempre il primo gior-no del mese;

- le None (NON) che cadono il 5, tranne che peri mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre in cuicadono il 7;

- le Idi (EID, secondo una terminologia arcaica)che cadono il 13, tranne che per i mesi di mar-zo, maggio, luglio e ottobre in cui slittano al 15.

Nei giorni in cui cadevano le date fisse questeerano riportate, in forma abbreviata, subito do-po la lettera nundinale. Subito dopo veniva l’indicazione della qualità delgiorno, cioè un’abbreviazione indicante di che ti-po di giorno si trattasse e di conseguenza qualiattività fosse possibile svolgere.I giorni potevano essere definiti:- Fasti (F) giorni in cui poteva essere ammini-strata la giustizia;

- Comitiales (C) giorni in cui si potevano tenerei comitia, le assemblee popolari;

- Nefasti (N) giorni in cui non poteva essere am-ministrata la giustizia; erano i “giorni di vacan-za” dalle attività quotidiane;

- Endotercisi (EN) termine arcaico per Intercisi,“divisi”; erano infatti giorni considerati nefa-sti al mattino e alla sera, ma fasti nel resto deltempo;

- NP non si sa a cosa si riferisse questa indica-zione: sono state fatte diverse ipotesi dagli stu-diosi (nefas publicae feriae, nefas feriae posteriori),ma nessuna è convincente.

Accanto seguiva, scritto in caratteri più piccoli, lamenzione delle feste che si svolgevano in quelgiorno. Tali festività potevano essere il ricordodella dedica di un tempio, celebrazioni religioseo civili, o ancora legate al ciclo agrario. In epoca imperiale, seguendo l’esempio di Au-gusto, gli imperatori riempiranno letteralmenteil calendario con riferimenti a fatti salienti dellaloro vita o di quella dei familiari.

F.G.

Fonti anticheMacrobio, Saturnalia 1, 12-16Svetonio, De grammaticis et rhetoribus, 17, 3Varrone, De lingua latina 6, 3-34Censorino, De die natali liber ad Q. Caerellium, 16-24Tacito, Historiarum libri 40, 2

BibliografiaCalabi-Limentani 1991; Dosi, Schnell 1992; Inverniz-zi 1994; Pasco-Pranger 2006; Sabbatucci 1988; Wee-ber 2007.

Sez. 1.2 - Meridiana

Originale: da Aquileia.Materiale: marmo di LuniCronologia: II-III sec. d.C.Luogo di conservazione: Aquileia, Museo ArcheologicoCalco: Roma, Museo della Civiltà Romana, mv. n. 2909Ricostruzione virtuale del movimento: H. Rossi Zambotti

Orologio solare basato sul tipo detto scaphe ohemisphaerium: è costituito infatti da una per-fetta emisfera con la cavità divisa da dodici li-nee verticali e tre linee orizzontali, di cui quellacentrale rappresenta l’equatore e le altre due isolstizi. La luce filtrata dall’alto attraverso un’aper-tura, segna l’ora nei diversi periodi dell’anno.Le quattro teste giovanili imberbi ai quattro an-goli sono probabilmente la rappresentazionedei quattro venti principali (aquilo, volturnus,auster, favonius)Nella forma più semplice una meridiana o ‘oro-logio solare’, si compone di uno stilo, detto‘gnomone’ (dal greco gnomon, indicatore), cheproietta la sua ombra su una superficie che laraccoglie, detta ‘quadrante’. Sul quadrante sitrovano delle linee che segnano le ore, e tal-volta, delle curve che permettono di individua-re il giorno dell’anno; su molti quadranti èfrequente trovare anche i segni zodiacali. I mo-di di lettura delle meridiane sono molto diffe-renti: alcune segnano quante ore sono trascorsedal sorgere del Sole, altre indicano quanto tem-po manca al suo tramonto.I primi orologi solari greci sono datati al III se-colo a.C. e provengono da Delo, dove sono sta-ti trovati ben 25 esemplari, mentre circa 35 sonodocumentati a Pompei.Tra le varie tipologie di orologi solari usati daiGreci e dai Romani, lo scaphe o polos che è ilprototipo di orologio solare come lo conoscia-mo, ovvero una scodella con lo gnomone ver-ticale posizionato al centro, la cui punta indical’ora e la posizione calendariale del sole sul re-ticolato di linee che si trova nella scodella. Inalcune indicazioni fornite da Macrobio (In-somnium Scipionis, liber II, 7) l’hemispherium oscaphe raffigura la sfera celeste alla rovescia: unemisfero ricavato entro un cubo ed entro cui èfissato uno gnomone, in modo tale che la suapunta coincida con il centro dell’emisfero. Di-videndo in 12 parti uguali una delle linee d’om-bra dell’emisfero si otteneva la divisione in ore.Un altro importante esempio di quadranti so-lari verticali è costituito dall’orologio solare diAugusto nel Campo Marzio.L’opera faceva parte di uno dei tanti progetti di

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a

b

fosse generalizzato, la clessidra restava sem-pre uno strumento impreciso. Le dimensio-ni delle aperture da cui fluiva la sabbia, coltempo, sia per l’usura, sia per la formazionedi incrostazioni, tendevano a ridursi. Infine,anche la temperatura esterna poteva giocareun ruolo negativo: infatti, la sabbia di inver-no cola più lentamente.

C.B.

Bibliografia Arborio-Mella 1990, pp. 36-38; Dosi, Schnell 1992;Eureka 2005; Homo Faber 1999; Prima degli Orologi.Gli antichi misuratori di tempo, Catalogo dellamostra, Comune San Miniato, 2008.

Sez. 1.6 - Meccanismo di Antikythera

Materiali: Il meccanismo (detto ‘di Antikythera’ dalluogo del rinvenimento), composto da un’ossatura,ingranaggi, raggi e fissaggi, è in bronzo, piùprecisamente in un bronzo a bassa percentuale distagno (95% rame, 5% stagno), ma purtroppo analisicomposizionali più accurate sono difficili da realizzareconsiderando lo stadio avanzato di corrosione delleparti. L’intero meccanismo era originariamentecollocato in una teca lignea ritrovata solo in parte.Quando il meccanismo fu rimosso dall’acqua, la tecasi disintegrò ed oggi ne restano solo pochi frammenti,per cui non è stato ancora accertato il tipo di legnoutilizzato. Le parti componenti erano ricoperte da untotale di oltre 2.000 caratteri di scrittura in greco, deiquali circa il 95% è stato decifrato (il testo completodell’iscrizione non è ancora stato pubblicato).

Dimensioni: circa 30x15x7,5 cm.Provenienza: Il meccanismo era tra il carico di unagrande nave affondata risalente all’87 a.C. e adibita altrasporto di statue in bronzo e marmo, ritrovata nel1901 al largo dell’isola greca di Antikythera (Cerigotto).

Luogo di conservazione: I tre frammenti maggiori delmeccanismo sono conservati alla Bronze Collectiondel National Archeological Museum di Atene(Grecia). I restanti 79 frammenti più piccoli si trovanonei magazzini della stessa Bronze Collection.

Cronologia: Il relitto della nave affondata è datato all’87a.C., in base alla ceramica ritrovata tra i resti delcarico. Diverse sono le datazioni proposte, invece, peril meccanismo, comunemente datato al I secolo a.C.circa.

Ricostruzioni: Un primo modello ricostruttivo è statorealizzato negli anni ’70 da Derek J. De Solla Price. Nel2005, Michael Wright partendo dalla ricostruzione diPrice, ne propose un secondo con alcunicambiamenti. Attualmente il meccanismo è studiatoda un gruppo di scienziati riuniti in un organismochiamato “Antikjthera Mechanism Research Project”del quale fanno parte Università, Musei e Centri diricerca di società private. È di questo team la piùrecente ricostruzione del ‘meccanismo di Anticitera’.

Secondo la ricostruzione di de Solla Price, ilmeccanismo era costituito da un insieme dirotismi contenuti in un telaio parallelepipedoin legno dal quale fuoriusciva una manovellache serviva per azionarlo. Il telaio presentavatre quadranti: uno sul lato anteriore e due suquello posteriore, su cui erano installati, co-me indicatori, delle apposite lancette.Il meccanismo era formato, nell’ipotesi del deSolla, da 27 ingranaggi. L’energia utilizzata èprettamente di tipo meccanico, essendo lamanovella presumibilmente azionata a ma-no, senza controllo della velocità di rotazionema solo del numero di giri. Girando la ma-novella, le ruote dentate azionate permette-vano la rotazione delle lancette sui quadrantisui quali erano presenti indicazioni relative adeventi astronomici. L’unico quadrante com-prensibile era quello sul lato anteriore: su diesso due lancette davano indicazioni circa ilmoto del sole e quello della luna rispetto allecostellazioni dello zodiaco, oltre al sorgere eal tramontare di stelle o costellazioni impor-tanti. I quadranti sul lato posteriore sembrache essi servissero a visualizzare il moto del-la luna e degli altri pianeti conosciuti all’epo-ca. Uno di questi due quadranti riporterebbela durata del mese sinodico (il tempo che im-piega la Luna per riallineare nuovamente lasua posizione con il sole e la terra dopo avercompiuto una rivoluzione intorno a quest’ul-tima; si può anche definire come il tempo cheintercorre tra un novilunio e quello successi-vo) e dell’anno lunare; dell’altro non si com-prende quasi nulla. Il meccanismo principale è costituito da unaventina di ruote che, sempre secondo il DeSolla Price, costituiscono un rotismo diffe-renziale, cioè un meccanismo in cui un mo-to principale (quello della manovella) vienetrasmesso a diversi altri assi di rotazione (inquesto caso, normali al primo) mediante cop-

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Sez. 1.4 - Orologio anaforico adacqua di Ctesibio di Alessandria

Ricostruzione: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Ctesibio, studioso attivo ad Alessandria nel 270a.C. circa, si occupò della costruzione e del per-fezionamento del già esistente orologio anafo-rico ad acqua. Il De architectura di Vitruvio (9,8. 4-5) fornisce importanti informazioni riguardoa questo strumento ed alla parziale descrizio-ne del suo funzionamento.Prima della costruzione di Ctesibio l’orologioanaforico ad acqua era costituito inizialmenteda 2 contenitori sovrapposti, di cui quello infe-riore graduato con linee orizzontali paralleleidentificanti le varie ore. L’acqua fluiva quindidal contenitore superiore al suo sottoposto. Co-si il tempo veniva misurato in base all’altezzadell’acqua contenuta nel recipiente inferiore,graduato.Lo studioso alessandrino lavorò su questo pri-mo strumento perfezionandolo: costituito dadue recipienti sovrapposti, quello superiore eradotato di due aperture, una in alto e una in bas-so, che permette di far scorrere l’acqua nel se-condo contenitore in modo controllato.Quest’ultimo contenitore misurerà il trascor-rere del tempo per mezzo di una scala graduataposta sul bordo del recipiente. La vera e propria novità del progetto di Ctesi-bio è la presenza del contenitore superiore che,tramite le due aperture, rende il più possibileomogeneo il flusso dell’acqua; Vitruvio ci indi-ca come lo studioso alessandrino si fosse con-centrato proprio sui due orifizi dai quali l’acquafuoriesce, creati adoperando oro o gemma per-forata, in modo che l’apertura non si consu-masse con il tempo e facesse così rimanerecostante e omogeneo il corso dell’acqua. Inol-tre nel recipiente inferiore era posto un galleg-giante di sughero, sul quale era fissata un’astaverticale che saliva per la spinta dell’ acqua in-contrando un disco girevole. L’ asta veniva acontatto con il disco circolare dotato di una lan-cetta, la quale muovendosi indicava l’ora. Vi-truvio aggiunge inoltre che a volte questi orologipossono essere costituiti da colonnine cilin-driche sulle quali sono tracciate le linee orarie.Plinio (Naturalis Historia 7.125) testimonia l’ar-rivo a Roma di un primo orologio ad acqua du-rante la prima guerra punica, nel 263 a.C.introdotto da Catania, ma la sua durata di vitasembra essere staa breve poiché nelle ore not-turne il suo funzionamento non dava massimi

risultati essendo progettato come un quadrantesolare. Per avere un orologio più preciso i Ro-mani dovettero aspettare l’introduzione di unorologio ad acqua sub tecto, in luogo chiuso,nel 159 a.C. La diffusione di questi orologi, in ambito so-prattutto nobile, è testimoniata da Petronio (Sa-tyricon 26,71) che, parlando di Trimalcione, neesalta la ricchezza menzionando proprio il fat-to che possedesse un orologio ad acqua, do-tato di suoni indicanti il trascorrere del tempo,nel suo triclinio.Lo strumento progettato da Ctesibio sfrutta ilmoto dell’acqua e il suo scorrere in modo co-stante. Il movimento fisico sul quale si basal’orologio ad acqua è detto di retroazione: poi-ché le uscite, in questo caso dell’acqua, sonoriportate all’ingresso tramite lo scambio co-stante del liquido fra i due contenitori.

F.B.

BibliografiaGara 1994, pp. 111-114; Daremberg, Saglio VIII, s.v.horologium, coll. 256-264; Noble - De Solla Price1968, pp. 345-353; Oleson 2008, pp. 762-76; Russo, Russo 2007.

Sez. 1.5 - La clessidra a sabbia

La clessidra è un apparecchio costruito perregistrare un intervallo di tempo. Le clessidrepiù antiche erano formate da due recipientisovrapposti; dal vaso superiore, che conte-neva sabbia in quantità determinata, il mate-riale fluiva in quello inferiore attraverso foridi dimensioni ben precise. Al termine era suf-ficiente capovolgere lo strumento per inizia-re un altro periodo. La durata del ciclo dipendedalla quantità e dalla qualità della sabbia, dal-la dimensione del collo e dalla forma dei bul-bi. Tali congegni erano posti su tripodi.Inventata dagli scienziati Alessandrini, la cles-sidra derivò forse da un apparecchio desti-nato a misurare un lasso di tempo durante ilquale i contadini egiziani potevano irrigare illoro campo con l’acqua del canale collettivo.A Roma la prima clessidra fu introdotta da Sci-pione Nasica allo scopo di misurare il tempoaccordato a ciascun oratore in tribunale (Pli-nio,Naturalis Historia, 7, 60, 215). Questo per-mise di limitare la durata dei processi semprepiù numerosi. Il tempo concesso all’avvocatoper la sua arringa era chiamato horae legitimae(Cicerone, In Verrem actio I, 25). Plinio il Gio-vane, per esempio, rivendicava parecchie cles-sidre quando aveva preparato una lunga difesao un importante discorso al Senato (Plinio ilGiovane, Epistularum liber 2, 11, 14).É significativo il fatto che, mentre il momen-to dell’inizio del processo e la durata dell’in-tero giro degli interventi erano fissati conriferimento al quadrante solare, il tempo diciascuna arringa era invece stabilito con l’im-piego della clessidra. L’uso della clessidra asabbia permetteva anche di controllare il la-voro degli schiavi: lo scrittore ed erudito lati-no Attico (110 a.C - 32 a.C) misurava con laclessidra il tempo nel quale i copisti doveva-no scrivere cento righe. Nell’esercito il tem-po della guardia notturna (vigiliae) eraanch’esso misurato con la clessidra. Una clessidra era ben regolata, quando la stes-sa quantità di sabbia colava nello stesso in-tervallo da vasi simili muniti da fori uguali.Poiché la durata delle ore nel corso dell’annoera variabile, le clessidre spesso erano forni-te di parecchi fori di dimensioni differenti maben calcolati, che era possibile ostruire contamponi di cera, per lasciare aperto solo quel-lo corrispondente al periodo dell’anno che sistava attraversando. Benché il suo utilizzo

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Restituzione virtuale: H. Rossi Zampotti

Serbatoio di riferimento

Serbatoio di regolazione

Serbatoioprincipale

Scalatemporale

ma è presente in molte iconografie tra cui ilmosaico a Pompei nell’officina Coriacorum,dove lo strumento è posto al centro in alto, inuna allegoria di simboli tra la vita e la morte.Lo strumento era utilizzato per verificare la per-fetta orizzontalità di un piano; quando il filo apiombo appeso al vertice della squadra coinci-deva con la tacca al centro della base, si aveva unpiano orizzontale perfetto. Era usata perlopiù nel-l’edilizia da muratori e carpentieri e, insieme adaltri strumenti manuali di livellazione, nelle atti-vità agrimensorie.

L.R. – EL.S.

Perpendiculum o filo a piombo

Originale: da Pompei (Napoli, Museo Archeologico Na-zionale)

Materiali: piombo e cordameDimensioni: varieCronologia: 1 sec. d.C.Copia: bronzo, Roma, Museo della Civiltà Romana, inv.n. 5249

Peso di forma conica terminante inferiormentecon un apice a bottone piuttosto sporgente; lapresa sulla parte superiore è forata in alto e ai la-ti per l’inserimento del filo di sospensione. Esem-plari rinvenuti a Pompei possono costituire unpunto di riferimento per datare i pesi in genereal I secolo d.C.Il filo a piombo (perpendiculum) è strumento an-

tichissimo e indispensabile percarpentieri e muratori; servivaper stabilire la linea verticale del-la costruzione e, unito alla li-vella (libella), per verificarel’orizzontalità di un piano; eraanche uno degli accessori fon-damentali della groma, stru-mento usato dagli agrimensoriper misurare le superfici. Tut-t’oggi i carpentieri lo usano quo-tidianamente nel loro lavoro.

EL.S.

BibliografiaAdam 1981, p. 102, fig. 25; Adam2001, pp. 43-44; Daremberg, Saglio1877-1918, s.v.; Dilke 1979, p. 35; DiPasquale 1999, pp. 286-288, schedepp. 304-311, nn. 381-383; Misurare laterra 1983, p. 119; Toro 1985, pp. 31-32, figg. 15 e 16.

Sez. 1. 7b.c.d.e - Compassi ecompassi di proporzione (circini)

Originale: da Pompei (Napoli, Museo ArcheologicoNazionale)

Materiali: bronzo, talvolta con punte in ferroDimensioni: varieCronologia: 1 sec. d.C.Esempi rinvenuti: Pompei, bottega dell’agrimensoreo fabbro Verus, nel 1912; rappresentazione sullastele funeraria de un faber carpentarius di Aquileia.

Riproduzioni: bronzo; Roma, Museo della CiviltàRomana

b) Compasso, inv. 5245; c) compasso diproporzione, inv. 5238; d) compasso a cercine, inv.5251; e) compasso, inv. 5250

Il compasso (circinus) era formato da due astemetalliche di uguale lunghezza, una conun’estremità appuntita, l’altra ingrossata adanello: sono articolate ad una estremità da unperno circolare a testa piana ribattuta, passanteper le due estremità ad anello, in modo da per-mettere alle due aste di ruotare, snodate. Disolito di bronzo, poteva avere la punta di fer-ro. Esistevano anche modelli con i bracci ri-curvi per facilitare alcune misurazioni, e altricon il punto di giuntura scorrevole anziché fis-so (compassi di proporzione o riduzione), perriportare una misura in un’altra scala. Sui latiesterni delle aste, in alcuni casi, compare unadecorazione costituita da una X delimitata dadue lineette orizzontali e al di sotto, a rilievo,un motivo a clessidra, decorazione presentein esemplari di compassi trovati a Pompei e a

Luni di età imperiale. Il compasso a riduzioneo di proporzione, provvisto di fulcro mobileper variare i rapporti, serviva per confrontaremisure e per disegnare, mantenendo esatti irapporti delle proporzioni. Vitruvio riferisce chein architettura grazie al compasso si appron-tavano molto speditamente le piante degli edi-fici (De architectura, I,1.4). Nelle attivitàagrimensorie serviva per riportare su una pian-ta le distanze misurate. Strumento di preci-sione, usato sia nella falegnameria, che inarchitettura e scultura, come dimostrano i re-lativamente numerosi rinvenimenti e le rap-presentazioni abbastanza frequenti del circinus.

G.P.S. – L.R.

BibliografiaAdam 2001, p. 44; Dilke 1979, p. 34; Di Pasquale1999, pp. 286-288, schede pp. 304-311, nn. 378-380,385-391 (con bibliografia); Misurare la terra1983, p. 119; Toro 1985, pp. 31-37, figg. 15-25.

73

pie di ruote dentate aventi rapporti di dia-metro (o di numero di denti) tali da ottenerein uscita moti di rotazioni diverse, con nu-meri di giri in rapporti determinati. Una del-le funzioni principali è quella di riprodurre ilrapporto fisso 254/19 del moto siderale del-la luna rispetto al sole. Wright ha avanzato una serie di nuove pro-poste per l’interpretazione del funzionamen-to del meccanismo e dei suoi componenti.Tra queste, oltre a quella che il meccanismofosse un planetario (già avanzata da De Sol-la Price), Wright suggerisce che il meccani-smo avesse la funzione di mostrare non soloi moti del sole e della luna ma anche quelladei 5 pianeti allora conosciuti: Mercurio, Ve-nere, Marte, Giove e Saturno. Il numero di in-granaggi riconosciuti passa da 27 a 31, conun arricchimento di possibilità di combina-zioni, se non fosse che per l’ipotesi del Wrightil meccanismo non avrebbe le caratteristichedi un differenziale. Wright ha proposto, inol-tre, che uno dei quadranti posteriori abbia poila funzione di contare i mesi Draconiani (ilmese draconiano è l’intervallo di tempo tra idue passaggi consecutivi dello stesso nodo),usato presumibilmente per predire le eclissi.Le nuove indagini confermano che il mecca-nismo era un calcolatore astronomico o unplanetario, usato per predire le posizioni deicorpi celesti.Lo studio di de Solla Price mostra alcune so-luzioni interessanti, come quella che risolveil problema della trasmissione contempora-nea del moto dall’asse della manovella a quel-la dei quadranti anteriori e posteriore, oltread una complessità del meccanismo ecce-zionale per i tempi, con rapporti ricercati trai numeri di giri dei diversi indicatori, puleggedi rinvio e alberini coassiali. L’ipotesi delWright, invece, esclude la natura differenzia-le del meccanismo. Inoltre, la trasmissionedel movimento avviene per contatto tra den-ti a profilo triangolari, primitivi se rapportatiai moderni denti a profilo coniugato ma suf-ficienti per la trasmissione del moto e per as-sicurare i rapporti di rotazione.Infine, data la maggior complessità messa inluce dall’ipotesi di Wright, risulta importantela scelta del bronzo come materiale di pro-duzione delle parti: infatti, rispetto ad altri me-talli allora conosciuti, le leghe in bronzopresentano minori attriti tra i denti e miglio-re resistenza alla corrosione.Il meccanismo ritrovato nel relitto di Anticite-

ra sembra trovare un significativo riscontro nel-le fonti degli autori romani: Cicerone scrisseche il filosofo e amico Posidonio di Rodi co-struì un meccanismo che “riproduceva, ad ognirivoluzione, gli stessi moti del sole, della lunae dei cinque pianeti che si trovano nei cieli ognigiorno e notte” (Cicerone, De Natura Deorum2, 34-5); mentre in un secondo passo sempreCicerone, riporta che il generale Claudio Mar-cello apprezzò un meccanismo che imitava imovimenti dei corpi celesti, o un planetario,concepito da Archimede, più di ogni altro bot-tino proveniente da Siracusa appena presa (Ci-cerone, De Republica 1, 14, 21-22)Il meccanismo era, dunque, impiegato percorrelare, in un ingegnoso sistema di ruotedentate, i moti certamente del sole e della lu-na, e probabilmente dei cinque pianeti alloraconosciuti, in un moto epiciclico attraversolo Zodiaco. Erroneamente interpretato al-l’inizio come un sussidio per la navigazione,può essere meglio definito come un planeta-rio; altre funzioni si individuano nella previ-sione del tempo e dell’oroscopo, dal momentoche avrebbe permesso il rapido calcolo delleposizioni di tutti i maggiori corpi celesti es-senziali per l’antica astrologia. Recenti inda-gini hanno, infine, portato alla decifrazionedelle incisioni sulla piccola superficie di unodei quadranti del meccanismo, permettendol’identificazione dei nomi delle città greche(Nemea, Isthmia, Pythia e Olympia) in cui sisvolgevano i cosiddetti Giochi panellenici. Lostrumento serviva significativamente ancheper scandire il ritmo annuo delle quattro mag-giori competizioni sacre dell’antica Grecia.

R.C.

BibliografiaBromley 1990; D’Oriano R., Pastore G., Un ‘meccani-smo di Antikythera’ da Olbia, in L’Africa Romana, XVIIIConvegno Inter. di Studi. Olbia 2008;Evans, Berggren 2006; Freeth et al. 2006; Hannah2005; Hannah 2008; Neugebauer 1975; de Solla Price1974; Price 1975; Wright 2002; Wright 2003a; Wright2003b; Wright 2004; Wright 2005a; Wright 2005b;Wright 2005c; Wright 2005d; Wright 2006a; Wright2006b; Wright, in Eureka 2005, p. 240-244.

Sez. 1.7a - Libella o archipendolo

Materiali: legno (prevalentemente), bronzo,cordame, piombo

Dimensioni: variabili, mediamente 1/2 piede romano(14,8 cm)

Di forma triangolare era costituita da due brac-ci ad angolo retto e da una barra orizzontale(forma una A); dal vertice cadeva un filo apiombo sulla barra orizzontale, munita di unaincisione lineare in posizione mediana. Erarealizzata prevalentemente in legno ed i treelementi che la componevano potevano es-sere fissati con placchette di bronzo. La ver-sione senza filo a piombo e limitata ai due solibracci a formare un angolo retto era nota co-me norma o squadro, generalmente in me-tallo, utilizzata per misurare gli angoli retti.Non si conservano esempi dello strumento,

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b

e

c

d

e

Rilievo funerario della gens Aebutia con archipendolo,

filo a piombo, squadra, compasso e riga graduata di 1

piede (Roma, Musei Capitolini; calco: Roma, Museo

della Civiltà Romana)

Mosaico con archipendolo (Pompei, officina coriacorum)

(Napoli, Museo Archeologico Nazionale)

Sez. 1.9 - Unità di misura romane

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Sez. 1. 7f - Squadra (norma)

Originale: bronzo da Pompei (Napoli, MuseoArcheologico Nazionale)

Dimensioni: cm 16Cronologia: 1 sec. d.C.Copia: bronzo; Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 5247

La squadra (norma), realizzata in bronzo o inferro, è uno degli strumenti utilizzati dallostructor. Costituita da due bracci ortogonali,era impiegata dagli artigiani per verificare laperpendicolarità di superfici e di linee per ot-tenere angoli retti cioè normales. In questoesemplare, realizzato in bronzo e apparte-nente alla tipologia detta ad L, o a spalla, unodei bracci è fornito di base di appoggio, perconsentire di lasciarla in posizione, ed en-trambi hanno le estremità sagomate: tale pe-culiarità, talvolta visibile anche su rilievifunerari riproducenti lo strumento (tomba diLucius Alfius Statius ad Aquileia; rilievo di Dio-genes structor a Pompei), ne ha fatto suppor-re un utilizzo anche per tracciare il profilo dicornici sulla decorazione dipinta.Altri tipi di squadre, dette false squadre o ca-landrini, hanno bracci articolati e consento-no di riportare qualsiasi tipo di angolo.

A. O.

BibliografiaAdam 1984, p. 43; Adam 1990, p. 43; Gallazzi, Settis2006; p. 268, n. 93; Homo Faber 1999; Pompei1981; Romana Pictura 1998, p. 302, n. 100; Russo2005, p. 222; Sposito 2008, pp. 46-51.

Sez. 1.8 - Abaco tascabile(strumento per calcoli aritmetici)in bronzo

Misure: cm: 11,5 x 7,2materia: bronzoprovenienza: sconosciuta. Dalle collezioni delMuseo Kircheriano

Luogo di conservazione: Roma, Museo NazionaleRomano a Palazzo Massimo, inv. n. 65054

datazione: età romana imperiale Altri esemplari simili sono conservati ad Aosta e aParigi, Biblioteca Nazionale

Riproduzione: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Si tratta di una tavoletta rettangolare di bron-zo con nove scannellature più lunghe di-sposte su un lato lungo e otto più cortedisposte sull’altro lato, le une in corrispon-denza delle altre ad eccezione della nona,nelle quali sono infisse delle asticelle mobi-li munite di palline.Le scannellature lunghe avevano tutte quat-tro palline, eccetto la nona che ne aveva cin-que (non tutte sono conservate nel nostroesemplare). Le fessure corte avevano un solopallino ciascuna.Tra le scannellature inferiori e quelle superio-ri corrispondenti si trovano, andando da de-stra verso sinistra, una serie di simboli che corrispondono alle seguenti cifre romane:1.000.000 100.000 10.000 1000 100 10 1

In Roma avvenivano operazioni di cambio edi saggio (cioè il riconoscimento delle mone-te vere dalle false) delle monete presso le bot-teghe dei banchieri (tabernae argentariae), chesi trovavano presso il Foro e che sicuramen-te avranno utilizzato abachi di questo tipo. Ibanchieri, che erano aiutati in queste opera-zioni da schiavi o assistenti di origine liberti-na, erano chiamati nummulari.

G.P.S

BibliografiaC. Germain de Montauzan, La science e l’art del’ingenieur aux premiers siécles de l’Empire Romani,Paris 1905.R. Fellmann, Römische Rechentafeln aus Bronze, inAntike Welt, 14, 1983, pp.36-40.S. Balbi de Caro, La banca a Roma, ‘Vita e costumidei Romani antichi’, n. 8, Roma 1989, p. 46, fig. 27.W. Di Palma, Matematici e altri scienziati, in ‘Vitaquotidiana nell’Italia antica. Vita in società’, COOP1993, p. 251 ss., fig. 265.

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10 miliardi 1 miliardo 100.000.000 10.000.000 1.000.000 100.000 10.000 1.000 100 10 1XI-MI- I-M.I- CM.I- XM.I- M.I- C– X– M C X I

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Misure di lunghezza

Misure di superficie

VolumiMisure per i liquidi:

Misure per aridi:

Pesi

Unità romana Latino Piede SI decimale

dito digitus 0,0625 1,85 cm

palmo palmus 0,25 7,4 cm

piede pes 1 e 1/4 29,6 cm

cubito (gomito) cubitus 1½ 44,4 cm

passo semplice gradus 2½ 0,74 m

passo doppio passus 5 1,48 m

pertica pertica 10 2,96 m

atto (arpento) actus 120 35,52 m

stadio stadium 625 185 m

miglio miliarius 5000 1,48 km

lega leuga 7500 2,22 km

Unità romane LatinoActus

QuadratusSI decimale

piede quadrato pes quadratus 1 / 14 400 876,16 cm²

pertica quadrata scrupulum 1 / 144 8,7816 m²

actus minimus 1/30 ~ 42,2 m²

verga clima 1/4 ~ 316,25 m²

acro actus quadratus 1 ~ 1265 m²

iugero iugerum 2 ~ 2529 m²

eredio (mattutino) heredium 4 ~ 5059 m²

centuria centuria 400 ~ 50,6 ha

“quadruplice” (salto) saltus 1600 ~ 202,3 ha

Unità romana Latino Sestario SI decimale

piccolo cucchiaio ligula 1/48 ~ 11/8 cl

cucchiaio cyathus 1/12 ~ 4½ cl

sestante (1/6 di sestario) sextans 1/6 ~ 9 cl

triente (1/3 di sestario) triens 1/3 ~ 18 cl

emina (1/2 di sestario) hemina 1/2 ~ 27 cl

cheonix cheonix 2/3 ~ 36 cl

sestero sextarius 1 ~ 54 cl

congio congius 6 ~ 3¼ l

urna urna 24 ~ 13 l

anfora amphora 48 ~ 26 l

otre culleus 960 ~ 520 l

Unità romana Latino Modio SI decimale

cucchiaio grande acetabulum 1 / 128 ~ 6¾ cl

quarto di sestario quartarius 1/64 ~ 13½ cl

emina hemina 1/32 ~ 27 cl

sestario sextarius 1/16 ~ 54 cl

semodio semodius 1/2 ~ 42/3 l

moggio (modio) modius 1 ~ 82/3 l

quadrantale quadrantal 3 ~ 26 l

Unità romane Latino Dracma SI decimale

chalco chalcus 1/48 71 mg

siliqua siliqua 1/18 1891/3 mg

obolo obolus 1/6 0,568 g

scrupolo scrupulum 1/3 1,136 g

dracma drachma 1 3,408 g

siclo o sicilico (shekel) sicilicus 2 6,816 g

oncia uncia 8 27,264 g

libbra libra 96 327,168 g

mina mina 128 436,224 g

Tutti i multipli dell’oncia romana hanno il loro nome specifico

uncia =1 oncia septunx =7 once

sextans =2 once bes =8 once

quadrans =3 once dodrans =9 once

triens =4 once dextans =10 once

quincunx =5 once deunx =11 once

semis =6 once as =12 once

Un’oncia e mezza veniva chiamata “sescuncia”. Semis e quadrans, triense sextans hanno questo nome in quanto frazioni dell’as o libbra.

Gli stessi nomi sono utilizzati per indicare monete di bronzo.

Il numero 4.315.026.407, immaginando che ognuno dei quadratini neri sia una pallina dell’abaco, poteva esserescritto nel seguente modo:

BibliografiaAdam 2001, p. 9; Aujac 1984, p. 38; Daremberg,Saglio 1877-1918, s.v.; De Caterini 1995, pp. 41-42;Dilke 1979, pp. 16, 35-36; Misurare la terra 1983, pp.119-120; Erone di Alessandria, Dioptra, VI, 30; M.Vitruvius Pollio, de Architectura, a cura di P. Gros,Torino, Einaudi 1997, pp. 1180-1181.

Sez. 1.12a - Groma

Originale: Pompei, scavi del 1912 nella casa obottega dell’agrimensore Verus (Napoli, MuseoArcheologico Nazionale)

Materiali: ferro, bronzo, legno, cordame Dimensioni: dimensioni groma 92 cm (aperta),punta nel terreno 26 cm, bastone ligneo inrelazione all’altezza dell’utilizzatore

Cronologia: I sec. d.C. Ricostruzione dell’uso della groma: Roma, Museodella Civiltà Romana

Esempi rinvenuti: Pompei, bottega dell’agrimensoreo fabbro “Verus”, nel 1912 ad oggi nel MuseoNazionale di Napoli; altri frammenti in Baviera, aPlunz, ma attribuibili forse ad uno strumento piùsemplice, la ‘stella’. Rappresentazione su stelefuneraria di Popidius Nicostratus a Pompei

Ricostruzione: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Il termine groma deriva dal greco gnwmon ognwma tramite un vocabolo intermedio etruscocruma. Strumento principale di tutti i rilevamentinel mondo romano, è singolare che nessun scrit-tore antico ci abbia tramandato una descrizio-ne della groma. Solo con il ritrovamento a Pompeidello strumento smontato nella bottega di Ve-rus è stata possibile una ricostruzione ed unamisurazione delle parti che lo compongono. Ladescrizione principale risale quindi a Della Cor-te nel 1912, che la suddivide in diverse parti.Lagroma risulta così composta da:

1. bastone di sostegno o ferramentum: basto-ne ligneo con all’estremità inferiore una robustapunta in ferro o bronzo a corpo piramidale perpenetrare nel terreno, tramite 4 ali a croce e mar-gine quasi tagliente, che verso l’alto ha forma ci-lindrica rafforzata da un elemento esterno perl’aggancio al bastone ligneo (in tutto 54 cm dicui 26 affondavano nel suolo). Sull’estremità su-periore del bastone si trova un altro cilindro bron-zeo su cui si innestava il rostro (25 cm). Il bastoneaveva altezza variabile in modo da adattarsi al-l’altezza dell’utilizzatore;2. rostro: due cilindri, ad altezze differenti colle-gati da due lamine in bronzo su anima lignea,che connettevano il bastone alla groma vera epropria. Lunghezza del rostro circa 29,7 cm,uguale ad un piede romano. Al centro inferioredel cilindro di innesto della groma corrisponde-va il centro stazione, ovvero il punto noto comeumbilicus soli;3. groma: era composta da un’anima interna li-gnea a quattro braccia e da un rivestimento inferro, agganciate ad un cilindro cavo centrale diinnesto sul rostro. Ogni braccio era lungo 44cm, largo alla base 5,5 cm ed al termine 2,5 cm;considerando anche il cilindro centrale l’apertu-ra dei 4 bracci della groma era di 92 cm (circa 3piedi romani);4. contrappesi: sono posizionati all’estremità deibracci della groma e sono uguali e contrappostia coppie: una di forma conica e l’altra a forma dipera, con la valenza di facilitare l’individuazionedel cardo e del decumanus. I fili da cui pendeva-no raggiungevano quasi sicuramente il suolo, maanche questi dipendevano in altezza dal basto-ne, che come abbiamo detto doveva avere un’al-tezza variabile.

Era lo strumento princi-pale per stabilire lunghiallineamenti ortogonalisul terreno seguendo undeterminato orientamento, in modo tale da ot-tenere linee e quindi le suddivisioni ad angoliretti. Veniva utilizzata nella centuriazione delterritorio, in urbanistica, nelle costruzioni digrandi infrastrutture, come strade, acquedotti,limes, porti, etc.

EL.S.

BibliografiaAdam 1990, p. 11 ss.; Dalla Corte 1922, punto I; DeCaterini 1995, pp. 44-50; De Simone 1970; Dilke1979, pp. 31-33.

Sez. 1.12b - Decempeda

Originale: Pompei (Napoli, Museo ArcheologicoNazionale)

Materiali: legno, bronzo per le placche di giunzioneDimensioni: 10 piedi romani (3 m), larga circa 1palmo (7,2 cm)

Cronologia: 1 sec. d.C.Esempi rinvenuti: Pompei, bottega dell’agrimensoreo fabbro Verus nel 1912

Asta da misurazione in legno lunga dieci piediromani (circa 3 m). La parte terminale è circola-re e piatta in modo da consentire l’allineamen-to di una pertica con un’altra della stessadimensione. È divisa in pollici e mezzi pollici perle misure minori. Veniva utilizzata nellemisura-zioni in genere, dall’agrimensura alle attività mi-litari, quali ad esempio le installazioni di castra.

L.R. – EL.S.

BibliografiaDaremberg, Saglio 1877-1918, s.v.; De Caterini 1995, p.53; Dilke 1979, p. 34; Smith W., Dictionary of Greek andRoman antiquities, Boston [London, printed] 1870.

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Sez. 1.10a.b - Chorobates e livellaad acqua

10. a - Chorobates

Materiali: legno, giunti metallici, cordame e pesi apiombo.

Dimensioni: lunghezza 6,5 m, altezza variabile;canale interno per l’acqua lungo 2 m, largo 2 cm eprofondo 3 cm.

Ricostruzione tramite la descrizione di Vitruvio:Niccolai snc (Firenze, 2009)

Strumentocostruito in le-gno a forma di ca-valletto o panca conuna parte superiore (re-golo) e piedi verticali(talora estensibili) fis-sati ad angolo retto adesso, grazie a dei pun-toni trasversali blocca-ti con sistema ad incastro; dalle estremitàpendevano 2 o 4 fili a piombo che, grazie alle li-nee perpendicolari accuratamente tracciate suipuntoni, permettevano la verifica della messa inpiano dello strumento. Era munito nella faccia su-periore di una canaletta per l’acqua con linee dilivello, per un’ulteriore verifica della messa in pia-no dello strumento in condizioni particolari, tra-sformando lo strumento in una ‘livella ad acqua’.Lo strumento, particolarmente ingombrante, ser-viva prevalentemente per battere i piani orizzontalie Vitruvio (De architectura, 8, 5,1) ce ne spiega ilsuo funzionamento: si appoggiava lo strumen-to sul piano di campagna, se i fili a piombo coin-cidevano con le tracce verticali, il regolo superioreera su un piano orizzontale perfetto; se questoprocedimento era ostacolato dal vento, impe-dendo la lettura verticale dei fili a piombo, si riem-piva d’acqua la scanalatura superiore e si verificavase il livello lambiva in modo uniforme gli orli o lelinee tracciate al suo interno (in questo modo sipotevano anche verificare le pendenze).L’utilizzo era principalmente riservato alla livella-

zione degli acquedotti, come riportato da Vitruvio,data la sua grande dimensione; nel Corpus Agri-mensorum, si parla di livellazione dei piani, manon si cita mai questo strumento, forse perchè glioperatori utilizzavano strumenti più maneggevo-li quali la libella a filo a piombo (v. sez. 1. 7a).

L.R., EL.S.

10. b - Livella ad acqua/libra aquaria

Materiali: bronzo, vetro, legno Una ricostruzione della fine del XIX, ma perfettamentefunzionante ed utilizzata dall’ingegnere Bruno per larealizzazione della diga del Gorzente è conservata alMuseo dell’Acqua e del Gas di Genova.

La livella ad acqua (libra aquaria)era costituita dauna barra di legno di circa 2 metri con all’internoun condotto, collegato a due tubi di vetro, postialle estremità. Ogni cilindro di vetro era inseritoin un alloggiamento di legno su cui era fissata unapiastra di bronzo con una fessura che poteva es-sere regolata da entrambe le parti. Funzionavasulla base del principio dei vasi comunicanti.La livella poteva essere applicata sulla stessa ba-se della dioptra. Era uno strumento più precisodel chorobates e meno ingombrante; versandol’acqua nel condotto si verificava se lo strumen-to era in posizione orizzontale quando il liquidoraggiungeva lo stesso livello nei due tubi verti-cali. Usando le mire e due aste graduate ai latidella livella ad acqua si verificava la differenzad’altezza fra le due o la loro perfetta linearità; erautilizzata, sempre nel campo dell’agrimensura,per i rilievi topografici.

L.R., EL.S.

BibliografiaAdam 2001, pp. 10, 19-20; Daremberg, Saglio 1877-1918, s.v.;. De Caterini 1995, pp. 51-52; Dilke 1979,pp. 34-36; Misurare la terra 1983, pp. 119, 120-121;M. Vitruvius Pollio, De Architectura, a cura di P.Gros, Torino 1997, pp. 1181-1182.

Sez. 1.11 - Dioptra

Materiali: legno, bronzo Dimensioni: variabili, nel disegno ricostruito misura1,26 m

Cronologia: in uso già nel I sec. d.C. Ricostruzione virtuale: possibile tramite le descrizionidi Erone d’Alessandria (H. Rossi Zambotti)

Detta anche ‘traguardo di Erone’ era compostada una base, forse prevalentemente in legno, al-la quale veniva fissato un disco di bronzo circo-lare su cui ruotava un mozzo con ruota dentata;una vite senza fine, posizionata tra due staffe,era collegata all’ingranaggio che permetteva unaregolazione precisa della rotazione della partesuperiore dello strumento. La parte superioredello strumento, la dioptra vera e propria, si com-poneva di una serie di ingranaggi, su cui si in-nestava un semicerchio dentato, inclinabile inbasso e in alto tramite una seconda vite posi-zionata tra due staffe, e su questo un disco mu-nito di un’asta con due mirini alle estremità: insostanza un autentico teodolite privo di ottica.Nell’utilizzo dello strumento per fini astronomiciil cerchio superiore era diviso in 360 gradi.Utilizzata per gli allineamenti a grande distan-za e per le osservazioni astronomiche consen-tiva di misurare sia gli angoli verticali che quelliorizzontali; permetteva così di calcolare l’al-tezza delle montagne o la distanza tra due luo-ghi posti a diverse latitudini. Si potevano fareallineamenti di gran lunga più complicati diquanto se ne potessero fare con la groma e Vi-truvio la consiglia come alternativa per la livel-lazione.

L.R. – EL.S.

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Stele funeraria

dell’agrimensore

Lucius Aebutius Faustus

(CIL, V, 6786)

da Eporedia: sotto

l’iscrizione,

il bisellium e i fasci,

attributi del seviro,

e la groma, rappresentata

nelle sue parti. I sec. d.C.

(Ivrea, Museo Civico garda;

copia: Roma, Museo della

Civiltà Romana)

(da Dilke 1971)

Sez. 1.14 - Misurare lo spazio:agrimensori e centuriazione

Gli Etruschi ebbero contatti con il mondo gre-co e forse erano venuti a conoscenza del-l’organizzazione del territorio delle coloniein Magna Grecia, tanto che svilupparono lo-ro stessi una organizzazione regolare nei ter-ritori di Spina e Marzabotto, ma la peculiaritàromana risiede in una suddivisione del ter-reno a ‘quadrati’, mentre i Greci prediligeva-no stringhe rettangolari. È noto che i Romanidebbano molto ai Greci e ad altri popoli delMediterraneo, ed in questo caso, sicuramenteapprezzarono l’organizzazione delle coloniegreche, l’urbanistica di Ippodamo di Mileto(V sec. a.C.), ma crearono un sistema pro-prio che metteva probabilmente insieme leconoscenze di tutti: così da Pitagora, Eucli-de ed Erone trassero le conoscenza mate-matiche così come i più complicati strumentidi misurazione frutto dell’esperienza grecaed orientale. La pratica della delimitazione dello spazio de-stinato alla città, alla suddivisione e delimi-tazione del terreno conquistato nelle guerredi confine, alla fondazione di nuove coloniepassò gradualmente dal corpo sacerdotale al-la società civile e divenne un mestiere che, semantenne nella sua tecnica una traccia dellareligiosità originaria, di fatto fu dominio diuomini comuni come soldati, liberti e schia-

vi, noti con il nome di agrimensores (misura-tori di terra).I Romani erano prima di tutto un popolo ‘pra-tico’ che vedeva nell’organizzazione del ter-ritorio, la sua suddivisione, la delimitazionecerta dei lotti di terreno, la definizione esattadelle varie aree di occupazione all’interno diuna città, un modo non solo di provvederead assegnazioni egalitarie tra persone, ma an-che un comodo strumento (una volta tra-sportato su tavolette negli archivi di stato) perpoter imporre tributi e conoscere con esat-tezza i proprietari, dando origine ai primi ca-tasti. Inoltre gli agrimensori, svolgevano anchemisurazioni che non erano strettamente le-gate alla spartizione dello spazio (ovvero lacenturiazione), ma anche legate alla costru-zione di ponti ed opere idrauliche a fianco de-gli architetti dell’epoca.Il compito degli agrimensori non si limitavasolo alla misurazione dei terreni, ma anche al-la divisione secondo piani prestabiliti e pro-gettati con molta cura. L’importanza rimasequindi invariata, poiché serviva un’educazio-ne a base di geometria e matematica per af-frontare il mestiere, e la loro rilevanza era taleda poterne ricavare la condizione di libertà pergli schiavi, o addirittura intraprendere una car-riera politica per liberti ed ex soldati all’inter-no delle città romane. Inoltre gli agrimensorisi organizzarono ben presto in corporazionicon scuole preparatorie che – secondo Fron-tino – comprendevano anche gli insegnamenti

di assegnazioni, divisioni del suolo, termina-zioni e risoluzione delle controversie. Quan-to raccomanda Vitruvio (80-23 a.C.) per lapreparazione di un buon architetto (De ar-chitectura, I, 3-10), che comprendeva dalle let-tere alla musica, dalla geometrica, all’ottica eall’astronomia, non si può certamente esten-dere agli agrimensori, ma è lecito pensare cheuna formazione in senso lato gli venisse for-nita; forse nei tempi antecedenti la forma-zione era tramandata come altri mestieri, oveniva insegnata ‘a bottega’ o a militari di pro-fessione.Gli agrimensori nel loro mestiere avevano bi-sogno di una serie di strumenti che sono no-ti ai noi sia dai ritrovamenti veri e propri, siadai testi antichi, così come da steli funerariesu cui erano rappresentati, a testimonianzadi quanto si andasse fieri del proprio mestie-re. Sappiamo che un agrimensore romanodoveva conoscere una matematica di naturapratica, che gli consentisse di misurare le di-stanze e le aree, orientarsi nella misurazione,e fare tutti i calcoli successivi per il governocentrale o locale al fine di tassare corretta-mente il territorio.Poniamoci quindi di fronte ad una situazio-ne tipo: scelto e definito il luogo secondo gliauspici, un agrimensore doveva iniziare leoperazioni di misurazione e per farlo avevabisogno dei suoi strumenti, oltre alla possi-bilità di scrivere: strumento principale era lagroma (sez. 1.12a).

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Sez. 1.13a - Odometro stradale

Materiali: legno, bronzoDimensioni: probabilmente variabili a seconda delladimensione del carro e dello spazio per collocarlo.

Ricostruzione: sulla base delle descrizioni di Eroned’Alessandria e di Vitruvio. Niccolai snc (Firenze,2009). Misure: 110 x 150 x 150

Lo strumento descritto da Erone di Alessandria(Dioptra, 34) è una scatola che racchiude quat-tro ruote dentate, ciascuna posta ad angolo ret-to rispetto alle altre e viti che le collegavano fraloro. Sulla sommità della scatola stessa era po-sizionato un quadrante graduato con una lan-cetta. La versione di Vitruvio invece (DeArchitectura, 10, 9.1-4), più antica di qualche de-cennio, aveva un ingranaggio con 400 denti eun meccanismo che ad un numero di giri pariad 1 miglio lasciava cadere una pietra o una sfe-ra metallica dentro un vaso di bronzo.Nessun odometro è stato rinvenuto e quindi lericostruzioni si basano esclusivamente sulle de-scrizioni letterarie, segnatamente Vitruvio edErone. Leonardo da Vinci lo riprogettò, atte-nendosi alla descrizione di Vitruvio, per usarlonelle rilevazioni su terreno per realizzare carto-grafie (Codice Atlantico, f. 1 r-b, Milano, Biblio-teca Ambrosiana, 1503-1504 ca.).Lo strumento veniva applicato all’asse delle ruo-te di un carro e mediante i dischi dentati, misu-rava il numero di giri compiuti dalle ruote e inmodo da fornire la distanza percorsa. I giri ve-nivano conteggiati dalla lancetta o, nel caso del-la versione vitruviana,dal numero di pietre cadutenel vaso, indicando così le miglia percorse. Il fun-zionamento e la precisione dell’odometro di-pendevano dalla perfezione dei calcoli matematicieffettuati per la sua costruzione; era essenzialeconoscere il raggio, in modo da calcolare la cir-conferenza della ruota del carro, per determina-re il numero di giri che questa doveva compiereper percorrere un miglio romano. La versionedell’odometro proposta da Vitruvio pare menoaccurata di quella di Erone nei calcoli matema-tici, anche se decisamente più semplice.Tra gli altri usi possibili, è molto probabile che iRomani abbiano usato un strumento di questogenere per misurare le distanze fra le pietre mi-liari sulle strade consolari allo scopo di facilita-re la loro collocazione.

L.R.BibliografiaDilke 1979, p. 37; Dosi, Schnell 1992, pp. 28-29;Homo faber 1999, p. 225; Misurare la terra 1983, p.121; Oleson 2008.

Sez. 1.13b - Odometro navale

Materiali: legno, bronzoRicostruzione: Niccolai snc (Firenze, 2009)Misure: base cm 150 x 130x 140 di altezza

Vitruvio, sempre nel libro 10, 5-7 del De Archi-tectura parla anche di un odometro navale: ilprincipio meccanico è identico a quello del-

l’odometro terrestre e una ruota a pale inseri-ta all’esterno della nave misurava un diametrodi 4 piedi romani come la ruota del carro.

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Ricostruzione al vero di Niccolai snc (2009)

Posizionamento delle groma ed allineamento attraverso distanze costanti costituite da metae Metodo della cultellatio in assenza di visuale

Ricostruzione al vero di Niccolai snc (2009)

venivano assegnate a 100 cittadini (2 iugeraa testa = 1 heredium), secondo una praticaoriginaria iniziata, secondo una teoria moltotarda, da Romolo al momento della fonda-zione della città. La centuriazione fu sicura-mente una pratica largamente seguita daiRomani ed applicata in tutti i casi possibili.L’agrimensore poteva, in effetti, trovarsi difronte a quattro possibilità nell’iniziare il suolavoro:1. si era in presenza della fondazione di unanuova città

2. si doveva suddividere il terreno intorno adun centro già esistente

3. l’asse della centuriazione era già predeter-minato dall’esistenza di una grande via dicomunicazione

4. il terreno da suddividere era lontano dalcentro abitato poichè le immediate vici-nanze non consentivano uno sfruttamen-to del suolo.

Il rapporto ideale città-territorio (ratio pul-cherrima) era costituito dal sistema di suddi-visione unitario spazio ed agrario: decumanuse cardo dell’area centuriata dovevano nasce-re dal centro della città stessa; situazione que-sta rarissima. A questo proposito è importantefare una precisazione sui termini di cardo edecumanus. Il termine cardo, sembra trarreorigine dall’asse dei poli della sfera celeste(Frontino, De limitibus, 28, 15-16) ed acqui-

stare proprio il valore di asse principale delsistema, come afferma Plinio (Naturalis Hi-storia, 18, 326-333), dove tra l’altro tratta il pro-blema dei campi relativamente ai venti (ilproblema dell’orientamento degli assi gene-ratori della centuriazione e la disposizionedelle strade rispetto ai venti era un tema trat-tato anche da Vitruvio (De arch, I, 1-5). Menochiara l’origine del termine decumanus, chenel contesto agrimensorio-religioso, aveva lafunzione di linea di partizione e di orienta-mento principale correndo in direzione est-ovest; potrebbe così derivare da duodecimanus= duo+decidere (dividere in due) secondoFrontino, che cita però Varrone (Forntino,Delim. 28, 11-15] o dal fatto che incrociandosi con

il cardo dava origine ad una X, quindi diecisecondo Isidoro (Origines, 15]. Certo è che inqualità di assi generatori della centuriazione,per questo poi definiti cardo maximus (KM)e decumanus maximus (DM), mantenevanoil loro nome come assi principali dei centriurbani, solo quando il centro della città era ilgeneratore della centuriazione stessa. In tut-ti gli altri casi, gli assi principali delle città, tal-volta generatori degli impianti urbani, nonpossono essere chiamati cardo e decumanus,ma generalmente assi generatori nord-sud edest-ovest. Determinati quindi gli assi genera-tori della centuriazione, si provvedeva allasuddivisione del reticolo in quadrati di 20x20actus di lato, formando una maglia regolare.

EL.S.

BibliografiaDosi, Schnell 1992; Congès A.R., Modalités pratiquesd’implantation des cadastres romains: quelqueaspect, in MEFRA, 108, 1996-1; De Caterini 1995;Dilke 1979; Gabba E., in Misurare la terra:centuriazione e coloni nel mondo romano, disegniallegati al testo di Moscara G., Modena, 1984;Lachmann C., Gromatici veteres, Berlino 1848;Russo 2006.

Questa veniva fissata in un punto ed attra-verso i suoi 4 bracci orientata in modo che ledue linee ortogonali, risultassero in corri-spondenza degli assi nord-sud ed est-ovest.Per farlo, l’agrimensore poteva guardare laposizione del sole, oppure avvalersi di unameridiana portatile che faceva parte della suadotazione, come è stato rinvenuto a Pompeinella bottega di Verus. Le evidenze archeolo-giche mostrano però che non sempre l’orien-tamento era perfetto o secondo i punticardinali e questo è imputabile al fatto che iRomani suddividevano la giornata sempre il12 ore uguali, d’estate e d’inverno, provocandoun ovvio disallineamento con i punti cardi-nali dovuti alla ‘durata’ dell’ora. Vitruvio, in-fatti consiglia un metodo (De architectura, 1,6, 6-7), più tardi ripreso da Igino Gromatico,che consentiva di tracciare in base alle om-bre proiettate dallo gnomone, il quadrantesettentrionale e meridionale, da cui, per mez-zo di un compasso (sez. 1.7 b-e) si otteneva-no gli altri due settori. Molte volte però lapratica era più approssimativa, oppure si sce-glieva di orientare secondo strade o confor-mazioni del terreno particolarmente rilevanti.Una volta orientata la groma, si traguardavada un filo a piombo al corrispondente oppo-sto e l’allineamento era regolato su paline(metae) infisse nel terreno, a distanze rego-lari, mano a mano che si procedeva nelle ope-razioni. Le distanze regolare a cui apporre lemetae erano determinate con una pertica (de-cempeda) lunga 10 piedi Romani, ovvero (1pes = 29,6 cm) (sez. 1.12b).Nel caso il terreno presentasse un’orografiaparticolare con fiumi, colline e valli, gli agri-mensori dovevano ricorrere ad alcune prati-che per il loro superamento, in modo da potermantenere gli allineamenti: si applicava il me-todo della cultellatio, che permetteva di mi-surare le superfici dei terreni in pendiorapportandoli ad un piano orizzontale. Il pro-cedimento è descritto da Frontino (De Limi-tibus, 33-34] che propone due metodi chedipendono se la visuale permette o meno divedere oltre l’ostacolo. Nel caso non fossepossibile vedere oltre il dislivello, si dovevaapplicare un’asta verticale all’estremità dellapertica, traguardare la verticale, ed estende-re la sua proiezione sul terreno tramite il filoa piombo e sistemare le paline nel terreno.Nel caso in cui fosse possibile vedere al di làdi una valle, era sufficiente piantare almenotre paline sul lato opposto e traferire la groma

sull’altro versante e controllare l’allineamentoopposto.La groma con le relative metae era utilizzataper misurare le distanze e le aree conl’applicazione di alcune formule geometrichealle misure lineari che venivano rilevate.Columella (4-70 d.C.) nel De Re Rustica (r.r.5, 1-3) ci informa sulle formule da applicareper ottenere le aree dei campi di varia formao per calcolare distanze non misurabilidirettamente (ad esempio la larghezza di unfiume per progettare la costruzione di unponte). Nel Corpus degli agrimensori è pre-sente appunto il metodo per calcolare la lar-ghezza di un fiume, basato sul teorema deitriangoli congruenti:1. si stabiliva, sulla base di un punto fisso, unallineamento perpendicolare al fiume (seg-mento AC) e da questo, con la groma in C,si creava un allineamento (segmento CD)perpendicolare ad AC

2. si collocava la groma in D e si tracciava laperpendicolare a CD, (segmento DF) chein tal modo era parallela ad AC

3. si divideva in due parti uguali CD (CE=ED)4. si posizionava la groma in E e si traguar-dava A, prolungando dalla parte opposta lalinea AE, fino ad intersecare il segmentoDF nel punto G.

A questo punto si avevano due triangoli con-gruenti, in cui DG è uguale ad AC, quindi la

lunghezza di AB era data dalla differenza traDG e BC; bastava conoscere la misura linea-re di BC e DG per determinare la larghezzadel fiume.

Una delle operazioni fondamentali affidataagli agrimensori era la divisione del territorioe la sua centuriazione; questa operazione ave-va il suo significato più profondo nell’orga-nizzazione della vita associata di una nuovacomunità, che veniva ad installarsi in un ter-ritorio conquistato o comunque acquisito.Aveva quindi la sua massima importanza nelmomento in cui si doveva preparare l’occu-pazione stabile di una zona con insediamen-ti tanto urbani quanto suburbani ed era lastessa situazione nella quale si erano trovatii Greci nel momento della colonizzazione delsud Italia con suddivisione del terreno in lot-ti identici ed assegnati tramite sorteggio, se-condo un principio di eguaglianza dellaproprietà e della partecipazione politica, teo-rizzata dagli stessi politici greci. I Romani però si trovarono di fronte a terreconquistate a popoli ben strutturati, dove era-no già presenti proprietà fondiarie e dove i di-slivelli sociali, politici ed economici eranomolto accentuati; con la ‘centuriazione’ (ter-mine militare che corrispondeva a 100 uo-mini per centuria) si creavano superfici di 200iugera (ovvero quadrati di 20 x 20 actus) che

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Determinazione della larghezza di un fiume con il metodo dei triangoli congruenti

Schema di una centuria con in grigio l’area difondazione di una nuova città che coincide con gliassi generatori della centuriazione

Misurazione delle ombre per la determinazione dell’orientamento della groma

81

Gli edifici sono rappresentati mediante l’usodi un linguaggio simbolico, limitato e chiaro,che permette una individuazione delle fun-zioni dei vari ambienti rappresentati (scale,taberne, templi) e delle strutture architetto-niche. Nella caratterizzazione didascalico -esplicativa si notano alcune peculiarità inte-ressanti. Alcune scritte che presentano erro-ri (aqueductium, navalenferius) non sonosemplici errori dei lapicidi, ma elementi chemostrano la volontà di rispettare il gergo po-polare di quegli anni a Roma. E, anche se lamaggior parte delle scritte è stata tracciata sudelle sottili linee-guida, l’inclinazione di mol-te lettere rispetto alla verticale, mostra che es-se furono realizzate quando il montaggio dellelastre era già finito.Inoltre è stato possibile ricostruire la mecca-nica del rilevamento topografico, su base pro-iettiva e su capisaldi trigonometricamentestabiliti a priori e constatare l’elevato gradodi concordanza con i rilievi moderni della cit-tà. Nel complesso la rappresentazione plani-

metrica degli edifici è resa come si farebbeancora oggi se si volesse riprodurre in mar-mo una pianta della città, costituita dall’ac-costamento delle piante dei singoli edifici. Laplanimetria di questi è rappresentata di mas-sima al piano terreno: la pianta è delineata aduna certa altezza dal piano, ed infatti le sca-le interne sono interrotte poco dopo l’inizioda terra, con la rappresentazione convenzio-nale dei primi gradini. I grandi monumenti,che erano spesso sostenuti da sostruzioni,sono invece rappresentati come visti dall’al-to, ad esempio nel caso del Templum DiviClaudi è delineata la terrazza superiore deltempio. Una singolare grafia convenzionaleè utilizzata per rappresentare gli acquedottie gli archi: oltre ai piloni graficizzati normal-mente in pianta, è raffigurata sul marmo laproiezione delle arcate con un segno curvoche collega i piloni stessi. Talvolta si ha inve-ce una rappresentazione degli acquedotti inaree libere, che possiamo considerare una fu-sione tra la pianta e l’alzato.

A.Z.P.

BibliografiaCarettoni et al. 1960; Coarelli F., L’orientamento e ilsignificato ideologico della pianta marmoreaseveriana di Roma, in Lafon X., Sauron G. (a curadi), Théorie et pratique de l’architecture romaine, inÉtudes offertes à Pierre Gros, Aix-en-Provence 2005,pp. 61-64; E. Rodriguez Almeida, Formae urbisantiquae. Le mappe di marmoree di Roma tra larepubblica e Settimio Severo, Collection de L`ÉcoleFrançaise de Rome 305, École française de Rome,2002, pp. 67-76.

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Sez.1.15 - Forma Urbis Severiana:frammento con l’area del porticodi Livia

Originale: marmo imezio (Roma, Musei capitolini - AntiquariumComunale)

Calco in gesso del frammento con raffigurazionedella Porticus Liviae. Roma, Museo dellaCiviltà Romana, inv. n. 1526Il frammento della Forma Urbis riporta lapianta del portico di Livia, eretto da Augustoin onore della moglie, tra il 15 e il 7 a.C., che sitrovava sull’Esquilino e corrisponde oggiall’area compresa tra la via in Selci e la viadelle Sette Sale.L’edificio, lungo circa 120 m. e largo 95 m, sipresentava come una grande piazzarettangolare circondata da un doppio portico:uno dei suoi lati corti era adiacente al ClivusSuburanus dal quale si accedeva al porticotramite una scala. Al centro della piazza unedificio rettangolare, probabilmente unrecinto, contiene un altro elemento,mostrando singolari somiglianze con lapianta dell’Ara Pacis.

La Forma Urbis Romae, realizzata agli inizi delIII d.C. (204 d.C.) durante il regno dell’impe-ratore Settimio Severo, è una planimetria del-la città di Roma incisa su lastre di marmoimezio, una delle più importanti mappe giun-te fino ai nostri giorni dall’epoca romana e unafonte insostituibile per ricostruire la topografiadella Roma imperiale. Non sappiamo se l’im-peratore fece realizzare la gigantesca pianta del-la citta` per rinnovare una precedente mappaandata distrutta, ma il realizzatore effettivo fusicuramente il praefectus urbi Fabius Cilo, e ven-ne esposta nella sede della praefectura Urbis.Lo scopo per il quale fu realizzata la piantanon è chiaro: secondo alcuni avrebbe finali-tà catastali-amministrative o solo con fun-zione ornamentale e documentaria, anche secertamente basata su ipotetiche documen-tazioni catastali più antiche, o a scopo cele-brativo; secondo altri ancora (Coarelli 2005)è la riproduzione aggiornata, esposta in un’au-la del templum Pacis restaurato dopo l’in-cendio del 192 d.C., di una analoga piantaaugustea realizzata, forse su tavole di bron-zo, al momento della riorganizzazione am-ministrativa della città in 14 regioni econnotata in senso giuridico-religioso e va-lore simbolico, caratteristico dell’ideologia diAugusto (nella stessa aula, sulla parete difronte, era probabilmente dipinta su lastre dimarmo, un’altra pianta dell’area compresa

entro le cento miglia da Roma, area sogget-ta appunto all’autorità del prefetto urbano).Nella Forma appaiono, provvisti di didasca-lie esplicative, solo monumenti e spazi pub-blici, e le uniche eccezioni per iscrizionialludenti a privati riguardano il prefetto del-la città. Anche nei casi in cui compaiono no-mi di privati, si tratta di nomi indicati comepura informazione topografica, essendo di-venuti elementi di riferimento comune, con-sacrati all’uso, e non e` detto che i personaggifossero ancora in vita.Vi compaiono i nomi di grandi monumentipubblici, di templi isolati con o senza dida-scalia, di complessi termali, di qualche ac-quedotto, nomi di magazzini e depositipubblici.Sembrerebbe dunque finalizzata a sottoli-neare la grandiosità monumentale di Romae l`aspetto utilitario pubblico della rappre-sentazione.Le lastre erano affisse sulla parete laterizia diuna delle grandi aule del Templum Pacis diVespasiano, ora corrispondente al muro ester-no della chiesa di Santi Cosma e Damiano,ove sono ancora visibili i fori delle grappemetalliche che le fermavano alla parete.I frammenti vennero casualmente rinvenutidall’anno 1562 alla base della parete esternadel Convento attiguo alla chiesa di SS. Co-sma e Damiano. Furono poi trasportati a Pa-

lazzo Farnese, e utilizzati nei muri di recin-zione del giardino segreto del palazzo sul Te-vere. Nel 1972 i frammenti vennero portati inCampidoglio e murati su una parete del giar-dino del Palazzo dei Conservatori: poi stac-cati perché deteriorati dalle intemperie, portatial Celio nei locali dell`Antiquarium Comu-nale e da qui in vari magazzini.Studi accurati delle singole lastre, delle im-pronte dei filari e delle grappe, hanno per-messo di definire le dimensioni totali dellapianta, sia quelle delle singole lastre, di cuisi conservano ormai solo un migliaio di fram-menti, all’incirca solo una piccola parte del-l’insieme originario.Allo stato attuale è stato calcolato che si co-nosce solo un decimo della superficie origi-naria totale della pianta, che doveva misurarein altezza m 13 e in altezza m 18; era incisasu 151 lastre di marmo, imezio per lo più, cioèmarmo proveniente dalle cave del monte Imet-to presso Atene, per una superficie di 240 me-tri quadrati, che alla scala di rappresentazionedella pianta (1:240) da una superbie urbanamisurata al vero di mq. 13.550.000 compre-sa entro il perimetro del pomerio.La proiezione della pianta è verticale icno-grafica, era rubricata e forse policroma; l’orien-tamento è con il nord-ovest in alto e il sud-estin basso, in relazione alla scienza augurale(Coarelli 2005).

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Sezione 2

tecnologia nel costruire

le strutture, che dipendeva dalla profondità delle fondazioni e dal-la scelta del materiale; l’utilitas, consistente nella appropriata di-sposizione dei locali con giusti orientamenti; la venustas, cioèl’aspetto gradevole del costruito; tre elementi che dovevano coe-sistere in uno stato di correlato equilibrio.Inoltre Vitruvio parla anche di distributio; dice infatti (De Architec-tura, I, 2.1): “l’architettura consiste…anche nella distribuzione, chein greco si dice economia” (architectura constat…et distributione,quae graece oikonomia dicitur). Il termine distributio in questo casoassume un valore prettamente amministrativo-organizzativo, nelsenso sempre vitruviano di “copiarum locique comoda dispensatio”,nella “misurata attribuzione di materiale e di luoghi” e nella atten-ta parsimonia di spesa nel costruire (I, 2.8): questa attenzione agliaspetti pratici di economia di cantiere, la modularità e la standar-dizzazione delle costruzioni per una analisi dei tempi di costruzio-ne e il numero di lavoratori impiegati sono quindi caratteristiche delcostruire romano.

La presenza di rocce piroclastiche nell’area laziale, il cappellaccio,il tufo del Campidoglio, di Grotta Oscura, dell’Aniene, di Fidene,che si prestavano facilmente al taglio a blocchi, determinò il pas-saggio da una architettura lignea ad una a blocchi sovrapposti (sa-xum quadratum), già in uso in Grecia e nell’Italia Meridionale e -a Roma - fino alla fine dell’età repubblicana.Le ‘coltivazioni’ delle cave avvenivano sia a giorno che in galleria: icavapietre, provvisti di un’attrezzatura assai semplice e ancora oggiin uso (doppia ascia, ascia a martello, mazzette, punteruoli, cunei,sgorbie e squadra (sez. 1, n. 7 f e sez. 8, n. 12) incidevano tagli oriz-zontali e verticali a seconda delle misure dei blocchi richiesti che, giàin buona parte lavorati in cava e trasportati mediante rulli di legno efuni, giungevano a Roma preferibilmente per via d’acqua (fig. 1).I sistemi per ‘cavar pietre’ erano ben noti in antico. Vitruvio parladi un sistema di invecchiamento o stagionatura dei blocchi: adesempio in caso di uso di pietre tenere, come il tufo, consiglia di“estrarli in estate e non d’inverno e di esporli all’aria in luogo sco-perto per due anni prima di metterli in opera”.

Particolari accorgimenti tecnici venivano adottati per il solleva-mento dei blocchi con l’uso di paranchi, argani, olivelle, tenoni etenaglie (sez. 2, nn. 1 e 3-4)I blocchi squadrati, disposti preferibilmente per testa e per tagliocon faccia a vista bugnata o liscia, vennero poi ancorati gli uni aglialtri mediante grappe in legno o in metallo (piombo, ferro o bron-zo). Dopo l’introduzione dell’opera cementizia (sez. 2, n. 4) talesistema venne riservato a quelle parti degli edifici strutturalmen-te impegnative, dove in genere viene adottato il travertino e il mar-mo in blocchi per meglio risolvere problemi di statica e di durata.Poco dopo la metà del I sec. a.C. vengono aperte le cave di Luni(ancora oggi in uso) (sez. 2, nn. 11-12), dalle quali viene estrattoun ottimo marmo bianco, che in blocchi sbozzati raggiungeva Ro-ma, ed altre destinazioni, su navi appositamente costruite.Marmi di importazione, per parti nobili dei templi o per le scultureerano già usati in Roma fin dalla metà del II sec. a.C., ma la con-quista della Grecia e del Mediterraneo orientale portò all’aperturadel mercato romano per i marmi greci ed orientali che così lo inva-sero con i loro colori vivaci destinati alle parti portanti degli edifici,come colonne, trabeazioni, e alle parti decorative, come rivestimentidi pareti e pavimenti. La ‘domanda’ di marmi da parte di Roma edi tutto l’impero determinò la riorganizzazione del sistema delle ca-ve, la maggior parte delle quali passò in mano dell’amministrazio-ne imperiale. Giunsero così a Roma gli splendidi marmi bianchidell’Attica e, tra i marmi colorati, il caristio venato di verde, il rossoantico del Tenaro, il marmo giallo numidico, il verde ‘ranocchia’, igraniti, i marmi africani, il marmor Phrygium, il porfido rosso e ver-de, le brecce coralline, il marmo cario e altri ancora. L’estrazioni deimarmi, il trasporto nelle varie sedi dell’impero e la loro lavorazionefinale, nonché la messa in opera di masse enormi di pietra è unodei capitoli più interessanti dalla tecnologia romana.La ‘scoperta’ dell’opera cementizia, o structura caementorum di Vi-truvio, cioè pezzi di pietra (caementa) annegati nella malta forma-ta da calce e pozzolana o sabbia e acqua in un ‘calcestruzzo’ moltosolido e di lunga durata, diede la possibilità di fare ‘gettate’ in cas-seformi anche di grande spessore per muri in elevato, ma anchedi archi, volte, sostruzioni, palificazioni anche in immersione.La calce proviene dalla cottura di pietre calcaree in forni a formaconica per la fuoriuscita dell’anidride carbonica (calx cocta); l’os-sido di calcio così formatosi dà luogo alla calx viva (CaCo3 = cal-ce viva CaO + anidride CO2). La calce così ottenuta viene depostain fosse e bagnata con acqua; a contatto con l’acqua la calce sisurriscalda e raggiunge la temperatura di 300 gradi; quindi si raf-fredda, si polverizza divenendo calce spenta (calx extinta) che almomento dell’uso viene bagnata, formando una pasta tenera eomogenea detta ‘grassello di calce’, che unito alla sabbia o allapozzolana, forma la malta. È sempre Vitruvio la nostra fonte di in-formazioni: ci fornisce infatti le proporzioni per ottenere un’otti-ma materia, cioè un conglomerato resistente: una parte di calce,tre parti di pozzolana, oppure una di calce e due di sabbia.A questo punto avviene un processo inverso: eliminata l’acqua perevaporazione, la calce si combina lentamente con l’anidride car-bonica dell’aria trasformandosi in carbonato di calcio e quindiprendendo di nuovo la durezza del calcare.La necessità di proteggere la struttura cementizia determinò la

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È evidente che non è possibile illustrare tutte le caratteristiche delmodo di costruire dei Romani nel breve spazio disponibile di que-sto catalogo: la necessaria sintesi, che va letta integrata dagli og-getti esposti, è un tentativo di mettere in evidenza gli aspetti piùsalienti, quali le tecniche e le macchine utilizzate nel costruire, letipologie strutturali degli edifici a destinazione privata e pubblica,e in generale di tutte quelle opere che la civiltà romana in pienaespansione ha realizzato in ambito urbano e extraurbano, qualistrade, fogne, ponti, acquedotti, teatri, anfiteatri, basiliche, fori,templi, domus e case di abitazione.Inoltre, la panoramica delle tecniche edilizie in Roma e nelle pro-vince dell’impero deve ritenersi articolata nel tempo e nello spa-zio: non sempre i canoni costruttivi sono stati rispettati, né furonouguali dappertutto; le tecniche andarono sempre più affinandosi,trasformandosi, specializzandosi con l’adozione di migliorie neisistemi strutturali, nella stessa organizzazione dei cantieri perl’esperienza acquisita, nella qualità dei materiali adoperati, il tut-to in un arco di tempo di circa mille anni, dimostrando quella ca-pacità tutta romana di adattare tecniche costruttive consolidatealle situazioni reali che di volta in volta si verificavano con il va-riare delle situazioni ambientali o economiche.Le tecniche costruttive e progettuali utilizzate nell’Urbe sono inqualche modo ‘esemplificative’ di quelle utilizzate poi nelle altreregioni e province, anche se non sempre ciò che era ‘canonico’ aRoma, fu tale anche fuori del perimetro della città. Man mano checi si allontanava dalla capitale dell’impero, accanto all’adozionedei modelli tecnici e strutturali in uso a Roma, si tendeva ad ado-perare materiali, tecniche ed unità di misura locali nel rispetto, pe-raltro, di talune regole fondamentali.È evidente che la disponibilità di un materiale può da un lato con-dizionare la tecnica edilizia, ma al contempo ne può esaltare lapotenza e la qualità, nonché l’estetica, come succede nei para-menti in opera reticolata dove talvolta vennero alternate pietre scu-re a pietre chiare, come ad esempio la lava e il travertino o il calcare.L’uso del materiale costruttivo varia, inoltre, a seconda della de-stinazione dell’edificio, delle sue dimensioni, della sua colloca-zione, della disponibilità finanziaria dell’impresa, del gusto corrente;è soggetto alle mode e alle preferenze personali e culturali di com-mittenti ed architetti.Le tecniche, quali che esse siano e in qualunque campo venganoapplicate, sono in sostanza il modo di realizzare delle idee proget-tuali, che evolvono nel tempo verso forme sempre più funzionali.Ogni tecnologia viene adottata solo dopo essere stata sottoposta

alla prova di una lunga esperienza, la solo forma che avevano gliantichi per selezionare una tecnica nuova, in particolare nel campodell’edilizia. Queste forme di sperimentazione possono subire del-le accelerazioni a causa di incendi, guerre, terremoti, che costrin-gono poi ad adottare sistemi costruttivi più rapidi per la ricostruzione.Cassio Dione (56, 30,3) e Svetonio (Aug. 28) raccontano che Augu-sto morente avrebbe detto “di aver ricevuto una città di mattoni edi averla lasciata di marmo”. In effetti, prima del suo regno la cittàappariva costruita in prevalenza con materiali tufacei, lignei, fittili. Isuoi interventi, che portarono a compimento anche progetti già diGiulio Cesare, trasformarono Roma in una città ricca di edifici mo-numentali: fori, acquedotti, basiliche, quartieri monumentali comeil Campo Marzio, la domus imperiale e una nuova divisione ammi-nistrativa della città in 14 regioni. L’incendio del 64 d.C. che, all’epocadell’imperatore Nerone, devastò Roma per nove giorni provocan-do la distruzione di 132 domus e di 4000 insulae, determinò una ri-costruzione con l’introduzione di schemi urbanistici più regolari conampi spazi aperti, ampliando la larghezza delle strade, limitandol’altezza degli edifici, con portici a protezione delle facciate, proi-bendo l’uso del legno nelle costruzioni private e con norme sulla di-visione delle singole porzioni immobiliari; come dice Tacito (Annales,15, 38-44) “questi provvedimenti presi per motivi di utilità, portaro-no anche bellezza alla nostra città”.La maggior parte delle nostre conoscenze in materia di tecnicheedilizie ci viene dall’osservazione diretta, dall’analisi, dallo studioe dalla comparazione delle varie tipologie di edifici costruiti in epo-ca romana: la letteratura antica in materia non è abbondante e so-stanzialmente si riduce ad un solo nome: Vitruvio.I suoi dieci libri sull’architettura (De architectura), scritti tra l’età diCesare e quella di Augusto, quando in materia edilizia erano in cor-so grandi esperienze, sono fonte inesauribile di informazioni di ti-po tecnico, metodologico e storico, che ci consentono oggi di‘leggere’ e di interpretare l’enorme quantità di ‘esempi’ di archi-tettura che troviamo distribuiti su tutta l’area dell’impero romano.Ciò che ancora oggi stupisce, ed è oggetto di studio attraverso ap-punto il testo vitruviano, è la quantità e la qualità degli edifici chela civiltà romana ha lasciato nei territori occupati, la loro impo-nenza, le soluzioni architettoniche studiate e realizzate, la com-plessa organizzazione dello spazio interno degli edifici, lafunzionalità delle realizzazioni adottate.Le caratteristiche di un edificio, che dovevano esser ricercate e per-seguite dagli architetti secondo Vitruvio (De Architectura, I, 3.2),che ne detta le regole auree, erano: la firmitas, cioè la solidità del-

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Tecnologia nelle costruzioni

Giuseppina Pisani Sartorio

Fig. 1 – Sistemi di estrazione in una cava d pietra (da Adam 1996, fig. 21)

Ma i laterizi hanno anche un altro valore,oltre quello di ottimo ma-teriale da costruzione: la loro bollatura in fabbrica (rettangolare, lu-nata, circolare, a lettere rilevate o a lettere cave) con la data consolareo altri elementi permette di datare le cortine in un edificio, stabilir-ne le fasi edilizie e, per confronto, poter dare una cronologia ad edi-fici altrimenti non databili. Il contenuto epigrafico dei bolli ci forniscedati eccezionali per ricostruire la storia economica, ma anche so-ciale di Roma: i nomi dei proprietari della fabbrica, il luogo di pro-duzione (ex figlinis) talvolta anche quello dell’officinator servivanoprobabilmente in sede di contratto di fornitura della partita di late-rizi tra il proprietario della materia prima e dell’impianto (impiantisituati per lo più lungo la valle del Tevere per la presenza di cave diargilla, di acqua e di legname e del fiume per i trasporti - la c.d Ti-ber Valley - dove tuttora continua un‘ottima produzione di lateriziper edilizia) e l’officinatore-appaltatore in forme di appalto e su-bappalto. In altri casi, in particolare nel corso del II secolo, l’im-prenditore poteva essere una persona non direttamente coinvoltanel ciclo produttivo, un cavaliere (eques), un senatore, donne o lostesso imperatore, che divenne nel III secolo unico proprietario co-stituendo un mercato monopolistico privo di vera concorrenza.L’ultima fornitura di mattoni bollati è di Teodorico, il re goto (534),testimonianza della sua attenzione nel conservare e restaurare gliedifici di Roma. Dopo saranno i papi a rilevare il ruolo di produtto-re di laterizi, che era stato dell’imperatore (fig. 4).Di fatto l’abbondanza di costruzioni di età romana che utilizzanoquesti sistemi dimostra, anche se non la paternità delle invenzionistrutturali, certamente la padronanza con cui i Romani usarono que-ste tecniche, ne seppero calcolare perfettamente la portata, gli ef-fetti e le conseguenze nella statica degli stessi edifici con unaconoscenza e padronanza teorica e pratica dei problemi connessialla loro realizzazione.Un buon edificio si vede dal calcolo delle sue fondazioni: in edificiin opera quadrata, le fondazioni erano generalmente nello stessomateriale dell’elevato oppure in massicciata di muratura di spes-sore maggiore del muro in elevato (ad esempio la fondazione delPantheon consta di un anello di strati di calcestruzzo alternati a sca-glie di travertino largo m 7,30 e profondo m 4,50 per sostenere unaparete spessa m 6; la fondazione dell’Anfiteatro Flavio è una coro-na ellittica del perimetro di 530 m, larga m 31 e profonda m 13,50. I solai erano, ai piani superiori, per lo più in tavolati lignei, le cui tra-vature poggiavano su incassi già predisposti nella muratura o sumensole di pietra; sul tavolato veniva poggiato uno strato di con-glomerato. Vitruvio raccomanda di stendere tra legno e cementiziouno strato di paglia per evitare la corrosione del legno da parte del-la calce: la struttura era così isolata dai rumori e dall’umidità; il sof-fitto sottostante poteva anch’esso essere intonacato e decorato.I pavimenti per grandi spazi aperti o chiusi erano a lastre di pietrao marmo, anche a disegni complessi, poggianti su strati di conglo-merato cementizio. L’opus signinum, una malta con 5 parti di sab-bia e 2 di calce mista a pietrame di piccola pezzatura che venivabattuto e costipato, era particolarmente adatto per pavimentare spa-zi aperti; un impasto di calcestruzzo e laterizio in frammenti minu-tissimi, detto modernamente cocciopesto, era usato perimpermeabilizzare ambienti destinati a contenere acqua ferma (ci-sterne, fontane (sez. 3, n. 7), piscine termali) o in movimento (spe-

co degli acquedotti, cunicoli di drenaggio; sez. 3, n. 2). Si tratta diuna malta idraulica che fa presa rapidamente anche sott’acqua, quin-di adatta alla costruzione delle fondazioni in cassaforma delle piledei ponti o dei portiL’opus spicatum è formato invece di mattoncini rettangolari di pro-duzione industriale posizionati per taglio e disposti a lisca di pesce;è un tipo di pavimento usato nei locali di servizio. Mosaici, lastre dimarmo di varie forme e colori completavano l’interno degli edifici.Le pareti venivano rivestite di intonaco e spesso dipinte o rivestitedi lastre di marmo, opus sectile, stucchi e mosaici di paste vitree(sez. 9, Introduzione e nn. 1-4). Le coperture degli edifici potevano essere realizzate con strutture inlegno (solai, piani a terrazza o falde inclinate sostituite da capriate)o con volte in muratura e/o conglomerato cementizio.a terrazza, acapriate lignee o a volta. Tuttavia mentre le prime due tecniche ave-vano una lunga esperienza nelle architetture mediterranee, l’uso chedell’arco e della volta fecero i Romani con i mezzi tecnici a loro di-sposizione ha permesso di realizzare opere imponenti su tutto ilterritorio dell’Impero.L’adozione quindi della volta per coprire ambienti di medie e gran-di dimensioni, come le aule delle terme, le diverse tipologie dellevolte (a cupola, a tutto sesto, a sesto ribassato, a padiglione, a cro-ciera, anulari, a botte, rampanti, conoidi) sono state realizzate solocon l’introduzione dell’opera cementizia verso la fine del II sec. a.C.,allorché l’esperienza fornì le prove dei risultati raggiungibili dallaperfetta tenuta delle malte; a questo si deve aggiungere anche lostudio o la sperimentazione della resistenza dei punti di appoggioe del rapporto tra questi e l’ampiezza delle volte e degli archi. L’au-mento dello spessore delle pareti di appoggio, l’inserimento di se-micolonne o di nicchie nelle pareti sono tutti accorgimenti cheprogressivamente indicano l’applicazione di soluzioni diverse al pro-blema delle spinte e dei carichi, ma anche la maggiore sicurezzache si stava acquisendo nell’uso di queste nuove tecnologie co-

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comparsa di vari tipi di paramento, in opera quadrata, in opera in-certa (a partire dalla fine del III sec. a.C.) e quasi reticolata, in ope-ra reticolata, in opera laterizia o mista e listata (fig. 2).Questo modo di costruire, opera cementizia rivestita da paramen-to, è il sistema fondamentale usato dai Romani a partire dal III sec.a.C. fino alla fine dell’esperienza romana ma, tramandato alle epo-che seguenti fino ai nostri giorni, distingue l’edilizia romana da quel-la greca e di altre culture, e le ha permesso la creazione di strutturecolossali, quali gli anfiteatri, le terme, gli acquedotti e le mura; conessa vennero brillantemente risolti i problemi di copertura di gran-di spazi, utilizzandola nelle volte, gettate arditamente sul vuoto.La precoce diffusione dell’uso del cementizio in Roma e nel Lazioe Campania è certamente dovuta alla presenza di abbondanti cavedi pozzolana (pulvis: è un prodotto vulcanico eruttato in forma diminuti lapilli che raffreddandosi rapidamente a contatto con l’aria,si amalgama in strati più o meno compatti) ed è in questa zona chedobbiamo collocare l’invenzione dell’opera cementizia.Ma è soprattutto l’uso del mattone – cotto in fornace e ben stagio-nato - che connota l’edilizia romana. L’argilla veniva estratta e fattadecantare con l’aggiunta di sgrassanti, poi plasmata entro formel-le di legno delle misure volute per i mattoni, per le tegole e i coppiche venivano messi ad essiccare al coperto sotto tettoie, bollati epoi cotti in fornaci. Le fornaci avevano una camera di combustionesotterranea e l’aria calda raggiungeva la camera di cottura attraver-so fori praticati nel pavimento con temperature di circa 700/1000gradi.Il mattone, dapprima riservato agli ambienti umidi (ad es. cella se-polcrale del sepolcro di Cecilia Metella, metà del I sec. a.C., le pa-reti interne della cavea del teatro di Marcello del 13 a.C.), l’uso dicortina laterizia in parete (opus testaceum o doliare) con o senza in-

tonaco di rivestimento diviene sistematico sotto Tiberio nei CastraPraetoria (21-23 d.C.) con mattoni triangolari ricavati da mattoni qua-drati bessali (2/3 di piede romano, che è pari a cm 29,6) tagliati indiagonale o tegole fratte, che ben si ammorsavano con l’opera ce-mentizia (fig. 3).Sono in laterizio i grandi edifici privati e pubblici di Roma e del-l’impero romano. Le fabbriche romane di laterizi operarono sceltetecniche razionali: misero in produzione pochi formati di laterizi,che potevano essere divisi in tagli minori e quindi facilmente tra-sportati via fiume in città per soddisfare le esigenze dei grandi can-tieri, quali quello delle terme di Caracalla. Accanto ai mattoni, siproducevano anche coppi e tegole per i tetti; queste ultime, spez-zate e smarginate, potevano essere anch’esse utilizzate per i para-menti, tanto che i Romani chiamarono sempre tegulae i mattonicotti in fornace, riservando la parola lateres ai mattoni crudi.Il taglio dei mattoni in pezzature diverse produceva una gran quan-tità di sfrido,utilizzato nei calcestruzzi o nei riempimenti: la super-ficie tagliata veniva regolarizzata a colpi di male e peggio (sez. 7, n.8), oppure venivano segati impilati uno sull’altro con l’aiuto di sab-bia e acqua (sez. 2, n. 4); il paramento laterizio, una volta messo inopera, veniva lisciato o levigato.La produzione di laterizi si specializzò anche nella fornitura di ele-menti particolari: tubazioni a sezione circolare per condotte idrichee a sezione rettangolare (cm 15 x 20) o tegole quadrate con quattrosporgenze da applicare sulle pareti per incanalare fumo ed aria cal-da sotto i pavimenti e lungo le pareti nei grandi ambienti e negli im-pianti termali, come i nostri moderni impianti di riscaldamento adaria calda (sez. 3, 15); si producevano anche mattoni sagomati a seg-mento d’arco o a spicchio per realizzare colonnine etc.(fig. 5).Il laterizio veniva anche utilizzato per decorare, sfruttando al mo-mento della messa in opera la naturale diversità di colore delle ar-gille, dal giallo paglierino al rosso scuro, e con intarsi di materialidiversi (esempi ad Ostia), o modellandoli a greche, cornici, zig-zag,o intagliati ad ovoli, astragali, dentelli (necropoli di Porto e sotto laBasilica Vaticana).Plinio nella sua grande opera (Naturalis Historia) elenca i prodottidelle figline, cioè le fabbriche di mattoni, il che dimostra che nel Isec. d.C. le fabbriche erano andate specializzando la loro produ-zione, dovuta alla crescente domanda di materiali edilizi: alcune pro-ducevano solo ‘bessali’ (mattoncini di circa 20 cm di lato = 2/3 dipiede romano).

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Fig. 2 – Tipi di murature romane: opera quadrata, opera incerta, opera quasi

reticolata, opera reticolata, opera mista (laterizio e reticolato), opera listata.

Fig. 3 – Le misure dei

mattoni romani (da

Adam 1998, fig. 347)

Fig. 4 – Esempi di bolli laterizi

1. Bollo del I sec. a.C. (CIL XV, 966,7);

2. Bollo di età flavia (69-96 d.C.) (CIL XV, 1000a);

3. Bollo dell’età di Nerva (96-98 d.C.) (CIL XV, 1356);

4. Bollo dei consoli Paetinus e Apronianus del 123 d.C. (CIL XV, 801);

5. Bollo dell’età di Vespasiano (69-79 d.C.) (CIL XV, 1097f);

6. Bollo dell’età di Traiano (98-117 d.C.) (CIL XV, 811d);

7. Bollo con la citazione dei consoli dell’anno 150 d.C. (CIL XV, 1221a);

8. Bollo con monogramma di Costantino, IV sec. (CIL XV, 1563) (da Adam

1988, fig. 145)

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struttive (sez. 2, nn. 5-10). La garanzie per la stabilità della struttu-ra era fornita sia dall’equilibrio meccanico, sia dalla coesione del-l’opera cementizia, che diventava un vero e proprio elementomonolitico.Per costruire le volte sulle centine e sulle armature di tavole lignee siadottò anche il sistema di stendere uno strato di bessali, in mododa formare una seconda cassaforma permanente, sulla quale poi sifaceva il getto del conglomerato cementizio, al quale i mattoni ade-rivano perfettamente, e talvolta venivano inseriti dei bessali ‘a col-tello’ con disposizione radiale, in modo da funzionare da cunei permigliorare la presa dell’opera cementizia (cisterna delle Sette Sale).Con lo stesso sistema si potevano ottenere i soffitti ’a cassettoni’,poi rivestiti di stucchi (Pantheon, terme di Traiano sul colle Oppio).Per alleggerire il peso delle volte venivano usati scapoli di tufo, po-mici o lava vulcanica, oppure venivano inserite al momento del get-to di conglomerato cementizio anfore vuote (circo di Massenzio,mausoleo di Elena, detto appunto Tor Pignattara) e di tubi (con vol-te larghe 12 m al massimo, Delaine 2006), tecnica che verrà poi ri-presa dall’archittettura bizantina. Queste stesse tecniche, utilizzatenelle province africane, servivano anche per coibentare gli ambien-ti e difenderli dalle alte temperature esterne.Per costruire archi e volte era necessaria una carpenteria specializ-zata, cioè supporti lignei modellati con l’esatta curvatura voluta: le‘centine’ e i ponteggi in legno (sez. 7, Introd.), ancora oggi usati nel-le costruzioni più semplici e solo da poco sostituiti con tubolari diferro, poggiavano direttamente a terra su pali di legno o traverse in-serite in spazi sulle pareti o su apposite sporgenze previste nellamuratura delle pareti di appoggio (piedritti o spalle) (fig. 5).

Una tecnologia molto empirica, ma anche molto organizzata ri-chiedeva la presenza nei cantieri di machinae, per arrivare là dove gliuomini non potevano: carrucole, leve, verricelli e vere e proprie mac-chine (sez. 2, n. 1, 2, 3, 4) per sollevare blocchi, colonne, etc. (fig. 6)o piattaforme girevoli su rulli per il trasporto in cantiere (sez, 2, n.14).I Romani realizzarono quelle che noi definiamo oggi ‘grandi opere’,quali il prosciugamento del lago del Fucino all’epoca di Claudio conl’impiego dai 30.000 ai 150.000 uomini per 11 anni (sez. 3, 14), il si-stema stradale con più di 120.000 chilometri di strade (sez. 16, In-troduz.), i 500 chilometri di acquedotti per Roma (sez. 3, Introduzione),gli emissari dei laghi di Nemi e di Albano, e ne progettarono altre,mai realizzate, come la deviazione del Tevere per evitare le inonda-zioni del Campo Marzio, la via litoranea che doveva collegare Poz-zuoli a Ostia, il taglio dell’Istmo di Corinto ed altre ancora.La ‘lettura’ di una struttura edilizia è in un certo senso la ricostru-zione del lavoro degli uomini che l’hanno realizzata a vari livelli dipartecipazione, daimuratori (structores), diretti da un magister struc-tor, dai carpentieri (carpentarii), dai parietarii, dagli imbianchini (al-barii o dealbatores), dagli stuccatori (tectores) e dai formatori instucco (gypsiarii), dai rilevatori (mensores aedificiorum, mechanici egeometrae) all’architetto che l’ha progettata (machinator e archi-tectus): una organizzazione complessa che, a giudicare dalle opererealizzate, doveva funzionare.L’influenza esercitata dall’architettura di Roma è divenuta consoli-data base culturale per i secoli successivi: i resti degli antichi mo-numenti sono stati e sono tuttora oggetto di studio, di imitazione,di ispirazione ad inventare nuove e sempre più funzionali tecnichee forme architettoniche per il nostro domani.

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Fig. 5 (da Adam 1988, fig. 190)

Fig. 6 – Affresco con scena di cantiere

dalla villa di S. Marco a Stabia

(ricostruzione grafica).

Età neroniana (da Adam 1996, fig. 88)

Bibliografia di riferimento:Adam 1988/20012; Atlante tematico di topografia antica I-18 e Suppl. I-XVI; DeLaine 1997; Delaine 2006, pp. 237-252 (con bibliografia); Giuliani 1992; Giuliani 2006; Lugli 1957; Oleson 2008; Lancaster 2008, pp. 285-318; Steinby 1974 -75, pp. 7-132; Steinby 1986, pp. 99-164;Wilson 2006, pp. 225-236.

Sez. 2.1Gli antichi conoscevano ed usavano la leva,il cuneo, la vite, la carrucola e il verricello/ar-gano, macchine elementari che, combinatetra loro costituivano macchinari più complessi,indicati con il nome generico di varae, che po-tevano sollevare e spostare pesi considere-voli sfruttando al massimo e moltiplicandol’energia umana ed animale.I Romani ne ereditarono la tecnologia e la ap-plicarono in vari campi.

Sez. 2.1a - Cuneo e ferrei forfices

Materiale: legno o ferro

Il cuneo è una macchina meccanica sempli-ce, applicazione pratica del principio del pia-no inclinato, usata prevalentemente perseparare due oggetti o parti di un oggetto,scomponendo la forza, applicata perpendi-colarmente alla direzione di separazione, ri-cavandone una componente nella direzionedi separazione voluta.

Il cuneo veniva impiegato per muovere o sol-levare oggetti, bloccare parti in posizione, apri-re una via in un materiale resistente. Veniva

utilizzato anche per tagliare il legno e aspor-tare le lastre di marmo nelle cave di estra-zione di minerali e di pietre a scopo edilizio.Per sollevare i blocchi usavano i ferrei forfices.

Sez. 2.1b - Carrucola/ orbiculus etrochlea

Materiali: legno/ferro e cordeRicostruzione: Niccolai snc (Firenze 2009)

In meccanica una carrucola o puleggia è unamacchina semplice costituita da un disco,munito sul bordo di una scanalatura, dettagola, che gira attorno ad un asse fissato aduna staffa a sua volta sostenuta da un gan-cio; nella scanalatura scorre un organo fles-sibile di trasmissionecome una fune o una cin-ghia (trochlea). L’utilizzodella carrucola è attesta-to sin da tempi molto an-tichi: venne raffigurataper la prima volta in unrilievo assiro, databileall’870 a.C. ca, relativo alfunzionamento di unpozzo.Utilizzata per sollevare etrascinare pesi, la carru-cola veniva impiegatanell’ingegneria civile e na-vale e per la costruzionedi grandi infrastrutture(strade, porti, acquedot-ti). L’utilizzo della carru-cola è attestato anchenella costruzione di ca-tapulte. Il movimentodell’organo flessibile ditrasmissione della car-rucola poteva essere de-terminato dalla trazioneumana e/o animale.

Sez. 2.1c - Taglia/paranco

Materiali: legno/ferro e cordeRicostruzione: Niccolai snc (Firenze 2009)

Un certo numero di carrucole mobili accop-piate con altrettante carrucole fisse danno luo-go alla taglia. Considerando il fatto che lo sforzonella fune è costante in qualsiasi punto del suosviluppo la taglia, grazie alla disposizione op-portuna delle carrucole (trochleae), consentedi moltiplicare più volte la forza applicata al ca-po della fune ottenendo una forza più grandecon il gancio applicato alla staffa delle carru-cole mobili (il tutto a scapito della velocità disollevamento che si riduce proporzionalmen-te all’incremento della forza).La storia della taglia è più incerta rispetto aquella della carrucola semplice; Vitruvio defi-nisce questo tipo di macchina trispastos quan-do è costituita da tre carrucole e pentaspastosquando ci sono tre carrucole superiori fisse edue carrucole inferiori mobili.

R.P.

Sez. 2.1d - Verricello/Argano

Materiale: legno/ferro e cordeRicostruzione argano orizzontale: C.F.Giuliani

Il verricello/argano è una macchina formatada due cilindri, di sezioni diverse, coassiali, op-pure da un cilindro e un disco sempre coas-siale e girevoli intorno all’asse comune. Il discopuò essere costituito anche dai soli “raggi” (le-ve da spingere). Il carico che si può ‘sollevare’è maggiore della forza applicata in proporzio-ne inversa ai raggi dei due tamburi. Questamacchina può essere disposta ad asse oriz-zontale – verricello o tormentum o sicula – edè usata per sollevare carichi. Oppure può es-sere usata ad asse verticale - argano o tor-mentum o trochlea – e serve per esercitaretrazioni in senso orizzontale (come nella rico-struzione di C.F.Giuliani dei verricelli realizza-ti per lo svuotamento dei pozzi di scavo neilavori dell’emissario del Fucino, v. sez. 3, n. 14). I verricelli/argani venivano utilizzati soprat-tutto nello scavo dei pozzi (per il sollevamentodel terreno di risulta) per il sollevamento del-l’acqua con secchi, oltre che per lo sposta-mento e il trascinamento a terra di blocchi emateriali edilizi, quindi nel campo dell’inge-gneria civile, dell’edilizia e dell’idraulica, per

Cunei in ferro

(copie, Roma,

Museo della Civiltà Romana)

rucola (trochlea) o taglia, intorno alla quale gi-ra la fune (ductarius funis), che solleva il mas-so.La capra veniva utilizzata nel campo dell’in-gegneria civile e dell’edilizia per la costruzio-ne di grandi infrastrutture (strade, porti,acquedotti); l’unica difficoltà era rappresen-tata dalla necessità di assicurare l’ancoraggiodei tiranti; era facilmente trasportabile e ri-montabile.Il funzionamento della capra si basava sullosfruttamento dell’energia muscolare umana,moltiplicata dal meccanismo dell’argano overricello con le relative leve (vectes).

A.C.-A.G.-C.G.-R.P.

Bibliografia:Adam 1996, pp. 44-60; Drachmann 1963; Fleury1993, p. 105 ss.; Giuliani 2001, pp. 41-42; Giuliani2006, pp. 56-57, 60, 255-269; Tölle-Kastenbein 1993,pp. 38- 49; Di Pasquale 1999, pp. 286-288.

Sez. 2.2 - Gru a tamburo di Vitruvio

Materiale: legno/ferro e funiCronologia: I sec. d.C.Ricostruzione della gru vitruviana: Niccolai snc(Firenze 2009)

La macchina è descritta da Vitruvio nel libro 10del De Architectura: era di uso molto comuneper l’edilizia. Il tamburo chiamato amphiesis operithekion dai greci, era un meccanismo crea-to per ridurre le forze nel sollevamento di cari-chi molto pesanti, rispetto all’uso delle solecarrucole per i pesi più leggeri, che rendevanola gru più agile nei movimenti. Il montaggio della struttura era molto sem-plice: era composta da due travi in legno dicirca sei metri e una da tre metri alla base chelegate formavano un triangolo, al vertice su-periore venivano fissate le carrucole e alla ba-se venivano piantati dei pali per evitare loslittamento del telaio. Alle spalle della mac-china erano inseriti nel terreno altri pali incli-nati per sostenere la gru con delle corde. Iltamburo, quando era necessario veniva in-serito al centro del telaio, nel quale veniva fat-ta passare una corda che collegava le carrucolee infine il peso da sollevare.

G.B.

BibliografiaGiuliani 2001, pp. 41-42.

92

la costruzione di grandi infrastrutture (strade,porti, acquedotti) ed edifici pubblici. L’arganoera anche una componente fondamentale del-le catapulte in quanto consentiva di applicareuna grande forza per “caricare” l’elemento ela-stico della catapulta stessa.

Sez. 2.1d - Capra (rechamum)

Ricostruzione sulla base del testo di Vitruvio (De Architectura, 10,)

La capra o biga (rechamum) è un sistema disollevamento di pesi agganciati alle funi in ti-ro con una tenaglia (blocchi di pietra, mar-mo, fusti di colonne lavorate etc.), che derivadall’associazione della puleggia e dell’arga-no. Vitruvio descrive chiaramente questa mac-china nel X libro del De architectura: “Siprendono due pezzi di legno di misura ade-guata alla grandezza dei pesi da sollevare. Es-si vengono rizzati, legati in cima e divaricatiin basso. Vengono mantenuti in questa po-sizione per mezzo di tiranti fissati alla som-mità e disposti intorno ad essi; al vertice vieneappeso un bozzello”. Il movimento è im-presso, tramite un verricello, da due operaiche fanno girare il tamburo tramite leve (vec-tes) inserite negli appositi fori del tamburo.È un sistema semplice, ma efficace usato an-cora oggi nei piccoli cantieri. L’armatura po-teva essere formata anche da tre travi posti apiramide, che sostenevano al vertice una car-

(da Giuliani 2001; Id. 2006)

(da Adam 1996, fig. 89)

Sez. 2.3 - Rilievo degli Haterii conmacchina elevatoria

Rilievo in marmo lunense dal sepolcro degli Hateriisull’antica via Labicana (oggi Casilina), loc.Centocelle

Cronologia: Época traianea (?)Collocazione: Musei Vaticani, Museo GregorianoProfano, inv. n. 9998

Calco in gesso dall’ originale: Roma, Museo dellaCiviltà Romana, inv. n. 1528

Il rilievo, con ricca scena funeraria, provienedal sepolcro degli Haterii rinvenuto nel 1848lungo l’antica via Labicana; faceva parte diuna serie di rilievi che decoravano la tombadella famiglia del Haterii, di cui faceva parteQuintus Haterius Tychicus, vissuto in epocaflavia e noto redemptor, cioè impresario edi-le (CIL VI, 607).Il rilievo rappresenta con abbondanza di par-ticolari, un tempio di prospetto di tipo prosti-lo, tetrastilo su alto podio con la scalinata diaccesso sul lato frontale, la porta della cella,le basi con kyma di foglie, le colonne e i pila-stri decorati con elementi vegetali, i capitellicon cornucopie e ghirlande, la trabeazione ric-camente articolata, tetto a doppio spioventerivestito da tegole e coppi. Nello spazio trian-golare del timpano è raffigurato il busto di unadonna con il capo velato, forse la defunta al-la quale il tempio è dedicato. Le figure rap-presentate sul fianco e sulla fronte del tempiosono state variamente interpretate; comples-sa anche la decorazione del podio del tempio:eroti con ghirlande e tralci e in basso una por-ta semiaperta a far intravedere una donna, cheallude all’oltretomba, fiancheggiata da picco-li edifici simili a edicole, quello a sinistra for-se dedicato ad Ercole. In primo piano a latodella scalinata è scolpito un altare decoratoda geni con fulmine e sormontato da un bal-dacchino sopra il fuoco del sacrificio. Sottol’altare una sorta di balaustra viene identifi-cata con la recinzione del sepolcro.Sul columen un fregio con aquile e ghirlandea coronamento del tetto del tempio, al di so-pra del quale un’altra scena rappresenta l’in-terno di una stanza con tendaggio e una figurafemminile, la defunta, sdraiata su un letto, aicui piedi giocano tre fanciulli, mentre una don-na anziana fa sacrifici presso un’ara. Sul lato

sinistro si innalza un grande candelabro e adestra un piccolo edificio colonnato con alcentro una statua femminile ed è sovrastatoda tre teste-ritratto.Tutta la scena viene interpretata come l’apo-teosi della defunta, alla quale assiste la stes-sa dall’aldilà.Sulla sinistra del rilievo campeggia a ridossodel tempio una complessa macchina da sol-levamento, le cui caratteristiche (v. sez. 2, n.4) riconducono alla descrizione della gru cal-catoria di Vitruvio (De Architectura, 10, 2,7).La posizione e la dimensione del macchina-rio, rispetto al resto dei soggetti rappresen-tati, e la particolare cura nella raffigurazionedei dettagli meccanici, che potevano esserenoti solo ad un tecnico del mestiere, vannoposte in relazione con la costruzione del tem-pio, ma anche con l’attività del committente,alla quale attività va riferito anche un altro ri-lievo, proveniente sempre dalla stessa tom-ba, sul quale sono raffigurati alcuni importantiedifici di Roma costruiti in epoca flavia, tracui il Colosseo ancora in costruzione.

G.P.S.

Bibliografia: Adam 1996, pp. 44-60; Drachmann 1963; Giuliani2001, pp. 41-42; Giuliani 2006, pp. 56-57, 60, 255-269; Kastenbein 1993, pp. 38- 49. Marmi colorati2002, pp. 501-502, n. 227 (scheda di S. Violante);Tataranni 2002, p. 485-487.

Sez, 2.4 - Gru calcatoria/macchina tractoria di Vitruvio

Materiali: legno/ferro, funiDimensioni:Ricostruzione: Niccolai (Firenze 2009) (dal rilievodegli Haterii [sez. 2, n. 3])

La machina tractoria o calcatoria ricostruitasulla base di quella riprodotta sul rilievo de-gli Haterii (v. sez. 2, n. 3) è una gru per il sol-levamento dei blocchi. È una macchina assaicomplessa rispetto alla semplice ‘capra’ (sez.2, n. 1d) e l’interpretazione di quella riprodottanel rilievo è ancora controversa. Una grande gru a due montanti viene azio-nata da una ruota calcatoria posta su un latodi essa, manovrata e fatta funzionare sfrut-tando la forza motrice di sette operai, cinqueall’interno della ruota e due che manovranodelle funi al di fuori. I montanti (o il mon-tante) della macchina sono sostenuti da set-te tiranti, cinque dietro (retinacula) e duedavanti ad essa (antarii funes). Collegati in al-to a sette bozzelli, ciascuno legato all’impal-catura da una legatura costituita da tre funi.Sulla cima del montante altri due uomini stan-no sistemando le legature delle corde.Il sollevamento del carico, non visibile nel ri-lievo, avviene attraverso un paranco, forse deltipo pentaspastos, che permette di stimare laportata della macchina in 21 tonnellate o an-che più; ma esistono anche altre ipotesi. Un

93

altro fascio di funi, che pende lungo i mon-tanti, potrebbe indicare la possibilità di au-mentare il numero dei bozzelli.La funzione della gru era il sollevamento e lospostamento di merci e materiali, solitamentein presenza di dislivelli, barriere o ostacoli alsuolo che rendevano difficile o impossibilemovimentarle in altro modo.I diversi tipi di gru in uso nell’antichità greca eromana avevano soltanto due movimenti (ele-vatorio e rotatorio), a differenza di quelle mo-derne dotate anche del movimento traslatorio.

BibliografiaFleury 1993, pp. 124-126; Martinez 1998-1999, p.264; Di Pasquale 1999, p. 286); Tataranni 2002, p.485-487.

Sez. 2.4 - L’invenzione romanadell’opera cementizia(calcestruzzo). Uso di vasi,pomice per alleggerire le volte

L’invenzione dell’opera cementizia (per alcu-ni legata all’arrivo in Italia centrale di influenzeorientali o ellenistiche) si deve collocare traIII e II sec. a.C., molto probabilmente con unalunga fase di sperimentazione che ha lascia-to, tuttavia, tracce scarse e difficilmente da-tabili.Il suo utilizzo in area campano-laziale fu dif-fusissimo, favorito dall’ampia disponibilitàdei componenti (in particolar modo della poz-zolana, che rende il calcestruzzo idraulico) edorganizzato con tecniche edilizie che si per-fezionarono via via nel tempo. Intorno al I a.C.iniziò a manifestarsi in architettura un rinno-vato senso della spazialità, che trovò i suoimigliori esempi nelle residenze imperiali, do-ve una committenza d’eccezione assicuravapiena libertà alle tendenze innovatrici degliarchitetti.Iniziarono così ad essere eretti edifici di di-mensioni sempre maggiori, con coperture inconcreto che potevano superare i limiti strut-turali imposti da quelle lignee: l’esperienzaportò, nei secoli, all’acquisizione di nuove co-noscenze tecniche per migliorare la loro co-struzione, legate alla conformazione della

volta ed al suo alleggerimento, ottenutoricorrendo a particolari inclusi o,

secondo molti studiosi, a con-tenitori ceramici.

Il c.d. Tempio di Mercu-rio a Baia, datato ge-

neralmente al I

sec. a.C., è il più antico esempio noto di cu-pola di grandi dimensioni, con il suo diame-tro di 21.60 m: la genesi fu particolarmentecomplessa, dato che la copertura, non previ-sta originariamente, obbligò a rifoderare il pri-mitivo tamburo con una parete dello spessoredi due piedi romani. Notevole la presenza diun oculus centrale, la cui apertura non deveessere attribuita solo ad esigenze d’illumina-zione (esistendo già le quattro finestre), maanche a motivazioni di carattere statico: siabolisce, infatti, un tratto di copertura sotto-posta facilmente a dissesti o crolli, avendouna curvatura quasi nulla e non essendo sot-toposto a spinte orizzontali.Alcuni esempi attestati a Roma testimonia-no innovazioni tecniche già in epoca cesaria-na ed augustea, che verranno applicate inmaniera più sistematica durante la piena etàimperiale, come il passaggio dalla disposi-zione radiale dei caementa a quella per corsiorizzontali oppure l’utilizzo di inclusi più leg-geri nelle volte. Tra questi il più usato in area romana, per lafacile reperibilità, è il tufo giallo (1.350 Kg/m3),usato sistematicamente a partire da epocaflavia; per alleggerire ulteriormente le voltequesto veniva alternato a strati di scorie vul-caniche (750-850 Kg/m3), soprattutto del Ve-suvio, o di pomice (600-700 Kg/m3).Il Pantheon testimonia, già all’inizio del II sec.d.C., il pieno controllo dell’opera cementizia:lo suggeriscono le dimensioni (copertura mas-siva del diametro di 43.30 m); la capacità dicontrastare le deformazioni da centina (cheha determinato un profilo perfettamente emi-sferico); l’utilizzo nel cementizio di inclusi viavia più leggeri dalle fondazioni (scaglie di tra-vertino) ai muri (scaglie di travertino e tufogiallo nella parte inferiore, frammenti di tufoe di mattoni nella parte superiore), alla cu-pola (scaglie di tufo e laterizio in basso, tufoe scorie vulcaniche nella sommità); la con-formazione della volta, con il tratto dall’im-

9594

Preparazione

della malta di calce

(da Adam 1988, fig. 163)

posta alle reni dotato di un rinfianco a settegradoni; l’apertura di un oculus (diam. 8.92m), evidentemente per motivi statici, con so-stituzione della parte sommitale (massiva)della volta con un elemento di chiusura (cli-peo bronzeo?), i cui sostegni metallici sonotestimoniati da un rilievo del Sangallo; l’or-ganizzazione del tamburo di sostegno, conspessori murari adeguati alla costruzione (cir-ca 5.90 m alla base) e sapiente gioco di di-stribuzione dei pesi e delle forze, con archi discarico che, coprendo i vuoti, convogliano lespinte sugli otto pilastri che strutturalmentecostituiscono la base. A partire dal II sec. d.C. inizia ad essere atte-stato anche l’impiego di anfore o tubi fittilinelle volte, principalmente con due diversetecniche e finalità.Una prima modalità consiste nella realizza-zione di vere e proprie centine fittili, formateimpilando gli elementi - piccoli vasi o tubulia siringa - l’uno all’interno dell’altro, legati dauna malta costituita prevalentemente da ges-so: il brevissimo tempo di presa permetteva,così, una celere esecuzione – era possibile,infatti, disporre gli elementi anche in agget-to - ed il limitato utilizzo di centine e legna-me, eliminando inoltre, nelle fasi di cantiere,l’ingombro delle armature.Successivamente questa tecnica, inizialmen-te usata per centine, fu utilizzata per crearedelle vere e proprie volte leggere e autopor-tanti in tubi fittili, riconoscibili perché privedello strato di cementizio che vi veniva so-vrapposto.I tubuli a siringa, generalmente sono lunghida 10 a 15 cm, larghi tra i 5 ed i 6 cm, pre-sentano una terminazione conica che favori-sce l’innesto nell’elemento successivo; la

superficie esterna è attraversata da solchi spi-raliformi o circolari che favoriscono l’adesio-ne della malta e dell’intonaco.I più antichi esempi, risalenti al III sec. a. C.,si riscontrano in Sicilia, a Morgantina e, pro-babilmente, a Siracusa; nel I sec. d. C., i tubifittili vengono impiegati anche a Pompei e aDura Europos.A partire dalla fine del II d.C. la tecnica si dif-fonde nell’Africa del Nord (Algeria, Tunisia,Marocco), dove viene utilizzata frequente-mente fino alla conquista araba, e nel restodell’impero (Sicilia, Francia, Britannia); fattaeccezione per pochi esempi, questa modali-tà costruttiva si riscontra in Italia con una cer-ta sistematicità solo a partire dal V sec. d. C.,particolarmente nelle chiese paleocristiane(soprattutto a Roma e Ravenna).Le modalità realizzative variano a seconda deltipo di copertura utilizzato: nel caso più sem-plice, cioè la volta a botte, due file montantidi tubuli, partendo dalle due diverse imposte,si innestavano in un concio in chiave, pla-smato appositamente con due cavità.Le crociere avevano una genesi più com-plessa: inizialmente veniva realizzata a terrala chiave di volta (cioè un pannello quadratocomposto da tubuli) che veniva collocata, permezzo di sostegni, in posto all’altezza volu-

ta; successivamente, a partire dai quattro an-goli, venivano costruite delle nervature dia-gonali, costituite da diverse file montanti ditubuli, che terminando al di sotto del pannelloin chiave, ne avrebbero assicurato la tenuta;nervature secondarie, ad andamento oriz-zontale, consolidavano l’intera struttura. Nonsono conservati esempi integri di volte a pa-diglioni in tubi fittili. La seconda modalità di impiego di conteni-tori ceramici consiste nella collocazione di an-fore vuote e capovolte sui rinfianchi delle volte,in una o più file orizzontali, direttamente al-l’interno della massa cementizia: questa tec-nica è presente in molti esempi a Roma ed ènota anche nelle province (Tunisia, Spagna,Portogallo, Germania). I più antichi esempi sono di età adrianea, pre-senti in area romana (Magazzini “Traianei” adOstia, Villa delle Vignacce a Roma) ed in Be-tica (Casa dell’Esedra e Terme di Adriano adItalica), mentre le ultime attestazioni si pon-gono nel IV-V d.C. (torre orientale della PortaAsinaria e chiesa di S. Maura sulla via Casili-na): le anfore utilizzate sono generalmenteDressel 20 e 23, ma in rari casi si rinvengonol’Almagro 51c (Basilica di Massenzio) e la c.d.Africana 1 (fig. 2); diversi contenitori cilindri-ci di forma allungata, disposti in orizzontale

Visione prospettica del Pantheon, con l’organizzazione degli archi di scarico nel tamburo di base (da Lancaster 2005)

Diverse tipologie di tubuli a siringa rinvenuti inTunisia (da Lézine 1954)

Sez- 2.6a - L’arco

L’arco rappresenta l’elemento strutturale do-minante il linguaggio dell’architettura roma-na in tutti gli edifici sia all’interno – basiliche,templi, terme – sia all’esterno – ponti, ac-quedotti, porte, teatri, esedre, ninfei. L’uso si-stematico delle strutture ad arco costituisceinfatti la principale innovazione tecnica delmondo romano, tanto che le sue applicazio-ni determinarono in modo basilare la storiadell’edilizia.L’arco, realizzato utilizzando conci, pietre ta-gliate a forma trapezioidale (cunei) o sem-plici mattoni, ha una struttura in grado discaricare i pesi secondo risultanti diverse dal-la verticale. Trasferendo il carico lungo unacatenaria in cui tutti i conci sono sollecitatisolo a compressione, venivano sfruttate almeglio le proprietà della pietra e del laterizio,molto più resistenti alla compressione piut-tosto che alla trazione. L’arco, pertanto, con-sente un più efficace utilizzo dei materialidisponibili a differenza del sistema trilitico,principio fondante dell’architettura greca ca-ratterizzato da colonne e architrave, ove l’ar-chitrave stesso era soggetto a trazione nellaparte inferiore. L’arco, tuttavia, è una struttu-ra di tipo spingente e richiede quindi una ade-guata struttura all’imposta (parete,contrafforte, un altro arco) in grado di racco-gliere e sopportare le spinte orizzontali. Le volte a botte (semi cilindro) costituito dal-la traslazione del semplice arco sono impie-gate a partire dalla prima età repubblicana:nella Cloaca Massima, nel tratto rinvenutopresso il foro di Nerva, nella triplice armilladello sbocco del Tevere, o nello sbocco del-l’acqua Mariana sotto l’Aventino. Tra le ope-re di ingegneria che testimoniano la notevoleabilità costruttiva dei romani con l’impiegodell’arco come elemento strutturale princi-pale, i ponti, così come gli acquedotti, costi-tuiscono un capitolo importante: si segnalanol’acquedotto di Appio Claudio (312 a.C.) e ilPonte Emilio, primo ponte in pietra definiti-vamente ultimato nel 142 a.C. Lo sviluppo del-l’arco fu agevolato da due fatti tecnici, e cioèl’adozione del cemento come materiale le-gante dei conci, e la progressiva diminuzio-ne dei singoli elementi componenti la strutturafino all’adozione del mattone. Ciò permise aiRomani di realizzare volte grandiose comequelle degli edifici termali e basilicali.

(Africana 1?), ancora inediti, si ritrovano in dueframmenti contigui presso la villa delle Vi-gnacce.La motivazione più accreditata per questa tec-nica è che la anfore venivano utilizzate nontanto per alleggerire le coperture, ma più sem-plicemente per risparmiare considerevoliquantità di materiali e costi di messa in ope-ra, come dimostrerebbe il loro uso anche al-l’interno dei setti murari (Roma: tempio diMinerva Medica, villa delle Vignacce, circo diMassenzio). Restano da chiarire, a questopunto, le conseguenze statiche di questa scel-ta: la presenza di grandi vuoti creava certa-mente delle disomogeneità nella trasmissionidei carichi e notevoli assottigliamenti dellesezioni e in caso di variazioni al regime sta-tico originario, queste disomogeneità avreb-bero potuto favorire la formazione delle lesionio delle linee di crollo.

A.B.

BibliografiaGiuliani C.F., L’edilizia nell’antichità, Roma 2006;Giuliani C.F., L’opus caementicium nell’ediliziaromana in Materiali e strutture, VII, 1997, pp. 49 – 62;Lancaster L., Concrete Vaulted Construction in ImperialRome, New York 2005; Lugli G., La tecnica ediliziaromana, Roma 1988, pp. 663-679; Lézine A., Lesvoûtes romaines à tubes emboités et les croiséesd’ogives de Bulla-Regia, in Karthago, V, 1954, pp.168-181; Monneret de Villard U., Sull’impiego di vasi e tubifittili nella costruzione delle volte, in S. Agata dei Goti,Roma 1924, pp.149-154; Pelliccioni G., Le cupoleromane. La stabilità, Roma 1986; Scurati-Manzoni P.,La volta in tubi fittili di Pompei, in Palladio, n.s., 20,pp. 9-18; Storz S., La tecnica della costruzione dellevolte con tubi fittili a S. Stefano Rotondo a Roma, inCorsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina, 41,1994, pp.669-693; Tommasello F., Volte ‘leggere’ atubuli fittili. Tra Sicilia e Africa, in Sicilia Antiqua 2,2005; Vighi R., Il Pantheon, Roma 1959; Wilson,Terracotta vaulting tubes (tubi fittili): their origin anddistribution, in Journal of Roman Archeology, 5, 1992,pp.97-129.

Sez. 2.5 - L’Anfiteatro Flavio

Plastico ricostruttivo in scala 1:100: sezioneillustrante le particolarità strutturali (I. Gismondi)

Luogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 1518

“Ecco un monumento che sarà più famosodi ogni altra opera umana”, così il poeta sa-tirico Marziale (Lib. de Spect.,1) testimoniache nella coscienza dei contemporanei l’An-fiteatro Flavio costituiva un’impresa straor-dinaria dell’ingegno architettonico romano.La costruzione dell’anfiteatro Flavio, destina-to ai giochi gladiatorii e denominato comu-nemente Colosseo dalla colossale statua diNerone che si trovava nelle immediate vici-nanze, fu iniziata da Vespasiano con il botti-no delle guerre giudaiche e conclusa da Titonell’ 80 d.C. con una solenne inaugurazionedurata ben cento giorni consecutivi con l’uc-cisione di 5000 fiere, tanto che Dione Cassiopuò parlare di munus apparatissimum largis-simumque (66, 25. 4). La costruzione si con-cluse definitivamente sotto Domiziano conla realizzazione dei sotterranei e il definitivoabbandono delle naumachie in luogo delleclassiche cacce ad animali (venationes) e deicombattimenti dei gladiatori (munera). Il mo-numento rappresenta dunque il più ambi-zioso progetto politico della famiglia Flavia efu utilizzato per centinaia di anni; si pensi so-lo che nel 404 si abolirono le lotte gladiato-rie mentre l’ultimo spettacolo di caccia allefiere fu fatto nel 523 d.C. L’anfiteatro segue il modello tipologico di unastruttura nella quale intorno ad un corpo cen-trale a pianta ellittica si elevavano i posti de-gli spettatori organizzati in gradinate: ilperimetro dell’ellisse misura 572 metri e l’al-tezza della costruzione 57 metri, il diametromaggiore dell’ellisse misura m 188, il mino-re 156; travertino impiegato: 100.000 m3, 300tonnellate di ferro per le grappe. L’anello ester-no è interamente in travertino e si articola inquattro ordini realizzati in opera quadrata ditravertino su una platea di fondazione in cal-cestruzzo alta in media 13 m e poggiante sulbanco argilloso. All’esterno della platea è unmuro anulare di contenimento con paramentoesterno a cortina laterizia. I primi tre ordinisono costituiti da ottanta arcate inquadrateda semicolonne con capitelli tuscanici nel pri-mo ordine, ionici nel secondo e corinzi nelterzo, questi ultimi nella variante a foglie li-

sce. Il quarto ordine è costituito da una pa-rete piena in cui lesene su piedistallo agget-tante scandiscono ottanta riquadri nei qualisi aprivano ad intervalli regolari quaranta fi-nestre. In ciascun riquadro sono tre menso-le (in totale 240) destinate a sostenere le traviin legno, alle quali era fissato un grande ve-lario necessario alla protezione del pubblicodal sole (velarium) e manovrato da un repar-to speciale di cento marinai della flotta di Mi-sero, che alloggiavano alle pendici del colleOppio, nei castra Misenatium. L’ornamentoesterno dell’attico, come confermano alcunemonete dell’età di Tito, doveva prevedere scu-di appesi ad intervalli regolari tra le finestre.La cavea era formata da tre piani, il primo eil secondo (ima e media cavea) avevano legradinate marmoree (subsellia) ed erano de-stinate ai cavalieri, agli ospiti e alle categoriepiù altolocate di cittadini; il terzo piano eraseparato dagli altri mediante un muro, pos-sedeva gradinate di legno ed era riservato al-le classi inferiori e alle donne (Svetonio, Aug.,44, 3-4; CIL II, 5439, 75 ss.). Ciascun settoredi posti era separato dal successivo da unapraecintio sulla quale si aprivano i vomitoriadelimitati superiormente da balaustre in mar-mo e lateralmente da transenne in funzionedi corrimano. Nel colonnato superiore, conposti esclusivamente in piedi, potevano ac-cedere spettatori di infimo ordine. Un crite-rio rigidamente gerarchico regolaval’assegnazione dei posti; lo stesso concettoha ispirato l’organizzazione dei percorsi in-terni che consentivano di raggiungere rapi-damente i settori di appartenenza e altrettantovelocemente uscire. Il pubblico aveva acces-so all’arena dalle arcate al pianterreno, ognu-na contrassegnata da numeri progressivicorrispondenti a quelli riportati sulle tessered’ingresso, mentre gli ingressi sui lati corti esui lati lunghi ne risultano privi, essendo de-stinati i primi ad un pubblico d’élite e i se-condi ai gladiatori. Un sistema di scale, rampee passaggi permetteva di distribuire gerar-chicamente il pubblico e far defluire la follarapidamente. Gli accessi, posti alle estremi-tà degli assi minori, riservati ad un pubblicoselezionato, conservano tuttora tracce del-l’originaria ricchezza decorativa. Sono infattisottolineati esternamente da un avancorposormontato da quadriga e immettono in unampio setto, con muri perimetrali in blocchidi travertino, ripartito in tre corridoi da duefile di pilastri rivestiti di lastre di marmo. Ai

9796

senatori era riservato il quarto anello acces-sibile attraverso dodici corridoi ad essi desti-nati. Dall’anello dodici rampe di scaleconducevano ad un ambulacro che consen-tiva di raggiungere i subsellia. L’ambulacro ve-niva invece utilizzato dal personale di servizioche, attraverso una galleria da cui si potevaaccedere da questo ambiente, aveva accessodiretto all’arena. Complessivamente la ca-pienza della cavea doveva raggiungere i60.000/70.000 posti. L’arena era formata da un tavolato di legnopoggiante sulle murature degli ipogei, e mi-surava nel suo asse maggiore 87 metri e inquello minore 54 metri circa. Durante gli spet-tacoli veniva ricoperta da un leggero strato direna di fiume che impediva a uomini e ani-mali di scivolare. Il tavolato presentava boto-le che permettevano, attraverso i sottostanti80montacarichi, la fuoriuscita di animali, uo-mini e il sollevamento degli oggetti scenici(sez. 11, n. 10). Lo studio dei resti architetto-nici ha infatti dimostrato che in uno dei cor-ridoi ipogei erano installati 28 ascensori le cuifuni passavano per carrucole fissate alla strut-tura sottostante la pavimentazione in legnodell’arena, e altrettanti argani semplici e faci-li da montare e che probabilmente venivanodeposti in magazzino nelle pause di diversesettimane, per essere protetti dall’umidità. Iloca ipogei, a cui si accedeva mediante quat-tro gallerie sotterranee, si articolano in dodi-ci corridoi disposti simmetricamente ai lati diun ampio passaggio centrale e raccoglievano

tutti gli impianti meccanici e i servizi ineren-ti allo spettacolo e, in più, ambienti specificicome i carceres che custodivano le belve e lospoliarium, camera mortuaria dove venivanoportati i gladiatori caduti. Oltre agli animali,irrompevano nell’arena strabilianti scenogra-fie che, mosse dalle macchine sotterranee, silevavano davanti agli occhi degli spettatori.Queste macchine, manovrate da uomini permezzo di argani riuscivano a creare effetti sce-nografici così suggestivi da suscitare grandeimpressione in personaggi come Seneca eMarziale, i quali descrivono uno straordina-rio macchinario che dai locali sotterranei sol-levava fin nel mezzo dell’arena giardini alberati,colline, torri da cui uscivano uomini e animali.Una volta terminato lo spettacolo le parti giàseparate si riunivano e quelle elevate si riab-bassavano (Seneca, Ep., 7, 3, ss., Marziale,Lib. spect., 21). Dal punto di vista strutturale venne innalzatauna gabbia portante, costituita dai pilastri inopera quadrata di tufo e travertino collegati daarchi in muratura in corrispondenza dei varipiani e da volte rampanti, sulle quali poi ven-ne poggiata la cavea, lavorando contempora-neamente dal basso e dall’alto con quattrocantieri diversi, come nei moderni cantieri.

A.Z.P.

Bibliografia:Beste 2001, pp. 277-299; Coarelli, Gregori,Lombardi et al. 1999; La Regina 2004; Rea1993; Sangue e arena 2001

L‘esaltazione di questo elemento architetto-nico si ha soprattutto nella realizzazione de-gli archi monumentali che furono costruitisolitamente in occasione dei trionfi degli im-peratori vincitori in campagne militari, ma an-che edificati con altre funzioni specifiche,sempre con intento auto-rappresentativo (ar-chi di Tito e di Settimio Severo nel Foro Ro-mano).Dal punto di vista terminologico si nota chei Romani non avevano un unico termine perindicare questa struttura architettonica: nel-le fonti c’è una coesistenza fra i termini for-nix, ianus e arcus. Durante l’età repubblicanail termine più utilizzato per indicare la tipo-logia di passaggio ad arco era fornix. Esem-plificativo per questa oscillazione è l’arco diQuinto Fabio Massimo sulla Via Sacra che èindicato da Cicerone con il termine fornix (Verr.,I, 19; Pro Planc., 7, 17), mentre lo stesso mo-numento, sotto il regno di Nerone, è già det-to da Seneca arcus Fabianus (Dialogi, II, 1, 3)Dalle fonti veniamo a conoscenza di altri trefornices repubblicani celebrativi di singoli viritriumphales; si tratta dei due archi di LucioStertinio (196 a.C.) e dell’arco di Scipione Afri-cano (190 a.C.) di cui non è chiara la struttu-ra (Liv., 33, 27, 3-3; 37, 3, 7) ma che avevaricchissima ornamentazione. Sono questi gli antecedenti diretti dell’arco ono-rario imperiale, il quale associa alla funzionedi passaggio quella dell’elevazione, ed è dota-to di una qualità spiccatamente verticale eascensionale. Efficace a questo proposito il ce-lebre passaggio pliniano (Naturalis Historia,

34, 27): “Columnarum ratio erat attoli super ce-teros mortales, quod et arcus significant novicioinvento”, che indica il forte simbolismo di que-sta struttura architettonica. Dalla prima età imperiale inizia il periodo digrande sviluppo e sperimentazione dell’arcocommemorativo, diventando il monumentoufficiale e rappresentativo per eccellenza aRoma e nelle città dell’impero: sostituendosial tradizionale e generico fornix il termine ar-cus, dunque, non indicherà più solo l’elementocurvilineo innestato su due sostegni vertica-li, un passaggio arcuato, quanto un partico-lare edificio onorario. Lo sforzo degli architettisi concentrò sempre più nell’elaborare unaforma monumentale e complessa, determi-nata da un ricco sistema di immagini: rilievi,statue, insegne, un apparato decorativo edepigrafico. Con l’affermazione del principatonel bacino del Mediterraneo l’arcus romanosi diffuse, più di ogni altro monumento, qua-le efficace strumento di propaganda politica,come espressione celebrativa di quella ‘teo-logia della vittoria’ che attestava attraverso imonumenti e le immagini la presenza inde-lebile del potere di Roma.

A.Z.P.

BibliografiaAdam 2001; De Maria 1994; Giuliani 2006;Pallottino 1958; Mansuelli 1979.

Sez. 2.6b - La piattabanda armata

Ricostruzioni grafiche e virtuali: F. C. Giuliani

La piattabanda armata è una soluzione strut-turale dell’architettura romana e si presentacome una versione altamente evoluta ed ori-ginale del tipo di piattabanda all’italiana (conelementi disposti radialmente e concio in chia-ve) in quanto provvista di barre metalliche sa-gomate all’interno dell’intradosso. Nei pulvinivenivano infatti ricavati incassi paralleli de-stinati all’alloggiamento di due o tre staffe,che proseguivano nella parte di intradosso

9998

Facciata con archi di scarico e piattabande

Arco di Caracalla a Tebessa (ricostruzione di A.

Bacchielli, da E.A.A., Suppl. II, vol. I, 1994, fig. 421)

3) Schema delle armature passanti sotto i pulvini

del sito di Conimbriga (da Scetti 1996)

2) Villa Adriana, ricostruzione del pulvino del

Teatro Marittimo (da Giuliani 2001, Giuliani 2009)

della piattabanda resistendo agli sforzi di tra-zione ivi presenti; l’utilizzo, probabile, di mal-ta all’interno delle scanalature connettendole barre metalliche agli altri elementi, ne fan-no una sorta di calcestruzzo armato ante-lit-teram. Anche la forma delle barre, inclinate acirca 45° in prossimità dell’appoggio è sor-prendentemente simile all’armatura di unamoderna trave in calcestruzzo armato La ricostruzione del sistema strutturale dellapiattabanda armata si basa su alcune osser-vazioni effettuate dagli studiosi direttamentesui reperti presenti nel sito archeologico diVilla Adriana. Resti di barre metalliche sago-mate nel Teatro Marittimo, presenza di trac-ce di metallo negli incavi e nelle scanalaturedei pulvini dello stesso Teatro Marittimo edello Stadio e la presenza di scanalature nel-le lastre in marmo che costituivano l’intra-dosso della piattabanda. L’ancoraggio dellebarre ai pulvini era ottenuta tramite appositasagomatura delle barre stesse e fissaggio infori posti nella parte superiore del pulvino.Secondo altre ipotesi l’ancoraggio poteva es-sere assicurato tramite riempimento con mal-ta nella scanalatura con conseguenteimpedimento allo scivolamento.Dal sito di Conimbriga emerge invece un uti-lizzo più semplice dell’applicazione, nella qua-le pulvini e piattabanda sono uniti fra loro daun’armatura con un’unica staffa ad anda-mento rettilineo passante sotto di essi.

A.Z.P.-R.P.

.BibliografiaGiuliani 2001; Giuliani 2006; Hoffmann 1980;Olivier 1983, pp. 937-959; Scetti 1996.

Sez. 2.6c - Copertura del pronaodel Pantheon in Roma

Materiale: legnoCronologia: età adrianea – prima del 128 d.C.

Il Pantheon è l’edificio di Roma antica meglioconservato grazie alle vicissitudini storichepassate e che, per perizia tecnica ed accorgi-menti strutturali, fa percepire ancora la gran-dezza dell’architettura romana. Costruito nel27 a.C. da Agrippa in Campo Marzio fu rico-struito sotto Domiziano e nelle sue attuali for-me durante il regno di Adriano. Nel 608 d.C.l’imperatore romano d’oriente Foca lo donòal Papa Bonifacio IV che lo riconsacrò con ilnome di Santa Maria ad Martyres. Si com-pone di tre parti: pronao, avancorpo e aulacircolare. Il pronao è strutturato con otto colonne infacciata che sostengono trabeazione e tim-pano triangolare e quattro file di colonne die-tro che dividono lo spazio in tre navate. Quellacentrale, più ampia, conduce all’ingresso. Og-gi la struttura del tetto si può osservare main antico era nascosta da un soffitto fatto contelai di legno, ricoperti da una lamina bron-zea, appesi alle capriate che poggiavano sul-l’architrave delle colonne interne. Su questainsistono pilastrini in blocchi di travertino col-legati tra loro da archi in muratura che so-stenevano il tetto. Lo stesso è a due falde concapriate lignee poste nel XVII sec. in sostitu-zione delle originali in bronzo che furono fu-se per realizzare l’altar maggiore della Basilicadi San Pietro ed alcune artiglierie di CastelSant’Angelo sotto il pontificato di Urbano VIII.Grazie ai disegni cinquecenteschi sappiamocome si doveva presentare la struttura primadei rifacimenti. Tre grandi capriate formate dapuntoni principali lungo le inclinate del tetto,collegati da catene orizzontali in posizioneelevata, si protendevano dalla navata centra-le su quelle laterali. Per assicurare stabilità vierano dei puntoni minori introdotti sui bloc-

chi di pietra delle sottostanti strutture. Nellenavate laterali una catena collegava il punto-ne principale e quello secondario inserito, an-che in questo caso, in un incavo dei blocchidi pietra inferiori. In ognuna delle tre navate elementi centraliin funzione di monaco scendevano dal pun-to centrale della struttura. Tutte le parti dellecapriate erano fatte con travi metalliche consezione ad U, ottenute collegando tre striscedi bronzo per mezzo di chiodi.

A.A.

Bibliografia Coarelli 1983; De Collatoÿ, van der Mersch 1999;Giuliani 2006; Lucchini 1996; Martini 2006;McDonald 1976; Pasquali 1996; Virgili, P. Battistelli1999; Viscogliosi 2001; Ziolkowski 1999.

Ricostruzione tridimensionale di un tetto a falde

con capriata obliqua, catena orizzontale, monaco e

travi di sostegno del tetto (C.F. Giuliani).

Parte destra del tetto del pronao del Pantheon

Sez. 2. n. 7 – Insula di Ostia

Plastico ricostruttivo in gesso e legno in scala 1: 50(I. Gismondi)

Luogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3934

L’insula era un tipo di abitazione plurifami-liare a più piani, che trova la sua massimaespressione nell’urbanistica pianificata di Ostiaimperiale. Era una casa caratterizzata da unosviluppo in altezza, in cui le funzioni dell’atrioe del peristilio, tipici della domus pompeiana,erano assunte dalla facciata, dotata di fine-stre regolari: essa era infatti la principale fon-te di luce, che proveniva direttamente dallastrada. Altre fonti sussidiarie di illuminazio-ne erano le corti interne (cavedia). L’impor-tanza assunta dalla facciata in questa nuovatipologia edilizia conduce ad un organico svi-luppo degli ambienti in diretta dipendenza daessa: di conseguenza, in corrispondenza conogni ambiente, le finestre acquistano una mag-giore razionalità nella disposizione. Ogni ap-partamento viene pensato in perfettaindipendenza rispetto ai singoli piani e, dinuovo in piena antitesi con la domus pom-peiana, abbiamo nell’insula una totale assenzadi caratteristiche fisse dei vari ambienti. Al-l’interno dei singoli appartamenti, l’inquilinopoteva infatti attribuire alle stanze varie fun-zioni, secondo il proprio gusto.Questi edifici erano dunque dei veri e propripalazzi dotati di case in affitto (coenacula),ed erano composti da un piano terra, in ge-nere destinato a botteghe di vario genere (ta-bernae), dotate di un soppalco per depositodi materiali e/o alloggio degli artigiani più po-veri, e da piani superiori, generalmente quat-tro, destinati ad abitazioni via via menopregiate verso l’alto.Il primo piano, solitamente, ospitava gli ap-partamenti più ricchi, spesso caratterizzati dauna balconata lignea o in muratura su men-sole, che percorreva l’intero affaccio strada-le. Il prospetto a mattoni, in genere, non venivaintonacato, ma l’effetto policromo poteva co-munque essere determinato dall’uso di late-rizi di colori e tonalità diverse per i varielementi architettonici. Le coperture eranospesso sostenute da volte, che garantivanomaggiore stabilità: ampie parti, come solai,sopraelevazioni o ballatoi, erano solitamen-te costruite in legno. All’interno delle insulaemancavano servizi igienici: a tale scopo era-

no utilizzate latrine pubbliche e le terme.Soprattutto in riferimento ad Ostia potrem-mo affermare che questo nuovo tipo di abi-tazione nasca in diretto rapporto con la nascitadella borghesia e alla sua presa di coscienzacome classe. La rivoluzione augustea, ormaicelebre formula di Syme, inaugurò l’ascesa diquelle classi medie borghesi, industriali e com-merciali che erano il vero nucleo vitale del suopotere. Ostia divenne così la sede di questanuova borghesia intraprendente e intelligen-te, che aveva assimilato con caparbia ostina-zione le regole del commercio.Ad Ostia l’insula si presenta con una tipolo-gia già matura e per questa ragione, ed an-che perché non si possono fare dei raffronticompleti con città dello stesso periodo, la pro-blematica sulle sue origini si presenta quan-to mai complessa. Probabilmente fu prima ditutto l’aumento della popolazione, soprat-tutto a Roma (e successivamente ad Ostianella prima età imperiale), che portò alla rea-lizzazione di case a più piani: queste eranogià presenti all’epoca di Augusto, vista la no-tizia riportata da Strabone (V,3,7), secondocui Augusto limitò l’altezza delle case a set-tanta piedi, ovvero all’incirca 21 m (7 piani).Tra le fonti che ci attestano prototipi ediliziche si sviluppano in altezza, troviamo ancheCicerone: egli confronta Roma e le sue altecase con Capua, che si estende in senso oriz-zontale (Leg. Ag. 2,35) La costruzione delle insulae e il loro affitto co-stituiva, in particolare a Roma, una impor-tante fonte di reddito e di affari. Così dellevere e proprie speculazioni vennero messe inatto, in alcuni casi risparmiando anche sullaquantità e qualità dei materiali da costruzione:a causa dell’affollamento del centro cittadi-no, gli edifici erano giunti a svilupparsi in al-

tezza anche sino a 10 piani, nonostante il ten-tativo di Augusto di limitarne l’altezza per leg-ge. Giovenale e Marziale tra la fine del I secoloe gli inizi del II sec. d.C., danno un vivido qua-dro della vita in queste abitazioni, tra il peri-colo di crolli e incendi (Marziale, Epigrammi,118; Giovenale, Satire, 3, 201).Dopo il grande incendio di Roma, l’impera-tore Nerone dettò norme molto severe per lacostruzione delle insulae, proibendo che aves-sero muri perimetrali comuni e altezze supe-riori ai 5 piani. Decretò inoltre che tutti gli edificifossero costruiti prevalentemente in pietra edotati di portici sporgenti dalla facciata, conservitù pubblica di passaggio e attrezzatureantincendio. Nerone fu dunque il primo a con-ferire un’importanza decisiva alla funzione ur-banistica dell’insula: è probabilmente sotto ilsuo governo che essa raggiunge una vera epropria dignità architettonica.Traiano, a sua volta, restrinse i limiti di altez-za imposti da Augusto, portandoli a 60 piedi(poco meno di 18 m, sei piani). Le norme fu-rono tuttavia largamente disattese e, tra la fi-ne del II e gli inizi del III secolo, l’insula Felicles,nel Campo Marzio, viene citata quasi prover-bialmente da Tertulliano (Adversus Valentinia-nos, 7) per la sua altezza straordinaria.

I.F.

BibliografiaAdam 1988; Calza 1933; Giuliani 2006; Packer 1971;Pasini 1978; Pavolini 2006.

101100

Sez. 2.8 - Strada romana esistema fognante

Plastico in scala. Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3939 (Deposito dell’IstitutoSuperiore di Sanità)

La tecnica costruttiva di una strada romanapoteva variare molto a seconda del suolo, deimateriali disponibili ed in base alle esigenzedel percorso. Infatti una strada nella monta-gna si distingueva chiaramente da una costruitain zona paludosa, che a sua volta si dovevaprogettare diversamente da un diverticolo inmezzo a campi coltivati. La prima operazione era la progettazione delpercorso: si sceglievano il punto di partenza equello dell’arrivo e poi si cercava di trovare iltracciato più breve e comodo. Si utilizzavanostrumenti come la groma (sez.1, n. 12) e il co-robate (sez. 1, n. 10), per tracciare lunghi retti-fili e quote stabili. Una volta segnato sul terrenoil percorso da seguire si scavava una trincea fi-no a un metro circa di profondità e si inserivaun primo strato di 30-60 cm di massicciata congrosse scaglie di pietra dura, formando la ba-se del corpo stradale (statumen). Il secondostrato, il rudus o ruderatio, era poco più sottilee consisteva di pietre più piccole costipate, te-nute compatte con calce e pozzolana a cui se-guiva uno strato più elastico chiamato nucleusdi sabbia e pietrisco (oppure di ghiaia e fran-tumi di cocci e calcinacci), livellato con appo-sita battitura e col passaggio di pesanti rulli. La copertura finale, pavimentum, era formatadai famosi basoli in basalto o pietra dura checon la loro forma a cuneo venivano affondatiin un letto di sabbia; la superficie levigata as-sumeva la forma ‘a schiena d’asino’ per per-mettere il deflusso delle acque meteoriche. Dalla tecnica realizzativa per sovrapposizionedi diversi strati, ognuno con diversa funzione,deriva l’attuale termine ‘strada’.Completata la carreggiata vera e propria si co-struivano i marciapiedi su ambedue i lati, spes-so con uno strato di ghiaia o di terra battuta,leggermente elevati sopra il lastricato della stra-da e separati da questa con bordi di pietrame.Accanto ai marciapiedi si trovavano i miliariindicanti le distanze dalle città più prossime etalvolta anche pietre più grosse, ‘gonphi’, chefacilitavano la salita e la discesa da cavallo. Co-me ultimo elemento sui lati esterni dei mar-ciapiedi si scavavano i condotti fognari per

raccogliere e deviare le acque, assicurando co-sì che il corpo stradale restasse asciutto.Il sistema fognante, che raccoglieva sia le acquepiovane che quelle di scarico, veniva sistematonelle zone urbane al di sotto delle strade prin-cipali; in genere i grandi edifici erano provvistidi un proprio sistema di fognature e in città dinuova fondazione l’impianto di una rete fognariafaceva parte del progetto urbanistico. Il sistemadi canalizzazioni primarie e secondarie in col-legamento tra di loro seguiva il tracciato dellestrade per poi sfociare in un corso d’acqua: lefognature di Roma erano convogliate nella Cloa-ca Maxima, che finiva a sua volta nel Tevere. Lastruttura delle fogne è pressappoco uguale intutte le città romane: cunicoli larghi m 0,40 ealti m 0,80 – 1,00 con volte a botte o tetto adoppio spiovente composto da due tegole opiano con lastra messa per piatto: erano ispe-zionabili attraverso pozzetti.

M.G.

BibliografiaAA.VV., Viae Publicae Romanae, Roma 1991; Basso2007; Busana M.S., Via per montes excisa. Strade ingalleria e passaggi sotterranei nell’Italia romana,Roma 1997; Chevallier R., Les voies romaines, Parigi1972; Giuliani C.F., La costruzione delle straderomane, in La viabilità tra Bologna e Firenze neltempo. Problemi generali e nuove acquisizioni. Attidel Convegno tenutosi a Firenzuola - S. BenedettoVal di Sambro, 28 settembre - 1º ottobre 1989,Bologna 1992, pp. 5-8; Quilici L., Le strade. Viabilitàtra Roma e Lazio, in Vita e costumi dei romaniantichi n. 12, Roma 1990; Quilici L., Quilici Gigli S.(a cura di), Atlante Tematico di Topografia Antica,Roma 1992ss. (vedi soprattutto voll. 1 (1992), 2(1994), 5 (1996), 11 (2003), 13 (2005)); Radke G.,Viae Publicae Romanae, Bologna 1981; StaccioliR.A., Strade romane, Roma 2003; Sterpos D., Lastrada romana in Italia, Roma 1970; Villa C., Lestrade consolari di Roma, Roma 1995.

Sez. 2.9a - Costruzione di ponti inpietra

Ricostruzione: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Il ponte è una struttura creata per permettere ilpassaggio di una via di comunicazione o di unacquedotto sopra un ostacolo naturale (fiume,palude, valle).La struttura dei ponti romani è molto varia. Lapiù semplice probabilmente fu l’allestimento diun ponte di barche, facile e veloce da costruiree indipendente dalla profondità del fiume e dal-la larghezza dell’alveo (v. raffigurazioni sulle co-lonne di Traiano e di Marco Aurelio). Le fontiantiche nel corso dei secoli ne citano diversiesempi (Tacito, Historiarum libri 2, 34, 2). Piùelaborato è il concetto del ponte fisso di legno:il più antico esempio è il Pons Sublicius a Roma,del quale possiamo farci un’immagine soltantoattraverso alcune rappresentazioni e la descri-zione degli autori antichi (Cesare, ponte sul Re-no, v. sez. 2, n. 9) Abbiamo poi ponti con piloni di pietra e sovra-struttura in legno, di cui rimangono solo restinell’alveo dei fiumi, come il grande ponte di Tra-iano sul Danubio presso Turnu-Severin (Roma-nia), la cui struttura è riprodotta in una scenasulla Colonna Traiana.Simbolo della civiltà romana per eccellenza egrande opera di ingegneria era però il ponte in-teramente in pietra, la cui costruzione richiede-va una vera progettazione.Prima di tutto si doveva scegliere il punto piùadatto lungo il fiume per poter costruire il pon-te in modo facile e sicuro. La decisione dipen-deva da una serie di fattori quali la profondità ola larghezza tra le sponde. Una volta considera-ta la qualità geologica del letto del fiume si ini-ziavano a costruire i piloni. Sulle tecniche usateci fornisce interessanti indicazioni Vitruvio, quan-do parla della costruzione dei porti (De archi-tectura, 5, 12, 2-6): si adoperava un sistema diparatie doppie formate da pali verticali tramiteun battipalo, ogni palo fornito di una punta diferro per irrobustirla; i pali formavano così unastruttura pentagonale o esagonale, la cassafor-ma di un pilone, un angolo della quale era orien-tato contro la corrente. Svuotato lo spazio internoalle paratie si costruivano piloni a blocchi di pie-tra, oppure una gettata in calcestruzzo sulla qua-le poi venivano eretti i piloni di pietra. Se il fiumeaveva un livello basso, ad esempio nel periododi magra, c’era la possibilità di fondare la mu-

ratura dei piloni direttamente sul fondo roccio-so. Per questo si deviava temporaneamente ilpercorso dell’acqua oppure si costruiva una ca-mera stagna a doppia paratia che veniva pro-sciugata (ad es. con viti di Archimede) per creareun cantiere all’asciutto.Su questi si facevano i primi due o tre strati in-teramente in blocchi di pietra rastremati versol’alto per aumentarne la solidità e legati tra lorocon grappe di ferro. A seconda del luogo in cuisi costruiva il ponte vi erano due alternative perla continuazione dell’opera: la pila poteva avereun nucleo di opera cementizia rivestito di bloc-chi di pietra o era formata completamente dablocchi di pietra. Una volta costruiti i piloni del ponte si giungevaalla parte probabilmente più complessa dell’in-tera opera: la costruzione degli archi.Dopo il cal-colo geometrico dei singoli elementi si iniziavanoa murare i primi quattro o cinque conci (semprefissati attraverso grappe di ferro) su ambedue ilati del futuro arco; sull’ultimo blocco con corni-ce aggettante del pilone si impostava una com-plessa centina di legno, una vera armaturaa formadi semicerchio che dava stabilità ai conci che siposizionavano fino a raggiungere la testa del-l’arco. In questa fase dell’opera si può certamenteammettere l’uso di una o più gru (v. sez. 2, n. 4).Messo in opera il concio in chiave si potevanocompletare i muri di testata e i contrafforti dei pi-loni e i muri di spalla che legavano il primo arcoalla ripa. A questo punto si riempivano i rinfian-chi tra gli estradossi degli archi e delle spalle pre-feribilmente con un’opera cementizia di

componenti abbastanza leggeri per ridurre lapressione sugli archi. Infine si potevano smon-tare le centine di legno sotto gli archi. Se i calco-li precedenti erano fatti correttamente e i lavorieseguiti con accuratezza, l’arco poteva in alcunicasi flettere leggermente, ma restava in posto congrande stabilità. Sopra gli archi e il riempimentodella parte superiore dei piloni veniva costruito ilcorpo stradale vero e proprio che nella sua tec-nica era del tutto simile a quello delle normalistrade (forse il basamento aveva qualche stratodi meno visto che il “sottosuolo” era già stabile).L’ultimo elemento erano i parapetti ai lati dellastrada sul ponte per rendere più sicuro il traffico.I ponti romani costruiti in questo modo sono ri-masti in piedi per secoli e vengono ancora usa-ti, con qualche restauro, fino ai nostri giorni. Tragli esempi più famosi che si trovano nell‘anticacapitale dell’impero, basta ricordare Ponte S. An-gelo, che ingloba l’antico Pons Aelius, oppure ilPons Cestius e il Pons Fabricius, i due ponti ro-mani che da più di 2000 anni permettono l’ac-cesso all’Isola Tiberina.

M.G.

BibliografiaPer una buona introduzione all’argomento con una va-stissima bibliografia: Gazzola P., Ponti romani, Firenze 1963; O’Connor C., Ro-man Bridges, Cambridge 1993; Galliazzo V., I ponti romani(2 vol.), Treviso 1995; Quilici L., Quilici Gigli S., Strade ro-mane, ponti e viadotti, Atlante tematico di topografia an-tica, 5, Roma 1996.

Sez. 2.9b - Ponte di Cesare sulReno

Cronologia: 55 a.C.Plastico ricostruttivo realizzato dall’ Istituto Storicoe di Cultura dell’Arma del Genio (Roma, Museodella Civiltà Romana, inv. n. 209)Ricostruzione: Niccolai snc- (Firenze, 2009)

Sulla costruzione dell’opera Cesare ci infor-ma nei suoi Commentarii de Bello Gallico (4,17; 6, 9): come prima operazione non lonta-no dalla riva un battipalo mette in posto unpaio di pali, con una distanza di due piedi ro-mani tra di loro e una leggera inclinazioneverso valle. Poi segue un secondo paio di pa-li distanti 45 piedi (13,4 m ca.) a valle con unainclinazione a monte; inoltre questa coppiaviene stabilizzata da un terzo palo ancora piùinclinato a monte. Costruiti così i primi duepiloni del ponte essi vengono legati attraver-so corde e chiodi di ferro ad una grande tra-ve larga due e lunga 40 piedi. Questacostruzione rappresenta il primo ‘cavalletto’.Terminato il secondo cavalletto a una distan-za ignota (forse 20-30 piedi ca., qui Cesarenon ci dà una misura precisa) in direzionedell’altra ripa, le due paia di pali a monte e avalle vengono legate con travi trasversali. Lospazio rettangolare così creato è in seguitocoperto con altre travi parallele, formando inquesto modo la prima superficie tra i due ca-valletti. Mentre la costruzione di altri caval-letti continua, il primo strato di copertura èrinforzato con un secondo tramite legni piùcorti messi trasversalmente a quelli prece-denti. Sopra si mettono larghi graticci fissatialle travi tra le coppie di pali e come atto fi-nale si stende uno strato di argilla o ghiaia,che forma il ‘livello stradale’ del ponte. Perdare più sicurezza ai piloni Cesare fece co-struire a monte di questi una catena di fran-gionde, costituiti ciascuno da tre pali cheformavano un triangolo, i cui lati furono sta-bilizzati da puntelli e graticci. La costruzioneproteggeva i piloni da materiale trasportatodal fiume, ma anche da potenziali attacchi deinemici tramite imbarcazioni infuocate.Per gli studiosi moderni rimangano alcune do-mande sulla messa in opera di questo ponte.Soprattutto restano dubbi su come i pali era-no conficcati, dal momento che Cesare nondà nessuna indicazione precisa. Anche sullemodalità del trasporto dei lunghi e pesanti pa-li e delle travi ci sono discussioni: alcuni stu-

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diosi credono nella forza dei legionari, altri for-mulano ipotesi sull’uso di piccole gru mobilio di macchine da guerra. Tuttavia, vista la man-canza di evidenze letterarie e archeologiche,queste proposte devono rimanere solo a li-vello di ipotesi.Il ponte venne costruito in soli dieci giorni edopo 18 giorni di scorrerie, Cesare ripassò ilReno e distrusse il ponte per non lasciare unponte intatto sul fiume senza possibilità didifenderlo.

M.G.

BibliografiaSaatmann K., Juengst E., Thielscher P., Caesars Rhein-bruecke, in Bonner Jahrbücher 143-144, 1938-1939, pp.83-208; Bundgård J.A., Caesar’s Bridges over the Rhi-ne, in Acta Archaeologica 36, 1965, pp. 87-103; GillesR.C., How Caesar bridged the Rhine, in The ClassicalJournal 64, 1968-1969, pp. 359-364.

due travi posteriori, con una distanza più am-pia tra di loro, sorreggono questo ‘letto’. Essesono legate insieme da chiodi di ferro, corde evari sostegni più piccoli. Nel punto più alto trale travi parallele è inserita una grossa carruco-la con una corda avvolta; la stessa nella sua par-te finale si separa in singole estremità per essertirata dagli operai o arrotolata attorno ad un ar-gano. Sull’altra estremità invece si trova un gran-de masso pesante dai 300 ai 600 kg, checostituisce il vero e proprio ‘battipalo’.Una volta costruita la macchina si posizio-nava per consentire di piantare il primo palotenendola ferma con ancore il cui numero po-teva variare da un minimo di due a un mas-simo di otto.L’enorme masso veniva sorretto da un arga-no o dalle braccia di uomini che tiravano lecorde cui era appeso; il palo era posizionatosotto la pietra con la punta inserita per qual-che centimetro sul fondo del fiume. Lascian-do scorrere la corda il peso stesso della pietrapiantava il palo. Il procedimento veniva ripe-tuto più volte fino a raggiungere la profondi-tà prevista ed una volta terminato, si potevapassare a piantare i pali successivi spostandola zattera e le ancore che la tenevano ferma.

M.G.

BibliografiaSaatmann K., Juengst E., Thielscher P., Caesars Rhein-bruecke, in Bonner Jahrbücher 143-144, 1938-1939, pp.83-208.Gilles R.C., How Caesar bridged the Rhine, in The Clas-sical Journal 64, 1968-1969, pp. 359-364.

Sez. 2. 10 - Battipalo (machina ofestuca)v. scheda 2.9b

Cronologia: 55 a.C.Plastico ricostruttivo: Niccolai snc (Firenze,2009)

L’uso di una macchina per piantare pali è am-piamente attestato dalle fonti in particolareper comprimere un terreno paludoso oppu-re per creare fondazioni in ambienti fluviali(pile di ponti). Purtroppo ci viene tramanda-to solo il nome: Cesare durante la costruzio-ne del ponte sul Reno parla di festuca (Bell.Gall. IV,17,4), Vitruvio nel caso di fondazioniper templi in zone paludose utilizza il termi-ne machina (De architectura, III,4,2). Nonostante la mancanza di altre indicazionisull’aspetto ed il funzionamento del congegno,gli studiosi moderni hanno ricostruito diversimodelli basandosi soprattutto sulle esperien-ze pratiche con battipali moderni usati fino alXIX secolo. L’ipotetica ricostruzione rappre-senta un battipalo su zattera utile alla realiz-zazione del ponte sul Reno voluta da Cesare.Alla base della costruzione vi è una massicciachiatta di forma rettangolare composta da tron-chi, con uno spazio risparmiato sull’orlo per la-sciar passare il palo da piantare. Su questa basesi trova una struttura molto stabile formata daquattro lunghe travi; le prime due, poste pa-rallele e leggermente oblique, costituiscono in-sieme con listelli laterali il ‘letto’ per il palo, le

Sez. 2.11 - Cava di marmo

Plastico: in gessoDimensioni: 125 x 125 x 85Realizzato da: E. Dolci e T. CherifLuogo di conservazione: Museo Civico del Marmo diCarrara, inv. n. 29826

Il modellino in gesso riproduce la cava ro-mana di Fossacava. Il modellino presenta laforma ad anfiteatro tipica delle cave marmi-fere, in cui l’estrazione del marmo poteva av-venire a cielo aperto a gradoni, nel sottosuoloe orizzontalmente. In particolare nella cavadi Fossacava l’attività estrattiva intensiva av-veniva a cielo aperto a gradoni con separa-zione a settori (bracchia) e in zone di taglio(loci). Le cave romane potevano essere a ge-stione statale o imperiale (patrimonium Cae-saris), nel caso fossero esportatrici di grandiquantità di marmo, municipali o private, nelcaso di esportazioni meno cospicue. Le cavevenivano affittate ad appaltatori o affidate afunzionari imperiali, per lo più liberti (procu-ratores marmorum). Questi gestivano per con-to dell’imperatore una o più cave svolgendooperazioni amministrative e di controllo sucoloro che lavoravano all’interno.Il lavoro estrattivo, portato a termine da ma-nodopera servile, iniziava con l’apertura di unnuovo distretto marmorifero, che metteva anudo la roccia. Il materiale così cavato veni-va poi mandato nelle aree di stoccaggio, do-ve ogni singolo blocco o colonna venivadigrossato per avere una forma che ne facili-tasse il trasporto. Talvolta il pezzo estratto ve-

niva mandato ad officine specializzate nellalavorazione del marmo. Queste officine po-tevano trovarsi nelle cave stesse o al di fuoridi queste; vi lavoravano artigiani (scultori),specializzati nella lavorazione e nella defini-zione di elementi realizzati col marmo dellastessa cava. Il materiale marmoreo così trat-tato era pronto ad essere esportato nei luo-ghi in cui la committenza l’aveva richiesto.Questa fase non era diretta solo dal procura-tor, ma da vere e proprie agenzie esterne chetenevano i contatti cava-cliente. Il trasporto del marmo dalle cave, per conte-nerne i costi, doveva tener conto necessaria-mente della posizione delle cave stesse: spessola collocazione delle cave più sfruttate era vi-cino a fiumi o al mare. Per facilitare il trasportoa valle di tutti i manufatti e in modo partico-lare di quelli più pesanti venivano attrezzatele c.d. vie di lizza (ad es. la via Claudiana a Sty-ra e quella di Spilla sul Monte Pentelico e al-cune vie della valle di Colonnata a Carrara) conpendenze fino a 45°, funzionale alla lizzaturadei manufatti: la pavimentazione era fatta conscarti di lavorazione della cava. La vicinanza delle vie d’acqua e del mare per-metteva di imbarcare il materiale lavorato o se-mi-lavorato sulle naves lapidariae alla volta deiluoghi di richiesta, non rendendo dunque ne-cessari dispendiosi trasporti sulla terraferma.

V.P.

BibliografiaBruno 2002, pp. 179-194; Marmi colorati 2002, pp.490-491 (scheda di M.C. Cintoli); Pensabene 1995; Ra-kob 1993; Ward-Perkins, 1992.

Sez. 2.12 - Sega per marmi (serra)modellino in scala

Materiali. Marmo e legnoMisure: 90 x 90 x 70Carrara, Museo Civico del Marmo, inv. n. 29830(1982)

La serra è una grande sega per marmi, cheveniva utilizzata per il taglio dei blocchi in la-stre. La tecnica della segagione è una dellepiù antiche in uso nelle cave e nei laboratoridi marmorai d’epoca romana e impiegata fi-no agli inizi del Novecento. La serra aveva co-me supporto dei pali di legno con deicontrappesi detti ‘uomini morti’, che servi-vano per tenere la lama in posizione perpen-dicolare. La lama, agganciata ad un telaio dilegno con due manici alle estremità, non eradentata, ma liscia: infatti ciò che tagliava ilmarmo era la frizione che si verificava tra lalama e la miscela di acqua e sabbia silicea cheveniva fatta colare,mentre due operai - dettiserrarii - tiravano alternativamente da un latoe dall’altro il telaio della lama. Con questostrumento, in una giornata lavorativa, si ta-gliavano circa 5/6 centimetri di marmo, a se-conda della grandezza della serra e dallalunghezza del blocco.

V.P.

BibliografiaMarmi colorati 2002, p. 490, n. 208 (scheda di M.C.Cintoli).

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Via di lizza(da Marmicolorati 2002,p. 185, fig. 8,T. Semeraro)

Sez. 2.13 - Distribuzione dellecave di marmi bianchi e coloratidi età romana

1. Incio, Marmo bianco - 2. Estremõz, Marmo bianco - 3. Al-conera, Marmo bianco - 4. Màcael, Marmo bianco – 5.Torto-sa, Broccatello; Calcare gialli di Tarracona - 6. Campan e Pontde la Taule (Couflens), Cipollino mandolato verde; Cabane,Cipollino mandolato rosso - 7. St. Béat, Marmo bianco - 8. Au-bert e Cap de la Bouiche, Bianco,e nero d’Aquitania - 9. Bou-louris, Mont Esterel, Porfido bigio o Granito a morviglione,Porfido “bigio di Sibilio - 10. Chambéry, Breccia frutticolosa -11. Candoglia, Marmo di Candoglia - 12. Felsberg, Granito delFelsberg - 13. Verona, Rosso di Verona - 14. Levante, Brecciaquintilina - 15. Pegazzano (La Spezia), Breccia rossa appen-ninica - 16. Carrara, Marmi bianchi e bardigli- 17. Serravezza(Monte Corchia), Breccia di Serravezza - 18. Isola d’Elba, Gra-nito dell’Elba - 19. Montagnola Senese,Breccia dorata - 20.Montagnola Senese, Breccia gialla - 21. Montagnola Senese,Breccia gialla fibrosa - 22. Isola del Giglio, Granito del Giglio- 23. Cottanello, Cottanello antico - 24. Tivoli, Travertino - 25.Circeo, Alabastro bianco e cotognino - 26. Capo Testa, Gra-nito sardo - 27. Nicotera, Granito di Nicotera - 28. Palermo(Villa Frati), Diaspro giallo - 29. Orano, Alabastro a pecorella- 30. Ippona, Greco scritto - 31. Filfila, Marmo bianco - 32.Chemthou, Giallo antico - 33. Hencir el Kasbat (Thuburbo Ma-ius), Lumachella orientale - 34. Hencir el Kasbat (ThuburboMaius), Astracane dorato o Castracane - 35. Djebel Aziz, Ne-ro antico - 36. Larissa, Verde antico - 37. Eretria, Fior di pesco- 38. Monte Pentelico (Atene), Marmo pentelico - 39. MonteImetto (Atene), Marmo imezio - 40. Capo Sunio, Marmo delSunio - 41. Doliana, Marmo di Doliana - 42. Krokeai, Serpen-tino, Breccia verde di Sparta, Porfido Vitelli - 43-44. Kourelos(Capo Matapan), Cipollino Tenario; Lagia - Dimaristika (Ma-ni), Rosso antico - 45. Isola di Paros, Marmo pario - 46. Isoladi Naxos, Marmo nassio - 47. Eubea meridionale (Styra - Ka-rystos), Cipollino - 48. Isola di Skyros, Breccia di Sciro o Set-tebassi - 49. Isola di Thasos, Marmo tasio - 50. Hereke, Brecciadi Hereke - 51. Isola di Marmara, Marmo proconnesio - 52.Valle del Sagario, Occhio di pavone - 53. Vezirken (Bilicik), Brec-cia corallina - 54. Çigri Dag, Granito della Troade - 55. Assos,Lapis Sarcophagus - 56. Isola di Lesbo, Bigio e Bigio luma-chellato - 57. Kozak (Pergamo), Granito misio - 58. Chios, Por-

tasanta - 59. Teos (Sigacik), Africano e Bigio africanato - 60.Efeso, Marmo di Efeso - 61. Iasos, Cipollino rosso e Iassensebrecciato - 62. Afrodisia, Marmo di Afrodisia - 63. Hierapolis,Alabastro fiorito - 64. Usak, Marmo bianco - 65. Afyon (Doci-mium), Pavonazzetto e marmo bianco - 66. Beni Suef, Ala-bastro cotognino - 67. Hatnub, Alabastro cotognino - 68-85.Gebel Dokhan (Mons Porphyrites), Porfido rosso; Gebel Do-khan (Mons Porphyrites), Porfido verde; Gebel Dokhan (MonsPorphyrites), Porfido nero; Gebel Dokhan (Mons Porphyri-tes), Porfido rosso laterizio; Gebel Dokhan (Mons Porphyri-tes), Porfido nero grafico; Gebel Dokhan (Mons Porphyrites),Granito verde minuto borghesiano; Uadi Umm Towat, Porfi-do serpentino nero; Uadi Umm Balad, Granito verde fioritodi bigio; Umm Shegilat, Granito della Colonna; Gebel Fatireh(Mons Clauàianus), Granito del Foro; Uadi Umm Huyut, Gra-nito; Uadi Bàrùd, Granito bianco e nero; Uadi Semnah (MonsOphyates), Granito verde della sedia (di San Lorenzo o di SanPietro); Uadi Maghrabiya, Gabbro eufotide; Uadi Atallah, Ser-pentina moschinata; Uadi Hammàmàt, Breccia verde d’Egit-to; Uadi Hammàmàt (Mons Basanites), Basanite; UadiFawakhir, Granito del Uadi Fawakhir - 86-87. Aswan (Siene),Granito rosso (Sienite); Aswan (Siene), Diorite nera egiziana.

Oltre alle cave e ai marmi a noi noti, e qui segna-lati, vi sono alcuni marmi di provenienza ignota:Breccia corallina giallastra; Breccia gialla Go-doy; Pavonazza sfrangiata di S. Maria degliAngeli; Breccia policroma dei Caetani; Brecciarossa e gialla; Breccia Traccagnina degli An-geli o policroma degli Angeli; Diaspro nero;Giallo tigrato; Granito mischio di Sibillo; Lu-machellone antico; Lumachella carnina; Ros-sa di Sibilio; Porfido verde mare; Serpentinoverde mare; Serpentino verde prato o risato.

V.P.

BibliografiaBorghini 1989; Lazzarini 2002, pp. 223-289; Lazzari-ni, Sangati 2004; Pensabene 1972, pp. 317-362; Pen-sabene 1995; Pensabene 1998.

Sez. 2.14 - Piattaforma girevole

Materiale: legno e cuscinetti metallicidimensioni: diam. cm 90Provenienza originale: dalle navi di NemiCronologia: metà I sec. d.C.Ricostruzione virtuale: C.F. GiulianiRicostruzione al vero: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Dopo i tentativi di Francesco De Marchi, chenel 1535 impiegò una campagna subacqueaper esplorare le navi romane che si trovava-no sul fondo del lago di Nemi, queste furo-no recuperate da Guido Ucelli tra il 1929 e il1931 prosciugando parzialmente il lago, masono andate perdute per un incendio duran-

Realizzata da Valentina Purpura rielaborando le carte di distribuzione (da Pensabene 1995 e Lazzarini e Sangati 2004)

te la seconda guerra mondiale.Le imbarcazioni, costruite durante l’età di Ca-ligola, misuravano rispettivamente 67 e 71 me-tri di lunghezza, e costituivano una straordinariatestimonianza della tecnica romana.Il rinvenimento su una delle navi di Nemi didue piattaforme circolari in legno, una di 90cm di diametro, rotante su sfere di bronzo prov-viste di perni, l`altra di 60 cm circa di diame-tro, montata su cilindri troncoconici, fece subitopensare ad una base rotante di argano. Il macchinario era composto da due elementiin legno, lavorati in modo tale che tra i duepotessero essere alloggiati elementi metalli-ci che permettevano la rotazione della partesuperiore: tali elementi potevano essere o sfe-rici o tronco-conici.La ricostruzione mostra come queste piatta-forme fossero basi di argani utilizzati per ilsollevamento di oggetti e per ottenere un mo-vimento rotatorio.Lo stesso Leonardo da Vinci progettò una piat-taforma girevole su cuscinetti a sfere per rea-lizzare una grande palcoscenico in legnoruotante su di un asse centrale (Codice di Ma-drid 1, f. 20v., Madrid, Biblioteca Nacional, 1497ca.), già nota dalla descrizione del teatro di Cu-rione di Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 24)(sez. 11, 5).

A.Z.P.

BibliografiaGianfrotta, Pomey 1981, p. 289; Giuliani 2006; Ucelli1950, fig. 213.

Sez. 2.15 - Sistema diriscaldamento ad aria calda

La rapidissima evoluzione del fenomeno del-le terme fu possibile grazie al parallelo pro-gredire delle tecniche di riscaldamento:scoperta decisiva fu l’invenzione del sistemaad ipocausto, databile all’inizio del I sec. a.C.,che soppiantò quasi ovunque metodi più an-tiquati, basati sull’utilizzo di bracieri mobili.I Romani attribuirono la scoperta dei balneapensilia a Sergius Orata, un allevatore di pe-sci dei Campi Flegrei (Plinio, Naturalis Hi-storia, 9, 168). In quest’area, caratterizzata daun forte termalismo naturale, già da temposi utilizzavano le esalazioni calde, condottetramite cunicoli, per riscaldare gli ambienti:Orata avrebbe avuto, dunque, il merito di so-stituire questa fonte naturale di calore conuna artificiale (forno a legna). Sebbene l’at-tribuzione sia criticabile, questa tradizione el’uso precoce di questo sistema in area cam-pana sembrerebbero rendere indiscutibile, al-meno, il luogo d’invenzione. Il sistema ad ipocausto, descritto in epoca au-gustea da Vitruvio (De Architectura, 5, 10, 1-5), si basa sulla realizzazione di un pavimentosospeso (suspensura), posto su pilastrini dibessali (pilae) alti 60 cm: nell’intercapedinetra suspensura e sottopavimento veniva im-messa aria calda tramite un forno (praefur-nium) e, di conseguenza, il calore sitrasmetteva all’ambiente soprastante. Rispetto ai bracieri mobili, il sistema ad ipo-causto offriva un grosso vantaggio: i fumi del-la combustione, infatti, circolando insiemeall’aria calda, erano espulsi all’esterno (tra-mite canne fumarie o bocche di tiraggio) sen-za diffondersi nell’ambiente da riscaldare. Sispiega così la rapida diffusione di questi im-pianti che portò, in breve, alla nascita di nu-merosi varianti costruttive.I ritrovamenti archeologici testimoniano, in-fatti, pilastrini di laterizio o di pietra, gene-ralmente di altezza variabile da 60 a 100 cm,di forma rettangolare, circolare o poligonale;è attestato anche l’uso di laterizi cavi o di tu-bi di terracotta, che facendo penetrare il ca-lore al loro interno, consentivano un’uniformetrasmissione del calore.In alcuni casi le pilae potevano essere sosti-tuite da piccoli muri, abbinati in genere ad ar-chi; in altri, l’intero impianto poteva esseresostituito da una rete di canali comunicanti

(disposti a raggiera o in parallelo) collocataal di sotto del pavimento ed alimentata da unforno (c.d. camera di calore a canali). Questosistema – e conseguentemente quello mistodi canali e pilastrini - sembra essere recen-ziore e si ritrova spesso in contesti privati delBasso Impero, soprattutto in Britannia e Ger-mania.Il pavimento sospeso (suspensura) è costi-tuito da uno strato di bipedali (posti in ma-niera tale che quattro vertici contigui sitrovassero al centro della pila) sul quale eragettato un masso in cocciopesto, un massettopreparatorio ed il pavimento; in alcuni casi,lastre di piombo affogate nel cocciopesto as-sicuravano una maggiore ed uniforme diffu-sione del calore.Anche le fornaci potevano avere diverse for-me ed installazioni, tali da renderle estrema-mente variabili. La bocca di calore più sempliceè costituita da un’apertura, costituita o fode-rata da materiale refrattario (come laterizio otufo) e dotata di un portello, metallico o liti-co; sistemi più complessi potevano posse-dere un canale di calore interno (che favorivala diffusione del calore al centro dell’ipocau-sto) e/o un canale esterno.Le canne fumarie sono elementi fondamen-tali del sistema e, generalmente, sotto formadi ascendenti verticali (costruiti nello spes-sore delle murature, incastrati in un allog-giamento della parete o a sbalzo) iniziavanonell’ipocausto per terminare sulla sommitàdegli edifici; altre bocche di aerazione (sottoforma di aperture quadrangolari o a cappuc-cina) potevano aprirsi lungo le pareti o sullevolte. In alcuni casi disponevano di valvoleper la regolazione del tiraggio, che modifica-vano la velocità di evacuazione dei fumi e con-seguentemente la temperatura degli ambienti.In un secondo momento, databile intorno al-la seconda metà del I a.C., si inizia ad appli-care le intercapedini parietali in ambitotermale. Facendo confluire i fumi lungo le pa-reti si sfruttava pienamente l’energia termicaprodotta dai forni, potendo incrementare sen-za aggravi il grado di calore raggiungibile inun ambiente; conseguentemente, a forni spen-ti, il raffreddamento dei vani era più lento, eciò permetteva, il giorno seguente, una riat-tivazione dell’intero impianto più rapida equindi meno onerosa.L’evoluzione apportata dalla tubulatura pa-rietale ebbe conseguenze anche in campo ar-chitettonico: con questo sistema era possibile,

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infatti, riscaldare artificialmente ambienti digrandissime dimensioni e così, a partire daquest’epoca, i balnea, caratterizzati da vaniangusti e bui, saranno affiancati dalle grandithermae. Le intercapedini parietali erano rea-lizzate utilizzando o laterizi abbinati a di-stanziatori o tegulae mammatae (cioè “dotatedi protuberanze”), fissati alle pareti con chio-di. A questi saranno privilegiati, successiva-mente, i tubuli cavi a sezione quadrangolarepreferibili, rispetto alle prime, perché evita-vano il contatto diretto dei fumi con le mu-rature.I tubuli rivestivano le pareti totalmente o par-zialmente (a secondo del grado di calore del-l’ambiente) sino all’imposta della volta e daquesto punto i fumi potevano essere espulsicon varie soluzioni. In molti casi la loro par-te superiore veniva richiusa ed il tiraggio, con-seguentemente molto lento, era assicurato oda qualche tubulo che penetrava nello spes-sore della volta o da altre bocche di aerazio-ne. Altrimenti un condotto orizzontale potevacorrere al di sopra dei tubuli per raccogliere iprodotti della combustione ed espellerli suc-cessivamente all’esterno tramite una cannafumaria.Un terzo sistema consisteva nel far confluire ifumi nelle volte a doppia calotta. Il sistema, giànoto a Vitruvio, si basava sulla costruzione diuna volta in materiale leggero sostenuta, tra-mite aste metalliche, dalla soprastante volta inmuratura: fumi ed aria calda confluivano dal-

la tubulatura in questa intercapedine per es-sere poi espulsi all’esterno tramite piccole aper-ture. Questa istallazione, che amplificava ivantaggi già descritti per la tubulatura, si ri-trova perlopiù negli ambienti intensamente ri-scaldati ed il suo funzionamento è bentestimoniato nei bagni di Villa Adriana e nelleTerme di Caracalla. Un diverso sistema di ri-scaldamento delle volte, basato su archi cavi,è attestato ad Aquae Sulis (Baths).Il grado di calore raggiungibile con il sistemaad ipocausto dipendeva da numerosi fattori,calcolati accuratamente in progettazione a se-conda della funzione dell’ambiente: esposi-zione, grandezza del vano, insolazione (legataal numero ed alla grandezza delle finestre),presenza e numero di fornaci, esistenza di tu-bulatura e di doppia calotta, presenza nell’ariadi vapore (immesso o derivato da vasche ri-scaldate), numero ed ampiezza dei fori d’espul-sione dei fumi. Secondo i calcoli eseguiti daKretzschmer, la temperatura di un calidariumdel I d.C. poteva così raggiungere mediamentei 50° C. Il sistema ad ipocausto trova princi-pale applicazione in ambito termale, ma è uti-lizzato anche per il normale riscaldamento deivani, sia in ambito pubblico che privato.Pavimenti rialzati su pilastrini ed intercapedi-ni parietali vengono utilizzati anche in luoghisoggetti a forte umidità di risalita: questa, purattraversando il sottopavimento o una pare-te, penetrava nell’intercapedine e veniva espul-sa all’esterno tramite piccole aperture, senza

apportare danni alle strutture a vista. Questosistema di impermeabilizzazione delle paretiè già descritto da Vitruvio (De Architectura, 7,4, 1), mentre l’uso della suspensura in zoneumide è attestata archeologicamente ed è ri-conoscibile dall’assenza di fornaci o condottidi calore.Altri usi sono legati a situazioni più partico-lari: in quattro ambienti delle Piccole Termedi Villa Adriana, ad esempio, si è scelto di rea-lizzare un ipocausto anziché interrare l’am-biente per mantenere i pavimenti alla stessaquota ed alloggiare, nell’intercapedine, fognee fistulae.Nella prima delle due navi rinvenute a Nemi laricostruzione della struttura del ponte avanza-ta dal Cultrera presenta forti analogie con l’in-tercapedine pavimentale delle terme: al di sopradi un tavolato poggiavano ‘tubi fittili’ a sezio-ne circolare accoppiati due a due, sciolti o mu-rati in pilastrini con paramento di mattoni”; lasuspensura (‘il sovrapponte’) era costituita dauno strato di laterizi, un masso ed un pavi-mento di marmo. Difficile, ad oggi, giustifica-re le motivazioni di una tale scelta costruttiva.

A. B.

BibliografiaAdam 2001, p. 213; pp. 288-99; Bouet 2004, pp. 235-277; pp.259-60; De Angelis D’Ossat 1943; Degbomont1984; Giuliani 2006; Giuliani 1975, pp. 329-342, tavv.113-118; Lombardi Corazza 1995; Nielsen 1990, pp.14-24; Yegül, 1950, pp.356-389; Ucelli 1996, pp. 160-161.

Schema ricostruttivo di un ambiente con ipocausto:

a) praefurnium; b) hypocaustum; c) pilae; d) canna

fumaria; e) tubuli (da Lombardi, Corazza 1995)

Schema ricostruttivo del praefurnium di un calidarium

(da Degbomont 1984)

Sezione 3

tecnologia dell’acqua

scono l’ossatura, anche se per ogni acquedotto si metteva in ope-ra solo ciò che, per quello specifico acquedotto, veniva indicatodai tecnici: l’opera di presa, il canale (specus), i dissipatori, le gal-lerie, le arcate, i sifoni rovesci, la piscina limaria, il serbatoio ter-minale (sez. 3, n. 2, p. 114). Si scrive molto di acquedotti, ma raramente della distribuzionenelle città, che rappresenta una delle più importanti conquistedell’idraulica romana; la distribuzione è così la grande esclusa de-gli studi di idraulica romana.. Si pensi che a Roma ognuna dellemille fontane era servita da due acquedotti in modo che, se nefosse andato fuori servizio uno, vi era l’altro che seguitava a for-nire acqua.Vi era un reticolo di tubi in piombo che raggiungeva tutti i quar-tieri e gli edifici di massimo consumo. Solo per Pompei e per OstiaAntica sono stati eseguiti studi per ricostruire gli impianti idrauli-ci cittadini. Per le altre città si sa poco o niente, mentre per alcu-ni edifici pubblici romani, forti consumatori d’acqua, quali il Colosseoe le Terme di Caracalla, vi sono studi abbastanza completi che per-mettono di avere un’idea della distribuzione, che avveniva trami-te tubi in piombo e rubinetti che consentivano di aprire, chiudereo regolare il flusso (sez. 3, n. 4 a-b). I tubi erano probabilmente in parte realizzati a piè d’opera fon-dendo il piombo e versandolo in recipienti di legno con i bordi dialtezza predeterminata e larghezza pari alla circonferenza del tu-bo -oltre il bordo per le saldature- e lunghezza di tre metri circa(dieci piedi). I tubi erano poi arrotolati e saldati longitudinalmen-te, quindi giuntati uno all’altro. Si ottenevano così tubazioni di va-ri diametri da saldare insieme per ottenere tubazioni anche moltolunghe. Erano ovviamente molto fragili specialmente nella salda-ture e occorreva una manutenzione continua (sez. 3, n. 1).I rubinetti e le chiavi, sempre in bronzo, venivano saldati alle tu-bazioni ed erano collocati o entro apposite stanze o immediata-mente a monte delle forniture d’acqua (sez. 3, n. 7). Anche se i consumi pro capite erano elevati -a Roma tra 500 e1000 litri giorno per abitante- i consumi reali per i cittadini erano

molto più bassi. La maggior parte del flusso finiva negli stabili-menti termali, nelle grandi ville patrizie e negli edifici pubblici. Po-chi erano gli allacci per i cittadini privati che si servivano soprattuttodelle fontane e l’acqua doveva essere prelevata e trasportata in re-cipienti probabilmente di terracotta di peso notevole; è certo, per-tanto, che i consumi reali fossero molto bassi. Per una famiglia di8-10 persone un consumo di 20 litri al giorno comportava alme-no 30-40 trasporti. Oggi in vaste aree del mondo, dove non c’è distribuzione con ac-quedotto e l’acqua deve essere sollevata con i secchi e trasporta-ta manualmente, i consumi pro capite sono sotto i 10 litri al giorno,sebbene i secchi siano spesso in plastica, quindi leggeri.Tra i grandi consumatori, come abbiamo già ricordato, vi erano leterme al cui interno affluivano giornalmente, almeno a Roma, de-cine di migliaia di cittadini. Le sole terme di Caracalla assorbiva-no, con acquedotto proprio (l’Aqua Antoniniana), oltre 200 l/s(circa 20.000 metri cubi al giorno d’acqua). Le altre 10 terme im-periali non dovevano essere da meno; se a queste si aggiungonole oltre 1000 terme private i consumi dovevano essere enormi:qualche metro cubo al secondo, tra un quarto e un terzo della por-tata totale degli acquedotti.Le terme, derivate da esperienze greche, ma completamente tra-sformate, rappresentavano la più diffusa forma di aggregazionepubblica delle città romane. Ginnastica, massaggi, bagni caldi efreddi e cultura. Ma era l’acqua la protagonista delle terme.Le sole natatio, le piscine, consumavano molte migliaia di metricubi d’acqua al giorno e l’insieme di uno stabilimento termale cen-tinaia di l/s (sez. 3, nn. 6 e 7).Per gli acquedotti romani si fornisce solo una tabella riassuntivae un diagramma che mostra la successione nel tempo degli ac-quedotti che seguono o precedono il costante aumento demo-grafico della città.Dal diagramma si vede come vi sia un netto parallelismo tra l’an-damento della demografia e i volumi d’acqua che raggiungevanola città.

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Tra il III a.C. ed il I secolo d.C. esplode nel Mediterraneo la stupe-facente rivoluzione scientifica del periodo alessandrino, favorita estimolata dai Tolomei, che finanziavano studi e ricerche e realiz-zavano la famosa biblioteca di Alessandria dove, per secoli, si rac-colsero le opere dei più importanti scienziati ed intellettualidell’epoca. Basta citare alcuni nomi come Archimede, Filone di Bi-sanzio, Eratostene, Ctesibio e Erone per farci tornare alla menteche è allora che è stata misurata la circonferenza della Terra, era-no stati chiariti principi fondamentali dell’idraulica ed era stata co-struita la prima pompa alternativa che ancora oggi è usata in tuttoil mondo. Roma è figlia di quella civiltà, ne assorbì le conoscenze e le sep-pe sfruttare al meglio, migliorandole in continuazione e diffon-dendole in tutto il mondo allora conosciuto. Si dovranno attendere moti secoli prima che si abbiano nuovi svi-luppi della tecnologia idraulica. Un primo passo importante fu fat-to dalla civiltà islamica e poi nel Rinascimento italiano che,finalmente, dopo secoli veramente bui per l’Italia, riscoprì il me-todo scientifico delle indagini e rilanciò le scienze.Ma quali furono le principali conoscenze derivate dall’Ellenismoche permisero ai Romani di sviluppare la tecnologia idraulica? Equali quelle che i Romani inventarono?Prima i Greci classici e poi quelli di età ellenistica costruirono ac-quedotti, gallerie e cunicoli per la conduzione dell’acqua, tubi interracotta e in piombo, sifoni rovesci, di cui Pergamo è l’esempiopiù eclatante, la pompa alternativa, la coclea, le ruote idrauliche ei tre fondamentali strumenti topografici indispensabili per la rea-lizzazione di un’opera idraulica: la groma, la dioptra e il corobate(v. sez. 1, nn. 10-12).I tecnici romani hanno in continuazione migliorato le tecniche direalizzazione degli acquedotti, hanno messo in atto dissipatori esifoni rovesci ovunque hanno costruito un acquedotto, hanno spet-tacolarizzato l’acqua con fontane e mostre che non sono state su-perate neanche con le grandi fontane del Rinascimento e delBarocco.È proprio con l’uso dell’acqua come spettacolo e come mezzo perottenere il consenso che può spiegarsi la grande diffusione delleopere idrauliche romane e la loro imponenza.A Roma si contavano più di 1000 fontane e lacus per gli usi pri-vati e quotidiani, vi sono circa 1000 terme private e 11 terme im-periali, il tutto servito da 11 acquedotti con una lunghezza totaledi oltre 500 chilometri. Ma Roma non è un’eccezione. Lione, l’an-tica Lugdunum, ha quattro acquedotti che servono la città, Co-

stantinopoli ha l’acquedotto più lungo di tutto l’impero, 260 km,Cartagine ha un servizio idrico di grande efficienza, e ogni città epaese dell’impero dispone di acqua potabile e di terme a serviziopubblico. Non solo l’acqua per bere e lavarsi ma anche l’acqua lu-dica; Augusto costruisce un acquedotto per alimentare una nau-machia, cioè un bacino d’acqua per spettacoli di battaglie navali,e le stesse terme rappresentano luoghi per momenti di relax e disvago. Per realizzare tutto ciò occorreva un’organizzazione perfetta: tec-nici preparati, topografi, operai, manovalanza abbondante e ap-provvigionamenti continui di materiali. Strumenti per lo scavo,mattoni e conci in pietra, calce sabbia o pozzolana, piombo per itubi. Ma, soprattutto, una continua manutenzione per non per-dere l’efficienza delle opere., come raccomanda Frontino, curato-re del servizio delle acque (curator aquarum) all’epoca di Nerva,nel suo manuale (De aquae ductu Urbis Romae).Il potere centrale e quelli periferici dovevano essere sempre in gra-do di garantire il funzionamento degli impianti. Vi era una speciedi patto tra tecnica e politica, l’acqua deve esserci sempre e sem-pre in quantità maggiore. È molto probabile che l’acqua rappre-sentasse il terzo dei beni che la politica forniva ai cittadini assiemeal pane e al circo.Per comprendere che cosa fosse un acquedotto è opportuno for-nirne uno schema che ne illustri tutti gli elementi che ne costitui-

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Tecnologia idraulica

Leonardo Lombardi

Gli 11 acquedotti di Roma antica (rielab. grafica: F. G.)

NOME Data Quota a Romametri s.l.m.

Lunghezza totale Km

Lunghezza insotterraneo Km

% in sotterraneo Acquifero Portata

in l/s

Appia 312 a.C. 16 16 15 93 Vulcanico Colli Albani 876

Anio Vetus 272 a.C. 43 63 62 98 Acqua fluente Aniene 2.111

Marcia 144 a.C. 55,70 91 80 88 Calcari Sublacense 2.251

Tepula 125 a.C. 57,61 17 2 11 Vulcanico Colli Albani 192

Julia 33 a.C. 59,37 22 8 36 Vulcanico Colli Albani 386

Virgo 19 a.C. 19 20 19 95 Vulcanico Colli Albani 1.201

Alsietina 2 a.C. 12 33 32 99 Vulcanico Sabatini 188

Claudia 52 d.C. 63,85 68 53 78 Calcari Sublacense 2.111

Anio Novus 52 d.C. 65,99 86 73 85 Acqua fluente Aniene 2.274

Traiana 110 d.C. 60? 57 - - Vulcanico Sabatini 1.368

Alessandrina 226 d.C. 45? 30 - - Vulcanico Colli Albani 254

Totali — —- 503 332 66 13.212

Portata totale m3/giorno 1.141.516

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Anche se gli acquedotti rappresentano, con tutti i loro elementicostitutivi, la parte principale della tecnologia idraulica, esistonoaltri settori, altrettanto importanti, nei quali la tecnologia idrauli-ca romana ha dato un importante contributo. L’uso dell’acqua come energia, i sistemi di sollevamento, grandiopere idrauliche e l’acqua come gioco.Per millenni le uniche forme di energia usate furono quelle uma-na e animale: fu un grande salto quando l’acqua in movimento,quella dei torrenti, dei fiumi o di canali derivati, fu utilizzata permuovere una ruota a pale che produceva energia e consentiva difar girare le mole dei mulini o dei frantoi. Anche questa è un’in-venzione ellenistica, ma i tecnici romani trasformarono questa tec-nica in un’industria (Vitruvio, De Arch., 10.5). I sedici mulini diBarbergal, nei pressi di Arles in Provenza, sono mossi da un ap-posito acquedotto così come erano mossi quelli del Gianicolo conl’acquedotto Traiano. Fino ad oggi si sono trovati solo questi im-pianti ma, in futuro, con il progresso delle ricerche se ne trove-ranno certamente altri (sez. 3, n. 12). Lo stesso tipo di energia fuusata per muovere seghe da marmo con numerose lame paralle-le (sez. 3, n.13), così come per spezzettare la pietra per il calce-struzzo.Altro tema di grande interesse è il sollevamento dell’acqua. Par-tendo dall’invenzione di Ctesibio (sez. 3, n. 8a), bibliotecario diAlessandria, attivo nel II secolo a.C., Roma migliorò la pompa al-ternativa, ne fece in bronzo (sez. 3, n. 8b), in legno e in piombo.Le abbinò e le utilizzò anche per dotarne i carri dei vigili del fuo-co. Riuscì ad asciugare miniere e cave permettendo l’estrazionedei preziosi minerali che il mercato imperiale richiedeva. Anche gli altri sistemi di sollevamento, come la noria, videro i tec-nici romani attivi nel cercare le soluzioni più adatte; recentemen-te sono state trovate, in uno scavo a Londra, parti di una noria

romana con la catena in ferro e i secchielli in legno (sez. 3, n. 11). È molto strano che i tecnici romani non abbiano collegato la ruo-ta idraulica ad una pompa alternativa. Avrebbero risolto un gran-de problema che ha affrontato e applicato la civiltà islamica consistemi geniali che furono poi utilizzati fin dal Rinascimento.Di grande interesse le grandi opere cunicolari e il prosciugamen-to di numerosi laghi del Lazio. Dal tentativo di Claudio di pro-sciugare il lago del Fucino (sez. 3, n. 14), alla realizzazione deilunghi cunicoli che stabilizzarono i livelli dei laghi di Albano, Ne-mi, Castiglione, Martignano ed altri minori, alle grandi opere dibonifica e regolazione idraulica tra le quali si può citare la CloacaMaxima, che drenò la valle del Foro, e quelle che bonificarono inparte la Pianura Pontina. I tecnici romani dominavano l’arte dei cunicoli e l’arte delle co-struzioni in acqua (moli e opere portuali) con malte che resisto-no all’azione del mare da duemila anni. Infine i giochi e la musica. L’organo idraulico, con due pompe adacqua che mettevano in pressione l’aria per far suonare le cannedell’organo e il gioco degli uccellini che cantano e si interrom-pono quando appare una civetta e riprendono a cantare quandoil rapace scompare. Di questo gioco, largamente ripreso nel Ri-nascimento, se ne sono trovati frammenti a Pompei (v. sez. 11,nn.1a-b).La vasta diffusione in Europa della tecnologia idraulica realizzatadall’impero romano ha fatto sì che tutti avessero gli stessi tipi diimpianti idraulici, tutti usavano acquedotti a gravità e sistemi checomportavano piccoli serbatoi negli edifici e tubazioni in piombo. La tecnologia romana diffusasi così capillarmente è rimasta im-mutata praticamente fino al secolo scorso. Nel XVII secolo a Ver-sailles si inventano e si mettono in opera tubi in ghisa di grandediametro, che sostituiscono in parte quelli in piombo. Ma ci vor-ranno altri secoli prima che il ferro sostituisca completamente ilpiombo. Nel XVIII e XIX secolo si inventano i motori (prima ter-mici poi elettrici) che consentono di sollevare grandi quantitativid’acqua vincendo la legge di gravità che per millenni aveva ga-rantito la conduzione e distribuzione dell’acqua con i grandi e pic-coli acquedotti. La realizzazione di tubi in ferro e ghisa, estrusi, equindi senza saldature longitudinali, assieme alle pompe che usa-no energia diversa da quella umana, animale o idrica, rivoluzio-nano la tecnologia idraulica e, con queste nuove tecnologie,entriamo nell’era moderna.

Bibliografia:Atlante tematico di Topografia antica, 2008; Fabre 2005; Fernandez Casado 1985;Minonzio 2004; Tölle-Kastenbein 1993; Trevor Hodge 2000; Wikander 2000.

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Sez. 3.1 - Fistula e costruzionedelle fistulae (tubazioni in piombo)

Materiale: piombodimensioni: cm 50, ø 6Provenienza: Roma, Esquilino (Horti Lamiani?)Luogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. n. 23515

Cronologia: III sec. d.C.

Le condutture plumbee per l’adduzione del-l’acqua (fistulae) venivano realizzate dai plum-barii, che si occupavano di ogni fase delprocesso produttivo, dalle fusione della la-mina, all’arrotolamento ed alla saldatura fi-nale.Le lamine erano ottenute colando piombo al-l’interno di uno stampo, in maniera tale chefossero lunghe all’incirca tre metri ed aves-sero uno spessore variabile: otto mm per lenove fistulae della serie delle quinarie, men-tre variano dai 7,95 mm (vicenaria) sino ai17,80 mm (centenaria) per la serie delle cen-tenarie, in proporzione alla portata. Succes-sivamente, con una forgiatura a freddo,venivano arrotolate attorno ad un calibro (omandrino) che faceva assumere alla tuba-zione la tipica forma a goccia o ‘a pera’ ed ibordi venivano ripiegati e saldati tra loro conuna colata di piombo. Il piombo poteva an-che venire colato entro una forma nella qua-le era inserita un’anima cilindrica di metallo,mediante la quale si otteneva il diametro vo-luto con una sezione perfettamente ellittica(EAA, sv. Acquedotto, II Suppl., 1994).In fase di posa della tubazione, le fistulae ve-nivano collegate tra loro tramite raccordi dipiombo (coprigiunti di fusione) che veniva-no rivestiti e saldati con una lega di piomboe stagno. Spesso sulla superficie si riportavaun marchio con il nome del committente, delfunzionario amministrativo e del costruttore,specificando talvolta a quale opera fosserodestinati; usuale, in molte opere idrauliche diRoma, la titolatura dell’imperatore. La grandezza delle sezioni delle fistulae erastandardizzata, con tipologie variabili da città

a città: Vitruvio (VIII, 6) elencandone dieci ti-pi diversi, spiega che il nome comunementeattribuito a queste condutture (centenariae,quinariae, ecc.) deriva direttamente dalla lar-ghezza della lamina misurata in digiti (cioè vie-ne definita quinquagenaria una fistula ottenutada una lamina della larghezza di cinquanta di-ta). Diversa spiegazione dà Frontino (XXIV, 1)dicendo che il nome di tutte le fistulae appar-tenenti alla serie delle centenarie (centenaria,octogenaria, quinquagenaria, quadragenaria,tricenaria e vicenaria) deriva dal numero di di-ta quadrati contenuti nella loro sezione retta;i nomi della serie delle quinarie (quinumde-num, denaria, octonaria e quinaria) provengo-no dal numero dei quarti di dito compresi nelloro diametro e di ciascuna ne segnala il dia-metro, il perimetro e la portata.La produzione di fistulae plumbee ebbe unacrescita sostanziale dopo le conquiste di Ce-sare, dato che la maggior parte delle minieresi trovava in Britannia: la malleabilità e la bas-sa temperatura di fusione da un lato per-mettevano un’ottima lavorabilità, ma dall’altrolato erano all’origine delle frequenti rotturecausate dalla pressione dell’acqua. Tuttavia,nonostante il costo elevato e l’esigenza con-tinua di manutenzione, le fistulae plumbeetrovarono piena applicazione soprattutto ne-gli impianti di distribuzione capillare dell’ac-qua in ambito urbano, come dimostranoancora oggi i numerosi esempi conservati neicentri vesuviani.All’interno delle città, la distribuzione pub-blica dell’acqua ai privati cittadini avvenivatramite i castella, bacini di interscambio ali-mentati dall’acquedotto ai quali era possibi-

le allacciare una tubazione: la connessionetra il bacino in muratura e la fistula plumbeaavveniva tramite il calix, un elemento di rac-cordo che deve il nome, evidentemente, allasua forma svasata. La realizzazione di que-st’elemento era curata dall’ufficio locale diamministrazione delle acque, che, in base al-la somma corrisposta, stabiliva il diametro (edi conseguenza la portata) e faceva imprimeresulla sua superficie il nome del beneficiario;per evitare frodi sulla quantità d’acqua de-dotta, il calix veniva realizzato in bronzo, ma-teriale più difficile da manomettere rispettoal piombo.La fistula esposta reca l’iscrizione: STATIO-NIS PROPIAE PRIVATAE DOMINI N ALE-XANDRI AVG (CIL XV, 7333).

G.P.

Bibliografia:Adam 1988, p. 275 ss.; Caiati 1977; Di Fenizio 1947;Fassitelli 1972; E.A.A., s.v. acquedotto, II Suppl. 1994,pp. 32-33 (O.Belvedere); Il trionfo dell’Acqua 1986, pp.145-151 (P. Pace) e pp. 187-195 (S. Priuli); Lanciani 1975;Tolle-Kastenbein, 1993, p. 103 ss.

(da Wikander 2000)

Sez. 3.2 - Funzionamento di unacquedotto romano

Un’impresa come quella della costruzione di unacquedotto implicava una serie di operazioniassai complesse e coinvolgeva competenze di-verse con una preliminare progettazione, nellaquale dovevano essere prese in considerazio-ne da parte di tecnici idraulici (architecti, ma-chinatores, adiutores, libratores, circitores) laconoscenza del territorio da attraversare con ilcondotto, le vie di comunicazione per raggiun-gerlo, l’organizzazione del cantiere e le attrez-zature da predisporre, l’esecuzione di livellazionie il calcolo delle quote di partenza e di arrivodel condotto in relazione alla pressione da rag-giungere perché l’acqua potesse arrivare a de-stinazione.Come spiega bene Vitruvio (De Architectura,VIII, 1, 6) la costruzione di un acquedotto ri-chiedeva le seguenti operazioni:1. L’opera di presa. L’acqua da captare da unasorgente o da un corso d’acqua -tramiteun’apposita derivazione o tramite una diga-veniva lungamente osservata per stabilire laquantità d’acqua che poteva essere prele-vata e per stimare se la quota d’emergenzarispondesse alle necessità previste. Tali os-servazioni, oggi diremmo indagini, per-mettevano di stabilire le dimensioni delcanale adduttore.

2. Il canale, o specus. Il canale veniva rivestitodi materiale impermeabile (cocciopesto) eera sempre in genere coperto per proteg-gere la qualità dell’acqua. Determinate congrande esattezza le quote di partenza delcanale e quelle previste all’arrivo in città, sistabiliva la pendenza, l’inclinazione del fon-do del canale, che doveva garantire lo scor-rere dell’acqua con la sola forza della gravità.La pendenza non doveva essere troppo ele-vata per non provocare danni alle strutture,né troppo bassa che avrebbe alterato il re-

golare flusso. Mediamente la pendenza com-portava una perdita di quota di decimetriogni chilometro di tracciato d’acquedotto.

3. I dissipatori. Si tratta di pozzi, profondi tra i5 e i 10 m, che venivano messi in opera quan-do, a causa di problemi di tracciati con pen-denze troppo elevate, i tecnici stabilivanoche il canale dovesse perdere quota rapi-damente. Non potendo avere pendenze ele-vate, per quanto detto sopra, l’acqua venivafatta cadere nei pozzi per dissipare l’ener-gia e immetterla poi di nuovo nel canale.

4. Le gallerie. Rappresentavano la tecnica prin-cipale per la conduzione dell’acqua negli ac-quedotti romani. Si passa da cunicoli, larghimeno di un metro ed alti un metro e mez-zo, a vere gallerie di oltre un metro di lar-ghezza e oltre due metri di altezza. Tutti sonorivestiti in cocciopesto impermeabile perl’altezza corrispondente alla previsione del-l’altezza di scorrimento dell’acqua e con ilpavimento costituito da un forte spessoredi malta impermeabile. Grande cura vi eranel mantenere la pendenza necessaria pergarantire il regolare flusso dell’acqua. La rea-lizzazione delle opere ipogee comportavasolo l’impiego di mano d’opera non spe-cializzata sotto il controllo del ‘direttore deilavori’ che si occupava di mantenere la giu-sta pendenza del condotto.

5. Le arcate. Laddove i cunicoli o le gallerie com-portavano un eccessiva lunghezza del trac-ciato per superare le valli, o dove vaste zonepianeggianti si interponevano tra due quo-te prestabilite dal progetto, si costruivanoponti su arcate. Gli esempi di Pont du Gard(alto 49 m), Segovia (con i suoi 28 m) o glioltre 1000 m di arcate ancora in piedi delClaudio a Roma (alto 20 m) ci danno un’ideadelle grandiosità di queste costruzioniI sifoni rovesci (sez. 3, n. 5). Questi venivanousati per oltrepassare valli troppo larghe perconsentire l’uso di ponti su arcate. L’acquaraggiungeva un crinale della valle e, passan-

do in un serbatoio di monte, veniva trasferi-ta i tubi a pressione lungo il versante.

6. Le piscine limarie. Per avere acque senzatroppe impurità, cioè una sorta di potabi-lizzazione, i costruttori romani – in consi-derazione anche della maggiore portata degliacquedotti da loro costruiti – utilizzarono ilsistema delle piscine limarie o di decanta-zione poste sia all’inizio del percorso cheverso la fine, prima che le acque raggiun-gessero il castello di distribuzione. La pi-scina poteva essere una semplice cameradi espansione del condotto, posta lungo ilsuo tracciato, oppure un serbatoio situatolateralmente, entro il quale le acque veni-vano deviate e dove in entrata depositava-no le impurità; l’acqua riprendeva poi il suocorso immettendosi nuovamente nel cana-le principale.

7. Il serbatoio terminale. Gli acquedotti rag-giungevano le città versando acqua in grandiserbatoi posti in posizione elevata dai qualipartivano le tubazioni di distribuzione a vol-te tramite serbatoi secondari. I serbatoi sonoambienti più o meno grandi con un’aperturaalta, che permetteva l’ingresso dell’acqua, euna o più aperture basse nelle quali erano in-serite, tramite un raccordo in bronzo (il ‘cali-ce’), le tubazioni. Queste passavano semprein un ambiente più piccolo, dove erano col-locate le chiavi per regolare il flusso verso leutenze. Il alcuni casi l’esterno del serbatoioterminale veniva arricchito da getti d’acqua eda una o più vasche a servizio del pubblico.Si trasformavano così in ‘fontane-mostra’ del-l’acquedotto, uso che fu ripreso in Italia neltardo Cinquecento e nel Seicento, a Roma,con le famose fontane-mostra del Mosè, delGianicolo, della fontana di Trevi ed altre.

L.L.

BibliografiaCfr. supra: L. Lombardi, Tecnologia idraulica, pp. 96-98

115

1 2 3 34

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6

6

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Profilo schematico di acquedotto (da Burdy, 2002, modificato). 1) Opera di presa; 2) lo specus 3) dissipatore; 4) Le gallerie o cunicoli; 5) le arcate;6) Il sifone rovescio con il serbatoio di partenza e quello d’arrivo; 7) piscina limaria serbatoio terminale.

Sez. 3.3 - Il sifone rovescio.

Invenzione attribuibile probabilmente ai Gre-ci d’Asia Minore, il sifone evitava il costososcavo delle gallerie o i serpeggiamenti di uncondotto a pelo libero. L’uso di questo ardi-to dispositivo idraulico comportava però al-te pressioni, sicché la parte inferiore del sifonedoveva possedere un’elevata resistenza. Perquesto motivo, a causa dei frequenti guasti edelle perdite dovute alle rotture per alta pres-sione, i sifoni vennero utilizzati raramente daiRomani, (Alatri, Aspendos, Pergamo, Alca-nadre, Almu�ecar, Angitia, Arles, Constanti-ne, Cadice, Lincoln, Lione, Rodez, Roma,Saintes, ma anche ipotizzati a Termini Ime-rese, Formia e ad Ascoli Piceno), coscientidella scarsa affidabilità rispetto all’efficaciadel canale a pendenza costante; tuttavia è pos-sibile che numerosi sifoni non siano stati iden-tificati come tali o siano stati distrutti.Questo sistema, usato per superare l’osta-colo di valli ampie e poco profonde, assumevauna forma ad U, generalmente a base piatta(è il venter di Vitruvio), sfruttando il principioscoperto da Erone secondo il quale i fluidi invasi comunicanti si portano allo stesso livel-lo (Erone, Pneumatica, I, 7).L’acqua, viaggiando a pelo libero in un cana-le, prima di affrontare l’avvallamento e la con-seguente messa in pressione, doveva perderevelocità all’interno di una vasca di carico; daqui, in tubazioni, prima superava la depres-sione e poi risaliva il versante opposto versola vasca di scarico, che era posta ad una quo-ta nettamente inferiore rispetto alla prima,considerata la perdita di pressione per attri-to. La vasca di scarico era posta a termine deltratto forzato, servendo sia a regolarne il flus-so sia ad incanalare l’acqua in una o più di-rezioni. Nel venter, come ci informa Vitruvio(De Architectura, VIII, 6, 5-9), si devono pre-disporre delle bocche di sfiato, colliquiaria ocolliviaria, attraverso cui fare uscire l’aria econtinua dicendo che “in corrispondenza deigomiti al termine del pendio e all’inizio dei trat-ti con il ventre, si inseriscano dei supporti di roc-cia rossa, forati da parte a parte, dove possanoessere inseriti l’ultimo tubo che scende dal pen-dio e il primo del tratto col ventre. Si segua lastessa procedura in corrispondenza del puntodi risalita. In tal modo, il piano livellato della

conduttura non subirà nessuna sollecitazionedallo scorrimento e dalla pressione dell’acqua.Infatti, solitamente, quando si fa scorrere l’ac-qua nelle tubazioni si genera inizialmente unaforte sacca d’aria,che può anche spaccare lapietra, e di conseguenza è opportuno che l’ac-qua venga immessa dalla sorgente gradual-mente e senza forza e si fissino saldamente alsuolo e si zavorrino i gomiti e le curvature […]Prima di introdurre per la prima volta dell’ac-qua nelle tubature, è anche bene introdurviuna quantità di cenere sufficiente a otturareeventuali fessure rimaste».A tale scopo, lungo il percorso del ‘tratto for-zato’ venivano inserite delle torri piezometri-che che smorzavano gli effetti del ‘colpod’ariete’ ovvero l’innalzamento della pressio-ne in un tubo dovuto all’arresto improvvisodel flusso dell’acqua. Per quanto riguarda ilmateriale utilizzato non possiamo affermarecon sicurezza se fossero preferite le condot-te in pietra, in piombo o in terracotta, maspesso si conoscono condotte forzate in cuisi combinano i diversi materiali (pietra e ter-racotta, pietra e piombo) per sfruttare al me-glio la loro peculiarità meccanica. Poco noti, ma attestati, sono i sifoni ‘in mu-ratura’. L’acquedotto romano di Angitia, se-condo il Giovannoni (Giovannoni 1935, p. 63e ss.) presenta uno di questi particolari sifo-ni. Costruito in calcestruzzo è rivestito inter-namente in opera reticolata e cocciopestomentre esternamente è foderato da grossiblocchi poligonali di pietra calcarea. Potevaresistere ad una pressione di circa 2 atmo-sfere data dal dislivello di 20 metri che vi eratra il serbatoio terminale e il fondo valle. Uno degli esempi più chiari della capacità tec-nica dei Romani nella costruzione di sifoni èl’acquedotto costruito sotto l’impero di Clau-dio nella sua città natale, Lione. Esso vennecostruito parte a pelo libero e parte a sifonerovescio. Il sifone riusciva ad attraversare trevallate, la prima delle quali aveva una pro-

fondità di circa 64 m e la seconda di circa 97m; i tubi erano di piombo e l’intera portatadell’acquedotto a pelo libero fu suddivisa innon meno di 9 tubi, paralleli tra loro, la cuilunghezza raggiungeva almeno i 775 m attra-versando la valle di Soucieux e Chaponost.

G.P.

Bibliografia:Il trionfo dell’acqua 1986, p. 334; Adam 1994; Belve-dere 1986; Burdy 2002; Chevallier 1993; Giovannoni1935, p. 63 ss.; Hodge 1983; Lanciani 1975; Oleson2008, p.293 ss.; Singer et al. 1956, pp. 679 e ss.; Tol-le-Kastenbein 1993, p. 89 ss.; Verrengia 2000.

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Sez. 3.4a.b - Rubinetto e valvola

Originali in bronzo (2)Materiale: bronzoMisure: cm 32 x 4,20 x 10 e 40 x 31Provenienza originale: da Roma Cronologia: età imperialeLuogo di conservazione: Roma, Antiquarium Comu-nale al Celio; Inv. nn. 31040 e 23515

I rubinetti di epoca romana erano realizzati es-senzialmente in bronzo, con una lega (rame74%, piombo 19%, stagno 7%) che assicuravaduttilità in lavorazione, resistenza alla corrosio-ne e scarso attrito.Essi erano composti da due elementi, il corpoed il maschio.Il primo è costituito da un cilindro cavo in bron-zo, dai bordi (superiore ed inferiore) rinforzati,essendo in leggero aggetto (nella figura, in ros-so); dopo la tornitura interna il foro di base delcilindro veniva richiuso con un tappo (nella fi-gura, in ciano).Il corpo era forato orizzontalmente da parte aparte ed in corrispondenza di questi fori veni-vano applicati due corti tubi, denominati tron-chetti (nella figura, in verde): essi permettevanol’inserimento della valvola nella tubazione plum-bea. All’interno del corpo veniva inserito il ma-schio, un elemento forato cilindrico otronco-conico che ruotando su sé stesso per-metteva o arrestava il flusso (nella figura, in blu). La pressione dell’acqua all’interno del rubinet-to esercitava una forza che tendeva a sollevareed espellere il maschio dal corpo: per questomotivo furono utilizzati due diversi sistemi diritegno, differenziati in rapporto alla grandezzadella valvola in conseguenza della maggiorespinta totale da equilibrare (= pressione x areadel rubinetto).Il maschio presenta sempre un solco lungo tut-ta la sua circonferenza, realizzato al tornio: neirubinetti più piccoli, bastava colpire con un pun-teruolo l’esterno del corpo per deformare la su-perficie interna all’interno del solco del maschioed assicurarne la tenuta (Fassitelli 1972, p.18).Nei grandi rubinetti, sottoposti ad una mag-giore pressione, questo sistema era insufficiente:per questo motivo, presumibilmente (ipotesi diKretzschmer 1960, p. 93), l’incastro era assicu-rato da una sporgenza che, correndo lungo l’in-tera circonferenza del corpo, si incassava nelsolco del maschio. Tutti gli elementi costitutivi dei rubinetti eranoottenuti a stampo ed ulteriormente lavorati altornio (alesatura). L’ottima qualità della fattura

è dimostrata dall’esilità delle pareti e dalla per-fetta corrispondenza tra i profili del maschio edella cavità interna al corpo (con una precisio-ne nell’ordine dei decimi di millimetro): erroriin tornitura avrebbero compromesso la tenutadel rubinetto rendendolo inutilizzabile, causandoinfiltrazioni d’acqua tra corpo e maschio conconseguente fuoriuscita. Il rubinetto era manovrabile tramite una presaconnessa al maschio, che poteva assumere va-rie forme: la più comune è il cosiddetto ‘castel-lo’, un elemento quadrangolare cavo azionabiletramite una sbarra da inserire all’interno. La fac-cia superiore del castello presenta spesso dueo tre cerchi incisi, tracciati o in lavorazione, infase di centratura del pezzo su tornio o suc-cessivamente, in fase di collaudo, per verificarela bontà dell’asse di rotazione.Altri esemplari presentano sull’estremità delmaschio decorazioni plastiche, come galli(esemplare da Vindonissa) o teste di mon-tone (sembra, infatti, che la parola mordena‘rubinetto’ provenga dal francese antico ro-bin, ariete); si ritrovano anche estremità adanello (Napoli, Museo Archeologico Nazio-nale) o semplici maniglie (maschio da Alise-Sainte-Reine).L’uso del ‘castello’ è d’obbligo nelle valvole digrandi dimensioni, difficilmente manovrabili acausa dell’enorme pressione; prese decorative,invece, caratterizzano perlopiù gli esemplari mi-nori. Le valvole, a secondo dell’utilizzo, vengo-no distinte in valvole di comunicazione eterminali.Le prime si trovavano al centro di un condottoe servivano a regolare la distribuzione, devian-do i flussi d’acqua (aprendo o chiudendo le ca-nalizzazioni principali) e riducendo o ampliandola sezione (e dunque la portata) del tubo ovepassava l’acqua. Le loro dimensioni variavanoin rapporto al loro campo di applicazione: esem-plari di grandi dimensioni erano utilizzate per-lopiù nelle reti di distribuzione dell’acqua, inparticolare nei complessi sistemi di tubazioni evalvole che regolamentavano, nelle città, le di-stribuzioni idriche ad orario. Esemplari più pic-coli erano molto frequenti all’interno delleabitazioni private: nelle ville pompeiane, ad esem-pio, ricorrono spesso piccoli impianti idrici ca-ratterizzati dall’uso di cassette di distribuzioneda cui si dipartono tre o più tubazioni, ognunaregolata da una valvola.Le valvole terminali, invece, determinavano lafuoriuscita o l’arresto dell’acqua da una con-dotta giunta al termine; la tubazione, tuttavia

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Elementi costitutividi un rubinetto: il corpo (in rosso), il maschio (in blu), i tronchetti (in verde)ed il tappo (in ciano)(elab. di A.Blanco su rilievo di Ucelli1950)

Vista laterale di un valvola “ad angolo retto” (da Kretzschmer1960)

poteva prolungarsi di uno o due metri dopo ilrubinetto, come accade, ad esempio, nelle fon-tane a zampillo (v. sez. 3, n. 5).Le dimensioni di questi rubinetti erano perlo-più modeste, mentre sono varie le forme e ledecorazioni: farebbero eccezione solo le dueenormi valvole provenienti da Ostia e da Pon-za che, secondo l’ipotesi di Fassitelli, potevanoessere utilizzate in posizione terminale per as-sicurare il rifornimento idrico delle navi nei por-ti. Un rubinetto proveniente da Pompei ha unaconformazione particolare, essendo applicatoa muro e dovendo riempire la vasca sottostan-te: ha infatti, una conformazione ‘ad angolo ret-to’ ed è privo di un tronchetto e del tappoinferiore del corpo. Da Arae Flaviae e Petinesca provengono i restidi due rubinetti alternativi: erano delle valvoleconnesse a due tubazioni, che potevano, tra-mite uno sbocco detto epitonium, o erogare ac-qua fredda, o acqua calda o arrestare il flusso.La miscelazione, dunque, non avveniva nel ru-binetto (come accade oggi) ma direttamentenella vasca.Per analogia di funzioni si deve accennare, inquesta sede, anche alle valvole di svuotamen-to, elementi bronzei applicati al termine delletubazioni plumbee: dovendo consentire soltantol’apertura o la chiusura del flusso senza dover-lo regolare, il loro funzionamento era totalmentediverso da quello dei rubinetti, essendo basatosu un tappo collegato ad una cerniera.

A. B.

BibliografiaBalty, J.C., Vestiges de robinetterie romaine, in Revuearchéologique de l’Est. Du paléolithique au moyenâge, 13, 1962, pp. 277-288; Fassitelli 1972;Kretzschmer 1960; Lebel, P., Vestiges de robinetterieromaine, in Revue archéologique de l’Est. Du paléoli-thique au moyen âge, 16, 1965, pp. 259-273; TalamoE., Materiali relativi ad alcuni impianti idraulici anti-chi provenienti da Roma, in “Il Trionfo dell’acqua.Acque e acquedotti a Roma IV sec.-XX”, Roma 1986,p. 165 e ss.; Tölle-Kastenbein 1993; Ucelli 1950.

Sez. 3.5 - Ninfeo-fontana-castelloterminale dell’acqua Claudia: il Nymphaeum Alexandri(c.d. ‘I Trofei di Mario’)

Collocazione: Roma, Piazza Vittorio Emanuele IIRicostruzione virtuale di: Henrique Rossi Zambotti

Inserito in uno spazio trapezoidale (m 25 x 15)alla biforcazione di due strade antiche, le vie Ti-burtina o Collatina Vetus e la via Labicana, sitrova attualmente all’interno dei giardini di Piaz-za Vittorio Emanuele II a Roma. La quota delcondotto che alimentava il Castellum si collo-ca a m 62,28 s.l.m., quota compatibile solo coni due acquedotti più alti che passano su PortaMaggiore: l’acqua Claudia e l’Anio Novus. Il ninfeo, con funzioni anche di fontana e di ca-stello terminale di distribuzione, in opera lateri-zia in origine rivestita di marmo, venne costruitoda Alessandro Severo (222-235) nel punto più

alto della parte orientale di Roma,l’Esquilino: hala facciata leggermente concava e consta di cin-que livelli; riceveva acqua da una derivazione dalcastellum dell’Anio Novus, miscelata con unaparte dell’acqua Claudia.Il canale dell’acquedotto, su arcuazioni alte m9,85 dal piano attuale, tramite una curva ad Ssi connetteva al ninfeo/fontana sul lato destroposteriore e trasferiva l’acqua a due canali chea loro volta ne alimentavano altri tre, con untotale di cinque canali di grandi dimensioni (m0,50 x m 0,70). I canali avevano le uscite chiu-se da muri muniti di calici nei quali erano col-legate fistule che alimentavano la grande fontanaalta in quota – la fontana di Oceano - e due fon-tane laterali di cui non vi è più traccia. I canalifunzionavano tramite il loro riempimento a li-vello costante che permetteva l’uscita dell’ac-qua dalle fistule con getti in pressione.Il livello costante era mantenuto da due scari-chi di troppo pieno, localizzati in due punti sim-

Valvola di svuotamento (da Tölle-Kastenbein 1993).

metrici lungo i canali del livello superiore. Gliscarichi alimentavano grandi tubazioni di cuinon si sono trovate tracce, ma che G.B. Pira-nesi, nel suo studio del 1761, ha individuato agliangoli destro e sinistro del corpo di muraturacentrale che contiene l’arrivo dell’acquedotto.Al livello intermedio l’acqua, contenuta nellegrandi tubazioni, veniva gestita con chiavi dimanovra o grandi rubinetti per alimentare dif-ferenti sbocchi d’acqua:- due tubazioni di grande diametro, una perogni lato del ninfeo, uscivano dal monumentoper alimentare utenze lontane (allo stato del-le conoscenze, sconosciute) servite a pres-sione;

- tre dissipatori di energia, che trasferivano l’ac-qua al livello più basso.

- due corti canali che si immettevano nel dissi-patore centrale; questi erano probabilmenteusati quando si doveva interrompere il flussonelle due tubazioni che uscivano dal ninfeo.

La diffusa e imponente presenza di incrosta-zioni denota che per un lungo periodo di tem-po l’acqua ha continuato ad alimentare ilmonumento.La sezione che si propone e le ricostruzioni vir-tuali permettono di capire i complessi mecca-nismi idraulici che consentivano la gestione diquesta macchina.L’ambiente A era pertanto la camera di mano-vra per la scenografia prevista dal progetto.È possibile, anche se Lanciani non ha trovatofistule e tubi, che una parte o tutta l’acqua ve-nisse poi usata per alimentare altre utenze. Loscarico generale del ninfeo doveva trovarsi ailati dell’ambiente B ove si hanno due canali cheescono dalla struttura.Per la ricostruzione dell’aspetto originario del-la fontana sono state utilizzate le monete diAlessandro Severo e le parti disegnate dal Pi-ranesi, dal Garnaud e dal Parker, che possonorisultare oggi accettabili, anche se non più vi-sibili.

L.L. - G.P.S.

BibliografiaAshby 1991; Chanson 2000; Chanson 2001, pp. 1-9;Fernandez Casado 1985; Garnaud 1977; Gonzales Tas-con 2004; Lombardi, Coates-Stefhens 2005; Lombar-di, Corazza 1995; Lombardi, Pisani Sartorio 2009 c.s.;Mancioli, Pisani Sartorio 2001; Piranesi 1761;TedeschiGrisanti 1977; Tedeschi Grisanti 1985, pp. 487-501; Te-deschi Grisanti 1992, pp. 59-72; Tedeschi Grisanti 1996,pp. 351-352, figg. 217-218 (con bibl. precedente); Te-deschi Grisanti 2001, pp. 51-55;Ventura Villanueva 1996;Ventura Villanueva 1993.

Sez. 3.6 - Funzionamento acquecalde/fredde per le terme

La conduzione, il riscaldamento e la misce-lazione dell’acqua negli ambienti termali hamodalità che variano a seconda delle epoche.Rispetto ai più antichi impianti greci (dovel’acqua veniva riscaldata in recipienti metal-lici posti su bracieri e da qui versata nelle va-sche) gli esempi noti di epoca romanamostrano generalmente sistemi più evoluti,anche se, a causa della spoliazione postanti-ca dei metalli, sono pochi i contesti che han-no conservato impianti idrici intatti o recipientilegati al riscaldamento dell’acqua; le fonti let-terarie e ritrovamenti anche decontestualiz-zati colmano, seppur parzialmente, questovuoto.Vitruvio (De Architectura, V, 10, 1) già in epo-ca augustea, descrive accuratamente le prin-cipali modalità di riscaldamento artificialedell’acqua in ambito termale: questo sistemasi basava sulla giustapposizione di tre reci-pienti metallici (definiti caldarium, tepidariume frigidarium) sul canale esterno del praefur-nium (e dunque direttamente al di sopra delfuoco) collegati in maniera tale che, ad ogniuso, l’acqua passasse dal primo recipiente alsecondo e dal secondo al terzo. Evidente-mente, la temperatura raggiungibile con que-sto sistema era influenzata dalla grandezzadelle fornaci, dalla capacità e dalle propor-zioni dei tre recipienti e dal tempo di stazio-namento dell’acqua nelle caldaie. L’esistenza di diverse tipologie di caldaie dif-ferenziate per forma - di cui due sono defini-te dracones et miliaria - è attestato, per il I sec.d. C., da un passo di Seneca (Quaestiones Na-turales, III, 24): il funzionamento descritto(strutture con tubi a spirale posti direttamentea contatto con il fuoco) deve essere attribui-to probabilmente solo ai dracones e e potrebbetrovare una testimonianza archeologica in dueelementi idraulici rinvenuti a Pompei (Fassi-telli 1972, pp. 78 e 86).I miliaria, invece, dovevano essere dei sem-plici recipienti cilindrici (Bouet 2004, pp. 218-221 e tavv. III-V; Talamo 1993, p. 290 e 292;Yegül 1992, pp. 373-4 e figg. 471-472; Nielsen1990, p. 16, nota 32 e fig. 26; Degbomont1984, p. 78-79, figg. 119-122; p. 85, figg. 137-139) collocati, con diverse modalità, al di so-pra di una fornace. Pochi gli esemplaririnvenuti in buono stato (Boscoreale, Volubi-

lis, Tebessa), mentre più numerosi sono iframmenti, anche iscritti (Tomei 2006, pp.50-51) ed i fondi. Erano costituite da varie la-stre fuse separatamente, prima collegate conribattini, poi impermeabilizzate con saldatu-re a piombo e stagnature; la parte superioreera aperta e provvista di coperchio mobile(anche in terracotta, come a Boscoreale: Bo-uet 2004, p. 220).Erano generalmente in bronzo, ma sono no-ti esemplari o in piombo oppure bronzei nel-la parte inferiore (esposta al fuoco) e plumbeinella superiore; il loro diametro variava da 33cm (fondo di Tolosa) a 2,30 m (Aventicum). La migliore testimonianza archeologica di unimpianto di riscaldamento completo provie-ne dalla villa della Pisanella di Boscoreale (v.sez. 3.10)Nella casa di Diomede a Pompei si rinven-nero, al di sopra della fornace, due recipien-ti comunicanti sovrapposti (e nongiustapposti), evidentemente d’acqua tiepi-da (in alto) e calda (in basso): questa varian-te del sistema vitruviano è, in realtà, lamodalità più attestata archeologicamente.Un’altra particolare installazione legata al ri-scaldamento dell’acqua era la testudo alvei(oltre all’esemplare dell’Esquilino, la testudoè conosciuta soltanto da pochi esempi, pro-venienti dalle Terme Stabiane di Pompei, daBoscoreale, da Cuicul, da Banasa, da Argo,da Künzig, da Clambetae e da Zugmantel);era un ‘recipiente’ bronzeo semicilindrico (dacui il nome di ‘testuggine’) collocato nel sot-tarco del praefurnium (la posizione interna ri-spetto alla vasca serviva altresì ad evitare agliutenti il contatto diretto con il metallo rovente)- e dunque esposto direttamente alle fiammedella fornace – al cui interno penetrava l’ac-qua della vasca (alveus): il metallo, arroven-tandosi, creava naturalmente un motoconvettivo che assicurava l’omogeneo e con-tinuo riscaldamento dell’acqua. Un esemplarein ottimo stato è stato rinvenuto in situ dalLanciani nel 1886 sull’Esquilino (conservatoall’Antiquarium Comunale del Celio).Caldaie e testudo risultano spesso associatenello stesso praefurnium (in questo caso si par-la di ‘installazione completa’): generalmentele prime riscaldavano l’acqua, mentre la se-conda aveva il compito di mantenere costan-te la temperatura dell’acqua presente nellavasca. Le installazioni complete ricorrono neibalnea privati, mentre è poco probabile rico-struire un loro uso esclusivo negli impianti ter-

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mali, dove sono presenti più vasche e persinopiscine riscaldate: qui si rinvengono, di con-seguenza, diverse combinazioni complemen-tari tra loro – fornaci dotate o solo di miliariao solo di testudo o di entrambe- con scelte in-fluenzate dalla capacità delle vasche, dalla lo-ro gestione idrica (ricambio continuo d’acqua,rinnovo più volte al giorno o cambio quoti-diano) e conseguentemente dai costi.La miscelazione di acqua calda e fredda era,in genere, affidata al personale di servizio eregolabile tramite un complesso intreccio ditubazioni e rubinetti, conservatisi esclusiva-mente a Boscoreale; il ritrovamento non in si-tu, tuttavia, di rubinetti alternativi testimonia,in altri contesti, la possibilità, per i bagnanti,di poter miscelare acqua calda e fredda di-rettamente dall’interno della vasca. Un’ultima modalità di riscaldamento dell’ac-qua è attestata in alcune piscinae calidae, col-locabili intorno alla seconda metà del I sec.d. C.: queste strutture presentavano un pavi-mento (suspensura) rialzato su pilastrini, ri-scaldato da una fornace collocata al centrodell’ipocausto, raggiungibile ed alimentabiledal personale di servizio attraverso un corri-doio ipogeo. Nel pavimento della piscina eraincassato, al di sopra della fornace, un baci-no metallico circolare definito ‘samovar’ che,analogamente alla testudo, si arroventava eriscaldava l’acqua per irradiazione. Il miglio-re esempio di questi calderoni bronzei si tro-va nelle Terme Suburbane di Ercolano(diametro 210 cm, prof. 40 cm) ed è dotatodi un umbilicus centrale. Nella letteratura archeologica sono noti an-che calderoni bronzei di forma rettangolare,che essendo sviluppati più in ampiezza chein altezza (Roma, Antiquarium Comunale delCelio), potevano essere analoghi ai samovar:se ne conoscono uno dall’Esquilino (cm 183x 148 x 33) ed uno da Tebessa (cm 130x 130).Esistono altresì varianti minori dei samovar,

collocati al centro di vasche dei calidaria: ilprimo (diam. 30 cm) è sito presso S. Ceciliain Trastevere (Parmigiani, Pronti 2004), il se-condo (diam. 20 cm) nella villa rustica in con-trada Crappulla a Pompei (Fabbricotti 1976).

A.B.

BibliografiaBouet A., Les thermes privés et publics en Gaule Narbon-naise,Rome 2004, pp. 212-233; Fabbricotti 1976; Fassitelli1972; Mandersheid H., Greek and Roman Baths, in Wi-kander 2000; Messineo G., Piscinae calidae, in RPAA, 74,2001-2002; Parmigiani, Pronti 2004; Talamo E., Elemen-ti idraulici nelle raccolte dell’Antiquarium, in BCom 95,1993; Talamo E., Materiali relativi ad alcuni impianti idrau-lici antichi provenienti da Roma, in ‘Il Trionfo dell’acqua.Acque e acquedotti a Roma IV sec.-XX’, Roma 1986, p.165 e ss.; Yegül 1991, pp. 373-377.

Sez. 3.7 - Piccole terme della villadella Pisanella a Boscoreale

Plastico: Roma, Museo della Civiltà Romana, inv. n.3940

La migliore testimonianza archeologica di unimpianto di riscaldamento completo provienedalla villa della Pisanella di Boscoreale, uno deimolti insediamenti produttivi databile agli inizidel I sec. a.C. del suburbio nord-pompeiano, sca-vato da A. Pasqui nel 1896.Dalla cucina un’entrata immetteva nel locale delpraefurnium. Essa apriva sulla parete sinistra del-l’entrata, in vicinanza del recipiente di piomboper la distribuzione dell’acqua. La stanza delprae-furnium era molto piccola per dar luogo all’ipo-causto, nel quale si diffondeva il calore prodottodal fornello che serviva per il riscaldamento del-l’acqua. La stanza dell’ipocausto si raggiungevamediante cinque scalini, gli ultimi due occupa-vano parte del piano fino al contatto con la boc-ca del fornello. Questo era costituito da un recintoquadrilatero di muratura rozza, con bocca qua-drata, sopra al quale si trovava impostata la mu-ratura cilindrica, che fasciava la parte inferioredella grande caldaia (miliarium). Il miliarium eracostituito da due grandi lastre di piombo, checomponevano due cilindri, uno sull’altro mon-tati per mezzo di sutura a martello con basebronzea (diam. 58 cm, h. 192 cm, capacità mas-sima 507 litri, Napoli, Museo Archeologico Na-zionale). Quasi a metà della sua altezza eranoimmessi i tubi di piombo in tre diversi ordini,con il compito di condurre l’acqua fredda e to-gliere l’acqua calda a seconda delle necessità.Sul fondo si trovava il tubo scaricatore che eraregolato da chiave di bronzo. La caldaia, lo spe-co e l’alveo erano in comunicazione con il for-

Installazione completa da Saalburg(da Yegül 1991)

Tipi di caldaie (da Degbomont 1984)

nello per mantenere l’acqua del grande labrumad un grado costante di calore. Una piccola aper-tura ad arco metteva in comunicazione il prae-furnium con l’hypocaustum, in modo che daquello le fiamme potessero circolare verso il la-brum attratto dal tiraggio che offrivano i vuoti trale pareti dell’hypocaustum. A sostegno della va-sca furono fatti due muretti a mattoni, attraver-sati da sbarre di ferro sulle quali poggiavano letavole di terracotta. Al centro della vasca di apri-va lo speco semicircolare, a cui era adattato unalveo di bronzo a grosse pareti, in forma cilin-drica e chiuso verso il fornello da un fondo emi-sferico. L’alveo era fissato sulla bocca della vascaattraverso una grande lastra di piombo, che siincastrava superiormente fra la muratura e le te-gulae mammatae di cui era rivestito l’ipocausto,mentre lo speco nella parte che sporgeva versoil forno era appoggiato a quattro sbarre di ferro.La fiamma alimentata nella bocca del fornello,investiva il fondo del miliarium, lo speco di bron-zo e parte del fondo della vasca, mantenendoallo stesso grado di calore l’acqua dei vari reci-pienti. L’acqua dai compluvi si raccoglieva nel-l’unica cisterna del portico, e presso questa, nelpilastro d’angolo era collocata una cassetta dipiombo. L’acqua veniva attinta per mezzo di unacarrucola e di un secchio, ed era versata nellamedesima cassetta, formata da una lastra dipiombo ritagliata negli angoli e con i fianchi rial-zati e congiunti mediante suture a martello inmodo da formare un recipente rettangolare. Lacassetta era in comunicazione con il serbatoiodella cucina, situata a un livello più basso di mo-do che il tubo scendeva lungo il pilastro, per-correva sottoterra il lato sinistro della cucina e

risaliva alla sommità del recipiente. Da questosi riempiva la grande caldaia, e poteva passaredirettamene l’acqua fredda alla vasca o al bagnoper le abluzioni (labrum) situato nella grandenicchia del calidarium. Se si voleva acqua calda,grazie ad uno speciale congegno di chiavi la sitraeva direttamente dalla caldaia, sia nella vascache nel bacino. Per questo motivo il fondo delgrande serbatoio della cucina, e nel lato in cuiesso era addossato al muro tra la cucina e il pre-furnio erano saldati ad uno stesso livello tre tu-bi di piombo.Il primo era regolato da una chiave di bronzo emetteva direttamente entro la caldaia, riem-piendola di acqua fredda. Il secondo tubo, chesi trovava nel mezzo, avvicinandosi alla calda-ia si divideva in due rami,uno munito di chiavenel punto della biforcazione, girava intorno al-la caldaia, entrandovi poco sopra la sutura;l’latro, munito di propria chiave, girava intorno

alla caldaia e penetrava nel muro per portarel’acqua al bacino delle abluzioni (labrum). Il ter-zo tubo, avvicinandosi alla caldaia, si dividevaanch’esso in due rami, il più basso dei quali en-trava nella caldaia attraverso la muratura; l’al-tro girava dietro la caldaia e metteva nella vasca.Anche questo tubo aveva una chiave a metà deltratto principale e una seconda nel punto di bi-forcazione che metteva nella caldaia. Il sistemadi chiavi permetteva di scegliere la temperatu-ra dell’acqua: volendo riempire la caldaia di ac-qua fredda bastava girare la chiave del primo

tubo, per mandare l’acqua fredda nel bacino ba-stava aprire la prima chiave del secondo tubotenendo chiusa la seconda del tubo stesso, vo-lendo invece avere acqua calda si chiudeva laprima chiave del secondo tubo e si apriva la se-conda. Lo stesso procedimento per l’acqua del-la vasca da bagno.Trattandosi di una villa privata l’impianto dellaVilla Pisanella disponeva di una modesta quan-tità d’acqua, specialmente se paragonata allegrandi terme imperiali dove i serbatoi posti suiforni erano più di uno e contenevano molte mi-gliaia di metri cubi d’acqua ciascuno.

A.Z.P.

BibliografiaFabricotti 1976, pp. 45-46; Pasqui 1976; Kretzschmer1960; Yegül 1991, pp.373-377.

121120

L’impianto per riscaldamento delle acque delle terme della villa di Boscoreale (da Yegül 1991)

Sistema di miscelazione di acqua caldae fredda da Boscoreale; in arancione

l’acqua, ormai miscelata, diretta al labrum e all’alveus

(rielaborazione di A. Blanco daKretzschmer 1960)

La pompa pneumatica di Ctesibio

(Wikander 2000)

Sez. 3.8

3.8a - La pompa pneumatica diCtesibio

L’invenzione dell’organo idraulico è attribui-ta a Ctesibio (III sec. a.C.), il quale avrebbesfruttato come elemento motore dello stru-mento musicale quella che Vitruvio (De Ar-chitectura 10, 7.1) chiama “Ctesibica machina”,una pompa pneumatica che originariamentepermetteva di trasferire acqua da un serba-toio inferiore ad uno superiore sfruttando laforza di compressione dell’aria, in seguitovenne sfruttata anche per scopi diversi. Tut-te le opere di Ctesibio sono andate perdute,quel poco che si conosce lo si deve soprat-tutto ad Erone e Vitruvio, che descrive nel det-taglio la pompa pneumatica:La pompa deve essere realizzata in rame, lasua parte inferiore presenta due cilindri (mo-dioli) di uguale dimensione posti a poca di-stanza l’uno dall’altro, entrambi collegati adue tubi (fistulae) che si riuniscono a forcel-la (fistulas forcellae) confluendo in un serba-toio centrale (medium catinum).Le bocche superiori dei tubi erano chiuse davalvole (asses), le quali dovevano impedire laridiscesa dell’acqua, mentre nella parte su-periore il serbatoio era chiuso da una “cap-pa”(paenula) ad imbuto rovescio congiuntacon un perno (fibulam) per evitare il solle-vamento dovuto alla pressione dell’acquapompata. In alto la cappa presentava un tu-bo chiamato tuba che si estendeva in altez-za, mentre delle valvole chiudevano anche leaperture inferiori dei tubi. Dall’alto nei cilin-dri si introducevano i pistoni (emboli) lavo-rati al tornio (torno politi) e unti ad olio (oleo

subacti), azionati tramite leve e bastoni; quan-do i pistoni entravano in azione, la forza del-l’aria compressa convogliava l’acqua primanel serbatoio e successivamente nella tuba,permettendo dunque di pompare l’acqua ver-so l’alto. La modernità di tale macchina è da-ta da diversi fattori,in primo luogo i pistonisono estremamente simili a quelli odierni,prevedevano una lavorazione complessa edaccurata per poter lavorare in maniera cor-retta, ed inoltre lavoravano in moto alterna-to, rappresentando dunque dei veri e propripistoni differenziali. Fondamentale è anchela presenza di valvole, le quali evitavano il re-flusso dell’acqua chiudendosi a causa dellaspinta di aria ed acqua.

S.G.

3.8b - Pompa idraulica

Originale: Roma, Antiquarium Comunale (4 pezzi)Materiale: bronzoProvenienza: da un acquisto del 1892Luogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, nn. inv. 31035-31036, 31038, 31045Ricostruzione: sulla base dei frammentidell’Antiquarium, dei disegni della pompa di Eronee di altri esemplari.

La pompa idraulica è costituita da vari ele-menti in bronzo fusi separatamente a cerapersa. L’invenzione di questo meccanismo sideve a Ctesibio, secondo le notizie fornitecida Vitruvio (De Architectura, 10, 7), il qualemodificando la pompa a stantuffo e cilindrine crea una a singolo stantuffo, la c.d. pom-pa aspirante-premente. Essa funzionava, co-me la pompa a due cilindri, in base alla leggefisica: la pressione di un fluido è uguale sututti i punti (a meno del carico idrostatico do-vuto alla forza di gravità) e può quindi esse-re utilizzata per muovere oggetti, come unostantuffo, lungo una direzione guidata.Lo stantuffo, alzandosi e abbassandosi nelcilindro grazie a una forza (umana o anima-le) applicata attraverso il movimento diun’asta, grazie all’apertura e chiusura di val-vole attuava il seguente processo: nella cor-sa di aspirazione dello stantuffo, ladepressione apriva la valvola di aspirazionee l’acqua veniva aspirata dal serbatoio infe-riore; nella corsa di pressione dello stantuf-fo la valvola aspirante si chiudeva e l’acquaveniva trasferita dal cilindro nel serbatoio su-periore (per essere poi immessa per esem-pio in una condotta forzata).

Questi sistemi avevano comunque il proble-ma di una certa discontinuità nella portatadell’acqua. Gli ingegneri romani ne miglioreranno le pre-stazioni aggiungendo alla pompa a doppiostantuffo una camera d’aria compressa neltratto forzato; lo stesso Vitruvio (De Archi-tectura 10, 7,1) procede in una descrizionemolto dettagliata seguendone il processo perla sua costruzione.In questo caso, vista la dimensione, per il suofunzionamento era essenziale l’immersionedella pompa in una vasca colma d’acqua, conl’impiego di almeno 5 o 6 persone per lo spo-stamento del perno metallico e dei due pi-stoni ad esso collegato che permettevanol’aspirazione del liquido.Sembrerebbe evidente l’uso della pompa co-me idrante: lo stesso Erone (Pneumatica I,28) la indica per lo spegnimento di incendima, recentemente, diversi autori ritengono

Funzionamento della pompa idraulica (da Tolle-

Kastenbein 1993, p. 198)

Pompa dell’Antiquarium Comunale di Roma (da

Talamo, Usai 1987)

che le possibilità di sfruttamento di una pom-pa a pressione siano molto più numerose.È di Russo l’ipotesi che alcuni di questi esem-plari avessero la funzione di incendiare piut-tosto che spegnerli gli incendi, venendoutilizzati come una sorta di lanciafiamme mo-derno; erano quindi alla base di un’antica ar-ma conosciuta come ‘fuoco marino’, questaipotesi potrebbe chiarire, forse, le ridotte di-mensioni di un paio di esemplari provenien-ti da Bolsena ed oggi conservati al BritishMuseum, mentre la Tolle-Kanstenbein ritie-ne questo meccanismo indispensabile per ilfunzionamento dell’organo idraulico, di cuidiviene elemento costitutivo (v. sez. 11, n. 8). Diversi sono gli esemplari conosciuti di pom-pe idrauliche oltre a quella conservata all’An-tiquarium Comunale: Silchester, Bolsena,Sotiel-Coronada, Museo di Metz, Vatica-no(oggi dispersa), Milano, Lione, Perigeux,tutte sono giunte a noi frammentarie, ma gra-ficamente ricostruibili interamente sia sullabase di confronti tra loro sia sulla scorta di al-cuni disegni su manoscritti (come quello diErone, conservato nella Biblioteca Marcianadi Venezia). Il materiale con cui erano costruiteera generalmente il bronzo, ma si conosco-no esemplari a nord delle Alpi, per es. Sil-chester, dove le pompe erano fabbricate conassi di legno di quercia, gli stantuffi e le varierondelle erano anch’essi in legno, le valvolee le guarnizioni in genere erano formate dalembi di pelle mentre i cilindri venivano rive-stiti in piombo (Stein 2007; Savay Guerraz2007).Oltre che come idrante oppure come arma(lanciafiamme). La pompa poteva essere usa-ta ovviamente per il funzionamento degli or-gani idraulici o per l’innalzamento dell’acquadai pozzi.

G.P.

Bibliografia Antico Gallina 1997, pp. 71-90; Canella G., Luperi N.,Pastorino R., Pedicelli Canella G., Luperi N., Pastori-no R., Pedicelli L., Indagini non distruttive su una pom-pa idraulica in bronzo d’epoca romana dell’antiquariumComunale, in Il trionfo dell’acqua: acque e acquedottia Roma, Roma 1986; Casado Carlos 1983, pp. 630-633;Fassitelli 1972; Guitard i Duran 2007, pp. 33-49; Ole-son 1984; Russo 2004; Savay Guerraz 2007, pp. 19-31; Schiøler 1980; Schiøler 1986; Stein 2004; Stein2007; pp. 7-17; Talamo, Usai 1987; Tolle-Kastenbein1993, p. 43; pp. 197 e ss.; Ucelli 1950, pp. 181-184 e pp.195-197; Vitruvius, De Architectura, 10, 7; Wikander2000.

Sez. 3.9 - Ricostruzionesperimentale di una pomparomana di sentina del tipo abindolo presso il Museo del Maree della Navigazione Antica (Santa Severa, Roma)

Ricostruzione al vero presso il Laboratorio diArcheologia Navale del Museo Civico di SantaMarinella, sito nel luogo dell’antica Pyrgi nelCastello di Santa SeveraRicostruzione: M. Palmieri.

Si tratta, più che di una vera e propria ‘pom-pa’ di un sistema di sollevamento dell’acqua,in quanto non si produceva un innalzamen-to di pressione ma solo lo spostamento delliquido dal basso verso l’alto.Il modello costituisce un interessante esem-pio di ricostruzione di una macchina idraulicaantica, utile per verificarne sperimentalmenteil metodo di fabbricazione, il funzionamentoe le relative prestazioni. Il lavoro è iniziato con la ricognizione dei cir-ca sessanta ritrovamenti attribuibili ai resti diantichi apparati di sentina, noti nel Mediter-raneo, quasi tutti di epoca romana. Per quan-to riguarda i casi certamente riferibili a pompedel tipo a bindolo i reperti segnalano l’esi-stenza di diversi modelli con variabili tecnichee costruttive esistiti in un arco di tempo com-preso almeno tra il II secolo a.C. ed il VI se-colo d.C. In particolare gli elementi forniti dairesti rinvenuti sulle navi di Cap Gros, Los Ul-lastres, Laurons 2, Ile Rousse, Nemi e Ponzasono risultati di grande interesse per la rico-struzione della struttura e del funzionamentodi questo genere di macchina idraulica, sen-za dubbio la più diffusa a bordo delle navi an-tiche. La pompa a bindolo, descritta sul piano tec-nico per la prima volta nel De Re Metallica diGeorgius Agricola risalente al 1556, si presentanei relitti documentati con diverse varianti do-vute forse alle specifiche tradizioni artigiana-li dei cantieri, alle dimensioni ed allecaratteristiche strutturali delle navi: molto pra-tica, sicura e funzionale per lo svuotamentodelle acque d’infiltrazione, è di fatto rimastaancora in uso, come pompa a catena, fino alXVIII secolo. La macchina idraulica era incentrata intornoad una piccola cima di circa 1 cm di diame-tro sulla quale a distanze regolari, erano fis-sati dischetti lignei circolari con foro centrale,

122

Modellino didattico illustrante il funzionamento

della pompa idraulica romana (Museo del Mare e

della Navigazione Antica, Castello di Santa Severa

(Roma).

La macchina idraulica in funzione (Museo del

Mare e della Navigazione Antica, Castello di Santa

Severa (Roma)

123

tramite appositi nodi e/o impiombature disagolino. La cimetta scorreva all’interno didue tubi anch’essi lignei, formati da due me-tà accostate, incavate a sezione semicircola-re in maniera da costituire due vani cilindricistagni entro i quali giravano i dischetti. Duemanovelle collegate ad una ruota dentata in-serita all’interno di una cassetta lignea ret-tangolare con foro di uscita costituivano ilsistema di manovra della pompa. La parte in-feriore era formata da un rullo di rimando oda un semplice elemento ligneo arcuato (pu-leggia secca), destinato anch’esso ad agevo-lare lo scorrimento dei dischi. La rotazioneimpressa alla ruota dentata trascinava i di-schetti legati alla cima. In questo modo l’ac-qua, raccolta nel pozzetto di sentina, venivarisucchiata nel tubo di andata verso l’alto: rag-giunto il ponte della nave cadeva in un’ap-posita vasca di raccolta, plumbea, per essere,quindi, espulsa fuori bordo, assecondando ilrollio, per mezzo di due fistule anch’esse inpiombo. La cimetta con i dischi collegati ri-discendeva, quindi, verso il basso, libera, opiù di frequente protetta all’interno di un ap-posito tubo.La grande variabilità dei diametri dei dischettirinvenuti sui relitti del Mediterraneo, com-presi tra i 4 ed i 9 cm, consente di ipotizzarel’esistenza di pompe idrauliche, di differentidimensioni e portata, quasi certamente pro-porzionate in modo diretto al dislocamentodella nave sulla quale erano montate, dallegrandi onerarie ai natanti più piccoli.Per ciò che riguarda il funzionamento dellapompa, risultano di particolare interesse i da-ti relativi all’esperimento eseguito più volte perverificare le prestazioni raggiungibili nel mo-mento del massimo sforzo con la puleggia dirimando inferiore completamente immersaper circa 2 cm al di sotto del livello dell’acqua:con l’esperimento, più volte ripetuto, si è riu-sciti ad ottenere una portata di almeno 3 litrial secondo che comportano il sollevamento el’espulsione dalla sentina di circa 180 litri al mi-nuto: nel complesso, un solo operatore puòespellere dalla nave il peso di una tonnellatadi acqua in poco più di 5 minuti.

F.E.

BibliografiaBeltrame 2002, pag. 23, fig. 28; Enei 2005, pp. 149-160; Gianfrotta, Pomey 1981, pp. 289-291; Gianfrotta,Pomey 1997, p. 111; Petriaggi, Davidde 2007; Tölle-Kastenbein 1990, p. 43, fig. 19; Ucelli 1950.

Sez. 3.10 - Vite di Archimede(coclea)

Ricostruzione: Niccolai snc. (Firenze, 2009)

La coclea (in greco κοχλι′ας, chiocciola), tal-volta chiamata col generico nome greco diµηχανη′ (mechanè, macchina), o vite di Ar-chimede prende il nome dal suo inventore,lo scienziato greco Archimede di Siracusa vis-suto dal 287 al 212 a.C. Sebbene l’invenzionedella vite sia attribuita ad Archita di Taranto(428-347 a.C.), è sicuramente Archimede ilprimo ad averne studiato il funzionamento.Archimede avrebbe inventato la coclea du-rante un soggiorno in Egitto presso la cortedei Tolomei, ispirato dalla vista di un tympa-num in azione, una macchina per il solleva-mento dell’acqua costituita da un cilindro cavoripartito in otto spicchi e posto in azione dalmovimento dell’acqua stessa o da una forzamotrice esterna, animale o umana (v. sez.3,n. 11). La documentazione scritta, quella pit-torica e quella archeologica confermano inmaniera concorde la datazione al III sec. a.C.per l’invenzione della coclea, precedentementenon attestata.

Essa è costituta da un elicoide inserito in untubo. Il suo funzionamento è spiegato detta-gliatamente da Vitruvio (De architectura, X,6), il quale informa che questa macchina eracostituita da un elemento cilindrico in legnoil cui diametro era 1/16 della lunghezza. Cia-scuna delle due basi del cilindro era divisa inotto archi di uguale dimensione, uniti tra lo-ro da un’estremità all’altra attraverso elementiparalleli che correvano lungo il cilindro. Que-sto, a sua volta, era diviso in sezioni, ognunadelle quali uguale a 1/8 della circonferenza, edera poi contrassegnato da anelli attorno allacirconferenza. Questa suddivisione, piuttostoarticolata, permetteva di ottenere piccoli qua-drati distribuiti su tutta la superficie del cilin-dro; una volta ottenuto questo schema, silegava un listello di vimini impeciato al primopunto di intersezione tra linee longitudinali ecerchi, e lo si portava obliquamente fino al se-condo punto di intersezione, dove veniva nuo-vamente fissato; il listello di vimini era legatoad ogni punto di intersezione, con un’incli-nazione di circa 45°. Ad esso, che formava uncanale spiroidale e, di conseguenza, la baseper l’elica, venivano successivamente so-vrapposti altri sette listelli impermeabilizzati

M. Vitruvio Pollione,De Architectura, libro X, Editio 1521,Ristampa: Milano 1981

to è stata restaurata ed è esposta nel MuseoArqueológico Provincial di Huelva in Spagna(Domergue-Bordes 2006, figg. 17-21).Non sufficientemente documentato è l’usodelle norie come pompe di sentina sulle na-vi. La loro esistenza a bordo è stata ipotizza-ta in seguito allo scavo e al recupero delle navidi Nemi, avvenuto tra il 1928 e il 1932. Il re-cente riesame delle dotazioni di bordo dellenavi di Nemi ha sollevato numerose per-plessità. La noria lavorerebbe in maniera piùcongeniale sulla terraferma, mentre i conti-nui movimenti a cui è sottoposto lo scafo diuna nave la renderebbero inadatta sulle im-barcazioni. La noria vera e propria sfrutta unicamentel’energia motrice dell’acqua corrente di un fiu-me (Mantelli, Temporelli 2008, p. 40; Hill 1984,p.140; Vitruvio, De architectura, 10, 5, 1). Nel-la noria del tipo a saqiya possono essere uti-lizzate, a seconda delle esigenze e degli spazia disposizione, energia animale o umana. Laruota che metteva in moto l’intero congegnomeccanico poteva essere mossa a mano daun uomo, il quale la faceva ruotare agendo di-rettamente sui raggi. Quando il macchinarioaveva delle dimensioni notevoli era presente,invece, la così detta ruota calcatoria (ruotacamminabile), uno spazio all’interno del qua-le un uomo, camminando, imprimeva il mo-vimento alla ruota (Mantelli, Temporelli2008, p. 40; Hill 1984, p.140; Vitruvio, De

architectura, X, 5, 1.).Nel caso dei resti di Cosa, la ruota eraazionata da uomini: due uomini, alledue opposte estremità, azionavano labarra che a sua volta metteva in mo-vimento la ruota motrice; per riempi-re la cisterna della capacità di 127.000litri due uomini impiegavano circa 45ore di lavoro (Mc Cann 1988, p. 95).

M.M.S.N.

BibliografiaBedello Tata, Fogagnolo 2001; Bedello Tata, Fogagno-lo 2005, pp. 115 -138; Carvalho Quintela et al. 1993-1994,

pp. 157-169; Domergue - Bordes 2002, pp. 87-105: Domergue, Bordes 2006, pp. 210-214 (con bibliografia); Flores Caballero1981; Foraboschi 2006, pp. 131-144; Hill

1984; Landels 2000; Mantelli, Temporelli2008; Mc Cann 1988, pp. 86 -95; Marchis 1994;

Marchis, Scalva 1999; Momigliano, Schiavone 1989;Oleson 1984; Oleson 2000, pp. 183-302; Russo 20084;Singer et alii 1967; Tomei, Tecnologia; Usher 1988;Wikander 2000; Wilson 2008, p. 285 ss.

con la pece liquida; in questa maniera il dia-metro del cilindro si accresceva fino a diven-tare 1/8 della sua lunghezza. L’intera strutturaveniva, infine, protetta da tavole di legno, an-ch’esse impeciate, irrobustite alle estremitàcon delle lamine di ferro, per impedirne il dan-neggiamento da parte dell’acqua. La coclea era, infine, posta su di un sostegnocostituito da travi lignee, con una pendenzacalcolata secondo il teorema di Pitagora re-lativo al triangolo rettangolo. Il tubo conte-nente l’elicoide veniva parzialmente immersoin acqua: con la rotazione dell’elicoide, l’ac-qua passa da una voluta all’altra e veniva sol-levata ad un’altezza pari alla lunghezza delmeccanismo. L’elicoide poteva essere in le-gno o in bronzo.Sull’uso della vite d Archimede per il drenag-gio nelle miniere abbiamo la testimonianzadi Posidonio (inizi I sec. a.C.) riportata da Dio-doro Siculo (5, 37, 3-4) e di Strabone (3,2,9) aproposito del meridione della Spagna meri-dionale.I tipi sono diversi: a eliche in legno come pre-scrive Vitruvio (De Architectura, 10, 6, 3) o inbronzo; il cilindro è per lo più in legno o tal-volta in piombo. Il rivestimento, non semprepresente, è in corde di sparto.Cinque viti di Archimede trovate nella minie-ra El Centenillo (Jaén) dovevano essere usa-te in batteria; a Sotiel Coronada (Huelva) eranotre o quattro; almeno quattro a Posadas (Cor-dova). I dati tecnici ricavati dallo studio delleviti di Archimede installate nelle miniere inSpagna sono eccezionali: portata 2 litri al se-condo, cioè 7,2 m3 l’ora per una altezza di m1,70 di sollevamento.Infine la coclea poteva essere utilizzata sulleimbarcazioni come pompa di sentina.La coclea si diffuse rapidamente in tutto il ba-cino del Mediterraneo; il suo successo comecongegno di sollevamento per l’acqua è di-mostrato dal fatto che, almeno fino al 1965,essa era ancora largamente impiegata in al-cune regioni del Vicino ed Estremo Oriente ein Egitto; attualmente, specialmente negli Sta-ti Uniti e in Olanda, la coclea è utilizzata co-me base per pompe idrauliche industriali.

M.M.S.N.-L.L.

BibliografiaDomergue-Bordes 2006, pp. 208-210, 216-217, figg.15 e 16; Dracmann 1963; Landers 2000; Lombardi, v.supra; Marchis, Scalva 1999, pp. 291-293; Oleson 2008;Wikander 2001.

Sez. 3.11 - Noria e timpano asecchi

Materiali: legno, terracotta, ferroRicostruzione: al vero/ funzionanteRealizzata da Niccolai snc (Firenze, 2009)Altra ricostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana

La parola noria deriva dall’arabo na‘urah chesignifica ‘lanciare, zampillare’. Si tratta, infat-ti, di una macchina idraulica atta al solleva-mento dell’acqua, costituita da una ruotaprincipale eventualmente collegata ad altre ruo-te dentate per la trasmissione del movimento;la ruota principale è attrezzata con una seriedi contenitori in legno, in ceramica o in me-tallo, posti a distanza regolare gli uni dagli al-tri. Antenata di questo tipo di macchina può es-sere considerata la saqiya, nota anche con ilnome di ‘ruota persiana’, tutt’ora utilizzata inEgitto. La saqiya era largamente diffusa nel-l’Egitto ellenizzato, dov’era chiamata con ilsemplice nome di µηχανη′ (mechanè, mac-china); permetteva di sfruttare la forza trai-nante di un animale o di un uomo tramite larotazione di una ruota orizzontale attorno adun asse verticale (Russo 20084, p. 149). Si ri-tiene che il prototipo di questo tipo di mac-china sia stato utilizzato da Filone di Bisanzio,scienziato greco vissuto nel III sec. a.C.; in-fatti, tra i pochi scritti rimasti attribuiti a que-sto studioso vi è la rappresentazione propriodi una µηχανη′ (Mantelli, Temporelli 2008,p. 38). È raffigurata, azionata da due buoi, inun affresco sepolcrale di Alessandria del IIsec. a.C. (v. Oleson 2000, p. 270) e in un mo-saico di Apamea (Tome, tecnologia). Moltodiffusa in Egitto, ne determinò l’incrementodella produzione cerealicola.Il nome greco di questo congegno meccani-co è πολυκαδι′α (polykadia, dalle molte sec-chie), mentre non è noto il suo nome latino(Landels 2000, p. 67). Vitruvio (De architec-tura, X, 5, fornisce infatti una descrizione piut-tosto scarna di questo tipo di macchina, manon ne specifica il nome. Le secchie possono trovarsi direttamente sul-la ruota, posta verticalmente a diretto contat-to con l’acqua, oppure possono essereagganciate ad intervalli regolari ad una cate-na, mossa a sua volta da una ruota. In questosecondo caso il congegno prende il nome di„λυσις (halysis, catena, v. dioptra, Erone diAlessandria). La noria e la catena di secchie

(„λυσις), tuttavia, sebbene si basino su unprincipio di funzionamento piuttosto simile,sono due congegni diversi e non devono es-sere confuse (Useher 1988, p. 129). Simile al-la noria per il suo principio di funzionamentoè il tympanum (tamburo), descritto anch’es-so da Vitruvio (Vitruvio, De architectura, X, 4,1-2). Si tratta di un cilindro cavo, diviso ra-dialmente in otto spicchi, che ruota attornoad un asse orizzontale, con la parte inferioreimmersa nell’acqua da attingere. Ogni spic-chio ha un’ apertura che permette l’entratadell’acqua quando lo spicchio si trova al di sot-to dell’asse di rotazione; quando, invece, sitrova al di sopra dell’asse di rotazione garan-tisce la fuoriuscita dell’acqua nel bacino di rac-colta. Il difetto di questo tipo di macchina èche il dislivello alla quale si trova l’acqua daraccogliere non può superare il raggio del tym-panum stesso (Russo 2001, p. 148).Le efficienti opere di ingegneria idraulica rea-lizzate dai Romani in età imperiale, special-mente in Spagna e in Africa settentrionale,furono rimesse in uso dagli Arabi, i quali eb-bero il merito di diffondere nuovamente nelbacino del Mediterraneo le varie forme di ruo-te idrauliche, spesso note in Occidente pro-prio con il nome arabo o persiano, come,appunto, nel caso della na‘urah (Singer et alii1967, p. 647, p. 691).Vitruvio dice solo della ruota idraulica (De ar-chitectura, 10, 4, 3.4; 5.1): “La ruota, che saràcostruita intorno all’asse, avrà un diametroproporzionato all’altezza necessaria”. I nu-merosi resti archeologici ritrovati, nonché ladescrizione fornita da Vitruvio nel X libro delDe Architectura, hanno permesso di ricostruireil funzionamento della noria:Rinvenimenti: - porto di Cosa: resti lignei di un primo im-pianto di norie del tipo a saqiya per attingereacqua dolce da una sorgente (100 a.C. ca., McCann 1988, p. 86 e ss.); un secondo impianto,fu distrutto da un incendio attorno al 150 d.C..Il sistema di sollevamento dell’acqua si basa-va su una coppia di ruote dentate in legno, unaorizzontale e una verticale, in presa tra loro. Ilmovimento della ruota orizzontale, per mez-zo di una barra solidale con il suo asse, azio-nava la ruota verticale. Questa era connessaper mezzo di un albero a una terza ruota, an-ch’essa verticale. Quest’ultima, girando, im-primeva il movimento a una catena continuadi secchie. Le secchie sollevavano l’acqua dal-la sorgente fino a un condotto, posto imme-

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diatamente al di sotto della ruota della catenastessa. Dell’intero congegno meccanico si so-no conservati frammenti di sette secchie e unarazza della ruota della catena. La catena di sec-chie era formata da due funi ad anello, lungaciascuna 27 metri, alle quali erano fissate 24secchie in legno. Le secchie, rivestite di pecesia all’interno che all’esterno, contenevano cir-ca 7 litri di acqua ciascuna (Mc Cann 1988, p.94). La disposizione delle secchie era tale chequando esse erano nella posizione inferioredella circonferenza si riempivano d’acqua, men-tre quando si trovavano nella posizione supe-riore si svuotavano, facendo confluire l’acquanel bacino di raccolta.Secondo quanto scritto da Vitruvio, le sec-chie, da lui chiamate modioli quadrati (ossiacontenitori per il grano di forma quadrata, piùlarghi alla base e più stretti all’imboccatura)(Landels 2000, p. 67), avevano una capacitàdi circa 3.3 litri (Vitruvio, De architectura, X,4, 4). Le altre descrizioni sulla noria for-nite da Vitruvio trovano, invece, perfettoriscontro con il dato archeologico. L’in-tero meccanismo, come nel caso dellasaqiya, era mosso da forza umana. Lospazio angusto della camera di manovrae la difficoltà d’accesso alla parte supe-riore della struttura permettono di esclu-dere che vi fosse utilizzata forza animale.- miniere di Rio Tinto (presso Siviglia):nove no-rie poste in serie ad altezze differenti permet-tevano di drenare le gallerie delle miniere,superando un dislivello di circa 30 m. Eranotutte in legno in pezzi separati, da montareper poter essere trasportati in profon-dità nelle gallerie delle miniere e po-tevano essere mosse da un solouomo. Le nove coppie di norie deldiametro di circa m 4,60 e 24 recipientisollevavano 10.000 litri d’acqua all’ora, 226 m3

in 24 ore (Domergue-Bordes 2006, pp. 210-214) ed erano messe in moto da circa 16 uo-mini (Momigliano, Schiavone 1989, p. 350).

- miniera nei pressi di Huelva: è stata ritro-vata una ruota idraulica in legno perfettamenteconservata (Flores Caballero 1981).La noria era solitamente utilizzata per attin-gere acqua per l’irrigazione. Tuttavia, come siè visto nei casi di Cosa e di Rio Tinto, potevaavere molteplici campi di applicazione ed es-sere utilizzata per alimentare acquedotti o perdrenare l’acqua utilizzata nel processo di raf-freddamento delle rocce durante l’estrazionedei minerali dalle miniere o di svuotamentodi falde. La noria era utilizzata nelle terme (ades. ad Ostia, Bedello Tata, Fogagnolo 2005)o negli stabilimenti di salagione (Troia in Por-togallo, v. Carvalho Quintela et al. 1993-1994,pp. 157-169), ma per lo più sono state trova-te solo le fosse nelle quali le ruote giravano. In effetti i soli esemplari conosciuti sono quel-li che vengono dalle miniere, in particolare daquelle del sud-ovest della Spagna; quella diRio Tinto al British Museum, quella di SãoDomingos nel Musée des Art set Métiers diParigi, quella di Tharsis nel Museum of Tran-sport a Glasgow; una proveniente da Rio Tin-

Sez. 3.12 - Mulino ad acqua

Materiali: legno, ferroRicostruzione al veroRealizzato da: Niccolai snc (Firenze, 2009)

Il mulino ad acqua è una macchina di inven-zione greca che sfrutta l’energia dell’acqua inmovimento, sia di un corso d’acqua natura-le che di un canale o condotto appositamen-te realizzato.Una ruota idraulica verticale con pale vieneposta parallelamente al movimento dell’ac-qua per consentirgli di ruotare. Ingranaggi inlegno, consistenti in ruote dentate, trasferi-scono la potenza generata dalla ruota ad unasse verticale che muove le mole del mulino.Ne esistevano due tipi: a pale verticali e a pa-le orizzontali. Inizialmente venne concepitauna rozza girante che immersa verticalmen-te opponeva una grossa resistenza alla cor-rente. In linea di massima si trattava di unalbero munito intorno alla parte inferiore ditozze palette disposte come i raggi di una ruo-ta, tuttavia tale sistema, avendo le pale dirit-te, imponeva un restringimento dell’alveo deltorrente che schermasse un lato permetten-done il movimento. Una prima evoluzione fuquella di innestare le pale sull’ asse con unangolo leggermente obliquo, permettendo larotazione senza restringimenti o schermatu-re del corso d’acqua. I mulini a ruota oriz-zontale avevano il vantaggio di non averbisogno di ingranaggi per trasformare il mo-to orizzontale in verticale.Fu presto chiaro che una girante verticale ap-plicata ad un rotante orizzontale avrebbe po-tuto erogare una potenza tanto maggiorequanto maggiore fosse stata la corrente o laforza di caduta dell’acqua. Per permettere l’uti-lizzo di pale più lunghe, queste furono serra-te lateralmente fra due cerchioni metallici,ispirazione probabilmente dedotta dalle no-rie, insieme alla particolare forma a cassettadelle pale.Di entrambe le possibilità ci rimangono certetestimonianze nelle fonti e chiare descrizioninei trattati (vd. Humphrey 1998, pp. 29-34),primo tra tutti Vitruvio che ne fa un’esaustivadescrizione: «lungo i fiumi si utilizzano ruote[…] sulla loro superficie esterna vengono in-chiodate delle pale che, spinte dalla forza del-la corrente, si mettono in movimento e fannogirare la ruota. A un’estremità dell’asse (oriz-zontale della ruota idraulica) è incastrata una

ruota dentata perpendicolare all’asse e che gi-ra insieme alla ruota. Ingrana in questa ruotadentata un’altra disposta orizzontalmente edi dimensioni maggiori, anch’essa fornita didenti. Così i denti della ruota collegata all’as-se trasmettendo il moto a quelli di quest’ulti-ma, determinano il moto del disco circolaredi una mola». (Vitr.,De Arch. 10, 10).Il mulino ad acqua verticale alimentato percaduta è celebrato in un epigramma di Anti-patro di Tessalonica o Antifilo di Bisanzio (etàaugustea) (Ant. Pal. 9, 3-6, 418) in quantoproduce farina risparmiando fatica ai mu-gnai: «Smettete di macinare o donne che la-vorate al mulino; dormite fino tardi, anchese il canto del gallo annuncia l’alba. PoichéDemetra ha ordinato alle ninfe di fare il la-voro che facevano le vostre mani, ed esse,saltando dall’alto della ruota, fanno girare ilsuo asse che, con i suoi raggi rotanti, fa gi-rare le pesanti macine concave del mulino».È noto inoltre che un impianto poteva pos-sedere diverse ruote collocate a varie quotein modo da poter sfruttare il medesimo cor-so d’acqua suddividendolo in più cadute, evi-tando così che la forza di un unico grandedislivello superasse la resistenza meccanicadella ruota. (Vitr., De Arch. 10, 5)Una importante testimonianza dell’uso deimulini multipli in epoca imperiale si ha a Bar-

begal, nei pressi di Arles (inizi del IV sec. d.C.).Un apposito acquedotto apporta acqua sullacima di una collina. L’acqua scende poi lun-go il versante tramite due canali paralleli aifianchi dei quali vennero installate 32 moleazionate da 16 ruote idrauliche verticali di-sposte a coppie su 8 livelli. Si tratta dell’uni-co esempio dell’uso dei mulini con unainstallazione di tipo industriale: si è calcola-to che a Barbegal si producevano 2,8 tonnel-late di farina al giorno, pari a otto volte ilfabbisogno degli abitanti di Arles; si è pen-sato che l’eccesso di produzione venisseesportato verso Roma.Scriveva nel IV secolo Ausonio Stazio nellasua Mosella, dei mulini e dello stridio delleseghe per marmi azionate dalle ruote idrau-liche lungo la Mosella.Ulteriore applicazione della ruota idraulica fuil mulino galleggiante, cioè l’assemblaggio diun motore idraulico su uno scafo ancoratoalle sponde di un fiume. Tale sistema è ri-cordato da Procopio di Cesarea. Secondo lafonte i mulini galleggianti furono ideati da Be-lisario per ovviare all’instabilità di livello del-le acque del Tevere, e soprattutto al taglio degliacquedotti che alimentavano Roma che ave-va disabilitato i mulini della città: «di controal ponte […] fece attaccare delle funi ben teseda ambedue le rive del fiume e legate a que-

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ste due barche distanti tra loro due piedi, làdove dal fornice del ponte l’acqua con mag-giore impeto scorreva; e poste due macine suciascuna delle barche fece mettere in mezzoil meccanismo che soleva metterle in moto.Altre barche poi aggiunse, succedentisi perordine, legate a quelle che stavano loro die-tro, e vi pose allo stesso modo i meccanismi.Per la forza quindi dell’acqua corrente i mec-canismi tutti uno appresso all’altro girandomettevano in moto le loro macine e macina-vano il necessario per la città». (Procopio, Debello gothico 1, 19)Dell’utilizzo della ruota verticale per la tra-sformazione dell’energia idraulica in motoriaci rimangono anche alcuni significativi reperti,di cui il più famoso è la cosiddetta ruota diVenafro rinvenuta nel 1914 presso Isernia informa di impronta in una concrezione calca-rea. Si tratta di una ruota costruita dai vete-rani della colonia di Venafro nel Molise,destinata al locale mulino, perfettamente coin-cidente con la descrizione che fa Vitruvio. Èstato calcolato che la ruota di Venafro corri-spondeva al lavoro incessante di una mezzadozzina di schiavi (una potenza di 2200W).

A. O.

BibliografiaAdam 1990, pp. 347-349; Brun 2006, pp. 101-130 (conbibliografia); Greene 2000, pp. 29-59; Homo Faber1999, p. 325; Hodges 1970, pp. 191-196; Humphrey,Oleson, Sherwood 1998, pp. 29-34; Leveau 1996a, pp.11-29; Levaeau 1996b, pp. 137-153; Oleson 2008, pp.355-357; Russo 2007, pp. 236-247; Sellin 1963, pp. 91-109. Schiøler 1973, p. 149 ss.; Wikander 2000; Wilson2002, pp. 1-32.

Sez. 3.13 - La sega ad energiaidraulica

Materiale: marmoProvenienza: Hierapolis di FrigiaCronologia: I metà III sec. d.C.-III secolo d.C.

Tra le più interessanti applicazioni dell’energiaidraulica va segnalata la scoperta, relativamen-te recente, di rappresentazioni di seghe multi-ple per marmo, mosse da energia idraulica aIerapolis in Turchia. Si tratta di un rilievo scolpi-to sul coperchio del sarcofago di M. Aurelios Am-mianos proveniente alla necropoli di Hierapolisdi Frigia e databile alla prima metà del III sec.d.C. Il monumento costituisce il più antico esem-pio di tale macchina, ma solo il disegno rico-struttivo ci permette di capire il funzionamentodello strumento.Su di un canale o una derivazione d’acqua dafiume veniva posta una ruota idraulica a pale cheforniva l’energia necessaria al movimento delleseghe. Un perno di manovella trasferiva il mo-vimento circolare alla manovella, o biella, tra-sformandolo in movimento orizzontale. La biella,collegata a un compasso,consentiva il movi-mento delle seghe multiple le quali, presumi-bilmente, avevano dei pesi che consentivano lorodi mantenersi in aderenza con il marmo.Il forte rumore che produceva la sega ci è notoanche da un passo della Mosella di Ausonio (vv.357-362)Della sega ad energia idraulica si erano trovatealtre tracce a Gerasa in Giordania (Seigne 2002)e a Efeso in Turchia (Schiøler 2004). È molto interessante notare che la trasforma-zione di un moto circolare in moto orizzontaleè stata collocata nel Rinascimento. Le prime rap-presentazioni si hanno in Francesco di Giorgioingegnere senese nel 1470.

A.A - L.L.

BibliografiaBruno 2002, pp.179-194; Grewe, Kessener 2007; Rit-ti 2006; Schiøler 2004; Seigne 2007.

Sez. 3, n. 14. - Prosciugamentodel lago Fucino

Rilievi: Roma, Museo TorloniaCalchi dei rilievi Torlonia: Roma, Museo della CiviltàRomanaRicostruzioni virtuali: C.F. Giuliani

Il progetto per il prosciugamento del lago erastato vagheggiato da Cesare, Augusto nonvolle porvi mano nonostante le invocazionidei Marsi. Fu l’imperatore Claudio a dare ilvia ai lavori, probabilmente per gli interessiimperiali nella zona, testimoniati da altri gran-di progetti come la costruzione degli assi via-ri della Claudia Valeria e della Claudia Nova.Dalle fonti antiche, in particolare da Svetonio(Cl., 20-21) e Tacito (Ann., XII 56-57) abbiamoinformazioni relative all’impresa e alla suainaugurazione.Plinio (Naturalis Historia, 36 124) sottolineache i lavori furono abbandonati da Nerone; so-lo con Adriano l’opera di prosciugamento furipresa e condotta a termine (Historia Augu-sta, Vita di Adriano, 22,12). Sappiamo daun’iscrizione del 117 d.C. che dopo un’inon-dazione del Fucino, furono eseguiti lavori direcupero delle terre circostanti (CIL IX 3915).Nel 1868 l’amministrazione Torlonia realizzònuovamente il prosciugamento del lago e inquella occasione tutte le strutture antiche fu-rono distrutte: di esse ci restano solo le de-scrizioni e i rilievi realizzati da due ingegnerifrancesi che avevano diretto i lavori (Brisse eDe Rotron). Venne realizzata una galleria tra il lago e il Li-ri (20 m di dislivello), che attraversava i mon-ti interposti per circa 5 km; al suo inizio eral’incile, il complesso sistema di bacini e dichiuse destinato a controllare il flusso delleacque. L’incile claudiano comprendeva un pri-mo avambacino ad imbuto, con muraglionilaterali convergenti, al cui termine era una pri-ma saracinesca. Seguiva una vasca esagona-le, con un’apertura chiusa da una secondasaracinesca, sormontata da una camera dimanovra. La vasca successiva, di pianta tra-pezoidale, era più piccola e profonda, con undislivello in basso di 5,48 m rispetto alla pre-cedente: in fondo a questa si apriva la testa-ta della galleria, il cui imbocco era chiuso dauna terza saracinesca, regolata da una sotto-stante camera di manovra. Con questo siste-ma il lago non poteva essere svuotatointeramente, ma si abbassava di m. 5,65.

Mulino ad acqua di Barbegal (da Oleson 2008)

(da Grewe, Kessener 2007)

Rilievi vennero posti su un monumento a ri-cordo dell’impresa, probabilmente un arco, dietà claudia, rinvenuti durante lavori del secoloscorso, nell’area delle strutture (bacino e avam-bacino) dell’incile dell’emissario. Si tratta di duegrandi lastre e tre frammenti in calcare locale.Nel rilievo n.1 (che più interessa in questa se-de) vi è la veduta di uno specchio d’acqua; inalto una riva alberata in cui a destra due grup-pi di operai lavorano ad apparecchi forniti diassi con tamburi, corde ed argani per estra-zione verticale; in basso due navi di tipo lun-go da trasporto veloce solcano le acqueprocedendo verso sinistra, spinte da rema-tori guidati dal pilota con timoni; misure: m. 0.627 x 1.075 x0. 228.La scena nell’angolo destro del rilievo n. 1 mo-stra un cantiere in attività con due coppie di ope-rai che manovrano argani orizzontali. Le duemacchine sono su piani differenti: l’inferiore sul-la riva del lago, l’altra, poco più indietro, a ri-dosso di una via. Nessuno degli argani ècompletamente rappresentato, in quanto la sce-na continuava al di sopra e a destra. Le costru-zioni lignee sembrano identiche e l’inclinazionedel montante sinistro della superiore è dovuta

palesemente ad una diversa disposizione pro-spettica: è possibile interpretare queste strut-ture come cavalletti alti all’incirca tre metri, chereggono un asse centrale, la cui sezione supe-riore presenta un doppio tamburo collegato conun perno alla traversa in alto. L’estremità infe-riore è lavorata a cono per consentire la rota-zione. Il movimento era impresso da due operaiche spingevano i bracci di una traversa sotto-posta ai tamburi. Ai cilindri, composti di legniverticali distanziati in modo da lasciar vederel’asse centrale, fanno capo due funi traenti, unaper ciascun tamburo, applicate in senso inver-so, in modo che la stessa rotazione che avvol-geva l’una rilasciava l’altra. Alla macchina inferiore

si collegano travi inclinate e confluenti in una fi-bula, appartenenti ad una capra molto defor-mata dalla prospettiva. Dalla fibula pende unbozzello, evidentemente a due pulegge, da cuiscende, a piombo, una coppia di corde tese.L’identità dello schema, la distanza relativa agliargani e quella dei punti in cui le funi sembra-no scomparire nel terreno, sono conferma chele macchine lavoravano separatamente. Si trat-ta dunque di strumenti levatori utilizzati perl’estrazione delle terre e le acque dai pozzi del-l’emissario del Fucino. Esse funzionavano condue funi ductarii facenti capo allo stesso boz-zello: i secchi appesi permettevano un ciclo con-tinuo. Era importante che la distanza dell’argano

129128

Rilievo n. 1: rappresentazione del lago con

naviglio civile dopo l’attivazione dell’emissario di

Claudio: in alto i due argani verticali alludono ad

un intervento di manutenzione o restauro dell’

emissario.

Restituzione grafica dei due argani verticali a

doppio tamburo rappresentati in un blocco dei

rilievi Torlonia (C.F.Giuliani 2001)

dalla capra fosse pari alla profondità del pozzo,meno l’altezza della capra stessa. L’uso del boz-zello unico dimostra che il peso da sollevarenon era eccessivo e che era ricercata la maggiorvelocità di trazione.Rispetto alle macchine per il sollevamento de-scritte da Vitruvio, quelle del Fucino presen-tano caratteristiche inedite come la mancanzadel paranco, la presenza della capra a trep-piede e soprattutto l’argano orizzontale a duetamburi collocati in alto e distanziati dalla ca-pra. Quest’ultima particolarità distingue taliargani da quelli che compaiono nelle più fre-quenti rappresentazioni antiche e rinasci-mentali. La collocazione dei tamburi al di sopradelle teste degli operai è un accorgimento in-telligente per evitare che le corde intralcias-sero le manovre degli addetti mantenendolibero il cantiere in generale, specie se si con-sidera la distanza tra argani e capre. Nel rilievo Torlonia, trovato nel cunicolo mag-giore dell’emissario del lago del Fucino, di cui

forse decorava l’ingresso a ricordo dei lavoripromossi dell’imperatore Claudio, vi è la rap-presentazione di due argani: uno in riva al la-go e l’altro lungo una via. Sono entrambi dellostesso tipo: la parte inferiore è lavorata in mo-do da avere la possibilità di ruotare, quindi èlavorata a cono, la parte superiore presentainvece un doppio tamburo. Ai cilindri sonocollegate due funi, una per ciascun cilindro,applicate in senso inverso in modo che la ro-tazione che avvolgeva l’una rilasciava l’altra,quindi una scendeva e l’altra risaliva dal poz-zo di scavo, permettendo un ciclo continuo.L’argano era in collegamento con una capracostituita da travi in legno inclinate.

S.O.

BibliografiaIl tesoro del lago 2001; Afan De Rivera 1836; Brisse, DeRotrou 1883; Burri, Castellani 1994; Burri 1994; Forti1994; Giuliani 2007; Letta 1994; Messineo 1979; Thor-nton, Thornton 1985; Thornton, Thornton 1988.

Planimetria della zona dell’emissario: le lettere A-D indicano i tre segmenti della spezzata

(base orografica da Burri 1994) (C.F. Giuliani, 2001)

Ricostruzione dell’armatura lignea dei pozzi (C.F.

Giuliani, 2001).

Lo scavo delle discenderie permise da un lato la riduzione del tratto intermedio da scavare partendo da due

soli fronti e dall’altro l’apertura di altri dieci fronti di scavo nel tratto compreso tra i pozzi 22 e 23 (C.F. Giu-

liani, 2001).

Sezione 11

tecnologia per lo spettacolo

caratteristiche del teatro romano; Ammiano Marcellino ricordache (14, 6, 18) “Siccome le biblioteche sono chiuse per sempre co-me fossero tombe, si fabbricano organi idraulici”. Si riferisce alfatto che nel 383 erano stati espulsi i peregrini filosofi e cultori del-le arti liberali (tra cui forse lo stesso Ammiano) mentre mimi eballerine e musicisti erano potuti rimanere (Traina 2006). Il pan-tomimo, introdotto a Roma nel 22 a.C. da Pilade di Cilicia e Batil-lo di Alessandria, era una danza drammatica su soggetto storicoo mitologico, dove l’attore era accompagnato da un coro e daun’orchestra formata da un tibicine che batteva il tempo con loscabillum (Guidobaldi 1996). Dal momento che in teatro è fon-damentale la diffusione della voce e del suono, importante era lostudio dell’acustica e di questo ci dà notizia puntualmente Vitru-vio (de Architectura, 5, 8, 1-2) (sez. 11, n. 9).Le tecnologie nei ludi anfiteatrali dovevano essere ancora più spet-tacolari, dal momento che le battaglie gladiatorie non erano solocombattimenti fra uomini, ma tra uomini e fiere ed occorreva unascenografia che inquadrasse l’ambiente con foreste e boschi, do-ve tali animali abitualmente abitavano e, per rendere lo spettacolo(le cacce, venationes) più veritiero gli allestimenti esibivano di vol-ta in volta cambi spettacolari di scene e per le quali venne definito‘teatro per le cacce’. Le battaglie navali e le rappresentazioni di mi-mi, come quello di Ero e Leandro, allestite per l’inaugurazione delColosseo da parte di Tito nell’80 e poi da Domiziano nell’89 d.C.–come narrano Dione Cassio (66, 25, 4) e Marziale (Liber de spec-taculis, 20, 27) – richiesero certamente apparecchiature assai com-plesse, funzionali, smontabili e riassemblabili in tempi brevi, chenessuno descrive, poi distrutte dalle successive trasformazioni inarena stabile (Rea 2001).Lo studio dei sotterranei del Colosseo harivelato una complessa e tecnicamente sofisticata organizzazione

impiantistica per il sollevamento degli animali e di porzioni dellastessa arena (Beste 2001) (sez. 11, n. 10).Nella Historia Augusta (Vita di Caro, Carino e Numeriano, 19) Fla-vio Vopisco, nel raccontare i giochi, li definisce “ricchi di novitàspettacolari”, tra cui oltre a esibizioni di acrobati, “C’era anchequella speciale macchina che eruttando fiamme incendiava la sce-na e che fu poi perfezionata da Diocleziano”, della quale però al-tro non sappiamo.Negli spettacoli d’epoca tarda, oltre alla esibizione di animali rari,compaiono anche delle attrezzature: la cochlea, l’ericius e il conto-monobolom. Con cochlea in cavea si indicavano degli sportelli gire-voli che facilitavano l’entrata o l’uscita dall’arena degli uomini,bloccando il passaggio agli animali; la cochlea a quattro ante gire-voli di legno fatta di tavole e assi assemblate è raffigurata nei ditti-ci tardo antichi (dittico di Areobindus di Zurigo e di Anastasius diParigi, Bibliothèque Nationale). L’ericius (il riccio) era una specie digabbia di forma ovale (raffigurata nel dittico di Areobindus di Pari-gi, Musèe di Cluny), nella quale un uomo poteva rifugiarsi per sfug-gire agli assalti delle fiere, rotolandosi sull’arena. Il contomonobolomera formato da un palo centrale al quale erano attaccati due cesticontenenti ciascuno un uomo: il palo doveva essere dotato di unabase girevole autonoma; sull’estremità superiore del palo venivapraticato un foro all’interno del quale scorreva una corda alla qua-le erano attaccati alle opposte estremità i due cesti: strattonando lacorda l’occupante di un cesto determinava la salita dell’altro e la di-scesa del suo e viceversa, forse aiutati da pertiche. Girando e va-riando la quota dei cesti si cercava di disorientare l’animale (orso).Un altro tipo di spettacolo comportava l’impiego di una ruota gire-vole, sulla quale veniva legato un uomo che, esposto alle fiere, po-teva salvarsi solo facendo girare velocemente la ruota (Rea 2001).I ludi circensi, iniziati nel VI secolo a.C. come giochi in occasioni difunerali, acquistarono sempre di più il favore del pubblico romanoe sopravvissero alla caduta dell’impero d’Occidente nella corte bi-zantina. Una nuova attenzione per alcuni aspetti dello svolgimen-to della gara delle quadrighe ha permesso di ricostruire virtualmentel’andamento della gara e il meccanismo di controllo dei giri effet-tuati mediante due contagiri (ovarium e delphinium, v. sez. 11, n. 11),molto simili nella loro funzione ai tabelloni che segnano il punteg-gio delle squadre nei nostri stadi (Ioppolo 1999).La struttura stessa del carro da corsa, una struttura robusta, ma estre-mamente leggera e flessibile, era del tutto simile ai carrozzini dei mo-derni fantini; gli aurighi indossavano anche una specie di casco dicuoio e feltro per proteggersi in caso di ribaltamento del carro.E l’editor spectaculorum, organizzatore di questi spettacoli, dovevascegliere, utilizzare, calibrare tutta una serie di accorgimenti tecnolo-gici per ottenere, come un moderno regista, effetti sempre più stra-billianti per un pubblico sempre più esigente.

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I ludi romani, cioè quell’insieme di festeggiamenti in occasione siadi feste religiose in calendario che di quelle organizzate per spe-ciali eventi o commemorazioni (trionfi di generali o imperatori, fu-nerali di illustri personaggi) che a partire dal VI sec. a.C. fino al VIsec. d.C. occupavano i Romani per buona parte dell’anno, non fu-rono solo corse di cavalli nel circo o rappresentazioni teatrali, macostituirono un aspetto essenziale dell’identità sociale, civile e re-ligiosa romana, al punto che nei giorni ad essi destinati veniva so-spesa ogni attività professionale, commerciale e pubblica.Le peculiarità strutturali dei teatri e degli anfiteatri sono illustratein altra sezione di questa mostra (sez. 2); ma alcune caratteristi-che legate non alla costruzione dell’edificio, ma al suo funziona-mento in relazione alle attività che vi si svolgevano, sia allospettacolo stesso (il sipario, la scenografia, l’acustica), che alla fre-quentazione del pubblico (velario) permettono di definire una ‘tec-nologia dello spettacolo’: gli aspetti tecnologici cioè nell’allestimentodegli spettacoli, nelle invenzioni scenografiche ed effimere, sia tea-trali che circensi o anfiteatrali, di cui qui illustriamo alcuni esem-pi, ma che certamente potrebbero fornire, se approfondite, altrispunti alla ricerca.Nel teatro romano molti aspetti funzionali sono legati al tipo dispettacolo che vi si rappresentava: non più o non solo tragedie ecommedie classiche tradotte o reinventate, ma nuovi tipi di rap-presentazioni (le stesse commedie di Plauto e Terenzio, ma so-prattutto mimi, pantomimi, tragoedia saltata, tragoedia cantata,citharoedia, tetimimi), che richiedevano maggior mobilità e mi-mica scenica da parte degli attori, non più legati all’uso della ma-schera, apparecchiature sceniche nuove e l’introduzione semprepiù importante della musica e della danza. Spettacoli quindi mol-to simili alla nostra ‘opera’, o ancor meglio all’’operetta’, dove re-citativi e pezzi cantati si alternano.In questo nuovo modo di fare teatro, gli accorgimenti teatrali do-vevano avere un posto preminente, pur tenendo conto della pre-senza della frons scaenae, elemento già di per sé scenografico chechiudeva il pulpito, dove agivano gli attori.Lo studio dell’ottica, scienza della visione, da parte dei Greci for-nisce le basi della teoria della prospettiva alla scenografia, che èla tecnica di realizzazione di scenari teatrali realistici; la pittura ro-mana di II e IV stile utilizza ampiamente e porta alle estreme con-seguenze proprio l’uso della prospettiva sulle pareti ‘sfondateprospetticamente’ delle domus e gli stessi principi vennero utiliz-zati nella creazione dei fondali nella scena del teatro romano (Rus-so 2006): le prospettive scenografiche conservate sulle pareti delle

case di Pompei ci possono suggerire l’idea di come dovevano es-sere le effimere scenografie nei teatri romani diversamente da co-me ce le possono descrivere i testi letterari.Altra tecnologia dovevano richiedere gli spettacoli acquatici nelteatro, dove veniva allagata l’orchestra per permettere le evolu-zioni di nuotatrici: cisterne per raccogliere l’acqua, condutture diadduzione e di smaltimento, impermeabilizzazione dell’orchestra(v. sez. 11, n. 4).L’introduzione sempre più invasiva della musica è un’altra delle

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Scenografie e macchine per spettacoli

Giuseppina Pisani Sartorio

Scena di commedia

(Napoli, Museo

Archeologico Nazionale;

calco: Roma, Museo della

Civiltà Romana)

Lecce, teatro: ricostruzione della frons scaenae e del suo apparato decorativo

(da F. D’Andria (a cura di), Lecce romana e il suo teatro, Lavello 1999, fig. 26).

Restituzione virtuale di una scenografia da un affresco da Pompei con partiti

architettonici (Henrique Rossi Zambotti, in Ciancio Rossetto - Pisani

Sartorio 2006).

BibliografiaBeste 2001, pp. 277-299; Chiarini G., La scena romana, in Savarese 1996, pp. 41-56; Ciancio Rossetto, PisaniSartorio 2006; Dupont F., I ludi scenici, in Savarese 1996, pp. 31-38; Guidobaldi M.P., Musica e danza in etàrepubblicana e imperiale, in Savarese 1996, pp. 57-68; Ioppolo G., Il circo, in Ioppolo, Pisani Sartorio 1999; ReaR., Il Colosseo. Teatro per gli spettacoli di caccia. Le fonti e i reperti, in Sangue e arena 2001, pp. 223-243; Russo2006, pp. 23-29; Sangue e arena 2001; Savarese N., Paradossi dei teatri romani, in Savarese 1996, pp. IX-LXXV;Traina 2006, p. 260.

elementi architettonici che decoravano la scae-nae frons.Le strutture note della zona post scaenam sonorealizzate in travertino e peperino.Di considerevole interesse l’analisi dei percor-si: i senatori e i personaggi che sedevano nellaproedria accedevano facilmente dagli ampi pas-saggi in leggera discesa esistenti tra la parte ter-minale della cavea e il palcoscenico; i cavalieripotevano sfruttare sette rampe in lieve salita perraggiungere la galleria interna denominata ‘deicavalieri’ dalla quale alcuni vomitori conduce-vano direttamente nell’ima cavea. Più faticosoil percorso del popolo che aveva a disposizio-ne sette accessi costituiti da una doppia rampacon gradini che si svolgeva in due fornici conti-gui con pianerottolo intermedio per guadagna-re l’ambulacro ionico: da questo una parte salivaal piccolo ambulacro superiore e da lì attraver-so altri vomitori nella media cavea, mentre un’al-tra parte raggiungeva, attraverso percorsi conduplice scala in due ambienti contigui con pia-nerottolo intermedio, il piano superiore (quasidel tutto distrutto) dove si smistava tra la sum-ma cavea e la summa cavea in ligneis.

P.C.R.

BibliografiaCalza Bini 1953; Ciancio Rossetto 1999; Ciancio Ros-setto, Pisani Sartorio 2006; Ciancio Rossetto 2007;Ciancio Rossetto, Buonfiglio c.s.; Fidenzoni s.d.; LaBianca, Petrecca 1986.

Sez. 11.2a. - Velum/velarium

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Nel teatro romano il pubblico era riparato dairaggi del sole, dal momento che le rappre-sentazioni avvenivano di giorno, da un velum,cioè un velario che veniva teso al si sopra del-la cavea e dell’orchestra. Plinio (Naturalis Hi-storia 19, 23) e Valerio Massimo (2, 4, 6)ricordano che i vela furono introdotti a Romanell’80 a.C. da Q. Lutazio Catulo.: Q. Catulus,Campanam imitatus luxuriam, primus spec-tantium consessum velorum umbraculis texit.E Marziale (14, 29) dice del teatro di Pompeoa Roma: “In Pompeiano tectus spectabo thea-tro, nam ventus populo vela negare solet”.Il velum o velarium, formato da più teloni del-la consistenza delle vele delle navi di lino o co-tone, colorato o dipinto, a volte di porpora,poteva riparare dal sole, ma non dalle intem-perie. Era teso tra perni inseriti nella parte piùalta della cavea e pali inseriti sul primo gradi-no inferiore della cavea (Arles) su una tramasi corde attaccate ai pali e tese da carrucole,come avviene oggi nei tendoni dei circhi.Tracce sono state trovate nei teatri di Pom-pei, Orange, Arles, Aspendos; ma il funzio-namento del velario rimane incerto.Una iscrizione ricorda il restauro del velum delteatro di Efeso a cura di Giulia Potentilla inepoca severiana e quello del teatro di Pataraa cura della figlia di Velius Titianus nel 147 d.C.La notizia che il velum avrebbe protetto glispettatori era specificata negli avvisi pubbli-

ci che annunciavano lo spettacolo con la fra-se ‘vela erunt’.Negli anfiteatri, come il Colosseo, ma anchein quello di Pompei - come raffigurato in unaffresco nel Museo Archeologico Nazionaledi Napoli – e in quello di Capua, vi era un ana-logo sistema di copertura provvisoria: nel-l’Anfiteatro Flavio, sulla parete esternadell’ultimo ordine 3 mensole per ogni inter-columnio, quindi 240 in totale, alle quali cor-rispondono altrettanti fori nel cornicionesuperiore, servivano a sostenere e ad inca-strare delle travi verticali, dalle quali partivaun sistema di 240 corde che andavano ad an-nodarsi ad una ellisse pensile centrale all’an-fiteatro; a queste corde era assicurato il velario;ogni settore del velario, secondo alcune ipo-tesi, poteva essere singolarmente manovra-to, secondo a quale settore della cavea dovevaessere fornita l’ombra. Le corde dovevano es-sere tese da verricelli e carrucole (v. sez. 2.1)e tale manovra assai complessa era affidataad un corpo scelto di 100 marinai (classarii)della flotta del Misero, appositamente di-staccati a Roma nei castra Misenatium pres-so il Colosseo in occasione degli spettacoli.

BibliografiaCiancio Rossetto P., Pisani Sartorio G., Teatri antichigreci e romani, Cd.Rom, Roma 2006 (con bibl.); GraefeR., Vela erunt. Die Zeltdächer der römischen Theaterund ähnlicher Anlagen, Mainz 1979; Neppi Modona A.,Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961.

Sez. 11.1 - Teatro di Marcello

Plastico ricostruttivo: in scala 1: 100Realizzato da P. FidenzoniMisure: cmLuogo di conservazione: Museo della Civiltà

Romana, inv. n. 1789Cronologia: 13/11 a.C.

Il teatro di Marcello, costruito da Augusto tra ilterzo ed il secondo decennio a.C. e dedicato nel13 o nell’11 a.C. alla memoria del nipote, è sen-za dubbio il meglio conservato tra i più antichiesempi di teatro di tipo romano, un edificio chenon ha necessità di un pendio cui appoggiarsi,provvisto di salda unità architettonica, con lascena collegata alla cavea conclusa esterna-mente dalla facciata semicircolare.Il progetto dell’edificio si presenta, già ad un pri-mo esame, unitario e caratterizzato da ricercae sperimentazione di soluzioni nuove a pro-blemi ancora poco conosciuti.Per valutare appieno l’importanza ed il signifi-cato della struttura, basta considerarne le mi-sure: diametro circa 130 m, altezza presuntaintorno ai 32 m, capienza stimata circa di 15.000spettatori.Il teatro di Marcello aveva una cavea di formaapprossimativamente semicircolare, sorretta dasostruzioni, costruite con un sistema moltoavanzato da un punto di vista ingegneristico,che danno luogo ad un insieme strutturale benarticolato, organizzato su ambienti, a forma dicuneo con funzioni differenziate secondo unoschema ripetitivo, disposti in duplice ghiera (for-nici e ambienti interni) e ambulacri; se ne sonoconservati quattro: due esterni sovrapposti edue interni distribuiti su piani sfalsati. Era con-cluso da una facciata semicircolare di cui sonotuttora visibili i due piani ad arcate: di ordinedorico-tuscanico l’inferiore, ionico il superiore.Le gradinate semicircolari - la cui scansione èdeducibile oltre che dal ritmo delle murature so-struttive, anchedalla rappresentazionenellapian-ta riportata nella Forma Urbis Marmorea (v. sez.1, n. 14) erano suddivise in quatto zone – ima,media, summa, summa cavea in ligneis -, i cuiposti erano destinati alle varie classi di spetta-tori; inoltre nell’orchestra vi erano alcuni grado-ni per i sedili dei personaggi più importanti.L’edificio scenico, conosciuto solo parzialmen-te, aveva scena rettilinea, ampi ambienti latera-li – le c. d. aule regie – e una zona post scaenama cielo aperto, conclusa da un muro articolatodotato di larga abside verso il Tevere.

Nell’edificio sono notevoli l’uso calibrato deimateriali e delle tecniche costruttive, e il siste-ma ponderato di circolazione degli spettatori,che si muovevano in varie migliaia.La costruzionegigantescapoggia suun impiantodi fondazioni costituito da palificata solo nel set-tore esterno e gettate di calcestruzzo (a piatta-forma o lineari, secondo i settori) che arrivanoad un massimo di m 6,35 di profondità.La struttura utilizza tecniche edilizie e materialidifferenziati in rapporto alle necessità costrutti-ve e statiche, in particolare: nella zona esternadella cavea – ambulacri e parte esterna dei for-nici – è adoperata l’operaquadrata a grandi bloc-chi di travertino per la facciata semicircolare, ditufo litoide per la controfacciata e le muraturedei fornici; invece per i settori più interni sonopresenti muri in cementizio rivestiti in opera re-ticolata di tufo e, nei due ambulacri interni l’ope-ra laterizia. Èda sottolineare cheèprobabilmenteil più antico uso documentato a Roma, su largascala, deimattoni (in questa epoca abitualmentesi sfruttavano le tegole fratte).All’interno dell’edificio trionfava il marmo: bian-co rivestiva le gradinate, mentre colorato di va-rie qualità e sfumature era impiegato negli

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Sez. 11.2b - Aulaeum o siparium

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Il sipario, elemento scenografico sconosciutoai Greci (siparium o auleum,che è però un ter-mine greco, quindi un meccanismo simile do-veva già essere in uso presso i Greci, forse eradi origine alessandrina?), sembra sia stato in-trodotto nel 133 a.C., utilizzando ricchi tappetiprovenienti dal regno di Pergamo sui quali era-no rappresentati personaggi a grandezza na-turale: quando il sipario veniva srotolato (tollitur)dal basso verso l’alto, si aveva l’impressioneche queste persone lo sollevassero con le brac-cia. Infatti il sipario si ‘abbassava’ premitur),scomparendo in una fossa, appositamente co-struita nel sottopalcoscenico (iposcaenium) delteatro romano ed iniziava lo spettacolo.La fossa o canale presenta in genere dei poz-zetti (8 e più) nei quali erano inserite le anten-ne o pali di legno che reggevano e irrigidivanoil telone e, forse, organizzate in più segmenti‘a cannocchiale’, venivano sollevate per mez-zo di carrucole installate ai due lati del pulpitoe il cui alloggiamento è stato rinvenuto in piùstrutture teatrali.In età romana c’era anche un siparium, chedissimulava il fondo della scena, davanti allaquale recitavano i mimi: era una tenda divisain due parti, che veniva raccolta ai lati, comeun paravento (cfr. Apuleio, Metamorfosi 1,8;10, 29).Il sipario era importante per la scansione deitempi delle scene, nel teatro romano; ma

cisterne comunicanti con l’orchestra nella se-conda metà del IV secolo; teatro di Spoleto;teatro di Pompei, collegamenti sotto l’orche-stra con un serbatoio per l’acqua.

G.P.S.

BibliografiaAricò G., Ostia antica e il suo teatro, in Teatro italia-no, I, a cura di P. Carriglio e G. Strehler, Bari 1993, pp.344 – 349.Gismondi I., La colimbetra del teatro di Ostia, in An-themon 1955, pp. 293-308.Traversari G., Tetimimo e colimbetre, ultime manife-stazioni del teatro antico, in Dioniso,13,1950, p. 18 ss.Traversari G., Nuovi contributi alla conoscenza dellacolimbetra teatrale e del tetimimo, in Dioniso 15, 1952,p.302 ss.Traversari G., Gli spettacoli in acqua nel teatro tardo-antico, Roma 1960.

Sez. 11.4 - I due teatri di Curione

Ricostruzione virtuale: H. Rossi Zambotti(2009)

Plinio, a proposito di questa invenzione po-neva la domanda “Che cosa ci deve meravi-gliare di più, l’inventore o l’invenzione?”(Naturalis Historia, 36, 24, 113-115)Sempre Plinio così li descrive (36, 34, 117):“Due vasti teatri poggianti su piattaforme ro-tanti indipendenti; da essi, dopo la rappre-sentazione antimeridiana fatta quando eranocontrapposti in modo che le scene non si osta-colassero a vicenda – facendoli girare su sestessi […] anche con alquanti spettatori, si ot-teneva un anfiteatro ricongiungendo le estre-mità delle cavee”Per il movimento dei due teatri va ipotizzatol’uso di piattaforme girevoli (v. sez. 2, n.15).

G.P.S.

BibliografiaBrandt J.R., Curio’s Curious Theatres, in ‘Ultra terminumvagari’. Scritti in onore di C. Nylander, Roma 1997, pp.51-57 (con bibliografia precedente)

273

certamente anche nel teatro greco, primadell’invenzione dell’auleum, ci doveva essereuna tenda o altro accorgimento, che impedivala vista della scena agli spettatori, mentreveniva preparata la scena successiva.La parola veniva usata preferibilmente al plu-rale, aulaea, cfr. “aulaea premuntur”; “quattuoraut plures aulaea premuntur”(Orazio, 2,1,189);per far salire l’auleo, si diceva“aulaea tollun-tur”. Ovidio, 3, 111. “E così il giorno della festa,quando viene sollevato il sipario nei teatri, si ve-dono sorgere delle figure dipinte che mostranodapprima il loro viso, poi poco a poco tutto il re-sto, fino a che, tirate in alto con un movimentolento e progressivo, siano visibili tutte intere e po-sano i loro piedi sul bordo della scena” (cfr. an-che Virgilio, Georgiche, 3, 24-25).Un siparium deve essere raffigurato nel rilie-vo di Castel S.Elia: è un tendaggio a festoni,che scende dall’alto verso il basso con file ver-ticali di anelli, entro i quali scorre il cordoneper la manovra, fissato ad un anello più bas-so (v. teatri di Orange e di Aspendos).Canali per il sipario, al di sotto del pulpito, so-no stati trovati in moltissimi teatri, quali Vien-ne, Autun, Pompei, Ercolano, Lione, Arles,Dugga, Timgad, Tipasa; nell’odeon di Corin-to etc.

G.P.S.

BibliografiaCiancio Rossetto P.- Pisani Sartorio G., Teatri antichi grecie romani, Cd.Rom, Roma 2006 (con bibl.); Daremberg,Saglio 1877-1918, s.v. mimus e histrio; Graefe R., Velaerunt. Die Zeltdächer der römischen Theater undähnlicher Anlagen, Mainz 1979; Neppi Modona A., Gliedifici teatrali greci e romani, Firenze 1961.

Sez. 11.3 - Colimbetra

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Per le rappresentazioni acquatiche, tetimimi,cioè danze acquatiche, e mimi a soggetto perlo più mitologico (mimi e tetimimi), che perle cacce in cui gli uomini erano impegnati coni coccodrilli,veniva usata l’orchestra come unapiscina, detta con termine moderno ‘colim-betra’: in tali occasioni l’orchestra veniva al-lagata e alimentata mediante canalizzazionie serbatoi idrici di una certa consistenza (v.Daf-ne, mosaico).L’uso dell’orchestra per spettacoli acquaticipresupponeva la presenza di una pavimen-tazione impermeabile, di un condotto perriempire la vasca dell’acqua con serbatoio oacquedotto e di una via d’uscita o di deflus-so dell’acqua probabilmente da un euripus,prevedendo anche la chiusura delle parodoicon delle paratie.Le colimbetre sono state individuate in unaventina di teatri, ma appare abbastanza evi-dente che un’indagine più attenta in questadirezione potrebbe fornire nuovi risultati.Teatro di Gioiosa Ionica; teatro di Dafne ad An-tiochia con condotto per l’acqua al centro del-l’orchestra, teatro di Dioniso ad Atene:colimbetra e canale di scarico; teatro di Mon-tegrotto: colimbetra per tetimimi; teatro di Ar-go: con parapetto circoscrivente la colimbetrae canali di scarico; teatro di Corinto; teatro diOstia: identificazione della colimbetra sullabase della trasformazione di due taberne in

272

Sez. 11.5 - Scenografia da unpantomimo di Apuleio:il ‘Giudizio di Paride’

Ricostruzione virtuale: di Henrique Rossi Zambotti

Pompei. Affresco. Il giudizio di Paride (Ins. V. 2. 15,

triclinio I, parete ovest) (Napoli, Museo Archeologico

Nazionale) (da Rosso Pompeiano, 2007, p. 102).

Nel racconto, inserito nelle Metamorfosi diApuleio (10, 29,4-32; 34,1-2), della rappre-sentazione nel teatro di Corinto di un panto-mimo, che aveva per tema “il giudizio diParide”, si descrive una vera e propria sce-nografia: un danzatore diverso per ogni per-sonaggio e la parti femminile erano intepretateda donne senza l’uso della maschera con ac-compagnamento di musica di flauti.Dopo un balletto di giovanetti e fanciulle, ec-co che “... uno squillo di tromba pose fine atutte quelle giravolte e a quei complicati eser-cizi, le tende furono arrotolate, il sipario ven-ne piegato e apparve la scena.

Si vedeva una montagna di legno, altissima,simile al famoso monte Ida cantato da Ome-ro, ricoperta di piante vere, tutte belle ver-deggianti; dalla cima, grazie all’abilità delmacchinista, scaturiva una sorgente che ver-sava le sue acque giù per le pendici, come unfiume; alcune capre brucavano l’erbetta ed ungiovane, che rappresentava Paride, il pastorefrigio, le guardava, stupendamente vestito conun mantello di foggia orientale, che gli scen-deva dalle spalle ed una tiara d’oro sul capo”Come si vede, ci sono tutti gli elementi perpoter ricostruire nei dettagli la scenografia. EApuleio prosegue in questa sua rutilante de-scrizione con dettagli sui costumi degli atto-ri, sulle nudità delle attrici-dee, sui movimentidei danzatori, che dovevano esprimere sen-timenti e azioni solo con i gesti, la danza e lamimica. E così prosegue:“Dunque, terminato il giudizio di Paride, Giu-none e Minerva, deluse entrambe e indispet-tite, uscirono dalla scena, manifestando agesti il loro disappunto per l’umiliazione su-bita; Venere invece, giuliva e sorridente espres-se nella danza la sua gioia, ch’ella eseguì contutto il suo corteggio.Ad un tratto, dalla cima del monte, attraver-so un tubo nascosto, sprizzò in alto un get-to di vino misto a zafferano che ricadendoqua e là come una pioggia profumata, bagnòle capre che pascolavano lì intorno, facendo-le più belle, tutte d’oro, da bianche che era-no. E mentre il profumo soave si spandevaper tutto il teatro, s’aprì una voragine e il mon-te di legno sprofondò sotto terra”.

BibliografiaKelly H.A., Tragedia e rappresentazione della tragedianella tarda antichità romana, in Savarese N. (a curadi), Teatri romani. Gli spettacoli nell’antica Roma, Bo-logna 1996, pp. 69-98.

Sez. 11.6 - Organo idraulico

Nel mondo romano l’organo idraulico (orga-num hydraulicum) è ricordato da Plinio (Na-turalis Historia, 7, 125) come l’invenzione percui è degno di fama Ctesibio di Alessandria,insieme alla pompa idraulica (ratione pneu-matica), e bisogna sottolineare che nello stes-so paragrafo Ctesibio è citato accanto adArchimede. Non sappiamo quando questostrumento sia stato introdotto a Roma dalmondo ellensitico, ma ne parla Cicerone, quin-di doveva essere in voga intorno alla metà delI sec. a.C. Alcune informazioni sulla colloca-zione dello strumento vengono date da Sve-tonio e Petronio (v. sez. 3, n. 8). Svetonioricorda in particolare la passione di Neroneper l’organo, che l’imperatore soleva anchesuonare: “E non convocando neppure ora ilsenato o il popolo, chiamò alcuni tra gli uo-mini più illustri e, conclusa rapidamente laconsultazione, passò il resto della giornatatra organi idraulici nuovi e sconosciuti (orga-na hydraulica novi et ignotis generis), mo-strandoli uno per uno, spiegando il lorofunzionamento e le difficoltà nel suonarli edaffermò che li avrebbe presentati in teatro, seVindice lo avesse permesso”(Nero 41); “ver-so la fine della sua vita aveva fatto voto, senulla fosse mutato della sua condizione, diprender parte ai giochi celebrati per la Vitto-ria come suonatore di organo idraulico (hy-draula) ed anche come flautista, suonatoredi cornamusa e l’ultimo giorno come attorenel ruolo del Turno virgiliano” (Nero, 54).Petronio, nella descrizione del banchetto diTrimalchione, dà un’informazione importantesull’utilizzo dell’organo idraulico: “Avanzòimmediatamente il tagliatore che, con gestipantomimici, a suon di musica, fece a pez-zetti la pietanza con uno stile che lo facevasembrare un gladiatore essedario che com-batte accompagnato dalla musica dell’orga-nista (ut putares esssedarium hydraulecantante pugnare)”. L’organo era dunque po-sto nei teatri e negli anfiteatri (sicuramenteper la sua caratteristica di produrre suonimolto forti), accompagnava le rappresenta-zioni teatrali e gli spettacoli gladiatori, con-fermando dunque che la musica in etàromana aveva un legame con il mondo delteatro quasi inscindibile; ciò non significa chela musica dell’organo fosse utilizzata esclu-sivamente come sottofondo, come racconta

Petronio, poichè con il passare del tempo du-rante spettacoli teatrali o ludi gladiatori, erapossibile assistere anche ad esibizioni mu-sicali libere da ogni vincolo e praticate da vir-tuosi dello strumento. Il passo di Svetonio èinoltre utile poichè offre anche altre infor-mazioni: in primo luogo, Nerone mostra mo-delli di organo idraulico sconosciuti, per cuiè possibile ipotizzare che fosse in atto l’evo-luzione tecnica dello strumento che lo por-terà ad abbandonare l’impianto idraulicoutilizzando mantici per trasmettere aria allecanne, e si può ipotizzare che vi fu probabil-mente un periodo in cui i due strumenti, l’or-gano idraulico e l’organo a mantici, venneroutilizzati contemporaneamente, fino a che ilsecondo, in seguito ad una sua evoluzionetecnica, fu preferito al primo per i minori co-sti di impianto e manutenzione. Svetonio of-fre però anche un ulteriore informazione:Nerone infatti parla del funzionamento del-lo strumento e della difficoltà (difficultate) in-contrata nel suonare, poiché effettivamentel’organo era uno strumento estremamentecomplesso non solo da realizzare, ma ancheda suonare; probabilmente le due pompe era-no azionate non dall’organista ma da duepersone poste ai suoi lati, l’organista dove-va invece occuparsi della tastiera e dei ma-nubri necessari ad aprire i canali. Nel corsodell’età imperiale l’organo divenne un ele-mento fondamentale per il cerimoniale di cor-te, a tal punto che nell’Historia Augusta vienesottolineato che Gallieno nel III sec. d.C. vol-

le espressamente che l’organo suonasse sem-pre al ritorno nella sua residenza (HistoriaAugusta, 2, 87, 10). C’è da notare che lo stru-mento resterà un elemento cardine nella cor-te di Bisanzio mentre tenderà a scomparirein occidente, per poi essere sempre presen-te nel mondo bizantino, da dove sarà ripor-tato in Europa nel VII ed VIII sec d.C.Numerosi sono i mosaici, i graffiti, le scultu-re e le terrecotte che lo raffigurano. Ma le de-scrizioni più accurate sono quelle di Erone(Spir. I (66), 42) e di Vitruvio (De architectu-ra, X, 8, 1-6).Nel 1992 a Dion in Grecia è stato ritrovato unorgano idraulico, databile, come quello diAquincum (v. sez. 11, n. 8), al I-II sec. d.C.: èil primo esempio monumentale di questo ti-

274 275

Ricostruzione dell’organo idraulico descritto da

Vitruvio (da Guidobaldi 1992)

Mosaico dalla villa di Nennig (Treviri) con

suonatore di corno e un organista (età adrianea)

po di strumento, alto circa m 1,20 e largo 70cm, 24 canne di varia altezza con diametro dicm 1,8 e 16 canne della metà di tale diame-tro in forma conica, che presentano nel pun-to di inserimento nella cassa un’apertura comenelle canne degli organi moderni, in cui l’ariaspinta dai mantici fuoriesce e produce dellevibrazioni sonore che vengono moltiplicatedall’ascesa dell’aria nel corpo della canna.

A.I.

BibliografiaSu Ctesibio e sul suo ruolo nel mondo scientificogreco:Drachmann A., Ctesibios, Philon und Heron. A studyin Ancient Pneumatic, Copenhagen 1948; L. Russo, Larivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco ela scienza moderna, Milano 2008.Sugli automata, sul loro ruolo nel mondo greco eromano e una loro ricostruzione:Pugliara M. Il mirabile e l’artificio. Creature animate esemoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma2003.Per un’introduzione agli aspetti teorici della musicanel mondo greco e romano:Comotti G., La musica nella cultura greca e romana,Torino 1979.In particolare sulla musica nel mondo romano:Wellesz E., New Oxford history of music, 1. Ancient andOriental music,London 1957; Guidobaldi M.P., Musi-ca e danza in età repubblicana e imperiale, in: Teatriromani. Gli spettacoli nell’antica Roma. Bologna 1996.Per una ricostruzione dell’organo idraulico edun’analisi della descrizione di Vitruvio:Frau B., Pompe e organi musicali del III sec. a.C. Notedi tecnologia meccanica antica, Roma 1980; MorettiC. L’organo italiano, Monza 1997; Landels J.G., Musicin ancient Greece and Rome, London, Routledge 1999.Pandermalis D. L’hydraulis di Dion, in Eureka! il geniodegli antichi, Catalogo della mostra, Napoli 2005, pp.150-153.

Sez. 11.7 - Organo a mantice 0‘pneumatico’ di Aquincum

Originale: Aquincum (Budapest), MuseoArcheologicoDatazione: 228 d.C.Ricostruzione: eseguita dal dott. Nagy, donata econservata presso il Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2870

L’organo a mantici o ‘ pneumatico’, molto piùleggero di quello idraulico e quindi più facil-mente trasportabile, doveva già essere in usonei primi anni dell’età imperiale ed è ricor-dato da Polluce (4, 69-70) nel II sec. d.C..L’originale è stato rinvenuto nel 1931 in unacasa di Aquincum (Budapest), quasi certa-mente la schola dei pompieri della città.

Un’iscrizione nella parte posteriore dice chelo strumento fu donato nel 228 d.C., sotto ilconsolato di Modesto e Probo, al collegio deipompieri (collegium centonariorum) da Giu-lio Vittorino, decurione della colonia di Aquin-cum e prefetto di quel collegio.L’organo è composto di 52 canne su quattroregistri di tredici canne ciascuno. Il somiere,lungo 27 cm, largo 8 ed alto 13,4, è costruitonello stesso modo di quello descritto da Vi-truvio, con la sola differenza che in luogo deirubinetti regolati da maniglie di ferro ci sonodelle chiusure a scorrimento più solide e piùfacilmente manovrabili. Nell’accumulatore adaria compressa sono quattro canali da apriree chiudere a mezzo di valvole dei registri, se-condo su quale fila di canne si doveva suo-nare. I mantici venivano adattati direttamenteal somiere, spingendo dentro l’aria compressacome in una zampogna. Oltre al mantice ge-neratore d’aria era indispensabile un manti-ce compensatore o regolatore senza il quale,tra ogni arrivo nuovo d’aria, il suono si sa-rebbe spento. Una lastra di bronzo con 52aperture serve da copertura della secreta a

vento. Sulle aperture sono le val-vole dei tasti. In mezzo al leggiosono le canne della prima fila di-

sposte in ordine di grandezzae unite da nastri.Due organi simili sono raffi-

gurati sulla base dell’obeliscodi Teodosio a Costantinopoli.

G.P.S.

BibliografiaCallebat, Fleury 1986, pp. 170-179;

Guidobaldi 1992, pp. 47-53; Kaba 1976;Perrot 1965; Walcker-Mayer 1970.

Sez. 11.8 - Vasi di risonanza el’acustica nei teatri romani

Ricostruzione virtuale di Henrique Rossi Zambotti

Vitruvio, architetto romano dell’età augustea,nel suo manuale (De architectura, 5, 8, 1-2)raccomanda per la costruzione di un teatrodi scegliere un luogo “dove la voce possa giun-gere leggera senza essere ostacolata e rim-balzare indietro trasmettendo all’orecchiosuoni confusi”, e distingue i luoghi in disso-nanti, circumsonanti, resonanti e consonan-ti; per il teatro sono ideali i luoghi consonanti,dove la voce, secondata dal basso, aumentadi volume a mano a mano che sale e giungeall’orecchio chiara e distinta. Così operandonella scelta del luogo “si otterrà in teatro uneffetto sonoro ottimale sfruttando al megliol’effetto della voce”.Tuttavia quando l’acustica del luogo non erasufficiente, si ricorreva ad accorgimenti tec-nici, di cui ci parla in altra parte del suo librosempre Vitruvio e che - anche se raramentee con qualche dubbio - sono stati riconosciutio si è creduto di riconoscere in alcuni teatri,come ad esempio a Nora in Sardegna, dovegrandi orci rinvenuti sulla scena sono stati at-tribuiti a sistemi di risonanza; in altri teatri, ilritrovamento di spazi vuoti dislocati a inter-valli regolari sulla cavea ha fatto pensare ameccanismi artificiali per l’amplificazione del-la voce.La stessa pedana lignea del palcoscenico, sul-la quale recitavano gli attori, poteva servireda cassa armonica. Nei teatri romani la tet-toia di legno, che copriva la scena, il muro difondo e le pareti dei parasceni potevano for-mare una cassa di risonanza.Vitruvio scriveva (De Architectura, 5, 1-2; 8) -non sappiamo con quanta sperimentazionepratica - che bisognava “far fare dei vasi di

bronzo di dimensioni proporzionate a quelledel teatro e realizzati in modo che per effet-to di percussione sonora emettano note diquarta, quinta e così via fino alla doppia ot-tava. Si dispongano poi questi vasi in appo-site cellette situate fra i seggi del teatro,calcolandone gli effetti sonori e senza che sia-no a contatto con qualche parete, ma abbia-no piuttosto uno spazio vuoto tutt’attorno esopra. Si badi inoltre a disporli rovesciati e inmodo che poggino su di una base a forma dicuneo di almeno mezzo piede e siano rivoltiverso la scena. Di fronte a queste cellette sipratichino delle aperture alte mezzo piede elarghe due, in corrispondenza dei posti situatisulle gradinate più basse”. A seconda dellanota emessa dal vaso, questo veniva collo-cato in uno spazio ben definito in relazioneanche alle dimensioni del teatro.E Vitruvio, romano, continua in merito allapropagazione del suono: “7… Ciò del resto lo

si può intuire (nei teatri lignei) anche dal com-portamento dei citaredi che per alzare il tonodella voce si girano verso le porte della sce-na che fungono da casse di risonanza. Si de-ve invece ricorrere al sistema dei vasirisuonatori di bronzo, quando i teatri sonocostruiti con materiali solidi, in muratura, inpietra o in marmo, che per loro natura nonrisuonano. 8. Se poi vogliamo sapere dovesiano state applicate queste norme, a Romanon saprei indicare nessun teatro; in com-penso ve ne sono in alcune città italiche e damolte parti in Grecia. Abbiamo inoltre anchela testimonianza di Lucio Mummio, il qualedopo la distruzione del teatro di Corinto, fe-ce portare a Roma quei vasi risuonatori dibronzo e li consacrò come bottino di guerranel tempio della Luna. Molti abili architetti,che costruirono teatri in piccole città, non po-tendo disporre di vasi di bronzo, scelsero co-me strumenti di amplificazione dei vasi diterracotta opportunamente disposti secondoqueste regole, ottenendo ottimi risultati”.(tra-duzione di L.Migotto)Sembra che nel teatro ellenistico-romano diAizanoi in Frigia alcune nicchie, che si trova-no ad intervalli nella cavea, possano avereavuto funzione acustica.

G.P.S.

BibliografiaBardis P.D., The Theater of Epidaurus and the myste-rious vanishing vases, in Platon 41, 1989, pp. 16-19; Frau1987; Guglielmetti F., Le metodologie per l’analisi e ilrecupero funzionale dell’acustica nei teatri antichi, inAtti del Convegno “Teatri antichi nell’area del Medi-terraneo”,Siracusa 13-17 ottobre 2004, Palermo 2006,pp. 58-71; Mazzeo A., La rinascita del teatro antico, Ro-ma 2001, p. 96 ss.; Poulle P., Les vases acoustiques duthéâtre de Mummius Acaius, in RA, 1, 2000, p. 45 ss.;Tosi G., Il teatro antico nel De Architectura di Vitruvio,in RdA 21, 1997, pp. 49-75, figg. 1-2; Vitruvio, De Ar-chitectura, edd. P. Gros, E. Romano, A. Corso, Einau-di, Torino 1997, pp. 688, 696-697.

277276

Sez. 11.9 - Ascensore per le fierenel Colosseo

Plastico ricostruttivoLuogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 2801

I 15 corridoi in cui si articolano i sotterraneidell’Anfiteatro Flavio sono il più grande im-pianto di questo tipo conosciuto, con il soloconfronto con quelli degli anfiteatri di Capua,Pozzuoli e Thysdrus (El Jem).Per rendere sempre più eccezionali gli spetta-coli venivano messi in scena nell’arena vere eproprie rappresentazioni di miti o di eventi sto-rici e negli ipogei trovavano collocazione gliapparati scenici per far comparire all’improv-viso sull’arena uomini, fiere e scenografie.Un accurato studio, rilievi ed analisi del mo-numento (Beste 2001) ha potuto ricostruirenel dettaglio il funzionamento di questi ap-parati scenografici: nel corridoio B erano in-stallati 28 ascensori ed altrettanti argani ditipo semplice, smontabili secondo le neces-sità degli spettacoli, le funi passavano su car-rucole fissate alla struttura sottostante lapavimentazione in legno dell’arena (oggi nonpiù esistente). L’ascensore/gabbia non salivafino al livello dell’arena, ma si fermava ad unlivello immediatamente sottostante il pavi-mento e le fiere raggiungevano l’arena spin-te su di un piano inclinato o rampa, che venivamanovrata solo al momento dell’ingresso nel-l’arena delle belve.Nei corridoi definiti H e F erano inserite 20piattaforme mobili di circa m 4 x 5 usate persollevare nell’arena le decorazioni per creare

dei veri e propri scenari: le piattaforme face-vano parte del pavimento dell’arena, che al-l’occorrenza venivano fatte inclinare di 30° e,tenute con corde e verricelli, fatte scivolare suguide fino a livello dei sotterranei: qui veni-vano caricate con le scenografie e le personee, sempre per mezzo di verricelli o argani, ri-portate nella loro posizione iniziale a livellodell’arena.

G.P.S.

BibliografiaBeste H.J., I sotterranei del Colosseo: impianto, tra-sformazioni e funzionamento, in Sangue e arena, Ca-talogo della mostra, Roma 2001, pp. 277-299 (conbibliografia)

Sez. 11.10 - Funzionamento delmeccanismo delle uova e deidelfini sulla spina e tecniche dellacorsa circense

Lo spettacolo più frequente che si svolgevanel circo erano le corse dei carri (ludi cir-censes): dodici carri, tre per ciascuna dellequattro fazioni (la blu, la verde, la bianca, larossa); la migliore posizione di partenza erascelta tramite sorteggio. All’apertura dei can-celli degli stalli (carceres), i carri si lanciavanosulla pista e, dopo aver passato una lineabianca posta davanti alla tribuna dei giudicidi gara, dovevano effettuare per regolamentosette giri completi (per un totale di 5000 me-tri nel Circo Massimo o 3000 nei circhi piùpiccoli). Il numero sette è simbolico: sette ipianeti che nel sistema tolemaico girano in-torno alla terra; la corsa si svolge intorno allaspina, elemento che divide la pista di andatada quella di ritorno, alle cui estremità ci sonole due mete, anche queste simbolicamenteindicano il giorno e la notte; la spina è cir-condata da un bacino d’acqua, simbolodell’oceano; al centro si leva l’obelisco, sim-bolo solare: ogni giro della pista da partedell’auriga corrispondeva ad una giornata, isette giri ad una settimana; i dodici stalli po-tevano essere assimilati ai dodici mesi o alledodici costellazioni e i quattro cavalli allequatto stagioni. Lo scopo della gara non eraquello di essere i più veloci, ma di arrivare perprimi. Lo stato di avanzamento della corsaveniva indicato al pubblico e ai giudici di gara,che ne controllavano e garantivano il regolaresvolgimento, da due contagiri, i piccoli edificidelle uova e dei delfini posti sulla spina,ognuno dei quali era composto da sette ele-menti mobili (uova e delfini) che indicavanoi giri effettuati ed erano manovrati da un ad-detto, che riceveva un segnale dai giudici digara. L’aspetto di questi contagiri è ben notadai mosaici e dai bassorilirvi che li rappre-sentano, ma soprattuto sulla base dei restidel circo di Leptis Magna è stata possibile unaricostruzione virtuale.Il contagiri con le uova (ovarium) era una pic-cola trabeazione parallela alla spina, per es-sere visibile dai giudici di gara, sorretta dadue colonnine distanti l’una dall’altra circa2,10 metri, sulla quale poggiava una barra me-tallica o di legno con sette fori nei quali eranoinserite delle aste di legno alla sommità delle

Anfiteatro Flavio. Ricostruzione del sistema di piat-

taforme a scivolo nel corridoio H (da Beste 2001, p.

295, fig. 18)

quali erano infisse le uova (probabilmente inmarmo del diametro circa 20/25 cm) (v. mo-saico di Lione) e che dovevano essere alzate– una dopo l’altra - di circa 1 metro per se-gnalare l’inizio del giro: quando veniva alzatol’ultimo uovo, voleva dire che era inziato l’ul-timo giro dei carri.Una struttura simile, larga circa 2 e alta circa4,70 metri, doveva sorreggere i delfini (del-phinium), posta dal lato dei carceres e per-pendicolare alla spina. I delfini in bronzo caviall’interno (misure ipotetiche m 1 x 0,50 x 0,25)erano inseriti su perni ruotanti posti suun’unica barra orizzontale, cava anch’essaall’interno che serviva da asse di rotazione,nella quale scorreva l’acqua che riempiva idelfini. L’operatore, che utilizzava una scalettaper monovrare i delfini, nell’abbassarli facevauscire un getto d’acqua dalla loro bocca, ac-qua che finiva nel canale (euripus) della spina.L’abbassarsi dell’ultimo delfino doveva indi-care la fine della gara.

F.F.

BibliografiaFauquet 2008, pp. 261-289; Ioppolo, Pisani Sartorio1999; Pisani Sartorio 2008, pp. 47-78.

279278

1. Ricostruzione dello svolgimento della corsa circense (M. Peres, F. Fauquet, Ausonius)

2. Restituzione delle dimensioni dell’edicola delle

uova del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

4. Restituzione delle dimensioni dell’edicola dei

delfini del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

5. Restituzione della posizione dell’edicola dei

delfini sulla spina del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

3. Restituzione della posizione dell’edicola delle

uova sulla spina del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

Sez. 11.11 - Carro da corsa

Materiale: legnoRiproduzione: Roma, Museo della Civiltà RomanaRestitutione virtuale: F. Fauquet, Ausonius, Bordeaux

Il carro da corsa era un veicolo stabile e leg-gero, ma allo stesso tempo molto robustopoiché doveva sopportare il traino di nume-rosi cavalli. Di questo mezzo di trasporto nonci sono giunti esemplari, ad eccezione di unmodellino in bronzo rinvenuto nel Tevere. Lesue ipotesi ricostruttive sono dunque staterealizzate esclusivamente sulla base della do-cumentazione figurata, rilievi e mosaici, mol-to abbondante anche se spesso assai generica.Il carro da corsa era costituito da due ruote,sistemate all’estremità posteriore del carro,e così tutto il peso della struttura gravava sul-la parte anteriore, cioè sul timone; questo eraricurvo verso l’alto e lungo 2,5 m, e partivadall’assale per mezzo di un attacco a T. Laparte del pianale era costituita da un rettan-golo, leggermente ricurvo nella parte ante-riore, di circa 35 cm di lunghezza e 70 cm dilarghezza. Per rendere più leggero il veicolosia il pavimento che il parapetto non erano dilegno massiccio, ma costituiti da un tralicciodi bacchette lignee su cui poggiava una leg-gera sfoglia di legno, o un copertone di cuo-io, che riparava le gambe dell’auriga.Il carro da corsa romano, a differenza di quel-lo celtico o greco, era guidato da un solo au-riga. Generalmente veniva trainato da quattrocavalli, due aggiogati al centro e due, ai latidi questi, legati direttamente al carro per mez-zo di funi (funales). Questi ultimi, durante lagara, sostenevano lo sforzo maggiore. A vol-te il carro veniva trainato da un numero mag-giore di cavalli, che poteva andare da sei adieci (Isidoro, Originum seu Etymologiarumliber XVIII, 36; Virgilio, Aeneidos liber XII, 164;Sant’Agostino, De Civitate Dei, XIX, 3). Le iscri-zioni ci attestano che l’auriga M. Aurelio Po-linice gareggiò su carri trainati da otto e novecavalli (CIL VI, 10049), mentre in una gem-ma ne compaiono addirittura venti.

Il carro da corsa giunse in ambiente romanodirettamente dal mondo greco, attraverso lamediazione culturale del mondo etrusco. Ta-le tipo di veicolo fu però perfezionato dai Cel-ti, che dal V sec. a.C. al III d.C. lo impiegarononel contesto bellico, in cui conferiva maggio-re mobilità ai guerrieri: l’abilità degli aurighibritannici è ampiamente lodata da Cesare neisuoi Commentarii De Bello Gallico.Il luogo prediletto per i giochi nel mondo ro-mano fu fin dalle origini la valle paludosa trail Palatino e l’Aventino, dove fu realizzata l’im-ponente struttura del Circo Massimo, che po-teva ospitare fino a 250.000 spettatori.Durante l’Impero gli aurighi erano presi a ser-vizio da fazioni, che erano distinte da diversicolori, e fomentavano un violento entusiasmotra tutte le classi della società romana: i mi-gliori passavano da una fazione all’altra, co-me nel moderno mondo calcistico. Questotipo di competizione agonistica sopravvisseall’arrivo del Cristianesimo, e l’entusiasmo daessa scaturito fu forse più violento a Costan-tinopoli che a Roma: è stato detto che gli abi-

tanti della nuova capitale dell’Impero divi-dessero i loro interessi tra la passione per lacorsa dei carri e i discorsi teologici.

I.F.

BibliografiaAmouretti 1991, pp. 219-232; Cagiano de Azevedo 1938;Daremberg-Saglio, s.v.; Fauquet 2008, pp. 261-289.;Ioppolo, Pisani Sartorio 1999; Jope 1993, pp. 544-571;Pisani Sartorio 2008, pp. 47-78; Raepsaet 2002; Rus-so, Russo 2008; Weber 1986; Weber 2007; White 1984.

Restituzione del carro da corsa

(F. Fauquet, Ausonius)

Ricostruzione grafica

di un carro da corsa

(G. Ioppolo)

Per mezzo dell’interazione di aria, fuoco, acqua e terra e com-binando tre o quattro principi, possono essere realizzati con-gegni diversificati, i quali, da un lato provvedono ai maggioribisogni della vita, mentre dall’altro generano stupenda mera-viglia (ekplektikos thaumasmos)(Erone di Alessandria, Pneumatika 2, 18-20)

Tecnologia come utilitas e come meraviglia: per quanto possa ap-parire un’associazione strana, la nozione di vantaggio o utilità, no-zione tanto cara alla mentalità romana, si è prestata ad esserecoordinata alla sfera del divertimento e dell’espressione del lusso.Tale sorprendente sintesi di utilitas e di ricerca dell’effetto si riflettenelle elaborazioni di uno dei teorici e degli autori più prolifici nelcampo della tecnologia antica di età imperiale. Erone di Alesandria,intellettuale molto probabilmente formatosi nel circolo scientifico efilosofico del celebre museion alessandrino ed attivo a Roma intor-no al 60 d.C., scrive su una vasta gamma di congegni meccanici,idraulici, pneumatici. Dalla misurazione del terreno alla costruzio-ne di macchine da guerra, dalle macchine per il sollevamento deipesi a strumenti ottici sofisticati: molti dei congegni da lui descrit-ti sono esplicitamente motivati dall’intento di suscitare stupore ne-gli osservatori. L’opera di questo autore è esemplare di un’interaproduzione tecnologica di oggetti, comunemente denominati co-me automaton/automata. Si tratta, nella maggior parte dei casi de-scritti, di oggetti meravigliosi la cui prima peculiarità è quella difingere di funzionare senza alcun ausilio o apporto di energia ester-na, per l’appunto, come indica la composizione greca del terminecon il prefisso auto-‘da se stesso’, di ‘vivere di vita propria’.Forse anche per queste peculiarità, la popolarità di Erone di Ales-sandria fu notevole non solo nel mondo antico ma anche in quellobizantino e arabo, come dimostra l’esistenza di circa un centinaio dicopie di codici greci con disegni illustrativi (il testo più antico è il Mar-cianus cod. gr. 516 probabilmente del XII secolo), per passare, infi-ne, all’entusiastica ricezione delle sue opere in epoca rinascimentale,tanto che anche Leonardo da Vinci sembra averne subito il fascino.Nonostante il silenzio nei suoi scritti sulla sua attività e sul con-testo storico è stata avanzata una suggestiva ipotesi di riconoscerenell’episodio narrato da Svetonio concernente i nuovi congegniidraulici dell’imperatore Nerone un’eco dell’attività di Erone e del-le sue creazioni presso la corte imperiale:

(…) dopo aver fatto una rapida consultazione passò (Nerone)il resto della giornata a mostrare loro degli organi idraulici di

modello nuovo e sconosciuto (organa hydraulica novi et igno-ti generis), e ne fece esaminare ogni singola parte, illustrandoil meccanismo e le complesse strutture che presentavano, epromettendo loro che li avrebbe ben presto fatti vedere in tea-tro, se Vindice glielo avesse permesso” (Svetonio, Vita di Ne-rone, 41, 2 trad. F. Dessì, Milano 1982)

In questa associazione non è sembrato casuale che anche Eroneparli di nuovi tipi di organi (Erone, Pneumatica 1, 42) rispetto amodelli già esistenti, soprattutto al primo esemplare inventato in-torno alla metà del III sec. a.C. da un altro grande scienziato ales-sandrino, Ctesibio. Erone, come pure i suoi predecessori e ‘maestriideali’, Ctesibio (III a.C.) e il suo ugualmente celebre allievo Filo-ne di Alessandria (II a.C.), appartiene a tutta una tradizione di ‘in-gegneri’ delle scienze meccaniche, pneumatiche ed idrauliche, cheun altro più tardo prosecutore della stessa scuola, Pappo di Ales-sandria (ca. 300 d.C.), chiamerà in modo suggestivo thauma-siourgoi, cioè creatori di congegni meravigliosi e oggetti magici,funzionanti per pressione dell’aria o dell’acqua (Hultsch 1878, vol.3, 1022 ss.).Contrariamente al notevole apprezzamento e alla diffusione di ta-li congegni in antico, per i quali Erone offre senza dubbio la mi-gliore testimonianza, gli storici moderni di tecnologia antica hannoespresso, invece, giudizi assai limitativi su tale produzione: nonrientrando in categorie moderne, come ingegneria idraulica o ci-vile, né funzionali ad un discorso di produttività, come agricoltu-ra, estrazione mineraria, trasporti ecc., le machinae/mechanai dicui ci parlano Erone o Svetonio vengono considerate nella lette-ratura specialistica alla stregua di “giocattoli”, di prodotti secon-dari negli autori antichi di tecnologia, con limitata portata scientifica,in qualche modo retaggio di una cultura ellenistica e estranei almentalità romana.Su quest’ultimo punto un vivace quadro tratto dal Satyricon di Pe-tronio ci mostra quanto tali oggetti fossero parte comune della vi-ta e dell’immaginario dei romani: durante l’opulenta coena delricco liberto Trimalcione, sotto Nerone (54-68 d.C.), un incidentedovuto alla caduta di un giocoliere produce scompiglio tra gli ospi-ti e sembra, nell’immaginazione della voce narrante, preludere al-l’entrata in scena di un qualche misterioso congegno:

Perciò cominciai a sbirciare, intorno, aspettandomi che qual-che macchina misteriosa uscisse dalla parete … (trad. G.A. Ci-botto 1972)

Itaque totum circumspicere triclinium coepi, ne per parietema u t o m a t u m aliquod exiret… (Petronio, satyricon 44)

Anche se non sapremo mai quale automaton aveva in mente l’ospi-te di Trimalcione, il passo di Petronio getta luce sul luogo e sullesituazioni sociali nel mondo romano, in cui tali congegni trovava-no la loro collocazione ideale, vale a dire il momento del banchet-to conviviale. Il quadro petroniano crea, dunque, lo sfondo adeguatoper comprendere tutta una serie di oggetti accuratamente descrit-ti da Erone con un’ampia gamma di variazioni. Un esempio in Pneu-matica 1, 9 (fig. 1) esemplifica quello che viene definito trick-vase,recipiente-scherzo, che produce un inganno dei sensi: si tratta diun recipiente per liquidi, la cui ansa è cava all’interno e che prose-gue con un piccolo tubo (ξ−η) per l’aria all’interno del recipientestesso; l’ansa è dotata di un piccolo foro (κ) che permette l’entra-ta o il blocco dell’aria all’interno del vaso. L’interno del vaso è do-tato di un fondo intermedio (υ−δ) che ne divide il corpo interno indue settori, comunicanti per una serie di piccoli fori (ε). Qual erail fenomeno a cui assisteva lo spettatore durante lo spettacolo del-la festa? Tenendo chiuso il foro (κ) il recipiente poteva essere riem-pito, ad esempio con acqua, nel settore superiore del vaso e senzacolare in quella inferiore (β), dando l’impressione che il vaso fos-se pieno; mentre all’aprirsi del foro (κ) l’acqua si riversava attra-verso i fori del diaframma(β), lasciando di nuovo vuota la partesuperiore. Riempito nuovamente, questa volta con vino, se chi os-serva la scena si aspetterà di ottenere questa volta versata la mi-scela tradizionale di vino ed acqua, rimarrà fortemente deluso:mantenendo chiuso il foro (κ) il vino non si potrà mischiare al-l’acqua e l’ospite sorpreso riceverà, invece, vino pretto.Notiamo come la tensione a suscitare meraviglia e sorpresa nel-lo spettatore sia la finalità anche di questi piccoli congegni; dalpunto di vista scientifico non si può fare a meno di evidenziarecome questi vasi premettono la diffusione di conoscenze pneu-

281280

Tecnologia per stupire: gli automata nel mondo romano

Marco Galli

matiche e idrauliche – quella fondamentale in questo caso è chel’aria si comporta un corpo che occupa un certo spazio – da par-te di chi li realizzava. Le indicazioni di Erone su come nasconde-re il meccanismo che genera l’azione dell’automaton lascianotrasparire questa tensione tra l’ideatore-meccanico, che conoscele cause del movimento, e spettatore che non può vedere rima-nendo preda della suggestione.Oltre a singoli oggetti “meravigliosi” Erone descrive pure tutta unaserie di più complessi congegni automatici che combinano prin-cipi della pneumatica con l’utilizzo di espedienti idraulici, grazieall’uso di acqua corrente: si tratta per lo più di impianti di fonta-ne artificiali, destinate per dimensioni a luoghi aperti, ad esempioi lussuosi giardini residenziali. Un caso suggestivo è quello di unafontana (v. sez. 11.12a) che prevede la presenza di un animale inbronzo: quando l’animale segnala, emettendo un suono, la pro-pria sete attirerà l’attenzione di uno spettatore, che porgendogliun recipiente pieno d’acqua, permetterà all’animale “assetato dibere”, ovviamente per un effetto di aspirazione dell’acqua. La con-cezione di un siffatto congegno è interessante sotto due aspetti:l’effetto illusionistico di vita, attraverso suono e la finzione del be-re, e, soprattutto, l’aspetto dell’interazione con uno spettatore-at-tore. Constatiamo, quindi, la commistione tra conoscenze esperimentazioni scientifiche e ‘mondo della vita’: una variegatacasistica di orologi ad acqua o ad ingranaggi, congegni acustici eidraulici (sez. 11.12a.b.c) fino a comprendere l’affascinante cate-goria di androidi, come ad esempio bambole che muovono auto-nomamente le membra o manichini con fattezze umane. Tuttoquesto poteva trovare collocazione adeguata, per dimensioni efunzionalità, nelle residenze delle aristocrazie romane: è stato pro-posto convincentemente di vedere gli spettacoli pneumatici e idrau-lici di Erone non come puro risultato di una speculazione teoricama come produzione destinata agli spazi e ai momenti sociali del-le élites dell’impero.Sulla base delle esemplificazioni fatte ci sembra che si possa enu-cleare la natura degli automata in tre aspetti essenziali: il loro fun-zionamento automatico, la suggestiva finzione di riprodurre unfenomeno naturale, il celarsi del meccanismo che li mette in azio-ne agli occhi dello spettatore.Ma il campo di azione degli automata appare più ampio rispettoa quello degli spazi residenziali, andando ad interessare la sferadel sacro e quella dell’esperienza teatrale.La descrizione (sez. 11.12b) di un congegno automatico per mez-zo del quale è possibile aprire le porte del tempio di Serapide adAlessandria in associazione con l’accendersi del fuoco sull’altarecultuale rientra in una serie di impianti complessi descritti da Ero-ne che hanno come soggetti vittorie, menadi, satiri e figure di di-vinità tra cui Dioniso, Pan ed altre divinità; qui il contesto sacrodiventa lo sfondo per forme di spettacolarizzazione del rituale at-traverso l’impiego di ingegnosità tecnologica.Se l’impiego della tecnologia ha come fine la combinazione di uti-litas e del meraviglioso, alla ricerca di un più diretto e emoziona-le coinvolgimento dello spettatore, certamente l’applicazione degliautomata nell’ambito della performance teatrale non stupisce. Lodimostra nella vasta produzione di Erone l’opera automatopoieti-ke, la creazione di automata, dove il meccanico alessandrino ad-

Fig. 1 Trick-Vase,

ricostruzione del ‘vaso-

scherzo’ da Erone di

Alessandria, Pneumatica

1, 9: si tratta di un

recipiente per liquidi, la

cui ansa è cava all’interno

e che prosegue con un

piccolo tubo (ξ−η) per

l’aria all’interno del

recipiente stesso; l’ansa è

dotata di un piccolo foro

(κ) che permette l’entrata

o il blocco dell’aria

all’interno del vaso.

L’interno del vaso è dotato

di un fondo intermedio

(υ−δ) che divide lo spazio

interno in due settori,

comunicanti per una serie

di piccoli fori (ε)

Sez. 11.12a - Automata di EroneAlessandrino

‘La fonte con l’aquila che beve’Nel testo di Erone (Pneumatica, I. 29) si descri-ve la costruzione ed il funzionamentodi una fon-tana monumentale composta da un sistemaidraulico di vasche comunicanti, caratterizzatadalla presenza di un animale, riprodotto artifi-cialmente in bronzo o in altro materiale. L’auto-realessandrinodel I sec.d.C. consigliadi installarequesta fontana in prossimità di una fonte.Il congegno è funzionale a far sì che l’animale,producendo un sibilo, segnali al visitatore che èin grado di bere: questo, porgendogli una cop-pa piena d’acqua, attiverà il meccanismo per cuil’animale sarà in grado di aspirare l’acqua, dan-do l’illusione di bere.Il sistema è costruito nel modo seguente: l’ac-qua sgorgando dalla fonte riempie la vasca su-periore α−β, in cui è presente un sifone ricurvoδ−ε−ζ, attraverso il quale l’acqua si riversa in unpiccolo vaso collettore ο−π, dal quale si riversain un’altra vasca η−θ−κ−λ intermedia. Anchequesto collettore d’acqua contiene un sifone ri-curvo µ−ν−ξ che permette il flusso dell’acquaverso il fondo del vaso collettore inferiore ω, ilquale, appesoadunmanico,oscillanelmomentoin cui cade al suo interno l’acqua. Anche l’ani-male è collegato al sistema di vasi comunicanti,infatti è dotato di un tubo ρ−σ−τ, nascosto, chedal becco (ρ) passa per una delle zampe (τ) col-legandolo alla vasca intermedia η−θ−κ−λ.Il funzionamento è invece il seguente: quandola prima vascaα−β sarà piena, l’acqua attraver-so il sifone δ−ε−ζ giunge alla vasca intermediaη−θ−κ−λ riempiendola, mentre la vasca supe-riore tenderà a svuotarsi. Analogamente quan-do la baseη−θ−κ−λ si riempe, l’acqua si riversanel recipiente sottostante ω creando un vuotoall’interno e contemporaneamente causandoun’aspirazione dell’aria attraverso il becco arti-ficiale dell’animaleρ. Quando il vaso inferioreωcomincerà ad oscillare per la caduta dell’acquadal sifone µ−ν−ξ, l’animale, a causa del vuotocreatosi all’interno della vasca intermedia, co-mincerà a risucchiare aria attraverso il tubo ρ−σ−τ, dando origine all’effetto acustico del sibilo:in questo preciso momento, quando il visitato-re porgerà all’animale una coppa piena d’acqua,egli comincerà ad assorbire il liquido creandol’illusione di bere.

D.S.

Sez. 11.12b - ‘Il Tempio di Serapide conle porte automatiche’

Il brano, tratto dal testo di Erone (Pneumati-ca, I. 38), descrive la costruzione del mecca-nismo che permette l’apertura delle porte diun piccolo tempio, quando il fuoco del sacri-fico è acceso. Tale macchina era utilizzata peraprire le porte del tempio di Serapide ad Ales-sandria e può essere considerata uno dei pri-mi esempi di macchina a vapore della storia.Il sistema è costruito nel modo seguente: iltempietto è collocato su di una base α−β−γ−δ insieme alla piccola ara sacrificale ε−δ. At-traverso di essa si farà passare il tubo η−ζ inmodo tale che l’apertura ζ sarà all’interno del-l’ara e l’apertura η sarà nella sfera θ, conte-nuta nella base α−β−γ−δ. Nella sfera vi saràun sifone ricurvo κ−λ−µ la cui estremità µ,esterna alla sfera, si troverà in un vaso sospesoν−ξ, mentre l’estremità κ sarà sulla sfera. Aiprolungamenti dei cardini delle porte che giun-gono nella base sottostante α−β−γ−δ, saran-no fissate due piccole catene che unitepasseranno per la carrucola di destra e giun-geranno al vaso sospeso ν−ξ. Altre due pic-cole catene saranno collegate ai cardini,analogamente alle prime ma nel senso inver-so, ed unite in una sola, saranno fatte passa-

re per la carrucola di sinistra e agganciate adun peso in piombo .Il funzionamento è il seguente: inizialmenteattraverso un foro π sulla sfera θ s’introducedell’acqua fino a riempirne la metà e succes-sivamente verrà chiuso.Tale sistema utilizza l’espansione dell’aria cheviene riscaldata dal fuoco dell’ara, la quale at-traverso il tubo η−ζ giunge nella sfera θ, piùgrande, facendone aumentare la pressione.Questa dilatazione spingerà l’acqua che si ri-verserà attraverso il sifone κ−λ−µ, nel vasosospeso ν−ξ, aumentandone il peso. Que-st’ultimo scenderà, tirando le catene collega-te alla carrucola di destra facendo girare icardini e la loro rotazione tirerà l’altra catenacollegata alla carrucola di sinistra, alzando ilcontrappeso φ.A questo punto le porte del tempio si apri-ranno e, come espressamente sottolinea l’au-tore alessandrino, produrrà un effetto dimeraviglia negli astanti.Infine, quando il fuoco verrà spento, la pres-sione nella sfera θ diminuirà e il sifone κ−λ−µ risucchierà l’acqua svuotando il vasosospeso ν−ξ. In questo modo il contrappesoφ scenderà facendo ruotare in senso inversoi cardini che chiuderanno le porte del tempio.

A.S.

dirittura descrive il progetto di un teatro mobile con la rappre-sentazione (molto probabile) di un testo tragico sofocleo. Ma for-se a dimostrazione dell’efficacia e dell’importanza di tali apparatitecnici basta ricordare un caso straordinario di uso emotivo e alcontempo politico di un automaton, proprio durante uno dei mo-menti salienti della vita pubblica di età repubblicana: l’esposizio-ne del cadavere di Cesare dopo il suo assassinio nel 44 a.C.Leggiamolo nella suggestiva ricostruzione che ne da lo storico Ap-piano (bella civilia, 2 143-148) attraverso la bellissima ricostruzio-ne di Luciano Canfora:

Quando fece la sua apparizione il cataletto, con il corpo deldittatore, portato a braccia da magistrati in carica e da altricittadini che avevano ricoperto le magistrature, l’emozione eraal colmo. Essa fu acuita da una trovata teatrale, di cui dà no-tizia Appiano: una trovata che rinvia chiaramente ad una re-gia. Per eccitare fino alla commozione era necessario esibirealla folla il corpo trafitto, ma ciò non era possibile; «la salmaera distesa supina sul cataletto, e perciò non risultava visibile.Allora fu issato da un tale, grazie ad una mechané (…), unfantoccio di cera con le fattezze di Cesare, trafitto da ventitrèpugnalate e orrendamente sfigurato. Veniva spostato di qua edi là un po’in tutte le direzioni. E questa vista risultò alla finescatenante». Fu allora che si passò, quasi verso un ovvio sboc-co, alle vie di fatto: appiccare il fuoco.(Canfora 1999, 375)

La presenza degli automata nella cultura romana, di cui Erone cirende la più completa ed efficace testimonianza, è in linea di con-tinuità con una ben più lunga tradizione che partiva dagli alboridella civiltà greca, proprio da quel diciottesimo libro dell’Iliade, do-ve nell’officina di Efesto venivano realizzati venti tripodi “auto-matici”:

… venti tripodi in una volta faceva,da collocare intorno alle pareti della sala ben costruita;ruote d’oro poneva sotto ciascun piedistallo,perché da soli entrassero nell’assemblea divina,poi tornassero a casa, meraviglia a vedersi.Il. 18, 373-377 (trad. R. Calzecchi Onesti Torino 1950)

Il mito di quello che i poeti comici greci di età classica chiame-ranno automatos bios, una vita in cui tutto può funzionare senzaalcuno sforzo né dispendio di fatica e dolore, ancora esercita unaforte suggestione e mantiene una sua validità nelle culture del-l’impero romano: allora come anche nel mondo contemporaneo,un mito alimentato e sostenuto dalla convinzione in un saperetecnologico capace di unire utilitas allo stupore o, come dice ilpoeta, meraviglia a vedersi.

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Sez. 11.12.c - Organo idraulicocinquecentesco e il gioco dellacivetta

Nella seconda metà del 1500, a Villa d’Este, siinstalla ad opera di due fontanieri francesi, unautoma idraulico di tale fascino da essere co-piato e costruito nei più importanti giardinid’Italia e d’Europa. Nel corso di un secolo siascoltano le melodia degli organi idraulici inville romane e del suburbio (Quirinale, villaPanphili, Frascati),in Italia, a Parma Caserta eModena, in Francia a Versailles e San Germainen Laye e in Germania, Austria e Inghilterra.L’automa è un organo automatico che funzio-na con l’acqua. Un flusso d’acqua entra in unrecipiente con un foro connesso ad un tuboverticale. L’acqua entra nel recipiente con vio-lenza e produce vortici che catturano aria. Iltubo verticale termina in un ambiente stagno(la camera eolia)e l’acqua che lo percorre escee frange su una lastra di marmo. L’aria conte-nuta nell’acqua si libera e sale nell’ambientedove vi è un fono connesso ad un tubo che ar-riva al somiere di un organo munito di canne.

Il troppo pieno della camera eolia nell’uscireè dirottata verso una ruota a pale che azionaun cilindro con denti (un carillon) che apro-no le valvole delle canne secondo un ordinepredisposto che corrisponde a un motivo.Grande meraviglia e stupefazione tra gli ospi-ti di Ippolito II d’Este che felicemente ascol-tava la musica.Dopo anni di studi a Villa d’Este è stato ripri-stinato un organo idraulico che funziona esat-tamente come quello rinascimentale.Sempre a Villa d’Este fu realizzato il gioco del-la civetta, riportato da Erone che riferisce un’in-venzione alessandrina. Il gioco si diffuse, tantoche a Pompei ne sono stati trovati frammen-ti. Il gioco è rappresentato da un gruppo diuccellini che cantano, all’apparire di una ci-vetta interrompono il canto per riprenderloquando il rapace scompare. Il gioco in epocaantica aveva un solo uccellino che emettevaun suono grazie all’aria spinta dall’acqua en-tro un recipiente, il movimento della civettaera dato da un peso che faceva girare un rul-lo a cui era connesso il rapace.Nel gioco estense un meccanismo come quel-

lo dell’organo idraulico consentiva il canto con-temporaneo di più di dieci uccelli. Il movi-mento della civetta era dato da un secchio checadendo faceva girare un rullo e la civetta. Tut-to era comandato da un rullo fono-tattico adenti (un carillon) che consentiva l’aperturadelle valvole per le canne del canto degli uc-celli e dei denti servivano alla caduta del sec-chio che, quando si svuotava, risaliva e facevagirare la civetta. Il gioco degli uccelli e della ci-vetta è stato ripristinato a Villa d’Este con unprogetto filologicamente corretto.

L.L.

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Finito di stamparenel mese di dicembre 2009

Palombi & Partner SrlRoma

Sezione 4

tecnologia militare

via sempre più perfezionate, mutuate dai popoli orientali e adottatein quanto rispondenti alle trasformazioni in atto nell’organizzazionedell’esercito tardo imperiale.L’invulnerabilità dell’esercito romano fu in buonamisura favorita an-che dal fatto di avere a disposizione strumenti emezzimeccanici peraccrescerne la potenza. I Romani attinsero gran parte delle loro co-noscenze dalla scienza alessandrina ed attraverso l’esame delle fon-ti archeologiche, iconografiche e soprattutto storiche siamo in gradodi ricostruire in buona parte i dettagli tecnici di molti apparati, anchese purtroppo diversi testi di fondamentale importanza e di cui si co-nosce l’esistenza, sono andati perduti. Nel campodell’ingegneriami-litare grande importanza ebbero lemacchine belliche, comprendentisia i meccanismi usati per il lancio di proiettili, dardi o pietre, sia l’in-sieme di quegli strumenti destinati ad agevolare l’approccio e l’as-salto alle difese fisse nemiche. Tutte lemacchine usate per il lancio diproiettili erano conosciute con il nome di tormenta. La loro forza dipropulsione era data dalla torsione di un fascio di nervi, tendini o cri-ni animali. Tali dispositivi vennero chiamati con nomi diversi, a se-conda delle varie epoche. Vitruvio chiama catapultae e scorpiones lemacchine lanciatrici di dardi e giavellotti, e ballistae quelle che sca-gliavano proiettili di pietra. Alcuni secoli più tardi Vegezio e Ammia-noMarcellino identificano con il nomediballista lamacchina lanciatricedi giavellotti, mentre il nome catapulta scomparirà per lasciare il po-sto a quello di onager, indicante il meccanismo per lanciare pietre.Scorpio indicherà invece una balista di piccole dimensioni, antenatadella medioevale balestra. L’elemento che differenziava i due tipi dimacchina in stretto rapporto con il sistema di propulsione, era co-stituito dall’avere una o due braccia. Inoltre, lemacchine lanciatrici dipietre eranomolto più possenti rispetto a quelle che tiravano dardi efra loro si può stabilire una proporzione di dimensioni pari a 1:6.Nei rilievi della Colonna Traiana le baliste appaiono differenti rispet-to agli esemplari descritti da Vitruvio. Mostrano le matasse della ca-

mera di tensione protette da cilindri metallici ed una finestra di pun-tamento molto ampia. Presentavano anche un particolare arcus fer-reus avente lo scopo di rinforzare tutto il meccanismo nella partefrontale e migliorare la funzione di puntamento. Queste baliste, do-tate anche di caricamento multiplo, si adattavano perfettamente al-la guerra in territoriomontuoso. Lematasse che costituivano il sistemapropulsivo dell’arma erano in realtà anche il loro punto debole, inquanto si presentavano estremamente esposte. Lo storico Tacito rac-conta che nel corso della battaglia di Bedriaco del 69 d.C. una bali-sta di considerevoli proporzioni vennemessa fuori uso semplicementerecidendone le corde. Furono in tal modo ideati appositi cilindri checustodivano le matasse ed avevano il vantaggio di essere immedia-tamente sostituibili in caso di danneggiamento (sez. 4, nn. 3 e 4).Occorre infine ricordare l’esistenza di un altro genere di macchine,in cui la forza di propulsione era accresciuta basandosi sul princi-pio della comprimibilità dei metalli. Uno strumento di tal genereche presentava un arco in ferro deputato a questa funzione era unasorta di piccola balestra, conosciuta già dai Greci e chiamata dai Ro-mani con il significativo nome di scorpio. Probabilmente con talenome veniva indicato anche un lanciatore di dardi a ripetizione. Neltardo impero inoltre l’Anonimo del De rebus bellicis descrive alcunimodelli di currodrepanus, una sorta di carro falcato, suggestivo a ve-dersi ma di difficile e complicato impiego.Sempre in ambito militare, anche nel campo dei dispositivi tecno-logici prevalse nel corso del tempo il concetto di difesa, che deter-minò quindi una progressiva scomparsa di alcunemacchine, a frontedi una aumentata presenza di altre, destinate a compiti prettamentedifensivi. Sono in tal senso illuminanti le parole di Ammiano che,nel IV sec. d.C., chiama significativamente l’artiglieria tormenta mu-ralia, destinata cioè alla difesa delle mura.I Romani facevano largo impiego anche di macchine obsidionali, tracui le più conosciute sono vari tipi di ‘arieti’ e le ‘torri’. Il loro uso è

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Lo studio della complessamacchina da guerra romana evidenzia co-me la tipologia e le caratteristiche delle armi destinate ad offendere,come pure di quelle idonee alla difesa passiva, abbiano subìto si-gnificative variazioni a seconda delle epoche, delle contingenze po-litico-militari e della tattica di volta in volta impiegata. Allo stessomodo, anche le diverse componenti dell’esercito, come pure gli in-carichi individuali rivestiti al suo interno, determinarono profondedifferenze negli elementi costitutivi dell’armamento dei singoli.Per questo motivo risulta estremamente difficoltoso trattare in bre-ve il complesso tema della tecnologia militare romana, come purepotrebbe apparire discutibile privilegiare un’epoca a scapito di un’al-tra. Scopo di queste brevi note è quindi la formulazione di alcune ri-flessioni, tese a sottolineare come la genialità del pensiero militareromano abbia saputo far fronte nei vari periodi storici ad avversarisempre diversi, proprio adattando il bagaglio di conoscenze teori-che e tecniche acquisite dal passato, ma anche di volta in volta ri-formulate, sfruttando tale duttilità in rapporto al nemicoda combattereed al teatro operativo contingente.In quest’ottica anche l’esperienza nemica, ove necessario, fu assi-milata e fatta propria e, in ultima analisi, fu senza dubbio questa con-tinua capacità di trasformazione e di adattamento a consentire cheil ‘sistema’ da guerra romano sopravvivesse tanto a lungo e fosse ingrado di imporsi dalle sue prime manifestazioni al tardo impero.Polibio, nel VI libro delle Storie descrive l’armamento dei legionaridel III-II sec. a.C., epoca delle grandi conquiste nel Mediterraneo.Unità base dell’esercito era la legione manipolare e gli hastati, i sol-dati che indossavano un’armatura completa, erano dotati di alcunitipi di giavellotto, pilum. Quest’arma è un valido esempio di comeuno strumento apparentemente così elementare abbia subito nel-l’arco di tempo che va dall’età repubblicana all’età imperiale, una se-rie di trasformazioni tecniche atte a migliorarne l’impiego. Il pilumsottile descritto da Polibio si ritrova anche in età cesariana e pre-sentava la particolarità di avere la parte in ferro costruita in metallopiù dolce e malleabile. In tal modo l’arma, dopo aver colpito subivauna flessione, che ne impediva non solo il riuso da parte del nemi-co, ma rendeva inutilizzabile anche il suo scudo. Sempre ad età ce-sariana risale un altro genere di giavellotto, più corto, denominatohasta ammentata. Era caratterizzato dall’amentum, una sorta dima-niglia di cuoio posta a metà circa dell’arma che consentiva di impri-mere alla stessa unamaggiore gittata e precisione di tiro. Giavellottidi questo genere sono stati rinvenuti ad Alesia.Più o meno coeva è un’altra variante del pilum, i cui resti sono do-cumentati a Numantia. Simile a quello descritto da Polibio, la parte

in ferro si innestava a quella lignea mediante due chiodi ribattuti,sempre in ferro. In età mariana a questo tipo di arma viene appor-tata unamodifica consistente nella sostituzione di uno dei chiodi inferro con un rivetto di legno. Colpito il bersaglio, il rivetto ligneo, da-ta la sua intrinseca debolezza, si spezzava, rendendo così inutiliz-zabile il pilum da parte del nemico. In età imperiale l’arma subisceun’ulteriore evoluzione tecnica, che porta all’ideazione del cosiddet-to pilum pesante, documentato in Germania, ma già ideato proba-bilmente dopo Carre. La parte in ferro, a sezione quadrata e concuspide piramidale, si innestava a quella lignea mediante un attac-co caratterizzato da una robusta base quadrata, in alcuni casi sosti-tuita addirittura da un peso di piombo. Tale espediente consentivaun lancio di gran lunga più preciso ed equilibrato, oltre ad un mag-giore potere di penetrazione.Gli hastati descritti da Polibio, erano inoltre armati di una spada “cheportano al fianco destro e chiamano iberica”, antenata del gladio, ar-ma romana per eccellenza. Il gladium costituisce un valido esempiodi come le conoscenze tecnologiche acquisite da altri popoli sianostate abilmente sfruttate dai Romani per giungere ad ottimizzare lecapacità di offesa di un’arma che ancor oggi è il simbolo stesso del-l’esercito romano. Idonea a colpire soprattutto in scontri ravvicina-ti, fu adottata in seguito all’apprendimento dallemaestranze iberichedi tecniche avanzate di lavorazione del ferro, andando così a sosti-tuire la primitiva spada di tipo greco e quella denominata iberica conun’arma dotata di una più forte struttura.Le stesse armature subirono nel tempo un’evoluzione, frutto del-l’applicazione dell’esperienza e di precise conoscenze tecniche affi-nate sempre di più. In questo cammino alla ricerca di soluzioniinnovative risulterà particolarmente funzionale un tipo di corazza inuso in età traianea, conosciuto come lorica segmentata. Costituitada una serie di lamine metalliche incernierate tra loro, racchiudevail busto del soldato, proteggendone anche le spalle. Questo inge-gnoso sistema a lamine, anche se complicato da numerose chiusu-re e cerniere, assicurava una buona protezione ed un’elevatamobilità.Nel III secolo invece, dall’esperienza maturata a contatto con le po-polazioni iraniche, diviene sempre più frequente l’uso della cavalle-ria pesante, dotata di una particolare armatura a protezione delcavaliere e del suo cavallo. Guerrieri catafratti vengono ricordati daAmmianoMarcellino sotto il regno di Giuliano e Valentiniano. Mol-te armi tradizionali come il pilum e lo stesso gladio vengono sosti-tuiti rispettivamente con una lunga lancia, il contus e dalla spatha. Inquest’ambito è anche il caso di sottolineare l’impiego di arcieri ar-mati di arco composito, arma derivata da specifiche conoscenze via

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Note di tecnologia militare romana

Anna Maria Liberati

Colonna Traiana:

installazione di balista

(calco. Roma, Museo della Civiltà Romana)

Minore, basato su una serie di fuochi riflessi che dalle frontiere dellaCilicia arrivavano fino al palazzo imperiale sul Bosforo.Altro campo di applicazione di conoscenze pratiche fu costituito dal-la vera e propria ‘tecnica’ adoperata nella costruzione degli accam-pamenti, frutto dell’applicazione di canoni e regole ben precise (sez.4, n. 2). L’accampamento d’età repubblicana descritto da Polibio, perl’alloggiamento di circa 24.000 soldati aveva la forma di un grandequadrato di 666metri di lato. La fronte era volta verso il nemico o nel-la direzione di marcia. Il luogo prescelto dai gromatici o daimensoresin base alla morfologia del terreno o perché rispondente alla tatticadel particolare momento bellico, veniva prima di tutto fortificatome-diante un rilievo in terra, agger, alto più di 1 metro per 3 di larghezza,sul davanti del quale erano scavati uno o più fossati, di norma a se-zione triangolare, di profondità e larghezza variabili. Su questo parti-colare lo scrittore tardo Vegezio ha tramandato tutta una serie diindicazioni tecniche e valori cui attenersi, da adottare a seconda del-le diverse circostanze.L’aggere poteva essere rinforzato da una palizzata e il perimetro for-tificato dell’accampamento costituiva il vallum. Tra il vallum e l’ac-campamento vero e proprio veniva lasciata libera una porzione diterreno, chiamata intervallum, della larghezza di circa 60metri, equi-valente alla distanza di sicurezza dalle armi da lancio. Ancora una vol-ta l’evoluzione in campo tatticoportò all’introduzionedi nuovi elementidi natura tecnica. Molto spesso ad esempio gli accampamenti d’etàimperiale appaiono fortificati e presentano numerose opere in mu-ratura.Nel tardo impero il castrumdi grandi proporzioni tende a scom-parire, sostituito da fortificazioni più piccole, di forma generalmenterettangolare, prive di intervallum e con gli alloggiamenti a ridosso del-le mura per unamigliore difesa. Le torri si presentano a pianta circo-lare e le porte vengono drasticamente ridotte.Le fonti traboccano di esempi di tecnologia applicata in campomili-tare. A parte le strade, di cui si è già detto, occorre menzionare l’abi-lità dimostrata nell’attraversamento dei corsi d’acqua, dai ponti difascine fatti costruire da Cesare durante la seconda campagna con-

tro i Bellovaci, al ponte sul Reno, sempre ad opera dello stesso Ce-sare (sez. 2, 9b), a tutti i vari ponti mobili di Traiano, ben visibili suirilievi della Colonna Traiana, che culminano con il famoso ponte inmuratura sul Danubio, opera di Apollodoro di Damasco.Da ultimo, ancora tre esempi a testimonianza della grande abilità incampo tecnicodellamacchinamilitare romana. La presa di Alesia, conla doppia linea fortificata per circondare la città e per la difesa dal-l’esterno, che contò ben 35 chilometri di trincee, 8 accampamenti, 28chilometri di palizzate ed un gran numero di torrette e fortini; l’asse-dio alla fortezza zelota diMasada, raccontato nelle emozionanti pagi-nedi FlavioGiuseppechedescrive l’ostinata applicazionedi ogni risorsatecnica da parte del generale romano Flavio Silva per domare nel 73d.C. l’ultima frangia di resistenza nemica; l’avventura del librator del-la legio III Augusta che venne incaricato dal procuratore della Numi-dia di aumentare la portata dell’acquedotto di Saldae. Nonio Dato,questo il nome del veterano, dopo aver cercato invano di far lavorareal suo progetto le maestranze locali ed essendosi egli stesso recatonumerose volte sul posto, nonostante altri impegni, malattie, e perfi-no un attacco di briganti a cui era miracolosamente sfuggito benchéferito e privo di vesti, alla fine, grazie alla sua caparbietà ed al suo ba-gaglio di conoscenze, riuscì a correggere l’andamento dei due oppo-sti condotti sotterranei che gli operai non riuscivano a far incontrare.La figura di questo eroe solitario, la cui impresa quasi impossibile ègiunta fino a noi scolpita nella pietra è a mio parere la sintesi più ef-ficace di tutte le riflessioni fatte finora: la grande capacità dell’uomoromano di piegare la materia ai suoi voleri ed alle sue necessità an-che grazie all’uso di precise conoscenze di natura tecnica.

Bibliografia di riferimentoBishop, Coulston 1993; Brizzi 1983; Feugère 1993; Forni G., s.v. Limes in Diziona-rio Epigrafico di Antichità Romane, IV, Roma 1959, pp. 1074 ss.; Frau 1987; Gabba1989; La Regina 1999; Liberati 1999; Liberati A.M., Silverio E., Sotto il segno del-l’aquila. L’esercito e la marina militare dell’antica Roma, Roma 2003; MCR, Cata-logo 1982.

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ben documentato e da Cassio Dione sappiamo come già con Cesa-re se ne facesse largo uso: “Cesare assalì la fortezza per molti giorni,ma venne respinto. Pensò allora di costruire delle macchine belliche.I barbari, vedendo i Romani intenti a tagliare legna e a costruire lemacchine, ridevanoperchénon capivano ciò che essi facessero.Quan-do però le macchine furono fatte ed i soldati armati pesantemente simossero su di esse da ogni parte contemporaneamente contro di lo-ro, si spaventarono perché non avevano mai visto una cosa del ge-nere. Allora intavolarono trattative e a questo scopo rifornirono divettovaglie i Romani e gettarono alcune delle loro armi dalle mu-ra.(Storia di Roma, 39, 4,2-3).Apollodoro di Damasco nella sua Poliorcetica fornisce precise diret-tive per l’assemblaggio delle varie macchine (sez. 4, n. 5). In relazio-ne all’aries pensilis dice ad esempio che “ l’ariete è sollevato per daremaggiore forza al colpo, infatti, dalmomento che è posto in alto, l’arie-te può essere tirato molto più indietro, in modo tale che, irrompen-do da lontano, il colpo abbia maggiore forza distruttiva” (154, 1). Nelcaso inoltre in cui si avesse avuto a disposizione solo una trave dimodeste dimensioni “ questa sia appesa in modo tale che il bari-centro non sia perfettamente al centro, ma che sia più lunga la parteche infligge il colpo […] così avrà la forza e la potenza di un ariete lun-go” (158, 5).Con riferimento alla testudo arietata Apollodoro fornisce addiritturale misure esatte di tutte le assi necessarie a costruire con rapidità edefficienza una valida arma, ricordando ad esempio come tutti i nu-meri ricorrenti nelle misure debbano essere multipli di quattro (sez.4, n. 6). Secondo le sue indicazioni le macchine destinate all’assediodovevano essere “facilmente riparabili, difficili da neutralizzare, mo-bili, stabili, non infiammabili, invulnerabili, solide, smontabili”.Un altro ambito, in cui vediamo ampiamente applicate le grandi ca-pacità romane in campo tecnologico, è l’ingegneria militare. Lo stes-so limes divenne il laboratorio di applicazione delle più svariateconoscenze (sez. 4, n. 1). Ne sono un valido esempio le vie di co-municazioni terrestri rinforzate da opere di ingegneria militare cam-

pale quali fossati, palizzate e postazioni fortificate di varia natura. Co-me già accennato, l’esercito romano per lungo tempo ebbe la ten-denza amuovere incontro al nemico, contrastandolo in campoaperto.Con Traiano ad esempio, a seguito della costituzione della nuova pro-vincia della Dacia che formava un pericoloso saliente in direzione deiCarpazi, venne creato un limes basato su alcuni assi viari di fonda-mentale importanza militare, in collegamento con i centri fortificati,sedi delle forze legionarie stanziate nel territorio. Sui rilievi della Co-lonna Traiana è rappresentato un tratto del limes sul Danubio e sonoraffigurati, seppur in maniera schematica, gli apprestamenti difensi-vi e le vie di comunicazione lungo il fiume, frontiera naturale tra leprovince romane della Mesia e della Pannonia ed il territorio abitatodai Daci. Si notano distintamente torri d’avvistamento proprio a ri-dosso del confine, con la funzione di vedette del territorio circostan-te e di primo allarme.Questa osservazione ci rimanda ad un altro interessante settore incui le conoscenze teoriche mutuate dai Greci si coniugarono all’ap-plicazione, del tutto romana, di precise conoscenze tecnologiche. Siintuisce infatti come il successo di ogni operazione militare si fon-dasse anche sulla possibilità di poter trasmettere con tempestività or-dini o informazioni, spessopure su lunghedistanze.Già Livio descrivetale attività in occasione delle guerre contro i Volsci, ma è con Cesa-re che si hanno testimonianze più articolate su tale argomento. Tut-tavia, lo storico cheneparladiffusamente èPolibio. Egli infatti perfezionòun sistema che traeva le sue origini da quello ideato nel IV secolo a.C.dal greco Enea Tattico il quale aveva ideato uno strumento comples-so ma in pratica assai poco funzionale. Partendo dai suoi insegna-menti Polibio realizzò un codice adattabile per ogni circostanza.Escogitò infatti il modo di inviare vere e proprie frasi basate sull’usodell’alfabeto, impiegando torce accese la cui posizione, insieme al nu-mero di volta in volta impiegato, indicavano le singole lettere: in talmodo era possibile formulare concetti e comporre intere frasi. I si-stemi luminosi di segnalazione rimasero attivi per lungo tempo. Ri-sale infatti al IX secolo la testimonianza di un telegrafo ottico in Asia

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Colonna Traiana:torri lungo il Danubio e torce per segnalazioni(da copia. Roma, Museo della Civiltà Romana)

Colonna Traiana:

i soldati attraversano un torrente su un ponte

a sbalzo su tavole e supporti lignei

(da calco. Roma, Museo della Civiltà Romana)

costruzioni più cospicue, all’interno del con-fine – castella – e da accampamenti legiona-ri – castra – dislocati ad Eburacum (York) eDeva (Chester) ad una distanza di km. 160 e185 dal limes a cui erano anche collegati conuna serie di torrette di segnalazione (v. sez.6, n. 1b). Nel 142 d.C. con la costruzione delvallum di Antonino, si tentò di spostare piùa nord il confine. Pur mantenendo attivo quel-lo adrianeo, il nuovo vallo si sviluppava perpoco più di km. 59. Costituito da un muro al-to circa m. 3 e da forti disposti ad intervalli dicirca tre chilometri, aveva sul davanti un fos-sato largo m. 12 e profondo 3,50. Immedia-tamente vicino all’opera correva una stradamilitare di collegamento.Il fossatum Africae, edificato in Numidia eraformato da un muro alto da m. 2 a 2,50, conun fossato che variava in profondità da m.2,50 a 3,50 e in larghezza da m. 4 a 6. Essoera stato costruito per difendere una linea diapprovvigionamento d’acqua dagli attacchidi bande di predatori e doveva quindi forniresufficiente sicurezza all’interno della zona chedal confine portava al mare.I confini corrispondenti alle altre province inAsia ed Africa avevano limites aperti, non esi-steva in genere, un ostacolo fisico continuaalle frontiere: i limites erano costituiti qui dal-le strade militari che collegavano tra loro lecittà, le oasi o i centri commerciali, di solitoprotetti anch’essi da opere fortificate. Si di-sponevano quindi guarnigioni nelle zone diinteresse economico e politico e si collega-

vano con strade, i cui nodi erano anch’essicontrollati da opere fortificate.Vi era anche un altro fronte di guerra (so-prattutto durante il III sec.): il mare. Le in-cursioni dei pirati e di popoli che utilizzavanoil mar Nero o il Mediterraneo venivano con-trollate dalla supremazia navale romana. Unsecondo fronte marittimo, comprendente laBritannia sud-orientale e la Gallia nord-occi-dentale richiedeva invece la creazione di unlimes sulla terraferma per arginare la pirate-ria delle popolazioni germaniche. Il limes era

costituito da una serie di forti (i più impor-tanti erano quelli di Anderida (Pevensey),Ga-riannonum (Bourgh Castle), Portus Adurni(Portchester)), notevolmente protetti, che ser-vivano come basi per le forze terrestri e na-vali aventi il compito di intercettare orespingere gli attaccanti. L’importanza di que-sto nuovo fronte era ribadita dalla creazionedel nuovo comando del litus saxonicum, ret-to da un comes, responsabile delle operazio-ni di difesa del settore.I Romani non consideravano il limes come

Sez. 4.1 - Il limes: una grandeopera di tecnica difensiva

Durante e dopo le numerose campagne diconquista, condotte nei secoli dagli esercitiromani, è sempre stato di fondamentale im-portanza proteggere e mantenere i territorioccupati. I Romani dovettero adottare cosìdelle misure di sicurezza lungo i ‘confini’ delloro vasto impero che da una parte impedis-sero l’attacco di eventuali nemici e dall’altrapermettessero il controllo e la protezione del-la zona in questione. Tali sistemi difensivi edi controllo, che variarono sia durante i se-coli sia a seconda delle regioni in cui veniva-no adottati, sono conosciuti con il terminelatino di limes.Comemolte opere militari romane anche i Li-mites non avevano regole rigide di costruzio-ne, ma veniva adottata di volta in volta latipologia necessaria in base a diversi fattori:natura del luogo, momento storico, e tipolo-gia del pericolo e di nemico per cui esso ve-niva costruito. È importante far notare che la‘frontiera’ romana non si riduceva solamentead una linea, come si ha oggi con i confini fragli stati, ma era costituita da una fascia più omeno ampia che comprendevamolteplici ele-menti fra i quali si muoveva l’esercito.Questa fascia di territorio aveva come assecentrale una strada, nonché varie costruzio-ni militari come vie secondarie, fortezze, for-

tilizi e torri; se era possibile ci si avvaleva del-la presenza di un fiume o di qualche ostaco-lo naturale, altrimenti si realizzava una difesaartificiale.Il primo e più importante elemento di questosistema erano le strade, che d’altro canto dan-no il senso originale della parola limes, la qua-le designa per l’appunto un sentiero, una via.Questa può costeggiare un ostacolo natura-le, un corso d’acqua oppure può essere ac-compagnata da quella che in gergo vienechiamata ‘difesa lineare’ o artificiale: un mu-ro con uno o più fossati. Lungo tutta la stra-da si possono poi trovare le così dette ‘difesepuntuali’, come i grandi campi che ospitanoognuno una legione e servono anche da de-posito viveri. Si hanno quindi fortilizi e torridi guardia che fanno da collegamento fra l’unoe l’altro. Altri forti sono poi istallati in posi-zione arretrata o avanzata rispetto all’arroc-camento.Se il limes costeggia un grande fiume, comelungo il confine della Germania Inferiore, deiporti ospitavano le navi della flotta.In tutti questi casi, comunque, si parla di ‘si-stemi chiusi’, ovvero dove ci sia almeno unabarriera che blocca l’ingresso nella regionecontrollata. Nel caso dei ‘sistemi aperti’ in-vece, che possiamo trovare nelle zone deser-tiche, i Romani si sforzavano di controllare ipunti con presenza d’acqua come le oasi (Ta-cito, Annali, 15, 3, 4).Nella maggior parte dei casi nei limites si di-stinguono tre zone successive: un settore dioccupazionemilitare continua (la regione con-

quistata e sotto il controllo diretto di Roma),territori sotto sorveglianza (alleati o ‘stati cu-scinetto’ sotto il controllo diplomatico) e pae-si indipendenti, refrattari. Nella fascia deiterritori sotto controllo si potevano vedere lecostruzioni sopra citate, come le mura e so-prattutto le strade: linee di penetrazione chepartendo da dietro la linea difensiva si spin-gevano in profondità nel cuore del territoriobarbaro. Vi si trovavano anche delle torri, al-cune delle quali servivano come stazione disosta, utilizzate per trasmettere messaggi. Ilgenio istallava poi, nelle regioni sotto sorve-glianza, delle postazioni avanzate nelle cuistrade di collegamento viaggiavano i mes-saggeri, poiché molta importanza era attri-buita all’informazione raccolta attraverso lavista o l’udito. L’informazione da vista pote-va avere numerose fonti. Lo stato maggioreutilizzava delle carte, nonché l’osservazionediretta eseguita dalle sentinelle.In Britannia, con Adriano, tra il 124 ed il 126d.C. veniva consolidato il limes delimitato dal-la linea formata dalla foce del Tyne e dal gol-fo di Solway: lungo più di km. 110, era formatoda un muraglione alto fino a m. 5, avente suldavanti un fossato a sezione triangolare lar-go circa m. 5 e profondo 3. In alcuni tratti lalinea era rinforzata da ulteriori aggeri e fossi,costruiti all’interno dell’apprestamento di-fensivo, probabilmente per permettere ai sol-dati di combattere sul rovescio dellepostazioni. Le difese erano rinforzate da ope-re fortificate – turres e burgi – con la funzio-ne di osservazione e primo controllo, da

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Struttura teorica dell’organizzazione difensiva di un limes(rielab. da Le Bohec 2003)

Confine fluviale in Europa (per es. Germania Inferiore, Norico, Pannonia, Mesia)(rielab. da Luttwak 1981)

Confine lungo il deserto (rielab. da Luttwak 1981) Le tre zone successive di controllo (rielab. da Luttwak 1981)

Dispiegamento delle truppe lungo un confine terrestre europeo (es. Britannia, Germania Superiore, Re-

tia, Dacia) (rielab. da Luttwak 1981)

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terni era ben riconosciuta e chenulla era lasciatoal caso: le vie delimitavano spazi rettangolari al-l’interno dei quali si installano delle tende; la piùimportante, quella del comandante generalepresenta gli stessi caratteri sacri di un tempio.Vicino si trova l’auguratorium, dove venivanopresi gli auspici.Una tribuna, da dove il comandante in capo am-ministrava la giustizia e pronunciava discorsi,era installata ugualmente in prossimità. C’era-no altresì alloggi per gli ufficiali e i soldati. Dipiù, bisognava prevedere un certo spazio perinstallazioni di uso collettivo: un laboratorio as-sicurava la riparazione delle armi danneggiate;c’era poi un ospedale (valetudinarium) dove ve-nivano curati gli uomini, ed esisteva ancheun’in-fermeria per gli animali e il forum.La scelta del luogo ove accamparsi e le relativemisurazioni erano compito dei gromatici e deimensores, dopo di che i soldati cominciavano a

spianare il terreno; ai bordi del campo venivacostruito il sistemadifensivo vero e proprio: eracostituito da un fossato dietro il quale si erge-va un terrapieno. Il terrapieno, agger, aveva unrilievo internomolto dolce e quello esterno pro-nunciato, era costruito con ilmateriale di riportoutilizzato per scavare il fossato, fossa, e si alza-va, a seconda del terreno utilizzato e del tipo dicampo da costruire, fino a superare il metro inaltezza per tre di larghezza. Sul bordo esternodell’aggere venivano infissi una fila di pali, pilamuralia, inmododa costituire una barriera, val-lum. Molto più raramente, vi veniva posto unmuretto di terriccio, o addirittura di pietra (cfr.scene sulle colonna traiana e antonina). Se sipresumeva di utilizzare l’accampamento perpiù notti, l’aggere e la palizzata erano rinforza-ti, sempre sul bordo esterno, con una gratic-ciata chepotesse servire sia a trattenere il terrenodi riporto che a formare un parapetto merlato

di circa m. 1,50, al cui riparo si potesse rispon-dere alle offensive nemiche. Era altresì possibi-le costruire delle piazzole in legno al limite dell’agger, o eventuali torri a più piani, che potes-sero servire come piattaforme per le macchinebelliche e come postazioni per le vedette.Il fossato era generalmente a sezione triango-lare, profondo anche oltre i tremetri, aveva unalarghezza variabile.Bisognava poi fortificare accuratamente gli ac-cessi al campo, punti deboli del muro, delimi-tati da quattroporte:decumana epraetoria eranoquelle formate dall’intersecarsi con la via decu-mana, principalis dextra e sinistra quelle inveceincrociatesi con la via principale. Si conosconodue tipi di porte: o si costruisce un piccolo osta-colo in parallelo col grande recinto e collocatogiusto sull’asse del passaggio (sistema defini-to titulum), in maniera da infrangere lo slanciodi un assalto; oppure il muro viene prolungatoverso l’interno e verso l’esterno per due quartidi cerchio: è quella che gli architetti chiamano‘piccola chiave’ (clauicula). Questo sistema co-stituiva un passaggio obbligato e costringevachi entrava a presentare il fianco destro, cioèquello privo di scudo.Davanti alla fortezza, inol-tre, i legionari scavano delle buche al fondo del-le quali collocano tronchi d’albero completi deiloro rami detti “piccoli cervi” (cervoli).Tra questo sistema difensivo ed i quartieri do-ve si svolgeva la vita del soldato vi era lasciatouno spazio libero di circa 60 m, chiamato in-tervallum. Questo spazio lasciato libero avevauna duplice funzione: da una parte facilitava ilmovimento o lo schieramento delle truppe al-l’interno del castrum, dall’altro proteggeva glialloggi dalle armi da lancio. A questo proposi-to, è stato calcolato che un pilum (il giavellottopesante romano) arrivasse ad una distanza dim 30, mentre una freccia scagliata da un arcocomposito aveva una gittatamassimadim 160-175, ma era efficace fino a 55-60 metri.Resti archeologici o segni di accampamenti ro-mani si trovano aNumantia in Spagna e, sul li-mes renano, Castra Vetera (Xanten), Saalburg,Lambesi inAlgeria (Africa); inoltre l’impiantour-banistico dimolte cittàmoderne rivela un pree-sistente castrum romano (es. Aosta, Torino).

R.R.

BibliografiaClausetti 1939; Le Bohec Y., L’esercito romano; le armiimperiali da Augusto alla fine del terzo secolo, 2003; Li-berati, Silverio 1988; Luttwak E.N., La grande strategiadell’impero romano, Milano 1981.

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una muraglia cinese o una linea Maginot.L’esercito aveva la tendenza a muovere in-contro al nemico e combatterlo in campo aper-to senza adottare una strategia difensivastatica che avrebbe richiesto la presenza dimolti uomini per il controllo. Non si deve poidimenticare che uno dei progetti politici del-la diplomazia romana più a lungo persegui-to fu quello di creare stati cuscinetto sullefrontiere, perché costituissero un ostacolo fraqueste ultime e le popolazioni barbariche. In-fatti una delle principali motivazioni che spin-sero Giulio Cesare ad intervenire in Gallia,nella guerra contro gli Elvetii, fu proprio il pe-ricolo che essi, abbandonando le loro terre,lasciassero libero il transito ai Germani (Ce-sare, Commentarii de bello gallico, 1, 28).La costruzione di tutte le opere che costitui-vano i limites servivano a prevenire possibiliinvasioni o rapidi saccheggi della zona e ognu-na di esse ricopriva un ruolo specifico che ve-locizzava e rendeva efficace la risposta deldifensore. Le torri di controllo, che di solitoerano costruite direttamente nelle fortifica-zioni di cinta, coprivano un ampio raggio disorveglianza contro le infiltrazioni, mentre iforti di avamposto, situati oltre il confine e aduna certa distanza da esso, garantivano lapossibilità di dare il preavviso in caso di im-minenti attacchi su larga scala. È quindi im-portante capire come le truppe romane nonerano distribuite in modo regolare lungo unalinea, come delle ‘guardie di frontiera’, mamantenevano la caratteristica di forza mobi-le d’attacco.

Per capire meglio la logica delle disposizionilungo un limes romano vale la pena descri-vere, come esempio, la distribuzione delletruppe nel Vallo di Adriano:- La legione VI Victrix era di stanza a Ebura-

cum (York) e la XX Valeria Victrix a Deva(Chester), concentrate quindi nelle profon-de retrovie (siamo a 160 e 225 km dal Val-lo) e pronte ad intervenire in caso di allarme.È da notare che la legione di Chester era si-tuata in una posizione cardine, tipica del si-stema a ‘economia di forze’: potevaappoggiare le forze ausiliarie disseminatenei forti di Galles, sia accorrere in difesa delsettore settentrionale insieme alla VI Victrix.

- Le alae e le coorti ausiliarie erano invece di-stribuite in tre forti di avamposto e in sedi-ci forti lungo tutto il vallo (in totale 5500cavalieri e 10000 fanti).

- Sentinelle e vedette (meno di 3000 uomini)erano le uniche forze dislocate effettivamentecome una sottile linea di confine. Questeoccupavano i ‘castelli miliari’ (cioè piccoliforti costruiti nelle mura di confine e distantiun miglio romano gli uni dagli altri) e for-nivano le vedette per le torri (due in ciascunintervallo fra due castelli miliari). Quindi suun totale complessivo di uomini pari a30000 unità, solo il 10% era adibito alla di-fesa fissa lungo il vallum.

R.R.

Bibliografia:Le Bohec 2003; Liberati;Silverio 1988; Luttwak 1981.

Sez. 4.2 - Costruzione di uncastrum

Durante una campagnaouna spedizione in ter-ritorio ostile l’esercito doveva essere protetto,durante le soste, mediante un sistema difensi-vo. L’accampamento, completo di difese passi-ve, di varchi e di tutti i relativi servizi, venivachiamato castrum.Esistono diverse tipologie di castra a secondadella durata, periodo di permanenza nel luogo,e della stagione.Molti accampamenti erano co-struiti la notte e smontati il giorno successivo equindi le fortificazioni si riducevano al minimo(subita tumultuaria castra), altri erano utilizza-ti invece per più giorni in luoghi che oggi defi-niremmo ‘ad alto rischio’ ed eranoperciòmeglioprotetti con l’aggiunta di maggiori e più sofisti-cate opere difensive (castra stativa). Esistevanoanche i così detti hiberna, accampamenti in-vernali, che generalmente si appoggiavano aduna città o addirittura la inglobavano offrendocosì al legionario ripari più confortevoli e co-modi durante questo periodo dell’anno, in cuinormalmente le operazioni belliche venivanosospeseLa struttura del castrum rimase pressoché in-variata nel tempo sia per quanto riguarda il si-stemadifensivo utilizzato sia per la forma: essaera normalmente quadrata, ma anche rettan-golare o poteva assumere fisionomie differentia seconda del territorio. Polibio, che scrive inepoca repubblicana, dice che i Romani del suotempo costruivano campi quadrati, divisi in treterzi dalla via quintana e dalla via principalis; aldi là di questa, si trovavano un posto pubblico(il forum), la tenda del questore (quaestorium),e quella del comandante generale (il praeto-rium); gli altri due terzi dello spazio erano ta-gliati in due dalla via decumana. Anche FlavioGiuseppe, che scrive due secoli dopo l’autoregreco, ci dice che gli accampamenti erano qua-drati. Igino invece raccomanda proporzioni di-verse: egli consiglia la costruzione di unrettangolo il cui rapporto fra i lati sia di 2:3. Di-versa è pure l’organizzazione dello spazio. Lavia ‘principale’ e la via quintana dividono sem-pre in tre terzi l’insieme, ma la parte situata aldi là della via ‘principale’ è scissa in due dallavia praetoria; il pretorio si trova al centro del di-spositivo, e il quaestorium è situato nel mezzodell’ultimo terzo, quello determinato dalla viaquintana. Tutti gli autori concordano comun-que sul fatto che la distribuzione degli spazi in-

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Sez. 4.4 - Balista(per lancio di dardi, etc.)

Modello funzionantemateriale: legno, bronzo, ferro, cordami, tendinibovini

cronologia: tra il III sec. a.C ed il V sec d.Cluogo di conservazione: modello funzionante: Roma,Museo della Civiltà Romana

Realizzazione del modello: Niccolai snc. (Firenze, 2009)

La balista, detta anche ballista, era un’arma ne-vrobalistica che lanciava pietre, e dardi, la cuipropulsione era fornita dalla torsione (da cuiil nome generico delle artiglierie romane tor-menta) di matasse di tendini animali, da crinidi cavallo o capelli. Era formata da una partesuperiore costituita da un telaio in legno (ca-pitulum), tenuto insieme da incastri a coda dirondine, che alloggiava le due matasse posi-zionate verticalmente entro le quali si inseri-vano due robuste braccia in legno o ferro:questa struttura costituiva il gruppo moto-propulsore dellamacchina. Fra lematasse tro-vava posto un affusto in legno dotato di unadoppia cremagliera laterale a denti di sega sulquale alloggiava il carrello di propulsione do-ve si posizionava il proietto da lanciare; un ver-ricello alla sua estremità consentiva la messain tensione della corda che univa i due braccidella macchina e quindi il caricamento del-l’arma. Così azionando il verricello e messe intensione la corda, si posizionava il proiettile e,agendo su di un meccanismo di scatto, lo siliberava.L’intera struttura del fusto poggiava su un trep-piede ruotante su se stesso che consentiva dipuntare la macchina nella direzione voluta;inoltre una quinta gamba regolabile su unaghiera inclinata sul fusto permetteva le diver-se inclinazioni dell’arma.Le baliste potevano essenzialmente suddivi-dersi in eutitone e palintone (dal greco: lette-ralmente con tensione diritta e con tensione arovescio); le prime erano caratterizzate dal-l’avere i bracci rivolti dalla stessa parte dell’ar-tiglierementre le seconde dalla parte opposta.Queste erano più potenti delle prime in quan-to, essendo la corsa dei bracci molto più lun-ga (una corsa di 160° del braccio contro i 60°delmodello più leggero) poteva sviluppare unaforza maggiore: ciò le rendeva più adatte peril lancio di grosse pietre rispetto il modello eu-titono utilizzato per il lancio di dardi.Vitruvio (De Architectura, XI) la descrive inmo-

do dettagliato. Macchine che lanciano sassisono menzionate da Tacito (Historiarum libri,3, 23-29. Sull’efficacia di tali artiglierie mecca-niche a torsione Flavio Giuseppe nel De belloJudaico, dà una vivida descrizione del loro uti-lizzo nella narrazione dell’assedio di Gerusa-lemme. Sempre dalla stessa opera, quandoviene narrato il grandioso assedio alla mirabi-le fortezza di Masada, fatta costruire da Erodeil Grande, sappiamo che i Romani riuscironoa spezzare la resistenza di questa costruendouna gigantesca rampa sul lato ovest dellamon-tagna sulla quale issarono una torre mobiledotata di un ariete e di macchine da lancio.Oltre ai trattati di specialisti e alle fonti di sto-rici possiamo farci un’idea di questi congegnianche grazie a reperti archeologici, che non so-no molto numerosi e, come le fonti letterarie,abbastanza oscuri. Il suolo ci ha restituito es-senzialmente quelle parti metalliche in ferro obronzo, che a differenza delle componenti li-gnee della macchina, sono riuscite a mante-nersi abbastanza intatte. È il caso dei resti dellagrande balista di Hatra (in Iraq) e di quella diAmpurias: blindatura di un gruppo moto pro-pulsore, i modioli (cioè gli ancoraggi attorno iquali si mettevano in tensione le matasse) eun gancio di scatto.Una raffigurazioni di tali macchine è presentenei bassorilievi dell’altare di Pergamo, dove èchiaramente distinguibile la riproduzione di ungruppo motopropulsore con la struttura delcapitulum e le duematasse intorte all’interno,con i rispettivi modioli sulla sommità dellastruttura e sulla colonna Traiana.Dalle fonti e dai reperti archeologici, così co-me dalle numerose palle di pietra rinvenute inantichi luoghi, che furono teatri di assedi, emer-

ge che tali macchine venivano utilizzate in ope-razioni d’assedio e negli scontri sia marittimiche terrestri.Per quanto riguarda il loro utilizzo nell’espu-gnazione delle città venivano utilizzate mac-chine di grosso calibro anche se è impensabileche i proiettili lanciati, che raramente rag-giungevano i 100 kg, riuscissero a sfondaremura dallo spessore di parecchi metri, tutta-via esse danneggiavano le strutture difensivein legno e bersagliavano gli spalti, coprendol’avanzamento di macchine come torri mobi-li o arieti; non è da trascurare, inoltre, l’indub-bio effetto psicologico sul nemico causatodell’utilizzo di tali temibili ordigni.Simili macchine montate sulle navi da guerradevastavano invece le murate e i ponti dellenavi o addirittura venivano installate in batte-riemontate su torri come racconta Cesare (Debello civile, I, 24). Il loro utilizzo sui campi dibattaglia, invece, vedeva l’uso di calibri più pic-coli e di macchine che consentivano unamag-giore mobilità: ovvi sono gli effetti di unproiettile, anche di soli 6 kg, scagliato controuna fitta schiera di uomini: la sua traiettoria ri-sultava imprevedibile una volta che toccava ilsuolo, e la sua azione devastatrice poteva scom-paginare più file di uomini, un po’ come fa-ranno secoli dopo i cannoni sui campi dibattaglia dell’Europa moderna.I vantaggi che l’utilizzo di motopropulsori atorsione comportava, a differenza dei model-li precedenti, era che le dimensioni delle ma-

Sez. 4.3 - Onagro/scorpione

Modello funzionante 230x140x110materiale: legno, bronzo, ferro, cordami, tendinibovini

cronologia: tra il III sec. a.C ed il V sec d.C.luogo di conservazione: un modello funzionante èconservato a Roma, Museo della Civiltà Romana;

Realizzazione del modello: Niccolai snc. (Firenze,2009)

L’onagro è una macchina d’assedio che rien-tra nella categoria di artiglieria a braccio uni-co a torsione. Il nome deriva dal movimentoche la macchina faceva all’istante del tiro, unasorta di rinculo che provocava l’alzarsi dellaparte posteriore, molto simile allo scalciaredi un asino selvatico, da qui la denominazio-ne in latino onager. Molto semplice da rea-lizzare, fu nel tempo preferito alle baliste.Ammiano Marcellino (23, 4, 4) utilizza il ter-mine scorpione per descrivere l’onagro, di-cendo che quello era il suo nome tecnicomentre l’altro era quello più utilizzato; ci for-nisce una descrizione della macchina.Era sprovvisto di ruote permanenti, per il tra-sporto veniva usato un carro trainato da quat-tro buoi: onagri…in carpentis bubus portanturarmati (Vegezio, 2, 25). AmmianoMarcellinoè stato testimone durante l’assedio di Amidadella difficoltà di trasporto di alcuni onagri,quod artis est difficillimae (Amm. 19, 7,6). Unavolta scaricato e montato veniva posizionatosu di una piazzola, per evitare affossamenti

nel terreno, causati dal rinculo della macchi-na al momento del lancio. Ad ogni onagro vierano posizionati quaterni iuvenes (Amm. 23,4, 5) per lato, che mettendo in trazione la ma-tassa facevano ruotare il braccio tramite unargano posizionato nella parte posteriore del-la macchina, provvisto di piccoli fori al-l’estremità per farvi alloggiare delle leve. Dopoche il braccio aveva raggiunto l’assetto oriz-zontale e bloccato con dei perni, si procede-va al caricamento della fionda con proietta dipietra, sferici. Con una mazzola veniva azio-nata la maniglia di sgancio. Per evitare inci-denti causati dal sobbalzare della macchina,l’addetto a tale operazione si posizionava sudi un rialzo messo di fianco. Rimosso il per-no, la matassa agiva sul braccio trascinan-dolo verso il cuscino di caprino imbottito dipaglia, mentre la fionda continuava la sua cor-sa fino a sganciare la terza catena rilascian-do il proiettile, tracciando cosi una traiettoriaparabolica. La gittata poteva essere cambia-ta variando l’angolo del braccio. I proiettili chepotevano essere utilizzati erano di varie di-mensioni, sempre sferici; l’unico vincolo a cuidovevano attenersi era il peso ma non le di-mensioni, cosa che succedeva con gli altri tor-menta che avevano dei parametri fissi darispettare. L’inconveniente dell’onagro era chenon poteva essere spostato velocemente percambiare bersaglio.Il primo riferimento che si ha di un pezzo diartiglieria a braccio unico (in greco monàn-con) si trova in Filone Alessandrino intornoal 200 a.C., il quale ci informa che venivanoutilizzati negli assedi in maniera difensiva.

Dopo tre secoli di silenzio ne torna a parlareApollodoro di Damasco, che consigliava diposizionarne uno nella parte anteriore del-l’ariete. Ricomparirà nelle fonti nel IV secolocon Ammiano e Vegezio. L’onagro continuòad essere utilizzato per tutto il medioevo, do-ve è meglio conosciuto come catapulta, perpoi cadere in disuso nel XII sec.Erano utilizzati proiettili sferici di pietra inmo-do d’avere una sequenza di tiri simili tra loroche permettessero cosi di aggiustare la mirae colpire un bersaglio. “L’unico solido la cuimassa è funzione di un’unica dimensione èla sfera, che compensava il costo di costru-zione con una più attendibile e sbrigativa pre-determinazione del tiro” (Russo 2002, p. 181).Il proiettile espulso dall’arma andava a dise-gnare una parabola molto arcuata, rallentan-do fino ad arrestarsi al suo massimo apice.Da lì iniziava la ricaduta, incrementando lavelocità quasi di pari potenza alla spinta ini-ziale se non fosse per l’attrito provocato conl’aria. Questo avveniva quando la macchinaera situata alla stessa altezza del bersaglio.Se, invece, veniva posizionata più in alto ri-spetto al bersaglio, ad esempio su una tor-retta, la potenza di ricaduta era maggiore diquella iniziale. L’impatto avveniva quasi per-pendicolarmente al bersaglio alla massimavelocità, così d’avere una potenza che per-metteva la distruzione dello stesso. In mediaun proiettile che piombava ad un’altezza diun centinaio di metri impattava ad una velo-cità di circa 50m/sec (Russo 2007, p. 179). Iproiettili di un peso intorno ai 4 kg potevanoraggiungere anche i 500 m.

D.V.

BibliografiaClausetti 1939; Brizzi 1983; Liberati, Silverio 1988; Feu-gère 1993; Humphrey, Oleson, Sherwood 1998; Tomei1982; Russo 2002; Russo, Russo 2007.

141140

ariete mosso da cinquanta serventi e Vitruvio(De architectura, 10) di un altro a cui erano ad-detti cento soldati.L’ariete era costituito da una trave lunga e ro-bustadi legno (abete, frassino, olmo) la cui estre-mità, a forma di testa di ariete, era rivestita dimetallo, di solito ferro o bronzo. Tale nome de-rivò dall’impeto con il quale gli arieti si affron-tano fra loro e che somiglia all’urto d’azionedellamacchina contro lemura. L’ariete era spin-to fino alla base dell’obbiettivo in varimodi,manel sistema più semplice e primitivo era porta-to a spalla dai soldati che dopo procedevano acolpire ilmuro. In seguito la trave venne sospesapermezzo di funi ad una apposita incastellatu-ra di legno e fatta oscillare; ampliando l’oscilla-zione, acquistava anche forza d’urto control’obbiettivo (aries pensilis). L’incastellatura, perfacilitarne il trasporto, poteva essere montatasu di un carrello con ruote (aries subrolatus) osu una specie di slitta a rulli (aries versatilis).L’operazione dell’apertura della breccia potevaesseremolto lunga e certamente disturbata da-gli assediati col fuoco e con proiettili, pertantol’ariete era solitamente montato sotto una tet-toia di legno ricoperta e protetta con pelli fre-sche, non infiammabili.L’ariete era una macchina ossidionale usataper demolire tratti di mura di una città fortifi-cata, particolarmente adatta per l’attacco diporte e delle postierle (Vegezio, Epitoma ReiMiliaris, 4, 14). La trave, sostenuta da uno opiù cordami, veniva fatta oscillare dai soldatiin modo da infliggere potenti colpi alle muradella città nemica.L’opera demolitrice degli arieti trovava valida col-laborazione nella terebra, specie di grosso tra-pano con il quale venivano praticati dei fori nelmuro chedovevapoi essere abbattutodall’arietee nella falx muraria, costituita da una lunga astaal cui estremo era posto un ferro piegato ad un-cino con il quale si svellevano le pietre smossedall’ariete.Per difendersi dall’azione degli arieti, veniva, tral’altro, usato da parte degli assediati uno stru-mento simile ad una grossa tenaglia o uncino,detto lupus, con cui si tentava di intrappolare latesta dell’ariete e di tenerla sollevata, impeden-done in pratica l’uso.

V.G.

BibliografiaClausetti 1939; Marsden 1969; Brizzi 1983; Garlan 1985;Liberati, Silverio 1988; Russo 2004.

Sez. 4.6 - Testuggine arietata(testudo arietata) con sportelloanteriore

Modella funzionante:Dimensioni: 280x150x120materiale: legno, ferro, cordameRealizzata da: Niccolai snc. (Firenze, 2009)

L’ariete era usato in battaglia per aprire breccenellemura di difesa delle città o degli accampa-menti e presentava varie forme: era chiamatocosì per la somiglianza con il modo di attacca-re dell’animale, l’ariete che, quando assalta, re-trocede (Vegezio, Epitoma rei militaris, 4, 14);nella sua forma più semplice era una trave lun-ga e robusta con una estremità rivestita in me-tallo (ferro obronzo) sagomato in formadi testadi ariete, che veniva spinta in vari modi (a spal-la dai soldati o posta su una incastellatura fissae sospesa ad un sistema di corde): bilancian-dola, la trave acquistava forza e poteva penetra-re nelle murature nel punto di attacco (ariespensilis), oppure l’aiete poteva essere montatosu ruote (aries subrolatus).Ma il sistema che dava più garanzie di prote-zione ai soldati che lo manovravano era la ‘te-studo arietata’: l’ariete –montato comeun ariespensilis - veniva posizionato su rulli e ruote e po-sto sotto una solida tettoia di travi di legno lar-

gam. 3o4edi lunghezza variabile,manonmol-to superiore alle dimensioni della larghezza (6o 8 m); la tettoia veniva poi coperta superior-mente da pelli di animali fresche, cioè umide,onde essere resistenti al fuoco dei nemici, e la-teralmente chiusa da robuste tavole di legno,che potevano anch’esse essere rivestite di pelli.Nella parte posteriore la testuggine era sempreaperta, per permettere il rinculo della trave nelsuo moto oscillatorio, nella parte anteriore po-teva essere aperta, per la stessa ragione oppureconfigurata a punta omunita di sportellonimo-bili, che venivano aperti all’ultimo momento,quando lamacchina era già posizionatanel pun-to d’attacco.Secondo Vegezio (Epitoma rei militaris, 4, 14) ilnome derivava dal fatto che la testa dell’arieteoscillandoperpercuotere lemura, entrava eusci-va dal riparo della tettoia, che fa la testugginequando rientra la testa sotto il guscio.Vitruvio ricorda un ariete mosso da cento sol-dati, Procopio ricordaunariete spinto, nella guer-ragotica,dacinquantasoldati (BellumGothorum,I, 21), Appiano ne ricorda uno usato dai Roma-ni nella III guerra punica all’assedio di Cartagi-nemanovrato da 3.000 soldati; Vegezio cita unariete lungo 62m.

G.P.S.

Bibliografia:Clausetti 1939;Marsden 1969; Brizzi

1983; Garlan 1985; Liberati, Sil-verio 1988, pp. 41-61; Russo

2004.

tasse e quindi la loro potenza erano propor-zionali, a differenza deimodelli a flessione che,paradossalmente, a grandi dimensioni dell’arcola potenza della macchina diminuiva. Il rap-porto funzionale matasse/peso della palla, ilmodulo, fu il principale oggetto di interesse dimatematici e architetti dell’antichità, che sisbizzarrirono nei loro trattati a trovare formu-lematematiche atte a individuare la giusta pro-porzione delle varie parti della macchina. È ilcaso del libro X del De architettura di Vitruvioche riporta, rifacendosi ai tradizionali trattati-sti greci, come Filone d’Alessandria, una seriedi prescrizioni da osservare per la costruzionedi baliste e catapulte

D.I.

BibliografiaCampbell 2003; Feugère 1993; Liberati 1988; Masden1969; Russo 2002; Russo 2007; Singer 1966.

Sez. 4.5 - Ariete d’assalto o arietesospeso

Modello funzionanteMateriale: legno (abete, frassino, olmo), cordami,bronzo o ferro

dimensioni: le dimensioni della macchina erano inrapporto con l’ostacolo da abbattere; quelle delmodello in mostra: 270 x 130 h. 180

Realizzazione del modello: Niccolai snc. (Firenze,2009)

L’invenzione dell’ariete fu a lungo attribuita aiCartaginesi da Ateneo. Infatti, in un suo tratta-to sulle macchine d’assalto, egli sostiene che i

Cartaginesi l’avrebbero usato per la prima vol-ta nell’assedio di Cadice (206 a.C.) nel corsodella seconda guerra punica.Uno dei primi riferimenti a questo tipo di mac-china compare nell’assedio di Larisa del 399a.C. (Senofonte, Elleniche, 3, 7).Giuseppe Flavio (Bellum Iudaicum, 3, 284) scri-vendo di un ariete usato da Vespasiano all’as-sedio di Giotapata dice: “Non c’è torre sì fortenémuro sì grosso che possa reggere ai suoi col-pi…”; Appiano (Storia Romana, 6) racconta chenella terza guerra punica i Romani misero inazione due arieti, uno dei quali avrebbe richie-sto sei mila uomini per la manovra alle corde.Procopio (Bellum Gothicum, I, 21) narra di un

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tro la torre di passare sulle mura da conqui-stare. Era fissato tramite una sorta di perno allato della torre che guardava il nemico e veni-va inizialmente tenuto alto. L’altezza del per-no del ponte non doveva essere inferiore aquella del muro per evitare agli assedianti glisvantaggi di un percorso in salita dalla torre al-lemura. Nella descrizione di Apollodoro di Da-masco (Poliorkètika,174), il ponte d’assalto èlungo 20 piedi (6 metri). Doveva tuttavia es-sere solido e pienamente sicuro solo per il pri-mo quarto della sua lunghezza. Per questomotivo, appena calato, veniva ricoperto da unastuoia di vimini rinforzata con traverse nelleparti non coperte da assi.Il terzo piano sembra dovesse rimanere aper-to superiormente, limitandosi nelle protezio-ni a un parapetto fornito di feritoie da cuiscoccare proiettili e frecce.In caso di mura particolarmente elevate, il nu-mero di piani poteva aumentare. Il passaggiodei soldati da un piano all’altro era regolato dadelle scale che tagliavano la costruzione da unlato di un piano al lato opposto di quello su-periore.Narra sempre Vegezio che, per ingannare e co-gliere alla sprovvista il nemico, si potevano co-struire torri apparentemente basse, contenentiall’interno un’altra torre, la quale, quando lamacchina era a contatto dellemura, veniva in-nalzata improvvisamente amezzo di funi e car-rucole. Tra le varianti proposte, invece, daApollodoro figura quella di una torre provvistadi un asse orizzontale girevole all’ultimo suopiano. Questo lungo asse, attaccato ad un per-no, doveva poter passare oltre lemura con unasua estremità. L’altra estremità invece, decisa-mente più vicina al perno, eramanovrabile daisoldati che operavano nella torre e, data ap-punto la minor distanza di questa estremitàdal perno, ad ogni spostamento di questa cor-rispondeva uno spostamento dell’altra pariquanto ad ampiezza angolare,ma decisamentesuperiore quanto a lunghezza d’arco percor-sa. Scopo dell’asse è falciare “tutti quelli chesono sulle mura e che si trovano nel raggioraggiunto dal giro” (Apollodoro, Poliorkètika,172).Perché la torre fosse efficace, doveva essereportata a stretta distanza dal muro perimetra-le del luogo fortificati da espugnare. Oltretut-to, il percorso dal luogo di assemblaggio dellatorre alle mura non doveva presentare irrego-larità morfologiche o di altra natura che osta-colassero l’incedere dellamacchina. Per questo

motivo si rendevano necessarie tutta una se-rie di macchine ausiliarie quali le testuggini (v.sez. 4. n. 6), le vigne e i plutei, i quali permet-tevano ai soldati di lavorare in sicurezza, al ri-paro dai colpi dell’artiglieria nemica, mentrecreavano il miglior corridoio per l’avanzata del-la torre. In casi di città costruite sopra scosce-si pianori e circondate da mura, si rendevanecessaria la costruzione di un agger, cioè unarampa piuttosto declive che permettesse l’asce-sa della torre alla quota utile. L’agger era soli-tamente composto di materiali quali terra,calcinacci e simili asportati da rovine di edifi-ci in zona, e legname. Giunta alla sommità del-l’agger, la torre doveva essere ancorata al terrenocon dei sistemi di alloggiamento tali da con-ferirle maggiore stabilità ed evitare che la purlieve pendenza la facesse retrocedere.Poco chiare sono tuttavia le descrizioni del si-stema di ruote e movimentazione che ci sonopervenute dagli autori di epoca romana. Ri-sulta ciononostante verosimile che fosseroadottate tecnologie non dissimili da quelle im-piegate in epoca alessandrina ed ellenistica.Postulando un asse ad unire tra loro le ruoteanteriori della torre e un altro che unisse quel-le posteriori, risulta sufficiente una coppia digrosse gomene avvolte con numerose spireattorno a ciascun asse e, con l’opposta estre-mità, vincolate all’albero di un cabestano perfar muovere le ruote. Infatti basta far girare ilcabestano per far sì che le gomene, avvolgen-doglisi attorno, si srotolino dai rispettivi assifacendoli ruotare e, con essi, facendo ruotarele rispettive ruote. Ne deriva quindi un siste-ma a trazione integrale (Cesare, De Bello Gal-lico, 2,30-31).Da non dimenticare un passo di Procopio (Bel-lum Gothicum 1, 22) in cui lo storico narra chei Goti di Vitige, durante l’assedio di Roma, ten-tarono un assalto con l’uso di torri trainate dabuoi. I difensori, guidati da Belisario, riusciro-no a bloccare l’avanzata delle macchine sem-plicemente colpendo con delle frecce glianimali.Episodi in cui è attestato l’utilizzo di torri os-sidionali:- 87 a.C.: Silla assedia e conquista Atene, oc-cupata dal generalemitridatico Aristione. Suc-cessivamente prende anche il Pireo, inmanoad Archelao (Pausania 1.20.4; Plutarco, Sul-la, 12,2; Appiano, Bellum Mithridaticum, 30);

- 63 a.C.: Pompeo Magno prende Gerusalem-me, la piattaforma del cui tempio fu usatadai seguaci del rivoltoso Aristobulo come for-

tezza. Per espugnare la città, Pompeo requi-sìmacchine da assedio dalla città di Tiro (Fla-vio Giuseppe, Bellum Judaicum, 1.7);

- 51 a.C.: assedio di Uxellodunum (Puy d’Isso-lu). Cesare fa costruire una torre di 10 pianialta 60 piedi e armata con artiglieria, collaquale recide l’approvvigionamento idrico del-la città che stava prolungando la durata del-l’assedio (C.G. Cesare, De Bello Gallico,8,32-40);

- 37 a.C: Caio Sosio, generale di Antonio, in col-laborazione con Erode il Grande, tenta di ri-conquistare la città di Gerusalemme, nellemani del ribelle Antigono (Flavio Giuseppe,Bellum Judaicum, 1,18);

- 74 d.C.: assedio di Masada. Lucio Flavio Sil-va prende la città in cui si erano asserraglia-ti gli ultimi ribelli giudaici. Torre provvista dicatapulta e ariete. Terrapieno per colmare ildivario tra il pianoro e l’area circostante, co-sì da poter portare la torre, tramite una ram-pa liscia, all’altezza delle mura. Aperta unabreccia nelle mura, una contro-opera di ter-ra e palizzate rendeva inutile l’uso dell’arieteche, coi suoi colpi, costipava la terra e non laabbatteva. Solo dando fuoco alle palizzate,si riuscì ad abbattere l’ammasso di terra chequeste sostenevano. All’ingresso in città, ven-nero trovati i cadaveri degli assediati, aven-do questi preferito darsi la morte piuttostoche consegnarsi ai Romani (Flavio Giusep-pe, Bellum Judaicum, 7.7-8);

- 359 d.C.: i Persiani, usando macchine roma-ne rubate alle guarnigioni di guardia a Sin-gara e le medesime tecniche, prendono lacittà di Amida facendo poi strage degli abi-tanti. Negli anni successivi seguiranno, inmodi simili, la presa della stessa Singara e diBezabde (Ammiano Marcellino, Res gestae,18. 8-10, 19. 1-8);

- 324 d.C.: Costantino assedia Bisanzio, in cuisi era rifugiato il rivale Licinio. Fece uso di tor-ri per controllare dall’alto le mura della città,per proteggere i suoi uomini mentre costrui-vano il terrapieno e per permettere l’arrivo de-gli arieti (Zosimo, Historia Nova, 2, 25).

S.C.

BibliografiaCampbell D.B.,Greek and Roman Siege Machinery 399BC-AD 363, Oxford 2003; Campbell D.B., Siege Warfarein the Roman World 146 BC-AD 378, Oxford 2005;Clausetti 1939; La Regina 1999; Marsden 1971; Russo,Russo 2007.

145

Sez. 4.7 - Torre ossidionalemobile (turris ambulatoria velcurulis vel oppugnatoria)

Materiale: travi e assi di legno per il telaio; corde epulegge per azionare l’ariete e il ponte d’assalto;assi di legno o stuoie per la parte più interna delrivestimento esterno, ferro o cuoio fresco e sacchibagnati per lo strato più esterno del rivestimentocosì da renderlo ignifugo, peli di pecora o setole dicavalli per la difesa dalle frecce. Il rivestimentodoveva garantire l’invulnerabilità dal fuoco e daicolpi dell’artiglieria degli assediati. Oltre al giàcitato rivestimento di ferro, presente in tutte le torrimobili della guerra giudaica condotta dai Flavi, unmetodo alternativo, noto come sifone (σ°φων),prevedeva tutta una serie di intestini di bue esacche di pelle riempite d’acqua che, strizzate,avrebbero spento un eventuale principio d’incendio(Apollodoro di Damasco, Poliorkètika,174). Latecnica di rivestire le assi esterne con argilla nonrisultava efficace in quanto era sufficientedell’acqua per sciogliere l’argilla e mettere quindi inevidenza il sottostante legno. Una copertura conpelli umide non conciate appese in modo piuttostoallentato, poteva risultare utile contro frecce, dardie simili.

Dimensioni: per quanto riguarda l’altezza, le maggioriinformazioni le ricaviamo da Flavio Giuseppe (nelBellum Judaicum), che parla di torri alte 50 piedi(assedio di Giotapata, 67 d.C., 50 cubiti pari a 22,2m; (assedio di Gerusalemme, 70 d.C.) 60 cubitipari a 26.6 m; assedio di Masada, 73 d.C.). Cesare(Caio Giulio Cesare, De Bello Gallico, 8, 32-40) ciriferisce poi di una torre di 10 piani alta 60 piedi (18m), da lui impiegata per la presa di Uxellodunum(Puy d’Issolu) nel 51 a.C. L’altezza variava infunzione dell’altezza della mura da affrontare edalla presenza o meno dell’agger (vedi la sezionededicata alla funzionalità).Le dimensioni della base, solitamente quadrata,cambiavano in funzione dell’altezza della torre. Nelladescrizione di Vegezio vengono menzionate basi di30, 40 e 50 piedi (rispettivamente: 9, 12 e 15 m).

Provenienza: diffuse tra tutti i reparti dell’esercitoromano, che avessero necessità d’espugnare unapiazzaforte

Cronologia: a partire dal II sec a.C. circa, per tutta ladurata dell’impero

Ricostruzione realizzata da Niccolai snc. (Firenze,2009)

Nella descrizione che ci fornisce Flavio Rena-to Vegezio (Epitoma Rei Militaris, 4, 17), la tor-re ossidionale è composta da tre piani e sisposta tramite ruote (probabilmente più dellequattro canoniche) imperniate alle travi cheformano la base.L’autore tralascia la descrizione delle ruote, pre-ferendo soffermarsi sulla descrizione dei trepiani della torre. Al piano inferiore era allog-giato un ariete, a quello intermedio un ponte

di assaltomentre quello superiore ospitava ar-cieri e artiglierie destinati a fornire fuoco di co-pertura alle attività dei due piani inferiori.L’ariete del piano inferiore era formato da unatrave lunga all’incirca 30 piedi (9 metri), la cuipunta era rinforzata da un cappellotto di ferroo, più spesso, da una protome di ariete inca-

strata sempre di ferro oppure di bronzo. La tra-ve era agganciata tramite due corde al solaiodel piano superiore o a una o più travi solida-li ad esso, risultando così sospesa, quindi piùefficace nella sua azione di percussione.Il ponte d’assalto (exostra) del secondo pianodoveva consentire alle truppe che stavano den-

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sero citati in merito alle battaglie di Mylae eEcnomos, per poi sparire definitivamente dal-la scena; ugualmente si è sostenuto che il lo-ro funzionamento, così come descritto dallafonte, determinasse per la nave romana il pe-ricolo di rovesciamento. Si è anche conside-rato il corvo un ‘assurdo meccanico’ proprioin base alla descrizione che ne viene fatta, re-putandolo un’invenzione del generale cartagi-nese sconfitto a Mylae per giustificare ilfallimento ed avere salva la vita. In realtà, sel’omissione di certi dettagli può far sembrareinsicura la fonte, dall’altro c’è da rilevare chelo storico si impegna in una descrizione delcongegno con tanto di misure e spiegazionedel funzionamento: in lui prevarrebbe lo spiri-

to dell’uomo d’azione su quello dello scrittore.È possibile che il suo uso nelle battaglie na-vali sia stato abbandonato relativamente pre-sto dato che i Romani acquisirono sufficienticonoscenze tecnologiche e competenze stra-tegiche per affrontare inmodo diverso gli scon-tri in mare; i Cartaginesi stessi non dovetteroessere più colti di sorpresa dopo le prime espe-rienze; inoltre si trattava pur sempre di unatattica rischiosa, che puntava alla cattura del-l’imbarcazione nemica, ma con il rischio di ve-dere danneggiata (e affondata) la propria.Fatta eccezione per le fonti che si riferisconoalla Prima Guerra Punica, espressioni comemanus ferrea o harpago (con i corrispettivi gre-ci), si riferiscono a strumenti utilizzati nelle co-munque consuete tattiche d’abbordaggio, mache in nessun modo richiamano il congegnodescritto da Polibio. Assai poco convincente èla tesi che la sua presenza nell’equipaggia-mento di grandi navi da guerra fosse divenu-ta così comune da non essere più messa inevidenza (Morrison 1996, p. 358 s.).Un rapido abbandono del corvo è, tutto som-mato, da ritenere plausibile. L’intera strutturadoveva contraddistinguersi per un peso note-vole (ca. una tonnellata)che ne permetteva l’in-stallazione solo su navi di grandi dimensioni(nello specifico le pesanti e lente quinqueremiromane del momento), che potessero tra l’al-tro sopportare anche il peso delle ulteriori trup-

pe da ospitare a bordo con il compito di as-saltare il ponte nemico, una volta che questofosse stato agganciato. A questo proposito vasottolineato come l’evoluzione tecnologica av-venuta dall’inizio dell’età ellenistica nell’ambi-to della navigazione militare abbia offertoun’opportunità di vittoria agli inespertimarinairomani. L’imbarcazionemilitare per eccellenzadel V e di gran parte del IV secolo a.C. era sta-ta la trireme. L’elemento che contraddistinguel’età ellenistica è l’introduzione di navi di mag-giori dimensioni che la relegano ad un ruolo disecondo piano nell’organizzazione della flotta.Proprio queste nuove navi permettono ai Ro-mani di potervi installare una struttura tantopesante; l’evoluzione della flotta in senso dimaggiore agilità e dinamicità deve averne de-finitivamente reso impraticabile l’utilizzo, an-che se l’abbordaggio, praticato inmodi diversi,dovette rimanere la tattica preferita dai Roma-ni (Thiel 1946, p. 445 ss.).

A.F.

BibliografiaCasson 1971; Casson 1991; Corazzini 1896; De La Ber-ge 1918; Fiebiger 1901; Lacombrade 1971; Lammert1922; Meijer 1986; Pitassi 2009; Poznanski 1979, pp.652-661; Rodgers 1937; De Saint Denis 1946, pp. 359-367; Sordi 1967; Storie 2001; Tarn 1907; Tarn 1930;Thiel 1946; Thiel 1954; Tipps 1985; Walbank 1957; Wal-linga 1956.

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Sez. 4.8 - Corvo per quinquereme

Materiale: legno, metallo, cordameCronologia: 260-255/249(?) a.C.Ricostruzione realizzata da: Niccolai snc. (Firenze,2009)

Il corvo, in greco korax, la passerella mobileadottata dai Romani per l’abbordaggio dellenavi nemiche, è descritto nelle fonti anticheesclusivamente da Polibio, in merito alle bat-taglie navali combattute da questi contro iCartaginesi per il controllo della Sicilia, all’in-terno di quella serie di episodi bellici cui lastoriografia moderna assegna il nome di Pri-ma Guerra Punica.Polibio (I, 22, 3-10) descrive una passerellamo-bile, larga m 1,20 ca. e lunga m 10,80 ca., pro-tetta da bassi parapetti e legata ad un paloverticale a sezione circolare di m 0,23 di dia-metro, emergente per m 7,20 ca. dal piano delponte della nave. Tale passerella è costituita dauna scala sulla quale vengono inchiodate delletavole in modo da creare una superficie per-corribile; nella passerella è presente un’apertu-ra oblunga, larga m 0.25 circa (ossia poco piùdel palo verticale), posta a circa m 3,60 dal-l’estremità della passerella. Un sistema di car-rucole e funi, chiaro solo in parte, ne permettel’innalzamento e l’abbassamento. All’estremi-tà è posizionata una punta metallica destinataa conficcarsi nel ponte dell’imbarcazione ne-mica; la sua parte superiore possiede un anel-lo al quale era legata una fune; attraverso lacarrucola posta sulla sommità del palo il corvoveniva innalzato e lasciato cadere al momentoopportuno, permettendo il passaggio dei sol-dati, protetti dal parapetto e dai propri scudi.Mentre tale sistema permetteva una rotazioneverticale, un diverso sistema di accorgimentitecnici non specificati permetteva una rotazio-ne orizzontale utile a prevenire gli attacchi aifianchi. Secondo una ricostruzione l’aperturaoblunga sul tavolato aveva una lunghezza dim3,60 ca. (un terzo della passerella) e garantivaal corvo un gioco approssimabile a tale distan-za nei suoi movimenti (per tale lunghezza lapasserella era sprovvista dei parapetti in mododapermettere il rapido afflusso dei soldati). L’in-nalzamento era possibile grazie ad un argano,mentre la rotazione orizzontale era possibilegrazie a un sistema di carrucole poste semprea prua, quasi sui bordi della nave e legate alleestremità inferiori della passerella; forse esiste-va una leva di sgancio per abbassare il corvo,

mentre una sbarra rimovibile posta all’inizio del-l’apertura oblungapermetteva di disfarsene sca-ricandolo in mare. Una diversa ricostruzioneprevede un palo verticale lungo ca.m 10 e pog-giante, all’interno dello scafo, su di una piatta-forma di legno che attutisca il contraccolpo delrapido abbassamento; la passerella inoltre è da-ta dall’affiancamento di sei travi a sezione cir-colare affiancati in sostituzione della scala (ilche conferirebbe maggiore stabilità), ma sem-pre ricoperti da tavole che creino una superficiefacilmente percorribile; la passerella inoltre ruo-terebbe intornoal palo verticale grazie adun’aper-tura lunga non più di m 0,50, in quanto unadimensione maggiore garantirebbe alla navenemica gioco sufficiente per divincolarsi con lamanovra. Si è arrivati a supporre che la passe-rella fosse costituita da due parti distinte: una,corrispondente a un terzo della lunghezza, ri-maneva sempre orizzontale, mentre dei cardi-ni permettevano la rotazione in senso verticaledei restanti due terzi, in cui era presente l’aper-tura oblunga che favoriva lo scorrimento lungoil palo verticale; delle sbarre poste all’estremitàdella parte orizzontale permettevano aimarinaidi far ruotare il ponte in direzione della nave.Sembra alquanto improbabile la ricostruzionedi un corvo che, una volta issato, rimanesse inposizione orizzontale in cima al palo verticale,prima di essere sganciato.Lo storico greco sottolinea che l’introduzionedei korakes venne ideata per sopperire all’in-feriorità romana in quanto a ingegneria nava-le e capacità di manovra in mare. Senell’introduzione agli avvenimenti bellici in cuii corvi fanno la loro prima comparsa si soffer-ma sulla descrizione dellamacchina e sui suoieffetti più spettacolari (in veloce sequenza ab-bordaggio, assalto e sequestro dei vascelli car-taginesi da parte dei soldati romani), è proprionella descrizione della battaglia diMylae (260a.C.) che si coglie l’effetto scaturito in primis-sima battuta da tale trovata.L’introduzione di tale congegno determina l’as-similazione della battaglia navale ad un com-battimento terrestre, con un ‘effetto sorpresa’tale da costringere la flotta punica a rinunciareall’iniziativa d’attacco, dopo aver subito nu-merose perdite. D’altronde, dal resoconto diPolibio si evince il carattere prevalentementedifensivo del corvus, non fosse altro che per lamanifesta inesperienza romana, almeno al-l’inizio, nel combattimento navale: la sua pre-senza sulle imbarcazioni aumenta sensibilmenteil coefficiente di rischio per chiunque si avvici-

ni nel tentativo di speronarle o abbordarle. Lasuperiorità tattica cartaginese viene così im-provvisamente azzerata, ma si tratta di una si-tuazione temporanea. I successivi avvenimential Capo Ecnomo del 256 a.C. (Polibio, I, 25-28),stanno a dimostrare che la vittoria romana permare è possibile non solo grazie a questo astu-to stratagemma, ancora utilizzato, ma anchegrazie ad un’acquisita maggiore abilità strate-gica e ad una flotta meglio strutturata.I corvi sono da sempre acriticamente accetta-ti dall’immaginario collettivo come straordi-nario esempio dell’abilità e dell’adattabilitàromana in campo bellico, trascurando il viva-ce dibattito storiografico, che non di rado è ar-rivato a metterne in discussione la storicità.In primo luogo è da osservare che la paterni-tà dell’invenzione, con ogni probabilità, non èda attribuire ai Romani, come d’altronde la-scerebbe intendere il racconto stesso di Poli-bio (1, 22, 3). Il korax, inteso comepontemobile,sembra essere un’invenzione di Diade, inge-gnere di Alessandro, e compare per la primavolta nelle torri montate su navimercantili, du-rante l’assedio di Tiro dal mare (e quindi co-memacchina poliorcetica); tuttavia ai Romanidobbiamo riconoscerne l’applicazione tecno-logica nel contesto di una battaglia navale.L’attendibilità del racconto polibiano è invecestata messa in discussione per differenti mo-tivi. Si è parlato di un fraintendimento di cer-te tecniche di abbordaggio da parte dello storicogreco, ritenendo impossibile che i korakes fos-

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Ricostruzione di nave romana con corvo

(da Corazzini 1896, tav. VII)

Ricostruzione di un corvo

(da Meijer 1986, 154, fig. 10.2)

Sezione 5

tecnologia nella medicina

incontrastato per più di mille anni, fino alla ‘spallata’ definitiva de-terminata dalla Rivoluzione Scientifica del XVII secolo.Ma quali sono gli elementi innovativi della pratica medica eserci-tata nell’antica Roma, se di fatto essa riprende il sistema teorico-umorale ippocratico, permeandolo di conoscenze anatomiche diprovenienza alessandrina grazie all’opera di Galeno?L’orientamento verso la pratica fa sì che a Roma molte specialitàmediche raggiungano una solida autonomia cosicché oltre ai me-dici generali, ci sono anche specialisti in grado di utilizzare stru-menti e tecniche che danno vita ad una ‘nuova’ articolazione dellaprofessione.Il medicus vulnerum o vulnerarius è un chirurgo delle lesioni ester-ne (Plinio, Naturalis Historia 29,1,8). Della professione di medicusocularius c’è larga traccia in epigrafi, reperti archeologici, testi me-dici. Celso, nel I secolo d.C., descrive accuratamente le principaliaffezioni oculari, con una chiara derivazione della terminologiadalla medicina greca: egli parla infatti di orzaiolo (krithé dei Gre-ci), calazi (chalázia), pterigio (pterýgion), blefarite (agkuloblépha-rons), della quale è descritta una cura chirurgica secondo lametodicadi Eraclide di Taranto (Celso, De medicina 7,7,1-6). Esemplare èinoltre l’individuazione dell’anatomo-fisiologia del sistema visivo,con la retina, descritta per primo da Erofilo d’Alessandria; sopradi essa ci sono una sostanza ialina (hyaloeidès hygrón o umor vi-treo) ed “una goccia d’umore simile al bianco d’uovo, attraversoil quale si vede”, dice Celso, che riporta poi in dettaglio l’interventochirurgico di guarigione dalla cataratta. Il paziente viene fatto se-dere avanti al chirurgo, in una stanza luminosa, mentre l’assistentegli sorregge la testa da dietro perché non possa muoversi duran-te l’intervento. La rimozione del cristallino opacizzato avviene pra-ticando una piccola incisione laterale, tra la pupilla e le tunichelaterali, mediante una lancetta appuntita: una pressione decisaserve per spostare all’indietro ed indietro lo stesso cristallino e senon ci si riesce o il cristallino tende a rispostarsi nella posizione

iniziale si può utilizzare la lancetta per frantumarlo all’interno. Ladescrizione è molto precisa, tanto che viene puntualizzata perfi-no la posizione che il medico deve assumere (curari vero sinisteroculus dextra manu, dexter sinistra debet: 7,7,14 a-e; “l’occhio sini-stro invero deve essere operato con la mano destra, il destro conla sinistra”). Dopo l’intervento si copre l’occhio con albume d’uo-vo e lana soffice, ed il paziente segue un regime alimentare di in-tegrazione graduale del cibo nel passaggio da un’alimentazioneliquida a quella solida, secondo l’insegnamento ippocratico. L’in-tervento descritto da Celso resterà la base della terapia chirurgicadella cataratta nei secoli successivi.Un’altra specialità consolidata è quella dell’ostetricia: l’attività inquesto settore è largamente riservata alle donne, che svolgono ini-zialmente la professione di levatrice, chiamata obstetrix, termineentrato nell’uso corrente sin dal II secolo a.C. con Plauto (Cistella-ria 1,2,22; Captivi 3,4,96) e poi con Terenzio (Adelphi 3,1,5). Ulpia-no nel commentare gli Editti pretorili fa presente che la testimonianzadell’ostetrica è importante per stabilire l’epoca della gravidanza inrelazione alla discussione sulla paternità della prole di donne chedivorziano: nell’ostetricia al medico ci si rivolge soprattutto per cu-rare le complicanze, come quando bisogna ottenere l’escissione diun feto morto. Si è postulato talvolta che le donne svolgessero lafunzione di medico vero e proprio, e di ciò si ha notizia riguardoad un’epoca più tardiva: Scribonio Largo (I secolo d.C.), che scri-ve le Compositiones medicamentorum, parla di una honesta ma-trona che cura l’epilessia con speciali estratti d’erbe, mentre Soranod’Efeso, il più celebre ginecologo di età romana, attivo a Roma al-l’inizio del II secolo d.C., si dilunga nel descrivere malattie gineco-logiche o della gravidanza,ma si soffermamoltomeno sulla patologiada parto, confermando indirettamente l’esistenza di una profes-sione parallela svolta verosimilmente da donne. Medica è il termi-ne ad esempio utilizzato da Lucio Apuleio (Metamorphoses 5) eda confermare che le pur rare donne-medico sono in tutto parago-

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A partire dalla fine del III secolo a.C., la decisa espansione terri-toriale e il conseguente processo di apertura verso nuove cultureche vedono protagonista la città di Roma determinano un gene-rale cambiamento dei costumi, dei modi di pensare e di vivere acui la medicina non può sottrarsi. Una testimonianza diretta diquanto accade in particolare, in merito all’iniziale opposizione cheil mondo conservatore romano adotta verso le pratiche medichedi importazione greca, figlie delle teorie ippocratiche, è offerta daalcuni autori del periodo, primo tra tutti Catone. In particolare eglidescrive con fervore i pregi della medicina patriarcale fondata sul-la tradizione, cioè su pratiche derivate dall’esperienza e su farmacitratti dal mondo animale e vegetale, ma anche su rituali magicoteurgici: è questa la medicina popolare del primo periodo repub-blicano, che unisce la selezione dei rimedi consolidati dalla tradi-zione a superstizioni, riti e formule magiche (Catone, De re rustica2,7). Di questo mondo rurale, in cui anche in medicina un ruolodeterminante è svolto dal pater familias, Catone parla con ammi-razione, esprimendo l’apprezzamento che ogni civis romanus haper le buone e solide usanze del passato. Più o meno con le stes-se intenzioni, oltre due secoli dopo, Plinio il Vecchio ricorda i tem-pi in cui i Romani vivevano in buona salute, facendo a meno deimedici e tramandandosi le conoscenze di erbe e farmaci di padrein figlio (Plinio, Naturalis Historia 29,7,14-16; 29,8,28).Nel periodo in cui scrive Plinio (I secolo d.C.), la medicina grecaha di fatto sostituito la tradizionale ed incruenta medicina pa-triarcale romana grazie a medici d’importazione preparati, ma an-che con una larga diffusione di praticanti di dubbio valore. Lamedicina greca si fonda, com’è noto, sull’esperienza e su un’ela-borazione dottrinale autonoma rispetto alla sfera religiosa. L’in-fluenza della riflessione sulla natura, che inizia con i filosofi dellaIonia, si estende allo studio dell’uomo, quindi anche alla medici-na, ed è raccolta da Ippocrate e dai suoi discepoli che sono attividal V-IV secolo in poi: la distinzione delle malattie si fonda su se-gni (semeia) rilevati dal medico sul corpo del paziente, attraversoun processo diagnostico che altro non è se non una selezione cri-tica di segni utili a formulare una prognosi, rispetto ad altri chepur apparendo contemporaneamente sono delle mere coincidenzee, quindi, da scartare. Tali segni, convalidati dall’esperienza, e nonsolo da fatti comuni che chiunque può riferire, fanno sì che il buonmedico si faccia apprezzare perché sa formulare una prognosi at-tendibile, riconoscendo situazioni simili a quelle già viste o cono-sciute. L’organismo è concepito come un contenitore unitario diumori, qualità ed elementi, di modo che il loro equilibrio o il pre-

valere di una qualità sulle altre determini lo stato di salute o di ma-lattia e la terapia si basa soprattutto sul regime, cioè su un insie-me di dieta e di norme di vita che ristabiliscono l’equilibrio perduto.Solo un secondo livello d’intervento, prevede il ricorso al ‘ferro eal fuoco’ e quindi a pratiche che attraverso l’incisione e la caute-rizzazione rimuovono la causa della malattia e tendono così ri-stabilire l’equilibrio umorale perso.La medicina praticata nella Roma imperiale è esercitata dunquedamedici greci incoraggiati a mettersi al servizio della cittadinanzamediante la concessione dell’immunitas concessa da Augusto amedici stranieri compresi i liberti; essa riceve un deciso rinnova-mento ed una sistematizzazione con l’arrivo di Galeno (129-216d.C.). Il colto medico degli Antonini, nativo di Pergamo, proponeuna medicina che, memore dell’insegnamento ippocratico, di-venta, in virtù degli studi anatomici svolti ad Alessandria, primadi tutto anatomo-fisiologia e fisiopatologia. Da questo momentola medicina, intrisa di filosofia aristotelica, è veicolata da testi scrit-ti (tradotti nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romanod’Occidente prima in siriaco e in arabo e poi ritrascritti in latino)che illustrano teorie, tecniche e strumenti, e studiata nelle princi-pali università europee medievali. Essa ruota sostanzialmente in-torno a ciò che Galeno sostiene: l’ipse dixit galenico permane

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La tecnologia nella medicina dell’antica Roma

Luciana Rita Angeletti

Astuccio di medico per sonde (Napoli, Museo Archeologico Nazionale; copia:

Collezione A. Pazzini, Museo della Storia della Medicina presso ‘Sapienza’ -

Università di Roma)

Scena di parto: rilievo in terracotta dalla tomba della levatrice Scribonia Attice

e del medicoM.Ulpio Amerimno (Ostia, Museo Ostiense; calco: Roma, Museo

della Civiltà Romana)

per alimentare, ma anche per cauterizzare. Sicuramente esistevauna dotazione di base, direi d’urgenza, dalla quale non poteva pre-scindere il medico che non conosceva l’entità delle ferite che si ac-cingeva a curare. Alcuni bassorilievi riproducenti astucciquadrangolari contenenti cinque o al massimo sei ferri chirurgicioffrono un’idea a riguardo: due bisturi a lama arrotondata, un col-tello dalla lama rettilinea e uno dalla lama ricurva e due tenaglie,insieme con medicinali anestetizzanti, sintetizzano quanto neces-sitava per un pronto intervento. Spesso si utilizzavano oggetti d’usocomune per finalità terapeutiche: anche una sedia, ad esempio, an-dava bene per ridurre una lussazione ad una spalla. Inoltre, quan-do bisognava intervenire d’urgenza, il medico non poteva far ameno di uno o più assistenti che gli porgevano gli strumenti e lo

aiutavano durante la preparazione di bende e medicamenti. Perquanto riguarda invece la visita medica nei reparti, è molto proba-bile che il medico militare utilizzasse una tavoletta d’argilla sullaquale prendeva appunti di varia natura.Soltanto più tardi si hanno strutture ospedaliere civili: è con l’av-vento del Cristianesimo che la pietas e l’amore per il prossimo siesprimono anche attraverso l’istituzione di strutture d’assistenzasanitaria, per gli ammalati in generale, ma anche per particolaricategorie deboli, come l’infanzia abbandonata, gli orfani, gli an-ziani, i viandanti, gli stranieri. Proprio da queste istituzioni, hospi-tia, nosocomia, brephotrophia (Cod. Just. 1,3,42), xenodochia (Cod.Just. 1,2,17;1,3,33;1,3,35), traggono origine, lentamente, le struttu-re ospedaliere medievali.

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nabili per fama ai colleghi giunge Galeno, che cita Antiochis, abilenel curare reumatismi (De simplicium medicamentorum tempera-mentis et facultatibus, Kühn 12, 250). La professione medica nelsettore dell’ostetricia è certamente tra le poche realmente specia-lizzate ed è praticata avvalendosi di apposito strumentario, comelo speculum di cui parla Sorano (De gynaecia 3, 40), o con specifi-che metodiche, come l’irrigazione vaginale, oppure mettendo apunto posizioni per facilitare il parto, anche utilizzando la sedia daparto che si trova rappresentata in diversi bassorilievi.Oltre alla spinta verso una più netta definizione dell’articolazionedella professione medica, il mondo romano si contraddistingue incampo sanitario soprattutto per realizzazione di opere di igienepubblica, come nell’approvvigionamento idrico, o nella costruzio-ne di terme e bagni pubblici, che nella Roma imperiale sono più diottocento, con palestra, frigidarium, tepidarium e calidarium e lo-cali per i massaggi. I Romani erano infatti grandi estimatori del ter-malismo, a scopo igienico-sportivo ma anche terapeutico: siricordano le aquae albulae di Tivoli, le thermae baianae o posido-niae a Baia, presso Napoli (Cicerone, Epistulae ad Atticum 14,8,1;Plinio, Naturalis Historia 31,2,3-4). Si tratta di acque ricercate per illoro grado di purezza o per le asserite proprietà terapeutiche. Pli-nio, ad esempio, cita varie fonti di Roma: Aqua Marcia, che è undono di un dio alla città, Aqua Aufeia, Aqua Pitonia, che origina daimonti Peligni, nella terra dei Marsi, vicino al lago Fucino, e poi an-cora l’acqua della Vergine nella zona della via Prenestina, presso iltorrente dedicato ad Ercole (Naturalis Historia 31, 34-35, 41-42).Alle imponenti costruzioni termali non corrispondono strutturesanitarie civili di uguale rilievo: a Roma non vi sono locali pubbli-ci per ricoverare i malati, mentre nelle regioni militari di frontierasono costruiti ospedali militari (valetudinaria), organizzati comeveri e propri policlinici. Progettati per essere all’avanguardia, talistrutture ospedaliere rappresentano uno dei punti di eccellenzasu cui poggia la potenza espansionistica dell’impero romano:espressione del grado di evoluzione raggiunto dall’Urbe duranteil periodo imperiale, sia nel campomedico e chirurgico che in quel-lo delle tecniche delle costruzioni, rappresentano, di fatto, un ele-mento innovativo rispetto alla precedente epoca repubblicana, incui i soldati feriti in battaglia venivano per lo più ricoverati in ten-de raggruppate tra loro e ‘adattate’ ad uso di infermeria (de Filip-pis Cappai, p. 163). Sia nelle versioni semplici che in quelle piùarticolate, gli ospedali militari romani prevedono spesso come co-mune denominatore, al centro della pianta, una corte rettangola-

re, con intorno corridoi, ai cui lati insistono protoforme di repartimolto simili a ‘celle’(Majno, pp. 381-389). La costruzione qua-drangolare in pietra segue, quindi, uno schema fisso, costituitoda un doppio ordine di camere separate da un corridoio: ogni stan-za può ospitare otto malati e l’intero complesso può così avere si-no a cinquecento ricoverati, pari circa al 5 per cento dei componentidi una guarnigione.Dai ritrovamenti di strumenti chirurgici, di tracce di erbe medici-nali, cibo e contenitori vari è possibile risalire a quello che, gros-somodo, non potevamancare in un’infermeriamilitare. I contenitoridi strumenti chirurgici, cibo e medicamenti da campo, dovendoessere trasportati, venivano realizzati seguendo criteri di econo-micità spaziale. C’erano quindi cassette di legno con coperchio ecestini di varia dimensione che servivano a contenere le bende ele spugne per detergere le medicazioni; recipienti di terracotta evasi di vetro per contenere acqua, olio, vino e preparati medica-mentosi; non mancavano catini per salassi e irrigazioni.Da alcuni scavi archeologici, compiuti nella zona centrale del Re-no, sono emersi alcuni resti di erbe medicinali utilizzate nei vale-tudinaria. In particolare sono state rinvenute tracce diHyoscyamusniger, meglio conosciuta come Giusquiamo nero o Erba da piaghe,che già gli Egizi usavano per calmare il mal di denti. Con ogni pro-babilità l’utilizzo militare aveva l’applicazione più ampia di narco-tico, analgesico e calmante durante le operazioni chirurgiche. Un’altrapianta dai poteri medicamentosi ritrovata nei pressi di accampa-menti romani è l’erba chironia, usata come antinfiammatorio sul-la pelle, ma soprattutto come febbrifugo, prima che a Roma nellamedicina greca ed indiana. Per quanto riguarda lo strumentario dacampo, significativi sono stati gli scavi presso l’accampamento ro-mano di Corbridge in Gran Bretagna, dove frammenti metallici divaria natura, dimensione e stato conservativo hanno permesso diaccertare che nell’ambulatorio del castra erano presenti un po’ tut-ti gli strumenti che il medico aveva nella sua taberna cittadina. Èquindi ipotizzabile che aghi, bisturi, scalpelli, leve ortopediche, di-varicatori per ferite, pinze, tenaglie, trapani, speculi, protesi, spe-cilli, cucchiai, seghe, spatole, sonde, uncini, coppette e cassette perfarmaci come i colliri, oltre a testimoniare l’elevato grado di spe-cializzazione raggiunto, costituissero la gran parte del corredo chi-rurgico da campo. Èchiaro che nell’ambito militare ancor più chein quello civile, vista la necessità di intervenire rapidamente su piùcorpi e con un numero minore di strumenti, molti di questi ave-vano un utilizzo multiplo, ad esempio il cucchiaio poteva servire

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Valetudinarium di Xanten (ricostruzione. Roma, Museo della Civiltà Romana)

BibliografiaAndrè J., Etre médicin à Rome, Paris 1987; Castiglioni A., Storia della Medicina, Verona 1936; Custon C.G., TheHistory of Medicine, New York 1987, pp. 72-184; de Filippis Cappai C., Medici e medicina in Roma antica, Tori-no, 1993; Garofano I.,Vegetti M., Opere scelte di Galeno, Torino 1978; Jackson R., Doctors and Diseases in the Ro-man Empire, Norman 1988; Jackson R., The surgical instruments, appliances and equipment in Celsus ‘De medicina’,in Sabbah G. and Mudry P. (eds.), La médecine de Celse. Aspects historiques, scientifiques et littéraires, St. Eti-enne, Mémoires XIII 1994, pp. 167-209; Jackson R., Medical Instruments in the Roman World, Medicina nei Sec-oli 1997, 9.2, pp. 223-248; Krug A., Medicina nel mondo classico, Firenze 1990; Maino G., The Healing Hand.Man and Wound in the Ancient World, Cambridge (Mass.) 1975, pp. 339-422;Si segnalano poi alcuni contributi specifici su singoli temi:Sulla trasmissione del sapere medico greco ed ellenistico nella cultura romana si vedano: Angeletti L.R., Trasmis-sion of Classical Medicial Texts through Languages of the Middle-East, in “Medicina dei Secoli”, 2, 1990 pp. 293-329; Angeletti L. R., The origin of the Corpus Hippocraticum from ancestors to codices antiqui. The codex Vaticanusgraecus 276, in “Medicina dei Secoli”, 3, 1991, pp. 99-151; Gourevitch G,., Le triangle hippocratique dans le mon-de gréco-romain, Roma 1984, cap.2: L’arrivée du médecin grec à Rome, pp. 289-321; Manuli P., Medico e malat-tia, in M. Vegetti, Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 229-245.Sull’influenza della medicina greca in quella romana, analizzata attraverso le fonti letterarie: Mazzini I., La me-dicina nella letteratura latina, I. Osservazioni e proposte interpretative su passi di Lucilio, Lucrezio, Catullo e Ora-zio, in Aufidus, 4, 1988, pp. 45-73; Mazzini I., La medicina nella letteratura latina, II. Esegesi e traduzione di Horat.Epodorum liber II, 15-16 e Odarum libri I 13, 4-5, in P. Janni., I. Mazzini, La traduzione dei classici greci e latini inItalia oggi, in Pubblicazioni della Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Macerata, 56, 1989, pp.99-114.È pure rilevante ricordare alcune fonti, anche in relazione all’epoca dei diversi autori.Plauto (254 a.C. -184 a.C.): Cistellaria, Captivi, Menaechmi; Marco Porcio Catone (234-144 a.C.): De re rustica;Publio Terenzio Afro (circa 190 – 159 a.C.): Adelphi; Cicerone (106-43 a.C.): Epistulae ad Atticum; Aulo Corne-lio Celso, (circa 29 a.C.- 37 d.C.): De medicina; Tito Lucrezio Caro, (98 - 55 a.C.): De rerum natura; ScribonioLargo (I sec. d.C.): Compositiones medicamentorum; Plinio (62-114 d.C.): Naturalis Historia; Sorano d’Efeso (IIsec. d.C): De gynaecia; Lucio Apuleio (125- 180 d.C): Metamorphoses; Galeno (129-216 d.C.): per le opere si fariferimento alle Opera omnia edite da C.G. Kühn, Leipzig 1821-1833

Sez. 5.4 - Forbici

Copia: in bronzoLuogo di conservazione: Collezione A. Pazzini.Museo della Storia della Medicina, Sapienza -Università di Roma. Inv. n. U: 84 S_1544Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da PompeiMisure: cm 16

Forbici a doppia spatola leggermente sagoma-ta usate anche dal chirurgo per tagliare tessuti,bendaggi etc.

A.A.

Sez. 5.5a - Sonda a spatola

Copia: in bronzoMisure: cm 13 x 0.8 x 0.4Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n. U:1713 s_1563Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Sonda a spatola (specillum). Le possibilitàd’impiego erano molteplici: l’estremità infe-riore (a bastoncino) aveva la funzione di pro-lungare il dito del medico, aiutandolo avalutare la profondità di una ferita o l’esten-sione di una fistola favorendo, al tempo stes-so, l’esplorazione con il tatto e con la vista.Tale estremità aveva, nella maggior parte deicasi, la forma di nocciolo di oliva (vedi n. 5b),mentre una sonda “ senza nocciolo” (vedi n.5a) costituiva un’eccezione (Krug 1990, p. 97).L’altra estremità, piatta ed allungata, potevafungere da cauterio improvvisato (Soranod’Efeso, 27, scrive che dopo la resezione delcordone ombelicale occorre cauterizzare conuna sonda il luogo dove è avvenuto il taglio),poteva coadiuvare l’azione del bisturi; grazieai suoi bordi smussati, poteva servire comeabbassalingua per le visite alla gola. Va inol-tre rilevato che spesso si usava tale strumentonell’ambito per l’impasto e la preparazionedi colori utili per la cosmesi personale; ciòspiega il rinvenimento di spatole associato amanici di pennello e a contenitori di unguentiin alcuni corredi funerari femminili (Krug 1990,p.98)

Sez. 5.5b - Sonda a spatola

Copia: in bronzoMisure: cm 14.6x1.2x 0.4Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n.S_1623Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Sonda a spatola con un’estremità “a noccio-lo di oliva”. (Per la descrizione v. sopra n. 5a)

Sez 5.5c - Sonda a linguetta

Copia in bronzoMisure: cm 11.8 x 1.2 x 0.4Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. U: 65S_1556Cronologia: I sec d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Sonda a linguetta con un’estremità “a noccio-lo di oliva”. (Per la descrizione v. sopra n. 5a)

Sez. 5.5d - Astuccio per sonde

Copia: in bronzoMisure: cm. 21.5 x 2.2 x 2.3Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. U: 875Cronologia: I sec d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Astuccio cilindrico per la custodia delle son-de di impiego più frequente. Faceva parte del-la dotazione ordinaria del medico, insiemeall’astuccio degli strumenti e alla cassetta deimedicinali (Krug 1990, p.97).

A.A.

155

Sez. 5.1 - Stele funeraria delmedico Giasone

Provenienza: rilievo in marmo pentelico su stelefuneraria da Atene.Luogo di conservazione: London, British MuseumCronologia: 100 a.C.Calco in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana,sala L, n. 25, inv. n. 2981

Il rilievo sulla stele funeraria rappresenta ilmedico Giasone che visita un giovanetto: se-duto su uno sgabello pieghevole e vestito conun’ampia toga il medico con la mano destrapalpa l’addome del fanciullo, che è in piedinudo davanti a lui; la mano sinistra, appog-giata al centro della schiena, tiene saldamenteil paziente per evitare probabilmente una rea-zione al dolore (CIA, III, 1445)Sulla destra del rilievo, a terra, è raffiguratauna ventosa, ad indicare il corredo di stru-menti che il medico portava con se nelle vi-ste a domicilio a seconda della suaspecializzazione o anche, semplicemente, laprofessione medica del defunto.

Bibliografia:D’Amato 1993a; D’Amato 1993b; Kunzl E., Medizin inder antike, n2002, p. 28. M.C.R. Catalogo 1982, p. 588;Nutton V., Science in the early roman empre, 1986, p.36.

Sez. 5.2 - Pinzetta dentellata

Copia: in bronzoMisure: cm 10.5 x 1.0 x 0.8Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma, inv. N.1641 s_1547Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Pinzetta anatomica in un sol pezzo in giun-tura elastica; branche con gli estremi a mar-gini dentellati dritti.Era utilizzata in campo medico o chirurgicoper sollevare tessuti o bendaggi o margini diferite o estrarre tessuti molli, come i tumores,le tonsille, le emorroidi, prima di essere recisi(D’Amato 1993). Le estremità dentellate favo-rivano la fissazione (Gazzaniga, Serarcangeli1999) e accrescevano le possibilità di presadello strumento (Krug 1990).

A.A.

Sez. 5.3 - Cauterio a piastrina

Copia: in ferroMisure: m 25 x 0,4Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n. U:59 s_1552Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Cauterio (ferrum candens) in ferro, con espan-sione piatta di rilevante spessore. Visto il grannumero di applicazioni, ne esistevano di aguz-zi, di rotondi, di angolari, di lenticolari, a for-ma di falce o di mezzaluna. Senza dubbioerano usati come cauteri improvvisati anchele sonde, gli aghi o la lama del bisturi (Krug,1990).In chirurgia veniva utilizzato per diversi sco-pi: si applicava il ferro rovente su ferite fre-sche e vasi minori per produrre una crosta alfine di arrestare l’emorragia in corso; per lacura di polipi o fistole; per contrarre i tessutial fine di ottenere una maggiore resistenzadegli stessi o di un’intera parte del corpo (ad.es. contro le slogature delle spalle degli atle-ti, Krug, 1990). Celso ne raccomandava l’usoper la cauterizzazione delle varici e la distru-zione di ossa malate, per bloccare la gangre-na e per l’eliminazione del carbonchio, perl’arresto delle emorragie; in effetti il ferro ro-vente diminuiva l’incidenza di infezioni, ri-mase quindi in uso fino al medioevo e oltre.

A.A.

154

Sez. 5.9a - Speculum odivaricatore vaginale quadrivalve

Copia: in ferroMisure: cm 36.5 x 20.5 x 9.5Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n.U:1791 S_1550Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei(Napoli, Museo ArcheologicoNazionale). Collezione: A. Pazzini

Divaricatore vaginale quadrivalve azionato a vi-te con branche che si allontanano ad opera digioco di leve. Si compone di due valve supe-riori e due inferiori, a facce interne triangolari,che formano un cono (priapiscus). Un pernolungo a vite filettata serve per aprire e chiude-re le due valve superiori; le valve inferiori sonocomandate da due aste seghettate e innestatein una lamina trasversale mobile, che permet-te il movimento delle valve inferiori.Sorano è il primo autore a ricordare questo stru-mentonelle sue tre varietà (D’Amato 1993,p. 73).

Sez. 5.9b - Dilatatore anale(speculum ani)

Copia: in ferroMisure: cm 15.5 x 8Luogo di conservazione: Collezione: A. Pazzini.Museo della Storia della Medicina, Sapienza -Università di Roma. Inv. n. S_1620Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei (Napoli,Museo Archeologico Nazionale).

Speculum “minore” per la visita rettale. Ledue metà del priapiscus (elemento composi-to a forma di pigna che veniva introdotto nel-la cavità per poi essere successivamentespalancato) venivano divaricate mediante unmeccanismo a leva, come nel moderno spe-culum nasale, cioè congiungendo le due par-ti dell’impugnatura; la battuta dei maniciimpediva che la divaricazione ottenuta fosseeccessiva (Krug 1990, p. 104).

Sez. 5.9c - Divaricatore vaginaletrivalve (speculum magnummatricis)

Copia: in ferroMisure: cm 26 x 15 x 9Luogo di conservazione: Collezione: A. Pazzini,Museo della Storia della Medicina, Sapienza -Università di Roma. Inv. n. U:74 S_1551Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei (Napoli,Museo Archeologico Nazionale).

Speculum “maggiore” per la visita vaginale.

Il priapiscus è formato da tre valve; una delleparti poteva essere spostata lentamente me-diante unmeccanismo a vite, divaricando co-sì nel tempo stesso le altre due che scorrevanosu delle guide ricurve; l’apparecchio potevaessere fissato in posizione divaricata, per-mettendo così un esame o un’operazione diuna certa durata. La complessità tecnica del-lo strumento richiedeva la conoscenza del si-stema delle filettature che permettevano diregolare a piacere lo strumento: tale idea, og-gi scontata, non è attestata nell’antichità pri-ma dell’età imperiale (Krug 1990, p. 105).

A.A.

Bibliografia:Bliquez L.J., Roman surgical Instruments and other mi-nor objects in the National Museum of Naples, with aCatalogue of the Surgical Instruments in the Antiquar-ium at Pompei. Mainz 1994, pp. 87-208; Celso, Deme-dicina VIII, 3-4; D’Amato C., La medicina, in ‘Vita ecostumi dei Romani antichi’, n. 15, Roma 1993; Gaz-zaniga V., Serarcangeli C., Lo strumentario chirurgicoromano del Museo di Storia della Medicina dell’Uni-versità di Roma “La Sapienza”, Medicina nei Secoli1999, 11.1: 217-229; Krug A., Medicina nel mondo clas-sico, Firenze, Giunti, 1990; Majno G., The HealingHand, Londra 1975, pp. 355-368; Mazzini I., La Medi-cina dei Greci e dei Romani, Roma, Jouvence, 1997;Jackson R., Doctors and diseases in the Roman Empi-re, Londra 1988; Jackson R., The surgical instruments,appliances and equipment in Celsus ‘De medicina, inSabbah G. and Mudry P. (eds.), La médecine de Cel-se. Aspects historiques, scientifiques et littéraires, St. Eti-enne, Mémoires XIII 1994, pp. 167-209; Jackson R.,Medical Instruments in the Roman World, Medicinanei Secoli 1997, 9.2: 223-248.

157

Sez. 5.6a - Pinza uvulare

Copia: in ferroMisure: m 19 x 1.5 x 0.5Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n. U:37 S_1587Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Pinza a branche leggermente angolate, a for-ma di semicucchiaio e dal bordo dentellato,utilizzata per isolare ed estrarre i tessuti mol-li prima di praticarne la resezione. Concepitaprincipalmente per l’operazione dell’ugola,era di fatto impiegata anche per altre opera-zioni come le tonsille o le emorroidi. Tale ge-nere di strumento esisteva sia nella versionea pinzetta che in quella a tenaglia (Krug 1990,p. 92).

Sez. 5.6b - Pinza vulneraria /‘Forcipe ercolanense’

Copia: in ferroMisure: cm 20Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n. 42S_1585Cronologia: I - II sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

‘Forcipe ercolanense’: pinza chirurgica a bran-che curve e robuste, con parte interna den-tellata a becco di gru fortemente immanicata,per estrarre corpi estranei come dardi pene-trati in profondità o schegge d’osso (Mazzi-ni 1997). La lunghezza del manico faceva inmodo che la mano non impedisse all’opera-tore di osservare bene l’interno della cavitàdella ferita da cui bisognava estrarre i fram-menti (Real Museo Borbonico 1852, vol.14,p.14).

A.A.

Sez. 5.7a - Ventosa

Copia: in bronzoMisure: cm 3.7 x 4.2 x 3..3Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n.1351 S_1499Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione A.Pazzini

Piccola coppetta (ti-po ventosa) in bron-zo (detta cucurbitula)usata per il riequili-brio degli umori, se-condo i dettami dellamedicina ippocrati-co-galenico. Utilizza-ta frequentemente

per curare le malattie più disparate (al puntoda diventare il simbolo stesso della professio-nemedica), aveva unaduplice funzione in quan-to era capace di apportare guarigione sia conla fuoriuscita di sangue che senza (Krug 1990).Applicata in varie parti del corpo, provocavauna pressione negativa sulla pelle, in quantol’aria contenuta nel recipiente veniva riscalda-ta con uno stoppino acceso; si determinava co-sì una forte irrorazione sanguigna della pelleinteressata, con effetto revulsivo,ma anche be-nefico. Se la pelle era stata precedentementescarificata mediante incisione, si aveva fuoriu-scita di sangue (Celso,De medicina, 2, 11, 1-2).La varietà di materiale con cui veniva realiz-zata (bronzo, corno, vetro, argento) non eracorrelata alla diversità degli impieghi (Maz-zini 1997).

Sez. 5.7b - Ventosa

Copia: in bronzo.Misure: cm 13 x 7Luogo di conservazione:Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza -Università di Roma. Inv.n. U. 75 S_1542Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: daoriginale da Pompei.Collezione A. Pazzini

Grande ventosa(per la descrizione v. so-pra, n. 7a)

A.A.

Sez. 5. 8a - Catetere urinario

Copia: in bronzoMisure: m 26 x 0.55Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. S_728Cronologia: I - II sec. d. C.Riproduzione: da originale da Pompei. Collezione: A.Pazzini

Catetere urinario bronzeo a doppia curvaturaper uomo, chiuso su di un lato con il verticesmussato, utilizzato in presenza di ritenzioneurinaria per lo svuotamento della vescica.L’estremità superiore del catetere, ossia quel-la destinata ad essere introdotta nell’uretra,era chiusa ed arrotondata; appena sotto il dia-metro maggiore della testa si trova una mi-nuscola apertura per il deflusso del liquido,cioè la ‘finestra’. Il tutto è fabbricato da un tu-bicino di bronzo dalle pareti molto sottili, sa-gomato nella forma ad S (Krug 1990, p. 96).

Sez. 5.8b - Cannula evacuatrice

Copia: in bronzoMisure: cm 13 x 2.8 x 0.5Luogo di conservazione: Museo della Storia dellaMedicina, Sapienza - Università di Roma. Inv. n.G_10; S_730Cronologia: I sec. d. C.Riproduzione: da originale. Collezione: A. Pazzini

Cannula per lo svuotamento ascitico (fistulaaenea) con fermo discoidale al terzo superio-re e mandrino munito di manico trasversale.La cannula veniva introdotta in un foro prece-dentemente praticato sull’addome, a circa quat-tro dita di distanza sotto l’ombelico a sinistra.Tale foro, praticato conmolta cura inmodo danon intaccare qualche vena, doveva essere pro-fondo non più di un terzo di un dito, fino a rag-giungere la perforazione del peritoneo. Il discolamellare posto ad una estremità serviva pro-prio a introdurre la cannula fino alla giusta pro-fondità, evitando l’eccessiva penetrazione(Celso, De medicina, VII, 15).

A.A.

156

Sez. 5.12 - Valetudinariumdell’accampamento di CastraVetera (Xanten, Germania)

Plastico ricostruttivo in scala 1:50, eseguitodall’Istituto Storico e di Cultura dell’Arma del Genio(gen. E. Clausetti)Museo della Civiltà Romana, sala L, n. 47. Inv. n.3022Cronologia: età neroniana

L’ospedale legionario (valetudinarium) diCastraVetera (l’odierna Xanten sul basso Reno inGer-mania, è il più completo ospedale militare rin-venuto lungo il limes. Era costituito da quattroedifici disposti a quadrato intorno ad una cortecentrale aperta, disposizione ereditata ereditàdai più antichi ospedali da campo del tempo diCesare, nel quale le tende erano raggruppate arettangolo dietro una tenda più grande.Il fabbricato principale d’ingresso sulla via prin-cipalis aveva ai lati locali per magazzini e con-duceva ad una sala a navate da interpretarecome accettazione dei feriti omalati o sala ope-ratoria; su di un lato c’erano i bagni e le latrinee sul lato opposto una cucina e il magazzinodei viveri. Un corridoio disposto sui restanti trelati era fiancheggiato da due file di camerette,

in totale 65 (60 per i degenti e 5 per servizi: sa-lamedici, farmacia,magazzini). Le camere peri degenti (3,50 x 4,50 x 5,00 m di altezza) era-no isolate le une dalle altre e potevano ospita-re tre letti, per un totale di 180 posti.Ospedalimilitari legionari sono stati trovati lun-go il limes (confine) settentrionale dell’impero,in Svizzera aVindonissa (Windish pressoBrugg),in Germania a Neuss sul Reno, a Chester inBritannia e a Inchtuthil in Scozia. Ospedali pertruppe ausiliarie sono stati trovati a Houseste-ad e a Benwell sul Vallo di Adriano in Scozia.

Bibliografia:D’Amato 1993, fig. 58;D’Amato 1993, pp. 225-247; JacksonR.,Doctorsanddiseases in theRomanEmpire, Londra 1988.

159

Sez. 5.10 - Visita oculistica

Originale: rilievo sul fianco del sarcofago dellafamiglia SosiaCollocazione originale: Ravenna, Chiesa di S. VittoreMisure: cm 80 x 86Cronologia: III – IV sec. d.C.Calco in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2963

Il rilievo del lato corto di un sarcofago è limi-tato a destra e a sinistra da due pilastrini concapitelli corinzi, molto schematici. Al centrodel pannello, una donna seduta su una seg-giola pieghevole con alto schienale ha i piedisu uno sgabello; poggia la mano sinistra suuna scatola che l’oculista tiene con la manosinistra davanti a lei. L’oculista con la manodestra sta esaminando un occhio della don-na. In alto, ai lati delle figure, sono rappre-sentate due ventose, simbolo in questo caso

della professione medica esercitata da unodei membri della famiglia, cui appartiene ilsarcofago.Le malattie della vista dovevano essere mol-to diffuse, dal momento che numerose sonostate le iscrizioni di medici oculari rinvenute,occhi votivi in terracotta deposti presso i san-tuari di divinità mediche e sigilli di oculisti (isigilli in pietra recavano il nome dei colliri eservivano per etichettare i preparati in pastaa forma di bastoncini; recavano anche il no-me del medico o del fabbricante, le ricette ele indicazioni mediche).

BibliografiaBaldini I., in Aemilia. La cultura romana in Emilia Ro-magna dal III sec. a.C. all’età costantiniana, Catalogodella Mostra, p. 282, fig. 281.D’Amato 1993a; D’Ama-to 1993b; Huskinson J., Age and ageing in the romanEmpire, in JRA, suppl. 65, 2007, pp. 62-64; MCR.Ca-talogo 1982, p. 581.

Sez. 5.11 - Rilievo con strumentichirurgici

Originale: ex voto dall’Asklepieion di AteneCollocazione originale: Atene, Museo ArcheologicoNazionaleProvenienza: dall’Asklepieion di AteneCronologia: epoca imperialeCalco in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2971

Il rilievo raffigura un astuccio pieghevole ret-tangolare aperto con i ferri del chirurgo, treper parte, ben sistemati: alcuni bisturi e unaleva per ossa (elevatorium), che serviva perriportare le ossa fratturate nella corretta po-sizione; ai lati due ventose, simbolo della pro-fessione medica.

BibliografiaD’Amato 1993a, fig. 58; D’Amato 1993b; Kaltas N.,Sculpture in the National Archaeological Museum,Athens, Los Angeles 2002, p. 223, n. 467 (con bibl.);MCR. Catalogo 1982, p. 584.

158

Sezione 6

Comunicare

Sez. 6.1b - Torri di segnalazione

Ricostruzione virtuale: Hentique Rossi Zambotti,2009

Scarse fonti iconografiche e letterarie riferi-scono di torri che per la loro fisionomia si di-stinguevano nettamente dai fari, ma avevanoprobabilmente una analoga funzione comu-nicativa di segnalazione. Sul rilievo elicoidaledella Colonna Traiana vengono raffigurate del-le torrette difensive lungo il limes danubianorappresentato dal fiume stesso. Queste torria base quadrata al primo piano sono circon-date da una balconata coperta dallo sporto deltetto a padiglione o da grandi finestre di os-servazione. Sul lato che si affaccia sul Danu-bio, si vede una torcia che sporge versol’esterno. Si ipotizza che questa torcia fosseutilizzata di notte per comunicare con le altretorri che si susseguivano lungo il limes: por-tandola dietro il corpo della torre stessa, si fa-ceva sì che essa sparisse dalla visuale dellatorre adiacente destra o sinistra, che ripetevail segnale con la stessa modalità. In questomodo il segnale veniva ripetuto in una sola di-rezione lungo il limes probabilmente fino araggiungere la torre considerata ‘capolinea’.Nei rilievi della colonna vengono raffigurati vi-cino alle torri sia cataste di legna che covonidi paglia: sembra plausibile che di giorno i se-gnali fossero invece inviati per mezzo del fu-mo sprigionato dalla paglia che bruciava.Esistono testimonianze archeologiche del-l’esistenza delle torri di segnalazione lungo illimes germanico. Sotto Traiano fu costruito il

limes di Odenwald, tra i fiumi Meno e Nec-kari, una stradamilitare era sorvegliata da tor-ri in legno edificate su una base di pietre asecco. Sotto Adriano e poi Antonino Pio mol-te torri della frontiera germanica furono ri-strutturate o sostituite del tutto e in particolareè stato osservato che le nuove costruzioni fu-rono edificate interamente in pietra, con fon-damenta più robuste e muri spessi quasi unmetro. In Britannia sono stati rinvenuti i re-sti di torri a distanza ravvicinata con funzio-ne forse di osservazione piuttosto che disegnalazione: sono di legno con muri a gra-ticciata, circondati da un terrapieno e da fos-sati difensivi. Presso il vallo di Adriano invecesono stati rinvenuti i resti di piattaforme diterra, interpretate come basi per i fuochi disegnalazione. Plinio il Vecchio (Naturalis Hi-storia 2, 181) cita delle torrette utilizzate lun-go la costa iberica per trasmetterecomunicazioni, definendole Turris Hanniba-lis, dunque come strutture utilizzate in Spa-gna dal nemico punico e si sofferma sul tempoimpiegato da un dispaccio per correre lungola linea di ‘torrette semaforiche’ verso occi-dente e verso oriente. Sembra plausibile ac-costare il testo di Plinio alle raffigurazioni dellaColonna Traiana, in modo da confermare leteorie proposte riguardo al funzionamentodelle comunicazioni lungo il limes dell’Impe-ro Romano.

S.B.

BibliografiaBreeze, Dobson 1993; Johnson 1987; Russo 2007; Wa-cher 1989.

Sez. 6.2 - La comunicazione perimmagini

Il ritratto, inteso comemezzo comunicativo pereccellenza, rappresenta un fenomeno del tut-to peculiare della società romana, in grado diesprimere al meglio la relazione tra individuoe collettività. Con ritratto si definisce la rappre-sentazione di un determinato personaggio contratti individuali che ne permettano il ricono-scimento e l’identificazione rispetto ad un al-tro essere o gruppo. A differenza dell’uso e delsignificato che il ritratto acquista a partire dal-l’età moderna, come rappresentazione di unapsicologia individuale, in età antica, invece, l’ele-mento distintivo del ritratto è dato dalla sua di-mensione pubblica: esposto nelle piazze, neisantuari o nelle aree funerarie, il ritratto (nellesue possibili manifestazioni come statua, rilie-vo, pittura ecc.) è funzionale a visualizzare lostatus e il prestigio sociale di chi vi è rappre-sentato. Nella sua presenza visiva, il ritratto siconfigura come un’identità programmatica at-traverso tratti utilizzati in modo mirato: la mi-mica degli occhi e della bocca, la gestualità e laposizione del capo, la capigliatura e gli attributidovevano essere percepiti come espressionedi valori, norme e ideali condivisi.Continuando le tendenze elaborate in età re-pubblicana, dove la rappresentazione dai trat-ti fortemente realistici acquista un particolarevalore legittimante, anche l’imperatore sce-glierà immagini di se stesso dai tratti indivi-dualizzanti. L’elaborazione di un tipo di “ritrattoufficiale” da parte del princeps avveniva in con-comitanza ad importanti eventi come la suaascesa al trono o la celebrazione di un trion-fo: la scelta di un tipo di ritratto che dovevaidentificarlo in modo inequivocabile era de-stinata ad incontrare poi il favore di determi-nati gruppi sociali. Attraverso la sua grandediffusione il ritratto dell’imperatore innescavanelle varie regioni dei territori sottoposti al do-minio di Roma un processomimetico e di au-to-identificazione da parte delle aristocrazie,dei funzionari locali e di tutti coloro che era-no motivati ad intrattenere proficui rapportidi interesse e scambio con il centro del pote-re: la condivisione delle immagini diventavacondivisione degli stessi parametri culturali.Le due sculture esposte servono ad esempli-ficare due tipi di ritratto ufficiale con le loroimplicazioni comunicative.

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Sez. 6. La comunicazione: segni,immagini, parole

Sez. 6.1b - Faro

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Il termine latino pharus,i (o pharos,i) deriva daφ�ρος, il nome dell’isolotto su cui fu costruitoper volere dei Tolemei il famoso faro di Ales-sandria. Talmente grande fu la sua fama chequesto nome nella lingua latina passò ad in-dicare qualsiasi tipo di faro.La fisionomia dei fari di epoca romana può es-sere ricostruita soprattutto grazie alle innu-merevoli raffigurazioni antiche: rilievi, pitture,mosaici, manufatti votivi, monete. Le testi-monianze archeologiche sono invece scarse esolitamente pochi i resti dell’alzato del faro. Sipuò inoltre ipotizzare la forma antica di un fa-ro quando esso si conserva fino ad oggi, aven-do subito ricostruzioni e modifiche nel corsodei secoli o quando è ancora in uso. Sono uti-li anche le fonti antiche che descrivono i fari;si tratta in particolare di Svetonio e Plinio.Il faro era un edificio costituito da più blocchisovrapposti che spesso presentavano diverseplanimetrie sui diversi livelli e dimensioni pro-gressivamente ridotte verso l’alto. L’altezza deifari antichi variava naturalmente a seconda deicasi: tra i 130 e i 25 metri circa. In genere il fa-ro veniva costruito su un’isola o su fondazio-ni che si trovassero nelle immediate vicinanzedel porto. Interessante è il caso del faro diOstianel porto di Claudio: si tramanda che la fon-dazione della struttura fu ottenuta affondan-do la grande nave utilizzata da Caligola perportare dall’Egitto l’obelisco vaticano (Sveto-nio, Vita dei Cesari 5, 20.3). Gli studiosi con-cordano nel ritenere il faro di Alessandria,costruito nei primi decenni del III secolo a.C.,il prototipo dei successivi fari romani. Il faro diPortus a Ostia in particolare viene definito al-tissimam turrem in exemplum Alexandrini Pha-ri (Svetonio, ibid., 5, 20). Quello di Alessandriaera costuito da più blocchi sovrapposti, il piùbasso a base quadrata, al di sopra uno a baseottagonale e un altro sulla sommità a base cir-colare. Il blocco intermedio con una planime-tria ottagonale poteva indicare gli otto ventiprincipali, forse per mezzo di banderuole. Apianta ottagonale in tutti i piani era il faro diDover, antica Portus Dubris in Britannia (se-conda metà del I secolo d.C.) e quello di Ge-

soriacum (oggi Boulogne) costruito da Caligolain Gallia (Svetonio, ibid., 4, 45) (secondo quar-to del I secolo d.C). Nelle raffigurazioni roma-ne tuttavia troviamomolte varianti e in alcunedi esse sembra che il faro sia costituito da pia-ni sovrapposti degradanti tutti a base qua-drangolare, come nelle raffigurazioni del farodi Ostia nei mosaici della Piazza delle Corpo-razioni. La forma cilindrica del faro di Messi-na è visibile in denarii di Sesto Pompeo, confinestre e copertura a cupola sormontata dauna statua diNettuno o forse dello stesso Pom-peo.Molto ben conservato risulta un bronzettodel II secolo d.C. da Libarna, che raffigura chia-ramente un faro provvisto di scalinata d’ac-cesso e di vari piani a pianta circolare chepoggiano sul grande basamento quadrato. Unaterracotta votiva da Vulci, datata alla primame-tà del I secolo a.C., rappresenta forse il faro diCosa (Zancani Montuoro 1979).Sulla sommità del faro ardeva la fiamma chegeneralmente era protetta da una copertura acupola o un colonnato circolare. All’interno del-l’edificio si trovavano un pozzo centrale e unarampa che serviva al personale, ma forse an-che ai muli che trasportavanomateriali, a rag-giungere la sommità del faro. L’esistenza diquesta rampa è testimoniata almeno per il fa-ro di Alessandria dagli scrittori arabi di etàme-dievale. Nel caso del faro di La Coruña, anticaBrigantium in Spagna (inizi del II secolo d.C.)è stato proposto che la rampa elicoidale fosseesterna e che salisse intorno al faro, come sug-gerisce il suo aspetto attuale. Per ottenere unafiamma che fosse potente e costante, oltre al-la legna, si è ipotizzato l’uso di un combusti-bile liquido, come l’olio, facile da reperire e da

trasportare fino in cima al faro. La funzione deifari antichi si discosta da quella odierna in quan-to la navigazione allora era per lo più diurna edi cabotaggio: l’utilità della fiamma accesa dinotte era dunque limitata ed era forse legataad una funzione telegrafica che si avvaleva diun linguaggio codificato in segnali luminosi,come le torrette del limes dell’Impero Roma-no(sez. 6.1b). Interessante è il caso del farodella Villa Jovis di Capri, residenza di Tiberio,che comunicava con quello di Miseno e per-metteva all’imperatore di tenersi aggiornatosugli eventi di Roma.Non sappiamo con pre-cisione quando fu introdotto l’utilizzo dellospecchio per riflettere la luce sprigionata dalfuoco, ma deduciamo dalla testimonianza diPlinio che esso, se pur presente, non dovevaessere rotante com’è in età moderna. Un’ul-teriore testimonianza dell’utilizzo notturno deifari è il riferimento alla costruzione del faro diGesoriacum da parte di Caligola (Svetonio, ibid.,4, 46: altissimam turrem excitavit, ex qua utPharo noctibus ad regendos navium cursus ignesemicarent, durante il giorno invece era utile perle imbarcazioni inmare scorgere la colonna difumo prodotto dalla fiamma del faro, certa-mente più visibile anche da distanze conside-revoli e in effetti nelle raffigurazioni antiche incui compaiono fari generalmente assistiamoa scene portuali tipicamente diurne.

S.B.

BibliografiaBedon 1988; Coarelli 2005; Castagnoli F., faro, in EAASuppl.; Cappozzo 2001; Descoeudres 2001;Hairy 2006;Janni 1996; McCann 1987; Quet 1984; Russo 2007a;Russo 2008; Singer 1958; Zancani Montuoro 1979.

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Colonna Traiana. Segnalazioni da torre con torce(da calco. Roma, Museo della Civiltà Romana).

spada, che dalla spalla destra attraversava dia-gonalmente il petto. Sulla spalla e sulla parte si-nistra del busto è riprodottounaltro significativoattributo: si tratta di un’ampia egida raffiguran-te la pelle caprina bordata di teste di serpente edecorata con la testa diMedusa, l’antico esseremostruoso tratto dal repertorio mitologico gre-co che fudecapitato e sconfitto dell’eroePerseo.Come per il caso di Augusto, anche per il ritrat-to dell’imperatore Traiano l’efficacia comunica-tiva dell’immagine dipende da diversi fattori: laresa della fisonomia e la scelta di un particolarelinguaggio espressivo, che riflettono una calco-lata formulazione ideologica, e la presenzadi at-tributi che traduconouna forte carica simbolica.L’espressione del volto è caratterizzata da for-me delineate con precisione, ma modellate inmodo asciutto: naso pronunciato e labbra ser-rate e sottili, guance leggermente smagrite,sguardo fortemente concentrato traducono conparticolare immediatezza la severità del-l’espressione. L’impianto così stilizzato del vol-to si richiama programmaticamente ai modellidella ritrattistica gentilizia e funeraria tardore-pubblicana, in armonia con quella moderatioprincipis con cui le fonti spesso lodano Traiano(Plin. Panegirico, 52, 3. 55, 6).A questa tradizione di valori appartiene anche il

voluto richiamo della capigliatura resa comesemplice calotta, articolata in lunghe ciocchede-lineate singolarmente che incorniciano la fron-te, lasciando al centro una piccola biforcazione.Più specificatamente, il trattamento della capi-gliatura di questa realizzazione di Monaco nonriproduce in maniera fedele il primo tipo di ri-tratto ufficiale creato all’inizio del principato,ma,come notano gli specialisti della ritrattistica im-periale, sembra attuare una commistione con iltipo chiamato Parigi 1250-Mariemont; tali con-siderazioni, congiuntamente alla natura eroicadegli attributi, sembrano indiziare nella conce-zionedi questa immagineunpreciso intento ce-lebrativo post mortem.Non è casuale, infatti, che all’asciutto realismodella dignitas, in ossequio allamigliore tradizio-ne repubblicana già evocata, si associno invecemessaggi di particolare enfasi ideologica: il bal-teus, non semplice attributo, è da intendersi co-me richiamosimbolicoal fatto cheTraiano, qualevittorioso imperator, avesse esteso i confini del-l’impero. Prendendo il postodel consuetoman-tello del generale romano, il paludamentum,l’eccezionale presenza dell’egida, antico emble-madella forza primigenia e spaventosa di Zeus,è da interpretarsi come un voluto richiamo alcondottiero per eccellenza, vale a dire Alessan-dro Magno.La concezione del busto di Monaco sembra al-ludere quindi alla famosa immagine di Ales-sandro Egioco, cioè ammantato con l’egida diZeus: questo attributo, in realtà tipico delle divi-nità, doveva tradurre efficacemente in immagi-ne il concetto dell’imitatio Alexandri che avevacaratterizzato l’intera epopea di conquista deiterritori orientali da parte di Traiano. Comesi ap-prendedal suggestivo resoconto che le fonti an-tiche ci fanno delle campagne partichedell’optimus princeps, Traiano, scrivendo al se-nato dall’Oriente delle sue vittorie sui Parti, sivanta di aver superato un limitemai superato inprecedenza, se non da Alessandro il Grande(Cassio Dio 68, 29, 1); sempre per lo stesso de-sideriodi emulazione con il grandegeneralema-cedone l’imperatore in persona onorerà consacrifici a Babilonia il luogo in cui il giovane pre-decessore era morto (Cassio Dio 68, 30).

Ma.G.

BibliografiaWünsche 2005, p. 137; Traiano 1998; Fittschen – Zanker,1985 p. 39 s., tav. 41.42.44.45; Gross 1940, p. 112 ss., p.132, n. 72.

Sez. 6.3 - Monete con ritrattiimperiali

Aureo di Augusto (27 a.C. - 14 d.C.)

Originale: Roma, Museo Nazionale Romano,Medagliere

Materiale: oroMisure: g. 0,5; diam. mm 20Copia galvanoplastica: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3862

Cronologia: 19 a.C.

Al dritto è raffigurato il ritratto dell’imperato-re Augusto imberbe. Il volto è di profilo a de-stra e presenta una folta capigliatura. Ai latidella testa, legenda: CAESAR AUGVSTVSSul rovescio la corona civica, con evidenti fo-glie di alloro, con al centro un disco e neglispazi del campo sopra e sottostanti la legen-da: OB CIVIS S(E)RVATOSLa moneta è simbolo di potere e di propa-ganda politica dell’età augustea per esaltarel’auctoritas del princeps e la pax ristabilita.

S.T.

BibliografiaRIC I2, 1984, n. 85 b, p. 47; Carson 1962; Zanker 1989;Picozzi 1966; Angeli Bufalini 2001, pp. 49-59.

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Sez. 6.2a - Busto di Augusto concorona civica

Originale: Antikensammlungen GlyptothekMünchen inv. n. 317

Materiale: marmo bianco, reintegrate parti dellacorona, delle bende e del naso, la parte inferioredel busto.

dimensioni: altezza 0, 55 cmProvenienza: appartenente alla collezione del conteBevilacqua a Verona, dove è presente giànell’inventario del 1589 come ‘Augusto’, nel 1815giunge nella Gliptoteca di Monaco.

Cronologia: tarda età augustea.Riproduzione: calco in gesso, Roma. Museo dellaCiviltà Romana, inv. n. 2469

Il busto riproduce il ritratto di C. Octavius (63a.C.-14 d.C.), nipote e figlio adottivo del gran-de condottiero Giulio Cesare; con la sconfittadi Antonio e Cleopatra nella battaglia di Azio(31 a.C.) Ottaviano mise fine al terribile pe-riodo delle guerre civili che segnarono il dis-solversi del sistema repubblicano, dando iniziocon un lungo periodo di pace al principato.Nel 27 a.C. il senato gli concede il titolo ono-rifico di Augusto, termine destinato successi-vamente a designare ogni imperatore.La scultura di Monaco riproduce la testa delprimo imperatore leggermente girata versodestra, caratterizzata dai tratti giovanili delvolto e dalla nudità della parte superiore delbusto; una corona di foglie di quercia, origi-nariamente colorate di verde, è posta sul ca-po; le bende, un tempo in colore rossoporpora, scendono sulla parte anteriore delbusto. La capigliatura mostra un sistema ri-conoscibile nella disposizione delle cioccheche incorniciano la fronte: soprattutto indi-viduabile è un motivo definito dagli studiosi‘a tenaglia’, posto al centro della fronte, e unaserie di altre piccole ciocche disposte ‘a for-chetta’. Tale schema è ricondotto al tipo prin-cipale del ritratto ufficiale di Augusto, forseconcepito nel 27 a.C. proprio in occasionedel conferimento del titolo di augustus e de-nominato come ‘Tipo Prima Porta’ dal-l’esemplare più famoso ritrovato nella Villadi Livia nell’omonima località alla periferia diRoma.Dal punto della resa qualitativa il ritratto diMonaco mostra alcuni dettagli di particolarevirtuosismo, come le sottili vene sotto pelleriprodotte sulle tempie, che creano un sug-gestivo effetto realistico: la nostra scultura sipuò pertanto a ragione annoverare accantoai migliori esemplari del tipo principale, co-

me la statua loricata di Prima Porta o quellatogata di via Labicana.La capacità dell’immagine di veicolare unmes-saggio ideologico è data in primo luogo dal-la scelta del particolare linguaggio delle forme:il volto del ‘tipo Prima Porta’, costruito conforme plastiche e mosse, mostra una fortestilizzazione in senso classicistico, le cui pro-porzioni e i cui modelli di riferimento sonoda ricondursi a prototipi ideali di età classi-ca, più specificatamente alle immagini di eroicreate da Policleto. Un’allusione agli eroi sen-za tempo del mito greco si rifletteva così neiritratti di Augusto, il quale fino in tarda età hasempre mantenuto nella sua immagine uffi-ciale quella stessa dimensione di un ‘giova-ne salvatore’ preannunciata con toni profeticinell’ecloga quarta di Virgilio (40 a.C).La presenza di particolari attributi arricchiscela gamma di significati che possono essereevocati dall’immagine, come ad esempio lacorona di foglie di quercia che cinge il capodel princeps. Si tratta della corona civica, un’ono-rificenzamilitare che originariamente era con-cessa quando veniva salvata la vita di uncittadino romano: dopo che nel 27 a.C. que-sta fu appesa fuori dalla casa di Augusto sulPalatino (Res Gestae 34, 2), la corona civica di-venne uno dei simboli preferiti della propa-ganda ideologica augustea. Il richiamo esplicito

alle tradizioni repubblicane si associa con-temporaneamente ad un preciso richiamo al-la sfera divina: l’elemento delle foglie di quercia,albero sacro a Giove, unitamente alla nuditàdel corpo, in cui è rappresentato Augusto, evo-cavano allusivamente l’associazione dell’im-peratore-salvatore con il padre degli dei.

Ma.G.

BibliografiaWünsche 2005, p. 132; Boschung 1993,p. 164 s., cat.n. 133, tav. 150; 223, 1; Kaiser Augustus 1988, p. 323ss.; Simon 1986; Fittschen – Zanker, 1985, p. 3 ss., tav.4-6.

Sez. 6.2b - Busto di Traiano concorona ed egida

Originale: Antikensammlungen GlyptothekMünchen inv. n. 335

Materiale: marmo bianco in buono stato diconservazione con piccole scalfitturelimitatamente a orecchie, corona e egida; direstauro punta del naso e base del busto. Sullespalle i segni delle bende non più conservate.

Dimensioni: 0, 58 cmProvenienza: fino al 1811 nella collezione di PalazzoBevilacqua a Verona, nella stessa collezione delbusto di Augusto.

Cronologia: il ritratto è probabilmente eseguitopostumo in età adrianea (ca. 120 d.C.)

Riproduzione: calco in gesso: Roma. Museo dellaCiviltà Romana, inv. n. 382

La scultura riproduce la testa e la parte supe-riore del busto dell’imperatoreMarcoUlpio Tra-iano (53-117 d.C.), appartenente all’aristocraziaprovinciale della città iberica di Italica; adottatodall’imperatoreNerva gli succede nel 98 d.C. alpotere, conducendo fino alla morte, avvenutain Cilicia, una dinamica politica di conquiste sianel settore orientale dell’impero che nelle re-gioni antiche della Pannonia, Dacia e Germa-nia Superior.La testa presenta una leggera torsione verso si-nistra e ricorda, nell’espressione e nella posa, ilprecedente busto di Augusto: anch’esso è ca-ratterizzato dalla corona civica di foglie di quer-cia, dalla quale originariamente cadevano dellebende e di cui i segni rimangono sulle spalle; adifferenza del busto di Augusto, la corona civi-camostra come decorazione sopra la fronte unmedaglione, in origine probabilmente dipinto eforse ricoperto da una lamina d’oro.Il bustomostra l’imperatore in nudità con il bal-teus, la striscia di cuoio reggente il fodero della

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praefectus Aegypti che per la prima volta asse-gnava la gestione di un possedimento provin-ciale nelle mani di un equestre. Il suo ruolo inEgitto, testimoniato dall’erezione di questama-gniloquente iscrizione, fu la causa della sua ro-vina. Caduto improvvisamente in disgrazia agliocchi di Augusto, si uccise nel 26 a.C.L’iscrizione trilingue posta dal praefectus è unesempio di comunicazione teso a comparare legesta di Gallus a quelle di Ottaviano. L’impor-tanza dell’iscrizione di Gallus è amplificata dal-lamancanza di alcuna iniziativa di celebrazioneepigrafica del principe e del Senato – contraria-mente a quanto avviene nell’Occidente romano(Aug., Res Gestae 26:Omnium provinciarum po-puli Romani quibus finitimae fuerunt gentes quaenon parerent imperio nostro fines auxi. Gallias etHispanias provincias, item Germaniam, qua in-cludit Oceanus a Gadibus ad ostium Albis flumi-nis pacavi) – in questa zona. Il titulus di Gallus,posto in un sito che indicava il limite geograficotra il mondo conosciuto e quello inesplorato, èuno dei pochi documenti indicativi dei mecca-nismi di esaltazione della conquista ecumenicad’età augustea. L’enfasi trionfale data al testo e

lo scenario ideologico delle imprese del prefet-to consentono di definire la trilingue di Philaecome una tabula triumphalis in finibus, ma so-prattutto comeun’allegoria della demarcazionetra il mondo romano e l’ignoto.I testi, per i quali appare chiaro il ruolo promo-zionale e divulgativo, non riportano fedelmentele stesse versionimamostranoparticolarità les-sicali legate al tipodi comunicazione verso l’ete-rogeneo pubblico a cui si rivolgevano.Tra le particolarità linguistiche proprie di questodocumentodegnadimenzione è la riga 2del te-sto geroglifico, dove il nome del Cesare (Otta-viano), che viene definito “re della valle e re deldelta”, vienemesso in relazione con l’incarico diGallus autodefinitosi “principe di Alessandria edelle due terre”, espressione che molto proba-bilmente riconduce alla sua carica prefettizia. Ilrapporto tra il princeps e il praefectus in questaiscrizione sembra esplicitare la volontà di Gal-lus di comparare le sue gesta a quelle di Otta-viano, allo stesso modo di quanto si riscontranel già citato testo di Quasr Ibrîm. Il messaggiodella celebrazione della vittoria militare - parteessenziale della propaganda augustea - sembra

riservare ai testi di Quasr Ibrîm e di Philae unimportante ruolo promozionale e divulgativo.Interessanti inoltre le linee 11 e 13 del testo in ge-roglifico, in cui la forza del prefetto è descrittacome estesa da Occidente a Oriente e cioè “fi-no ai limiti del sole che sorge”. Tale indicazioneribadisce l’ecumenicità dell’incarico di Gallus eil significato limitaneo della stele.Nel testo latino ilmessaggio auto-celebrativo diGallus sembra leggermente più sfumato. Il con-tenuto indirizza l’attenzione del lettore versol’onomastica e il cursusdel dedicante - prassi cheritroviamo in molte iscrizioni latine - con parti-colare enfasi verso la primogenitura dell’incari-co di praefectus.Il testo in greco differisce invece in alcuni parti-colari, in quanto attribuisce a Ottaviano la re-sponsabilità dell’incarico diGallus, più che dellaprecedente vittoria sui re d’Egitto, che nel testolatino sembra al contrario fondamentale per l’as-segnazione dell’incarico.I differenti registri semantici dell’iscrizione si evin-cono anche nella descrizione delle res gestae diGallus. Nella versione latina le imprese del prae-fectus sono espresse attraverso costruzioni ric-che di ablativi assoluti e formule incidentali.Neltesto la spedizione del prefetto è presentata co-me la punizione di un atto sedizioso (si veda atal proposito Strabone che conferma la neces-sità della campagnadel prefetto a risposta di unatto eversivo (Strabone, 17, 1, 53 C 819). Seguo-no dati ‘tecnici’ come i giorni di battaglia, il nu-merodegli scontri e l’elencodelle città espugnate,che nella versione greca vengono suddivise tracentri presi per irruzione o per assedio. Nellanarrazione del rapporto di guerra c’è la volontàdiGallus di rendere facilmente percepibili eme-morabili le sua gestaeattraverso convenzioni chesfruttino il potenzialemnemonico grazie all’usodi multipli di cinque (cinque città - Boresis, Cop-tos, Keramike,DiospolisMagna,Ophieum - espu-gnate in quindici giorni) (CresciMarrone 1993).Il resoconto della battaglia varia inoltre nei tretesti. Se in quello latino la cattura dei capi dellarivolta prelude al passaggio dell’esercito oltre lecataratte del Nilo, nel testo greco precede inve-ce l’espugnazione delle città. Il passaggio del-l’esercito “in una regione in cui le armi non eranomai state portate né dal popolo romano né dai red’Egitto” tende a enfatizzare ancora di più l’im-presa di Gallus - il testo greco omette invece itermini del confronto - sottolineata dalle suc-cessive righe chedescrivono la pacificazionedel-la Tebaide “comune terrore di tutti i re”.Interessante notare (Cresci Marrone 1993) co-

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Sesterzio di Adriano (117 - 138 d.C.)

Originale: Roma, Museo Nazionale Romano,Medagliere

Materiale: bronzoMisure: g. 4; diam. mm 30Cronologia: 134-138 d.C.Copia galvanoplastica in bronzo: Roma, Museo dellaCiviltà Romana

Al dritto è raffigurato il ritratto dell’imperato-re con barba e corona civica. Il volto è di pro-filo a destra e con folta capigliatura. Nelcampo, ai lati del ritratto, la legenda: AVGCOS III PP sulla destra, HADRIANVS sulla si-nistra.Sul rovescio l’imperatore è raffigurato in attodi tendere la mano alla personificazione del-l’Africa, inginocchiata davanti a lui. La figuradell’imperatore stante è di profilo, con coro-na civica e toga exigua. La personificazionedell’Africa di profilo è contrassegnata dal ser-pente sulla fronte e due spighe nella mano si-nistra. In basso tra le due figure spiccano trespighe.Sul bordo del campo la legenda: RESTITV-TORI AFRICAE, sotto, nell’esergo, S CLa moneta in particolare rappresenta un va-lido mezzo di propaganda politica e di esal-tazione della figura di un imperatore attentoalle necessità dei sudditi e dotato di quellevirtù che sono indispensabili ad un buon am-ministratore.

F.C.

BibliografiaRIC I2, 1984, n. 298, p. 63; Carson 1962; Picozzi 1966;Angeli Bufalini 2001, pp. 49-59.

Sez. 6.4. - Iscrizione trilingue diCaius Cornelius Gallus

Originale: da File. Il Cairo, Museo EgizianoDatazione: 17 aprile 29 a.C.Copia in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2923

La particolarità dell’uso di tre lingue e di trealfabeti diversi implica una volontà comuni-cativa ben chiara, rivolta ai Romani, ai localie ai numerosi grecofoni presenti in Egitto.

Testo in latino1 C(aius) Cornelius Cn(aei) f(ilius) Gallu[s,

eq]ues Romanus, post regesa Caesare deivi f(ilio) devictos praefect[usAlex]andreae et Aegypti primus, defectioni[s]Thebaidis intra dies XV, quibus hostemv[icit, bis a]cie victor, V urbium expugnator,Bore[se]-os, Copti, Ceramices, DiospoleosMeg[ales, Op]hieu, ducibus earum defectio-num inter[ce]-

5 ptis, exercitu ultra Nili catarhacte[ntransd]ucto, in quem locum neque populoRomano neque regibus Aegypti [arma s]untprolata, Thebaide communi omn[i]-um regum formidine subact[a], leg[atisre]gis Aethiopum ad Philas auditis, eo[dem]rege in tutelam recepto, tyrann[o] Tr[iacon-tas]choe<ni> in Aethiopiae constituto,die[is] patrieis et N[ilo adiut]ori d(onum)d(edit).

Testo in greco10 [Γ]�»ος ΚορνÐλιος, Γνα°ου υ³çς,

Γ�λλ[ος, ³ππεÁ]ς hRωµα°ων, µετ� τÑνκατ�λυσιν τòν�ν Α¸γÀπτωι βασιλ™ων πρòτος ÃπèΚα°σ[αρος π±] τÒς Α¸γÀπτουκατασταθε°ς, τÑν Θηβα¼δα [‡]−ποστ‚σαν ν πεντεκα°δεκα Óµ›ραιςδ±ς [ ν παρ]ατ�ξει κατ� κρ�τος νικÐσας, σÁν τòι τοÁς Ó−γεµçνας τòν ‡ντιταξαµ™νων ›λε²ν,π™ν[τε τε πç]λεις τ�ς µšν ξ φçδου,τ�ς δš κ πολιορκ°[ας]καταλαβçµενος, ΒορÒσιν, Κçπτον,ΚεραµικÐ[ν, ∆ιçσπ]ολιν µεγ�λην,@OφιÒον, κα± σÁν τÒι στρατι‚ι Ã−

15 περ�ρας τèν καταρ�κτην, ‡β�τουστρατ°α[ις τÒς χðρ]ας πρè αÇτοÂγενοµ™νης, κα± σÀµπασαν τÑ[ν]Θηβα¼δα µÑ Ãποταγε²σαν το²ςβασιλεÂσιν, [Ãποτ�ξ]ας, δεξ�µενçς τε

πρ™σβεις Α¸θιçπων ν Φ°−λαις κα± προξεν°αν παρ� τοÂβασιλ™ως λ[αβðν, τÀ]ραννçν τε τÒςΤριακοντασχο°νου τοπαρχ°α[ς]µι‚ς ν Α¸θιοπ°αι καταστÐσας, θεο²ςπατ[ρüοις, Ν]ε°λû συνλÐπτοριχαριστÐρια.

Testo in geroglifico

La versione egiziana in geroglifico corre su trecolonne, circondando su tre lati una complessascena figurata in cui campeggia una scenadi ca-valiere che atterra un barbaro; sopra la raffigu-razione di un Sole alato.L’inscrizione fu commissionata da Caius Corne-lius Gallus (69–26 a.C.), poeta elegiaco. Appar-tenente all’ordo equestremadi nascitamodestaGaius giunse a Roma probabilmente da ForumIulii dove già in giovane età aveva stretto amici-zia conVirgilio eOttaviano. Il buon rapporto conOttaviano - primadella definitiva rottura - si evin-ce dal testo di uno dei carmi ritrovati a QuasrIbrîm e attribuito alla produzione del poeta-mi-litare: Fata mihi, Caesar, tum erunt mea dulia,quom tu / maxima Romanae pars erit historiae/ postque tuum reditum multorum templa deo-rum / fixa legam spolieis deivitiora tueis. Con loscoppio della guerra civileGallus simeritò la sti-ma di Ottaviano combattendo dalla sua parte.Nel 40 a.C. lo troviamo in Transpadana con l’in-carico di praepositus ad exigendas pecunias a fa-vore di alcuni veteres a cui erano state sottrattele terre. Distintosi nella guerra aziaca con l’in-carico di fraefectus fabrum meritò la carica di

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Stele in marmo fratta indue parti - forse segno diun reimpiego antico nellestrutture del tempio diAugusto, a significato delladamnatio memoriae del suodedicante – sulla quale èincisa un’iscrizionetrilingue, in latino, ingreco, in geroglifico, postada Caius Cornélius Gallus aricordo di una fortunataspedizione militarecondotta nella regionemeridionale della Tebaide.Ritrovata nell’isola diPhilae (Φιλα°) in Egitto(CIL 14147).

mente nell’area orientale. In quest’area la re-dazione era spesso sia in latino, la sua formaoriginale, che in greco, lingua comprensibileagli abitanti del luogo. Nonostante le testi-monianze siano frammentarie dall’analisicomparata delle due versioni, greca e latina,è stato possibile ricostruire l’editto quasi nel-la sua interezza.Una prima edizione dell’editto è stata curatanel 1893 da Mommsen e Blumner, sulla ba-se dei 35 frammenti allora conosciuti. In se-guito sono state fatte nuove scoperte, chehanno fatto crescere il numero delle fonti epi-grafiche. Nel 1974 M. Giacchero cura un’edi-zione aggiornata basandosi su 132 frammentilatini e greci.L’Edictum de pretiis rerum venalium è com-posto da due parti.La prima, l’editto vero e proprio, è una prefa-tio in cui l’imperatore Diocleziano, parlando anome suo e dei suoi colleghi nella tetrarchia,espone le motivazioni ideali che hanno porta-to all’emanazione dell’editto: honestum publi-cum et Romana dignitas maiestasque (rr. 20-21).La seconda parte, detta ‘tariffari’, è compostadal calmiere vero e proprio e consta in un lun-go elenco, diviso in 35 sezioni, di 1391 voci,accanto a ciascuna delle quali è espresso ilprezzo ‘massimo’ in denari che essa può ave-re sul mercato. Le voci sono le più disparatee vanno dai generi alimentari, alle materie pri-me fino ai beni di lusso e ai salari degli sti-pendiati; anche agli schiavi è fissato un prezzomassimo, diverso a seconda dell’età, del ses-so e delle competenze. Il prezzo più alto ri-portato per una merce è di 150.000 denari edè lo stesso per 1 libbra di seta greggia, tintadi porpora scura, e per un leone libico di pri-ma qualità.Lo scopo dell’editto non era fissare un prez-zo stabilito per le merci, ma un tetto massi-mo (maxima) oltre il quale i commerciantinon dovessero spingersi. Le sanzioni previ-ste per chi contravveniva a queste indicazio-ni, inprobos et inmodestos (r. 40), eranomoltosevere, e comprendevano anche la pena ca-pitale. L’esito di questa operazione fu un com-pleto fallimento e l’inflazione continuò adaumentare. L’editto mancava totalmente del-le basi economiche necessarie a funzionare,contando solo sul potere coercitivo dell’im-peratore.Le conseguenze più dirette dell’emanazionedel calmiere furono innanzi tutto un’enormefioritura del mercato nero, in cui venivano

venduti a prezzi ‘reali’ tutte le merci presen-ti nell’elenco. In altre zone dell’impero i cetipiù umili si videro addirittura costretti a tor-nare al baratto.In linea generale l’intera economia dell’Im-pero Romano subì una paralisi, non essendopiù i commercianti in grado di produrre benia prezzi accettabili.Le misure economiche prese da Dioclezianoebbero vita breve: nel 305 d.C., al momentodell’abdicazione dell’imperatore, l’editto cad-de naturalmente in disuso, senza aver mini-mamente contribuito a migliorare unasituazione economica che rimaneva delle piùcritiche.Nella prefatio viene chiaramente espresso co-me il campo di applicazione dell’editto sial’intero Impero Romano: ita totius orbi nostriobservantia contineri (r. 116).In precedenza alcuni studiosi (tra cui Mom-msen nell’edizione del 1893) avevano ipotiz-zato che l’editto fosse stato emanato solonella parte orientale dell’Impero. Tutti i fram-menti rinvenuti fino a quella data proveniva-no infatti dalla Grecia. Il primo ritrovamentodi un frammento dell’Edictum de pretiis in Oc-cidente risale al 1933, ed è avvenuto nella lo-calità abruzzese di Pettorano sul Gizio (AQ).La Guarducci, che si è occupata della pubbli-cazione di questo frammento, sostiene, an-che sulla base del ritrovamento, che nonpossano ormai esserci più dubbi sulla valen-za universale del provvedimento preso dai te-trarchi.

F.G.

BibliografiaGeraci G., Marcone A., Storia Romana, con la colla-borazione di Alessandro Cristofori, Carla Salvaterra,Firenze 2004, pp. 223-234Giacchero M., Edictum Diocletiani et collegarum depretiis rerum venalium; in integrum fere restitutum elatinis graecisque fragmentis, Genova 1974Orsini P., Edictum de pretiis rerum venalium. Nota sulframmento di Pettorano, 2001Rostovtzeff M.I., Storia economica e sociale dell’Im-pero Romano, Nuova ed. accresciuta di testi inediti acura di Arnaldo Marcone, Milano 2003, pp. 745-763Sirago V.A., Diocleziano, Estratto da: Nuove Questio-ni di Storia Antica, Milano 1967

Sez. 6.6a. - Tavolette cerate e dittici

Materiale: legno o avorio e ceraRicostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2860

Le tavolette cerate (tabulae ceratae) erano as-sicelle rettangolari di legno o di avorio (ditti-ci) con un breve margine lungo i lati; la parteincavata veniva spalmata di cera e su questasi scriveva incidendola con lo stilo (stylus ographicum). Potevano essere incerate su unasola o su tutte e due le facce ed erano sem-plici o riunite in libretti (codices, codicilli, pu-gillares), che prendevano il nome di diptycha,triptycha, polyptycha, secondo il numero del-le tavolette: servivano per fare i conti, dare ri-cevute, spedire lettere, prendere appunti, fareesercizi scolastici. Le tavolette che contene-vano documenti importanti venivano sigilla-ti con una funicella fissata con uno o più sigilli.

R.M.

Sez. 6.6b. - Capsa

Materiale: cuoio, legnoRicostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2849

Con il termine capsa (ma anche scrinium, ci-sta, arca) si indica generalmente un piccolomobile in cui potevano conservarsi soldi, gio-ielleria ed altri piccoli oggetti.Ma, come si evin-ce da un passo pliniano (Naturalis Historia, 16,43, 84) il termine capsa ed il termine scriniumsi applicarono più precisamente a contenitoridi forma circolare: secondo l’autore infatti ilmiglior legno per costruire questi contenitoriera il faggio, poiché le lamine di legno da es-so ricavate,molto sottili e flessibili, erano adat-

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me la sottomissione della Tebaide segua e nonpreceda l’attraversamento delle cataratte. Fattoquesto che risulta singolare in quanto le dighedelNilo indicavano il limitemeridionale della re-gione.Il passaggio dalle operazioni di guerra a quelledi pace è enfatizzato nel testo latino dove Gal-lus - victor ed expugnator - viene descritto men-tre riceve ambascerie dai territori meridionalidisposti a sottomettersi alla sua tutela (cfr. r. 7).Le res gestaedelpraefectus si chiudonoconun’in-vocazione agli dèi patri e al dio fluviale indige-no. L’utilizzo di divinità locali e romane e inparticolare il ricordo di una divinità nemica ri-corda la tradizione celebrativa romana dell’evo-catio.L’iscrizione di Gallus è un brillante esempio dicomunicazione celebrativa. L’azione politico-militare del praefectus viene messa a confrontocon le operazioni passate diOttaviano. Fu forsequesto il pretesto che portò il senato - contrarioall’assegnazione di una provincia come l’Egittoa un praefectus di rango equestre - a condanna-reGallus e a rimuoverlo dall’incarico.Gallus ven-ne accusato di aver disseminato in Egittoriproduzioni della propria immagine e di avermoltiplicato l’esposizione dei resoconti epigra-fici delle sue imprese (cfr. Dio., 53, 23, 5). La vo-lontà celebrativa di Gallus fu considerata unacontrapposizione ad Augusto, il quale tuttavialo punì blandamente, rimuovendolo dall’incari-co e privandolo della sua amicizia. Ma il senato- vistosi espropriato del controllo sulla provincia- pretese unprocessonel quale il praefectus ven-ne ritenuto colpevole di congiura e di aver ap-provato, senza essere senatore, alcune clausoletrionfali tipiche del ceto senatoriale. Privato deisuoi beni e condannato all’esilioGallus si suici-dò (Suetonio, Augustus, 66) nel 26 a.C.La stele - forse a causa di una tacita e non uffi-cializzata damnatio memoriae che si abbatté suGallus - fu infranta e reimpiegata.

S.P.

BibliografiaJ.-P. Boucher, Caius Cornélius Gallus, Paris 1966; L. Nica-stri,Cornelio Gallo e l’elegia ellenistico-romana. Studio deinuovi frammenti,Napoli 1984; F. Rohr Vio, Le voci del dis-senso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Padova 2000;Cresci Marrone 1993; F. Arcaria, I crimini e il processo diCornelio Gallo, in “Quaderni Catanesi” 3, 2004, pp. 109-226; AE 2005, 1625 Hoffmann et al. 2009.Per il testo in geroglifico: cfr. A. Vogliano, Un papiro sto-rico milanese e le campagne dei Romani in Etiopia, Mila-no 1940, pp. 27-39, part., pp. 31-35.

Sez. 6.5 - Edictum de pretiisrerum venaliumStratonicense latino (n.2)

Materiale: marmo, 12 lastreDimensioni: altezza 2,74m; larghezza 7,12mProvenienza: Stratonicea di Caria, odierna Eski-hissar

Cronologia: 20 novembre – 9 dicembre 301 d.C.Calchi in gesso: Museo della Civiltà Romana: sala LV,n. 46 (ricostruzione dell’Edictum); n. 54(frammento da Afrodisia); n. 56 (frammento daPlatea); n. 57; n. 58 (frammento da Atene); n. 63

All’inizio del IV sec d.C. la situazione che sipresenta nei territori dell’Impero Romano èmolto grave, sia dal punto di vista politico cheda quello economico e sociale.Con l’avvento al trono di Diocle, generale dal-mata di oscure origini, che nel 285 a.C. preseil potere con il nome di Caius Aurelius ValeriusDiocletianus, si chiudeva un lungo periodo disanguinose guerre civili. Le lotte tra generali,unite alle continue incursioni di barbari oltrei confini, avevanomesso in ginocchio l’Impe-ro, minando le stesse fondamenta politicheed economiche del potere imperiale.A Diocleziano non sfuggì la gravità della si-tuazione, e da subito il suo operato fu con-traddistinto da una forte volontà conservatricedello Stato. In quest’ottica vanno ad inserirsile numerose riforme che promulgò in tutti icampi: l’impostazione della tetrarchia, volta adassicurare stabilità e una successione senzascossoni, la riforma dell’esercito, i cui effettivivennero molto aumentati per far fronte allapressione dei barbari. Altrettanto importantisono le riforme di stampo amministrativo etributario, che venivano a segnare una nettafrattura con il sistema che il primo imperato-re aveva impostato circa trecento anni prima.Nel corso della cosiddetta ‘crisi del III seco-lo’ l’economia aveva subito un brusco arre-sto. La moneta aveva quindi imboccato uninarrestabile declino, con conseguente cre-scita esponenziale dell’inflazione. Il denarius,che alle sue prime apparizioni alla fine del IIIsec. a.C. conteneva 4,55 g di argento, subì unprimo abbassamento sotto Nerone, che loportò a 3,4 g. Da allora il processo subisceun’accelerazione incredibile e il denarius nel-la seconda metà del III sec. d.C. arriva a con-tenere 0,17 g d’argento, con un potered’acquisto pressoché nullo.Il cambio era particolarmente sfavorevole nei

confronti delle monete d’oro: nel 300 d.C. unaureo veniva cambiato con 1.600 denari.Ovviamente da questo processo veniva dan-neggiata in modo particolare la gente comu-ne, che molto raramente si trovava amaneggiare monete d’oro, ma che faceva ri-corso al denarius per le spese quotidiane. Edè proprio per proteggere questo ‘popolo mi-nuto’, quos ad sensum miserrimae condicionisegestatis estrema traxerunt, che Dioclezianoafferma di agire con il suo editto. Preceden-temente all’editto, nel 294 d.C., nell’ambitodi una politica monetaria più ampia, Diocle-ziano si impegnò per rendere stabile la mo-neta, fissando per questa buoni valori di base.L’aureus fu stabilito a 1/60 di libbra (5,3 g ca.),l’argenteus ad 1/96 (3,2 g ca.) e venne intro-dotta una nuova moneta bronzea con un al-to tasso di metallo. Questa manovra ebbeperò un esito opposto: fornendo monete al-ternative di ‘buona qualità’ portò collateral-mente ad un totale discredito del denarius, edin generale ad una fortissima spinta inflazio-nistica.Un primo tentativo di abbattere l’inflazionefu fatto nel 301 d.C. con l’editto cosiddetto diAfrodisiade, dalla località della Caria in cui nel1970 ne vennero rinvenuti i primi frammen-ti. Il testo, che entrava in vigore dal 1 settem-bre dello stesso anno, attribuiva un valorenominale doppio a tutte le monete circolan-ti nell’Impero Romano.Come era prevedibile il provvedimento ebbel’effetto immediato di far lievitare i prezzi del-le merci, tanto che nel giro di pochi mesi, trail 20 novembre e il 9 dicembre del 301 d.C.,l’imperatore si vide costretto ad emanare uncalmiere, l’Edictum de pretiis rerum venalium.L’editto è giunto sino a noi in forma epigrafi-ca, da documenti provenienti da varie zonedell’Impero, anche se concentrati principal-

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Sez. 6.6d - Stilo (stylus)

Materiale: osso, avorio, bronzo, ferro, legnopregiato

Copia: Roma, Museo della Civiltà Romana, inv. n.2861 bis

Strumento di ferro, avorio o osso(Isidor.Origines6, 9) cheavevaunadelle terminazioni appuntita,men-tre l’altra in genere finiva con unalarga lama piatta.Strumento di grande diffusione, spesso lo siportava appresso insieme alle tavolette (pu-gillares): serviva infatti per scrivere sulle tabu-lae coperte da un sottile strato di cera (PlautoBacchides 4, 3, 79 e 91). Con la punta si trac-ciavano le lettere mentre con la parte piatta sifacevano le correzioni e si rendeva di nuovoomogenea la superficie della cera, così che ri-saltassero le lettere tracciate. Per questo mo-tivo l’espressione vertere stilum (Horazio,Saturae, I, 10, 72) significa “correggere”.Era uno strumento molto appuntito, che inalcuni casi poteva trasformarsi in una peri-colosa arma (Svetonio, Claudius, 35:” Sero en-im ac vix remisit, ne feminae praetextatiquepueri et puellae contrectarentur et ne cuiuscomiti aut librario calamariae et graphiariaethecae adimerentur”).

R.M.

Sez. 6. 6d.e - Atramentarium(calamaio), calamus (penna)

Materiale: terracotta, bronzoCopia: Roma, Museo della Civiltà Romana

Il termine atramentarium (< atramentum =nero; per l’uso del colore nero in scrittura siveda Cicerone, Ad Quintum Fratrem, 2, 18)designa i calamai in generale, indipendente-mente dalla forma che questi presentano. Conil termine calamarium o techa calamaria i ro-mani indicavano invece una sorta di astucciin cui si conservavano le canne per scrivere(calami).I calamai, fatti di bronzo o d’argilla, possonoavere una forma globulare, cilindrica o a cam-pana. Poichè alcuni personaggi, per mestie-re o per gusto, non potevano permettersiinfatti di andare in giro senza un calamaioquesti a volte potevano anche essere munitidi anse o anelli che servivano per legarli allacintura (Petronio, Satyricon; 102: “Eumolpustanquam litterarum studiosus utique atra-mentum habet”).Un calamaio rinvenuto a Roma (cimitero diS. Callisto) al momento della scoperta con-teneva ancora l’inchiostro nero. A Pompei so-no stati rinvenuti due esemplari identici: unoper l’inchiostro nero (atramentum) e uno perquello rosso (cinnababis). Associato con undittico, uno stilo e un pacco di piume è statorinvenuto nella tomba di un librarius. Il MuseoNazionale Romano, infine, conserva un pic-colo nucleo di vasetti-calamaio, grosso mo-do simili come forma, utilizzati per intingerelo stilo nell’inchiostro, uno dei quali è statorinvenuto come corredo nell’interno di un sar-cofago della metà del II secolo.Con il calamus, una cannuccia appuntita intin-ta nell’atramentum (inchiostro) si scrivevasulla pergamena e sul papiro.

R.M.

BibliografiaDaremberg, Saglio, s.v. Stylus e atramentarium; Lu-cani 1998;Maniaci 2005; Pesando 1994; Reggiani 1990;Weeber 2007.

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te a dare forma circolare al contenitore. Coltempo però le capsae non furono più costrui-te solo in legno, ma anche inmetallo e avorio.Nonostante si sia cercato per tanto tempo difare una distinzione tra questi due terminicapsa e scrinium in realtà si tratta di due si-nonimi che indicano una cassetta portatile,circolare la prima e rettangolare la seconda,in cui erano contenuti esclusivamente papirie rotoli che si volevano portare appresso, co-me si evince anche da un passo delle satiredi Orazio (Saturae I, 4, 22) e da uno di un car-men di Catullo (68, 33, 36) in cui si organiz-za il trasporto di alcuni volumina entro capsaedurante un viaggio (“huc una ex multis cap-sula me sequitur”); gli altri due termini inve-ce (cista e arca) sembrano indicare contenitoridi oggetti diversi.Le capsae, che potevano contenere oltre ai pa-piri anche le tavolette e i gettoni che servivanoagli studenti per imparare a contare, poteva-no essere trasportate o dagli stessi giovani ro-mani che si recavano a scuola o da uno schiavoappositamente assoldato (il capsarius).Spesso gli oratori o gli scrittori vennero rap-presentati con accanto alle loro capsae pienedi volumina.

R.M.

BibliografiaDaremberg, Saglio 1877- 1919, s.v.’capsa’; Pesando1994, pp. 23-25; Reggiani 1990 pp. 66-69; Angelucci2008, pp. 21-26.

Sez. 6.6c. - Volumen

Ricostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,mv. n. 2850

Il rotolo è una delle più antiche forme librariee nei secoli ha rappresentato il libro per an-tonomasia e tra tutti gli strumenti della cul-tura romana è sicuramente quello piùrappresentato nelle arti poiché simboleggia-va la doctrina del committente.Il materiale più usato per la confezione di vo-lumina era generalmente il papiro, che arri-vava sul mercato in rotoli formati da 20 fogliincollati (kollemata) tra di loro, disponendoalternativamente un foglio a fibre orizzontalicon uno a fibre verticali.La facciata migliore per scrivere su questo ti-po di supporto era quella interna (recto) sucui, essendo l’andamento delle fibre oriz-zontali, il calamo scorreva più facilmente. Es-sendo tuttavia il papiro unmateriale scrittoriomolto costoso, non sono rari i casi di reim-piego in cui si utilizza anche la faccia esternadel rotolo (verso), in cui le fibre erano per-pendicolari rispetto alla direzione del calamo.Si iniziava a scrivere dal secondo foglio, poi-ché il primo (protokollon) rimaneva bianco eserviva per proteggere l’intero rotolo.Il testo era disposto su singole colonne (pagi-nae) di forma rettangolare, parallele unaall’altra,sviluppate nel sensodell’altezza e perpendicola-ri rispetto alla lunghezza del volumen.La larghezza della pagina non dipendeva dal-la larghezza del foglio di papiro (si scrivevainfatti anche sulle giunture di colla), ma dalgenere letterario. Gli scritti filosofici, per esem-pio, pare avessero colonne più larghe.

Una adeguata distanza tra le colonne e daimargini superiore e inferiore erano caratteri-stiche di libri di buona fattura.Quando la copia era terminata sulmargine de-stro dell’ultimo foglio si incollava un sottile ba-stoncino (umbilicus) intornoal quale si arrotolavail volumen.Aquestopunto, all’esternodell’opera,poteva essere appesa una piccola etichetta (sil-lybos) che riportava il nome dell’autore e l’ope-ra. Questa finitura sembra fosse però affidatanon all’editore,ma al possessore del rotolo, co-me sembrerebbe testimoniare un passo delleepistole ciceroniane (ad Atticum, 4, 4.)Il termine volumen indica quindi, tecnica-mente, l’azione stessa che si doveva compiereper leggere un testo, cioè srotolare il rotolo(volvere= srotolare).

R.M.

BibliografiaPesando 1994, pp. 17-29; Daremberg, Saglio 1877-1919, s.v. volumen; Luciani 1998, pp. 24 e ss.; Canfo-ra, Bossina 2008; Angelucci 2008, pp. 21 e ss.; Reg-giani 1990, pp. 65-74.

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A = foglio di papiro; B = protokollon; C = verso;

D = recto; E = kolleseis (giunti di colla); F-G = umbilicus

paludi, che ostacolavano il progredire dell’uomo, erano piegati alsuo raziocinio; ma anche la ‘barbarie’ delle altrui culture, alle qua-li si imponeva il modello di un superiore vivere civile.Per questo, l’apertura di una strada di grande comunicazione eravista come un’opera straordinaria, non meno gloriosa di quella diun generale che trionfava sui nemici: il magistrato che la realiz-zava aveva il privilegio di legare ad essa indissolubilmente il pro-prio nome, a gloria imperitura: nel tempo archi trionfali avrebberoornato le strade all’inizio e alla fine del percorso, all’ingresso del-le città, ai confini territoriali, sui ponti più grandiosi. Proiettando-si nelle regioni attraversate come veicolo primario di vita civile edi progresso economico, le strade venivano a caratterizzarle tan-to da dar loro il nome: per Aureliam si intendeva l’Etruria costierae l’alto Tirreno, per Flaminiam si intendeva il Piceno, così come lavia Aemilia ha lasciato ancor oggi il nome alla regione Emilia.Possiamo paragonare la costruzione della via Appia, la prima gran-de strada per eccellenza, la ‘regina viarum’, alla realizzazione del-le moderne autostrade: la via non mirava a collegare le purimportanti città che incontrava sul percorso, alle quali si legavamediante bretelle di raccordo, ma puntava diritta quanto più pos-sibile alla mèta finale, Capua nella prima realizzazione di AppioClaudio del 312 a.C., vista come traguardo ultimo su di una gran-de distanza.Il tracciato della via Appia fu condotto per segmenti a perfetto ret-tifilo, traguardato sui passi e sui valichi obbligati dalla conforma-zione geomorfologia e ambientale dei territori attraversati: gli antichi

ingegneri non si preoccuparono delle difficoltà tecniche frappostealla realizzazione pur di abbreviare e rendere più rapido il percor-so. Basti ricordare, per questo, il tratto che intercorre tra Roma eTerracina, condotto con un’unica straordinaria retta di quasi 90 chi-lometri, con i quali la via superava la Campagna Romana, tutti i sa-liscendi dei Colli Albani, l’immensa distesa delle paludi Pontine. Sesi valuterà con attenzione il disegno che sta dietro alla definizionedel percorso, con lo studio topografico degli smisurati territori daattraversare, le stime di ordine geometrico e geologico indispen-sabili alla definizione del tracciato, le opere colossali di bonificaidraulica, il drenaggio e lo scavalcamento di migliaia di rivoli mi-nori, gli imponenti lavori determinati dall’apertura di trincèe o ditagli rupestri, il trasporto delle terre e dei materiali di prestito perla costruzione dei rilevati e del piancito, la realizzazione dei ter-razzamenti di difesa della strada sul versante a valle e a monte, lacostruzione dei ponti per l’attraversamento di fiumi, si compren-derà il valore rivoluzionario di una simile iniziativa.La tecnica di realizzazione rappresentata dalla via Appia costituìun modello per le strade successive, come il prolungamento del-la stessa via da Capua a Benevento dopo il 268 a.C, fino a Veno-sa nel 291, a Taranto subito dopo il 272 e a Brindisi circa nel 240a.C.: in tutto 570 km.La Tiburtina-Valeria da Roma raggiungerà Alba sul Fucino tra il 307e il 298 a.C. e poi l’Adriatico. La costruzione della via Flaminia, chetaglia la Penisola dall’uno all’altro mare ma in direzione nord, rea-lizzò il collegamento tra Roma e Rimini (314 km) nel 220-219. Nel-

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Le strade che la civiltà di Roma ha creato in tutto il mondo anticohanno rappresentato un evento politico di portata universale, co-stituendo ancora in gran parte il supporto della viabilità attuale:non solo per l’Italia e le nazioni che si affacciano sul Mediterra-neo, ma per quelle dell’entroterra dell’Europa, dell’Africa e del-l’Asia: dalle gelide regioni britanniche a quelle infuocate del desertodel Sahara, dall’oceano Atlantico al Golfo Persico. Solo l’inven-zione della strada ferrata e delle attuali autostrade ha aggiunto al-l’antico nuovi sistemi di comunicazione.Si può valutare la portata dell’impresa, se si consideri che solo levie pubbliche primarie articolavano per tutto l’impero una rete di120.000 chilometri di percorsi: fu attraverso le strade che si svol-sero la vita e la fusione civile di tutto il mondo antico, che legò et-nie e culture in origine diversissime, alcune più antiche di Romastessa di millenni; altre chiamate proprio da Roma a divenire pro-tagoniste della storia del mondo.La costruzione di una così vasta maglia viaria, ben organizzata emantenuta in piena efficienza per gli otto secoli nei quali Roma harappresentato il centro del mondo civile, ha costituito il fondamentostrutturale sul quale si è svolto ogni ordine pubblico, sul quale han-no viaggiato uomini, mezzi di trasporto (sez. 5, nn. 8-9), merci eidee. Attraverso la rete delle sue strade, costruite con una politicaperseverante e tenace, Roma espresse inmaniera funzionale la pro-pria vocazione alla dilatazione territoriale dell’impero, che fu im-pero universale, e realizzò con esse il nesso connettivo che legavala capitale alla più lontana periferia.La costruzione di una vasta, ben organizzata e ben mantenuta re-te veicolare rispondeva infatti a quei principi di esigenza di ordi-ne per l’utile pubblico che è stata una delle caratteristiche distintivedel mondo romano: le strade, con gli acquedotti e le cloache, co-stituivano le costruzioni necessarie alla base di ogni buon viverecivile, che si contrapponeva con orgoglio alla “oziosa e stolta osten-tazione delle piramidi” e alle “inutili ma tanto celebrate opere d’ar-te dei Greci”, come orgogliosamente scrive Frontino (De aquaeductuUrbis Romae, 16)L’istituzione del ‘cursus publicus’ (sez. 6, n. 13), cioè il servizio de-stinato a regolare il trasporto delle persone che viaggiavano nel-l’interesse dello stato e degli oggetti che a questo appartenevano,appoggiato lungo le strade alle mansiones e alle mutationes (luo-ghi di sosta attrezzati con lo stesso criterio delle nostre ‘stazionidi servizio’), garantì il fluire dei traffici lungo le strade dell’imperoper secoli; molte di queste stazioni sono poi diventate importan-ti città del continente europeo e di quello asiatico.

Certo già in età arcaica c’erano strade ben costruite e definite, re-golate da leggi: conosciamo, ad esempio, nel Lazio l’esistenza dicatasti territoriali attribuiti al regno di Servio Tullio e ricordati nel-le stesse leggi delle Dodici Tavole. Il Ponte Sublicio, gettato attra-verso il Tevere al tempo di AncoMarcio, cioè, secondo la tradizione,nei decenni che seguono la metà del VII secolo a.C., le cui altissi-me palificate in legno, le sublicae, si fondavano profondamentenel limo del fiume, documenta la straordinaria esperienza tecni-ca raggiunta già in età arcaica. Il Lazio, l’Etruria tirrenica e quellapadana, il Veneto, erano attraversate da strade costruite con gran-de perizia abbinata, a volte, anche ad una superba tecnica.Quello che vale per l’Italia, vale anche per il mondo che diverrà ro-mano: proprio la storia della sua conquista, con il movimento ra-pido e sicuro degli eserciti da una parte all’altra del nord Africa,della Spagna, della Gallia, per non parlare del vicino Oriente, facomprendere come le regioni attraversate dovessero disporre diuna maglia viaria consolidata ed efficiente. Tuttavia, per quantopotessero anche essere ben edificate, dobbiamo pensare a una lo-ro origine e a una loro realizzazione che potremmo definire di svi-luppo ‘spontaneo’, o di interesse più o meno locale, condotte percollegare un centro abitato a quello contiguo e quindi risultanti,sulle lunghe distanze, tortuose e assai difettose nel tracciato.La realizzazione della via Appia, nel 312 a.C., ha costituito un mo-dello del tutto nuovo nel quadro dei collegamenti: non solo dalpunto di vista della tecnica e dell’ingegneria, ma soprattutto perl’aspetto storico e politico, in quanto è venuta a realizzare, me-diante una strada di grande comunicazione, l’affermazione di undisegno razionale anche a costo di estremi sacrifici, attraverso spa-zi allora ritenuti vastissimi, ambiti territoriali che si mostravanosoprannazionali e avversità naturali del tutto prevaricanti. È l’uo-mo che impone il suo ordine là dove prima era la barbarie: nonsolo la barbarie della natura selvaggia, dove i monti, le selve e le

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La comunicazione attraverso il sistema stradale

Lorenzo Quilici

Strada romana a Verona

Le strade più importanti

dell’Impero Romano

(rielab. grafica: F.G)

piccolo San Bernardo a 2467 e 2158 m di quota, sono emblemati-che per l’audacia e l’efficienza dei percorsi, rimasti fino a ieri inuso col traffico delle carrozze e solo superati ai nostri tempi conla costruzione dei nuovi tracciati automobilistici.Le strade romane attraversano passi e valli con straordinaria ra-pidità, si impostano sul fianco dei declivi e incidono l’orrido del-le forre con viadotti lunghi centinaia e centinaia di metri, che taglianole rocce verso monte e si terrazzano verso valle per altezze di 12-16 m. Le muraglie di sostegno superano con archi continui fendi-ture e ruscellamenti, in gara con la spettacolarità dei ponti. Dovei fiumi serpeggiano nelle gole, per abbreviare la percorrenza pas-sano ora a destra ora a sinistra dei meandri, senza risparmio nel-la costruzione dei ponti. La pendenza di tutti questi percorsi dimontagna non supera in genere il 7-9%, solo eccezionalmentepuò raggiungere il 10-12%.A questo punto sono da ricordare le tagliate, quali ad esempio ilc.d. Pisco Montano a Terracina, opera di Traiano per abbreviare ilpercorso della via Appia spostandola lungo la costa con il tagliodi una montagna per una altezza di 128 piedi (36 m), e le galleriestradali vere e proprie, quali quella famosa del Furlo. La soluzio-ne tecnica da loro offerta, per una rapida comunicazione tra luo-ghi altrimenti fortemente accidentati, ne ha sollecitato la diffusionee il sistema è stato particolarmente sviluppato nella regione fle-grèa, dove è conosciuto anche il nome del maggiore architetto diqueste opere, L. Cocceio Aucto. Sono spettacolari la Cripta Na-poletana, grande arteria che poneva direttamente in comunica-

zione, attraverso la collina di Posillipo, Napoli con Pozzuoli, lun-ga oltre 700 m e in efficienza ancora nei traffici veicolari nei primidecenni dell’Ottocento; la grotta detta di Seiano, che collegava ilcapo di Posillipo ancora a Pozzuoli, lunga oltre 800 m e pur essanormalmente trafficata fino all’inizio del Novecento; la grotta diCocceio, tra Cuma e i lago d’Averno, lunga un chilometro è anco-ra percorribile.Negli ultimi decenni del II secolo a.C. vengono costruiti anchegrandiosi viadotti che facilitano il superamento delle valli, qualiquello famoso della via Appia ad Ariccia e quello della via Flami-nia attraverso la valle del Treia, detto Muro del Peccato: costruitiin opera quadrata, rispettivamente lunghi 230 e 300 m, alti fino a13 e 10 m, larghi 9 e 11 in sommità, erano traforati da più sotto-passi sul percorso per permettere il transito di vie trasversali.Veniamo alla fine a parlare di ponti e viadotti, che costituiscono unodei maggiori orgogli dell’architettura e dell’ingegneria romana, tan-to che della loro straordinaria impresa costruttiva se ne ritenevanoartefici, alle origini, solo i pontefici, come depositari di ogni scien-za tecnico-scientifica, che solo dalla divinità poteva derivare (ponti-fex da pontem facere, interpretavano gli antichi) (sez. 2, n. 10).Dopo il ponte Sublicio tutto di legno, il secondo ponte di Roma, l’Emi-lio, fu eretto nel 179 a.C. con capriate di legno su pile in muratura esolo nel 142 furono voltati su quelle gli archi di pietra.Conosciamo con sicurezza archi in pietra, nella costruzione deiponti, solo dall’inizio del II secolo a.C.: i ponti di tale secolo usa-no in opera grandi massi, che con il loro peso davano stabilità al-la struttura. Gli archi sono a tutto sesto e, spesso, non curano leesigenze estetiche, ma solo quelle funzionali. In genere le luci de-gli archi sono piccole, da 2 a 6 m, ampliandosi poi fino a 9-11 mdopo la metà del secolo. I blocchi delle volte sono incuneati perlungo, mentre piloni e testate appaiono di grosso spessore: si pre-feriva infatti ridurre la luce dell’arco a favore dello spessore dellepile, per assorbirne del tutto la spinta.Già nel 142 a.C. il Ponte Emilio, gettato sul Tevere a Roma a valledell’isola Tiberina, era tutto in opera quadrata a dimostrazione del-la straordinaria esperienza raggiunta: era lungo 135 m, largo qua-si 9 m, con sei archi principali che voltavano sul fiume luci cheraggiungono nel centrale i 16,5 m.L’esperienza raggiunta dalla costruzione del ponte Emilio portacon sicurezza alla costruzione di altri grandiosi ponti tra fine II el’inizio del I secolo: l’ampliarsi sempre maggiore delle campateche non raramente raggiungono i 16-18 m di luce e il ridursi nel-lo spessore delle pile fa comprendere la sicurezza raggiunta manmano dai costruttori.

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lo stesso secolo penetrano l’Etruria la via Aurelia, che alla fine delII secolo raggiungerà Genova e Vado ai valichi alpini; e la Clodiae la Cassia, quest’ultima fino ad Arezzo. Dopo la guerra annibali-ca, nel II secolo, Roma si fa padrona della Penisola e la maglia del-le sue strade si articola definitivamente: la via Emilia da Rimini aPiacenza; la via Emilia di Lepido da Bologna ad Aquileia, la via Po-stumia da Aquileia a Genova (circa 430 km), le due vie Annia e poiPopilia da Rimini a Padova e da Capua a Reggio Calabria (que-st’ultima di 475 km).I traguardi di percorrenza condotti per rettifili sono alla base del-la tecnica costruttiva di tutte queste strade: ricordo ad esempioquelli della via Aurelia, 30 km all’altezza di Tarquinia; della via Emi-lia, quasi un unico rettifilo di 240 km dal Rubicone a Piacenza; del-la via Postumia con rette di 50-65 km.A noi questo può non impressionare, percorrendo territori ai nostrigiorni tanto ubertosi, ma dovremmo valutare i mezzi tecnici alloraa disposizione e le condizioni spesso proibitive delle regioni attra-versate: la via Emilia, che oggi si perpetua attraverso una regioneprofondamente urbanizzata, nel modenese ancora nel 43 a.C. è ri-cordata con un tracciato reso difficile dalle paludi e dalle selve.Ma vediamo subito, entrando nel vivo della questione, quali era-no i criteri di costruzione delle strade romane: i termini comune-mente usati in latino per indicare la tecnica di costruzione sonoviam innovare, instituere, munire, sternere, struere, che richiama-no subito alla mente il significato di costruire un percorso, di fon-dare, di stratificare, consolidare e difendere, rendere piana unasuperficie, lastricare (sez. 2, 8).Le strade potevano essere lastricate in pietra, acciottolate, inghiaiateo imbrecciate. Normalmente, nelle regioni vulcaniche del Lazio,dell’Etruria e della Campania, a partire dal III secolo a.C. le vie ap-paiono lastricate in pietra basaltica, la lava durissima, nera e lu-cente, che dà loro quell’aspetto caratteristico, per il quale sonocelebri le strade romane nel mondo. Il sistema costruttivo è quel-lo che riconosciamo normalmente nelle strade menzionate ed èquello del resto (a parte l’asfalto) ancora oggi in uso: il rilevato al-to e asciutto sul sistema idrico circostante, lo zoccolo di grossepietre nella fondazione, lo strato di materiale fino sul quale allet-tare il basolato. Frequentemente, a partire dall’inizio del II secoloa.C., appare l’uso della calce per consolidare il selciato. Il dorsolastricato era displuviato ai lati per far defluire l’acqua meteoricae contenuto da blocchi messi a coltello, che trattengono anche ilrilevato dei marciapiedi e, più alti e alternati su equidistanze in ge-nere di 3 o 5 m, i gonphi, che impedivano ai carri di salire sui mar-ciapiedi e permettevano ai viaggiatori di salire più comodamenteo scendere dal cavallo o dal carro.Costituiva un complemento importante della strada la segnaleti-ca data dai miliari: cippi che a un miglio di intervallo l’uno dall’al-tro (1.478m) riportavano la distanza da Roma o da altre importanticittà. I cippi più antichi, del II secolo a.C., sono ricavati su pietreappena sbozzate; ma subito, scolpiti a colonnetta, divennero sem-pre più eleganti e simboli di propaganda politica: alcuni miliari diAugusto raggiungono perfino i 3 m di altezza. Comunemente, pe-rò, misurano sui 1,5-2 m; quelli di II secolo dell’impero sono mol-to raffinati, scanditi da cordoli sagomati e la legenda posta entroun elegante cartiglio, con l’aggiunta delle titolature imperiali. È im-

portante ricordare che le misure non principiavano dal centro del-la città, come fanno i nostri cippi chilometrici, ma dalla porta ur-bica dell’abitato.Il lastricato delle strade aveva la larghezza canonica di 4,1-4,2 m,cioè di 14 piedi, sufficienti al normale incrocio dei carri. A questisi aggiungevano i marciapiedi laterali, in genere solo di brecciabattuta, che nella regione romana e nei tratti viari molto trafficatiavevano comunemente una larghezza di 3 m per parte, per unalarghezza, complessiva, superiore ai 10 m. Le vie di maggior per-correnza potevano anche essere più larghe in tratti particolari, co-me presso i luoghi di sosta, le stazioni, i borghi o altri agglomerati,all’ingresso di ville sontuose o presso i mausolei per l’evergetismodel proprietario. La larghezza del lastricato poteva scendere al disotto dei 4 m nei percorsi meno frequentati o in situazioni di dif-ficile transito e i marciapiedi potevano ridursi a 1,1 m per parte oaddirittura sparire su di un lato.Il basalto, abbiamo visto, caratterizza le strade del Lazio, dell’Etruriameridionale e della Campania, per il naturale reperimento in que-ste regioni di tale pietra lavica, particolarmente adatta per le suecaratteristiche di durezza e bellezza. Ma anche le vie più impor-tanti, allontanandosi da Roma, cedevano il passo a pavimenta-zioni in calcare o in altre pietre dure, più facilmente reperibili inquelle regioni, o a pavimentazioni solo imbrecciate.La lastricatura delle strade era comunque un lusso, un grosso im-pegno tecnico ed economico e, nei tempi più antichi, un privile-gio urbano: anche le vie più importanti, e l’Appia stessa prima delII secolo, non erano lastricate. Così ancora in età imperiale la viaSalaria era solo imbrecciata oltre la valle del Tevere e la via Flami-nia oltre Narni, l’Aurelia oltre Civitavecchia, larghe normalmenteda 6 a 7 m in sommità. La via Emilia è stata studiata in più puntidel suo lungo percorso: sono stati individuati i miglioramenti rea-lizzati nel tempo ed il terrapieno che la sosteneva, innalzato sullacampagna circostante fino a 4 m di altezza e la sede carrabile al-largata da 6 fino 10-12 m in età tardo antica.Nel Veneto conosciamo numerose vie con il piancito in breccia oghiaia, potentemente rilevate e fiancheggiate da fossati, a partiredalla via Postumia: vie alte sulla campagna fino a 4-7 m, costrui-te su terrapieni larghi persino 30-36 m alla base e larghe sul pia-no carrabile anche 10-18 m.Ma è soprattutto nei percorsi di montagna che appare più evidentelo sforzo attuato dagli ingegneri romani per superare le asperitàdei luoghi e dove ogni elemento naturale era studiato in modo chei viaggiatori, gli animali e i carri avessero il transito facile e sicuro.La via Salaria al valico del Velino e nella valle del Tronto, la via Fla-minia dopo il passo della Scheggia nella discesa nella valle del Bu-rano, la strada della Valle d’Aosta, che porta ai passi del grande e

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Strada di Pompei, ai lati i marciapiedi

difesi dai gonphi

Strada romana tra Donnas e Bard: ilpiano stradale e il miliario sonoscavati interamente nella roccia conun taglio alto 14, 40 e lungo 221metri; l’arcata, vero e proprio fornix,è ritagliata nello spessore dellamontagna.

Via Flaminia: imbocco nord dellagalleria del Furlo con l’iscrizione

che celebra l’imperatore Vespasiano(76 d.C)

Sez. 6 - Mezzi da trasporto e daviaggio

Molto vasta è la tipologia dei veicoli che per-correva le strade dell’impero romano. Oltreal diffuso uso delle bestie da soma, si viag-giava a bordo di carri a trazione animale, adue o a quattro ruote, ognuno dei quali ave-va specifiche caratteristiche. La maggior par-te della popolazione civile non aveva rapportoalcuno con i mezzi di trasporto: chi dovevaspostarsi lo faceva generalmente a piedi, an-che per lunghe distanze (Orazio, Saturae,1,9.8). A Roma vigeva inoltre il divieto assolu-to di spostarsi con i mezzi privati dall’alba altardo pomeriggio, come ci attestano alcuneepigrafi rinvenute (CIL I², 250, 56).Lo studio di G. Raepsaet ha posto fine allaleggenda costruita da Lefebre des Noëttes nel1924 sul primitivismo delle tecniche di ag-giogamento antico che avrebbero soffocatol’animale da traino riducendone il potenzialein energia.La struttura base del carro indipendentementedalla tipologia, è costituita da alcuni elemen-ti principali:- le ruote, con o senza cerchione, piene oformate da una corona circolare collegataal mozzo da raggi- i mozzi o perni delle ruote- la sala o asse della ruota- la cassa- il timone o stanga a cui si attaccano glianimali- lo sterzo- i freni e l’attacco

Sez. 6.7 - Mezzi da trasporto

Materiale: legno, ferroRicostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 1948

A bordo dei carri per il trasporto delle mercii carichi potevano essere legati con reti a lar-ghe maglie o funi, fissate sui bordi del cas-sone del carro per evitare che cadesserodurante il tragitto. I liquidi invece venivanotrasportati inserendo una o più botti sul pia-nale del carro o del plaustro, ancorate conceppi di legno sagomato e fermate dai co-sciali del veicolo come si può vedere sui ri-

lievi delle colonne traiana e antonina. Sem-pre per il trasporto dei liquidi gli otri veniva-no incastrati nel cassone e legati aquest’ultimo con delle corregge o su plaustrio su carri a quattro ruote.

PlaustrumVeicolo a due ruote piene trainato da buoi, damuli o da asini e adatto ai grandi carichi. Eracostruito in legno di quercia, molto sempli-cemente: su di un una tavola fatta di assi dilegno era fissato il timone stesso. Su questosi poggiava la merce da trasporto con la pos-sibilità di aggiungere altre assi come prote-zioni laterali, oppure si usava un grande cestodi paglia legato al carro stesso costruito conlegno di quercia e ferro per i cerchioni delleruote piene. L’utilizzo di tale mezzo era fun-zionale tanto in agricoltura quanto per il tra-sporto in città di generi alimentari importaticome olio, vino, cereali, frutta e verdura (Vi-truvio, De architectura, 10, 1,5; Plauto, Aulula-ria, 505), ma anche per farvi arrivare materialiedilizi e prelevare l’immondizia (CIL, I², 206,56 ss.). Sulla colonna Traiana e Antonina ne èattestato un ulteriore uso per il trasporto dimateriali e salmerie. Tipico di questo veicolo,come ricorda Orazio lamentandosene e con-sigliando a Sceva di dormire nel Ferentino(Orazio, Epistulae, 1, 17,7) era il forte rumoreche produceva sull’acciottolato. Simile al plau-stro era il sarracum: ruote piene più basse epiù solide. Il pianale particolarmente allunga-to permetteva il trasporto di oggetti molto pe-santi come tronchi d’albero, materiale edilizioe così via (Historia Augusta, 13; Giovenale, III,254 ss.). Capitolino ricorda come durante unapestilenza a Roma fu necessario trasportare icorpi morti fuori dalla città, e ciò fu fatto pro-prio a bordo di sarraca

CarrusVeicolo per eccellenza a quattro ruote di cui ingenere quelle anteriori più piccole. L’originepotrebbe essere gallica oppure italica (etruscao picena) (Isidoro, Originum seu Etymologia-rum liber, 20, 12,1). Sulle quattro ruote pog-

giava un lungo pianale costituito da due co-sciali riuniti da quattro traverse, su cui si tro-vava un impiantito di tavole; due fiancateservivano a tener fermo il carico. Il carrus erafunzionale ad ambiti diversi; civile come mili-tare per il trasporto di mercanzie di ogni ge-nere, persone, bagagli, lettere; talvolta eratrasformato in un carro coperto.

A.Z.P.

Sez. 6.8 - Mezzi da viaggio:carruca

Materiale: legno, ferroRicostruzioni: Roma, Museo della Civiltà Romana,(carruca dormitoria), inv. n. 1950

Essedum, cisium, covinnus erano nel mondoromano le tipologie di veicoli a due ruote piùutilizzate per il trasporto di persone. Le fon-ti letterarie usano spesso la parola essedumper indicare un veicolo generico, come faMar-ziale (Marziale, 4, 64,19). Virgilio lo definisced’origine belgica o gallica, usato dalle popo-lazioni come carro da guerra; secondo Pro-perzio invece è un veicolo usato in Britannia(Virgilio, Georgica 3, 204 e Properzio, 2, 176)così come per Cesare il quale descrive taleveicolo in relazione alla tecnica di combatti-mento dei Galli (Cesare, De bello gallico, 4,33). L’essedum era un calessino robusto, trai-nato da due muli o da due cavalli e con il po-sto per il cocchiere, che stava seduto nellaparte anteriore del mezzo su un basso sga-bello. Tale veicolo fu adoperato dai Romaniper i viaggi veloci, ma anche come vetturaelegante per le donne e per le passeggiatefuori città. L’apparato decorativo di questocarro aumentò nel tempo di pari passo conla preziosità del materiale stesso con cui es-so era costruito. Svetonio narra di come l’im-peratore Claudio, che utilizzava tale mezzoanche per il gioco dei dadi (Svetonio, Clau-dius, 33,2), fece distruggere un essedum inte-ramente decorato in argento (Svetonio,Claudius, 16). Lo stesso Claudio fece inoltrerappresentare nel Campo Marzio la presa eil sacco di una città per mostrare ai Romaniimmagini della sottomissione della Britanniacon la partecipazione di essedarii (Svetonio,Claudius, 21-33). Il cisium era un calessino leg-gero e comodo con grandi ruote con tiro adue di origine britannica. Poteva portare un

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Del 109 a.C. è ad esempio la costruzione del ponte Milvio sul Te-vere, in funzione dell’attraversamento del Tevere della via Flaminia,tutto in opera quadrata, lungo quasi 150 m e che nelle 4 arcate cen-trali raggiunge i 18-18,50 m di luce. Ponte Fabricio all’Isola Tiberina,in Roma, costruito nel 62 a.C., lungo 80mnei due archi centrali rag-giunge ben i 24,50 m di luce, divisi da una robusta pila rastrematae sormontata da archetto di piena, elegantemente inquadrato da le-sene. I conci sono incuneati di testa e con accurate corone semi-circolari: da questo periodo si impone ormai regolarmente l’arco aconci incuneati per lungo su un unico fuoco e con una sempremag-giore eleganza, che trionferà nei grandi ponti di età augustea.Un’altra opera di assoluta avanguardia, circa della metà del seco-lo, è il Ponte Salario sull’Aniene, sempre in opera quadrata ma chenel nucleo sperimenta l’uso del calcestruzzo, che permise la get-tata di un grande arco di 25 m di campata.I segni di una vera ‘scuola’ di architettura, particolarmente di va-lore, si registriano nella costruzione di ponti in ambito veneto, do-ve tutta una serie di queste opere, che si datano dall’età di Cesare,presenta archi fortemente ribassati e di notevole campata, pog-giati su pile, al contrario della norma generalmente in uso, assaiesili. Si riscontra infatti un rapporto, tra la luce dell’arco e lo spes-sore delle pile, in media, di 5:1, e il rapporto può arrivare persinoa 8:1. La motivazione, che ha portato questi esiti, deve essere sta-ta quella di evitare, in area di pianura e con terreno acquitrinoso,dotata di corsi d’acqua tranquilli, la faticosa rampa d’accesso aschiena d’asino, mentre il terreno molle avrebbe avuto difficoltà asostenere il peso di grosse pile, anche sollecitate da quello di ar-chi ravvicinati. La struttura di questi ponti è in calcestruzzo rive-stito da lastre. I più noti sono i ponti di Padova e soprattutto ilponte di Verona, lungo 91,40 m, con arcate che vanno da 13 a 18m di luce, due delle quali sostituite in un secondo momento daun’unica arcata di 32 m.Un’epoca straordinaria per il potenziamento della rete viaria ful’età augustea. In questo ambito appare del tutto unico il ponte diNarni, che si annovera tra le più grandiose opere dell’ingegneriae dell’architettura antica: in lieve discesa tra le rocce del fiume Ne-

ra, lungo 180 m, alto fino a 33 m, largo 8, presentava quattro ar-cate a tutto sesto che arrivano a 32 m di luce. In opera quadratadi calcare e nucleo in calcestruzzo, nei massi del rivestimento pre-senta un luminoso bugnato, scandito da cornici che evidenzianoi diversi corpi nell’alzato e l’estradosso degli archi. Va sottolinea-ta la luce di 32,1 m dell’arco centrale, tra le più ampie che cono-sciamo nei ponti in muratura dell’antichità; inoltre una delle arcate,diversa dalle altre, presenta parte della volta girata con cinque anel-li di ghiera distinti, divisi da spazi intermedi coperti a lastra, se-condo una tecnica che conosciamo nei ponti augustei della valled’Aosta, quale quello di Saint Martin, che pure raggiunge una lu-ce di 32 m. Ponti grandiosi di età augustea sono anche quelli diSolestà e di Cecco ad Ascoli Piceno.Una innovazione tecnica di grande rilevanza avvenne, nella co-struzione dei ponti, a partire da Domiziano, che nel 95 lungo lavia Domiziana aveva voltato il ponte sul Volturno: l’opera appli-cava nel calcestruzzo l’arco continuo, permettendo di gettare spet-tacolari viadotti attraverso fiumi e valli con grande risparmio dicosti rispetto all’opera quadrata: la tecnica sarà subito adottata daTraiano nella costruzione della via Appia Traiana e anche da Adria-no. Alcuni dei ponti traianei, quali quelli sul Cervaro e sul Cara-pelle, appaiono spettacolari, lunghi rispettivamente 320 e 700 m,larghi 7,10 e con diciassette e dieci arcate centrali.Nessun ponte in muratura fu mai gettato sul Po nel medio e bas-so corso, nonostante che ponti straordinari, su pile in muratura ecapriate lignee di stupefacente ampiezza, siano stati condotti at-traverso fiumi come la Mosella a Treviri, lungo 250 m con otto lu-ci ampie fino a 21,60 m; sul Reno a Colonia lungo 420 m su 19pile, luci ampie fino a 34,40 m e sul grande Danubio a Turnu-Se-verin lungo 1.135 m con 21 arcate, oltre alle arcatelle alle testate, di32,60 m di luce.La tecnica della costruzione dei ponti appare acquisita e diffusa apartire da Adriano e poi nel III e IV secolo, con manufatti che van-no dalla Calabria alle Alpi e in tutte le province dell’impero.Su queste stesse antiche strade hanno viaggiato e continuano aviaggiare uomini e tecnologie verso il futuro.

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Bibliografia di riferimentoAtlante tematico di topografia antica, in particolare i nn. 1, 1992; 2, 2993; 5, 1996; 13, 2004;Supplementi, n. VII, 2000; Barrington Atlas of the Greek and Roman World, Princeton-Oxford, 2000;Basso 2007; Busana M.S., Ghedini F., Rosada G. (edd.), Via per montes excisa. Strade in galleria e passaggisotterranei nell’Italia antica, Roma 2005; Chevallier R., Les Voies Romaines, Paris, 1997.;Eck 1999; Esch R., Römische Strassen in ihrer Landschaft, Mainz am Rhein 1997; Galliazzo 1994-1995;Goodchild- Forbes 1993; Gualandi 1990; Quilici 1992; Quilici-Quilici Gigli 1993; Quilici-Quilici Gigli 2004;Quilici 2006; Quilici 2008; Tazzi 1998; Tecnica stradale romana (Atlante tematico di Topografia antica 1),Roma 1992; Viae publicae romanae 1991, pp. 17-41.

L’impero romano, dal punto di vista geografico, era un anello diterre che circondava un mare, il Mediterraneo. La posizione cen-trale del Mare Nostrum, come era orgogliosamente soprannomi-nato dai Romani, rendeva le comunicazioni marittime essenzialiper la coesione dell’impero. Esse erano un aspetto fondamentalenella quotidianità dell’esistenza di gran parte dei Romani, a di-spetto del luogo comune che vorrebbe una civiltà romana preva-lentemente ‘terrestre‘, di contro a una civiltà greca a vocazionemarinara. Questo semplicistico modo di interpretare quelle chenoi definiamo ‘civiltà classiche’ affonda le sue radici nel positivi-smo ottocentesco ed è ormai superato dalla critica storiografica:non esistono popoli ‘marittimi’ o ‘terrestri‘. Tuttavia è bene sot-tolineare che il mare è un elemento ostile, sul quale l’uomo si av-ventura solo stretto dalle necessità. Ebbene, come si è accennatosopra, andar per mare era una necessità in un organismo politi-co che si distendeva attorno al bacino del Mediterraneo.Di conseguenza, i Romani furono dei grandi costruttori navali, lacui sapienza carpentieristica è stata superata solo in età modernaquando la necessità dei viaggi transoceanici per raggiungere leAmeriche impose di rivedere la filosofia costruttiva delle navi. Chiun-que fosse richiesto al giorno d’oggi di descrivere il modo di as-semblare una imbarcazione rievocherebbe immancabilmente, aparole sue e con molte inesattezze forse, le operazioni che sot-tendono il principio costruttivo definito ‘a scheletro e fasciame‘.Questometodo di costruire una imbarcazione di legno è stato pra-ticato per secoli dalla nostra civiltà tecnica ed è tanto classico e no-to che anche il non specialista ne ha un’idea almeno approssimativa.La costruzione di una nave cominciava con l’impostazione dellachiglia, deponendo su adatti sostegni un legno che avrebbe co-stituito il principale elemento longitudinale dello scafo e che, co-me tale, aveva grande robustezza e rigidità (nelle imbarcazioni piùgrandi era formato da varie parti con una loro struttura, sulla qua-le qui non insisterò). Alla chiglia si innestavano, a intervalli rego-lari, degli elementi trasversali detti ‘coste’, che determinavano lasezione dello scafo ed erano quindi di forma variabile, sempre piùdifferenziata verso poppa e verso prua, dove la chiglia proseguivain due tratti innalzantisi, più o meno rettilinei o curvi, detti ‘drittodi prua’ e ‘dritto di poppa’. Le coste dei due lati erano riunite acoppie, nella parte più alta, da altri elementi trasversali, detti ‘ba-gli’, che chiudevano e rinforzavano tutta la struttura, e che soste-nevano il ponte di coperta. L’insieme di una coppia di coste e delbaglio che le riunisce si chiama ‘quinto’. Sullo scheletro così ot-tenuto si distendeva il fasciame, formato da un gran numero di

tavole disposte in senso longitudinale, fissate con chiodi alle co-ste, in modo da formare un guscio il più impermeabile possibile.Quando sui bagli si applicavano le tavole del ponte di coperta, loscafo prendeva la sua forma.Descritta sinteticamente la carpenteria moderna, dirò, altrettantosinteticamente, che quella antica procedeva in modo opposto, co-minciando dal fasciame, secondo una tecnica sopravvissuta an-che in Europa fino a non molto tempo fa, in aree marginali esecondarie. Nello scafo di un veliero moderno, costruito nel mo-do che ho descritto in breve, le tavole del fasciame non sono af-fatto connesse fra di loro, ma formano una solida struttura soloin quanto sono collegate tutte, una per una, a un elemento di al-tro ordine, le coste; l’impermeabilità di tutto il rivestimento è ot-tenuta mediante il calafataggio, cioè l’accurata chiusura degliinterstizi fra tavola e tavola mediante particolari tecniche. Nellacarpenteria antica, invece, ogni tavola era strettamente legata aquelle adiacenti, con una straordinaria tecnica scomparsa e di-menticata alla fine dell’antichità: delle tavolette di legno duro era-no inserite in gran numero, a brevi intervalli, nello spessore delletavole, sul loro margine. Trattenute da caviglie ugualmente di le-gno, che ne attraversavano lo spessore, esse legavano così le ta-vole direttamente l’una sull’altra, col sistema detto ‘a mortasa etenone’ (fig. 1a,b).Questa tecnica, più da stipettaio che da maestro d’ascia, rendepossibile, anzi, quasi necessario, il procedimento di costruire pri-ma lo scafo, e compone un guscio che ha forma e consistenza an-che da solo, senza lo scheletro delle coste, che vengono aggiunte

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piccolo bagaglio ed era guidato dallo stessoproprietario (Cicerone, Philippicae orationes,2, 77). I cocchieri dei cisii erano detti cisiarii eavevano le loro sedi presso le porte della cit-tà provviste, come nel caso di Ostia, anche diterme. Simile al cisium è anche il covinnus(Marziale, 12, 24) trainato da piccoli muli (nonse ne conoscono rappresentazioni). La rhedaera un veicolo dotato di quattro ruote, traina-to da più pariglie di mule. Poteva essere co-perta anche da teloni e trasportava due o piùpersone con bagaglio situato in un cassone(Isidoro,Origines, 20,12,3; Giovenale, Saturae,3, 10). I passeggeri potevano sedersi su variefile di banchi, mentre il cocchiere sedeva suun basso sgabello all’estremità anteriore del-la vettura. La legge prevedeva che il peso delcarico non superasse le 1000 libre (330 kg)ma frequenti erano le trasgressioni specie daparte degli stessi funzionari pubblici.La carruca, il cui nome è di origine gallica,rientra nei mezzi di trasporto terrestre a tra-zione animale, ed era una vettura di lusso usa-ta prevalentemente per i viaggi. Lampridio(Severus Alexander, 43,1) ricorda che Ales-sandro Severo concesse ai senatori di circo-lare per Roma in carrucae, purché fosseroargentate, e secondo Vopisco (Aurelianus, 46),Aureliano concesse anche ai cittadini privatida avere simili carrucae preziose. Svetonioracconta invece che Nerone non viaggiavamai senza un corteo di mille carrucae (Sve-tonio, Nero, 30), numero che secondo Lam-pridio ammonta solo a cinquecento.Le esiguità dei reperti, peraltro normale con-siderando la deperibilità dei materiali utiliz-zati, rinvia, nella maggior parte dei casi, ognipossibilità di ricostruire nei particolari e neldettaglio la forma, le dimensioni e la funzio-nalità di questo veicolo.Sono state identificate tre tipologie differentidi carruca: la carruca di tipo comune da viag-gio, molto usata da persone singole e gene-ralmente di proprietà dello stesso viaggiatore;la sua struttura era semplice, priva di appa-rati decorativi, ma sufficientemente robustada resistere a lunghi spostamenti. Le fonti ciriferiscono che era dotata di quattro ruote,con otto raggi ciascuna, ed aveva un como-do sedile per due persone sul lato posterio-re, mentre anteriormente era il posto delcocchiere. Secondo le ipotesi degli studiosi(Cagiano 1939) la carruca da viaggio aveva leseguenti misure: 2,20 m c.a. lunghezza delpianale; 1,40-1,50 larghezza ipotetica del pia-

nale e 0,80 m diametro delle ruote. È statopossibile ricostruirla soprattutto sulla basedel rilievo rinvenuto su una tavoletta d’avo-rio conservata presso la cattedrale di Treviri,e anche di un rilievo dai Musei Vaticani. Lacarruca dei magistrati, anch’essa un veicoloa quattro ruote, di cui in genere quelle ante-riori più piccole. Era formata da un cassonemolto alto, quasi cubico, destinato ad una ric-ca ornamentazione che metteva in risalto ladignità dei funzionari: essa aveva, come ci at-testa Plinio, i fianchi ornati di rilievi realizza-ti in metalli preziosi (Plinio,Naturalis Historia,33 11,140:..at nos carrucas argento caelare in-venimus). Al centro del pianale del carro sitrovava un elegante trono per il magistrato,dietro al quale stavano i littori, il cui posto eraindicato da un riparo a ringhiera; uno sga-bello sul lato anteriore serviva per il cocchie-re. Significativo rilievo per la ricostruzionedella carruca per magistrati è quello da Vai-son la Romaine, databile tra II e III sec. d.C.Essa era generalmente usata dai funzionaripubblici per i loro spostamenti; era general-mente trainata da quattro muli ed il perso-nale adibito a questo servizio prendeva il nomedi mulionees carrucari.La carruca dormitoria, un veicolo di proprie-tà privata e destinata a lunghi viaggi, era in-vece una vettura tecnologicamente piùcomplessa, la cui denominazione è stata ri-cavata da un passo del Digesto di Giustinia-no (Digesto, 34, 2: carrucha dormitoria cummulis). Era un mezzo a quattro ruote, piutto-sto lungo e completamente ricoperto con untendone, probabilmente di pelle, da cui era-no ricavate piccole finestre. Protomi di ani-

mali erano poste sul fianco del veicolo sopraalle ruote, per impedire che in esse si andas-sero ad impigliare lembi del tendone. All’in-terno della carruca dormitoria il viaggiatorepoteva distendersi e dormire, e anche il gui-datore aveva un posto al riparo dalle intem-perie. Di questomezzo di trasporto sono statirinvenuti supporti di bronzo, alcuni di note-vole pregio artistico, relativi agli ancoraggi dirobuste cinghie binate di cuoio. Si tratta dicinghie che fungevano da sospensioni, iso-lando il cassone dagli assali e attenuando, inquesto modo, le maggiori sollecitazioni ver-ticali e gli scuotimenti orizzontali.La carruca manteneva una velocità oraria sustrada pari a circa 5 miglia (7 km e mezzo).Le sue dimensioni erano: 2,70 m la lunghez-za del piano del carro; 0,30 m l’altezza delpiano; 1,40 m l’altezza della copertura e 1,70m l’ipotetica larghezza. Rappresentazioni del-la carruca dormitoria, importanti per la sua ri-costruzione sono: il rilievo dalla chiesa diMaria-Saal (Klagenfurt) e uno dalla Panno-nia. L’interno della carruca dormitoria era pro-babilmente decorato con pelli e materassi edil suo uso era tipico da parte di coloro cheamavano viaggiare nel lusso: dagli antichi au-tori sappiamo infatti che nella carruca dor-mitoria si poteva dormire, giocare, studiare eaddirittura scrivere.

I.F.

BibliografiaAmouretti 1991, pp. 219-232; Cagiano de Azevedo 1938;Daremberg-Saglio, s.v.; Jope 1993, pp. 544-571; PisaniSartorio 1988; Raepsaet 2002; Russo, Russo 2008;Weber 1986; Weber 2007; White 1984.

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Carruca

Le comunicazioni marittime

Salvatore Martino

Fig. 1a – Carpenteria ‘a mortasa e tenone’ Fig. 1b – Carpenteria

‘a mortasa e tenone’

(archeologia sperimentale)

ne la cima più avanti sulla riva. Un sistema comodo e pratico, chepermetteva di risparmiare energia e di procedere senza treni ditraino di alatori o buoi, e senza dover fare i conti con eventualiasperità del terreno. È possibile che non tutto il percorso fosse co-perto in questo modo, ma solo tratti particolarmente aspri.Ma le possibilità della caudicaria non si esaurivano qui: questobattello era in grado di affrontare anche il mare, grazie ad una ve-la che poteva armare il suo albero da alaggio. L’albero della cau-dicaria, come s’è detto, era spostato verso prua e ciò non consentivadi armarlo con una vela quadra, che ne sarebbe risultata irrime-diabilmente impacciata. Ciò si tradusse nell’adozione di un altrotipo di vela, perfettamente adatto alla necessità: la vela a tarchia,cioè una vela coassiale alla chiglia di forma rettangolare o trape-zoidale, sostenuta in punta da una pertica diagonale.La tecnica ‘a mortasa e tenone’ consentiva anche la costruzionedi navi molto grandi, usate per il trasporto del grano dall’Egitto aRoma. Dagli scarni accenni delle fonti letterarie si ricava che la lun-ghezza media di queste navi granarie era di una cinquantina dimetri, e una quindicina di metri per la larghezza e l’altezza dal fon-do della cala al ponte di coperta. Bisognerà aspettare le ‘caracche’genovesi del tardomedioevo per ritrovare misure del genere. Que-ste navi erano propulse da alberi a vela quadra, in genere tre e,pur avendo una stazza stimata intorno alle 1200 tonnellate, pote-vano raggiungere i 4-5 nodi.Navi da trasporto così grandi non esaurivano le possibilità dellatecnica ‘a mortasa e tenone’: i Romani assemblavano pure lus-suosissimi ed enormi ‘yatch’. Ne abbiamo diverse descrizioni chesembrerebbero incredibili, se uno straordinario ritrovamento ar-cheologico non ci consentisse di prestarvi fede.Da secoli, i pescatori del lago di Nemi si tramandavano una sini-stra leggenda: le notti di tempesta, una gigantesca nave fantasmasolcava le acque del lago. Negli anni ’30 la rete di un pescatore,impigliatasi in qualcosa sul fondale, riportò alla luce reperti di squi-sita fattura artistica e permise di comprendere il fondo di verità al-la base della leggenda. Una ricognizione di palombari permise diappurare che vi erano due giganteschi relitti sul fondo del lago, ri-salenti alla metà del I sec. d.C. L’intero lago fu temporaneamenteprosciugato per permetterne il recupero, e i relitti (purtroppo bru-ciati in seguito ad un bombardamento nella seconda guerra mon-

diale) risultarono essere due veri e propri palazzi galleggianti, conpavimentazioni musive, marmi, splendide decorazioni in bronzo,il tutto al servizio del lusso di qualche personaggio molto poten-te, forse Caligola (fig. 4a, b).Le comunicazioni marittime non erano costanti durante tutto l’an-no. Dal 27 maggio al 14 settembre, navigare era considerato si-curo. Dal 10 marzo alla fine di maggio e dalla metà di settembreal 10 novembre andar per mare era considerato rischioso, ma pu-re v’erano dei coraggiosi che, per necessità o amore di guadagno,rischiavano l’avventura. Solo pochi temerari invece avrebbero osa-to sfidare il mare tra novembre e marzo, quando il pericolo di im-battersi in un fortunale era elevatissimo.Le rotte su cui avvenivano questi traffici riflettevano la stagionalitàdella navigazione. Nel periodo considerato buono, i venti prevalentinel Mediterraneo vanno da ovest a est La flotta granaria partiva daAlessandria con il suo carico che avrebbe saziato la grande famedella capitale verso la fine di marzo (sez. 5, n. 10). Poiché il viaggioche avrebbe dovuto compiere era esattamente contrario ai venti, eracostretta a risalire lungo la costa siro-palestinese e anatolica, sfrut-tando le brezze (venti che si producono in prossimità delle costeper la differenza di riscaldamento diurna fra il mare e la terra) e na-vigando col vento al lasco o al gran lasco (90° circa rispetto all’as-se della lunghezza della nave), il massimo consentito dalle loro velequadre. Dopo aver affrontato con molta difficoltà la traversata del-l’Egeo, la flotta granaria si trovava di fronte a una scelta rischiosa:o prendere a nord di Creta e doppiare il terribile Capo Malea sul-l’estrema punta meridionale del Peloponneso, che godeva di pes-sima fama per le avverse e variabilissime condizioni meteo-marine,oppure passare a sud di Creta, col rischio di una improvvisa libec-ciata che avrebbe spinto le navi contro il litorale irto di scogli. Su-perato questo, che era il momento più critico del viaggio, la flottatagliava lo Ionio affrontando il mare aperto, per poi giungere in vi-sta della Calabria, passare lo stretto di Messina e approdare a Poz-zuoli agli inizi di giugno. Il carico veniva trasbordato sulle caudicariaeche lo portavano fino a Roma: la flotta alla fonda invece si ricarica-va di merci occidentali da riportare in Egitto. Il ritorno eramolto piùagevole: le navi salpavano alla fine di agosto e, col vento in poppa,tagliavano tutto il Mediterraneo permare aperto, ritornando ad Ales-sandria in una quarantina di giorni (v. Appendice)(v. sez. 5, n. 14).

181

dopo. La relativa esiguità dello scheletro negli scafi antichi, testi-moniata da tutti i relitti, è la conseguenza e la conferma di questomodo di costruire. Molto più sommario era il calafataggio, nep-pure degno di questo nome, se paragonato a quello moderno.Tutto questo lo si sa con precisione e sicurezza solo da pochi de-cenni, da quando i relitti cominciarono a rivelare agli occhi stupitidegli scopritori una tecnica di così prodigiosa e paziente abilità. Orache lo si sa, si trovano facilmente nelle fonti antiche gli indizi di que-sta carpenteria tanto a lungo dimenticata, ma solo col senno di poi;pochissimi l’avevano intuito, e la conferma definitiva è venuta solodall’archeologia subacquea; anche i monumenti figurati non dico-no nulla in proposito, trattandosi di un particolare che ben difficil-mente essi potevano esprimere. Questo della carpenteria ‘amortasae tenone’ è un aspetto che distingue e contrappone la nautica ro-mana a tutta quella europea, medioevale e moderna (fig.2).La tecnica potrebbe sembrare avere in sé connaturato qualcosa difragile che impediva la costruzione di imbarcazioni grandi e robu-ste, o almeno sofisticate, ma non è così. Certo, le acque del Medi-terraneo romano erano ingombre di natanti di ogni stazza edimensione, sia primitivi che elaborati. Le fonti antiche ci hanno tra-mandato un gran numero di nomi per questi ma non è sempre pos-sibile associare a tali nomi una precisa tipologia. Una delle meglioconosciute e delle più sofisticate è la famosa caudicaria (sez. 6, n.10).Il termine indicava un tipo di imbarcazione leggera, usata per ri-

salire il Tevere. Il tipo è noto da una serie di bassorilievi, mosaicie affreschi, ed ha alcuni tratti caratteristici che lo rendono moltoben distinguibile: il dritto di poppa è curvato in avanti, quello diprua non è eccessivamente pronunciato; la murata è alta e la for-ma dello scafo, provvisto di due timoni laterali a poppa, sembre-rebbe decisamente panciuta. La caudicaria era una nave fluviale,e come tale poteva procedere lungo il Tevere ad alaggio. A tal fineera provvista di un massiccio albero di rinvio per il cavo che do-veva trainarla, posizionato non al centro ma verso prua, come ènormale per questo tipo di imbarcazioni anche in epoca moder-na. Questo albero aveva una serie di zeppe per facilitare l’arram-picata ai codicarii ed era smontabile, come è mostrato bene daalcune immagini pervenuteci. Ma le cose più interessanti da no-tare della caudicaria sono altre.Un mosaico del Piazzale delle Corporazioni a Ostia, del 200 d.C.circa, rappresenta una scena di trasbordo di anfore da una navemercantile ad una caudicaria (fig.3). Questa è chiaramente rico-noscibile dal suo albero (drizzato però al centro del ponte) e daltipico profilo. A poppa del battello compare una bassa strutturacilindrica con una serie di raggi che si dipartono perpendicolar-mente dalla sommità: si tratta indiscutibilmente di un cabestano.Questo equipaggiamento particolare potrebbe essere un ausilioper il governo dei timoni laterali tipici di tutte le imbarcazioni an-tiche; ma rappresentazioni di vascelli ben più grossi delle caudi-cariaemostrano il nocchiero che governa i timoni senza cabestano,e in un rilievo che rappresenta proprio una caudicaria in naviga-zione, si distingue con estrema nitidezza il pilota che impugnauna barra fissata a un timone laterale. Lo scopo di questo cabe-stano era un altro: esso era un ausilio installato per agevolare lamanovra dell’alaggio.L’alaggio era generalmente eseguito da uomini o da bestie da ti-ro che trainavano il natante camminando sulla riva. Ma la mano-vra di una caudicaria doveva procedere più o meno così: qualchemembro dell’equipaggio scendeva a terra e fissava il cavo di trai-no, rinviato sulla punta dell’albero a prua e da lì al cabestano, aqualche albero o roccia sulla riva; girando il cabestano l’imbarca-zione risaliva la corrente, fino al punto in cui il cavo era fissato,dopodiché si svolgeva la fune dall’asse del cabestano per rifissar-

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Fig. 2 – Carpenteria a scheletro e fasciame.

Fig. 4 a – Le navi di Nemi: scafo di uno dei due relitti Fig. 4b - Navi di Nemi nel museo poi distrutto dai bombardamenti

Fig. 3 – Nave

Oneraria

(mosaico del

Piazzale delle

Corporazioni

ad Ostia antica.

copia. Roma,

Museo della

Civiltà Romana).

Velocità con probabili venti deboli, tratti in cabotaggio e scali intermedi

Velocità con condizioni di vento sfavorevoli(Per altri dati non inclusi nella tabella perché troppo falsati da cause disparate, soste forzate in porto, impossibilità di determinare i venti, ecc., v. Casson 1971, p. 291 n. 93)

Velocità di flotte da guerra (da intendere procedenti a vela, non a remi)

segue

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AppendiceRotte e tempi di percorrenza

Velocità relative a singole navigazioni con condizioni di vento favorevole

Velocità usualmente impiegate per giungere da un punto all’altro

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Percorso Distanza (in miglia nautiche) Lunghezza del viaggio (in giorni) Velocità media (in nodi)

Ostia-Africa 270 2 6

Messina-Alessandria 830 6 5,8

Ostia-Gibilterra 935 7 5,6

Ostia-Spagna Citeriore 510 4 5,3

Ostia-Gallia Narbonese 380 3 5,3

Messina-Alessandria 830 7 5

Pozzuoli-Alessandria 1000 9 4,6

Percorso Distanza (in miglia nautiche) Lunghezza del viaggio (in giorni) Velocità media (in nodi)

Corinto-Pozzuoli(Filostrato, Vit. Apoll., VII, 10) 670 4,5 6,2

Abdera-foci Danubio(Tucidide, II, 97, 1) 500 4 5,2

Reggio-Pozzuoli(Atti degli Apostoli 28, 13) 175 1,5 5

Cartagine-Gibilterra(Scyl., Per., 111) 820 7 4,9

Sirti-Alessandria(Sulp. Sev., Dial., I, 3, 2; 6, 1) 700 6,5 4,5

Alessandria-Efeso(Ach. Tat., V, 15, 1; 17, 1) 475 4,5 4,4

Cartagine-Siracusa(Procopio, Bellum Visigothorum.,I, 14, 8)

260 2,5 4,3

Cirenaica-AlessandriaSynesio, Epistulae, 5, 1 (salpato dauna località chiamata Phycus,attuale Ras-el-Razat in Pirenaica)

450 4,5 4,3

Pozzuoli-Taormina(Filostrato, Vit. Apoll., VIII, 15) 205 2,5 3,4

Percorso Distanza(in miglia nautiche) Lunghezza del viaggio (in giorni) Velocità media(in nodi)

Ibiza-Gibilterra

(Diod. Sic., V, 16, 1) 400 3 5,5

Epidamno-Roma

Epidamno-Roma(Procopio, Bellum Gothorum,III, 18, 4)

600 4,5 5,5

Creta-Egitto(Strabone, X, 4, 5: da capo Samonio) 310 3/4 4,3/3,2

Rodi-Alessandria

(Diodoro Siculo, III, 34, 7) 325 3,5 3,9

Mar d’Azov-Rodi

(Diodoro Siculo, III, 34, 7) 880 9,5 3,9

Percorso Distanza (in miglia nautiche) Lunghezza del viaggio (in giorni) Velocità media (in nodi)

Bisanzio-Rodi(Marc. Diac., Vit. Porph., 55) 445 5 3,7

Bisanzio-Gaza(Marc. Diac., Vit. Porph., 27) 855 10 3,6

Tessalonica-Ascalona(Marc. Diac., Vit. Porph., 6) 800 12 2,8

Percorso Distanza (in miglia nautiche) Lunghezza del viaggio (in giorni) Velocità media(in nodi)

Cirene-Creta(Strabone, X, 4, 5: il punto indicatoda Strabone è il Criometopon,l’estrema punta occidentale di Creta)

160 2 3,3

Ascalona-Tessalonica(Marc. Diac., Vit. Porph., 6) 800 13 2,6

Rodi-Gaza(Marc. Diac., Vit. Porph., 56-57) 410 7 2,4

Alessandria-Marsiglia(Sulp. Sev., Dial., I, 1, 3) 1500 30 2,1

Pozzuoli-Ostia(Filostrato, Vit. Apoll., VII, 16) 120 2,5 2,0

Gaza-Bisanzio(Marc. Diac., Vit. Porph., 26) 855 20 1,8

Rodi-Bisanzio(Marc. Diac., Vit. Porph., 37) 445 10 1,8

Cesarea-Rodi(Marc. Diac., Vit. Porph., 34) 400 10 1,7

Alessandria-Cipro(Luciano, Navig., 7) 250 6,5 1,6

Sidone-Chelidonie(Luc. Navig., 7) 350 9,5 1,5

PercorsoDistanza

(in miglia nautiche)Lunghezza del viaggio

(in giorni)Velocità media

(in nodi)Condizioni di vento

Rodi-Alessandria(App., Civ., II, 89) 325 3 4,5 Non precisato;

probabilmente favorevoleGrandi Sirti-Eraclea Minoa(Plut., Dion., 25, 4-5) 475 4,5 4,4 Favorevole

Sason-Cefalonia(Pol., V, 110, 5) 160 1,75 4 Non precisato;

probabilmente favorevoleTroia-Alessandria(Lucan., IX, 1004-1005) 550 7 3,3 Favorevole

Cagliari-costa africana(Procopio, BellumVisigothorum, I, 25, 21)

200 2,5 3,3 Non precisato;probabilmente favorevole

Lilibeo-capo Bon(Liv., XXIX, 27, 6-8) 65 1 2,7 Generalmente favorevole

Messina-Cefalonia(Liv., XLII, 48, 9) 250 4,5 2,3 Probabilmente favorevole

Sez. 6.9.10 - Le navi mercantiliromane: oneraria e caudicaria

Ricostruzioni: C. Mocchegiani Carpano

L’uso delle vie d’acqua, marittimo e fluviale,era l’unico nell’antichità a consentire dimen-sioni di trasporto di una certa rilevanza ad uncosto relativamente basso con il vantaggio chenon erano necessarie infrastrutture continue;per questomotivo se per un insediamento ur-bano la posizione suo nei pressi di una via flu-viale garantiva facili collegamenti verso l’internodel territorio, presso il mare permetteva il con-tatto commerciale con località molto distan-ti. L’archeologia, che solo da una cinquantinad’anni ha cominciato ad occuparsi di relitti edè diventata sottomarina, ha confermato condovizia di scoperte l’esistenza di una fittissi-ma rete commerciale e, nello stesso tempo,ha fatto rilevare anche la pericolosità di queiviaggi. Il coordinamento e il diretto collega-mento poi tra vie marittime e vie terrestri efluviali permetteva la diffusione capillare del-le merci trasportate.Le navi erano adibite solo al trasporto merci;non esistevano navi-passeggeri, se non quel-le che trasportavano l’imperatore nei sui viag-gi (ma forse venivano utilizzate le navi dellaflotta militare); per viaggiare si doveva quin-di aspettare la partenza di una nave mercan-tile per la destinazione necessaria e chiedereun passaggio.I beni che viaggiavano permare erano i più va-ri, ma non sempre i carichi erano composti daununico generemerceologico.Dai rinvenimentisubacquei sono emersi trasporti di metalli inpani, anfore olearie e vinarie, garum, cerami-che, derrate alimentari (grano, lenticchie), aro-mi, profumi edoggetti preziosi e di lusso (statuedi marmo e di bronzo), marmi lavorati, semi-lavorati e grezzi: e certamente anche tutta unagamma completa dimerci viaggiava permare,solide e liquide, che tuttavia non si sono con-servate:ma i numerosi rinvenimenti in relitti dianfore, olearie e vinarie, e soprattutto la stessatestimonianza del Monte Testaccio a Roma,collinetta alta 36 metri creata dallo scarico dicirca 80 milioni di anfore rotte su una superfi-cie di 22.000 mq., sono la testimonianza del-l’importazione aRomadalla Spagna e dall’Africadi olio e vino in tre secoli.

I porti erano l’anello importante, ma spessodebole, di queste linee commerciali e di scam-bi. L’imperatore Claudio diede a Roma il suoprimo porto marittimo, inaugurato da Nero-ne e ristrutturato da Traiano, porto collegatocon Roma tramite la via fluviale percorsa inrisalita con sistemi di alaggio: i trasporti Ostia-Roma impiegavano due notti e un giorno(Strabone, Geografia, 8,16).I mezzi di trasporto, cioè la navi, erano di duetipi sostanzialmente: le navi onerarie, di nor-ma ad uno o due alberi, più raramente a tre,andavano a vela (vela quadra maestra, aca-tus, sormontata da una vela triangolare bi-partita, artemon o vela di gabbia, e duevelaccine scalene, suppura) e solo eccezio-nalmente a remi per la manovra nei porti; lalunghezza massima era di 60 metri per unalarghezza di 15 e un’altezza – fuori tutto – di14 metri; la capacità di carico arrivava a 2000tonnellate; in genere tuttavia le navi avevanostazza e dimensioni minori (500/600 ton-nellate). Il fasciame, di tavole di pino rivesti-te di tessuto di lana impermeabilizzata conresina di conifere data a caldo o anche cera,era ricoperto con lamine di piombo. Le navicaudicarie erano imbarcazioni a fondo piattoadibite al trasporto fluviale (Ostia-Roma sulTevere, ad esempio), senza vela né remi e so-lo con un timone; l’albero al centro median-te l’uso di funi serviva sia per le manovre delcarico, ma soprattutto per tenere ferma la bar-ca durante il traino (alaggio con uomini o ani-mali) e non farla ruotare verso la riva.

BibliografiaAvilia 2002; Le Gall 1953/2005, pp. 262-283; Lo Sardo2005; Gianfrotta, Pomey 1981; Rougé 1977; Rival 1991;White 1984.

Sez. 6.11 - Bicchieri (4) di Vicarello

Materiale: argentoDimensioni: alt. mm 95-115; diam.62-77Provenienza: Vicarello. Rinvenuti nel 1852 neldeposito votivo presso le Aquae Apollinares

Luogo di conservazione: Roma, Museo NazionaleRomano, inv. n. ...

Cronologia: I sec. d.C.Ricostruzione virtuale dell’itinerario antoniniano:Henrique Rossi Zambotti

Nelmondoantico si eranodiffusi dei documentidi carattere pratico, gli itinerari, che registravanole principali strade dell’Impero e le distanze frai centri collegati. Esistono itinerari di due tipi:itineraria adnotata e itineraria picta (Vegezio, dere militari, 3, 6). I primi sono composti sola-mente da notazioni testuali e perciò non han-no base cartografica, i secondi sono invecerappresentazioni cartografiche schematiche conl’indicazione degli assi viari e delle distanze.Oltre alle città venivano segnalate le stationesdel cursus publicus (cioè del servizio postale),che si distinguono in mansiones (con alloggio)e mutationes (per il solo cambio dei cavalli).Fra gli esemplari giunti finoanoi c’è l’ItinerariumGaditanum, un documento epigrafico costitu-ito da quattro bicchieri d’argento, di una for-macilindrica che riproduce inscalaminiaturizzataquella di unmiliario (alt. mm95-115; diam.mm62-77). I bicchieri sono databili fra i primi annidel principato augusteo e l’età tiberiana, furonoritrovati presso la fonte termale delle AquaeApollinares, presso Vicarello (e per questo an-che detti vascula vicarelliana) a 7 km da Brac-ciano, a nord di Roma, nel luogo in cui furonodeposti come ex voto.Ognuno dei quattro bicchieri porta incisa sul-la parte esterna un itinerario via terra, un’is-crizione su quattro colonne, che elenca tuttele 104 stazioni con le distanze parziali fra lelocalità che sorgevano fra la città spagnola diGades (l’odierna Cadice) e Roma, per un to-tale di 1840 miglia romane (2.723,2 km). Iltitolo figura sotto l’orlo e la somma delle

185

segue da pagina 181

Bibliografia:Basch 1987; Casson 1965, pp. 31-39; Casson 1971; Gian-frotta, Pomey 1981; Höckmann 1988; Janni 1996; Me-das 2004; Pomey, Tchernia 1980-1981, pp. 29-57; Rougé1966; Rougé 1977; Ucelli 1950.

184

Percorso Distanza(in miglia nautiche)

Lunghezza del viaggio(in giorni)

Velocità media(in nodi)

Condizioni di vento

Pisa-Marsiglia(Pol., III, 41, 4. Il viaggioavvenne cabotando lungo lacosta ligure)

240 4,5 2,2 Favorevole, poi sfavorevole

Utica-Cagliari(Bell. Afr., 98) 160 3 2,2 Probabilmente sfavorevole

Lilibeo-Ruspina(Bell. Afr., 34. Ruspino,presso Monastir, sulla costaad est di Tunisi)

140 3,5 1,7 Favorevole

Lilibeo-Anquillaria(Caes., B.C., II, 23. Anquillariapresso Capo Bon)

90 2,5 1,5 Non precisato

Siracusa-capo Bon(Diod. Sic., XX, 6, 1-2) 220 6 1,5 Probabilmente sfavorevole

Euripo-Falero(Herod., VIII, 66) 96 3 1,3 Variabile

Zacinto-capo Pachino(Plut., Dion., 25, 2) 340 12,5 1,1 Molto lieve

Lilibeo-Africa (Bell. Afr., 2.) 85 3,5 1 Sfavorevole

Zacinto-Etna(Proc., B.V., I, 13, 22.Approdo sulla costaorientale della Sicilia, vicinoalle falde dell’Etna).

320 15,5 0,9 Molto lieve

nave oneraria

(a sinistra),

nave caudicaria

(a destra)

ITINERARIUM GADITANUM 1CIL XI 32811 Ad Portum FRA BOLONOS E FRIAS XXIIII2 Hastam MESAS DE HASTA XVI3 Ugiam TORRES DE ALOCAZ XXVII4 Orippum TORRE DE LOS HERBEROS XXIIII5 Hispalim SEVILLE VIIII6 Carmonem ? XXII7 Obuclam LA MONCLOVA XX8 Astigim ECIJA XV9 Ad Aras EL GARBATO LA CARLOTA XII10 Cordubam CORDOVA XXIII11 Ad X ? X12 Eporam MONTORO XVII13 Uciesem LOS CANSINOS ANDUJAR XVIII14 Ad Novlas VILLANUEVA DE LA REINA XIII15 Castulonem CAZORLA CAZLONA XIX16 Ad Morum NAVAS DE SAN JUAN XXIIII17 II Solaria MONTIZON XIX18 Mariana PUEBLA DEL PRINCIPE CIUDAD REAL XX19 Mentesam CALCARA LA POVEDILLA XX20 Libisosam LEZURRA XXIIII21 Parietinis VENTORRO DE LA VEREDA XXII22 Saltigim CHINCHILLA XVI23 Ad Palem CERRO DE LOS SANTOS XXXII24 Ad Aras EL TARABATO LA CARLOTA XXII25 Saetabim JATIVA XXVIII26 Sucronem CULLERA XVI27 Valentiam VALENZIA XX28 Sagyntum SAGONTE XVI29 Ad Novlas ? XXIIII30 Ildum SUR LA COTE XXII31 Intibilim TRAIGUERA XXIIII32 Dertosam TORTOSA XXVII33 Sub Saltum AI PIEDI DEL COLLE DELLA BALAGUERE XXXVII34 Tarraconem TARRAGONE XXV35 Palfurianam ALTAFULLA XVI36 Antistianam LA RAPITA XIII37 Ad Fines MARTORELLE XVII38 Arragonem NS. SIGNORA DELLA SALUTE XX39 Semproniana GRANOLLERS VIIII40 Seterras HOSTALRICH XXIIII41 Aquis Vocontis CALDAS DE MALAVELLA XV42 Gerundam GERONE XII43 Cilnianam CERVIADE TER XII44 Iuncariam FIGUERAS XV45 In Pyraeneum PASSAGGIO DEI PIRENEI XVI46 Ruscinonem CASTEL ROUSSILLON XXV47 Combusta RIVESALTES VI48 Narbonem NARBONNE XXXII49 Baeterras DESIERS XVI50 Cesseronem SAINT THIBERY SUR L’HERAULT XIII51 Forum Domiti MONT BAZIN XVIII52 Sextantionem CASTELNAU LE LEZ XV53 Ambrussum VILLETELLE XV

54 Nemausum NIMES XV55 Ugernum BEAUCAIRE XV56 Arelata ARLES VIIII57 Ergnaginum SAINT GABRIEL,TARASCON VI58 Clanum SAINT REMY DE PROVENCE VIII59 Cabellionem CAVAILLON XII60 Aptam Iuliam APT XII61 Catuiaciam CEREST XII62 Alaunium NOTRE DAME DES ANGES XVI63 Segusteronem SISTERON XXIIII64 Alabontem OLLOMONTE XVI65 Vappincum GAP XVIII66 Caturigomagum CHORGES XII67 Eburodunum EMBRUN XVIII68 Ramam RAME XVII69 Brigantium BRIANCON XVIII70 Druantium ? XI71 Segusionem SUSA XXIIII72 Ocelum UXEAU XXVII73 Taurinis TORINO XX74 Quadrata REGIONE D’AOSTA XX75 Rigomagum TRINO VERCELLESE XVI76 Cuttias? XV77 Laumellum LOMELLO XIII78 Ticinum PAVIA XXI79 Plambrum ? XX80 Placentiam PIACENZA XVI81 Florentiam FIRENZE XV82 Parmam PARMA XXV83 Lepidum Regium REGGIO EMILIA XVIII84 Mutinam MODENA XVII85 Bononiam BOLOGNA XXV86 Claternum QUADERNA DI OZZANO EMILIA X87 Forum Corneli IMOLA XIII88 Faventiam FAENZA X89 Forum Livi FORLI’ X90 CesenamCESENA XIII91 Ariminum RIMINI XX92 Pisaurum PESARO XXIIII93 Fanum Fortunae FANO VIII94 Forum Semproni FOSSOMBRIONE XVI95 Ad Calem CAGLI XVIII96 Hesim? XIII97 Helvillum FOSSATO DI VICO X98 Nuceriam NOCERA XV99 Mevaniam BEVAGNA XIX100 Ad Martis ? XVI101 Narniam NARNI XVIII102 Ocriclo OTRICOLI XII103 Ad XX ? XXIIII104 Romam ROMA XX

Sum[ma] M[ilia] P[assus] MDCCCXXXX

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distanze sopra il piede. Le distanze ufficialida Roma venivano computate dal miliariumaureum, una pietra miliare eretta nel 20 a.C.da Augusto nel Foro Romano in relazione conl’istituzione del cursus publicus.La presenza dei bicchieri con inciso l’itinerarioGaditano all’interno della stipe votiva ha pos-to diversi quesiti. Intanto è difficile compren-dere per qualemotivo i bicchieri, offerti in donoalla divinità che presiedeva e dava il nome alleAquae Apollinares, Apollo, riportassero il per-corso Cadice-Roma.I quattro bicchieri infatti sembrano aver loscopo di ringraziare il dio per aver protettol’avventuroso viaggio via terra tra Cadice e Ro-ma anche se l’itinerario non prevedeva unpassaggio da Vicarello, ma giungeva a Romapassando per la via Emilia e la via Flaminia,attraverso Narnia (Narni) e Ocriculum (Otri-coli), né gli oggetti sembrano presentare un

qualche rapporto con Apollo. Inoltre il fattoche Gades sia il punto di partenza degli itine-rari sembra implicare che i bicchieri siano sta-ti prodotti in quella città. Due sono le ipotesipiù accreditate: la prima che gli oggetti sianostati donati ad Apollo da alcuni mercanti ga-ditani, forse recatisi a Roma per vendereprodotti caratteristici della loro terra, l’olio oil garum, la salsa di pesce molto apprezzatanella cucina romana, anche se non si spiegaper quale motivo questi commerciantiavessero scelto di percorrere una via terrestrelunga oltre 2.700 km, quando le merci spag-nole seguivano sempre la più rapida ed eco-nomica via marittima. Una seconda ipotesi èche questi bicchieri siano stati donati da vi-aggiatori provenienti dalla Spagna ad un no-bile senatore romano, Lucio Iunio CesennioPeto (parente dell’imperatore Domiziano, cheaveva una villa nel borgo di Vicarello), e che

successivamente questi aveva utilizzato i quat-tro bicchieri per farne dono alle divinità pro-tettrici del luogo.

F.P.

Bibliografia

Bonora G., Dall’Aglio P.L., Patitucci S., Uggeri G.,Topografia Antica, Bologna 2000, pp. 220-221;Garrucci R., Dissertazioni archeologiche di vario argo-mento, Roma 1864, pp. 14-16;Heurgon J., La date des gobelets de Vicarello, in REA54, 1952;Kunzl E., Aquae Apollinares(Vicarello), in Caesaro-dunum 26, 1992, pp. 273-296; Levi M.A., Il mondo deiGreci e dei Romani, 1987, p. 17Talbert R.J.A., Barrington Atlas of the greek and romanWorld, Princeton, Oxford 2000;Trevisiol A., Fonti letterarie ed epigrafiche per la storiaRomana della provincia di Pesaro e Urbino, Roma 1999,p. 132;

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pratico di questo volumen, ha condizionatonaturalmente la stesura dell’intero testo geo-grafico, costringendo il suo compilatore a svi-luppare il discorso cartografico nella direzionedella longitudine, schiacciando o riducendoal massimo il disegno nel senso della latitu-dine. Da qui la forte deformazione che ven-gono ad assumere i diversi elementi geograficii quali si trovano, rispetto ai punti cardinali,in una posizione diversa da quella reale inquanto l’est prende il posto del nord, spo-stando di conseguenza l’orientamento gene-rale. Inoltre alcune terre vengono ad occupareuno spazio ben superiore alla loro superficie,come l’Italia che presenta un numero di datimaggiori di quelli di ogni altro luogo descrit-to dalla Carta in modo da creare una eviden-te sproporzione di rapporti rispetto ai restantiterritori. Una spiegazione a tale situazione cela danno Strabone e Tolomeo: la geografia de-ve servire soprattutto agli interessi dello sta-to e per lo più di ordinemilitare. Quindi anchenelle carte più estese, anche in quelle rap-presentanti tutta l’oikumene, la terra habita-lis, deve essere dedicato alle regioni di piùgrande interesse, uno spazio maggiore e par-ticolari più numerosi che a quelle meno im-portanti.Vi sono indicate circa 555 città e altre 3.500 par-ticolarità geografiche, come i fari e i santuariimportanti, spesso illustrati da una piccola fi-gura. Le città sono rappresentate da due case,le città importanti - come Roma, Costantino-poli, Antiochia - sono segnalate da un meda-glione. Vi sono inoltre indicate le distanze, siapure con minore o maggior precisione, se-condo le misure dei singoli paesi, leugae inGallia, miglia nei paesi latini, parasanghe inPersia.Nella Tabula è raffigurato l’intero mondo co-nosciuto dagli antichi con i tre continenti Eu-ropa, Asia e Africa separati tra loro daitradizionali confini del Mediterraneo, del Ta-nais (Don), del Nilo e circondati dal grandeOceano, che si sviluppa continuo ai marginidella carta. Perduto il primo segmento, chedoveva raffigurare le Colonne d’Ercole, l’Ir-

landa (Hibernia) e la mitica isola di Thule, ildisegno cartografico si svolge dai luoghi piùorientali della Britannia e della Spagna finoall’India e alla Cina, richiamata nell’estremolimite orientale dalla scritta Sera Maior. Quitroviamo anche, in mezzo all’Oceano, dise-gnata l’Insula Taprobane, l’odierna Ceylon.A occidente le Colonne d’Ercole segnavanola fine dell’ecumene, a oriente due aree, ac-compagnate dalla legenda Hic Alexander Re-sponsum accepit. Usque quo Alexander? (“QuiAlessandro ricevette il responso: fin dove, oAlessandro?”), più che richiamare il ricordodi un’impresa, vuole indicare il limite ultimodelle terre e suggerire nel contempo il sensodella relatività umana. Ritroviamo sulla Ta-bula anche le terre del settentrione europeoe asiatico e dell’Africa centrale, dove avevanosede i feroci Sarmati e i misteriosi Etiopi e do-ve la mancanza di vie di comunicazione, equindi di rapporti con il mondo civile, giusti-ficavano la supposta presenza di popoli leg-gendari e fantastici.La Tabula Peutingeriana è l’unica copia giun-ta fino a noi di un originale cartografico com-posto in epoca romana ed è un unicum sottoogni aspetto: nulla vi è di simile in tutta la let-teratura classica. Né gli altri documenti iti-nerari che noi possediamo, dall’ItinerariumAntonini al Burdigalense allo scudo di DouraEuropos per ricordare i maggiori, possono es-sere paragonati alla Carta. Essa infatti non èsolamente un testo stradale, per quanto va-sto ed esauriente; è anche una vera summa,dove viene a comporsi ‘visivamente’ il qua-dro di un’intera società con i suoi diversi mo-di di esprimersi e di organizzarsi.Nell’ambito del vasto impero, i termini colo-nia, municipium, castrum, praetorium, forum,pagus, vicus, che accompagnano molti nomidi località, e le scritte che indicano le riparti-zioni regionali e provinciali, i cui confini so-no spesso precisati dalle stazioni stradali Fines,Ad fines, acquistano una dimensione ‘con-creta’ e ci riportano all’ordinata ed articolataamministrazione politica di Roma.A questi dati si aggiungono i numerosi cen-

tri termali, che con la loro diffusione sottoli-neano l’interesse di questo popolo per le cu-re e la salute del corpo e nel contempo cidanno la più antica carta dei luoghi di curalegati alle acque salutari. Ma anche i proble-mi dello spirito sono presenti nella Carta conle indicazioni di carattere religioso, dove ailuoghi di culto pagano, ben rappresentato daifrequenti richiami a centri cultuali dedicati adiverse divinità, si affiancano i nuovi luoghidi culto della fede cristiana.Completano il quadro molti nomi di quei po-poli che componevano il mosaico delle pre-senze umane e delle entità etniche, esistentinel grande corpo dell’impero. Tutto questoarticolarsi di elementi politici, religiosi, eco-nomici, sociali trova poi la sua ordinata di-sposizione in un contesto territoriale definitonei suoi contorni fisici e negli aspetti orogra-fici, idrografici e topografici più rilevanti o si-gnificativi. Ritroviamo infatti lemaggiori catenemontuose ed i più noti valichi accanto a me-no conosciuti e più modesti rilievi, mentre igrandi fumi dell’Europa, dell’Africa e dell’Asiaaccentuano con i loro lunghi corsi serpeg-gianti il vivace realismo del quadro ambien-tale, reso ancor più vario e movimentato dalmoltiplicarsi dei fiumi minori e delle macchieverdi dei laghi che richiamano il colore deimari. Ma la carta non si ferma ai confini del-l’impero; va oltre ad abbracciare terre del lon-tano oriente, che non furono mai romane. Èquesta la prima immagine dei vasti territoridella Persia e dell’India come li vedevano gliantichi, con le città dai nomi famosi e sco-nosciuti, con i grandi fiumi della storia e del-la leggenda, con i monti inaccessibili e glisterminati deserti e i luoghi dove si incontra-no gli elefanti, dove nascono gli scorpioni. Edai margini estremi del mondo il nome di Se-ra Maior richiama la remota Cina e rievocalontananze e spazi immensi lungo l’antichis-sima via della seta.

A.S.

Bibliografia:Bosio 1983; Levi A. 1967; Miller 1916.

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Sez. 6.12 - La TabulaPeutingeriana

Originale: Vienna, Biblioteca NazionaleRiproduzione: da copia in proprietà privata

La Tabula Peutingeriana, copia medievale (XIIo XIII secolo) di un documento geograficoprobabilmente del IV secolo d.C., è un roto-lo pergamenaceo, alto m. 0,33/35 e lungo m.6,80 circa, formato da undici fogli o segmen-ta, uniti fra loro, fino al 1863, lungo i margi-ni, dipinto in diversi colori (verde per i fiumie i mari, giallo, grigio-rosa, marrone per i mon-ti, rosso per le strade), rappresenta tutto ilmondo allora conosciuto, dalle coste orien-tali dell’oceano Atlantico (anche se è andatoperduto il primo foglio raffigurante l’Irlanda,la Britannia e la Spagna) fino alla Cina. Essoha dunque un valore che supera il dato do-cumentale cartografico per farsi, nel suo ge-nere, testimonianza della concezione che nelIV secolo d.C., l’uomo aveva del suo mondo.Trovata nel 1507 dall’umanista viennese Kon-rad Celtes, bibliotecario dell’imperatore Mas-similiano I, la carta passò nelle mani di KonradPeutinger, Cancelliere di Augsburg e illustrestudioso, dal quale prese il nome. Nel 1511Peutinger ottiene il permesso imperiale dipubblicarla ma solo nel 1598, per opera diMarcusWelser viene portata a termine la pub-blicazione. Nel 1714 Desiderio Peutinger lavende ad un antiquario di libri, alla morte diquest’ultimo viene venduta, nel 1720, al prin-cipe Eugenio di Savoia. Alla morte del princi-pe, avvenuta nel 1737, tutta la sua biblioteca,compresa la Tabula, è acquistata dall’impe-ratore Carlo VI e passa quindi in proprietà del-la Biblioteca Reale di Vienna, l’attualeBiblioteca Nazionale, dove oggi è conserva-ta sotto la denominazione di Codex Vindobo-nensis 324 o meglio di Tabula Peutingeriana.Una delle datazioni della Tabula più accredi-tate è quella del Miller che aveva indicato co-me età per il documento originale la metà delIV secolo d.C. e precisamente gli anni 365-366.La Tabula mette in risalto con tre particolarivignette tre metropoli: Roma, Antiochia, Co-stantinopoli. Il Miller è del parere che la Ta-bula abbia voluto indicare le città che furonocontemporaneamente capitali dell’impero nel365-366 d.C.In definitiva la Carta risulta ultimata alla me-tà del IV secolo d.C. Tuttavia ci troviamo di-

nanzi ad un’opera composita, il risultato cioèdi numerose elaborazioni ed aggiornamentisuccedutisi nel tempo: la Tabula non nasceall’improvviso nel IV secolo, né è semplice-mente il rifacimento di un altro ben determi-nato documento cartografico, ma è ilmomento ‘finale’ di tutta una serie di itinera-ria picta, cioè di carte geografiche, che l’han-no preceduta e che via via hanno propostoed inserito nuovi dati ed indicazioni su un te-sto andatosi maturando e completando nelcorso di lunghi anni.Publio Vegezio Renato, vissuto alla fine del IVsecolo d.C., ed autore di una Epitoma rei mi-litaris, ricorda l’esistenza di due classi di car-te itinerarie quando scrive che un“comandante deve innanzitutto possedere iti-nerari assolutamente precisi di tutte le regio-ni, nelle quali si conduca una guerra, così daconoscere bene le distanze fra i diversi luo-ghi non solo per il numero delle miglia, maanche per la situazione viaria; deve esamina-

re le scorciatoie, le deviazioni, i monti, i fiu-mi, che devono essere fedelmente descritti;addirittura i comandanti più abili assicuranodi aver posseduto itinerari delle province, do-ve la necessità li aveva portati, non solamen-te scritti (itineraria adnotata), ma anchedisegnati (itineraria picta), per poter sceglie-re, al momento della partenza, il camminonon solamente con la mente ma anche conla vista”.A questo genere di carte stradali, chiamateappunto itineraria picta, cioè itinerari dise-gnati e colorati che rappresentavano grafica-mente il terreno, la sua conformazione fisica,la situazione antropica e itineraria e, entrocerti limiti, il reciproco rapporto di posizionefra le varie località, appartiene la Tabula Peu-tingeriana.La sproporzione fra la lunghezza e l’altezza,che si spiega con la necessità di poterla rac-cogliere in un rotolo per essere così facilmentetrasportata e che chiarisce la finalità e l’uso

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gli animali e tutto il resto necessario per i viag-gi dei magistrati.Cicerone ci informa invece di una legge, la lexIulia, che lo avrebbe disciplinato (Cicerone,At-ticum. 16,3).Nelle città, inoltre, esisteva la figura del paro-chus publicus, il quale aveva, per l’appunto, ilcompito di provvedere a tutto ciò di cui neces-sitavano i magistrati.Infine vi era anche la legatio libera, una for-ma di missione che permetteva ai senatori dipoter usufruire degli stessi mezzi dei legati.Non mancavano poi neanche nell’antichitàcoloro che a volte ne approfittavano per i lo-ro affari privati ed in certi casi si procuravanoun numero di mezzi superiore al necessario.Anche le monete sono molto importanti nel-la rappresentazione del sistema dei traspor-ti; molto raffigurato è il carpentum, un carrocon due ruote a sei o otto raggi, con cassonee pannelli.La prima immagine di questo tipo di mezzosi ha su di un sesterzio di Livia dell’epoca diTiberio, emesso dalla zecca di Roma.Abbiamo poi un documento, risalente alla fa-se di passaggio del potere da Augusto a Ti-berio, la cosiddetta “Epigrafe di Burdur”, uneditto firmato da Sesto Sotidio Strabone Li-bidusciano dove si stabilisce il numero esat-to di mezzi e animali che la comunità localedeve fornire a coloro che posseggono i di-plomata e si stabilisce anche un prezzo chesi deve pagare per questi servizi.Probabilmente le persone che usufruivano delcursus pagavano qualcosa ad eccezione del-l’alloggio; in seguito l’erario o la cassa impe-

riale interveniva per rimborsare queste spese.Il problema dei costi sarà una costante pertutto l’arco dell’impero: l’imperatore Claudio,ad esempio, limiterà con un editto le spesedi gestione imposte ai provinciali, mentreAdriano renderà il servizio totalmente stata-le, servizio che usufruiva dellemansiones, edi-fici che svolgevano le funzioni di accoglienzadel servizio postale lungo le strade dell’im-pero ad un giorno di viaggio l’una dall’altra.

V.L.

La cura viarumPreposti all’amministrazione e alla cura del-le strade erano gli edili, ma in seguito ven-nero istituite altre magistrature che dovevanooccuparsi della cura viarum. Fu Augusto adintervenire intorno al 20 a.C. con precise di-sposizioni al fine di offrire una regolamenta-zione generale del sistema. Il consolidamentodella pace in tutto l’impero romano ad ope-ra di Augusto e la prosperosità che ne seguìfurono motivi per il rinnovamento della retestradale.Sulle strade la circolazione era libera, ma esi-steva un’apposita, severa regolamentazioneper salvaguardare l’integrità dei tracciati, di-sposizioni che riguardavano esclusivamentele viae publicae. Da varie fonti sappiamo, in-fatti, che in età romana esisteva una precisadistinzione delle strade dal punto di vista am-ministrativo. Siculo Flacco nel I secolo d.C.,nel suo trattato De condicionibus agrorum, cilascia una puntuale descrizione di tre diver-se categorie di tracciati stradali: le viae publi-

cae, realizzate con fondi pubblici da parte diimprenditori che ne avevano avuto l’appaltoe controllate dai curatores; le viae vicinales,che avevano interesse locale, costituendo iraccordi fra la viabilità principale, ed eranoper questo raccolte e mantenute sotto il con-trollo dei vici, con la partecipazione finanzia-ria dei proprietari dei fondi attraversati; la viaeprivatae, che garantivano l’accesso ai terreniprivati ed erano dunque costruite e gestite di-rettamente dai possessori dei terreni stessi.Una quarta categoria, meno specificata, eraquella delle viae communes e comprendevaaltre vie private le quali, staccandosi dalle viaevicinales, offrivano il passaggio ai terreni dipiù proprietari impegnati dunque nel soste-nerne le spese comuni.Un’ulteriore confermaa questa organizzazione amministrativa del-la viabilità romana emerge in una sentenzadi Ulpiano riportata nel Digesto (43, 8, 2, 22).Le viae publicae, come ricordato nello stessopasso di Ulpiano, erano chiamate anche prae-toriae o consulares. Questa precisazione fapensare che le principali arterie in età repub-blicana fossero costruite sotto il controllo diconsoli o pretori, i magistrati dotati dell’im-perium e in particolare del potere di espro-priare terreno di proprietà privata.Alcuni riferimenti molto antichi si trovano gianelle leggi delle XII tavole del V secolo a.C. ein particolare nella tavola VII. Per l’età re-pubblicana va poi ricordata l’attività proba-bilmente anche di carattere legislativo,promossa dal tribuno Caio Gracco che si de-dicò alla costruzione di strade secondo i prin-cipi dell’utilità e della bellezza, lastricandole,costruendovi ponti e misurandole con co-lonne lapidee che riportavano il numero del-le distanze.Già per gli autori greci e latini la costruzionedelle strade costituiva uno dei caratteri pe-culiari dell’opera di conoscenza e di civiliz-zazione attuata da Roma nelle terre diprogressiva conquista e insieme l’espressio-ne della particolare cura indirizzata alle ne-cessità concrete del vivere civile.

F.L.

BibliografiaCorsi 2000; pp. 6-11. Di Paola 1999; Forbes 1964;Holm-berg 1993; Levick 20002; Eck 1999; Tecnica stradale ro-mana a 1992, pp 105-113; Essai sur le cursus publicus1940; Quilici, Quilici Gigli 2004.

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Sez. 6.13 - Il cursus publicus e lacura viarum

Il cursus publicusGli antichi attribuiscono ad Augusto l’istitu-zione del cursus inteso come il servizio desti-nato, al principio della sua istituzione, a regolareil trasporto delle persone che viaggiavano nel-l’interesse dello stato e degli oggetti che a que-sto appartenevano.Durante il suo principato, infatti, fu creato ilvero e proprio servizio di trasporto statale ecoloro che ne beneficiavano dovevano neces-sariamente essere in possesso del diploma,un regolare permesso di circolazione recanteinizialmente il sigillo dell’imperatore, che per-metteva di poter usufruire dei carri e degli ani-mali necessari. Non potevano essere peròusate le bestie destinate all’aratura. C’eramol-ta severità contro coloro che viaggiavano sen-za diploma o con diplomi falsi “qui falsoduplomate ras commeavit, pro admissi quali-tate gravissime puniendus est” (Digesto, 48,10, 27, 2). La Historia Augusta, ad esempio, ciriporta il caso di Pertinace il quale, una voltascoperto, fu costretto a continuare a piedi.Nei primi secoli dell’impero lo ius evectionis erariservato all’imperatore ed in casi eccezionali alpraefectus pretorio e ai consoli. Nelle province,invece, questo compito era svolto dai governa-tori, ma sempre e comunque su delega impe-riale. In seguito, con l’accrescimento del poteredella burocrazia, altri iniziano ad esercitare que-sto diritto: il praefectus pretorio, il magister offi-ciorum e il praefectus urbi. Quest’ultimodal 364al 396 mentre i restanti due per tutto il IV se-colo con continuemodifiche; nel 357, ad esem-pio, al prefetto del pretorio viene vietato dirilasciare evectiones (l’evectio è il diritto ad usu-fruire del servizio di stato e quindi a spostarsida un luogo all’altro utilizzando animali emez-zi di trasporto pubblici) e nel 362 viene estesolo stesso divieto anche al magister officiorum.Il magister officiorum, comunque, è il più ido-neo, perché ha alle proprie dipendenze i curio-si, gli ispettori del cursus publicus. Secondo Lido(Lyd.,mag. 2, 10, 5-6; 3, 23, 1-3) nel 395 circa eb-be pieni poteri sul servizio.Nel III secolo inoltre viene istituito l’ufficio a di-plomatibus adibito a redigere autorizzazioni.Diploma ed evectio coesistono come termini fi-no al IV secolo quando si afferma il secondo,che ha un valore semantico più ampio. Qua-lunque era il grado di dignitas non si poteva

usufruire del cursus senza evectio, la quale erapersonale, non cedibile e di cui era vietato ilcommercio.Al tempo di Costantino il servizio dei trasportidi stato era uno degli strumenti che poteva pa-cificare clerici e funzionari statali; la prima vol-ta che i vescovi utilizzarono il servizio di statofu nel 313 in occasione del iudicium romanum.Nel IV secolo l’uso del cursus da parte del cle-ro non fu sempre finalizzato ad occasioni uffi-ciali o a spostamenti necessari, ma anche adaltre circostanze e poteva avvenire direttamente(permesso di viaggio) o indirettamente (inviodi corrispondenza).In origine, quando questo servizio ancora nonera ben regolato e definito istituzionalmente,era utilizzato per ragionimilitari. Il salto di qua-lità si ebbe conCesare il quale disposuit, dispose,

soldati a cavallo affinché comunicassero il piùvelocemente possibile le sue vittorie militari.Sembra che prima di Cesare non esistesse nes-suna organizzazione statale adibita alla tra-smissione di notizie e al trasporto di beni.Questo tema è un argomentum ex silentio tragli autori antichi, nessuno pare menzionarloma sappiamodel ricorso ad organizzazioni pri-vate di messaggeri (schiavi, liberti ed individuiliberi) durante l’ultimo secolo della Repubbli-ca. Un passo di Livio (Liv. 42, 1, 9) ci informache aimagistrati erano fornitimuli, tende e ognialtromezzo “magistratus mulis tabernaculisqueornabatur”. Sempre Livio ci presenta poi il ca-so del console L. Postumio Albino come quel-lo che sembra essere stato il primo nel qualesi è verificata un’imposizione nei confronti de-gli abitanti di alcune città, affinché fornissero

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Le strade romane in Italia (rielab. grafica; F.G.)

Le vie ‘carovaniere’ verso l’Oriente (rielab. grafica: F.G.)

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Sez. 6.14 - Rotte e scali portualinel bacino del Mediterraneo inetà imperiale

Nella compagine mediterranea l’impero ro-mano ereditò e potenziò un articolato siste-ma di vie di comunicazione per terra e permare. Le grandi rotte del Mediterraneo orien-tale vengono distinte da quelle del Mediter-raneo occidentale. Le prime erano quelle piùnumerose e meglio conosciute; fra queste viera quella sull’asse est-ovest, certamente larotta più importante per il commercio tral’Oriente (Asia Minore, Siria, Palestina, Egit-to) e l’Italia (con Roma come mèta più fre-quente).Verso l’Italia, dall’Oriente, possono essere in-dividuate tre rotte, quella settentrionale, quel-la centrale e la rotta meridionale. Lasettentrionale, forse la più utilizzata, aveva tap-pe molto lunghe ed era per certi aspetti simi-le alle rotte di cabotaggio. Iniziava da unqualunque porto presente sulla costa occi-dentale dell’Asia Minore, come Nicomedia oEfeso, passando per le isole dell’Egeo e le co-ste della Grecia continentale fino ad arrivaread est dell’istmo di Corinto; si percorreva quin-di via terra il tratto che separava dal Golfo diCorinto, continuando nuovamente per mareverso Brindisi e lo stretto di Messina, dal qua-le si accedeva al Mar Tirreno. Questa rotta se-guiva tre possibili direttrici: due di esseconsentivano, doppiato Capo Malea, di rag-giungere direttamente la Sicilia o, risalendo lecoste del Peloponneso con i venti a favore,l’Italia del sud; l’altra, risalendo direttamentela costa del Peloponneso e quindi la costa

ovest della Grecia, dava modo di giungere aBrindisi attraverso il canale d’Otranto. La rot-ta centrale era quella seguita dalle navi cheprovenivano dai porti della Siria (Seleucia),della Palestina (Caesarea) e da Creta. Essa siriuniva poi con le rotte originate nel nord del-l’Asia Minore e da Rodi; questa rotta era pra-ticata solo quando spiravano i venti etésii (dalgreco etesìai-anemoi), la cui assenza, infatti,spesso interrompeva la navigazione. Le rottemeridionali, infine, erano quelle a cui si ricor-reva in caso di assenza di venti favorevoli; es-se sfruttavano le brezze sotto costa, checonsentivano di giungere in Italia. Partivanodalla Palestina, arrivavano in Egitto (Alessan-dria), continuavano sotto le coste africane con-sentendo di giungere in Sicilia, se si volevacontinuare verso ovest per poi risalire verso ilTirreno (per arrivare a Pozzuoli, Roma, Nar-bona), o nel porto di Siracusa se si percorre-va la rotta verso Roma, passante per lo Strettodi Messina. A queste rotte originate nel Me-diterraneo Orientale (ad eccezione di quellache passava a sud di Creta e di quelle prove-nienti dall’Egitto dirette verso l’Egeo e il Pon-to Eusino) si incrociavano, percorrendole aritroso, le rotte provenienti da Occidente, inparticolar modo dall’Italia (dalla Sicilia e daBrindisi). Altre importanti rotte si dipananolungo l’asse ovest-est, consentendo l’espor-tazione dei prodotti delle terre di Spagna, Gal-lia, Sicilia e Africa. Quelle che univano laSpagna all’Italia percorrevano in prevalenzaacquemeridionali, soprattutto per sfruttare almeglio venti favorevoli. La rotta partiva so-vente da Gades; superando lo stretto di Gibil-terra, le navi puntavano verso la Sardegna; daqui si decideva se proseguire a nord verso ilporto sul Tevere o a sud verso Pozzuoli. Un’al-

tra rotta di grande importanza, quella da Car-tago Nova all’Italia, passava a nord delle Ba-leari, intercettando la rotta proveniente daTarragona, quindi raggiungeva le Bocche diBonifacio tra la Sardegna e la Corsica, ed infi-ne l’Italia. A queste rotte si devono poi ag-giungere le rotte nord-ovest/sud-est dalla Galliaall’Italia. Le navi partivano da Narbo (Barbo-na) o da Arelatae (Arles) che, in epoca roma-na, erano i maggiori porti della Gallia sulMediterraneo e seguivano la costa meridio-nale dell’odierna Provenza, scendevano poiverso la Corsica puntando prima in direzionedell’isola d’Elba ed infine a Roma. Le rotte sud-est, provenienti dall’Africa e dirette in Italia(Roma), erano sostanzialmente due: una per-correva le coste della Spagna, passava per laSardegna (Bocche di Bonifacio) per poi rag-giungere il porto di Ostia sul Tevere. L’altra,proveniente da Cartagine, passava prima dalCanale di Sicilia, facendo tappa a Lilibeo, ap-prodando infine a Pozzuoli dopo aver tocca-to qualcuno dei porti della Sicilia settentrionalee delle isole Eolie. Dalla Sicilia (stretto di Mes-sina) partiva un’altra rotta diretta a Pozzuolie Ostia, che interessava anche i porti della Si-cilia Orientale (Siracusa e Catania). Altre rot-te coprivano i percorsi Spagna-Africa: quellache partiva da Gades e raggiungeva i portiatlantici della Mauretania Tingitana e quellache daCarthago Nova arrivava aCesarea. Un’al-tra rotta diretta in Africa, precisamente a Car-tagine, era quella che partiva da Narbona.

V.P.

Bibliografia:Medas 2004; Rougé 1966; Rougé 1975; Rougé 1977;Rougé 1981; Rougé 1996.

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Vie di comunicazione marittime e fluviali dell’Impero Romano (rielab. grafica, F.G.)

Sezione 7

Le conquiste dell’agricoltura

novazioni, piuttosto che come invenzioni: sono, cioè, il risultatodell’evoluzione o del miglioramento di qualcosa già esistente (Mar-cone 2002, p. 182). D’altro canto, anche la semplice diffusione suvasta scala di specie, strumenti e procedure già noti ma rimasti inambiti locali o regionali, può determinare importanti miglioramenti.Ad esempio, se è vero che i Romani appresero (anche) dai Grecimolti elementi di viticoltura e di enologia, è altrettanto vero chefurono i coloni e i soldati di Roma a propagare, proprio grazie al-la selezione di individui resistenti, la vite in territori estremi, dallecondizioni climatiche ostili a questa pianta ‘mediterranea’.Anche la botte non è propriamente un’invenzione romana; era ilcontenitore che le popolazioni celtiche usavano per la birra. Ep-pure non v’è dubbio che furono proprio i Romani a impiegare suvasta scala le botti per il trasporto vinario, sostituendole alle tra-dizionali anfore in terracotta e inaugurando di fatto quel connu-bio tra vino e legno che ancora oggi rappresenta una partefondamentale nella formazione della bevanda.Restando in tema di produzione del vino, si possono ricordare leinnovazioni apportate ai torchi in età romana. Plinio il Vecchio(morto durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.) ricorda l’evo-luzione di queste macchine nel secolo a lui precedente, con l’in-troduzione di una vite continua applicata in testa alla leva deltorchio per esercitare la trazione verso il basso, e un’invenzioneancor più recente consistente in torchi più piccoli a palo centralee pressione esercitata sui dischi posti sulle vinacce (Naturalis Hi-storia 18, 364; Marcone 2006, p. 183) (sez. 7, nn. 5-6).Sono queste solo alcune delle invenzioni e innovazioni che si pos-sono riscontrare nell’agricoltura romana. Più in generale, insiemealle colture e al patrimonio di biodiversità generato in secoli di ma-nipolazioni e selezioni, unitamente alle tecniche e alla capacità diadattarle ai contesti più vari, i Romani si può dire che inventaronoe esportarono un modo nuovo di concepire il rapporto tra l’uomoe la terra, tra città e campagna, tra natura e cultura. Una di queste‘invenzioni’, ad esempio, fu la villa, ossia quella particolare formadi vita, prima ancora che forma di edificio, con cui i Romani popo-larono le campagne proiettandovi anche la loro cultura di cittadini,nel senso di appartenenti, abitanti, di una città (idealmente Roma).E se l’‘eccezione dominante’ (Carandini 1980, p. XLVI ss.) della vil-la schiavistica sarà un fenomeno effimero, misurato sulla lungadurata, l’immaginario della villa e della vita in villa si consoliderànel tempo come aspirazione ideale di ogni proprietrio terriero del-l’Occidente.La conquista romana fu una continua aggiunta di terre e un in-cessante avanzamento dei confini della Res publica, prima, del-l’Impero, poi. Spesso nuove terre significavano nuovi padroni,nuovi coloni, cioè ‘coltivatori’ nel vero senso del termine, nuovetecniche e strumenti agricoli, nuove specie da coltivare e allevare,nuove esigenze alimentari, nuovi mercati per i prodotti. E mentreavanzavano i confini dello Stato romano, si creavano, si disegna-vano o ridisegnavano i confini interni delle terre conquistate, trac-ciando strade e stradelle, limiti, fossati, siepi e recinti. Se il terrenoera troppo umido o troppo arido, si migliorava con canali per dre-nare o irrigare; porzioni considerevoli di territorio venivano strap-pate alla selva e ridotte a coltura, come avvenne ad esempio nellaPianura Padana. In molte di queste terre si praticava l’allevamen-

to della vite a sostegno vivo, o vite maritata all’albero, tratto ca-ratteristico della viticoltura romana delle origini e retaggio di unsapere agronomico di estrazione etrusca. Ebbene, questo siste-ma, che consentiva la coltura promiscua di viti e cereali associatinelle stesse superfici, ha costituito un tratto caratteristico del pae-saggio di gran parte dell’Italia antica e moderna ed ha inoltre in-fluenzato paesaggi del Vecchio e del NuovoMondo (Braconi 2008).In un certo senso, i Romani, esportando a volte il concetto stessodi ‘proprietà’ della terra, esportarono l’esigenza di dividerla, misu-rarla, assegnarla, e infine raffigurarla: tutto ovviamente per poter-la sfruttare e controllare dal punto di vista agricolo. Questo continuo“inventario del mondo” (Nicolet 1989) contribuì in maniera radi-cale a cambiare l’aspetto di molte terre conquistate; non a caso inlatino la stessa parola ‘forma’ indica appunto la forma, l’aspettodel territorio e ad un tempo designa la sua rappresentazione car-tografica/catastale. In sintesi si può dire che in molte regioni chefurono dell’Impero romano, il paesaggio moderno mantiene inde-lebile l’impronta della romanizzazione; in un certo senso è un’in-venzione romana (sez. 1, n. 14).

Agricoltura e economiaGli economisti del mondo antico stimano che l’agricoltura rap-presentassae circa il 60% del PIL dell’Impero romano. Dunquel’impatto di qualsiasi avanzamento tecnologico, qualsiasi innova-zione che avesse aumentato la produttività in campo agricolo eradi gran lunga maggiore di un equivalente avanzamento negli altricomparti. Ad esempio, il comparto tessile rappresentava all’incir-ca il 20% del PIL. Un aumento di produttività del 10% in questidue comparti avrebbe perciò innalzato il PIL rispettivamente del6% e del 2% (Zelener 2006)! Questa semplice osservazione spie-ga perché si debbano guardare con particolare attenzione i pro-gressi in campo agricolo, anche se non sempre se ne possonomisurare gli effetti in termini economici. L’interminabile discus-sione (antica e moderna) sull’aumento nel tempo delle rese deicereali, ad esempio, deve tener in giusto conto anche il migliora-mento della specie indotto dalla selezione operata da generazio-ni di agricoltori romani, alle diverse latitudini dell’Impero, selezioneche portò certamente alla ‘invenzione’ di frumenti con rese benpiù elevate di quelle che abitualmente si ritiene (Forni 20062). Macome negli altri campi, anche in agricoltura un ruolo decisivo perl’incremento della produttività venne giocato dalle macchine e da-gli strumenti utilizzati.

La macchina agricola per eccellenza: l’aratroE proprio in questo campo si può partire con una semplice con-statazione banale da indirizzare ai ‘primitivisti’ (cioè a coloro cheritengono il mondo romano sostanzialmente immobile nello svi-luppo tecnologico): l’aratro con cui Romolo (VIII sec. a.C.) tracciòil solco di Roma era lo stesso che arava le grandi pianure a norddel Po al tempo di Plinio? La risposta evidentemente è no. Tra l’ara-tro simmetrico di Romolo e l’aratro con avantreno descritto da Pli-nio c’è un’enorme differenza nei risultati ottenuti a parità di energiae di tempo impiegati. Sovente si tende a ritenere l’aratro ad avan-treno o ‘a ruote’ una conquista del Medioevo, così come i muliniad acqua. È pur vero che questa macchina ebbe un ruolo decisi-

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Fino a pochi anni fa dominava, tra la maggior parte degli studiosi delmondo antico, il convincimento che l’agricoltura in età romana nonavesse registrato innovazioni di rilievo, ma si fosse limitata a ripro-porre per secoli pratiche e consuetudini già note in ambiente medi-terraneo, in special modo a Greci e Cartaginesi.Solo in epoca recente, nell’ambito del più ampio dibattito sulle con-quiste tecnologiche e sulle loro implicazioni economiche, questa ten-denza a sottovalutare apriori il ruolo innovatore dell’agricoltura romanasi è andatamodificando, grazie anche alla nuova documentazione of-ferta dalla ricerca archeologica, che si va dotandodi raffinati strumentiper la ricostruzione dei paesaggi antichi (Lo Cascio 2006).A onor del vero, anche senza queste nuove testimonianze materialidei progressi dell’agricoltura romana, un’attenta analisi delle fontiscritte, in particolare dei principali scrittori di “cose rustiche” (Cato-ne, Varrone, Columella e Palladio) avrebbe consigliato unamaggioreprudenza nel sottovalutare l’apporto della civiltà dei Romani al pro-gresso in agricoltura.Partiamo proprio da questo punto: gli scritti di agricoltura.

Columella e l’agronomia.“Fino all’imporsi dell’agronomiamoderna, fondata sulle scoperte ot-tocentesche della fisiologia vegetale, nessun compendio agronomi-co in italiano, in francese e in tedesco ignorerà per diciannove secoliil modello latino, termine necessario di riferimento concettuale, pa-rametro insuperato di organicità”. Con queste parole Antonio Saltini,dopo un’attenta analisi delle fonti antiche sull’agricoltura, suggella ilsuo giudizio sulDe re rustica di Columella, da considerare vero e pro-prio “atto di fondazione del pensiero agronomico dell’Occidente…pietra miliare della riflessione sui rapporti tra l’uomo e la terra nellacornice di quella scienza greca e latina che ha costituito lamatrice del-la civiltà dell’Occidente” (Saltini 2002, p. 377 s.).Il trattato del celebre autore di origine spagnola (Cadice), scritto nel-la seconda metà del I secolo d.C., si discosta infatti dalla letteraturatecnica a noi pervenuta per il rigoroso impianto teorico che pone laconservazione e rigenerazione della fertilità del terreno a fondamen-to di ogni agire in campo agricolo, agire regolato da un costante im-pegno sperimentale, da norme argomentate col sostegnodell’esperienza e accompagnate da un’attenta analisi economica deirisultati.

Scoperte e innovazioni: pratiche agricole e selezione individualeL’agricoltura vive di tradizione, è per natura conservatrice. Questosemplice assunto, quasi autoevidente, basato sull’osservazione del-

la ciclicità e ripetitività delle pratiche agricole, è senza dubbio uno deimotivi che ha indotto a ritenere sostanzialmente immutata per secolil’agricoltura dell’Italia antica, dall’invenzione dell’aratro all’introdu-zione dell’agricoltura scientifica moderna.Eppure, se si abbandona una prospettiva troppo ampia per coglierei particolari e dalla quale si percepiscono solo informazioni sintetichee ci si avvicina per cogliere i dettagli, ci si accorge che, pur nella ripe-titività dei gesti e nell’apparente immutabilità dei paesaggi, si regi-strano cambiamenti, lenti ma sostanziali.Proprio anche grazie al trattato di Columella, conosciamo alcune del-le invenzioni e innovazioni tecnologiche in campo agricolo, fre-quentemente risultato di una lunga e lenta evoluzione che proprioin età romana ha raggiunto vette di eccellenza spesso in seguito di-menticate e ‘riscoperte’ nel Medioevo o nell’Età Moderna.Tra le pratiche agricole innovative ricordiamo, a titolo d’esempio, l’in-serimento dei legumi nel tradizionale avvicendamento biennale del-le colture, vera e propria ‘invenzione’ della rotazione che tanta fortunaavrà nel Medioevo (Saltini 2002, 368).;Da segnalare inoltre la diffusione su larga scala dell’erba medica trale foraggiere, con i noti effetti di coltura miglioratrice, oltre che di im-portante nutrimento per il bestiame, come testimonia lo stesso Co-lumella (De re rustica, II, 10, 25).;Oggi nuove varietà di esseri viventi, vegetali ed animali, vengono bre-vettate e di fatto sono considerate delle invenzioni. Ma la selezioneindividuale, cioè la modifica dei caratteri ereditari dei viventi interve-nendo nei processi riproduttivi, era nota e praticata fin dall’età anti-ca. Ai Romani ilmerito di avere ‘scoperto’ e soprattutto diffuso decinee decine di nuove varietà. Columella, ad esempio, cita due casi di se-lezione: la creazione di una varietà di vite amminea molto produtti-va, da lui ottenuta per innesto (De re rustica 3, 9, 7) e una nuovavarietà di pecora, ottenuta dello zio Marco Columella incrociandoarieti selvatici africani con pecore spagnole (7, 2, 5). Ma nella mag-gior parte dei casi, si tratta di scoperte che non hanno lasciato trac-cia evidente e tanto meno un nome dell’artefice: sono però anelli diuna lunga catena di incroci che ha modellato, ‘inventato’ e diffusogli ideotipi di alcune specie viventi utili, ereditate dall’antichità finoalle soglie dell’Età Moderna, quando, ad esempio, il tipo di suino èradicalmente mutato con l’introduzione delle razze cinesi (Saltini2002, p. 375).La mancanza dei nomi degli inventori antichi di una nuova specieo varietà, come del resto di una nuova macchina o di una nuovatecnica o procedura, non deve stupire. Occorre ricordare che mol-te di queste opere dell’ingegno si configurano in realtà come in-

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Le conquiste dell’agricoltura romana

Paolo Braconi

Sez. 7.a.b - Aratro (vomer) e suofunzionamento

Materiale: ferroOriginale: Antiquarium Comunale,Cronologia: età imperialeRiproduzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 3337

Ricostruzione dell’aratro a carrello: Niccolai snc.(Firenze, 2009)

Il vomer, cioè la punta dell’aratro, di legno pri-ma, poi in metallo, è costituito da una lamaappuntita a sezione quadrangolare e una con-cavità dai margini rialzati, che consente l’in-serimento nel dentale. Questo elemento, a suavolta è connesso alla stiva, che all’estremità su-periore presenta una manicula; nel dentale èinserito anche il buris fissato al timone.Plinio (Naturalis Historia, 18, 171-172) men-ziona quattro diversi tipi di vomere: il primotipo, quello più comune, è costituito da unaleva uncinata; un altro, utilizzato per i terre-ni più teneri, è una piccola punta posta al-l’estremità del dentale, la terza tipologia hauna lama lunga e affilata, che incide il suolotagliando via, contemporaneamente, le radi-ci delle erbacce; infine il vomere ‘coltro’ spac-ca le zolle di terra compatta, tracciando lelinee lungo le quali viene poi aperto il solco.Nonostante sia lo strumento simbolo del la-

voro agricolo, nessuna fonte fornisce unadescrizione puntuale ed esauriente del-l’aratro romano, mentre ampie informa-zioni si hanno a proposito del processo diaratura. Varrone (De lingua latina 20, 134)ricorda l’etimologia delle varie parti di cui

è composto l’attrezzo: “il termine aratro de-riva da “arat” (lavora), il vomere è così defi-nito perchè consente di “vomitar fuori” laterra, i dentalia, invece, svolgono la funzionedi “mordere la terra”, la stiva è l’elemento che“sta in piedi” ed infine la maniglia poiché te-nuta dall’aratore›”. L’unica notizia relativa aiprimi aratri in uso nell’agricoltura romana èrelativa alla distinzione tra aratro campano earatro romano, più adatto alla lavorazione diterreni compatti grazie alla sua maggiore so-lidità (Catone, De agricultura 135, 2). In Virgi-lio e Plinio si rintracciano dati relativi alprocesso di innovazione tecnologica che por-ta allo sviluppo di una tipologia più complessa.Nel primo libro delle Georgiche (I, 169-172;174) Virgilio descrive il procedimento co-struttivo e i relativi materiali utilizzati, di quel-lo che l’autore definisce currus, ovvero unaratro fornito di una ruota ed agganciato algiogo dell’animale. L’evoluzione di questo at-trezzo conduce alla realizzazione del plaumo plovum, di cui parla Plinio (Naturalis Hi-storia 18, 48), un aratro pesante detto anche‘a carrello’ e dotato di due ruote, di probabi-le origine non latina. (Forni 2006). I buoi trai-navano l’aratro aggiogati al bure e al timoneUn ulteriore sviluppo tipologico vede la crea-zione del versorium, aratro con vomere asim-metrico, dotato di cultro, che rovescia la zollaprimadell’aratura. Palladio (I, 43, 1) ricorda, inol-tre, la distinzione tra aratri semplici ed aratri adaures (orecchioni), in uso in età medio e tardoimperiale nei territori di periferia dell’impero ro-mano (penisola balcanica e area britannica).

C.D.F.

BibliografiaAthena 1998, cat. n. 76; Forni 2003, pp. 145-175; Forni 2006; Kolendo 1980, pp. 71-83;Marcone 1997, pp. 48-53; Misurare la terra1985, pp. 143-146 figg. 114-119; White 1967,pp. 123-145; White 1984, pp. 59-60.

Sez. 7.2 - Tecniche di aratura

L’aratro è lo strumento per la lavorazione deicampi utilizzato nelle operazioni che prece-dono e che seguono la semina. Le fonti anti-che riportano in modo estremamentedettagliato le norme da seguire affinché leoperazioni di aratura potessero garantire ilmigliore sfruttamento del suolo, sottolinean-do come la capacità di assorbimento del la-voro dipendesse da numerosi fattori, quali lecaratteristiche e il tipo di strumento utilizza-to, il numero di animali che costituiscono laforza lavoro, le condizioni naturali del terre-no, le dimensioni del campo, il tipo di coltu-ra che si intende seminare.Il passaggio dell’aratro poteva avvenire sol-tanto dopo un’attenta preparazione del cam-po, che consisteva in primo luogo nel diserbodello stesso, portato a temine con attrezzi qua-li la zappa o il rastrello (v. sez. 7.9). Seguivaquindi la prima operazione di aratura, che se-condo Plinio era eseguita in modo più o me-no accurato in relazione al tempo che vi sidedicava; questa doveva essere ripetuta al-meno due volte, in accordo con quanto è ri-portato anche da Varrone (I, 27, 3). L’autorespecifica, inoltre, che la prima aratura dovevaavvenire in un periodo compreso fra il 21 mar-zo e il 7 maggio, mentre la seconda fra il 24giugno ed il 21 luglio, o, eventualmente, dal22 luglio al 21 settembre (I, 30-33); nel casodei terreni pesanti, frequenti in Italia, l’opera-zione poteva essere eseguita fino a nove vol-te (Plinio Naturalis Historia, 18, 20). Ladirezione e la profondità del solco prodottosul terreno con la parte inferiore dell’aratro(dentalia) dipendevano dal controllo del mo-vimento della stiva ad opera dell’agricoltore.L’introduzione dell’’aratro a ruote’ deve averfacilitato la manovrabilità dell’attrezzo, am-mortizzando il movimento dei buoi aggioga-ti, in modo da rendere anche il lavoro menofaticoso. Secondo Columella (II, 4, 1) si pote-va considerare una buona aratura quella in cuii solchi venivano tracciati il più vicino possi-bile l’uno all’altro, mentre un’aratura esegui-ta male rendeva necessario procedereall’occatio, con la quale le zolle venivano smi-nuzzate con l’aiuto dell’erpice o della zappa.Erano in uso due modi di seminare: la semi-na sub sulco e quella in lira (Columella, II, 4,11). Quest’ultima prevedeva l’utilizzo di unaratro particolare, a cui erano aggiunte due

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vo nell’Età di mezzo, ma è stato mostrato che furono i Padano-Veneti di età romana a inventarla e denominarla (Forni 2006). Pur-troppo un oggettivo giudizio sulla sua fortuna e diffusione in etàantica è inficiato dalla scarsità e qualità della documentazione og-gi disponibile.Ed è proprio grazie ad unmiglioramento della documentazione, inquesto caso di quella archeologica, che ora si può sfatare un altroluogo comune che per anni ha tenuto banco tra gli antichisti: quel-lo sul mulino ad acqua (Sez. 3, n. 12). Si riteneva infatti che, seb-bene fosse un’invenzione greco-ellenistica (è descritta infatti daErone di Alessandria, vissuto nel I secolo d.C.), i Romani non l’aves-sero utilizzata che in rari casi e che solo in età medievale se ne sa-rebbe ‘riscoperto’ l’uso. Oggi che gli archeologi sonomeglio attrezzatiper riconoscere le tracce lasciate da questo tipo di impianti, se nescoprono continuamente di nuovi nelle varie regioni dell’Impero,così che la diffusione del mulino ad acqua nel mondo romano ini-zia a non sembrare più un’eccezione (Brun 2006).Rimanendo nel campo della meccanica, altra invenzione romanaè certamente l’erpice a graticcio (crates). Questo tipo evoluto dimacchina è diverso dal semplice e già noto erpice a stanga chio-

data (irpex). J. Kolendo ha da tempo mostrato che l’introduzionedi questa macchina più evoluta fece registrare un notevole ri-sparmio di forza lavoro (Kolendo 1980). L’erpicatura è infatti ope-razione molto importante nel ciclo della lavorazione dei terreni,fondamentale sia per prepararli e mondarli dalle infestanti, sia percompletare la semina; operazioni che in mancanza di questo mac-china a trazione animale dovevano essere eseguite a mano.L’agricoltura come sistema di conoscenze da implementare speri-mentalmente per affinarne le potenzialità economiche, la pratica diquesto sistema con invenzioni e innovazioni sia in ambito proce-durale che in ambito tecnologico, l’invenzione di un’ideologia delpossedere e vivere (del)la terra, sono solo alcune delle “novità du-rature” che l’agricoltura romana ha trasmesso al nostro mondo.

BibliografiaBraconi 2008; Brun 2006; Carandini 1980; Forni 2002; Forni 2006; Forni, Marco-ne 2002; Kolendo 1980; Innovazione 2006; Lo Cascio 2006; Marcone 2006; Ni-colet 1989; Saltini 2002; Traina 1994; Traina 2006; Zelender 2006.

198

Modellini in bronzo di attrezzi agrico-

li, fra i quali c’è l’erpice a graticcio

1. da Colonia;

2. da Rodenkirchen

(da Kolendo 1980)

Vomere in ferro

Ulteriori informazioni utili alla comprensionedelfunzionamento della macchina sono desumibi-li dalle rappresentazioni riportate su una serie dirilievi provenienti dallaGallianord-orientale edal-la Germania. I bassorilievi funerari di Montau-ban-Bozenol (odierno Belgio), Arlon, Treviri,Coblenzadocumentano, infatti, formediversedimietitrice comesi nota siadal tipodi attacco, dif-ferente a secondadell’animale aggiogato, asino,mulo o cavallo, sia dalle dimensioni del casso-ne. È possibile pertanto identificare due distintischemi iconografici: da un lato la macchina insosta, con un uomo colto nell’atto di ripulirne identi dalle spighe, dall’altro il veicolo in movi-mento. Il motivo della mietitrice gallica diviene,nei luoghi di utilizzo, il simbolo stesso del lavo-ro nei campi, tanto da essere rappresentata an-chesul calendario rurale scolpitosullaPortaNigraa Treviri o sulla porta diMarte a Reims. I rilievi sidatano tutti in periodo compreso tra la fine delII sec. d.C. e l’inizio del III sec. d.C. Un dato par-ticolarmente interessante è quello sottolineatoda Palladio, relativo al compendium, ovvero lapossibilità di effettuare il raccolto in breve tem-po con un notevole risparmio di manodopera.Infatti, la raccolta delle sole spighe, effettuata inagosto, consentivadi rimandare la trebbiatura alperiodo invernale, facendo diminuire, quindi, laconcentrazionedel lavoronel periodo estivo. Ta-le risparmio di tempo si rivela, però, vantaggio-sosolonel caso incui lapaglianondovesseessereutilizzata per altri scopi: essa infatti veniva cal-pestata o dopo esser stata bruciata poteva ser-vireda fertilizzante. L’usodellamietitrice, rispettoagli attrezzi tradizionali, comportava anchedeglisvantaggi legati alla perdita di parte del cerealeda raccogliere. Nonostante si potesse regolarel’altezza del bordo del cassone, non era possibi-le afferrare e strappare tutte le spighe dato il li-vello non uniforme del cereale; inoltre, parte deisemi poteva andare perduto a causa dell’impi-gliarsi delle spighe tra i denti.L’esigenza di effettuare il raccolto in tempi ra-pidi può, in qualche maniera, spiegare il moti-vodell’usoprevalentedellamietitricenelle regioninord-occidentali; la piovosità del periodo esti-

vo, infatti, rendeva necessario immagazzinarelemessi velocemente, onde evitarne la perdita.Oltre a fattori geografici e climatici, un ulterio-re elemento che possa rendere ragione del fat-to che l’uso della mietitrice fosse relegatoessenzialmente alleGallie, si rintraccia nella ca-renza e nel costo elevato della manodopera di-sponibile in quei territori.ComesottolineaPalladio, lamacchinaveniva im-piegata esclusivamente nei campi pianeggianti,in quanto lapresenzadi solchi nel terrenoavreb-be reso difficile strappare spighe di altezza di-versa.Rispetto agli attrezzi comunemente inusonell’agricoltura romana, la grande innovazioneapportata dalla mietitrice gallica consiste nel-l’unionedi elementi semplici, quali rastrello e cas-sa, in una macchina complessa e perfezionata,che sfrutta la forza animale. Non è chiaro, tutta-via, se la sua invenzione risalga ad un momen-to precedente la conquista romana, in quanto lamancanza di manodopera nelle campagne po-trebbe essere dovuta proprio all’intensa urba-nizzazione che si registra in quel periodo. Ancheper quanto concerne la sua scomparsa, la que-stione è controversa e non trova soluzione nep-pure nell’accurata descrizione palladiana, chepotrebbe derivare da una fonte precedente cuil’autore attingeper la suaoperadi carattere com-pilativo, anche se la precisione delle informazio-ni fornite farebbepropendereperun’osservazioneautoptica. Sulla base di tali osservazioni è possi-bile ascriverne l’impiego lungo un arco cronolo-gico che va dal I sec. a.C. almeno al V sec. d.C.Sin dal XVI secolo vengono proposte delle rico-struzioni che per quanto prendano spunto dallefonti letterarie nonsi basano, tuttavia, suun’ana-lisi scientifica dei dati e si manifestano quasi deltutto arbitrarie; a partire dall’inizio dell’800, in-vece, le restituzioni grafiche realizzate possonoessere considerate filologicamente più corrette,fino alla proposta più attendibile avanzata daH.Nachtweg nel 1911. Tuttavia, è soltanto in segui-to al rinvenimento del rilievo di Montauban-Bo-zenol, nel 1958, che le ricostruzionidellamietitriceacquistano verosimiglianza funzionale e dimen-sionale con la costruzionedimodelli al vero fun-zionanti (Fouss 1960;Zeitler 1998)e ricostruzionigrafiche (Hodges 1970; Beaune 1980 ca.).

C.d.F.

BibliografiaKolendo 1980, pp. 155-177; Marcone 1997, pp. 53-55;Moissonneuse 2000; Renard 1959, pp. 37-42; White1967a, pp. 157-173; White 1967b, pp. 634-647; White1984, pp. 60-62.

Sez. 7. 4 - Mola per grano

Materiale: pietra (generalmente lavica) e legnodimensioni: 150 x 150 x 150 cmCronologia: dall’età repubblicana all’epocatardo antica

Ricostruzione: Roma, Museo della CiviltàRomana

La mola per il grano è una macchina utilizzataper la produzione della farina. Il suo impiego fa-ceva seguito alle operazioni di trebbiatura e se-tacciaturapermezzodelle quali venivanoestrattele cariossidi del granodalla spiga, sbucciateme-diante battitura.La cospicua documentazione letteraria ed ico-nografica unita al gran numero di rinvenimen-ti archeologici ha consentito l’individuazione elo studio di diverse tipologie di macina, dagliesemplari più semplici a quelli dimaggiore com-plessità, processoderivato da una graduale evo-luzione tecnologica.Una tipologia semplificata era quella della ma-cina rotante, menzionata anche dallo PseudoVirgilio (Moretum, 24-31; 38-42) composta dapietre appaiate (macinatoi) rispettivamente con-cava l’inferiore (meta) e convessa la superiore(catillus). Al centrounperno ligneo, che agganciale due parti, era connesso al timone orizzonta-le che mosso con movimento rotatorio azio-nava lamacchina consentendo lamacinazioneper sfregamento. In tal genere di meccanismol’attrito tra le due pietre era concentrato mag-giormente lungo i bordi. Le dimensioni si aggi-ravano tra i 30 e i 43 cm di diametro e i 10 cmca. di altezza.Catone (De agricultura, 10. 4; 11. 4) riconducequesta tipologia alla mola manuaria, detta an-che hispaniensis, utilizzata in Spagna già a par-tire dal IV sec. a.C. e diffusa poi nella Galliameridionale e in Sicilia. Le potenzialità dellama-cina rotante si esplicano in particolare nel mo-mento in cui alla forza lavoro dell’uomo sisostituisce quella animale (asini, cavalli, muli).Della mola asinaria si conoscono numerosiesemplari, fra i quali uno da Morgantina ana-logo a quelli di Pompei (intorno ai 70 cm di al-tezza e 73 cm ca. di diametro) e Ostia ma di

201

aures (cd. ‘aratro a due orecchioni’), che con-sentiva di scavare il solco e ricoprire con-temporaneamente i semi.La scelta del tipo di aratro veniva dettata, ol-tre che dal tipo di coltura, anche dalle carat-teristiche del terreno da coltivare: secondoCatone sui terreni pesanti l’aratro più adattoera quello romano di struttura più solida ri-spetto a quello campano adatto a terreni piùleggeri. Sempre dal tipo di terreno dipende-va, inoltre, la scelta degli animali: sulle terreleggere oltre ai buoi potevano essere aggio-gate anche vacche e somari, mentre quellepesanti rendevano necessario l’impiego dianimali da traino più robusti.Non meno importante era il numero di be-stie usate come forza lavoro e la tipologia diattacco con la quale venivano fissate all’ara-tro. Di norma esso era trainato da una cop-pia di buoi, ma Plinio riferisce che nel casodei terreni particolarmente difficili o di aratrimolto pesanti si potesse sfruttare fino a 8 ani-mali, imbrigliati a coppia, l’una dietro l’altra(Plinio, Naturalis Historia, 18, 18, 170-173).

S.G.

BibliografiaKolendo 1980, pp. 57-128; Marcone 1997, pp. 48-53;Forni 2006.

Sez. 7.3 - Mietitrice gallica

Materiale: legno, ferro, cuoio, cordaDimensioni: 144/154 cm ca. di larghezza; 70/75 cmdiametro delle ruote; 120-130 cm ca. larghezza delpettine (Fouss 1960); 400 cm di lunghezza, 130cm larghezza della cassa, pettine posto a 80 cmda terra (Zeitler 1998).

Allo stato attuale delle conoscenze nessunatestimonianza archeologica è stata rinvenuta. Lamacchina è nota grazie alla descrizione delle fontiletterarie e da alcune attestazioni iconografiche.

Cronologia: I a.C. – V d.C.

La ‘mietitrice gallica’ è una macchina agricolacompostadaunacassa lignea, fornitadi ungros-sopettinemetallicodai denti ricurvi,montata sudue piccole ruote emunita di timoni laterali, cuisi aggancia il giogo della bestia da soma. L’ani-male èposizionatosul retro e rivolto verso la cas-sa stessa. Come attestano le fonti letterariel’utilizzo di questo genere di macchina pare dif-fuso, prevalentemente, nelle regioni della pro-vincia gallica.Dal raffronto tra la notizia di Plinio,relativa all’esistenza di una mietitrice caratteriz-zata da “enormi forche con il bordo dentato emontate su due ruote, spinte attraverso i campi

da una bestia da soma, aggiogata in senso con-trario. In modo tale da lasciar cadere le spighedivelte nella forca stessa” (Naturalis Historia, 18,296), e la più estesa descrizione che ne dà Pal-ladio (De re rusticaVII, 2, 2-4) si evince chegli au-tori, in realtà, fanno riferimento a due tipi. Pliniosembra descrivere il vallus, una sorta di granderastrellomosso dalla trazione di un bovide o unequide, mentre Palladio pare riferirsi al carpen-tum, un veicolo più complesso, composto dauna cassetta formata da tavole lignee di altezzaminoresulla fronte rispettoai lati edal retro,men-tre la loro inclinazioneverso l’esternodàunamag-giore larghezzaallapartesuperiore; anteriormenteè fissatoadessaunpettine fornitodi denti, in fer-ro, ricurvi e distanziati. Alla cassa di raccolta siagganciano due timoni laterali cui è attaccato ilgiogodell’animale, generalmenteunbue.Quan-do la forza dell’animale aziona il veicolo soltan-to le spighe vengono tagliate e raccolte, mentrela paglia viene lasciata indietro; il bubulcus, dadietro il tiro, alzando ed abbassando la macchi-na, regola il taglio’. È difficile stabilire se i due ti-pi fossero in uso contemporaneamente oppurese il carpentum non costituisca, in realtà, un’ap-plicazione evoluta del vallus.

200

Rilievo funerario rinvenuto nel 1958 reimpiegatonelle mura di un castello tardo-romano di

Bozenol (Belgio)(Collection Musée gaumais - B-Virton,

Montauban, Museo Lapidario)

Ricostruzione grafica del vallus (F.G.)

Macina per grano

a trazione animale

(da Adam 2001,

fig. 735)

parte centrale della trave (prelum). Un perfe-zionamento successivo ha condotto alla realiz-zazione di una pressa costituita da un peso inpietra, una trave e un tamburo girevole: una cor-da passava sotto una puleggia collocata sul pe-so e sopra un’altra situata sulla trave eraggiungeva il tamburo. Quando la corda eraavvolta al tamburo la trave riceveva l’intero pe-so della pietra. La massa da pressare era rac-chiusa entro sacchi di corda o cesti di vimini;uno o due canaletti scavati nel piano della pres-sa raccoglievano il succo e lo conducevano neitini per l’immagazzinamento.Per la pressatura di quantità limitate di prodot-to si preferiva la pressa a vite. Secondo la testi-monianza di Plinio (Naturalis Historia, 18, 317)la sostituzione della pressa a trave con unmo-dello che sfruttava, invece, il sistema della vite‘senza fine’ (cochlea). L’autore latino informadell’esistenza di due varianti, che si differenzia-no nel modo di fissare la vite, una inventata inGrecia intorno alla metà del I sec. a.C., l’altra,derivata daunperfezionamento tecnologicodel-la prima, diffusa a partire dalla metà del I sec.d.C. Alcuni degli elementi compositivi della pres-sa sono comuni al torchio a leva, infatti anchein tal caso agli arbores è connesso il prelum, al-l’estremità del quale si fissa la vite che può es-sere ancorata al suolo o agganciata ad uncontrappeso fisso, e azionata in ogni caso permezzo di aste (stella). La superficie di spremi-

tura (ara), che conteneva la polpa ed era dota-ta di un canale di deflusso, era collocata su unabase in legno o muratura, inserita in un allog-giamento ricavato nel pavimento. Il sistema avite veniva applicato anche a macchine di di-mensioni minori, come la ‘pressa portatile’ de-scritta da Erone di Alessandria (Meccanica, 3,19) nel I sec. d.C.: la vite in questo caso attra-versava perpendicolarmente la trave e il motorotatorio azionava la pressa: in sostanza, in uncaso la vite si applica all’estremità del prelum,sostituendo l’argano o il sistema di corde e pe-si; nell’altro caso, la vite centrale sostituisce ilprelum (torchio a vite vero e proprio).Un altro tipo in uso era la pressa a cuneo, no-ta da fonti letterarie tarde (quali i trattati di far-macia),ma rappresentata sulle pareti di alcunecase di Pompei ed Ercolano; si trattava, essen-zialmente, di un congegno composto da unabase lapidea, nel cui incavo era contenuta lapolpa, e una sorta di telaio superiore all’inter-no del quale era sistemata una trama di cuneied assi lignei. Questi ultimi, sporgenti dai lati,venivano spinti all’interno a martellate com-primendo in tal modo il contenuto della base.La macchina era collocata in ambienti apposi-tamente predisposti, descritti da Catone (18, 3)e definiti torcular: una stanza di circa 13,66 x15,44 m poteva ospitare fino a quattro mac-chine, il pavimento doveva essere in opus spi-catum e le pareti dovevano essere rivestite in

cocciopesto. I torchi erano allineati con i preladisposti in direzione est-ovest e gli arbores pa-ralleli alla superficie di spremitura. Nel cavedio,un cortile centrale aperto e comunicante con iltorcular, erano disposti i meccanismi per l’ab-bassamento del prelum. L’attività produttiva siconcentrava, dunque, in un settore specificodel complesso sistema integrato delle ville ru-stiche ed era garantita dall’impiego di mano-dopera schiavile e forza lavoro animale.

C.d.F.

BibliografiaBrun 1986; Curtis 2001, pp. 380-394; Settefinestre 1985,pp. 241-250; Singer, Holmyard, Hall, Williams 1967,pp. 114-121; Thurmond 2006, pp. 86-103; 124-128;White1984, pp. 67-72;

203

minori dimensioni (23-35 cmca. di altezza). Re-sta in dubbio tra gli studiosi la notizia riporta daPlinio (36, 135) dell’invenzione di questa molaa Volsinii.In genere questo tipo di macina poggiava suuna piattaforma cilindrica (140 cm ca. di dia-metro e 45 cm di altezza) sulla quale si posi-zionava la meta. Il sovrastante catillus, invece,era dotato di un foro centrale nel quale venivainserito una sorta di imbuto per il dosaggio delgrano; di esso, tuttavia, non restano tracce ar-cheologiche per cui non è perfettamente chia-ro come venisse controllato l’inserimento delgrano. Esso prevedeva, inoltre, una superficieconica ruvida su ambo le estremità in manieratale da poter essere rigirato qualora fosse di-ventato troppo liscio a causa dello sfregamen-to. Alla parte centrale del catillus, più stretta eche assume una forma a tramoggia, era ag-ganciato un sistema di travi lignee emorse percondurre il movimento dell’animale controlla-todaunoschiavo; allo stesso tempounsecondoschiavo raccoglieva la farinamacinata che si ri-versava sulla piattaforma di base tramite un fo-ro praticato nellameta. Dall’ironico racconto diApuleio (Metamorfosi, IX, 11) si evincono ancheutili informazioni relative alla collocazione del-la macina in ampi spazi aperti caratterizzati dasolide pavimentazioni per impedire agli animalidi scivolare ed essere in grado di sostenere ilpeso della macina stessa.L’unica innovazione introdotta nel corso dei se-

coli al congegno rotante consiste nello sfrutta-mento di una forza motrice diversa rispetto aquella umana o animale.Si ritiene che il mulino ad acqua sia un’inven-zione diffusasi a partire dal II sec. a.C. (sez. 3,n. 12).Strabone (12, 3, 30) riferisce della costruzionedi un mulino ad acqua nel Ponto ad opera diMitridate VI; tuttavia, la prima fonte diretta è Vi-truvio (10, 5, 2) che ne fa una descrizione det-tagliata: il funzionamento si basa sulmovimentodi una ruota intorno ad un asse, moto che per-mette l’avvolgimento di una catena intorno al-l’asse stesso, al quale è fissato un tamburodentato posto in verticale (tympanum denta-tum) che gira contemporaneamente alla ruota,la quale deve scendere a sua volta sotto il livel-lo dell’acqua per consentirne il sollevamento.La trasmissione del moto rotatorio dal tambu-ro verticale ad un connesso tamburo orizzon-tale (tympanum) determina il movimentocircolare della macina.Le prime attestazioni archeologiche sono rela-tive al I sec. d.C., ma un’ampia diffusione si ri-scontra in particolare nel corso del III-IV sec. d.C.; il suo uso è esteso dall’Italia alla Grecia, dal-le provincie galliche a quelle africane.

S. G.

BibliografiaBrun 2006; Curtis 2001, pp. 335-358; Singer, Holmyard,Hall, Williams 1967, pp. 112-114; Thurmond 2006, pp.40-51; White 1984, pp. 63-67.

Sez. 7.5.6 - Torchio vinario e oleario(Torcular vinarium e olearium)

Materiale: pietra, legno e ferroCronologia: dall’età repubblicana fino ad epocatardo antica

Ricostruzione: Roma, Museo della Civiltà Romana

Il torchio è unamacchina inventata per estrarreoli e succhi, in particolare quelli delle olive e del-l’uva. La preparazione dell’olio d’oliva prevede-va una fase preliminare che consisteva nelloschiacciamentodel frutto.Questa operazione sieffettuavamediante l’uso dellamola olearia, co-stituita da due elementi: uno fisso, definito ‘sot-tomola’, l’altromobile, detto ‘mola verticale’. Lasottomola generalmente poggiava sua una ba-se in muratura ed era costituita da un disco inpietra al centro del quale si collocava un dado li-gneo fornito di unperno in cui alloggiava unpa-lo verticale (columella) che ruotava sul proprioasse. Nella columella era inserito un secondopalo in legno, chiamato cupa, a suavoltadispostoall’interno del foro praticato nella mola vertica-le. La sottomola poteva essere provvista di unaserie di fori lungo il perimetro, nei quali si inse-rivano delle asticelle di legno racchiuse da unbordatura dello stesso materiale, al fine di im-pedire la fuoriuscita del prodotto della lavora-zione. L’estremità della cupa era collegata aifinimenti che imbrigliavano l’asinoo ilmulo (Co-lumella 12, 58). Un modello perfezionato era ilcosiddetto trapetum (Catone,Deagricultura, 20-21) che prevedeva una robusta colonna centra-le forata all’estremità superiore perl’alloggiamento della columella e sia sottomolache mola verticale dalla forma piano-convessa(diametro di 80 cm ca.). Generalmente nellestrutture a carattere produttivo la mola venivacollocata in un ambiente adiacente a quello oc-cupato dal torchio.Le operazioni di pressatura, sia delle olive chedell’uva, prevedevano l’utilizzo di una pressanota dalle fonti letterarie. La tipologia più anti-ca, descritta da Catone (ibid., 18-19), era la co-siddetta ‘pressa a trave’: essa applicava ilsemplice principio della leva ed era costituita dadue montanti verticali inseriti in fori praticatatinel piano pavimentale in modo da assicurarnela stabilità (arbor e stipes). All’arbor era fissatal’estremità (lingula) della trave trasversale (pre-lum), lunga fino a 15m e tirata all’altro capo dauna fune fissata ad un tamburo del diametro di40-50 cm (sucula). Il frutto, sistemato in sacchio tra tavole di legno, veniva schiacciato sotto la

202

Mola asinaria. Ricostruzione

(Roma, Museo della Civiltà Romana)

Trapetum (torchio oleario) (da Adam 2001, fig. 727) Mola olearia (ad energia elettrica, 1950)

Pressa a leva (da Curtis 2001, fig. 33) Pressa a vite ‘senza fine’ (Plinio, Naturalis Historia, 18, 317) (da Curtis 2001, fig. 35).

Pressa a vite (da Pompei)

(ricostruzione: Roma,Museo della Civiltà Romana)

In ambito agricolo il suo utilizzo è legato al-le operazioni di preparazione del terreno, ri-pulitura dalle radici infestanti e frangitura dellezolle che segue la fase di aratura (Columella,2, 2, 28); un’applicazione ulteriore riguardala cura degli alberi da frutta e in modo parti-colare la pratica dell’ablaqueatio – cioè la crea-zione di solchi intorno alla pianta – di cui parlaPalladio (2, 1).Esistono anche altre due tipologie di picco-ne, varianti del tipo in esame, distinte in ba-se al differente grado di curvatura di una dellepunte e connesse a campi di applicazione cheesulano dal contesto strettamente agrario.L’esatto riferimento del termine latino dola-bra e il piccone trova conferma in un rilievofunerario proveniente da Aquileia, sul qualealla rappresentazione dell’attrezzo corrispondel’iscrizione che menziona un dolabrarius ap-partenente al Collegio dei fabbri (CIL V, 908).

S.G.

BibliografiaMarcone 1997, p. 44; White 1967, pp. 61- 64.

Sez. 7. 9. Rastrello

Originale: Antiquarium ComunaleMateriale: ferro e legno.dimensioni: cm 30×30×30Cronologia: età imperialeCopia: Roma, Museo della Civiltà Romana, inv. n.3339

Il rastrum è un attrezzo amano utilizzato nel-la lavorazione del suolo, composto da un ele-mento in ferro provvisto di una serie di dentiricurvi – solitamente quattro o più (Catone,X, 3; XI,4) – disposti parallelamente ma concurvatura e inclinazione dissimile; un forocentrale consente l’inserimento del bastoneligneo.Le caratteristiche di questo strumento, comeevidenziato nelle fonti letterarie, permettonodi frantumare le zolle dopo l’aratura batten-do il terreno (Plinio, Naturalis Historia, 18,180) del quale viene eseguita la pulitura sra-dicando le radici più profonde mediante unmovimento a trazione (Palladio, I, 43, 3).Virgilio (Georgiche, I, 94, 5; 160; 3, 534) famen-zione di tale attrezzo in diverse occasioni esottolinea il notevole sforzo richiesto dal suoimpiego. Le testimonianze antiche recano in-direttamente ragione della necessità dell’uti-lizzo del rastrello in particolare dopo le

operazioni di aratura, nella fattispecie in areamediterranea, al fine di predisporre il terrenoalla semina e subito dopo quest’ultima perinterrare le sementi prima dell’inizio della sta-gione invernale.Una variante semplificata del rastrello, il bi-dens, doveva essere utilizzato anche nell’am-bito della coltivazione dell’ulivo (Columella,5, 9, 12) e nella viticoltura (Columella, 4 14, 1;17, 8; Plinio, ibid., 17, 159), nella fase di im-pianto del vigneto, favorendo la penetrazio-ne dell’acqua nel terreno, e nelle operazioniperiodiche di diserbamento (Virgilio, Georgi-che 2, 354, 7).Oltre all’esemplare dell’Antiquarium Comu-nale di Roma se ne conoscono altri, apparte-nenti alle collezioni del Museo Archeologicodi Firenze (inv. 10779) e del Museo Naziona-le di Napoli (inv. 71733). È noto anche un pezzo, rinvenuto a Boscoreale, ma attualmenteconservato a Chicago.Di grande interesse è una scena di viticoltu-ra raffigurata su un mosaico di Cherchel (Al-geria).

S.G.

BibliografiaMarcone 1997, p. 44; Misurare la terra 1984, pp. 156-158; White 1967, pp. 52-56.

205

Sez. 7.7 - Falce

Materiale: ferro.dimensioni: cm 15×15×15Cronologia: età imperialeRiproduzione da originale: Roma, Museo dellaCiviltà Romana

La falce è uno strumento in ferro con codoloper il manico e lamamonofusi, la cui funzioneè determinata sia dalla forma che dalle di-mensioni e dalla curvatura assunte dalla lamastessa. Dalla lunghezza del manico dipende ladistinzione riportata da Plinio (Naturalis Hi-storia, 18, 261) tra falce italica e falce gallica: laprima, più corta, poteva essere utilizzata anchetra i rovi, la seconda, più lunga, tagliava solol’erba di media altezza. Il tipo più comune è lafalx messoria, definita anche semplicementefalx, caratterizzata dalla presenza di un mani-co in legno ricurvo e un piccolo seghetto, adat-ta ai diversi sistemi di mietitura del grano,descritti dalle fonti, in uso in età romana. Nonsi può escludere che durante la mietitura fos-se utilizzata anche la falx stramentaria – lette-ralmente ‘taglia paglia’ – menzionata soltantoda Catone, il cui impiego si limitava, probabil-mente, ad eliminare la paglia residua lasciatasul terreno. Un diverso uso è quello che si fadella falx faenaria, caratterizzata da una lamaconcava posta ad angolo retto rispetto al ma-nico dritto, impiegata per tagliare l’erba dai cam-pi “quando ha cessato di crescere e hacominciato a seccare” (Varrone, I, 49, 1).

Per la viticoltura si utilizza, invece, la falx vini-toria descritta in maniera accurata da Colu-mella (IV, 25): il manico, dritto e di piccoledimensioni, si arresta in corrispondenza di unalama rettilinea, definita coltello, che piega conuna leggera curvatura (seno) e termina con unbecco appuntito. Una tipologia specifica è lafalx vineatica, impiegata esclusivamente pertagliare i grappoli (Columella XII, 18, 2).Catone (10, 3, 11 4) fornisce un elenco detta-gliato delle differenti tipologie di falces per cia-scuno dei campi in cui essa trova applicazione:vengonomenzionati 5 falcetti per tagliare i ro-vi (falces sirpiculae), 6 roncole da bosco (fal-ces silvaticae), 6 roncole da alberi (falcesarborariae) e infine 40 falculae vineaticae.

C d F

BibliografiaMarcone 1997, pp. 44-48;White 1967, pp. 77-103; White1984, pp. 28-29; 58.

Sez. 7.8 - Piccone a scasso

Originale modernoMateriale: ferro e legno.dimensioni: cm 30 x 10 x 60Cronologia: età imperialeRiproduzione: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 3223

Il ‘piccone a scasso’ (dolabra), è un attrezzomanuale caratterizzato dalla presenza alleestremità di due punte differenti, una a scu-re e l’altra a picco; al centro è ricavato un fo-ro per l’inserimento del bastone ligneo.Le fonti letterarie antiche non forniscono in-formazioni utili alla sua definizione formale,ma tre diverse voci di glossari ne fanno men-zione quale sinonimo del termine grecoπελεκυο.

204

Sezione 8

legno e metalli

che doveva esistere per elementi come maniglie, borchie etc, maanche per la fusione di grandi bronzi statuari, la figura veniva som-mariamente modellata in argilla, su di essa si plasmava la ceracon tutti i dettagli e la cera veniva a sua volta ricoperta di argilla;riscaldando il tutto, la cera fonde e fuoriesce da fori predisposti elo spazio lasciato libero viene riempito con bronzo fuso; dopo ilraffreddamento la copertura esterna in argilla viene rotta e la sta-tua risulta composta da un sottile strato di bronzo e con un’ani-ma di argilla, che viene poi eliminata attraverso la base apertadella statua. Sculture di grandi dimensioni potevano essere rea-lizzate in più parti separate, che venivano poi assemblate conchiodi o saldature. Si passava poi alla politura con strumenti ap-positi, lime, ceselli (caela) e abrasivi.

- doratura e argentatura: per ottenerle si incollava con una sostan-za adesiva una sottilissima sfoglia d’oro o d’argento su una su-perficie bronzea oppure si spennellava l’oggetto con un amalgamad’oro o d’argento misto a mercurio, che riscaldato evapora la-sciando sulla superficie del bronzo una sottile doratura o argen-tatura.

- ageminatura: tecnica ad intarsio, già nota fin da epocamicenea nel-l’area mediterranea, che consiste nel decorare con effetto policro-mo oggetti di bronzo (ma anche d’argento). La superficiemetallicaveniva scavata fino ad ottenere il disegno voluto in negativo; le su-perfici incavate venivano poi riempite con fili o sottili lamine d’oro,d’argento o rame rosso a secondo dell’effetto cromatico da otte-nere, che venivano ribattuti con un martello per incastrarli neglispazi predisposti. Tecnica analoga a quella del niello, smalto com-posto da polvere di rame, argento e piombo, utilizzata su vasi, mo-bili, per impreziosirli; nelle statueper ravvivare gli occhi, le sopracciglia,le labbra, come pure i diademi e particolari delle vesti.

- smalto: la decorazione a smalto era riservata ad oggetti per usopersonale (fibbie, borchie..); la tecnica è del tutto simile a quellache si usa oggi: una sostanza vitrea ridotta in polvere e coloratacon ossidi metallici e mescolata con acqua veniva inserita su unabase di bronzo già predisposta con spazi in negativo a seconda

del disegno desiderato; l’oggetto veniva poi sottoposto a leggeroriscaldamento e la polvere di vetro fondendo aderiva al metallo.

- stagnatura: procedimento importante per il trattamento delle su-perfici interne del vasellame da cucina e consisteva nel far colaree scorrere il metallo fuso all’interno dell’oggetto da stagnare Dalmomento che il punto di fusione dello stagno è inferiore a quel-la del bronzo, l’oggetto non veniva danneggiato. Plinio attribui-sce questa invenzione ai Galli Biturigi (Naturalis Historia, 34, 162)e rinvenimenti archeologici lo hanno confermato.

Per l’argento i Romani ebbero una vera e propria passione, ben de-scritta da Petronio nel suo Satyricon. Singolare è anche il modo incui sono a noi pervenuti gli argenti romani: si tratta per lo più di‘tesori’, cioè raccolte di pezzi di eccezionale valore, nascosti in oc-casione di catastrofi, guerre, invasioni o anche solo per tesauriz-zazione (v. sez. 8, 7a.b.); chi li nascose pensava di poter tornare agodere della bellezza di quegli oggetti, ma non poté più farlo edora noi, per caso, li scopriamo.L’argento è rintracciabile nei depositi di galena argentifera (solfatodi piombo), molto di rado si trovano giacimenti di argento puro(Plinio, Naturalis Historia, 33,95, 96-97); noto fin dal III millennioin AsiaMinore, vengono sfruttati successivamente i giacimenti del-le Cicladi, in Attica (Laurion). Il metallo prezioso venne poi sem-pre più sistematicamente ricercato perché sempre più richiesto,anche per la fusione di monete; nel I secolo d.C. l’argento era sta-to individuato in quasi tutte le province dell’impero, in particolarein quelle occidentali, soprattutto in Spagna. In Gallia i giacimentierano già noti a Cesare (de Bello Gallico, 7, 22); vennero sfruttatiinoltre quelli in Sardegna, in Asia, Serbia e Armenia (v. sez. 8,1).L’argento veniva lavorato dall’argentarius, dal caelator, dal tritor ar-gentarius (politore), dal flaturarius (fonditore), dall’inaurator (do-ratore).Le tecniche di lavorazione sono del tutto simili a quelle del bron-zo: martellatura, fusione, saldatura, cesellatura, sbalzo, incisione,fusione a cera persa, niello, doratura.

G. C.

Bibliografia di riferimentoPirzio Biroli Stefanelli 1990, Pirzio Biroli Stefanelli 1991, in particolare B. Pettinau,pp. 3-35.

209

Il bronzo è una lega metallica, i cui composti principali sono il ra-me e lo stagno: tra l’oro e l’argento, metalli destinati alla produ-zione di oggetti di lusso o comunque preziosi, e il ferro utilizzatoprevalentemente per realizzare oggetti con scopi pratici, il bronzosi trova in tutte le epoche impiegato sia per ornamenti raffinati cheper armi, oggetti di arredo e di uso comune.Diffuso sia in Oriente, raffinatissimi i bronzi cinesi, che in Occi-dente, nella Grecia classica con opere di pregio eccezionale, bastipensare ai c.d. bronzi di Riace, giunge a Roma, dove era già notodalle esperienze magnogreche ed etrusche, e si diffonde soprat-tutto con le conquiste del Mediterraneo, che danno accesso a nuo-vi baciniminerari, quali quelli spagnoli (sez. 8.1); Strabone (Geografia,3.2.8) ne parla e Plinio (Naturalis Historia, 3, 30) infatti ricorda che“quasi tutta la Spagna abbonda in miniere di piombo, ferro, sta-gno, argento e oro”.L’uso del bronzo, soprattutto come strumento di espressione arti-stica, attraversa i secoli dal Medioevo al Rinascimento, per giun-gere fino alla nostra epoca, ancora apprezzato mezzo espressivodell’arte contemporanea.Sono soprattutto Pompei ed Ercolano che hanno restituito bronzilavorati ottimamente conservati e di grande interesse non solo perla fattura, ma anche per la variegata tipologia di utensili che face-vano parte della vita quotidiana per uso domestico, negli arredi del-le case, nelle attività commerciali ed edilizie delle due città vesuviane;questi bronzi hanno avuto una grande importanza per il gusto ar-tistico del tempo ed hanno influenzato le successive tendenze peril ritorno all’antico che si manifesteranno nel XVIII e XIX secolo,quando furono ispirazione e modello per arredi moderni.Ai bronzi pompeiani si aggiungano quelli trovati in tutti i siti ar-cheologici dell’impero romano, nelle ville dell’Africa, della Gallia,della Britannia e nelle fortezze lungo il limes; particolarmente inte-ressante la categoria dei ‘bronzi scritti’, che ci hanno conservato –meglio di altre superfici scrittorie - i testi giuridici dell’antica Roma(v. sez. 8, 3).In età romana quindi la produzione di oggetti in bronzo fu ecce-zionale e irripetibile per quantità e qualità, anche in considerazio-ne del fatto che moltissimi oggetti, forse la maggior parte, non cisono pervenuti data la facilità con la quale gli oggetti metallici, an-che quelli in bronzo, potevano essere rifusi per farne altri in mo-menti di crisi della produzione mineraria o semplicemente comebottino di guerra.Le tecniche raffinate utilizzate nella confezione degli oggetti e de-scritte anche nei testi letterari testimoniano l’esistenza di scono-

sciuti artigiani, che molto spesso raggiungono livelli decisamented’arte.Non disponiamo tuttavia di un trattato antico sulle tecniche me-tallurgiche, ad eccezione della Historia Naturalis di Plinio il Vec-chio; egli definisce plumbum album lo stagno, aes il rame, che sonoi componenti del bronzo, definito comunemente solo con il nomedi quest’ultimo; a questi metalli si aggiungeva talvolta anche piom-bo nero e piombo argentario. Non venivano commercializzati lin-gotti di bronzo, ma solo dei differenti metalli allo stato puro, chevenivano poi dosati dall’artigiano a seconda della lega che si vole-va ottenere in relazione sia alla lavorazione che all’oggetto da pro-durre, mostrando una perfetta conoscenza da parte degli artigianidelle diverse proprietà dei metalli. I Romani inoltre introdussero inmetallurgia l’uso dell’ottone, lega composta da rame e zinco, usa-ta anche nella produzione delle monete (sez. 8, 4).Le tecniche di lavorazione del bronzo, ricostruite – in assenza diun testo antico di riferimento – sullo studio dei singoli manufattipossono essere così riassunte:- lavorazione a freddo per martellatura di un foglio di bronzo o dirame per produrre coppe, piatti, brocche; l’oggetto finito venivapoi polito al tornio. Con la martellatura di una lamina su un co-nio di ferro si producevano anche lamine decorate a sbalzo perrivestire oggetti di legno (ad es. foderi di spade);

- lavorazione per fusione: per gli oggetti a forma aperta (piatti sco-delle, casseruole, statere si usavano due stampi, in pietra per lopiù, uno per la superficie interna e uno per l’esterna; in un ango-lo dello stampo un canale o un foro già predisposti permetteva-no di introdurre il metallo fuso all’interno dello stampo o forma(v.sez. 8, 5); l’oggetto veniva poi rifinito mediante politura al tornio.Oggetti di forma chiusa (come brocche) venivano prodotti constampi bivalve in terracotta o pietra, e la cavità interna ottenutacon un nucleo di argilla, che a colatura avvenuta, veniva elimina-to; oppure fusi in un sol pezzo e il nucleo interno friabile elimi-nato, come nelle lucerne, attraverso i fori per l’olio (sez. 8, 8); lesuperfici venivano poi polite al tornio e a mano.

- fusione a cera persa piena: piccoli oggetti come statuette, anse divasi, maniglie per mobili venivano fusi a cera persa: si realizza-vano cioè modelli in cera ricoperti di sabbia e argilla; riscaldan-doli, la cera fuoriusciva da un apposito foro; lo stampo così ottenutoveniva nuovamente cotto e riempito di bronzo fuso; dopo il raf-freddamento lo stampo veniva rotto per estrarre l’oggetto, cheveniva rifinito e polito.

- fusione a cera persa cava: per ottenere una produzione in serie,

208

La lavorazione del bronzo e dell’argento

pozzi di aerazione accanto a quello principa-le (8, 6, 13). Plinio (Naturalis Historia, 31, 49)propone esattamente lo stesso sistema, e con-siglia anche di muovere l’aria agitando striscedi lino, come ventagli. Ai lati della galleria era-no predisposte nicchie o cornici aggettanti sucui venivano poggiate lucerne ad olio, costi-tuendo così un vero sistema di illuminazione.Più raro l’uso di torce, mentre Diodoro Sicu-lo, citando Agatarchide, riferisce anche del-l’uso di lampade applicate alla fronte deiminatori (3, 12, 6). La sfida tecnologica piùgrande era per i Romani quella posta dall’ac-qua sotterranea: le miniere di profondità chesi spingessero al di sotto del livello del mareo della falda acquifera erano ovviamente sog-gette ad allagamento. Furono dunque messiin opera diversi sistemi di drenaggio: il primoe più semplice era la realizzazione di gallerietrasversali: “e talvolta nelle profondità si im-battono [i minatori] in fiumi che scorrono sot-to terra, la cui forza sconfiggono deviando lecorrenti che scorrono verso di loro tramite ca-nali obliqui” (Diod. Sic. 5, 37, 3). Un altro si-stema – non particolarmente ottimale – eralo svuotamento a mano, che impegnava una

grande quantità di manodopera e occupavale gallerie: “il monte già è scavato per 1500passi, e in questo spazio gli aquatini, standoin piedi notte e giorno a turni della durata diuna lucerna, svuotano le acque e ne fanno untorrente” (Plinio, Naturalis Historia, 33, 97).Ma è in questo campo che l’arte mineraria ro-mana compì i maggiori passi avanti dal pun-to di vista dell’avanzamento tecnologico,adottando altri sistemi ben più efficaci, ed inparticolare la cosiddetta ‘vite d’Archimede’, uncongegno inventato in Egitto intorno alla me-tà del III sec. a. C. per l’irrigazione, e che a par-tire dal I secolo a.C. fu applicato ancheall’attività mineraria, esempio perfetto, dun-que, di un vero e proprio avanzamento tec-nologico (Domergue-Bordes 2006, pp.208-210): “rimuovono le correnti d’acqua conle cosiddette viti egiziane, che inventò Archi-mede di Siracusa, quando andò in Egitto; etramite esse continuamente muovendo l’ac-qua in successione fino all’uscita, asciuganoil punto dello scavo e lo predispongono ade-guatamente per la prosecuzione del lavoro”(Diodoro Siculo, 5, 37, 3-4; cfr. anche Strabo-ne III, 2, 9). La vite d’Archimede (v. sez. 3, n.

10), un cilindro generalmente in legno (un ca-so in piombo è noto), contenente una cocleatipo vite senza fine in legno o in bronzo, fattaruotare, convogliava l’acqua all’interno dellacoclea e la portava dunque ad un livello su-periore. Il vantaggio principale di tale stru-mento era che esso asportava l’acqua piùvelocemente ed occupava molto meno spa-zio delle ruote idrauliche o norie (v. sez. 3, n.11), l’altro strumento utilizzabile a questo sco-po, che era in sostanza in concorrenza con lavite e che, diffuse a loro volta a partire dal Isec. d. C., potevano sollevare l’acqua per di-slivelli molto maggiori. Anche queste furonointrodotte in Egitto già nel III sec. a. C. per l’ir-rigazione (Wilson 2002, 7-8), e quindi appli-cate in età imperiale oltre che nelle miniere,nelle terme e negli stabilimenti per la salagionedel pesce. Dipendeva dunque dalle condizio-ni della singola miniera quale fosse la sceltaeconomicamente più vantaggiosa. Le ruoteidrauliche erano ruote in legno che ruotandointorno ad assi in bronzo muovevano dei re-cipienti, attaccati sul lato interno della cir-conferenza, che sollevavano l’acqua. Ilmacchinario era messo in moto da una per-sona (probabilmente uno schiavo) che cam-minava sulla circonferenza esternaimprimendogli un modo rotatorio (Domer-gue-Bordes 2006, 210-219). Le ruote idrauli-che potevano funzionare anche a coppia: inquesto caso dovevano ruotare in direzioni con-trapposte per evitare turbolenze. Le ruote sca-ricavano dunque l’acqua in un trogolosuperiore, da dove essa poteva scorrere di-rettamente all’esterno, oppure nel bacino dipescaggio di altre ruote (a Rio Tinto una se-rie di 8 coppie portava l’acqua per un dislivel-lo di ca. 30 m). All’interno della miniera siusava naturalmente un’ampia serie di stru-menti, quasi sempre in ferro (anche questaun’innovazione romana):martelli, picconi, pic-che, mazzapicchi, palanchini (Plinio, Natura-lis Historia, 33, 72, parla di cunei in ferro emartelli), quindi rastrelli, vanghe e zappe perla raccolta del materiale. Al paragrafo prece-dente Plinio aveva parlato anche di fractariada 150 libbre, uno strumento usato chiara-mente per rompere la pietra (forse una spe-cie di ariete), di cui però non sappiamo nientealtro (Rosumek 1982, p. 16).

211

Sez. 8.1 - Estrazione dei minerali eorganizzazione della miniere

Se il passaggio dall’estrazione a cielo apertoa quella sotterranea, attraverso sistemi di gal-lerie, è frutto di progressi nella tecnica mine-raria realizzati in Egitto in età faraonica, c’èoggi un ampio consenso intorno al fatto chei Romani, ereditate da Greci ed Egiziani le lo-ro conoscenze tecniche in campo minerario,apportarono poi consistenti modifiche, se-gnando una notevole evoluzione tecnologicain questo campo: “i loro più rilevanti appor-ti sono costituiti dalla razionalizzazione e dal-la meccanizzazione delle coltivazioni, ottenutaadattando alle esigenze dell’arte minerariamacchine ellenistiche concepite inizialmenteper altri usi” (Giardino 1998, p. 48). L’impe-gno romano nell’estrazione dei metalli si fe-ce, in particolare, progressivamente piùintenso negli ultimi due secoli dell’età re-pubblicana, quando la conquista di aree ric-che di giacimenti pose Roma di fronte allanecessità del loro sfruttamento. Già in que-sto momento si verificò dunque un intensoprogresso tecnologico, con l’applicazione del-le conoscenze tecniche ellenistico-romane al-le attività minerarie già intraprese – adesempio in Spagna – dalle popolazioni loca-li. In generale, si può dire che con i Romaniogni parte dell’attività mineraria fu mecca-nizzata, e che nel settore dell’estrazione deimetalli si poté assistere ad avanzamenti tec-nologici tra i più significativi prima della Ri-voluzione industriale (Wilson 2002, 17).Le tecniche di prospezione erano piuttostorudimentali, in assenza di una scienza geo-logica vera e propria, e consistevano preva-lentemente nell’osservazione della superficie,alla ricerca di frammenti minerali affioranti odi altri indizi esteriori, quali il manto vegeta-le (sulla pirite ad esempio non cresce vege-tazione), particolari situazioni idriche (qualifuoriuscite di acqua sotterranea), e soprat-tutto il colore del terreno. Quest’ultimo è pe-rò un indicatore ottimo solo per determinatimetalli: “vene di ferro si trovano quasi dap-pertutto, e le genera anche in Italia l’isola d’El-ba, e si possono riconoscere con minimadifficoltà, rivelandole il colore stesso della ter-ra” (Plinio, Naturalis Historia, 34, 142), ma“[l’argento] non si trova se non in pozzi espunta assolutamente inatteso, non essen-doci nessuno scintillio rilucente come nel ca-

so dell’oro. La terra è a volte rossa, a volte co-lor cenere” (Plinio,Naturalis Historia, 33, 95).Dopo l’individuazione di un giacimento, pe-rò, le conoscenze geologiche erano sufficienti,ad esempio nel caso della fagliatura, da per-mettere di seguire le continuazioni dei filoni,e di distinguere le fessure sterili, non mine-ralizzate, da quelle ricche di minerale.L’attività mineraria era quindi condotta in trepossibili forme: nei placers, a cielo aperto oin profondità. L’attività nei placers consistenella raccolta di metallo (oro e stagno) allostato nativo, in genere raccolto in giacimentidi origine alluvionale. Si tratta dei cosiddettidepositi singenetici, ovvero prodottisi con-temporaneamente alle rocce in cui si trova-no, essendosi depositati insieme ai sedimenti.Nel caso dei fiumi auriferi, che naturalmenteasportavano il minerale, si trattava di cana-lizzarne e setacciarne le acque, nel cosiddet-to “river mining” (Strabone, 4, 6, 7). Altrimentila tecnica utilizzata era il convogliamento, permezzo di acquedotti, dighe e serbatoi di ac-qua sul sito (Wilson 2002, 17-21): questa ve-niva dunque usata per disgregare i giacimenti;il materiale a basso tenore veniva portato via.I Romani sembrano essere stati i primi a svi-luppare le tecniche utilizzate in questo cam-po, come l’hushing, ovvero l’accumulazionedi grandi quantità d’acqua al di sopra del gia-cimento, che veniva poi rilasciata tutta insie-me a intervalli regolari (e tramite canali tagliatinella roccia era usata per fare crollare interepareti di roccia ed esporre i giacimenti, la co-siddetta ruina montium), o il ‘ground slui-cing’, ovvero il continuo passaggio di acquasul deposito e dunque attraverso una serie dicanalizzazioni a gradini che separano il me-tallo dalla ganga. Quindi si procedeva al la-vaggio entro canale di quanto rimasto,mediante tavole di lavaggio o in legno, a bor-di rialzati (simili ai cosiddetti ‘setacci’ dellaCorsa all’Oro della California) o intagliate agradini nella pietra. Questa attività richiede-va dunque anche la costruzione di acquedottiche rifornissero l’area minerariaDiversi i trattamenti per i depositi epigeneti-ci, in cui cioè il giacimento metallico si è for-mato dopo la roccia, riempiendone le cavitàe disponendosi nella forme di filoni e vene.Miniere a cielo aperto sono sia descritte dal-le fonti (Strabone 4, 2, 1) che note archeolo-gicamente: così ad esempio si svolgeval’estrazione dell’oro all’isola d’Elba.Dal punto di vista delle tecnologie utilizzate

sono però certamente più interessanti le mi-niere di profondità. Queste si articolavano inpozzi e gallerie. I pozzi venivano scavati in ver-ticale nella roccia, con il piccone, e con l’aiu-to di fuochi che scaldando la roccia, che venivapoi raffreddata di colpo con un getto d’acqua,la rendevano più facilmente friabile. Un pri-mo progresso nel settore venne quando nel Isec. a. C. si cominciò ad usare in questa ope-razione, al posto dell’acqua, l’aceto, di cui era-no noti gli effetti dissolventi sumolte sostanze(Rosumek 1982, pp. 25-28). Travi di sostegnoerano inserite via via che si procedeva in pro-fondità. Le pareti del pozzo erano rivestite, ingenere in legno per i pozzi a sezione rettan-golare, in pietra per quelli a sezione circolare.Su un lato si creavano incassi che fungesse-ro da gradini o si poneva una scala in legno.Al centro del pozzo una carrucola serviva aportare fuori il materiale. Le gallerie poneva-no i vari pozzi in comunicazione tra loro. Inalcune miniere si arrivava ad avere più livellid’estrazione (fino a 4, ad Andros), con pozziche connettevano i vari livelli. A volte tali gal-lerie non sembrano pianificate in partenza inmodo razionale, ma si aggrovigliano in un de-dalo tale che è impossibile disegnare una pian-ta della miniera. Le gallerie erano in genere asezione rettangolare o trapezoidale, più rarequelle arcuate (solo alcune delle gallerie di RioTinto in Spagna), grandi a sufficienza in ge-nere per restare in piedi, ed erano puntellatecon travi in legno. Il problema più grave eraperò quello della ventilazione: i Romani era-no perfettamente consci che il pericolo risie-deva nello zolfo che, a contatto con l’aria econ l’umidità, dà vita ad anidride solforosa edacido solforico. Vitruvio suggeriva di calare nelpozzo una lampada per verificare se le esala-zioni fossero così intense da spegnerla. In que-sto caso – aggiungeva – bisogna scavare dei

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Forno romano per estrazione del minerale ferroso

con scarico laterale per le scorie

Principali centri di estrazione dei metalli in età

romana (argento, piombo, ferro, rame, stagno, oro)

(rielab. grafica, F.G.)

drate. Durante la produzione lo zolfo liquidoveniva colato in queste casse e il minerale, unavolta solidificato, acquistava una particolareforma trapezoidale. Sulla faccia inferiore del-la lastra rimanevano impresse il nome del pro-duttore e dell’officina.La Sicilia non è ricca di materie prime e l’atti-vità estrattiva dello zolfo fu la principale ra-gione della prosperità della città di Agrigentoin età romana. Non ci sono attualmente stu-di dettagliati su questa regionemineraria la cuiattività è essenzialmente conosciuta attraver-so il materiale epigrafico ritrovato in situ.Le tabulae possono essere suddivise in duetipologie per forma e contenuto delle iscri-zioni. La prima, costituita principalmente dagrandi lastre rettangolari non di rado con-trassegnate da foglie d’edera o rami di palma,è caratterizzata da testi molto brevi come quel-li appartenenti ai liberti della famiglia senato-ria degli Annii, attivi in Sicilia in età Antonina.La seconda tipologia, in cui rientra anche lategula qui descritta, è caratterizzata invece dategole quadrate contraddistinte da formularipiù complessi in cui vengono generalmenteindicati officina e conductor. La datazione diquesto secondo gruppo di lastre può essereindicata nel III sec. d.C.Entrambe le tipologie hanno dimensioni si-mili: circa 35 cm di lato. Il ritrovamento di ta-bulae con testi che facevano riferimentoall’imperatore - come nel caso di un’iscrizio-ne dal museo di Agrigento che indica il geni-

tivo imp(eratoris) Aug(usti) n(ostri) - fa sup-porre che l’attività estrattiva dello zolfo in Si-cilia fosse sotto il controllo imperiale.Il ritrovamento di tegulae con inciso il testo“Augustorum nostrorum” indica un’attivitàestrattiva ancora attiva in età tetrarchia o piùtardi.Per quanto riguarda gli ambiti produttivi in cuilo zolfo poteva essere usato, Plinio il vecchio(Naturalis Historia 35, 178-182) distinguendoquattro tipi diversi di minerale, definisce al-trettanti settori di impiego come: la medicina(Scribonio Largo, Compositiones, 1, 43, 5: su-perque tegere lana sulphurata totam maxillam;Plinio., Nat., Hist., 23, 55, 5: que omnium acu-leatorum venena et pruritus, item contra mul-tipedae morsum calidum in spongea adiectoaut sulphuris sextante sextariis III aut hysopi fa-sciculo. medetur), le operazioni di lavanderia,il trattamento della lana e la fabbricazione dilucignoli.Altri usi del minerale propri del settore bellico(Sallustio, Bellum, Iugurtinum, 1, 57, 5: contraea oppidani in proxumos saxa volvere, sudis, pi-la, praeterea picem sulphure et taeda mixtamardentia mittere) e della metallurgia vengonoricordati da autori greci e romani. (Frontino,Strategemata, 2, 4, 17: Hispani contra Hamil-carem boues uehiculis adiunctos in prima fron-te constituerunt uehiculaque tedae et sebi etsulphuris plena, signo pugnae dato, incenderunt).Interessante inoltre l’uso dello zolfo nella pro-duzione del vetro. Il minerale sembra infattifosse utilizzato per rifondere crepe nel vetro,prassi ricordata da Marziale (Marziale, Epi-grammata, 1, 41, 3-5: Transtiberinus ambulatorqui pallentia sulphurata fractis permutat vi-treis).

S.P.

BibliografiaLeon H.J., Sulphur for Broken Glass, in Transactionsand Proceedings of the American Philological Associa-tion, 72, 1941, pp. 233-236; M.C.R. Catalogo,1982, p.310; Salmeri G., Sicilia romana, Catania 1993, p. 29;Scaramazza, in T. Frank (a cura di), An economic Sur-vey of ancient Rome, III, Baltimore 1937, p. 353; Wil-son R.J.A., Sicily under the roman Empire, Warminster1990, pp. 237-239.

Sez. 8.3 - Lex Metalli Vipascensis:regolamenti delle miniere di ramee di argento di Vipasca (Aljustrel)

Originali: da Vipasca (Aljustrel), in PortogalloMateriale: bronzo iscrittoMisure:Luogo di conservazione: Lisbona, Museu Nacionalde Arqueologia di Belém

Cronologia: età adrianeaRiproduzioni: Roma, Museo della Civiltà Romana

L’antica città romana di Vipasca (Aljustrel), inPortogallo, nell’Alentejo, si trova nelle imme-diate vicinanze di un’area mineraria (anticaMetallum Vipascense), ove sono state rinve-nute, nel 1876 e nel 1906, due tavole in legadi rame iscritte, con fori di sospensione, re-lative alla disciplina dello sfruttamento delleminiere ed ai diritti fiscali relativi (Vip. I = CILII, 5181; FIRA2, I, 502-507; Vip. II = AE 1906,151; FIRA2, I, 499-502). Nell’area, sita al-l’estremità occidentale dell’ampia zona piriti-ca che si estende fino a Siviglia, si estraevanorame ed argento, ma forse anche, in quanti-tà minore, oro e ferro. I giacimenti erano no-ti e sfruttati già dal II millennio a.C., ma conl’età romana l’estrazione di minerale vienepraticata su una scalamolto più ampia, inma-niera sistematica e razionale: con l’età augu-stea si organizzò l’insediamento che ospitavai lavoratori (di cui è archeologicamente notala necropoli, in località Valdoca), e lo sfrutta-mento proseguì almeno fino alla secondame-tà del III secolo d. C., ma tracce di occupazionedel sito proseguono anche, in misura mino-re, nei secoli IV e V.Mentre di Vip. II conosciamo con certezza ladatazione, dal momento che il testomenzional’imperatore Adriano, simili riferimenti internimancano in Vip. I, che pure paleograficamentenon si discosta molto dall’altra tavola. La mag-gior parte degli studiosi (ad es.Domergue 1983,pp. 179-180) ritiene che Vip. I sia non di mol-to precedente (fine I - inizi II sec.), mentreun’altra teoria, in verità meno convincente,elaborata subito dopo la scoperta e ripresapiù recentemente, identifica la lex de metallisdicta cui Vip. I fa riferimento nell’ultimo ca-pitolo conservato proprio con il testo con-servato da Vip. II, e ritiene questa dunqueprecedente cronologicamente (Lazzarini 2001,p. 14): è bene comunque evidenziare che il IIsecolo d.C. è il momento di massima inten-sità dello sfruttamento minerario in zona. Il

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Il materiale veniva a questo punto passatodi mano in mano tra diversi minatori finchénon giungeva alla base di un pozzo; è possi-bile che nelle gallerie più grandi esso fosseanche portato da animali (sono stati rinve-nuti, ad esempio, ferri di cavallo all’internodelle miniere). In alcune strutture di estra-zione, inoltre, gallerie intagliate con due sol-chi paralleli, distanti 1,2m, e a intervalli regolaridelle specie di piazzole, hanno fatto pensaread un trasporto in contenitori strutturato subinari (Lewis 2001, p. 15). Una volta giunto alpozzo, il minerale veniva tirato in superficiecon un sistema a carrucola, o anche sempli-cemente issato con una fune.Il materiale subiva poi direttamente sul sitouna prima forma di trattamento, in partico-lare la macinatura del minerale, preliminarealle successive operazioni di conversione earricchimento (Diodoro Siculo, 3, 13, 2). Unaprima triturazione del materiale avveniva an-che su incudini i cui segni di usura, estrema-mente regolari, hanno fatto pensare che sudi esse il minerale non venisse colpito da uo-mini, ma tramite una qualche forma mecca-nizzata, forse messa in moto da energiaidraulica (Wilson 2002, pp.21-22); seguiva lamacinatura vera e propria, per ridurre il mi-nerale in polvere. Anche in questo settoresembra di poter vedere un progresso tecniconotevole nel corso dei secoli (Domergue etal. 1997, pp. 57-59): in generale furono in usoin epoca antica per questo scopo tre tipi dimacine. La macina a braccio, diffusa solo inOccidente a partire dal III sec. a. C., aveva co-me vantaggi di essere uno strumento sem-plice e di dimensioni ridotte, che nonrichiedeva un particolare sforzo per esseremesso in opera; la macina di tipo ‘pompeia-no’, forse già usata dagli Ateniesi nelle mi-niere del Laurion, si diffuse invece a partiredal II sec. a. C., e fu l’esito di una ricerca diavanzamento tecnologico. Essa infatti puòtrattare quantità maggiori di materiale, ma-cinandolo più finemente, e utilizza forza la-voro animale. Ciò nonostante gli svantaggi sirivelarono superiori ai vantaggi: forse l’usurarapida, o la fragilità delle componenti, porta-rono infatti ad un suo abbandono alla fine delI sec. a. C. Nelle miniere orientali si usavanoforse anche macine tipo trapetum, ovvero dafrantoio per le olive (cfr. sez. 7, 5-6). Tutti e trei casi mostrano comunque l’adattamento alsettore minerario di tecnologie introdotte pre-cedentemente in campo agricolo (il mulino a

braccio, ad esempio, era noto in Spagna giànel V sec. a. C.), e sono in questo senso unchiaro esempio di sperimentazione ed appli-cazione di nuove tecniche. Seguiva dunque illavaggio della polvere ottenuta.Una forma di sfruttamento industriale delleminiere sembrerebbe essersi attuata già a par-tire dall’età repubblicana. La gestione delleminiere fu pubblica fino a tutto il I sec. a. C.,in seguito cominciò ad affermarsi anche ilcontrollo privato. Accanto agli ‘imprenditoriminerari’, uomini ovviamente di ampie fa-coltà, i veri e propri lavoratori si distingueva-no da un lato in schiavi e condannati (lacondanna a lavorare nelleminiere statali, dam-natio ad metalla, era una delle pene previstenel diritto romano), dall’altro in liberi sala-riati, le cui condizioni di lavoro potrebberonon essere state così misere come si è lun-gamente pensato; al contrario si è propostoche il lavoro nelle miniere spagnole potesseessere per i locali un mezzo di promozionesociale (Santos Yanguas 1997, p. 114). Rari so-no i rinvenimenti di capi d’abbigliamento deiminatori, e Diodoro Siculo (3, 13, 2) lasce-rebbe pensare che essi lavorassero nudi o se-minudi: si conoscono però sandali, copricapiin erba alfa, ginocchiere e anche un casco inbronzo. È chiaro che l’abbigliamento cam-biava di regione in regione, ed anche a se-conda dell’incarico ricoperto all’interno dellaminiera (Rosumek 1982, pp. 46-48). Il rilievodi Linares (oggi a Bochum) mostra 9 mina-tori, di cui l’ultimo sulla sinistra, il più alto, èil caposquadra. Questi regge unamazza e unaltro oggetto, identificato come una campa-na o un contenitore per l’olio, per accenderele lucerne. Il secondo personaggio regge unasorta di piccone, con un lato appuntito ed unosmussato. Il terzo, infine, ha in mano una lu-cerna. Tutti hanno lo stesso tipo di abbiglia-mento, probabilmente una tunica coperta,nella parte bassa, da un grembiule, forse inpelle, ma non hanno nessun tipo di prote-zione per la testa (cfr. p. 32, fig. 3).

F.C.

Bibliografia di riferimentoDomergue 1990; Domergue et al. 1997, pp. 48-61; Do-mergue-Bordes 2006, pp. 197-223; Domergue 2008;Giardino 1998; Healy 1993; Lewis 2001, pp. 8-19; Pir-zio Biroli Stefanelli 1990; Pirzio Biroli Stefanelli 1991;Rosumek 1982; Santos Yanguas 1997, pp. 109-122; Wil-son 2002, pp. 1-32.

Sez. 8.2a - Lingotto di piombo(massa plumbea)

Originale: piomboProvenienza originale: dalla Sardegna, presso portoS. Nicolò e conservato nel Museo ArcheologicoNazionale di Cagliari

Copia in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana,inv. n. 1546

Lingotto in piombo di forma rettangolare a se-zione trapezoidale; nel senso della lunghez-za, entro un cartiglio a piano ribassato,l’iscrizione a lettere rilevate: IMP(eratori) HA-DRIANI AVG(usto), indica che le miniere dipiombo della Sardegna erano già sfruttate nelII secolo d.C. ed erano di proprietà imperiale.

BibliografiaMCR. Catalogo 1982, p. 310; Wilson 2002, pp. 1-32.

Sez. 8.2b - Pane di zolfo (tegulasulfuris)

Originale: dalle cave di zolfo presso da AgrigentoLuogo di conservazione: Agrigento MuseoArcheologico Regionale

Cronologia: I - III sec. d.C.Copia: realizzata nella materia originaria. Roma,Museo della Civiltà Romana, inv. n. 1551

La tegula sulfuris - l’originale si trova nel mu-seo di Agrigento - fa parte di un gruppo piùampio di ritrovamenti, che constano di circa70 tegulae ritrovate nelle zone metallifere delterritorio di Agrigento in Sicilia.La tegula reca iscritta a lettere rilevate che cor-rono da sinistra verso destra una breve for-mula che ricorda il nome dell’officina diproduzione, una corona al di sotto dell’iscri-zione sembrerebbe indicare il simbolo del-l’officina (CIL X 8044, 10a; cfr. una secondategula in CIL X 8044b: ex off(icina) Gell(i) /Pelori).Particolarmente interessante la forma di que-sta tegola che si deve all’uso di cassoni di le-gno chiamati ‘gavite’ nel cui fondo siincidevano a incavo le lettere; tali casse servi-vano a ‘dare allo zolfo la forma di tegole qua-

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Ex of(ficina) Gelli / Pelori ((corona))

Sez. 8.4 - Le zecche di Roma

Per l’età repubblicana diverse testimonianze at-testano l’esistenza di una zecca situata vicinoal tempio di Giunone Moneta (Livio VI,20,13),la cui localizzazione non è stata stabilita concertezza sul colle capitolino, sebbene l’ipotesipiù attendibile la collochi secondo l’ipotesi diF. Coarelli negli ambienti del Tabularium dedi-cato intorno al 78 a. C. Non vi è certezza chequi avvenisse tutto il ciclo produttivo, proba-bilmente vi era custodito l’archivio della zecca.Per l’età imperiale molti indizi situano invecela zecca alle pendici del Celio sotto la basilicadi S. Clemente, dove è stato ritrovato un edifi-cio simile come pianta ad uno riportato in unframmento della Forma Urbis, ora dispersomadel quale si conserva un disegno.Per la fabbricazione dellamoneta esistono duetecniche principali: la fusione e la coniazione.La prima consiste nel far colare il metallo fu-so in uno stampo di argilla refrattaria formatoda due valve perfettamente combacianti, giàpreparate con l’incavo delle impronte del drit-to e del rovescio del pezzo da fondere. Conquesto procedimento si ottiene lamoneta com-pleta in ogni sua parte.Lo stampo poteva contenere più impronte dimonete collegate tra loro e all’esterno da ca-naletti che permettevano l’omogeneo espan-dersi del metallo fuso da un’impronta all’altra.Almomento dell’apertura dello stampo, quan-do il metallo si era raffreddato, le monete cosìottenute erano collegate da un cordonemetal-lico, chiamato ‘codolo di fusione’ che era ne-cessario spezzare per separarle. Tale processoviene utilizzato per le prime emissioni repub-blicane di bronzo, in quanto le grandi dimen-sioni di questo tipodimonete non consentivanol’impiego della coniazione, che fu usata inin-terrottamente per i nominali più piccoli dallariforma semilibbrale e poi per tutte le monetedi bronzo dalla riforma sestantaria in poi.Per lemonete d’argento e d’oro fu sempre usa-ta la tecnica della coniazione. Questometodo,più complesso si realizza in due fasi: la primaconsiste nella preparazione del tondello, la se-conda nella imprimere i tipi sulle due facce del-la moneta. Per la preparazione dei tondelli siusava sia lo stesso procedimento delle mone-te fuse, impiegando uno stampo liscio e spes-so ad una sola faccia che produceva tondellidi forma lenticolare che successivamente ve-nivano rifiniti per portarli a forme ‘perfetta-

mente’ regolari e ad un peso specifico stabili-to. Si potevano anche ricavare i tondelli da unaverga dimetallo tramite uno scalpello, tagliandoa distanza regolare: successivamente anchequesti tondelli venivano rifiniti e pesati. In etàtarda e nel medioevo per la sottigliezza dellemonete in circolazione, i tondelli potevano es-sere ritagliati da una lamina di metallo.La seconda fase consisteva nella coniazionevera e propria. L’impronta dellamoneta era in-cisa sul conio, eseguito con unmetallo più du-ro della moneta da coniare, affinché non sidanneggiasse sotto i colpi di martello. Un’im-portanza particolare aveva la preparazione delconio: una volta scelto il tipo doveva essere ri-portato sul conio stesso o inciso a bulino opreparato con la tecnica della fusione e poi ri-finito.Il conio principale, che generalmente raffigu-rava il dritto, veniva fissato e per questo si de-finisce ‘conio di incudine’; l’altro conio, quellomobile, era tenuto con una tenaglia perpendi-colarmente al tondello preparato e scaldato, eveniva battuto da un operaio un colpo di mar-tello. Anche il martello aveva le sue particola-rità: simile ad una mazza era dotato di unafaccia adatta alla percussione, mentre l’altra,leggermente curva ed appuntita, serviva a stac-care la moneta che poteva rimanere attaccataad uno dei coni.La responsabilità della buona riuscita diun’emissione era quindi affidata all’abilità de-gli operai della zecca che costituivano la fami-lia monetalis. Aumentando la quantitànecessaria di denaro per i commerci dell’im-pero essi dovettero aumentare di numero col

moltiplicarsi delle officine nelle quali si divi-deva la zecca. Il controllo dello Stato sulla pro-pria monetazione era esercitato attraverso ilSenato e il questore urbano come magistratotesoriere e appositi funzionari pubblici, i trium-viri monetali, la cui esistenza ci è tramandatadai nomi presenti, per esteso o abbreviati, sul-le monete e da altre fonti documentarie. L’au-torizzazione ad emissioni straordinarie eraattribuita da un senatus consultum ed indicatasullemonete con le sigle SC o EX SC. Per il pe-riodo imperiale la monetazione era di compe-tenza del Princeps che affianca al triumviromonetale il rationales, addetto alla finanza pub-blica, responsabile del controllo delle entratee delle uscite della zecca. Da Traiano fino allacaduta dell’impero è documentata l’esistenzadi un procurator monetae al quale facevano ca-po gli addetti della zecca.

P.C.

215

confronto dei due testi permette in ogni ca-so di ricostruire in modo piuttosto dettaglia-to il regime della concessione mineraria. Vip.II è un testo di legge elaborato nella forma dilettera scritta da un funzionario imperiale (nonsi tratta dunque di una costituzione scritta daAdriano stesso) a Ulpio Eliano, un liberto, pro-curatore delle miniere di Vipasca, e soggettodunque al procuratore equestre che in Lusi-tania come in ogni provincia della Spagna erapreposto all’intera attività mineraria. Dalle ta-vole apprendiamo che le miniere di Vipascanon erano sfruttate direttamente dal fisco, macedute tramite vendita all’asta (Vip. I, 1; il ter-mine vendita non implica però che l’appalta-tore esercitasse sul giacimento un vero eproprio regime di proprietà, dal momentoche, come vedremo, esso poteva essergli sot-tratto; possiamo piuttosto pensare ad unasorta di possesso), con diverse forme di con-tratto a diversi imprenditori, anche riuniti insocietà, rispetto alla cui attività lo Stato eser-citava una funzione di controllo e partecipa-va agli utili. Una prima forma di contratto eral’occupatio, di carattere esplorativo: l’occupa-tor si dedicava alle ricerche; quando indivi-duava il giacimento, riscattava la metàappartenente al fisco (Vip. II, 1), ovvero – se-condo le interpretazioni più recenti e più con-vincenti di un controverso passaggio(Lazzarini 2001, 137-47) – pagava 4000 se-sterzi nel caso dei giacimenti d’argento (Vip.II, 2, innovazione adrianea forse introdottaproprio per incentivare la ricerca e l’estrazio-ne di questo metallo), e acquisiva il pieno di-ritto di sfruttamento, passando così alla formacontrattuale dell’adsignatio, che lo poneva nel-la condizione giuridica del colonus (Lazzarini2001, 113-30; la lettura del Lazzarini è moltopiù convincente delle precedenti teorie, cheritenevano colonus ed occupator sinonimi, ades. Capanelli 1984, p. 129). Una volta che l’oc-cupator avesse individuato la vena metallife-ra in una delle gallerie a lui concesse, dovevaimmediatamente lavorare senza interruzionenelle altre, per giungere allo stesso risultato(Vip. II, 3); dopo di che aveva 25 giorni perpoter preparare tutto il necessario (macchi-nari, manodopera, risorse finanziarie), poi do-veva avviare immediatamente l’attività diestrazione. Se questa veniva sospesa per 10giorni consecutivi l’appalto era consideratonullo e la concessione veniva riassegnata (Vip.II, 4). Dopo la messa in opera definitiva, in-vece, si considerava la concessione nulla do-

po 6 mesi di inattività (Vip. II, 5). Successivecessioni di miniere appaltate, in tutto o in so-cietà, potevano avvenire dietro dichiarazioneal procuratore (Vip. II, 8). Metà del metalloderivante dall’estrazione era, ancora una vol-ta, ceduto al fisco; l’appaltatore era tenuto alpuntellamento delle gallerie ed al loro rinfor-zo (l’armamento iniziale era ovviamente com-pito dell’occupator), nonché alla sostituzionedelle parti lignee marcite; chi avesse rimossoi pali di supporto o avesse in qualche mododanneggiato le strutture, se schiavo, dopo es-sere stato frustato, veniva venduto dietro lacondizione che non lavorasse mai più in unaminiera, se libero, subiva la confisca dei be-ni e l’interdizione perpetua dai terreni mine-rari (Vip. II, 11-13). L’attività estrattiva è regolatacon grande precisione: non si può estrarredopo il tramonto (per paura di estrazioni ‘clan-destine’ che mirino a sottrarre al fisco la me-tà di pertinenza), il materiale estratto venivapoi stoccato all’ingresso della galleria, sul car-reau, indi portato alle officine (Vip. II, 9). Quiil minerale veniva triturato, vagliato, lavato,per ottenere il metallo che era quindi fuso. Ilcanale di scolo delle acque all’interno dellegallerie (cuniculus), che impediva l’inonda-zione dei pozzi, non poteva essere occupato,ed era obbligatorio lasciare liberi 15 piedi suentrambi i lati di esso nelle miniere di rame,40 in quelle di argento (Vip. II, 14; 16; 18). Ilprocuratore poteva accordare una parziale de-roga solo per scavare nuove piccole gallerie

di esplorazione, per cercare nuove vene (Vip.II, 15). Anche lo sfruttamento delle scorie de-rivanti da precedenti estrazioni, così comel’estrazione di pietra, erano appaltati e rego-lamentati (Vip. I, 7). All’interno delle miniere,al di là degli imprenditori che prendevano inappalto i pozzi, sono attestati tanto schiaviquanto liberi salariati, definiti mercenarii (Ca-panelli 1984, pp. 137-8). La prima tavola ci sve-la invece per lo più aspetti delle attività nonminerarie e dunque in certo senso della vitaquotidiana dell’insediamento minerario, re-golamentando lo svolgimento delle venditeall’asta (Vip. I, 1-2), il funzionamento dei ba-gni, che erano aperti alle donne nelle primesette ore del giorno, agli uomini per tutto ilresto della giornata (Vip. I, 3), le attività deicalzolai, dei barbieri, dei lavandai, dei mae-stri (Vip. I, 4-6; 8). Tutte le attività sono datein concessione ed in forma di monopolio; sututte sopraintende il procuratore delle miniere:la comunità del metallum Vipascense si con-figura così non come una parte del territoriodi un municipio, ma come una sorta di di-stretto ad amministrazione speciale, diretta-mente controllato da un funzionario imperiale,con autorità decisionale anche in campo pe-nale (Capanelli 1984, pp. 145-146).

F.C.

BibliografiaCapanelli 1984, pp. 121-146; Domergue 1983; Flach1979, pp. 399-448; Lazzarini 2001.

214

Stampi per fusione di monete

Strumenti per la coniazione:

1.martello;

2. punzone con il conio di rovescio;

3. tondello;

4. incudine con il conio di diritto

Semisse in bronzo di Paestum con la bilancia per

pesare il metallo da coniare e con scena di coniazione

Denario di T. Carisius con la testa di Iuno Moneta

e gli strumenti per la coniazione (46 a.C.)

La tecnica orafa antica è rimasta sostanzialmente invariata nellesue linee generali fino a epoca moderna e utilizza procedure di la-vorazione sostanzialmente analoghe: la fusione, la lavorazione alamina, la filigrana.La fusione poteva essere in valve doppie o singole (nel primo ca-so si ottiene un oggetto a tutto tondo, nel secondo un oggetto arilievo con il retro liscio), ma viene realizzata soprattutto con latecnica a cera persa. Questa utilizza un modello di cera rivestitosuccessivamente da terra o gesso; sempre in cera vengono rea-lizzati i canali che servono alla colata dell’oro e allo sfiato della ce-ra. Quando l’oro fuso viene introdotto nel canale principale, la cerafuoriesce dagli sfiati secondari e il metallo ne occupa il posto. Latecnica della cera persa permette, rispetto a quella più semplice amatrice, una maggiore possibilità di modellazione dell’oggetto edi resa plastica, con passaggi di piano più repentini ed un usomaggiore del sottosquadro.Gran parte dell’oreficeria antica viene tuttavia creata a partire dal-la lamina e dal filo. La prima si ottiene mediante il progressivomartellamento di un lingotto di forma appiattita o, in tempi piùrecenti, attraverso il passaggio tra rulli sempre più ravvicinati. Lalamina così ottenuta poteva poi essere tagliata e lavorata a cesel-lo o a stampo oppure piegata tramite la martellatura su una for-ma o un’anima d’altro materiale (fig. 1). Plinio ci informa che gliartigiani romani potevano ricavare da un’oncia (circa 27 gr) d’orooltre settecentocinquanta fogli d’oro di quattro dita per lato (Na-turalis Historia 33, 61).Una lamina d’oro, ma anche un oggetto ottenuto per fusione, co-me per esempio la superficie di un castone di anello in oro, potevaessere decorata tramite cesellatura. Il cesello è una sorta di piccoloscalpello che termina con teste di varia foggia e veniva utilizzato perdecorare a sbalzo le lamine o per rifinire oggetti a fusione piena. Di-versamente dallo scalpello, il cesello non provoca una asportazio-ne del metallo, ma agisce tramite una pressione provocata da unmartello (fig. 2). Il lavoro del cesellatore è particolarmente delicatoperché la lamina può essere facilmente rotta da un uso impropriodello strumento. Se la figura doveva essere ripetuta più volte sullalamina si utilizzava lo stampaggio, ottenuto attraverso l’uso di pun-zoni oppure pressandola dentro o sopra una forma.Il filo d’oro, che è alla base della lavorazione a filigrana e che puòessere applicato con intento decorativo o costituire in alcuni casila struttura stessa del gioiello, è realizzato a partire dalla stessa la-mina o, in un momento successivo, da un lingotto di forma al-lungata. La lamina è tagliata in striscioline e poi ritorta tramite una

pinza, ottenendo così un filo elicoidale ancora non completamentelisciato (fig. 3). Il filo così ottenuto o eventualmente un lingottosono successivamente passati in una filiera, strumento ancora og-gi utilizzato in oreficeria che consiste in una barra in metallo o pie-tra nella quale sono ricavati alcuni fori passanti il cui diametrodiminuisce progressivamente. Il filo è tirato con pinze attraversoi fori diminuendo, ad ogni passaggio, il proprio diametro fino al-la misura desiderata.

217

Sez. 8.5 - Valva di matrice perfusione di tessere plumbee

Materiale: marmo palombinoMisure: 13 x 8 x 2,5Cronologia: I-III sec. d.C.Luogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. n. 7565

La valva di matrice per tessere plumbee, qua-si integra, di forma rettangolare, presenta aiquattro angoli i fori per l’imperniatura del se-condo elemento della valva, che costituiva co-sì la matrice completa: uno dei fori è ancoraoccluso da resti del perno di piombo che sal-dava le due valve. Su uno dei lati corti si trovaun incasso a imbuto per la colatura del piom-bo collegato ad una rete di cataletti, uno cen-trale con otto diramazioni, che raggiungono 9alveoli. Questi, di forma circolare (diam. cm1,4/1,8) recano incisa al centro la lettera ‘A’.Queste matrici erano utilizzate per la fabbri-cazione di tessere che permettevano, a chi lepossedeva, di usufruire di benefici (accessoall’anfiteatro o ai giochi nel circo, etc.).

M.C.

BibliografiaDi Stefano Manzella 1987, p. 93, figg. 106-106A

Sez. 8.6 - Stadera (statera)

Tecnica: fusioneMateriale: bronzo: stadera con peso a forma dibusto femminile (Minerva?)

Originale: da Pompei. Napoli, Museo ArcheologicoNazionale

Cronologia: I sec. d.C.Riproduzione: copia in bronzo: Roma, Museo dellaCiviltà Romana, inv. n. 3928

Si deve ai Romani l’uso e l’applicazione pra-tica su vasta scala della bilancia (libra) a brac-ci di uguale lunghezza, già nota ai Greci comeleva con un centro di gravità, più precisa e uti-lizzata per pesature di monete e metalli pre-ziosi o di tipo amministrativo; tuttaviautilizzarono di preferenza la statera con brac-cio graduato, piatti (da uno a tre portate) epeso cursore o con punto di sospensione gra-duato (facendo riferimento ad un sistema uf-ficiale di valori ponderali, spesso incisosull’asta, che garantiva l’effettuato controllodi legittimità rispetto ai campioni conservatiin Capitolium)La statera era caratterizzata da due bracci didifferente lunghezza; al più lungo suddivisoin tacche era attaccato un peso mobile, il c.d.‘romano’ (aequipondium), sull’altro a distan-za fissa veniva attaccato il carico. Il valore del-la pesata era determinato dallo spostamentodel ‘romano’ lungo l’asta segnata: pur rima-nendo immutata la massa di tara, si otteneval’equilibrio, variando la distanza dal fulcro. Lastadera poteva avere uncini o piatti a secon-da della merce che si doveva pesare (carne ofrutta). Inoltre la stadera poteva essere usatanon solo per una, ma anche per due o tre por-tate: in questo caso l’asta lunga a sezione po-

ligonale presentava due o tre facce graduate,ciascuna delle quali corrispondeva ad un gan-cio di sospensione posto presso il fulcro.Data la praticità d’uso della stadera rispettoalla bilancia a due bracci di uguale lunghez-za, il suo funzionamento e il suo aspetto so-no rimasti praticamente invariati nel corsodei secoli fino ai nostri giorni con l’adozionedi sistemi di pesatura elettronica.La stadera poteva avere anche una sua ele-ganza estetica nella diversa caratterizzazionedel ‘romano’, cioè del peso, in bronzo fusoripieno di piombo, che poteva assumere laforma di piccolo busto di una qualche divini-tà soprattutto Minerva, Mercurio, Dioniso,Apollo, Giove Ammone, o di oggetti vari, qua-li ghiande, maialetti etc.

BibliografiaDarember, Saglio 1877-1918, s.v. libra; Della Corte 1911-1913, p. 37; Di Pasquale 1994; Lazzarini 1948, p. 221ss.; Misurare la terra 1985, pp. 208-210 (M. Bertinet-ti) e pp. 211- 223 (D. Candilio)

216

La tecnica orafa in età romana

Luigi M. Caliò

Fig. 1 - Sistemi di stampaggio di una lamina

(da Williams Odgen 1994)

Fig. 2 - Lavoro di cesellatura (superiormente)

e incisione su un castone

(da Williams Odgen 1994)

Fig. 3 - Preparazione del filo d’oro da una lamina.

(da Formigli 1983)

Sez. 8.7 - Il Tesoro di Hildesheim

Rinvenuto nell’ottobre del 1868/1865 in occa-sione dei lavori per l’installazione di un campodi tiro sul Galgemberg a sud-est di Hildesheim(circa 250 kmal di fuori del confine romano sulReno), il tesoro, sepolto nella secondametà delI sec. d.C., si compone di circa settanta pezzi(62 completi o quasi e parte di altri) di vasella-me argenteo identificati come un bottino diguerra, piuttosto che come il campionario diun commerciante giunto fin qui per scambi conle popolazioni di confine. L’assenza di unità sti-listica permette di ipotizzare una diversa pro-venienza dei varimanufatti alcuni dei quali sonodocumentati in tombe e rinvenimenti dellaGer-mania e perciò attribuibili a officine provincia-li forse galliche, mentre i restanti, di notevolefattura, sono assenti nel panorama dei rinve-nimenti locali e sono attribuiti a officine ester-ne, di cui resta dubbia la localizzazione.Lametà circa dei pezzi reca incise delle iscrizio-ni che ne indicano il peso e numero progressi-vo, indicando l’appartenenza degli oggetti - cheappaiono lungamente usati - a più persone.Copie galvanoplastiche di 40 pezzi sono espo-ste nel Museo della Civiltà Romana (Roma),tra cui particolarmente preziosa quella del‘cratere d’argento decorato con tralci di acan-to’, purtroppo perduto o trafugato durante laseconda guerra mondiale.

Il tesoro di Hildesheim1. Grande coppa con figura di Atena; I sec. a.C.2. Coppa con Herakles fanciullo che uccide i due

serpenti; I sec. a.C. La coppa in se è stataidentificata come il prodotto di un’officina gallicaal contrario dell’emblema centrale che pareessere una creazione più tarda.

3. Coppa con figura di Cibele; I sec. a.C..4. Coppa con figura di Attis I sec. a.C..5. Coppa ovoidale liscia con sottile fregio decorato

sotto l’orlo, prodotto di officina gallica, in originefacente parte di un gruppo composto di quattrocoppe databili tra la fine del I sec. a.C. e l’iniziodel I sec. d.C..

6.7. Coppe decorate con viticci tra foglie.8. Coppa decorata con ghirlande, composta di varie

parti realizzate separatamente e fuse insieme. Ladecorazione esterna, ottenuta a sbalzo e cesello,si compone di ghirlande di fiori e frutti sospese,mediante un nastro legato da un fiocco, a untirso e una torcia incrociati sotto le anse.Attribuita a bottega italica si data tra la fine del Isec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C..

9. Coppa decorata con un ramo di alloro.10. Coppa decorata con maschere.11. Frammento di elemento vegetale.

12. Kantharos decorato con maschere di Dioniso fratralci di vite e edera.

13.14. Kanthari di forma identica e decorazione simile,privi di anse. La decorazione è organizzata sudue registri: in quello superiore elementi bacchicisono inseriti in un ambiente naturalistico conalberi, erme e ghirlande; il registro inferiore èinteramente occupato da girali d’acanto popolatida insetti e animali. Anche il piede è ornato difoglie d’acanto. I sec. a.C.

15. Anse.16. Grande cratere, ora perduto, decorato a sbalzo

con tralci di acanto popolati da amorini. I sec.d.C.

17. Cratere a volute18. Brocca19. Attingitoio con ansa coperta da un tralcio di edera,

I sec. d.C.20. Ansa.21. Treppiede.22.23.24. Tre set di vassoi (lanx) composti di tre pezzi

ciascuno, attribuiti ad officina gallica; I sec. d.C.25.26.27. Set di coppe.28. Coppe rinvenute nel numero di quattro, decorate

con tralcio di edera realizzato a niello. I sec. d.C.29. Coppia di piccole coppe con anse, uguali alle

precedenti se ne discostano solo nelle dimensioni.I sec. d.C.

30. Piatto portauovoa, I sec. d.C.31. Coppa.32. Coppa.33.34.35. Piatti da portata.36. Abacus formato da un treppiede di argento

pieghevole sul quale era poggiato un ripianoanch’esso d’argento.

37.38.39.40. Casseruole. 60-70 d.C.41.Manici.42. Recipiente per vivande43. Recipiente scanalato probabilmente utilizzato per

servire l’arrosto.44. Base d’appoggio45. Bicchiere troncoconico rinvenuto in coppia con un

altro frammentario di analoga forma e similedecorazione. Decorazione realizzata su fascesovrapposte composta lotte di animali e tralcivegetali. Inizi I sec. d.C.

46. Bicchiere di produzione provinciale.

BibliografiaTrésors d’orfèverìe 1989, pp. 70-75; EAA IV = Enciclope-dia dell’Arte Antica, vol. IV, Roma 1958, pp. 32-33 (H.Kähler); Pirzio Biroli Stefanelli 1991, p. 271.

219

Il filo d’oro così ottenuto è alla base di diverse lavorazioni, di cuila più comune è quella delle catene di forma semplice, ma anchepiù complessa, che partono dalla lavorazione ‘loop in loop’ dovel’anello è piegato al centro e agganciato ad un secondo anello sem-pre piegato (fig. 4) per arrivare a costruire maglie e cordoni. L’esi-to finale di questa tecnica porta poi a creazioni di notevole effettocome le complesse catene a spina di pesce. Il filo utilizzato comeapplicazione decorativa può essere impiegato liscio, ritorto, go-dronato, intrecciato o perlinato; quest’ultimo caso è ottenuto conuna matrice a due valve o piuttosto con uno strumento concavoche veniva fatto scorrere sul filo stesso (fig. 5).Nell’oreficeria romana continua la tecnica della granulazione per ladecorazione accessoria, anche se con sfere di dimensioni più gran-di rispetto al periodo arcaico e classico. I granuli sono realizzati ta-gliando la lamina in piccoli frammenti quadrangolari e riscaldandolain un miscuglio con polvere di carbone. Il calore fonde i frammen-ti, che formano naturalmente sfere di piccole dimensioni.I vari elementi che compongono l’oggetto finale possono essereassemblati meccanicamente o mediante una saldatura superfi-ciale ottenuta con sali di rame e una colla organica. Quest’ultima,riscaldata, carbonizza e provoca una riduzione del rame che si le-ga all’oro, abbassandone il punto di fusione in superficie e pro-vocando così la saldatura del filo o dei granuli. Plinio conosce unamistura chiamata santerna composta da crisocolla, verderame diCipro, urina di fanciullo, nitro e tritata in un mortaio di rame conun pestello anch’esso di rame (Naturalis Historia, 33, 93).L’oro era utilizzato anche per la doratura di oggetti in materialemeno pregiato. Secondo Plinio era applicato col bianco dell’uovosul marmo e su altri materiali che non potevano essere riscalda-ti, con una colla particolare chiamata leucophorum sul legno (Na-turalis Historia, 33, 64; 35, 36). Per i metalli, la doratura era tuttaviaspesso applicata in modo meccanico, martellando a freddo l’og-getto da dorare rivestito dalla lamina d’oro. Plinio tuttavia cono-sce anche la doratura a caldo (Naturalis Historia, 33, 64-65) che

veniva effettuata ricoprendo l’oggetto con una mistura di oro emercurio e poi riscaldandolo facendo evaporare il mercurio. Il ri-sultato è una distribuzione costante dell’oro sulla superficie.In epoca romana cresce il livello di specializzazione delle mae-stranze tra cui vengono citati dalle fonti figure come gli aurifices,i bractearii che si occupavano della martellatura delle lamine, i cae-latores (cesellatori), gli excusores (fonditori) o come gli artigianispecializzati nell’intaglio delle pietre (gemmarii, gemmatores) enell’incastonatura (inclusores) o nella toreutica (crustarii o ana-glyptarii) o nel trattamento delle perle come i margaritarii.Numerose pietre impreziosiscono l’oreficeria romana: calcedoni,diaspri, smeraldi, corniole, sardoniche, onici, lapislazzuli, grana-ti. Una panoramica delle pietre preziose in uso sotto l’impero lafornisce Plinio nel XXXVII libro; il naturalista pone al primo postonella scala dei valori delle gemme il diamante (diffuso, però, solomolto più tardi, a partire dalla metà del XVII secolo), seguito dal-le perle e poi agli smeraldi, gli opali. Per l’oreficeria più correntesi era soliti incastonare al posto delle gemme paste vitree colora-te ad imitazione delle pietre preziose o utilizzarle come pendentiper gli orecchini o vaghi per collane.Agli oggetti poteva essere applicata anche una decorazione a smal-to (vitrum) che dava una maggiore nota coloristica all’oggetto;l’uso si sviluppa soprattutto in età tardo antica con il perfeziona-mento della tecnica cloisonné, che consisteva nel riprodurre i con-torni e le partiture interne di una figura attraverso una trama dicelle sistemate su un supporto metallico, poi riempite da smaltidi colore diversi.

Bibliografia.Duval, Eluère, Hurtel 1989, pp. 5-13; Formigli 1976, pp. 203-210; Formigli 1979, pp.281-292; Formigli 1983, pp. 321-333; Formigli 1985; Formigli, Heilmeyer 1990; For-migli 1992, pp. 68-72; Formigli 1993a, pp. 15-18; Formigli 1993b; Formigli, Pacini2008; Mello, Parrini, Formigli 1983, pp. 548-551; Parrini, Formigli, Mello, pp. 118-121; Pirzio Biroli Stefanelli 1992;Treister 2001; Williams, Ogden 1994.

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Fig. 4 - Lavorazione ‘loop in loop’ (da Williams Odgen 1994)

Fig. 5 - Lavorazione di un filo d’oro (da Williams Odgen 1994)

su una roccia, il braccio sinistro sorregge av-volgendolo lo scudo, il destro è posato su unelemento verticale dall’estremità superiore ri-curva, identificato come un timone o un’an-cora. La dea indossa una lunga veste, egidaed elmo a tre creste sostenute da una sfingee due pegasi, ripresa dell’iconografia fidiaca.Lo sfondo della scena è caratterizzato esclu-sivamente dalla roccia, posta davanti alla di-vinità, sulla quale si trovano una corona difoglie d’ulivo, pianta sacra alla dea, e una ci-vetta. La presenza del timone potrebbe rife-rirsi al legame che la figlia prediletta di Zeusha con la navigazione: ella, infatti, nata dal-l’unione del divino Zeus e di Metis, figlia del-l’Oceano e personificazione di ragione eintelligenza, è considerata come colei che hainsegnato agli uomini a navigare, adorata aLindo come la dea che aveva insegnato a Da-nao a costruire la prima nave a cinquanta re-mi è ricordata, inoltre, come colei che dirigei lavori per la costruzione della nave degli ar-gonauti e che guida nella notte i naviganti at-traverso le sconfinate vie del mare; si trattadell’Atena identificata con l’epiteto di Aithiagià riconosciuta nel tipo statuario dell’Atenadetta ‘Rospigliosi’, nota anche da un esem-plare degli Uffizi, rappresentata anch’essa co-me la divinità della coppa di Hildesheim, inambiente roccioso con la civetta poggiata suuna roccia e lo sguardo rivolto verso il cielo.Il manufatto, attribuito a produzione sirianae datato alla metà del I sec. a.C., discende daprototipi di età ellenistica molto apprezzatidai Romani: si tratta delle sontuose coppecon emblema testimoniate in questo stessotesoro anche dalle coppe con l’immagine diHerakles e con i busti di Cibele e Attis. Que-sto tipo di coppa, come la coppa con bustodi Africa dal tesoro di Boscoreale (Pirzio Bi-roli Stefanelli 1991, cat. N. 37, fig. 99), insie-me ad altri pezzi sontuosi, più che essereimpiegate nel convivio, erano esposte su ta-voli appositi per essere ammirate dagli invi-tati, come testimoniato da Cicerone quandoparla della casa di Diocle di Lilibeo e di quel-la di Sisenna con triclini carichi di argenterie(Cicerone, In Verrem, II, 4, 15, 33.).

M.C.

Bibliografia:Anti 1920, pp. 269-318; Canciani 1984, n. 269; Gehring1967, p. 19, tav. I; Gehring 1980, p. 13, tav. I.; Kuthmann1959; Pernice, Winter 1901, pp. 21-24, tavv. I-II; PirzioBiroli Stefanelli 1991, p. 271, n. 91, fig. 167.

Sez. 8.8 - Lucerna in bronzobilicne

Tecnica: fusioneMateriale: bronzoDimensioni: h 25 x 27 x 15Provenienza originale: PompeiCronologia: I d.C.Luogo di conservazione originale: Napoli, MuseoArcheologico Nazionale

Riproduzione in bronzo: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3312

Lucerna bilicne. Alto piede campanulato, va-sca globulare decorata ai lati da foglie di vitein parte staccati dal piano. Lunghi becchi tu-bulari decorati da girali nella parte superioree terminanti a U in un bordo sporgente de-corato a solchi paralleli; nella parte posterio-re dei becchi, testina in rilievo di donna conboccoli, rivolta verso il basso. Ansa ad anel-lo coperta superiormente da una ricca deco-razione a traforo costituita da girali, foglie efiori.

Il coperchio è costituito da un disco su cui èsaldata una statuina di sileno, che danza: lagamba sinistra è flessa e avanzata, provo-cando una lieve torsione del busto. La manosinistra regge una coppa mentre il bracciocorrispondente trattiene unmantello che, dal-la spalla su cui poggia, scende sul braccio ri-piegato per poi pendere in pesanti pieghe. Ilbraccio destro è sollevato in alto, la testa delsatiro è lievemente piegata in basso ed è co-ronata da una tenia trattenente una coronci-na di pampini.Le lucerne di bronzo si presentano come unoggetto di alta qualità, riservato alle classiagiate, sia per il materiale di cui sono com-poste, sia per la lavorazione più costosa.Esistono casi particolari di lucerne, sia fittilisia bronzee, in forma di piedi, animali, testedi satiri o pigmei.

S.S.

BibliografiaValenza Mele 1981, p. 38, figg. 59 a-b-c-d; Pirzio Biro-li Stefanelli 1990.

221

Sez. 8.7a - Tesoro di argenterie daHildesheim: piatto per uova

Tecnica: fusione e incisioneOriginale: piatto in argentoMisure: diametro cm 27; altezza cm 5.9; peso gr 514.Provenienza: da Hildesheim, Hannover, Germania.Luogo di conservazione: Berlino, Staatliche MuseenPreussicher Kulturbesitz, Antikemuseum. Inv. n.3779, 58.

Datazione: I sec. a.C.Copia galvanoplastica: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 2649

Piatto poco profondo, con fondo piano. L’in-terno presenta dodici incavi destinati proba-bilmente a contenere delle uova, sistematiintorno a uno spazio centrale decorato a in-cisione con le figure di dodici fiori di tipo di-verso, su lungo stelo, disposti a raggiera e alcentro un fiore a sei petali. Sul retro è graffitoMARSI pondo II nucias II scripula II, il pesocorrispondente a gr. 771,75 è notevolmente di-verso rispetto a quello riscontrato, tale diffe-renza è da attribuire alla presenza in originedi tre piedi metallici di cui restano gli incastri.Le uova erano un alimento molto consuma-to dagli antichi romani tanto in città quantoin campagna, si trattava di un prodotto dellecampagne, dove era compito della vilica te-

nere molte galline allo scopo di incrementar-ne la produzione (Catone,De agri cultura. 143,3), erano vendute nelle osterie, presentate al-l’acquirente in vasi di vetro colmi d’acqua in-sieme a fegatini, cipolle e altre leccornie(Macrobio, Saturnalia, 7, 14, 1). Un vaso di ve-tro contenente uova è raffigurato sulla paretedi una taberna di Ostia antica. Le uova, siaquelle deposte dalle galline di allevamento siaquelle raccolte dai nidi, erano consumate indiversi modi: si bevevano fresche (ovum sor-bile), alla coque (ova [h]apala, molli) con uncucchiaio particolare detto (h) apalare e ac-compagnate da una salsa al garum e da di-versi condimenti, oppure fritte o sode (Apicio,De re coquinaria, 7, diciannove.). Generalmenteservite come antipasto erano anche usate perarricchire alcuni tipi di pane e secondo Plinio,che ne enumera le diverse doti curative, era-no l’alimento più indicato per nutrire i malatiin quanto non appesantivano e offrivano con-temporaneamente le qualità di una bevandae di un alimento solido (Plinio, Naturalis Hi-storia, 29, 39-55).

M.C.

Bibliografia:Pernice, Winter 190; Gehring 1967; Gehring 1980; L’ali-mentazione nel mondo antico 1997; Pirzio Biroli Ste-fanelli 1991, p. 273, n. 100, fig. 174; Cerchiai 2004;Antichi sapori 2005.

Sez. 8.7b - Tesoro di argenterie daHildesheim: coppa con figura diAthena seduta su trono

Tecnica: fusione, lavorazione a sbalzo, doratura,incisione

Originale: coppa in argento lavorato a sbalzo,dorato in più punti.

Misure: diametro con ansa cm 32,5; diametroemblema cm 16; peso gr 1984.

Provenienza: da Hildesheim, Hannover, Germania.Luogo di conservazione: Berlino, Staatliche MuseenPreussicher Kulturbesitz, Antikemuseum. Inv. n.3779, 1.

Datazione: I sec. a.C.Copia galvanoplastica: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 2675

Grande coppa con piccolo piede circolare, de-corata all’esterno da foglie lanceolate, orlo epiede sottolineati da una fila di perline; le dueanse, fuse separatamente, sono decorate nel-la parte superiore da un elemento floreale.La parete interna, dal profilo concavo, pre-senta una decorazione a palmette ed elementifloreali; una fascia decorata da kyma lesbio,succeduta internamente da un motivo a per-line, incornicia l’emblema decorato a rilievoposto sul fondo del vaso, qui mediante un ri-lievo molto alto è resa la figura di Atena re-trospicente, rappresentata di tre quarti seduta

220

giore programmazione ed organizzazione); quella silvo-pastorale, le-gata sia all’allevamento che alla raccolta di altri prodotti del bosco. Se-condo Catone (De agricultura 1, 6) la proprietà di un bosco sottopostoa tagli regolari per la produzione di legna e soprattutto legname (silvacaedua) rendeva di più del bosco legato al pascolo ed alla raccolta, so-prattutto di ghiande (silva glandaria); il bosco rappresentava, comun-que, all’interno di una tenuta agricola, un’attività a basso investimentoed a rendita garantita, con costi di gestione quasi nulli dato che la pro-duzione era spontanea.Il legname da costruzione, per il suo vastissimo impiego, era tra lemerci maggiormente richieste dai mercati più importanti, come quel-lo di Roma e di altre grandi città, che ne consumavano quantità e vo-lumi assai consistenti. Esso doveva essere selezionato negli anni,abbattuto e trasportato anche su lunghe distanze, con un prezzo checresceva in rapporto alla lunghezza del tronco ed al tipo di albero, fi-no a raggiungere anche somme notevoli. Il pino e l’abete erano con-siderati le migliori specie per l’edilizia, dato che raggiungevanolunghezze impossibili per altri alberi, come la quercia, più resistentema che cresce molto più lentamente delle altre due.La legna da ardere, invece, non comportava una selezione del mate-riale da raccogliere e da immettere sul mercato; era un prodotto divasto consumo, rappresentato da rami, ceppi, arbusti, alberi giovanied altri materiali di scarso valore, reperibili con maggiore facilità e lacui qualità non era un fattore molto importante. Lo stesso valeva peril legno destinato a produrre oggetti di uso quotidiano, attrezzi e uten-sili, mentre tempi più lunghi e competenze più specifiche erano ri-chieste per la produzione di carbone e pece. Unamaggiore attenzioneall’essenza legnosa ed alla qualità del materiale era, infine, necessa-ria per la costruzione di mobili, per i quali, ad eccezione dei prodottidi lusso, si tendeva comunque ad utilizzare le specie arboree dispo-nibili nel territorio.Il taglio delle piante nel bosco avviene di solito in autunno, concluso ilperiodo della crescita annuale, ed è un momento che va ben scelto edorganizzato, come va operata una selezione di quante e quali pianteabbattere. Gli strumenti del taglialegna in età romana erano ascia, cu-nei e sega (sez. 7, n. 7). Con l’ascia si interveniva alla base del troncocon forza, tagliando le fibre perpendicolarmente; essa poteva avere unasola lama o una lama ed una punta Se il diametro di un albero era par-ticolarmente ampio, si usava la sega a due manici, manovrata da duepersone,mentre contemporaneamente, con l’avanzare del taglio in pro-fondità nel tronco, si collocavano in esso dei cunei, per evitare che il le-gno pesasse troppo sulla lama, lasciando ad essa maggiore spaziod’azione. Per preparare e facilitare la caduta del tronco, il boscaiolo, pri-ma di abbatterlo poteva tagliare i rami con una roncola, un’accetta oun saracco (coltello lungo e curvo con la lama molto seghettata).L’albero abbattuto, liberato dai rami ma non dalla corteccia, era poisgrossato con l’ascia. Era comunque prima di essere avviato alla ven-dita che il materiale ligneo assumeva la forma e la lunghezza utili al-l’impiego di cui sarebbe stato oggetto, venendo segato e trasformatoin tronconi (dal latino truncare, tagliare, da cui deriva lo stesso ter-mine italiano “tronco”). Con i rami di piccole dimensioni rimasti aterra in seguito alla sgrossatura si facevano fascine, mentre i rami piùgrossi, erano ancora tagliati per ottenere legna da ardere e/o carbo-ne oppure materiale utilizzabile nell’ambito della falegnameria, a se-conda del tipo e della qualità di legno. Se si trattava, invece, di legname

da costruzione, il materiale era direttamente condotto verso il luogodi lavorazione e di stoccaggio, con un trasporto su carri e, soprattut-to, per via fluviale e marittima, garanzia di una spedizione più rapidaed economica (cfr. sez. 6). Sia nel caso del legno da carpenteria cheper quello da falegnameria, a questo punto il materiale era lasciatoessiccare, trattando la superficie in modo che non si deformasse onon vi apparissero macchie; questa fase poteva durare anche diversianni, a seconda della qualità di legno. Solo quando era giunto nel can-tiere e nell’officina, invece, il tronco era scortecciato, con la scure ouno strumento apposito, fatto da una lama rettangolare montata sudi un lungo manico, il quale tagliava in strisce la corteccia senza dan-neggiare il legno e riducendo al minimo, di conseguenza, la perditadi materiale utile.Dunque, in base all’utilizzo a cui era destinato, il legno era soggettoad un processo di lavorazione in cui intervenivano diverse figure pro-fessionali: il taglialegna, che abbatteva l’albero, lo sgrossatore, che silimitava a regolarizzarne rozzamente la forma e ad eliminare i rami,mentre alla fine potevano intervenire vari artigiani, come il carpen-tiere, il falegname, il carbonaio, o direttamente il venditore di legna.La distinzione tra materia e lignum si riproponeva anche in ambitoprofessionale, con le diverse figure del materiarius, collegato alla car-penteria edile ed alla vendita di legname da costruzione, e del ligna-rius, che piuttosto si occupava del taglio della legna del bosco e dellasua vendita. È stato ipotizzato, infine, che i dendrophori si occupas-sero del trasporto del legname e del suo arrivo sul mercato.

223

Nel Mediterraneo antico il legno era senz’altro una delle più impor-tanti e preziose materie prime e tra le più diffuse, essendo rappre-sentato da una grande varietà di specie arboree dalle diversecaratteristiche. Si trattava della principale fonte di energia e di riscal-damento e di uno dei materiali fondamentali nell’edilizia. Si utilizza-va, inoltre, il legno per costruire armi e fortificazioni, strutturetemporanee o permanenti anche di grandi dimensioni quali ponti eteatri, coperture, mezzi di trasporto su terra e imbarcazioni, moli ebanchine, mobili, attrezzi, utensili e numerosissimi tipi di oggetti.Rispetto a quanto viene (oggi ed a partire da epoca assai più recen-te) sfruttato e che lo ha soppiantato sia come materia prima che co-me combustibile, il legno era un materiale relativamente facile dareperire, caratterizzato da bassi costi di produzione e che si rinnova-va da solo nel tempo, anche se lentamente.La produzione e la lavorazione del legno, per la natura stessa del ma-teriale, sono stati caratterizzati da grande conservativismo sia nei me-todi che nelle tecniche, per cui si sono mantenuti quasi inalterati neisecoli, dal mondo antico fino all‘età contemporanea; solo, infatti, conla produzione industriale sono state abbandonate le tecniche tradizio-nali della falegnameria, mamolti degli utensili che fino a pochi anni fa,ed in alcuni casi ancora oggi, si impiegavano a livello artigianale eranogli stessi utilizzati in età romana. Le nostre principali fonti di informa-zione sul legno nel mondo antico non sonomolte (scarsissimi resti ar-cheologici, epigrafi, bassorilievi...) e sono rappresentate soprattutto datesti letterari: Teofrasto, naturalista greco del IV secolo a.C., la cui trat-tazione segue il punto di vista della scienza dell’epoca; Plinio il Vecchio,che in età flavia, nella stesura dei libri XVI e XVII della sua enciclopediaNaturalis Historia, prende spunto dal precedente autore ma anche daaltre fonti; Catone, Columella e Palladio, che rispettivamente nel II se-colo a.C., nel I e nel IV secolo si interessano degli alberi all’interno del-le loro opere sulla corretta gestione di una proprietà agricola; infineVitruvio, architetto di età augustea, che si occupa del legno in ambitoedilizio. Per informazioni sul legno come benemateriale e di commerciodisponiamo, infine, di alcuni passaggi contenuti in testi legislativi e del-l’Edictum de pretiis di Diocleziano (sez. 6,5).Sia dal punto di vista della produzione che da quello della lavorazio-ne, del mercato e dell’utilizzo stesso, il mondo romano conosceva unabasilare distinzione tra la legna da ardere o destinata alla falegname-ria (il lignum) ed il legname da costruzione sia in campo edile che na-vale (la materia), le cui qualità specifiche erano il volume e la notevolealtezza necessari, mentre era un elemento di preferenza la vicinanzadel luogo di produzione a vie di trasporto adatte a carichi pesanti, qua-li soprattutto le vie d’acqua marittime e fluviali. Il legname rappresen-

tava, infatti, un basilare materiale sia in campo navale che edilizio, an-che per la costruzione di impalcature e casseforme, per le travaturedel tetto, per architravi e pilastri di sostegno, per la realizzazione del-l’opera a graticcio, ma anche per la realizzazione di piccole strutturequali capanni, tramezzi, tettoie, recinzioni, scale, soppalchi ecc.Da questa distinzione tra i vari impieghi del legno derivavano diverseeconomie forestali, spesso anche in contrasto tra loro: l’economia del-la raccolta della legna da ardere, (meno sviluppata e specializzata),connessa a volte con la produzione di carbone e pece; quella incen-trata sulla produzione e commercializzazione del legname, materialerichiesto in edilizia (attività assai più redditizia ma che richiedevamag-

222

Falegnameria e carpenteria

Francesca Diosono

Fig.1 - Roma. Colonna Traiana. Particolare che rappresenta una scena di raccolta

di legna da parte dei soldati. Il bassorilievomostra varimomenti di questa attività,

dall’abbattimento dell’albero a diversi tipi di trasporto della legna. Gli attrezzi che

dovevano trovarsi in mano ai personaggi (i cui gesti fanno intuire, ad esempio,

l’uso di un’accetta) eranomodellati in bronzo e sono stati trafugati dalmonumento

nei secoli passati (Riproduzione in gesso: Roma, Museo della Civiltà Romana).

Fig. 2 - Pompei. Insegna di officina lignaria conprocessione di falegnami (I sec. d.C.).

Il dipinto si trova all’esterno di quella che è stata identificata come una officina

lignaria, ossia una bottega di falegnami. Si tratta di una testimonianza

preziosissima, poiché è una della pochissime rappresentazioni di una processione

religiosa di lavoratori romani. Vi si vedono, infatti, i magistri della professione,

indicati dal bastone che recano inmano, portare a spalla una portantina ornata di

ghirlande e di imagines relative al loro mestiere. Di esse, la prima a destra

rappresenta Dedalo che ha ucciso il nipote colpendolo in testa con il compasso da

lui inventato; le altre due sono raffigurazioni di falegnami al lavoro. (riproduzione:

Roma, Museo della Civiltà Romana)

do, invece, un tronco doveva essere suddiviso in due o più pezzi, que-sto era sistemato su di un alto cavalletto e fatto ruotare su se stessoman mano che si procedeva con vari tagli, praticati con una grandesega a telaio manovrata da più persone, in modo da non rischiare frat-ture improvvise dovute ad un unico taglio troppo profondo.Gli elementi della carpenteria sono sottoposti a forze differenti (com-pressione, flessione, trazione e attrito), anche perché il legno è unmateriale flessibile, che tende a profonde deformazioni dovute sia alpeso che alle condizioni climatiche e che sostiene tali spinte attra-verso le sue fibre. Di conseguenza i carpentieri dovevano avere mol-ta esperienza pratica e saper tenere in conto tutti questi fattori quandomettevano in opera i singoli elementi e dovevano saper calcolare an-che esattamente come collegarli tra loro. Nel caso dell’unione di due

pezzi accostati tra loro, per aumentarne la solidità il carpentiere pra-ticava in essi da parte a parte un foro con un succhiello e vi colloca-va un sbarra, sempre di legno, oppure poteva ricorrere ad elementimetallici di giunzione, come chiodi o grappe; se invece i pezzi dove-vano incastrarsi l’uno con l’altro, se ne modellavano le due estremi-tà in modo da formare il tipo di giuntura più adatto.Infine, tutti gli elementi in legno, sia nel campo della falegnameria chein quello della carpenteria, necessitavano di rifiniture, che venivano ese-guite sia prima che dopo la loro messa in opera. Queste si potevanorealizzare con vari attrezzi: l’accetta, il coltello a due manici e la pialla,che permetteva già all’epoca una precisione molto alta nel rifinire siaparti fisse che mobili; per lavorare nelle cavità, si utilizzavano lo scal-pello e un martello di legno, per fare piccoli fori, il trapano ad archetto.

225

Secondo la tradizione romana, l’arte della falegnameria sarebbe sta-ta un’invenzione di Dedalo, il mitico primo artigiano, che avrebbe ap-preso le tecniche per lavorare il legno dalla dea Minerva, realizzandoper prima cosa un tavolo ed uno sgabello; Dedalo avrebbe inoltre crea-to gli strumenti principali per tagliare, assemblare e misurare il ma-teriale, quali l’ascia, la sega, il filo a piombo, il trapano e la colla. Perquesto i falegnami romani avevano come divinità protettrice Miner-va ed amavano far rappresentare la figura di Dedalo nelle proprie bot-teghe o anche su oggetti di uso personale.I falegnami si definivano fabri lignarii o, più genericamente, fabri; laloro bottega era l’officina lignaria, di cui si conoscono alcuni esempi,molti dei quali a Pompei. Gli attrezzi del mestiere appaiono spessoraffigurati su bassorilievi di vario tipo e sono a volte citati anche daitesti letterari, mentre ne conosciamo scarse testimonianze materia-li, provenienti da scavi archeologici, essendo il ferro ed il legno, di cuila maggior parte di essi era costituita, due materiali di difficile con-servazione nel tempo. I principali strumenti utilizzati nella falegna-meria di età romana erano ascia, sega, filo a piombo, trapano, colla,livella, compasso, martello, scalpello, pialla, lima, raspa, regula, lineae squadra. Il trapano (terebra) tradizionale aveva una punta liscia o asucchiello, mentre la punta elicoidale, molto più efficace, entrò a farparte dell’attrezzatura dei falegnami romani solo agli inizi del I seco-lo d.C. diffondendosi dalla Gallia, da cui il nome di terebra gallica. Seosserviamo questi attrezzi da falegnameria, appare quasi incredibilequanto essi siano poco cambiati nel corso dei secoli; ciò è avvenuto

perché la loro forma derivava direttamente dalla funzione che devo-no svolgere: una volta sviluppata la forma migliore per lo strumentoche doveva realizzare una particolare funzione, non c’è stata neces-sità di cambiarla fino all’applicazione a tali attrezzi dell’energia elet-trica. I mobili erano all’epoca realizzati tramite l’unione delle singoleparti lavorate o semi-lavorate; esse erano assemblate con colle di di-verso tipo ma in molti casi anche senza l’impiego di esse, avendo gliartigiani a disposizione una notevole varietà di giunti ad incastro tracui scegliere, in base al tipo di legno, alle dimensioni dei pezzi, al ti-po di lavorazione ed ai pesi che avrebbe dovuto sostenere.Coloro i quali lavoravano il legname, soprattutto quello destinato al-l’edilizia ed alla carpenteria navale, erano i fabri tignarii ed i fabri na-vales. I fabri tignarii, (da tignum, trave) dovevano essere carpentieriedili ed operai costruttori, mentre i fabri navales erano i lavoratori deicantieri navali. In entrambi gli ambiti, si trattava di lavori che richie-devano elevata professionalità e competenza, organizzazione ed espe-rienza, che si rispecchiavano, nel caso di coloro che lavoravano ingrandi cantieri, anche in una complessa gerarchia interna.Il legno giunto sul cantiere spesso doveva ancora proseguire la pro-pria stagionatura in ambienti dalle caratteristiche adatte; dopo di cheviene squadrato, dandogli una forma più regolare, quadrata o rettan-golare. Per la squadratura il tronco era posto su sostegni che lo man-tenessero orizzontale ma non a contatto diretto col suolo, in modo darendere più agevole all’artigiano l’atto del colpirlo lateralmente conuna scure da squadratura (dolabra) dalla lama sottile e larga. Quan-

224

Fig. 4 – Ravenna. Stele funeraria di

faber navalis (età augustea).

In alto è ritratto il faber navalis P. Longidienus e sua

moglie, al centro i suoi liberti e operai, P. Longidienus

Rufio e P. Longidienus Pilades, in basso

la rappresentazione dell’artigiano al lavoro, intento

a realizzare un’imbarcazione, come esplicita l’iscrizione

nel piccolo riquadro a destra: ‘Longidienus è intento

alla sua fatica’ (Ravenna, Museo Nazionale;

riproduzione, Roma, Museo della Civiltà Romana).

Fig. 3 – Roma. Altare dedicato a Minerva dal collegio

professionale dei falegnami. Uno dei bassorilievi che ne

decorano i lati rappresenta, insieme a oggetti legati al culto

quale il copricapo sacerdotale dei flamines, il lituo ed il

coltello sacrificale, alcuni attrezzi che i falegnami

utilizzavano nel loro lavoro, come asce, scuri, seghe (Roma,

Musei Capitolini; riproduzione: Roma, Museo della Civiltà

Romana).

Fig. 5 - Recipiente in vetro con decorazione a foglia d’oro. Il

raffinato disegno, databile agli inizi del IV secolo, mostra

varie attività connesse alla falegnameria; i personaggi in

secondo piano sono rappresentati al lavoro mentre

utilizzano (in senso orario partendo dal basso a sinistra) la

sega a telaio, l’ascia-piccone, il trapano ad archetto, la pialla,

lo scalpello ed uno strumento non più identificabile ma

collegato alla carpenteria navale. Quello in alto a destra ha,

inoltre, accanto la raffigurazione di Minerva. La figura

centrale potrebbe essere identificata con un ricco falegname

possessore di tale oggetto prezioso oppure con Dedalo,

protettore degli artigiani, visto che l’iscrizione,

frammentaria, riporta “Daedalii spes tua...”.

Roma. Biblioteca Apostolica Vaticana.

(riproduzione: Roma, Museo della Civiltà Romana).

Bibliografia di riferimentoAdam 2003; Bois 1995; Braconi 1998; Caldelli 1994; Chevallier 1987, pp.147-172; Cüppers 1986, pp. 87-106; DeCarolis 2007; Destro 2004, pp.77-93; Diosono 2009a; Diosono 2009b; Duvauchelle 2005, pp.125-137; Ferrarini1992, 1992, pp.191-206; Fioravanti 2004, pp. 95-100; Galetti 2004; Giardina 1981; Graham 2005, pp.106-124;Grodde 1989; Guibal, Pomey 1998, pp.159-175; Hedinger, Leuzinger 2003; Kramer 1995, pp.217-231; Lewin 1983,pp. 127 ss.; Lusuardi Siena 1994, pp. 319-332; Makkonen 1969, pp. 1-46; Meiggs 1982; Mols 1999; Nenninger 2001;Nenninger 2005, pp.388-392; Pugsley 2003; Richter 1966; Rival 1991; Ulrich 2007; Winter 1974; Zimmer 1982.

Sez. 8.11a - Scure (dolabra)

Esemplare moderno.Materia: ferro, legno.Misure: lama: 19 x 11 x 0,1/03; manico: 74 x 2 x 3Luogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana

La lama è sottile e larga e presenta dimensioniminori rispetto alla scure usata per abbatteregli alberi; la parte posteriore è corta e a se-zione quadrata. Il manico è lungo e sottile.La dolabra veniva utilizzata nella falegnameria,carpenteria edile e navale per la squadraturadel pezzo di legno nella bottega o in cantiere,perché permetteva un taglio obliquo non par-ticolarmente forte che staccava le fibre le unedalle altre.

F.D.

Sez. 8.11b - Cesoie ( forfices)

Riproduzione in ferro.Misure: 29 x 9 x 0,2/2 cmOriginale: da Vindonissa, conservato presso ilMuseo di Brugg (Svizzera)

Cronologia: I secolo d.C.Copia: Roma, Museo della Civiltà Romana.

Le cesoie hanno la forma di grosse e robusteforbici, ma rispetto a queste sono provviste dilame corte in relazione alla lunghezza dei ma-nici, in modo da poter esercitare un‘ appro-priata pressione sulle lame. Questo attrezzo sibasa, come lemoderne forbici, su una leva dop-pia di primo genere, il cui fulcro risiede nel per-no centrale che è rappresentato dalla vite. Ilvantaggio meccanico dato dalla leva, che per-mette di ridurre lo sforzo altrimenti necessario,è aumentato sia grazie all’impugnatura moltolunga, che amplifica la lunghezza del braccio-potenza, che da una posizione delmateriale datagliaremolto vicina al perno stesso. L’elementoricurvo a sezione circolare che prolunga unadelle due impugnature serviva, probabilmen-te, ad appendere l’utensile che era usato nellalavorazione dei metalli per tagliare lamine edaltri oggetti metallici di ridotto spessore.

F.D.

Sez. 8.11c - Pinza ( forceps)

Riproduzione in ferroMisure: 47 x 6,5 x 3 cmOriginale: da Vindonissa, conservato presso ilMuseo di Brugg (Svizzera)Cronologia: I secolo d.C.Copia: Roma, Museo della Civiltà Romana, inv. n.3395

La pinza è formata da due bracci mobili, disolito simmetrici, che girano intorno ad unperno centrale. La parte anteriore, il becco,può avere varie forme, a seconda della fun-zione che deve svolgere; in questo caso leestremità sono massicce, corte e sono ravvi-cinate tra loro al centro per fare maggiore pre-sa sui materiali che trattengono. I manici sononotevolmente lunghi per permettere, attra-verso una leva di primo genere che ha fulcrosul perno, di esercitare sull’attrezzomoltame-no forza di quanta ne risultano a loro voltaesercitare i becchi (molto più corti dei mani-ci) sui pezzi che tengono stretti. Veniva uti-lizzata nella lavorazione dei metalli perafferrare il ferro incandescente da forgiare sul-l’incudine, ma anche, più in generale, per strin-gere e tenere uniti materiali metallici durantela loro lavorazione.

F.D.

Sez. 8.11d. - Maglio (malleus)

Riproduzione in ferroMisure: 10,6 x 5,5 x 4/5 cmOriginale: da Vindonissa, conservato presso ilMuseo di Brugg (Svizzera)

Cronologia: I secolo d.C.Copia: Roma, Museo della Civiltà Romana, inv. n.3396

Il maglio è un grandemartello con le due par-ti laterali uguali e simmetriche ed era di soli-to montato su di un corto e resistente manicocentrale. In questo caso l’attrezzo è caratte-rizzato da una strozzatura al centro, mentrei lati sono tondeggianti all’estremità ed han-no sezione quasi quadrata.Nella lavorazione dei metalli il maglio servi-va per battere il ferro caldo

F.D.

BibliografiaAdam 2003, pp. 97-98. A.Gansser-Burckhardt,Das Le-der und seine Verarbeitung im römischen Legionslagervon Vindonissa, Basel 1942.

227

Sez. 8.9 - Rilievo c.d. dei fabritignarii

Originale: marmo bianco.Misure: lungh. max 150 cm; h 56 cm; spess. 8/25 cmProvenienza: da Roma, Foro OlitorioCronologia: I sec. a.C.-I sec. d.C.Luogo di conservazione: Roma, Musei CapitoliniRiproduzione in gesso: Roma, Museo della CiviltàRomana inv. n. 3408

Il rilievo apparteneva ad un grande altare fat-to probabilmente erigere dal collegio dei fabritignarii in onore della loro divinità protettriceMinerva, che è rappresentata all’interno di unabottega artigiana in cui si producono mobili.Nonostante la perdita di molti frammenti del-le figure umane, è possibile riconoscere le sin-gole attività svolte dagli artigiani raffigurati (edesempio, due delle figure a destra stanno la-vorando ad un tavolino rotondo con tre gam-be scolpite a forma di testa di leone) ed anchealcuni attrezzi appesi alle pareti (seghe a te-laio, compasso a spessore e squadra).

F.D.

Bibliografia:Colini 1947; Ulrich 2007.

Sez. 8.10 - Stele funeraria conscena di bottega di fabbro

Materiale: marmoProvenienza: AquileiaLuogo di conservazione: Aquileia, MuseoArcheologico Nazionale

Cronologia: fine I- II sec. d.C.Riproduzione in gesso: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3376

La rappresentazione di una bottega di fabbroè divisa nel rilievo in due parti: sulla sinistra èraffigurata l’officina, sulla destra strumenti dalavoro. Il fabbro, seduto davanti all’incudine(incus), tiene nella mano sinistra con una pin-za un ferro, evidentemente incandescente, elo sta battendo con un grosso martello. Die-tro, il suo garzone, in tunica esomide, attizzacon un mantice il fuoco nella fornace, che èraffigurata come una casetta.Nella parte destra della stele sono rappresen-tati, dall’alto: una tenaglia (forceps), un mar-tello (malleus), una lima (lima) e una incudine(incus).L’esecuzione della scena è attenta e detta-gliata anche se le proporzioni non sono rea-

listiche, come dimostra il rapporto tra i duepersonaggi e la fornace. Nonostante la com-posizione sia sviluppata su un solo piano, sinota il desiderio di obbedire ad una certa pro-spettiva: infatti, per dare profondità alla sce-na (che si stacca su un fondo neutro), si ricorreall’abbassamento e all’inclinazione del bloc-co che regge la fornace.Il committente di questo monumento fune-bre è, quindi, un fabbro che si fa rappresen-tare al lavoro, secondo i canoni dell’arte plebeache tanta importanza aveva riservato alla raf-figurazione degli strumenti da lavoro del ti-tolare del sepolcro.

R.M.

BibliografiaG. Brusin, Il museo archelogico di Aquileia, Roma 1936;G. Zimmer, Romische Berufdarstellungen, Berlino 1982;A. Neuburger, The tecnical Arts and Sciences of the An-cients, London 1930.

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Sezione 9

vetro e argilla

vitree accostate insieme, bassi piatti in vetro mosaico con i bordisvasati, alte ed eleganti ampolle per profumi con tappi asportabilie decorazioni a fasce ondulate di vetro blu, verde bianco con seg-menti a foglia d’oro.Intorno alla metà del I sec. a.C. avvenne una grande rivoluzionenella produzione vetraria con la introduzione della tecnica dellasoffiatura.La tecnica della soffiatura ebbe probabilmente origine in area si-ro-palestinese nella prima metà del I sec. a.C.; la prima testimo-nianza archeologica conosciuta proviene da una tomba ebraicascoperta nell’oasi di Ein Gedi, sulle rive occidentali del Mar Nero,dove vennero rinvenute una coppa colata a stampo ed una botti-glia in vetro soffiato: la necropoli risulta abbandonata tra il 40 edil 31 a.C.. Un’ulteriore testimonianza ci viene dal ritrovamento fat-to in un complesso di cisterne e piscine, datato alla prima metàdel I sec. d.C., situato nel quartiere ebraico della vecchia Gerusa-lemme dove sono stati trovati scarti di lavorazione di un’officinavetraria che consistono in coppe colate a stampo, databili tra la fi-ne del II ed il I sec. a.C., in frammenti di ampolle soffiate attra-verso la parte terminale della fiala e in unguentari soffiati con unacanna.Questi ritrovamenti testimoniano che l’introduzione della nuovatecnica avvenne in modo graduale e che le officine vetrarie, pre-senti in questa area, continuarono la consueta produzione di cop-pe tardo-ellenistiche colate a stampo sperimentando nel contempola nuova tecnica.Assieme all’introduzione della canna per la soffiatura, gli artigia-ni mediorientali crearono fornaci in grado di raggiungere tempe-rature più elevate rispetto alle precedenti consentendo così ai variingredienti di raggiungere il giusto grado di fusione e produrre pa-ste più malleabili riuscendo, anche, ad ottenere vetro perfetta-mente trasparente, attraverso l’aggiunta di sostanze decolorantiquali l’ossido di manganese, e di diverse colorazioni, tramite lasapiente aggiunta di differenti ossidi metallici.L’acquisizione e la diffusione della tecnica della soffiatura permi-sero la produzione di grandi quantità di vetro in tempi brevi e concosti piuttosto bassi che consentirono l’espandersi dell’utilizzo diquesto materiale anche tra le classi sociali meno abbienti.

Il vetro dei RomaniGrazie alla grande rivoluzione tecnologica, dovuta all’introduzio-ne della soffiatura, il vetro si trovò a competere con i materiali usa-ti da sempre nell’antichità, i metalli e la ceramica, per la produzionedi vasellame di uso comune e gli artigiani romani dettero un im-pulso determinante nella sua diffusione ed ad un suo più ampioutilizzo nei vari contesti della vita quotidiana.L’inizio della diffusione di questa tecnica coincise più o meno conla nascita dell’impero romano e fu favorita da una serie di condi-zioni politiche e commerciali; infatti, durante il principato di Au-gusto (27 a.C. – 14 d.C.) si creò un clima di pacificazione sia a Romache in tutte le province dell’impero che facilitò le comunicazioni edi rapporti commerciali tra aree anchemolto distanti tra loro. Romae l’Italia intera divennero il centro di questa ampia rete commer-ciale attirando artigiani e mercanti da tutte le parti dell’impero, esoprattutto dall’area del Mediterraneo orientale, e numerose offi-

cine per la produzione del vetro furono impiantate a Roma, dovesappiamo dalle testimonianze epigrafiche e archeologiche che esi-steva un intero quartiere di vetrai, il vicus vetrarius, vicino a PortaCapena, in Campania e nell’alto Adriatico. In particolare si trasfe-rirono in Italia molti vetrai provenienti da Sidone, dei quali ci ri-mangono i nomi nei bolli impressi sui loro prodotti: tra questiconosciamo Ariston, Artas, Philippos, Neikon e Eirenaios.L’incontro tra gli artigiani locali e quelli sidoni, che avevano allespalle una consolidata esperienza nella lavorazione del vetro, det-te impulso ad un sempre maggiore affinamento della tecnica ve-traria che favorì la grande produzione romana dei vetri.La produzione e la lavorazione del vetro erano due attività sepa-rate ed esistevano le cosiddette ‘officine primarie’ e ‘officine se-condarie’.Nelle officine ‘primarie’ si produceva il vetro grezzo. Analisi effet-tuate su vetri romani di varia provenienza e di diverse epoche han-no dimostrato uniformità delle materie prime usate per laproduzione del vetro: per esempio la presenza costante del fon-dente sodico Natron, di cui l’Egitto e L’Asia Minore possedevanoricchi depositi naturali e non presente in Europa, e l’uniformitàdella sabbia che, come ci racconta Plinio, proveniva dal fiume Be-lo in Fenicia. Queste premesse inducono a due possibili ipotesi:o che i componenti fossero importati dalle zone di origine per poiessere successivamente amalgamati, ipotesi fino ad oggi non do-cumentata, o che esistessero importanti officine ‘primarie’ nel-l’area siro-palestinese, dove veniva prodotto vetro da usare comemateria prima. Non è comunque da escludere totalmente, pur nonavendo ad oggi alcuna testimonianza archeologica, la possibilitàdell’esistenza di officine ‘primarie’ in occidente: infatti sempre Pli-nio (Naturalis Historia 36, 194) afferma che si produceva vetro conmaterie prime locali in Spagna, Gallia e Campania dove, in parti-colare, si usava la sabbia del fiume Volturno.Nelle officine ‘secondarie’ si effettuava la lavorazione della mate-ria prima con la realizzazione dei manufatti e la loro decorazione.La materia prima poteva consistere nel vetro grezzo, come ab-biamo visto sopra, oppure nel riciclaggio di oggetti non più in uso.Il vetro, infatti, può essere rifuso più volte conservando le sue pro-prietà. Grandi quantità di vetro non lavorato e di rottami vetrosisono stati ritrovati nei relitti navali rinvenuti in varie zone del Me-diterraneo e dell’Adriatico accanto ai prodotti finiti.Grazie alla grande diffusione che il vetro ebbe in età romana que-sto assunse un grande valore commerciale ed economico basatosulla qualità e sulla richiesta di mercato dei singoli prodotti, come

231

Secondo un’antica leggenda fenicia, tramandata da Plinio (Natu-ralis Historia 36, 65), alcuni mercanti, tornando dall’Egitto con ungrosso carico di carbonato di soda (detto anche ‘natrum’ cioè sal-nitro), si fermarono una sera sulle rive del fiume Belo per riposa-re. Non avendo pietre a disposizione su cui collocare gli utensiliper la preparazione delle vivande, presero alcuni blocchi di salni-tro e vi accesero sotto il fuoco che continuò a bruciare per tutta lanotte. Al mattino i mercanti videro con stupore che al posto del-la sabbia del fiume e del carbonato di soda vi era una nuova ma-teria lucente e trasparente.La leggenda narrata da Plinio contiene delle verità sulla composi-zione del vetro: infatti esso nasce dalla combinazione della silice(in percentuali che vanno dal 50 % al 75%), minerale contenutonelle sabbie dolci, combinata con la calce (carbonato di calcio) ela sua fusione è favorita da una sostanza alcalina, la potassa o lasoda, ricavata quest’ultima nell’antichità dalle ceneri delle alghe odi piante costiere, e da stabilizzanti, come l’ossido di calcio. La fu-sione di questi componenti avviene a temperature che superanoi 1100° C ma grazie ai fondenti è possibile ottenere delle paste la-vorabili anche a temperature inferiori pari a circa 700° C.Il vetro, di fatto, esiste già in natura ed il più antico è quello che sitrova in alcunemeteoriti cadute sulla terra circa 4500milioni di an-ni fa; pietre vetrose molto comuni in natura sono l’ossidiana, chesi forma per un rapido raffreddamento della lava, e la fulgorite checompare quando un fulmine colpisce la terra creando alte tempe-rature e trasformando il terriccio e la sabbia in materia vetrosa.I primi manufatti in vetro sono da attribuirsi a produzioni dell’areamesopotamica tra il 3000 ed il 2000 a.C. ed all’inizio il vetro erautilizzato per la realizzazione di monili o intarsi ad imitazione del-le pietre dure o semipreziose più costose.Solo intorno alla metà del II millennio a.C. cominciarono, nelle re-gioni occidentali dell’Asia (Siria e Iraq settentrionale), ad essereprodotti i primi vasi in vetro realizzati con la tecnica di modella-zione su nucleo preformato che probabilmente derivava dal pro-cesso di lavorazione della ceramica, nota già dal IV millennio a.C.nel nord della Siria, che prevedeva l’impiego di smalti vitrei per ladecorazione di vasellame, tegole, e altri oggetti vari.Le prime testimonianze dell’uso del vetro in Egitto sono date daalcuni vasetti trovati nella tomba di Tutmosi III che probabilmen-te condusse con sé alcuni vetrai siriani, ritornando dalle campa-gne militari svoltesi tra il 1467 e il1445 a.C., dai quali gli artigianilocali appresero la composizione e i metodi di fusione e che det-tero impulso all’artigianato locale.

Tra l’inizio del XV e il XIII secolo a.C., l’industria vetraria fiorì nel-l’area mediterranea orientale e la conoscenza delle tecniche ve-trarie si diffuse rapidamente pur restando, comunque, il vetro unmateriale raro e costoso soprattutto a causa della difficoltà di pro-duzione.A partire dal X secolo, dopo un lungo periodo caratterizzato daconflitti tra le più grandi civiltà del Mediterraneo orientale, chedeterminarono un forte declino culturale e gravi crisi produttivee commerciali, si conobbe una rinascita politica e commercialeche coinvolse anche i popoli del Mediterraneo occidentale so-prattutto grazie alla fondazione di colonie da parte dei Greci e deiFeniciQuesta rinascita portò, tra l’altro, ad una forte ripresa di tutte leattività artistiche ed artigianali: la fabbricazione dei recipienti invetro fu ripresa dagli artigiani della Mesopotamia e più tardi del-la Siria e già intorno al VII sec. a.C., grazie anche al trasferimentodi artigiani di alta esperienza nell’area del Mediterraneo centralee orientale, sorsero importanti centri di produzione del vetro a Ro-di, in Etruria e nel nord dell’Adriatico; queste botteghe produce-vano soprattutto con la tecnica a nucleo friabile. A Rodi, inparticolare, i vetrai idearono, verso la metà del VI sec., una seriedi contenitori per unguenti e profumi, le cui forme si ispiravano aquelle coeve greche, decorati con filamenti a colori vivaci mar-morizzati; questa produzione perdurò fino alla metà del I sec. a.C.lasciando come testimonianza migliaia di esemplari in tutta l’areamediterranea, nell’Europa continentale e nelle regioni occidenta-li dell’Asia.Tra il VI e IV sec. a.C. nonostante fossero aumentati i centri di pro-duzione e fossero state introdotte nuove tecniche di fabbricazio-ne, quale quella a verga e quella a colatura in stampi aperti o chiusie l’impiego di vetro grezzo, spesso e incolore che veniva colato instampi, molato, levigato e intagliato fino ad ottenere recipienti dinotevole qualità, il vetro continuò ad essere comunque conside-rato un prodotto di lusso.In età ellenistica la produzione degli oggetti in vetro ebbe un’in-credibile ripresa, si cominciò a produrre usando il metodo con fo-glia d’oro e venne ripresa la tecnica del mosaico. In questo periodosi introducono forme che si riferiscono a servizi da tavola con con-tenitori da portata e recipienti per bere come le caratteristiche cop-pe coniche o emisferiche con base arrotondata e decorate conprofondi solchi intagliati sulle pareti di produzione siro-palestine-se. Alla fine del II e nel corso del I secolo a.C., vengono prodotti al-tri tipi di recipienti: coppe coniche o emisferiche ottenute da canne

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Il vetro a Roma

Carla Martini

(Oleson 2008)

no collocate su un piano, le une parallele alla altre, in modo darealizzare un disco che poi veniva riscaldato e adagiato su una for-ma, o erano poste, sempre parallele, in una matrice e saldate colcalore. Alcune coppe attestano una decorazione ottenuta con unastriscia disposta a spirale. In questo caso occorreva realizzare lastriscia di vetro e nello stesso tempo arrotolarla su una forma ca-povolta, fissata su un tornio in movimento, mentre con una spa-tola si correggeva il profilo della coppa. Per ammorbidire la strisciasi fondeva il vetro con la fiamma di una lucerna o di una candela.Quest’ultima tecnica è definita «lavorazione al lume».

Vetro cammeo (Sternini 1995, pp. 120-121)Con il nome di vetro cammeo si intende un tipo di vetro compostoda due o più strati sovrapposti di colore diverso.Si otteneva con co-latura a stampo, intaglio al tornio, molatura superficiale e politura.Questi vetri richiedevano anche tecniche preliminari: la foderatura(casing) o il rivestimento, allo scopo di legare insieme gli strati in ununico pezzo. Era anche necessario un uso minimo della soffiatura.

Vetro diatreto (Sternini 1995, pp. 122-123)Vetro lavorato a intaglio. Il procedimento prevedeva la realizza-zione di un vaso di notevole spessore dal quale venivano aspor-tate le parti superflue, creando un reticolo attaccato alle pareti soloper mezzo di sottili ponti.

Vetro di colore cangiante (Sternini 1995, pp. 110, 119)Tipo di vetro che cambia il colore con la luce. Questa particolareproprietà del vetro era ottenuta aggiungendo piccole quantità dioro, argento e manganese.

Vetro marmorizzato (Sternini 1995, pp. 108-109)Due sono le ipotesi riguardo questa tecnica di lavorazione. Se-condo la prima ipotesi si fondevano delle canne colorate in unamatrice in terracotta e per creare la cavità interna si inseriva un’astadi metallo; successivamente la superficie esterna del vaso venivapolita. La seconda ipotesi prevede la soffiatura di bastoncini in ve-tro colorato, assemblati nell’ordine desiderato.

233

risulta dall’Edictum de pretiis di Diocleziano del 301 d.C. (sez. 6.5) dove vengono stabiliti prezzi diversi per il vetro grezzo rispettoai manufatti che vengono a loro volta stimati a secondo della lo-ro peculiarità e pregio.I prodotti dell’industria vetraria romana erano molteplici sia perquanto riguardava l’uso che si faceva di questi manufatti sia perla loro grande varietà di forme e di colori dovute alle molteplicitecniche di lavorazione che gli artigiani applicavano.Di seguito si riporta un elenco delle tecniche di lavorazione usatenell’antichità:

Costolature (Sternini 1995, p. 107)Tre sono le ipotesi riguardo questa tecnica di lavorazione. La pri-ma prevede l’impiego della tecnica della cera perduta. La secon-da prevede che su un disco di vetro ancora morbido si imprimesseun punzone di forma circolare a stella, ottenendo così un discocon un lato piatto e l’altro costolato; successivamente si ripren-deva la tecnica della modellazione su forma.L’ultima ipotesi spie-ga la lavorazione di questi vasi con l ’uso del tornio: su una formaa scodella capovolta si lasciava adagiare un disco di vetro ancoracaldo, poi si formavano le costolature con un apposito strumen-to, facendo ruotare contemporaneamente il tornio.Alla fine i vasierano sottoposti ad accurata politura, in particolare in corrispon-denza dell’orlo.

Fusione dentro matrice (Sternini 1995, pp. 105-106)Modellazione che avveniva versando del vetro sminuzzato dentrouna matrice, le cui pareti erano state scavate per ottenere il nega-tivo della forma desiderata. Una volta riscaldata la matrice, il ve-tro in esso contenuto si fondeva riempiendo la cavità. Probabilmentefu la prima tecnica di lavorazione:fin dai tempi più remoti infattifurono usati stampi per produrre oggetti fittili e metallici. Tale pro-cedimento fu successivamente adottato anche per il vetro.

Lavorazione a mosaico (Sternini 1995, p.102)Tecnica adottata per vetri policromi ottenuti con sezioni di cannedi colori e di dimensioni diverse, fuse insieme e lavorate succes-sivamente secondo la tecnica della modellazione su forma.

Modellazione su asta (Sternini 1995, p. 100)Tecnica simile alla lavorazione su nucleo, usata per la realizzazio-ne di vasi tubolari (in particolare tubetti per kohl), perle e pendenti.Si ricopriva l’estremità di una barra metallica con un sottile stratodi argilla e calcite, quindi si procedeva come per i vasi su nucleo.

Modellazione su forma (Sternini 1995, p. 101)Tecnica usata per realizzare coppemonocrome e a strisce colorate.Nel primo caso sopra un forma capovolta si collocava un disco divetro, appoggiato a due sostegni; una volta avvicinato alla fontedi calore i due sostegni venivano tolti e il disco si afflosciava sul-la matrice, assumendone il profilo. Nel secondo, delle barrette co-lorate erano fuse una accanto all’altra inmodo da formare un disco,secondo lo schema prestabilito. Dopo aver applicato sul perime-tro del disco una striscia di vetro per formare l’orlo, si procedevacome per le coppe monocrome.

Modellazione su nucleo (Sternini 1995, pp. 99-100)Plasmato il nucleo (di argilla e materiale vegetale, ricoperto da unostrato di calcite) lo si poneva all’estremità di una barra metallica,dando la forma voluta. Una volta riscaldato, si versava il vetro fu-so sulla forma, cercando di distribuirlo uniformemente con la ro-tazione lenta della barra metallica. Il nucleo, ricoperto di vetro, erainfine fatto rotolare su una lastra di pietra o metallo.

Soffiatura libera (Sternini 1995, p. 109)Il vetro fuso, raccolto all’estremità di un tubo di ferro (la canna dasoffio) era soffiato a formare il bolo che, dopo essere stato ruota-to su una superficie piana e modellato con appositi strumenti, erasoffiato e manipolato per ottenere la forma finale. Il vaso venivaquindi staccato dalla canna da soffio per le rifiniture del collo edell’orlo mediante uno strumento. A tale scopo era fissato al fon-do del vaso, mediante un sigillo di vetro, il pontello (una barra diferro di circa 1 m di lunghezza).

Soffiatura a stampo (Sternini 1995, pp. 109-110)Il vetro fuso, raccolto all’estremità di un tubo di ferro, era soffiatoentro uno stampo.

Taglio a freddoMolatura o intaglio di un blocco di vetro, trattato come fosse pie-tra. Il più antico recipiente databile, tagliato a freddo, è un alaba-stron con iscrizione di Sargon II, rinvenuto aNimrud (720 a.C.circa).Questa tecnica, nota ovunque, ma scarsamente usata fino all’etàromana per la fabbricazione del vasellame vitreo, era invece im-piegata di frequente per rifiniture e decorazioni.

Tecnica della cera perduta (Sternini 1995, pp. 106-107)Tecnica già utilizzata nella lavorazione dei metalli; il procedimen-to prevede di colmare lo spazio vuoto, rimasto dentro la matricedopo la fusione della cera, con del vetro grezzo sminuzzato o ri-dotto in polvere.

Vetro a bande d’oro (Sternini 1995, pp. 107-108)La lavorazione dei vasi realizzati con strisce di vetro di diverso co-lore e lamine d’oro inserite tra due strati di vetro incolore, è an-cora sconosciuta. Nel caso dell’alabastron è stata proposta laseguente ipotesi: si rotolava la massa di vetro caldo sulle strisce,allineate su un piano, fino a farle aderire; con delle pinze o un al-tro strumento si imponeva al vaso un andamento a zig zag; suc-cessivamente si riscaldava l’alabastron o lo si rotolava su un pianodi marmo per eliminare le tracce di lavorazione.

Vetro ‘a reticelli’ (Sternini 1995, pp. 103-105)I vasi a reticello sono realizzati con strisce monocrome decoratecon sottilissimi filamenti in vetro avvolti a spirale.Per ottenere le strisce era necessario rotolare, su un piano di mar-mo, una massa di vetro caldo, alla quale erano stati saldati duebastoncini di vetro colorato, finché i bastoncini non penetravanonel vetro. In seguito si applicava un pontello e si tirava la massaper trarne un filamento, ruotando velocemente l’altra estremitàper imprimere un andamento spiraliforme. Le strisce ottenute era-

232

BibliografiaBoemio G., Rosana V., Il riuso del vetro - http://www.chimicadelrestauro.it/vetro/riusodelvetro.pdf;Glossario del vetro; Harden 1988; Mazzoldi P., Storia e leggenda del vetro, in Scienza e tecnologia dei materiali -http://www.edscuola.it/archivio/lre/storia_del_vetro.pdf; Sternini 1995; Vitrum 2004.

Fondo di bottiglia esagonale del tipo ‘Mercury bottle’(v. sez. 9.2b a p. 232)

Sez. 9.3 - Unguentario a corpotroncoconico in pasta vitrea

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 320Misure: 11,1 x 3,4Provenienza: AcquistoCronologia: III sec. d.C.

Unguentario in pasta vitrea verdognola rico-perta da patina bianca dal corpo troncoconi-co con base concava; largo collo cilindricolievamente strozzato alla base con orlo piat-to sporgente e ispessito all’interno.

C. Ma

BibliografiaBellezza e Seduzione 1990, p. 94 n. 97.

Bibliografia di riferimento:Calvi 1968, n. 295, tav. 20.5Hayes 1975, n. 578, pl. 35

Sez. 9.4a - Bottiglia a corposferoidale

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 313Misure: 10,1 x 5,3Provenienza: acquistoCronologia: II-III sec. d.C.

Piccola bottiglia in vetro soffiato incolore consfumatura verde, a corpo sferoidale con leg-gere costolature; collo cilindrico con boccasvasata e orlo ripiegato all’interno; base piat-ta in vetro soffiato verde-azzurro dal corpo e

base piatta; Lungo collo cilindrico, diviso dalcorpo da una strozzatura, con orlo piatto esporgente inspessito all’interno. Di probabi-le produzione cipriota.

BibliografiaInedito

Bibliografia di riferimento:Vessberg 1952, pl. VII,17Vessberg 1978, p. 52, n. 102C

Sez. 9.4b - Unguentario a corpotroncoconico appiattito

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 7182Misure: 7,4 x 3,8Provenienza: acquistoCronologia: III sec. d.C.

Unguentario in vetro soffiato pesante verda-stro con patina iridescente a chiazze. Corpopiatto e schiacciato a disco che continua sen-za interruzione in un breve collo cilindricopiuttosto largo. Orlo piatto e sporgente in-spessito all’interno irregolarmente.

BibliografiaBellezza e Seduzione 1990, p. 94 n. 104.

Bibliografia di riferimento:Calvi 1968, n. 295, tav. 20.5Hayes 1975, n. 582, pl. 35

Sez. 9.4c - Unguentario a corpopiatto o a disco

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 6418Misure: 12,3 x 2,8Provenienza: acquistoCronologia: II-III sec. d.C.

Unguentario in vetro soffiato verde-azzurro.Corpo a disco con base piatta. Lungo collosottile cilindrico, diviso dal corpo da unamar-cata strozzatura, con orlo piatto e sporgenteispessito all’interno.

C. Ma

BibliografiaBellezza e seduzione 1990, p. 94 n. 101.

Bibliografia di riferimento:Fremersdorf 1975, n. 539, taf. 24Hayes 1975, nn. 503 e 504, pl.. 33

Sez. 9.1 - Armilla

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 167Misure: 8,3Provenienza: acquistoCronologia:IV sec. d.C.

Bracciale in vetro soffiato blu.C. Ma

BibliografiaInedito.

Bibliografia di riferimento:Neuburg 1962, fig. 60

Sez. 9.2a - Frammento di bottiglia‘Mercury bottle’

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 268Misure: 15,4 x 6,3Provenienza: Roma, Esquilino (1890)Cronologia: II-III sec. d.C.

Bottiglia a sezione quadrangolare del tipo‘Mercury bottle” (Isings forma 84) mancan-te del collo. Sul fondo concavo bollo a rilievocon al centro un albero con rami e fronde al-la cui sommità è posato un volatile; ai quat-tro angoli le lettere S C V (CIL XV, 6987,2) eduna foglia di edera. Questo tipo di conteni-tore, dal vetro piuttosto spesso di colore gial-lo-verde chiaro, veniva prodotto soffiandodentro uno stampo, ad esclusione del colloche veniva lavorato liberamente in un secon-do tempo, e la matrice era già predispostacon il testo del bollo inciso in negativo.

C. Ma

BibliografiaInedito

Bibliografia di riferimento:Isings 1957, pp.100-101, forma 84Sternini 1997, p. 73, tipo XI

Sez. 9.2b - Bottiglia esagonale‘Mercury bottle’

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 258Misure: 21 x 2,5Provenienza: Roma, EsquilinoCronologia: II-III sec. d.C.

Bottiglia a sezione esagonale, con corpo leg-germente rastremato verso il fondo, del tipo“Mercury bottle” (Isings forma 84) mancantedel collo. Sul fondo bollo a rilievo con al centroun albero con rami e fronde alla cui sommità èposato un volatile; ai quattro angoli le lettere SCV (CILXV, 6987,2) eduna foglia di edera.Que-sto tipo di contenitore, dal vetro piuttosto spes-so di colore giallo-verde chiaro, veniva prodottosoffiandodentro uno stampo, ad esclusione delcollo che veniva lavorato liberamente in un se-condo tempo, e la matrice era già predispostacon il testo del bollo inciso in negativo.

C. Ma

BibliografiaInedito

Bibliografia di riferimento:Isings 1957, pp.100-101, forma 84Sternini 1997, p. 73, tipo XI

235234

3 4a 4b 4c

L’argilla è una roccia composta da una miscela di minerali, preva-lentemente silicati idrati di alluminio, talvolta mescolati con quan-tità minori di altri elementi, comemagnesio, sodio, potassio, calcioe ferro. Con l’aggiunta di una adeguata quantità di acqua, assumeuna plasticità tale da consentire la modellazione e, se è sottopostaa cottura, può essere solidificata in maniera irreversibile, acqui-sendo caratteristiche di buona resistenza meccanica.Foggiata in forma di mattoni, o posta direttamente in opera, conl’aiuto di telai o casseforme lignee, ed essiccata al sole, l’argilla èstata ed è ancora frequentemente utilizzata comemateriale da co-struzione nell’ambito di culture anche molto antiche, principal-mente sviluppatesi in ambienti dal clima caldo e secco, come, adesempio, nell’anticaMesopotamia. Queste culture, pur conoscendola tecnica della cottura dell’argilla, riservavano l’utilizzo dei ma-nufatti in argilla cotta alla sola costruzione di strutture a tenutastagna, come i bacini per la conservazione dell’acqua, o alla rea-lizzazione di elementi decorativi per il rivestimento di edifici mo-numentali. Un fenomeno analogo si riscontra anche nell’ambitodelle culture occidentali, che recepirono con un notevole ritardol’utilizzo di materiali da costruzione in argilla cotta e che, per lun-go tempo (spesso fino al I sec. a.C.), lo riservarono quasi esclusi-vamente alla realizzazione di tegole ed elementi ornamentali.Foggiata in forme più complesse, con o senza l’utilizzo del tornio,variamente rifinita e sottoposta a cottura, l’argilla è inoltre utilizzata,da tempi antichissimi, per la produzione di contenitori di uso do-mestico e per la realizzazione di manufatti legati alla produzione, altrasporto e alla commercializzazione di prodotti diversi, per lo piùderrate alimentari. Nell’ambito di questi utilizzi, la scelta e la prepa-razione della materia prima e le modalità della sua lavorazione de-terminavanoprodotti finali dalle caratteristiche diverse, che li rendevanoadatti a utilizzi differenti. La lisciatura, prima della cottura, delle su-perfici dei manufatti, ad esempio, che veniva praticata con l’utilizzodi stecche di legno o fili d’erba, donava loro una buona impermea-bilità, rendendoli adatti a contenere sostanze liquide o semiliquide.Se, invece, per la lavorazione si selezionava un’argilla ricca di ossidio idrossidi di ferro e se all’impasto si aggiungeva una buona quan-tità di sostanze minerali, si ottenevano oggetti di forme semplici edall’aspetto un po’ grezzo, che erano, però, in grado di sopportareil contatto diretto e ripetuto con il fuoco.A differenza di altri materiali, come ad esempio i metalli, l’argillaè, inoltre, facilmente accessibile in natura e consente, quindi, laproduzione di manufatti che possono essere immessi sul merca-to a costi ragionevoli. Questi manufatti, per altro, se prodotti con

destrezza, possono imitare con discreto risultato la forma, l’ap-parato decorativo e gli aspetti cromatici dei manufatti in metallo,venendo a costituirne un surrogato economico [figg. 1a.b]. Le ca-ratteristiche di resistenza e di economicità dei manufatti in argil-la cotta, insieme alla loro grande versatilità di utilizzo, portarononel tempo ad una diffusione capillare di questi materiali all’inter-no di tutti gli ambiti geografici e funzionali del mondo romano ene fanno, oggi, i reperti di gran lunga più attestati in quasi tutti icontesti archeologici riferibili a quel periodo (v. carta a p. 236).Nonostante l’enorme diffusione dei manufatti ceramici, gli auto-ri latini non si interessaronomai alla descrizione del lavoro dei ce-ramisti e per questa ragione, a parte alcune rare testimonianzeiconografiche, di fatto le tecniche e le procedure che caratterizza-vano il lavoro di queste maestranze possono oggi essere ricostruitequasi esclusivamente attraverso quello che rimane dei manufattida loro prodotti e degli impianti in cui lavoravano [fig. 2, 3, 4].Il processo di produzione dei manufatti ceramici partiva dalla ca-va di argilla, nella quale veniva estratta la materia prima necessa-ria alla lavorazione. In epoca romana, pare che le cave di questogenere fossero generalmente a cielo aperto, come avviene anco-ra oggi negli impianti tradizionali della Turchia odierna.Difficilmente l’argilla estratta dalla cava poteva essere direttamenteutilizzata. Più spesso, prima di poter essere tornita, l’argilla do-veva essere sottoposta a una serie di operazioni che la trasfor-massero in un impasto omogeneo e stabile e che potevano avvenirein maniere differenti, a seconda del tipo argilla cavata e dell’im-pasto che si desiderava ottenere. Spesso la trasformazione del-

237

Sez. 9.5a.b.c - Vasettiminiaturistici in vetro

Sez. 9.5a - Anforetta monoansataminiaturistica

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n.10787

Misure: h. 3,1Provenienza: Roma, via Bocca della VeritàCronologia: età imperiale

Piccola anforetta in vetro marrone soffiato astampo con decorazione a zig zag bianca.

BibliografiaInedito

Bibliografia di riferimento:Fremersdorf 1975, n. 539, taf. 24

Sez. 9.5b - Unguentariominiaturistico

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n.600

Misure: h. 2,2Provenienza: Roma, via SalariaCronologia:età imperiale

Piccolo unguentario in vetro soffiato azzurro.

BibliografiaInedito.

Sez. 9.5c - Unguentariominiaturistico

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. n. 10037

Misure: h. 2,1

Provenienza: Roma, zona Tre Fontane

Cronologia:età imperiale

Piccolo unguentario in vetro soffiato azzurrochiaro.

C. Ma

BibliografiaInedito.

Sez. 9.5d - Frammento di vasodiatretum con raffigurazione dinave

Originale: Roma, Antiquarium Comunale, inv. IAC n.3192

Misure: 3,9 x 0,7Provenienza: Roma, via del ColosseoCronologia: seconda metà III sec. d.C.

Il frammento, di vetro incolore, trasparente,ricoperto di una patina biancastra, consistein un sottilissimo resto di parete a cui è at-taccata una piccola nave attraverso un sotti-le ponticello; l’esiguità del frammento nonconsente di riconoscere la forma del conte-nitore. Il frammento appartiene alla classe dei“vasa diatreta” la cui produzione si ritiene ab-bia avuto inizio già nel terzo quarto del III sec.d.C. in Siria o ad Alessandria e che nei duesuccessivi secoli abbia avuto importanti cen-tri di produzione sia in Italia sia, probabil-mente, a Colonia. Col termine ‘diatreto’ siintende un vetro lavorato a intaglio ed il pro-cedimento prevedeva la realizzazione di unvaso di notevole spessore dal quale venivanoasportate le parti superflue, creando un reti-colo attaccato alle pareti solo per mezzo disottili ponti. Probabilmente la nave dovevafar parte di una più ampia raffigurazione dinaufragio o di battaglia.

C. Ma

BibliografiaPirzio Biroli Stefanelli 1984, p..35.

236

a b c

La lavorazione dell’argilla

Silvia Pallecchi

Fig. 1 - a) coppa in argento con

decorazione a sbalzo, dal tesoro di

Boscoreale (al Museo del Louvre;

Roma, Museo della Civiltà Romana).

b) coppa in ceramica invetriata da

Pompei (Casa IV, 6, 28) (Museo

Archeologico Nazionale di Napoli).

l’argilla di cava in impasto pronto per la tornitura prevedeva dap-prima una fase di stagionatura, in cui l’argilla veniva lasciata espo-sta agli agenti atmosferici per un periodo di tempo sufficiente agarantire la putrefazione delle frazioni di materiale organico chepotevano essere presenti al suo interno. In un secondo momen-to, dopo essere stata sottoposta a processi di depurazione in ac-qua, per sedimentazione, levigazione o setacciatura, l’argilla venivaverosimilmente battuta e compattata con i piedi all’interno di gran-di vasche o su piani pavimentali puliti. Questa procedura, che èancora oggi osservabile nell’ambito delle produzioni ceramicheche adottano sistemi tradizionali, serve ad eliminare eventuali bol-licine d’aria presenti nell’argilla, che potrebbero creare difficoltànella modellazione, rischi di frattura durante il processo di cottu-ra e punti di debolezza nel prodotto finito (fig. 5).In alcuni casi, dopo la depurazione, per rendere l’argilla lavorabi-le era necessario aggiungervi altre sostanze minerali, che ne mi-gliorassero le caratteristiche di plasticità, stabilità e resistenza alcalore. Quando, finalmente, l’impasto era pronto per la lavora-zione, il vasaio lo suddivideva in piccole masse di grandezza adat-ta ai manufatti che intendeva realizzare e lo lavorava ancora unpo’ con le mani, verificandone e, eventualmente, correggendoneil grado di umidità e di plasticità.La modellazione poteva essere eseguita in maniera differente, aseconda del tipo di impasto realizzato, oltre che del tipo e dellaquantità di oggetti che si intendeva produrre. Le principali tecni-che utilizzate erano la modellazione a mano, a tornio e a calco.La modellazione a mano non richiedeva l’utilizzo di nessuno stru-mento particolare e poteva essere eseguita in maniere anche mol-to differenti tra di loro venendo a creare, di solito, oggetti dallepareti piuttosto spesse e poco standardizzati. Con l’argilla si po-teva, ad esempio, creare un lungo cordone, di spessore propor-zionale a quello della parete dell’oggetto che si intendeva realizzare.Il cordone veniva, poi, avvolto a spirale, seguendo, nell’ampiezzadegli anelli, la forma che si voleva far assumere all’oggetto. Manoa mano che in questo modo la parete cresceva, gli anelli veniva-no battuti e lisciati, in maniera da essere saldati e amalgamati inun corpo unico (tecnica a colombino) [fig. 6].Più complessa era la lavorazione al tornio, che consisteva nellamodellazione al di sopra di un piatto rotante, montato su un sup-porto variamente conformato e azionato solitamente dalla mano

o dal piede dello stesso vasaio o di un suo assistente [fig. 7]. L’usodel tornio, oltre ad abbreviare notevolmente i tempi di realizza-zione dei manufatti, consentiva la creazione di oggetti dalle for-me regolari, che potevano essere anche molto simili tra di loro,rispondendo alle esigenze di standardizzazione richieste dal mer-cato in funzione sia della razionalizzazione delle operazioni di tra-sporto, sia della riconoscibilità delle merci stesse e dei loro eventualicontenuti sui mercati di destinazione.In altri casi, prevalentemente per la realizzazione di manufatti dipiccole dimensioni, come le lucerne, l’argilla veniva, invece, lavo-rata con l’utilizzo di matrici, che permettevano la rapida creazio-ne di grandi quantità di manufatti, talvolta provvisti di decorazionicomplesse, con notevoli caratteristiche di standardizzazione e at-traverso l’impiego di manodopera poco specializzata. La matriceera un vero e proprio stampo, di solito in terracotta. Spesso erarealizzata premendo due o più masse di argilla cruda contro le su-perfici dell’oggetto che si intendeva riprodurre, in maniera da ri-cavarne l’intera impronta negativa. All’interno delle varie parti dellamatrice il ceramista premeva delle sfoglie di argilla di spessoreproporzionale a quello delle pareti dell’oggetto che intendeva crea-re. Le parti della matrice venivano poi fatte combaciare tra di lo-ro, in maniera che l’argilla al loro interno potesse saldarsi dopo diche, senza rimuovere la matrice, il manufatto veniva posto ad es-siccare. L’essiccamento dell’argilla, con l’evaporazione dell’acquain eccesso, provocava fisiologicamente, una piccola contrazionedelle dimensioni del nuovo manufatto che, a questo punto, pote-va essere facilmente estratto dalla matrice e, dopo qualche picco-lo ritocco, era pronto per essere sottoposto a cottura [fig. 8]. La

239238

Fig. 3 - Planimetria dell’impianto produttivo di Giancola (BR), specializzato nel-

la produzione di anfore olearie. I sec. a.C. - inizio I sec. d.C. (da Manacorda

2001; rielab. grafica F. G.).

Diffusione della terra sigillata

italica nell’Impero Romano

(seconda metà

del I sec. a.C. - I sec. d. C.).

L’esportazione di questo

vasellame fine da mensa interessa

i centri costieri del Mediterraneo

occidentale, ma anche, con

concentrazioni impressionanti,

l’entroterra della Francia

e le regioni del limes

renano-danubiano.

(da Pucci 1981, tav. XVII;

rielab. grafica, F. G.)

Fig. 5 - Schema di funzionamento delle vasche per la decantazione in acqua

corrente (da Cuomo di Caprio 2007; rielab. grafica F. G.).

Fig. 6 - Tecnica di

modellazione a colombino

(da Cuomo di Caprio 2007,

rielab. grafica F.G.).

Fig. 7 - Fasi della

modellazione al tornio (da

Cuomo di Caprio 2007,

rielab. grafica F.G.).

Fig. 2 - Pittura pompeiana con

taberna vasaria (da A. Maiuri, Due

singolari dipinti pompeiani, in RM,

60-61, 1953-1954, pp.88-89).

Fig. 4 - Piccolo vaso in terra

sigillata, con decorazione

applicata raffigurante un

ceramista al tornio (da M.

Mackensen, Die spätantiken

Sigillata- und Lampentöpfereien von

El Mahrine (Nordtunisien),

München 1993, p. 65, Abb.12.1)

produzione. Se, nella piccola bottega artigiana, il ceramista do-minava completamente il processo di produzione, dalla prepara-zione dell’impasto alla cottura del manufatto finito, all’interno diquesti grandi impianti, che sfruttavano in maniera intensiva la ma-nodopera offerta dagli schiavi, il processo produttivo veniva fra-zionato in tante piccole azioni, ben definite, disposte in sequenzaed ancorate ai luoghi fisici in cui si svolgevano, a disegnare quel-la che oggi chiameremmo una sorta di ‘linea di produzione’, che

poteva assicurare, in tempi assai ridotti, un enorme volume di pro-duzioni altamente standardizzate e a buon mercato (fig. 11).La struttura innovativa di questi impianti, che si armonizza perfet-tamente con il sistema di sfruttamento intensivo delle risorse de-lineato dal sorgere e dallo svilupparsi delle grandi ville schiavistiche,costituisce probabilmente uno dei motori più potenti di quella cre-scita economica che caratterizzò la trasformazione del mondo ro-mano tra la fine della repubblica e i primi secoli dell’impero.

241

modellazione a stampo era utilizzata anche in combinazione conl’uso del tornio, come è testimoniato, ad esempio, nel caso di al-cune coppe, in ‘terra sigillata’.Leggermente differente era il sistema con cui si realizzavano i mat-toni. In questo caso, l’argilla veniva posta entro stampi formati daun riquadro di legno, privo di fondo, diviso in un numero variabi-le di caselle di uguali dimensioni. Una volta riempito lo stampo elisciate le superfici, con un movimento o con un colpo deciso sul-l’intelaiatura di legno, si faceva in modo che i mattoni cadessero aterra e lì si lasciavano ad essiccare [fig. 9]. Durante la modellazio-ne, o in un momento di poco successivo, sui manufatti venivanotalvolta impressi dei marchi di fabbrica, detti ‘bolli’, che potevanoessere già previsti nella matrice degli oggetti realizzati a stampo oche potevano essere aggiunti, qualunque fosse stata la tecnica dimodellazione impiegata, con l’utilizzo di strumenti in terracotta,legno o metallo, detti ‘punzoni’. Simili, nel funzionamento, ai no-stri timbri, i punzoni erano costituiti da una rozza presa, variamenteconformata, e da una superficie, generalmente piana, sulla qualeera riprodotto in negativo il marchio che si intendeva apporre. Lapressione del punzone sulla superficie di argilla cruda del manu-fatto produceva un’impronta positiva, che poteva contenere un te-sto o un elemento figurato.Solitamente, il testo dei bolli contiene, in forma più omeno stringa-ta, informazioni relative al momento della produzione dell’oggettoquali, ad esempio, nomi di persone che potrebbero essere identifi-cate, a seconda dei contesti, con i proprietari o i gestori degli stabi-limenti produttivi, o con i responsabili di alcuni segmenti del processodi produzione; nomi di soggetti collettivi (comunità, istituzioni sa-cre ecc.) per conto dei quali furono prodotti determinati lotti di ma-teriali; nomi degli stabilimenti o delle proprietà all’interno dei qualigli stabilimenti erano posizionati; date consolari indicanti l’anno diproduzione dei manufatti; specificazioni relative al tipo di manufat-to; formule beneauguranti. Lo studio dei bolli presenti sui manufat-ti ceramici, oltre a permettere di distinguere tra di loro oggettimorfologicamente simili, prodotti da officine o da produttori diffe-

renti e a fornire spesso un valido ausilio per la datazione di serie dimateriali e di interi contesti archeologici, consente anche di formu-lare ipotesi a proposito della struttura di gestione del lavoro all’in-terno degli stabilimenti produttivi e dei sistemi di gerarchie chedovevano regolare i rapporti tra le diverse maestranze presenti.Dopo la foggiatura, il manufatto poteva anche essere decorato conl’applicazione di elementi figurati realizzati a parte, all’interno diappositi stampi o con l’esecuzione a mano di semplici motivi a ri-lievo, direttamente eseguiti sulle superfici da decorare con l’utiliz-zo di argilla liquida (tecnica à la barbotine).Una volta foggiato, qualunque sistema si fosse utilizzato, il ma-nufatto doveva subire un primo processo di essiccamento, che disolito si effettuava lasciandolo riposare all’aria, meglio se in un am-biente ombreggiato e ben aerato. Dopo l’essiccamento, il manu-fatto poteva essere rivestito, per immersione o con altri sistemi, disostanze liquide a base argillosa, arricchite di componenti mine-rali. Questi rivestimenti, a seconda anche del tipo di cottura a cuiil manufatto veniva sottoposto e della quantità di ossigeno che ve-niva lasciato circolare all’interno della fornace, facevano assumerealle superfici ceramiche colorazioni che variano dal bianco al ros-so corallino, al bruno o al nero. Dopo quest’ultimo trattamento, ilmanufatto era finalmente pronto per essere sottoposto a cotturaall’interno di apposite strutture, la cui complessità e le cui dimen-sioni variano a seconda del tipo di manufatti prodotti e del volu-me produttivo previsto [fig. 10].Gli impianti produttivi dall’articolazione più complessa sembra-no essere quelli finalizzati alla realizzazione di grandi quantità dimanufatti per l’esportazione sui mercati del Mediterraneo. Lo stu-dio dei resti archeologici di questi stabilimenti suggerisce che es-si fossero ideati, progettati e costruiti per rispondere ad esigenzedi ottimizzazione dei modi, dei tempi e dei costi della produzio-ne. Al loro interno si assiste a un tentativo di superamento del-l’ottica della piccola bottega artigiana e alla sperimentazione di unsistema di produzione di tipo quasi manifatturiero, caratterizzatoda una notevole razionalizzazione delle tappe e dei processi di

240

Fig. 8 - Modellazione a stampo

(da Cuomo di Caprio 2007,

rielab. grafica F. G.). Fig. 9 - Sistemaper lamodellazione a stampodeimattoni (daAdam1988, fig. 139). Fig. 10 - Ipotesi di ricostruzione del carico delle due fornaci di Giancola, BR (da

Pallecchi 2007).

Fig. 11 - Ipotesi ricostruttiva dell’impianto produttivo di Albinia (GR), specia-

lizzato nella produzione di anfore vinarie (da Pallecchi 2008).

BibliografiaA proposito delle tecniche di lavorazione dell’argilla:Cuomo di Caprio 2007; Peacock D.P.S., La ceramica romana tra archeologia eetnografia, (a cura di G. Pucci), Bari 1997.

A proposito dei grandi stabilimenti romani per la produzione di manufatti ceramicie dell’organizzazione del lavoro al loro interno:Bergamini M., Scoppieto I. Il territorio e i Materiali, Firenze 2007.Brentchaloff D., L’atelier du Pauvadou, une officine de potiers flaviens à Fréjus, inRevue Archéologique de Narbonnaise, 13, 1980, pp. 73-114.Cuomo di Caprio N., Proposta di classificazione delle fornaci per ceramica elaterizi nell’area italiana. Dalla preistoria a tutta l’epoca romana, in Sibrium, 11,1971, pp. 371-461.Fülle G., The Internal Organization of the Arretine Terra Sigillata Industry: Problemsof Evidence and Interpretation, in Journal of Roman Studies, 87, 1997, pp. 111-155.Laubenheimer F., Sallèles d’Aude. Un complexe de potiers gallo-romain: le quartierartisanal, Paris 1990.Manacorda D., Le fornaci di Giancola (Brindisi): archeologia, epigrafia,archeometria, in F. Laubenheimer (a cura di), 20 ans de recherches à Sallèlesd’Aude, Besançon 2001, pp. 229-240.Pallecchi S., Le fornaci da anfore di Giancola (Brindisi). Un caso di studio, in D.

Vitali (a cura di), Le fornaci e le anfore di Albinia. Primi dati su produzioni escambi dalla costa tirrenica al mondo gallico, Ravenna 2007, pp.181-188.Pallecchi S., Le fornaci romane di Albinia: identificazione delle unità funzionali eprima ricostruzione delle linee di produzione, in V. Acconcia, C. Rizzitelli (a curadi), Materiali per Populonia, 7, Pisa 2008, pp. 323-338.Steinby M., L’organizzazione produttiva dei laterizi: un modello interpretativo perl’instrumentum in genere, in W.V. Harris (a cura di), The inscribed economy.Production and distribution in the Roman empire in the light of instrumentumdomesticum, Ann Arbor 1993, pp. 139-143.

A proposito delle possibili interpretazioni dei bolli impressi sui manufatti ceramici:Bruun Chr., (a cura di), Interpretare i bolli laterizi di Roma e della valle del Tevere:produzione, storia economica e topografica, in Acta Instituti Romani Finlandiae, 27,Roma 2005.Manacorda D., Appunti sulla bollatura in età romana, in W.V. Harris (a cura di),The inscribed economy. Production and distribution in the Roman empire in thelight of instrumentum domesticum, Ann Arbor 1993, pp. 37-54.Manacorda D., I diversi significati dei bolli laterizi, appunti e riflessioni, in Labrique antique et médiévale, production et commercialisation d’un matériau,Rome 2000, pp. 127-159.

lavorazione a ritmo costante. Il tornio ‘a ma-no’ è talvolta definito torni ‘veloce’: è costi-tuito da un disco largo e pesante retto da unsostegno (o base) con un perno centrale chegli permette di girare velocemente sotto lespinte date dal vasaio con la mano. Il discofunziona da ‘volano’ poiché peso e dimen-sioni sono molto elevati (differenza fonda-mentale rispetto al tornio primitivo) e ne derivaun movimento rotatorio di durata tale da la-sciare al vasaio le mani libere per un temporelativamente lungo, ossia nell’intervallo trauna spinta a strappo e la successiva. Il motoè discontinuo, diminuisce a causa delle for-ze di attrito e cessa all’esaurirsi dell’energiaimpartita dal vasaio: malgrado tutto però con-sente di abbreviare drasticamente i tempi, evi-tando anche le pause di attesa che nellamodellazione ‘a colombino’ sono necessarieprima di sovrapporre i cordoli.Durante la rotazione il perno, che non è altroche il fulcro che consente a una parte dell’at-trezzo di ruotare rispetto a un’altra parte, pro-voca continui sfregamenti con le particircostanti, che fanno nascere attriti che por-tano a rallentamenti del disco e che richie-dono la somministrazione dimaggiore energiaper mantenerlo in movimento. Per sopperirea ciò, il vasaio adotta degli accorgimenti (gras-so animale come lubrificante), che nonostantetutto non riescono ad eliminare le forze di at-trito e di conseguenza il perno è sottopostoa rapida usura e richiede di sovente sostitu-zioni e/o riparazioni.La rotazione del tornio è resa possibile dal per-no che gira in apposita sede con diverse mo-dalità. A tal proposito una distinzione tipologicadel tornio a mano potrebbe essere fatta sullabase del sistema di imperniamento in ‘tornioa perno fisso’ e ‘tornio con perno rotante’ (v.grafici).Il tornio amano funzionamediante strappima-nuali ed è il tipo comunemente usato dai va-sai, ma esiste anche una variante tra le tanteche prende il nome di tornio ‘a bastone’, in

quantomesso emantenuto inmovimento gra-zie alle spinte fornite dal vasaio con un basto-ne (che funziona comeunprolungamento dellemani).

Questo tipo di tornio consiste in un disco o inuna ruota molto pesante (centrato medianteun perno sopra un basso sostegno) caratteriz-zato da alcune intaccature lungo la circonfe-renza. Il vasaio lomette inmovimento inserendola punta del bastone in una delle intaccature si-no a farlo ruotare a buona velocità. Quando ildisco rallenta, il vasaio interrompe le modella-zione prende il bastone lo infila in una intac-catura e dopo in un’altra sino a quando il disconon acquista giusta velocità. Rispetto al tornioa mano presenta svantaggi, tra cui maggiortempo per azionare il disco (perché ogni voltaoccorre prendere il bastone infilarlo nelle in-taccature, posarlo), minore facilità di funzio-namento (la spinta del bastone èmeno agevoledegli strappi a mano) e possibilità di manovresbagliate (il bastone può urtare contro il ma-nufatto in modellazione).In conclusione, manca sino ad oggi la possi-bilità di definire le caratteristiche del tornio inambiti cronologici e geografici ben delimita-ti e di accertarne l’evoluzione nel tempo. Sa-rà dunque compito dell’archeologia trovaresoluzione al problema, che dovrà fare i conticon i numerosi e differenti aspetti tecnici chepossiede questo antico attrezzo, che è statoin grado di modellare quasi tutta la totalitàdel vasellame ceramico del mondo antico.

M.Cr.

BibliografiaCuomo di Caprio 2007.

Sez. 9.7 - Frammento di lateriziobollato

Materiale: argilla modellata in stampo ligneo.Dimensioni: cm 21 x 11,5: spess. cm 3,5.Provenienza: Roma, Meta Sudans, da uno stratosuperficiale.

Centro di produzione: RomaDatazione: 142 d.C.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. MS 2695

Il frammento quasi certamente appartenen-te ad un bipedale, conserva un bollo in orbi-colo: EX. FIG ASINIAE QVADRATILLAE O DC NVN / NIDI FORTVNAT. LVCIO / QVA-DRATOCOS - pinea = Ex fig(linis) Asiniae Qua-dratillae o(pus) d(oliare) C. Nunnidi Fortunat(i)Lucio Quadrato co(n)s(ule). 142 d.C. Dallastessa matrice il bollo di Roma CIL XV, 861.Asinia Quadratilla (PIR2 A 1260), proprietariadell’officina, è figlia di Q. Asinius Marcellus(PIR2, A 1235), console suffetto del 96 d.C. ofiglio di quest’ultimo, implicato come la do-mina figlinae nella fabbricazione di laterizi ne-gli anni 123 e 134 d.C. (CIL XV, 846-857 = LSO702-709) ed identificato con il patronus dellacolonia di Ostia e di Apuleio a Roma e adOstia (Coarelli 1989, pp. 40-41). A lui è dedi-cata una statua nell’area dei Quattro Tem-pietti di Ostia (CIL XIV, 4447). Padre e figliacondividono lo stesso officinator, C. Nunni-dius Fortunatus. Della donna si conoscono daRoma, città in cui deve essere localizzata l’of-ficina, altri due bolli: CIL XV, 860 del 141 d.C.,e CIL XV, 863 del 150 d.C. = LSO 710, 713.

C.P.

Bibliografia

Inedito.

LSO 711.

243

Sez. 9.6 - Il tornio: origini,funzionamento, tipologie

materiale: legno e ferroRicostruzione al vero: Niccolai snc (Firenze 2009)

Le origini del tornio da vasaio sono ancora sco-nosciute: secondo alcune ipotesi risalgono al-la fine del IV millennio a.C. in Mesopotamia;l’uso si estese all’Egitto e all’Asia minore nelIII e alla Grecia all’inizio del II millennio. In Ita-lia avrebbe fatto la sua comparsa verso la me-tà dell’VIII sec. a.C. con la presenza dei Grecinel Mediterraneo occidentale. Queste ed altreipotesi hanno scarso valore dato che non pog-giano su basi sicure, dal momento che i pochiritrovamenti sono incompleti, in condizioni diforte degrado e non è chiaro a quale tipo di tor-nio si riferiscano, se a quello primitivo, a quel-lo a mano o ad altro strumento simile.All’interno della bottega del vasaio il tornio rap-presenta lo strumento essenziale, per creareunmoto rotatorio veloce (però discontinuo) euna forza centrifuga tali da consentire la pro-duzione di forme rotonde simmetriche (sianoesse aperte o chiuse) dalla parete sottile, leg-gera eppure robusta abbreviando notevolmentei tempi della modellazione a mano. Nelle sueparti essenziali il tornio è costituito da un di-sco e da un asse verticale di sostegno: il discoregge l’argilla da modellare e l’asse permetteil movimento rotatorio.I tipi di tornio più comuni vannoda quello ‘sem-plice’ (definito tornio ‘primitivo’), al tornio ‘amano’ e, passando dal tornio ‘a bastone’, ter-minare con il tornio ‘a piede’ definito anche im-propriamente tornio ‘a pedale’ (dal XVI sec).Il tornioprimitivo’ è una via di mezzo tra ilsupporto mobile e il tornio a mano ed è chia-mato impropriamente ‘tornio lento’ (per con-trapporlo al tornio a mano definito ‘tornioveloce’ anch’esso in maniera inappropriata),in quanto la velocità dipende soprattutto dal-la quantità di energia fornita dal vasaio peravviarlo e mantenerlo in movimento. Consi-ste in un disco scarso di peso e di dimensio-ni ridotte che ruota mediante un pernocentrale sopra una base ed è messo in azio-ne dalle spinte impartite dalle mani del vasa-io (oppure mediante spinte con il piede se iltornio è molto basso) che produce una rota-zione molto breve. Il rallentamento è quasiimmediato e le interruzioni per ridare veloci-tà al disco si susseguono e impediscono una

242

Tornio con perno fisso: il perno si trova

alloggiato dentro un incavo praticato

nella faccia inferiore del disco).

Tornio con perno rotante: il perno è alloggiato dentro un incavo nel sostegno o base sistemato fermamente

sul terreno e durante la rotazione il disco e il perno girano insieme.

Sez. 9.8d - Lucerna fittile trilicne

Cronologia: seconda metà del I d.C.Materiale: argillaDimensioni: cm 24 x 20 x 12Provenienza originale: CarraraLuogo di conservazione: Museo Archeologico di LaSpezia

Riproduzione in gesso: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3160

Cronologia: I sec. d.C.

Lucerna trilicne con becchi a ogiva e, lungodi essi, doppie volute (Dressel 12, LoeschckeI). Serbatoio circolare. Al centro del disco èraffigurato un giovane nudo caduto da un ca-vallo in galoppo. L’ansa è ad anello, sormon-tata da riflettore triangolare: al centro di essaè raffigurata una Nike su globo, con coronanella mano destra e ramo di palma nella si-nistra. Il motivo iconografico, su ansa plasti-ca o su disco, è piuttosto diffuso ma sembraessere usato maggiormente nell’ultimo quin-dicennio del I- inizi II secolo d.C.

BibliografiaCIL XV, 2,1, p.782 e ss., tav.3, 12; Bailey 1980, p. 28; Bai-ley D.M., Catalogue of the lamps in the British Museum.Roman provincial lamps, vol. III, Londra 1988: Q3015 p.19, fig. 21 e p. 373, tav. 98; Di Filippo Balestrazzi E., Lu-cerne del museo di Aquileia. Lucerne romane di età re-pubblicana e imperiale, Aquileia 1988, n. 837.

S.S.

Sez. 9.9a - Coppa in terra sigillataitalica

Materiale: argilla lavorata al tornio, con rivestimentocostituito da una vernice di color rosso corallino,brillante, di medio spessore

Dimensioni: diam. piede cm 7,3; h. max. cons. cm 1,8Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, da uncontesto di età flavia (in giacitura secondaria).

Centro di produzione: forse ArezzoCronologia: 15 a.C. - 5 d.C.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. TN B 1973

Fondo di coppa (suppellettile da mensa) conattacco di parete arrotondata riferibile al tipoConspectus B 3.10. Il punto di congiunzionetra parete e fondo è segnato esternamente dauna solcatura ed internamente da un gradino.Al centro del fondo interno è presente il bol-lo in cartiglio rettangolare RVFIO / L.VMBR(ici)(OCK 2464), che restituisce il nome del per-sonaggio di condizione libera L. Umbricius equello dello schiavo Rufius, secondo uno sche-ma tipico dei bolli attestati su questa classedimanufatti. In L. Umbricius va verosimilmentericonosciuto il proprietario dell’officina, men-tre lo schiavo è probabilmente il responsabi-le dell’unità produttiva che ha realizzato il vaso.

245

Sez. 9.8 - Lucerne prodotte in serie

Sez. 9.8a - Lucerna fittile a volutee becco triangolare

Tecnica: a matriceMateriale: argillaDimensioni: cm 8,92 x 5,27, x 2,18, ø disco 3,88Provenienza originale: AquileiaCronologia: età augustea.Luogo di conservazione: Aquileia, MuseoArcheologico Nazionale

Riproduzione in gesso: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3155

Lucerna a becco triangolare svasato, con vo-lute laterali a congiungere becco e serbatoio(Dressel 9, Loeschcke I B). Serbatoio circola-re, spalla sottile degradante verso il basso, di-sco concavo con foro di alimentazionedecentrato. Al centro del disco è raffiguratain rilievo una cesta a costolature orizzontalicontenente un ciuffo di verdura, un’anforet-ta e un pane. Tutt’intorno alla scena corre lascritta: PAUPERIS CENA PANE VINO RADIC.

S.S.

BibliografiaCIL XV, 2,1, pp.782 e ss., tav.3, 9; Di Filippo BalestrazziE., Lucerne del museo di Aquileia. Lucerne romane dietà repubblicana e imperiale, Aquileia 1988, n. 488, tav.86; Pavolini C., Le lucerne romane fra III a.C. e III d.C.,in A.A.V.V., Ceramiques hellénitiques et romaines, II,Besançon - Paris 1987, pp. 136-165.

Sez. 9.8b - Lucerna fittilemonolicne ‘a testa d’uccello’

Tecnica: a matriceOriginaleMateriale: argillaDimensioni: cm 10 x 6,5 x 3Provenienza: sconosciutaCronologia: 50 a.C.- età tiberiana.Luogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3156

Lucerna fittile dal serbatoio circolare, disco con-cavo decorato da 3 solchi e un cordoncino. Bec-co a incudine decorato da protomi di cignonaturalistiche ma semplificate e scanalaturefra le due teste a formare una sorta di canale.L’ansa è a nastro liscia, modellata separata-mente dal resto della lucerna. Vernice bruna.

S.S.

BibliografiaCIL XV, 2,1, p.782 e ss., tav.3, 4; Di Filippo BalestrazziE., Lucerne del museo di Aquileia. Lucerne romane dietà repubblicana e imperiale, Aquileia 1988, n. 179, tav.24, pp. 138-141; Menzel H., Antike lampen im Römisch-Germanischen Zentralmuseum zu Mainz, Mainz 1954,p. 24 e ss., fig. 22, 2.; Pisani Sartorio G., Vogelkom-pflampen e lucerne da spedizione, in Rendiconti dellaPontificia Accademia romana di archeologia, XLII,1969-1970, p. 82 e ss.

Sez. 9.8c - Lucerna fittile acroma

Tecnica: a matriceOriginaleMateriale: argillaDimensioni: cm 8 x 6,4 x 2,5Provenienza: sconosciutaCronologia: seconda metà del I d.C.Luogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 3157

Lucerna fittile non verniciata. Il serbatoio ècircolare, con incavi ai fianchi che determi-nano la svasatura a incudine del becco. Il di-sco è liscio, leggermente concavo, con 2solcature a ‘Y’ ai lati; all’inizio del becco, te-ste di cigno a stampo naturalistico ma mol-to semplificate, il cui collo è decorato da lineeorizzontali. Fondo piatto e ansa trasversale,con foro circolare, applicata sulla parte op-posta del becco, a formare un tutt’uno con laparete posteriore del serbatoio. In questo ca-so, a differenza che in tipi precedenti, l’ansanon è applicata a parte, ma fa parte della ma-trice superiore della lucerna stessa. Il tipo rap-presenta l’anello di congiunzione fra le“Vogelkompflampen” classiche (Dressel 4) ele lucerne ‘da imballaggio’ che raggiungonola stilizzazione massima, non presentandopiù la decorazione a teste di cigno, ma unadecorazione ‘a rastrello’ e cerchietti; questeultime sembrano comparire dall’età flavia,perdurando, contemporaneamente a lucernepiù raffinate di altre tipologie, fino al III d.C.

244

Questo tipo di lucerna presenta alcune carat-teristiche particolari: può essere appoggiata suuna superficie orizzontale o appesa almuro adun chiodo, data la peculiare posizione dell’an-sa e la forma piatta dell’oggetto nel suo lato po-steriore, tale da consentire l’appoggio su unaparete piana verticale. Altro vantaggio della for-ma semplice e schematica di questa lucerna èla facilità di accostamento l’una con l’altra, cherende facile l’imballaggio, anche in grandi quan-tità, nonché l’impilamento nei forni di cottura.La produzione è perciò più semplice, poichél’ansa è contenuta nella stessamatrice e la de-corazione è scarsa; è stato dimostrato che que-sto tipo di lucerna veniva usata in luoghisotterranei, dove poteva essere appesa al mu-ro (v. Gallerie Cesaree del Foro Romano).

S.S.

BibliografiaCIL XV, 2,1, p.782 e ss., tav.3, 22; Bailey 1980, Q 1150tav. 50. pp. 261 e 267; Di Filippo Balestrazzi E., Lucer-ne del museo di Aquileia. Lucerne romane di età re-pubblicana e imperiale, Aquileia 1988, n. 179, tav. 24p. 138-141; Menzel H., Antike lampen im Römisch-Ger-manischen Zentralmuseum zu Mainz, Mainz 1954,p. 24 e ss., fig.22; Pisani Sartorio G., Vögelkompflam-pen e lucerne da spedizione, in Rendiconti della Ponti-ficia Accademia Romana di Archeologia, XLII,1969-1970, p. 82 e ss., tipo III; Pavolini C., Una pro-duzione italica di lucerne: le Vogelkopflampen ad an-sa trasversale, in BullCom 1976, vol. 85, p. 45 e ss.

Sez. 9.11 - Guttus in terra sigillataafricana A

Materiale: argilla lavorata al tornio e rifinita a mano,con rivestimento di vernice all’esterno; ansarealizzata a mano ed applicata

Dimensioni: diam. orlo cm 8,5; h. cm 8,2Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, area NE, daun contesto di età tardo-antonina (160-180/190 d.C.).

Centro di produzione: TunisiaCronologia: età flavia – età traianeaLuogo di conservazione: Roma, “Sapienza”-Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. TN NE 3

Guttus con beccuccio del tipo Hayes 121, n. 1 ecorpo biconico, ansato e dal bordo leggermenterilevato, superiormente dotato di un filtro, ap-partenente alla serie più antica di vasi in terra si-gillata provenienti dall’Africa Proconsularis,caratterizzata da un rivestimento arancio vivo(produzione A1).Si ipotizza che vasi di questa forma fossero uti-lizzati come biberon.Le officine della sigillata africana A, localizzatenell’odierna Tunisia Settentrionale, hanno ali-mentato un commercio mediterraneo di cera-mica(prevalentemente formeaperte:piatti, coppe,ciotole), quantitativamente elevato, dall’età flaviaalla fine del III secolo d.C., sostituendo in Occi-denteprogressivamente tutte le classi finidamen-sa precedentemente prodotte e diffuse.

G.R.

BibliografiaInedito.Atlante I, p. 50, tav. XXIII, n. 4; sulle produzioni di ter-ra sigillata africana v. da ultimo Bonifay 2004 (con bi-bliografia)

Sez. 9.12a - Grande piatto in terrasigillata africana D

Materiale: argilla lavorata al tornio, con rivestimentocostituito da una vernice di colore aranciorelativamente brillante che ricopre l’interno delvaso e si arresta, all’esterno, subito al di sottodell’orlo

Dimensioni: diam. orlo cm 37; alt. cm 4,8Provenienza originale: Sperlonga, Villa di TiberioCentro di produzione: Tunisia settentrionaleCronologia: sulla base della tipologia, prima metàdel V secolo d.C.

Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. S 1948

Piatto (suppellettile da mensa) riferibile al ti-po Hayes 61B2, con orlo leggermente incli-nato verso l’interno che si congiunge con laparete creando un gradino all’esterno. All’in-terno del vaso sono visibili tre scanalature: laprima nel punto di congiunzione tra orlo eparete, la seconda tra parete e fondo e la ter-za al centro del piatto; sul margine di que-st’ultima rimane traccia di una decorazioneimpressa costituita da un cerchio concentri-co dentellato.Questa forma appartiene ad un’ampia fami-glia di vasi da mensa dalle dimensioni con-

siderevoli, che fanno la propria comparsa trale produzioni della Tunisia settentrionale ecentrale all’inizio del III secolo d.C. e che ri-marranno in uso fino alla fine di questa pro-duzione: la loro diffusione è stata collegataa specifici cambiamenti nelle pratiche ali-mentari, forse ‘meno individuali e più collet-tive’ (Atlante I, pp. 14-15). Per tipologia,caratteristiche dell’impasto e tipo di rivesti-mento l’esemplare può essere attribuito allaproduzione D, che fa la sua comparsa nelleofficine della Tunisia settentrionale agli inizidel IV secolo sostituendo i vasi in sigillataafricana A ed affiancandosi alla sigillata afri-cana C della Tunisia centrale. Produzione ecircolazione della ceramica fine da mensa inD sono attestate fino alla fine del VII secolo.La scodella in mostra, in particolare, costi-tuisce uno dei tipi più diffusi nel Mediterra-neo occidentale e orientale e presenta spessosul fondo decorazioni ottenute mediante im-pressioni da stampo (vd. anche scheda suc-cessiva).

A.F.F.

BibliografiaSaguì 1980, pp. 496-497; il punto su questa forma èin Bonifay 2004, pp. 167-171, con bibliografia.

247

Sulla base dei contesti di rinvenimento del bol-lo, della tipologia dei vasi su cui è attestato edelle caratteristiche del cartiglio, l’attività diquesta officina è stata datata tra il 15 a.C. ed il5 d.C. (da qui la cronologia proposta per ilframmento), mentre la localizzazione di que-st’ultima rimane incerta, benché buona partedell’attività di L. Umbricius si è svolta ad Arez-zo. Sul fondo esterno sono graffite dopo lacottura tre lettere (I / P / A).I vasi in terra sigillata italica costituiscono - vi-sta l’ampia diffusione di questa classe di ma-teriali - uno dei fossili guida del periodocompreso tra i decenni centrali del I secolo a.C.(quando i vasi in terra sigillata sostituisconoquasi ovunque le produzioni a vernice nera)ed il II secolo d.C., quando si svolge la fase piùtarda della produzione (Sigillata Tardo-Italica).I centri di produzione accertati fino a questomomento si concentrano ad Arezzo (con suc-cursali a Pisa e a Lione) e nell’Italia centrale esettentrionale. I bolli suggeriscono tuttavia cheartigiani italici si siano trasferiti, intorno al vol-gere dell’èra, anche nella zona di Efeso (Tral-les è uno dei pochi centri di produzione citatonelle fonti antiche) dove avrebbero dato vitaad una produzione autonoma di terra sigilla-ta (la Sigillata Orientale B). Va ricordato cheproprio negli impianti delMediterraneo orien-tale era stata avviata, intorno alla metà del IIsecolo a.C., la prima produzione di ceramichefini da mensa con rivestimenti rosso corallini(la Sigillata Orientale A).

A.F.F.

BibliografiaOstia II, p. 170, figg. 122 e 676; per i bolli sulla sigilla-ta italica, l’organizzazione delle officine e la distribu-zione dei manufatti cfr. OCK, pp. 14-50; per un puntosulle produzioni orientali, cfr. Hayes 2001 e Malfita-na 2005 (con bibliografia).

Sez. 9.9b - Scyphus in terrasigillata italica

Materiale: argilla lavorata al tornio, con rivestimentodi vernice di colore rosso corallino, decorata adappliques e con tecnica à la barbotine

Dimensioni. diam. orlo cm 10,8; h. max. cons.: cm 6,2Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, area NE,da un contesto di età flavia

Centro di produzione: Italia centraleCronologia: età flavia.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n.TN-NE2

Coppa (suppellettile da mensa) tipo Dragen-dorff, Watzinger IX, biansata, frammentaria,di cui si conserva ampia porzione della partesuperiore e qualche parte del corpo e del fon-do; rivestimento rosso mattone, tipico delleproduzioni italiche di vasi in terra sigillata. Lasintassi decorativa prevede una serie di figu-re applicate a stampo di eroti dalle ginocchiapiegate, forse colti nell’atto di guidare un coc-chio, alternati ad elementi vegetali stilizzati,realizzati tramite una densa soluzione argil-losa, stesa presumibilmente con un finissimopennello. Sebbene le due tecniche decorativesiano molto raramente associate, la copparientra pienamente all’interno della più tardafase produttiva di questa produzione artigia-nale su larga scala, che ha visto le sue primeofficine impiantate ad Arezzo alla metà del Isecolo a.C. (con succursali a Pisa e Lyon inFrancia) e poi la creazione di numerose altrefabbriche in Italia centrale e settentrionale, at-tive sino al II secolo d.C. La diffusione inte-ressa, con quantità impressionanti tra etàl’augustea e l’età tiberiano-claudia sia le pro-vince occidentali che l’Europa interna.

G.R.

Bibliografia:Rizzo 1998, pp. 823-824, fig. 9 a-b (con bibl.).

Sez. 9.10 - Coppa in terra sigillatasud-gallica

Materiale: argilla modellata a matrice, conrivestimento costituito da una vernice di colorrosso-mattone, spessa e brillante

Dimensioni: diam. orlo cm 18; h. max. cons. cm 6,1Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, da uncontesto di età flavia (in giacitura primaria)

Centro di produzione: i motivi decorativi sonocaratteristici delle officine di La Graufesenque(Francia meridionale)

Cronologia: età flaviaLuogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentumdomesticum. Inv. n.TN B 3125

Frammento dicoppa carena-ta (suppellettileda mensa) in terrasigillata sud-gallica rife-ribile al tipo Dragendorff 29. La decorazionepresenta, nel registro superiore, una serie di fe-stoni semicircolari, intervallati ad unmotivo ve-getale (foglie di palmette?) rivolto verso il basso;all’interno dei festoni si trovano corolle circo-lari che contengono una rosetta; nel registro in-feriore, al di sotto della carena, baccellature cheterminano nella parte superiore con una foglia.La produzione di vasi con ‘vernice’ rossa inizia,negliateliersdellaGalliameridionale, intorno al-l’età tardo-augustea, anche se lapresenzadi que-sti manufatti diventa sensibile - nei principalicontesti delMediterraneooccidentale - solo dal-lametà/secondametà del I secolo. A differenzadella produzione liscia, che conoscerà una dif-fusionepiuttosto limitata, sono soprattutto i va-si decorati amatrice ad essere distribuiti su largascala, così come la produzione ‘marmorizzata’realizzata negli impianti di La Graufesenque edattestata in piccole quantità nei principali centridi consumodelMediterraneo. Le fabbriche sud-galliche continuano ad essere attive almeno fi-no alla metà del II secolo, quando si spostanonel centro della Gallia (sigillata centro-gallica) enel III secolonel norddella regione (sigillatanord-gallica), inseguendo i mercati del limes renanoe della Britannia.

A.F.F.

BibliografiaOstia II, p. 174, fig. 734; un punto sulla storia dei di-versi impianti produttivi: Bémont 1986.

246

Sez. 9.13a - Anfora da trasporto

Materiale: argilla lavorata con la tecnica “acolombina” e al tornio; anse realizzate a mano edapplicate

Dimensioni: diam. orlo all’esterno cm 16,8; diam.pancia nel punto di massima espansione cm 57;h. cm 74

Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, area NE,da un contesto di età tardo-antonina (160-180/190)

Centro di produzione: Spagna sud-occidentale(Betica)

Cronologia: la cronologia del contesto diprovenienza, nonchè la conformazione dell’orlo,consentono di datare l’anfora ostiense agli ultimidecenni del II secolo d.C.

Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. TN-NE1

Anfora per il trasporto di derrate alimentariliquide (olio) dal corpo tendenzialmente glo-bulare, di forma Dressel 20, proveniente dal-la Betica (Spagna sud-occidentale).La produzione delle Dressel 20 inizia nelle of-

ficine della valle del Guadalquivir (Baetis) inetà augustea e prosegue fino ai decenni cen-trali del III secolo d.C. La fortuna di questicontenitori è legata all’olio destinato ai rifor-nimenti dell’Annona di Roma e degli esercitidislocati lungo le frontiere dell’impero. Il Te-staccio (il monte dei “cocci”) testimonia del-le elevatissime quantità di anfore olearie(Dressel 20 e in minori quantità nord-africa-ne) che raggiungevano l’Urbs, ove l’olio eradistribuito alla plebe urbana già forse dall’etàaugustea e più intensamente dall’età adria-nea in poi. In età severiana le distribuzioni di-vennero gratuite e quotidiane. I vuoti a perdere(cioè le anfore) venivano rotti in prossimitàdel porto di sbarco (l’Emporio) e gettati inun’apposita discarica che nei 150 anni d’usosi è trasformata in una vera e propria collina(il Testaccio) alta circa più di 40 metri.

C.P.

BibliografiaInedita.García Vargas, Bernal Casasola 2008, pp. 674-676 (conbibl.).

Sez. 9.13b - Vasetto ovoide epiriforme in ceramica comune

Materiale: argilla lavorata al tornioDimensioni: h. cm 15, 5; diam. orlo cm 5,5; diam.pancia cm. 7,5

Provenienza: Ostia, Terme del Nuotatore, area NE,da un contesto di età tardo-antonina (160-180/190d.C.)

Cronologia: seconda metà del II secolo d.C.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. TN NE71.77.

Centro di produzione: non determinabile

Vasetto in ceramica comune caratterizzato dauna piccola imboccatura, da un collo strettoe da un corpo piriforme, pertinente al tipo Pa-volini 16a-17a. Le caratteristiche della pastarimandano ad un’origine non italica, forsespagnola.Per questo tipo di oggetti si è supposto unuso come contenitori per dadi (fritilli), cometappi per anfora (in particolare delle anforeDressel 7-13 e simili della Betica nella Spagnasud-occidentale), come vasi per l’alleggeri-mento di volte. Nella ricostruzione di E. Ro-driguez Almeida si tratterebbe di un oggettoutilizzato, insieme alla pece, come ventosaper togliere i tappi delle anfore. Riusi secon-dari sono probabili, ma resta incerta la fun-zione primaria, che sembrerebbe, soprattuttoper il tipo in esame, collegata ai contenitorida trasporto.

C.P.

BibliografiaInedito.Rodriguez Almeida 1974; Pavolini 1980; Pavolini 2000,pp. 375-378.

Sez. 9.12b - Fondo decorato digrande piatto in terra sigillataafricana D

Materiale: argilla lavorata al tornio, con rivestimentocostituito da una vernice di colore aranciobrillante, presente solo sulla faccia interna delframmento

Dimensioni: lungh. max. cons. cm 9,3; largh. max.cons. cm 8,1

Provenienza originale: Sperlonga, Villa di TiberioCentro di produzione: Tunisia settentrionaleCronologia: decenni centrali del V secolo.Luogo di

conservazione: Roma, “Sapienza” - Università diRoma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. S 1879

Fondo di piatto (suppellettile da mensa) interra sigillata D su cui è visibile la traccia diun solco prossimo al punto di contatto conla parete e al cui centro è presente una de-corazione impressa costituita da triangoli den-tati con cerchietti (Atlante I, stampo n. 43),alternati a rami di palma (Atlante I, stampon. 116). La decorazione, piuttosto insolita, èstata attribuita per la scarsa accuratezza de-gli stampi e per la loro disposizione allo sti-le A(III) di Hayes. Il vaso potrebbe appartenerealla famiglia dei vasi da mensa di dimensio-ni considerevoli esaminate nella scheda pre-cedente.

A.F.F.

BibliografiaSaguì 1980, p. 519, fig. 132.

Sez. 9.12c - Vaso a listello in terra

sigillata africana D

Materiale: argilla lavorata al tornio, rivestita con uningobbio sottile, opaco, che riveste tutto l’internodel vaso, mentre all’esterno ricopre l’orlo e siarresta subito al di sotto del listello; l’insolitacolorazione giallo-arancio è probabilmente dovuta adifetti di cotturaDimensioni: diam. orlo cm 16,6; diam. al listello cm19; diam. fondo cm 5,5; h. cm 6

Provenienza originale: Sperlonga - Villa di TiberioCronologia: decenni centrali del VI secolo d.C.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. S 1453

Centro di produzione: Tunisia settentrionale

Vaso a listello (suppellettile da mensa) in si-gillata africana D, riferibile al tipo Hayes 91C,nn. 21, 23, dalle pareti mediamente svasate,con orlo arrotondato, listello ricurvo di me-dia ampiezza. All’interno, sul fondo, è pre-sente una fitta decorazione a rotella. Sul fondoesterno, piano, una scanalatura lascia distin-guere un falso piede.Il vaso appartiene ad un’ampia famiglia di og-getti dalla vasca più o meno profonda e do-tati di un listello posto al di sotto dell’orlo, lacui storia inizia, nei primi secoli dell’impero,nelle officine che producono ceramiche co-muni, per entrare successivamente a far par-te del repertorio morfologico dei vasi in terrasigillata, non solo negli atéliers della Tunisia(settentrionale, centrale e meridionale), maanche in quelli algerini ed egiziani. La formaconosce una diffusione molto ampia, che ri-guarda l’intero bacino del Mediterraneo, lacosta atlantica e l’Europa continentale.

A.F.F.

BibliografiaSaguì 1980, p. 504, fig. 63; per la storia della formaHayes 91 cfr. da ultimo Bonifay 2004, pp. 177-181, conbibliografia.

Sez. 9.12d - Lucerna

Materiale: argilla modellata a matrice, rivestita daun ingobbio di color arancio, di medio spessore,che presenta riflessi metalliciDimensioni: lungh. max. cons. cm 9,5; largh. cm 6,3;h. cm 4,8; manca una piccola parte del becco.Provenienza: Roma, scavo delle pendici nord-orientali del Palatino, da un contesto di etàcontemporanea (giacitura secondaria)

Cronologia: fine IV - inizi V secolo d.C.Luogo di conservazione: Roma, “Sapienza” -Università di Roma, Laboratorio per lo studiodell’instrumentum domesticum. Inv. n. PNE 5247

Centro di produzione: Italia centrale tirrenica (Roma?)

Lucerna riferibile ad una produzione centro-italica (tipo Bailey S), che imita - probabilmentetramite la tecnica del surmoulage - una lucer-na di produzione nord-africana riferibile al ti-po VIIIA1a dell’Atlante I in sigillata africana D.Il canale è fiancheggiato all’interno da due sol-cature longitudinali. La spalla è decorata dauna foglia di palma schematizzata compresaentro una banda delimitata, verso il becco, dadue solcature trasversali. Sul disco croce mo-nogrammatica semplice, rivolta a destra, ge-nericamente confrontabile con un esemplareproveniente dalle catacombe di Commodilla(Cosentino, Ricciardi 1993, nr. 67). Ansa ver-ticale, piena e scanalata. Al centro del fondoun motivo cuoriforme inciso.

A.F.F.

Bibliografia:Inedito.Per le lucerne in sigillata africana D cfr. Atlante I, pp.194-198; per le imitazioni in ceramica comune cfr. Bai-ley 1980, pp. 383-384.

248

a b

249

Sezione 10

tecniche artistiche

rum venalium (VII, 8-9) (editto emanato all’epoca dell’imperatoreDiocleziano a seguito di una forte svalutazionemonetaria) (cfr. sez.6, n. 5); tale distinzione lascia supporre che il rango più elevato nel-la categoria appartenesse al pittore incaricato di dipingere i quadrio le scene figurate, che occuparono il centro delle pareti affrescatea partire dall’età augustea e per tutta l’epoca imperiale. Spesso i pit-tori dei quadri intervenivano quando il resto della decorazione erastato già ultimato, in alcuni casi apponendo sulla parete tavole di-pinte precedentemente in bottega, ma più in generale eseguendo ildipinto direttamente in un settore predisposto lasciato grezzo. In

questo caso, prima di realizzare scene particolarmente complesse,poteva essere tracciato uno schizzo preparatorio, definito sinopia(dal tipo di terra color ocra di Sinope), nascosto dall’ultimo stratodi intonaco di supporto alla pittura o dalla pittura stessa, come sicontinuerà a fare anche oltre l’antichità. Allo stesso o ad altri arti-giani era affidata l’esecuzione di ulteriori disegni preparatori, cheservivano per organizzare le differenti zone dello schema decorati-vo, nonché i motivi accessori; questi disegni, eseguiti con linee im-presse con una cordicella oppure con punteruoli o compasso,impiegando vari tipi di riga e filo a piombo (cfr.sez. 1 n. 11 a-g), era-

253

Nell’ambito delle tecniche artistiche romane, un ruolo preminente èsvolto dalla pitturamurale, la quale assolveva al duplice scopo di de-corare pareti e soffitti, costituendo l’arredo immobile degli edifici, enel contempo assicurava un rivestimento atto ad isolare e a preser-vare le strutture murarie che gli stessi intonaci rivestivano. La tecni-ca pittorica romana è comunemente definita affresco (sez. 10 n. 1),a causa della modalità di realizzazione dello stesso rivestimento: icolori, infatti, venivano stesi quando l’intonaco era ancora fresco, inmodo da ottenere mediante la reazione tra la calce contenuta nel-l’intonaco e l’anidride carbonica dell’atmosfera una pellicola di car-bonatodi calcio che fissavanaturalmente i colori. Tuttavia, specialmentenei casi di decorazioni più elaborate sia dal punto di vista dello sche-ma che della resa cromatica, i colori potevano essere impiegati an-che a “mezzo fresco” (riattivando in un secondomomento il processodi carbonatazionemendiante la pressatura della parete dipinta) che“a secco”, ovvero se i pigmenti venivano stesi quando la superficiedell’intonaco era già asciutta mediante un legante organico, con laconseguente maggiore deperibilità delle superfici dipinte.La tecnica dell’affresco, già nota nell’antichità, nel mondo romanoraggiunse un eccezionale livello di perfezionamento, conseguitome-diante particolari accorgimenti utilizzati negli strati preparatori del-l’intonaco. Come apprendiamo dalle fonti, in particolare da Vitruvio(De Architectura, 7), era prevista la realizzazione di almeno tre stra-ti preparatori sovrapposti con calce preparata con sabbia e pozzo-lana, sull’ultimo dei quali si stendevano altri strati di calce con polveredi marmo per rendere più compatta la superficie, ottenuta anchemediante la battitura e la levigatura (figg. 1, 1a).Riguardo ai colori, che come si è detto dovevano essere stesi quan-do il rivestimento era ancora umido, Vitruvio riporta una descrizio-ne deimateriali impiegati distinguendo tra i colori che si rinvengono“pronti” in natura e quelli preparati secondo procedimenti vari, sen-za fornirne caratteristiche particolari, ad eccezione del cinabro (il mi-nio, il c.d. rosso pompeiano), di cui l’autore segnala le probabilialterazioni dovute all’esposizione alla luce solare. Ulteriori informa-zioni sui colori ci vengono tramandate da Plinio (Naturalis Historia35), sia sullemodalità di impiego che sulla diffusione degli stessi pig-menti, poiché l’autore precisa che alcuni di essi, i c.d. floridi, eranodirettamente forniti dal committente ai pittori probabilmente a cau-sa del loro costo e delle loro qualità intrinseche. Entrambi gli autori,inoltre, accennano ad una particolare tecnica di lucidatura delle su-perfici pittorichemediante la stesura di cera diluita con olio, che ave-va la funzione di preservare le pareti particolarmente esposte. Ancoradubbia, invece, risulta l’utilizzazione nelle decorazioni parietali di una

miscela ottenuta con cera, insieme ai colori e alla calce (tecnica del-l’encausto, impiegata su legno, avorio e tessuto).Il procedimento descritto, per la realizzazione di superfici dipinte per-tinenti sia a soffitti o volte che a pareti, comportava necessariamen-te una precisa organizzazione del lavoro all’interno della bottega deipittori incaricati della realizzazione della stessa pittura (fig. 2).Le successive fasi (stesura degli strati preparatori, dello strato di in-tonaco su cui apporre i colori, infine della decorazione stessa) era-no fortemente vincolate da una tempistica di esecuzione rapida, perconsentire che il lavoro progredisse su superfici sempre umide. Silavorava dunque a zone, normalmente a fasce o stadi progressivi,come è stato possibile riconoscere sia dall’osservazione diretta del-le pitture che dopo il distacco dalle pareti di affreschi, in cui sonostate riconosciute le c.d.”giornate di lavoro”, ovvero zone delimita-te da giunture di intonaco corrispondenti alla porzione del lavoroeseguito giornalmente. La presenza di pittori differenti preposti al-le successive fasi dell’esecuzione ci viene suggerita dalla distinzio-ne esistente tra il “pictor imaginarius”, ovvero il pittore che eseguivai quadri e il “pictor parietarius”, il pittore a cui era affidato l’impian-to decorativo generale, entrambi ricordati nell’Edictum de pretiis re-

252

Le tecniche di rivestimento parietale e pavimentale del mondo romano

Stella Falzone

Fig. 1 - Sezione di un

intonaco romano

(da Adam 1989, fig. 508).

Fig. 1a - Colori da Pompei

(Napoli, Museo Archeologico Nazionale)

Fig. 2 – Pittori al lavoro

(da Adam 1988, fig. 521)

Fig. 3 - Veduta del salone della Casa

dei Pittori al Lavoro a Pompei

(parete nord): la parete era in corso

di ridipintura al momento

dell’eruzione del Vesuvio (79 d.C.).

Si noti che non era ancora conclusa

la decorazione della zona mediana

(pannello nero) e dello zoccolo

della parete, e che non era ancora

dipinto il quadro centrale (di cui

restano i disegni preparatori in

ocra gialla: la sinopia).

[su concessione del Ministero per i

Beni e le Attività Culturali,

Soprintendenza per i Beni

Archeologici di Napoli e Pompei]

Fig. 4 - Particolare della parete est

del salone della Casa dei Pittori a

Lavoro: si noti il disegno

geometrico preparatorio realizzato

per eseguire le architetture dipinte

della zona mediana.

[su concessione del Ministero per i

Beni e le Attività Culturali,

Soprintendenza per i Beni

Archeologici di Napoli e Pompei]

da un conglomerato di ciottoli (statumen), il secondo da pietre e cal-ce spesso 25 cm (rudus) e infine il terzo costituito da cocciopesto ecalce (nucleus). Le tessere venivano incastrate su uno straterello su-periore di intonaco e la loro superficie levigata e resa compatta me-diante una spalmatura di polvere di marmo, sabbia e calce. Pur conle dovute differenze tra epoche e aree geografiche (in analogia a quan-to detto per l’intonaco dipinto), tale procedimento appare sostan-zialmente applicato e testimoniato dai ritrovamenti archeologici.Riguardo alla tecnica di esecuzione, si segnala che tra la tarda età re-pubblicana e la prima età imperiale, specialmente nella penisola ita-lica, si rileva la presenza di pavimenti con decorazioni geometricheottenute con tessere bianche o con frammenti di terracotta ingloba-ti nell’opus signinum, ovvero in uno strato di calcestruzzo dal coloregeneralmente rosa realizzato con calce e cocciopesto.In epoca più antica (II sec. a.C.) è attestato l’uso di collocare al cen-tro dei pavimenti in mosaico di ambienti particolarmente lussuosicon funzione di rappresentanza un piccolo riquadro figurato, defini-to da Lucilio (Plin., Naturalis Historia, 36, 185) emblema vermicula-tum, forse a causa dell’andamento curvilineo delle minutissimetessere di pietra e di pasta vitrea di svariati colori. Tali riquadri, a dif-ferenza del resto del pavimento musivo, non venivano realizzati sulposto, e l’emblema poggiava su un piano di pietra, marmo o terra-cotta che veniva inserito all’interno di una cornice in un’area rispar-miata dello stesso pavimento. Possiamo supporre che si trattassedi copie di celebri quadri di pitture su cavalletto, come peraltro si èipotizzato per il mosaico con la battaglia di Alessandro e Dario dal-l’esedra della Casa del Fauno a Pompei, che rappresenta uno degliesempi più significativi realizzati con tale tecnica (fig. 5). Dobbiamoquindi supporre uno stretto collegamento tra la pittura e il mosaico,in quanto si poteva trasporre sul mosaico, più resistente e duraturo,lo stesso repertorio impiegato nella più fragile materia pittorica deiquadri o delle pareti dipinte, come dimostrano repliche eseguite nel-le differenti tecniche. Nondimeno, dobbiamo ritenere che album dischizzi (cartoni) fossero alla base della realizzazione delle scene rap-presentate mediante entrambe le tecniche, e che tali schizzi più chegli stessi artigiani circolassero con una certa facilità, come mostra-

no svariate repliche del medesimo soggetto ripetute in aree geogra-fiche anche distanti; tali fenomeni sonomotivati da una generale dif-fusione dei rivestimenti in mosaico e pittura in epoca imperiale edalla conseguente creazione di botteghe a carattere locale.Progressivamente, infatti, si può ravvisare nel tempo la tendenza nel-l’emblema con soggetto figurato sia ad ingrandirsi nelle dimensio-ni delle tessere che nella superficie occupata, fondendosi con larestante decorazione a schema geometrico, che funge da contorno.Vastissimo appare il repertorio dei soggetti figurati nel modo roma-no, normalmente determinata dalla funzione dell’edificio di appar-tenenza, nonché dallo status della committenza e dalla capacità dellesingole botteghe dimosaicisti. È possibile, per citare un esempio, ri-levare una costante relazione nella scelta dei motivi o divinità mari-ne in connessione con gli ambienti termali, anche se possono esistereeccezioni in tal senso, senza che di ognuna si possa stabilire la mo-tivazione originaria.Nel tempo, saranno gli schemi geometrici monocromi, che combi-nano infinite soluzioni di linee geometriche con l’effetto di creare va-riazioni ottiche di campi bianchi e neri, gli schemi più frequentementeimpiegati in epoca imperiale, specialmente in ambito privato ed inambienti di secondaria importanza o scarsamente rappresentativi:la costruzione di uno schema geometrico di base, utilizzato comeun modulo facilmente replicabile a seconda della superficie da de-corare, assicurava rapidità di esecuzione ed economicità (fig. 6).Una particolare tecnica di rivestimento che impiegava, al posto del-le piccole tessere lapidee, lastre dimarmo di spessore vario (crustae)era nota nell’antichità come opus sectile marmoreum (sez. 10, n. 4).Come apprendiamoda Plinio (Naturalis Historia, 36, 47), questa par-ticolare arte di tagliare il marmo in sottili lastre di rivestimento perpareti e pavimenti nacque in Oriente, si diffuse nel mondo greco esuccessivamente in quello romano. Le lastre marmoree, di spesso-re vario, normalmente presentavanomisure relativamente grandi ederano tagliate come figure geometriche o secondo forme prestabili-te atte a ricostruire il disegno di soggetti figurati. L’effetto finale del-la decorazione giocava sugli effetti coloristici dell’accostamento ditarsie di marmi differenti, che determinavano composizioni geome-

255

no sempre realizzati prima che l’intonaco fosse asciutto (figg. 3-4).Mentre le fonti (in particolare Plinio) ci tramandano i nomi di gran-di pittori greci di età classica ed ellenistica (Polignoto, Apelle, Zeusiecc.), le cui opere su cavalletto oggi completamente perdute orna-vano i più importanti portici e templi a Roma, pochi sono i nomi re-lativi a pittori romani (Fabius Pictor, Studius o Ludius e Famulus oFabullus), e a nessuno di questi possiamo con certezza associare al-cun dipinto. Conosciamo al contrario le firme di quattro pittori o stuc-catori (Alexandros, Seleukos, Lucius, Silvanus) ignoti alle fonti letterarie,che ci testimoniano una pratica artigianale diffusa, spesso ad operadi pittori anonimi dotati di un buon bagaglio di tecnica.Si può asserire che i procedimenti di esecuzione dell’affresco e de-scritti dalle fonti antiche furono utilizzati in modo generalizzato nelmodo romano, come ricaviamo dall’analisi degli intonaci dipinti edall’osservazione delle loro caratteristiche tecniche, anche se, a se-conda degli ambiti geografici e cronologici, risultano impiegati va-riamente imateriali che componevanogli strati preparatori o i pigmenti,come può variare il numero degli stessi strati, con una progressivadiminuzione in termini numerici e qualitativi nel corso del tempo.Tale semplificazione è correlabile in epoca imperiale ad una genera-le standardizzazione e diffusione della pittura in affresco che diven-ne appannaggio di una committenza sempre più diversificata,diffondendosi specialmente nell’edilizia domestica in abitazioni an-che di standard non elevato.Nell’ambito del mondo romano, infatti, l’ampia documentazione dipittura prevalentemente di ambiente domestico, rinvenuta in siti dieccezionale conservazione come Pompei, ha portato convenzional-mente a definire nei quattro stili pompeiani tra il II sec. a.C. ed il Isec. d.C. le differenti maniere di organizzare la decorazione parieta-le. Gli schemi utilizzati nelle varie epoche imitavano architetture, ri-vestimenti in marmo o materiali preziosi, ed inserivano quadri, oimmagini figurate eseguite con la tecnica dell’affresco di cui si è det-to. Se in un momento iniziale attraverso le scelte decorative la clas-se dirigente romana utilizzò l’apparato decorativo della casa comestrumento volto all’autorappresentazionemediante l’adesione ad unrepertorio dalle precise valenze ideologiche e culturali, specialmen-te a partire dai decenni centrali del I sec. d.C. si ebbe una produzio-ne pittorica generalmente di buon livello ma di rapida esecuzione epiuttosto standardizzata, riflesso della diffusione di mode per unacommittenza di varia estrazione sociale. Tale fenomeno, ascrivibileall’ultimo degli stili pompeiani, intervenne quando contemporanea-mente nei palazzi imperiali venne privilegiato l’uso di lastre di mar-mo policromo per rivestire le pareti di ambienti di rappresentanza,come ci mostrano le differenti sale della Domus Aurea neroniana.Da questo momento si sancì in un certo modo il ruolo preminentedella decorazionemarmorea parietale rispetto a quella pittorica, an-che se nel corso delle epoche, come si dirà anche oltre, fu sempreviva la dialettica esistente tra la pittura e il marmo, giocata spessosugli aspetti imitativi della tecnica pittorica rispetto ai materiali di ri-vestimento più pregiati.In stretto collegamento con gli intonaci dipinti, erano anche le deco-razioni parietali in stucco (sez. 1o, n. 2). Lo stucco era costituito daun impasto di gessomescolato con acqua, a cui potevano essere ag-giunte anche altre componenti, come calce, polvere di marmo e cal-cite. Si otteneva un amalgamamorbido, che poteva esseremodellato

a mano mediante spatole o con l’uso di stampi (come peraltro si ècontinuato a fare fino in epoca moderna), il quale generalmente ve-niva steso sull’intonaco di preparazione ancora fresco. Il rivestimen-to in stucco, una volta essiccato essendo anche esposto a fonti dicalore, assicurava una lunga durata e nei casimigliori una durezza si-mile al marmo, di cui richiamava l’aspetto esteriore. Le superfici po-tevano essere dipinte, secondo gli accorgimenti tecnici propri dellatecnica dell’affresco, come dimostrato negli esempi riconducibili alc.d. primo stile pompeiano (di cui si dirà anche oltre). Le fonti anti-che (Plinio, Vitruvio) distinguono tra i vari tipi di impiego dello stuc-co, chepoteva essere adoperatoperuniformare superfici architettonicheirregolari, o per ricoprire elementi architettonici o per la realizzazionedi elementi plastici di rivestimento. Per le caratteristiche tecniche, edin particolare per la resistenza all’umidità, nelmondo romano lo stuc-co fu largamente impiegato nelle decorazioni di soffitti e volte, comemateriale esclusivo o insieme all’affresco, come ci dimostrano sia pre-gevoli esempi di decorazione di edifici privati, che di edifici sepolcra-li o termali. La produzione in stucco conobbe il suo apice dal puntodi vista tecnico e nella qualità artistica a partire dall’età augustea e pertutto il I sec. d.C.; in epoca successiva esso continuò ad essere im-piegato, anche se in misura minore ed in edifici a carattere particola-re, come i sepolcri, anche a causa della minore economicità rispettoalle decorazioni in affresco (fig. 5).Nell’ambito delle tecniche più diffuse nel mondo romano per deco-rare superfici architettoniche (pavimenti, pareti, soffitti o volte), unruolo preminente è occupato dalmosaico (sez. 10, n. 3), sia per glieffetti coloristici ottenuti, che per la preziosità e la particolare resi-stenza, essendo composto da minute tessere di pietra, terracotta opasta vitrea inglobate in strati di preparazione accuratamente rea-lizzati. I termini connessi alla lavorazione del mosaico compaiononella letteratura romana solo assai tardi, ed in particolare negli Scrip-tores Historiae Augustae: generalmente era chiamatomusivarius, mu-seiarius emusearius il decoratore di pareti,mentre tessellarius, tesserariuso tessellator quello dei pavimenti.Come abbiamo visto per la tecnica della pittura, precise indicazioniper l’esecuzione del rivestimento in mosaico ci pervengono da Vi-truvio (De Architectura, 7, I) e da Plinio (Naturalis Historia, 36, 186-187). Secondo tali autori, si doveva procedere a realizzare per imosaicipavimentali tre strati preparatori differenti, di cui il primo costituito

254

Fig. 7 - Disegno ricostruttivo delle

fasi di realizzazione dell’opus sectile

pavimentale (Marmi colorati 2002,

p.164; dis. T. Semeraro)

Fig. 6 – Mosaico pavimentale

rinvenuto nella domus sotto Palazzo

Valentini a Roma (II sec.d.C.) (da

Baldassarri 2008-2009)

Fig. 5 - Cornice in stucco (v. sez. 10, 2)

triche più omeno complesse o addirittura composizioni figurate. Ri-guardo alle decorazioni pavimentali, al pregio artistico delle stessesi univa la grande resistenza del materiale impiegato, il quale dove-va però essere messo in opera seguendo precisi accorgimenti tec-nici sia nella lavorazione delle lastre che nella stesura degli strati dimalta di allettamento delle tessere (fig. 7).Anche in questo caso, la dialettica esistente tra le differenti tecnichedi rivestimento parietale nel modo romano può essere sottolineatadall’ampia diffusione di stucchi imitanti rivestimenti con crustaemar-moree, che caratterizzano il c.d. primo stile pompeiano, o “a incro-stazioni” (II-I sec. a.C.).Tra gli esempi più antichi in territorio italico di pavimenti con intar-si marmorei, conosciamo dalle fonti e dai rinvenimenti archeologiciun tipo particolare definito pavimentum scutulatum, ottenuto conpiccole lastre policrome tagliate a rombi e disposte a creare l’effettodi cubi visti in prospettiva, introdotto a Roma nel tempio di giove Ca-pitolino dopo la terza guerra punica (149 a.C.) (Plinio, Naturalis Hi-storia 36, 185). Nei decenni successivi questo tipo di pavimento fuutilizzato anche in ambiente domestico (ad esempio nella Casa delFauno a Pompei), per poi venire anch’esso imitato sulle pareti af-frescate (Casa dei Grifi sul Palatino).A partire dal I sec. a.C. e con l’età imperiale l’uso di pavimentazionicon tarsie marmoree divenne sempre più diffuso, privilegiando le

composizioni ottenute da lastre accostate, tagliate secondo le diffe-renti figure geometriche, con ricercati effetti di policromia. Talora, aschemi prevalentemente geometrici, si unironomotivi vegetali (si ri-cordano, ad esempio, alcuni pannelli dalla Domus Tiberiana sul Pa-latino, e il pavimento di un’aula della Domus Aurea).A partire dall’epoca degli imperatori Claudio e Nerone si diffuseroanche i rivestimenti parietali di opus sectile figurato, come appren-diamo anche dalle fonte pliniana, anche se rimangono solo limitatiresti di tali composizioni figurate provenienti prevalentemente daipalazzi imperiali del Palatino.Tra le testimonianze più significative di questo gruppo si annovera-no quattro pannelli figurati superstiti della basilica civile di GiunioBasso ed il rivestimento parietale in opus sectile geometrico e figu-rato proveniente dall’edificio ostiense fuori Porta Marina, entrambiascrivibili al IV sec. d.C.L’uso di rivestire pavimenti e pareti con tarsie marmoree perdura in-fatti in epoca tardo imperiale, come dimostrano le decorazioni di edi-fici pubblici e privati, con il ricorso sempre più frequente a lastremarmoree di reimpiego. Il favore goduto da questo genere di rive-stimenti viene sottolineato, nella stessa epoca (fine III-IV sec.d.C.)dall’imitazione in pittura di rivestimenti in crustae marmoree poli-crome, ove nuovamente la pittura consentiva una maggiore econo-micità nella realizzazione degli apparati decorativi (fig. 8).

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BibliografiaData la vastità della bibliografia esistente sugli argomenti trattati, si propongono diseguito solo i titoli di alcuni contributi di riferimento (generalmente di anni recenti)Adam 1989; Andreae 2003; Baldassarre, Pontrandolfo, Rouveret, Salvadori 2002;Baldassarri 2008-2009; Barbet 1985; Barbet 1998, pp. 103-111; Barbet, Allag 2000;

Bragantini 2004, pp. 131-146; Clarke 1979; Croisille 2005; Marmi colorati 2002; Donati1998; Esposito 2007, pp. 159-174; Falzone 2002, pp. 171-174; Guidobaldi 1989, pp. 55-81; Guidobaldi 2003, pp. 15-75; Ling 1998; Ling 1999; Mielsch 1975; Mielsch 2001;MorriconeMatini 1980; Varone, Bearat 1997, pp. 199-214; Vassal 2006.

Fig. 8 - Opus sectile dalla domus B, parete est dell’aula absidata rinvenuto sotto Palazzo Valentini a Roma (da Baldassarri 2008-2009)

Sez. 10. n. 1 – Affresco(5 frammenti)

Originali: 5 frammenti di affresco parietale con restidell’incannucciata

Misure: varie (14 x 16 x 3, il più grande)Provenienza: dagli scavi di via dell’Impero (1931-1932)Cronologia: I sec. d.C.Luogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. nn. 37588, 37589, 37590, 37591, 37592

I frammenti di affresco parietale, rinvenuti nelcorso degli scavi per l’apertura di via dell’Impe-ro (oggi via dei Fori Imperiali), hanno superficilevigate dipinte nei colori rosso, giallo ocra, consovradipinture nei colori azzurro e verde. I mo-tivi decorativi sono: elementi floreali stilizzati, frai quali emerge il corpo di un grifo. Nella parteposteriore di tutti i frammenti sono evidenti leimpronte dell’incannucciata alla quale aderival’affresco, il che può far pensare che facesseroparte della decorazione di un ambiente a volta.

V. V.

BibliografiaInediti.Cfr. Pisani Sartorio G.,Una domus sotto il giardino delPio Istituto Rivaldi sulla Velia, in Città e architetturanella Roma imperiale, Analecta Romana Istituti Dani-ci, Suppl. X, 1983, pp.147-168.

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Sez. 10.2 - Cornice in stuccocolorato (3 frammenti)

Originale: stucco (3 frammenti)Misure: (cm 10 x 16 x 6 max.)Provenienza: Via dell’Impero (1931-1932)Cronologia: I sec. d.C.Luogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. nn. 37683, 37762, 37730

Cornice in stucco, modellato a stampo e rifi-nito a mano, dipinto nei colori rosso, azzur-ro, amaranto, giallo ocra, bianco.Nel primo frammento ad una modanatura aguscio con listello dipinto in bianco, segueuna fascia con figura alata (Nike?), a rilievoin colore bianco su fondo rosso, inginocchiatacon in mano una ghirlanda legata ad un can-delabro bianco anch’esso (il motivo potevaripetersi in modo speculare); al di sopra unafascia a rilievo di fiori di loto alternati a pal-mette su fondo rosso e blu entro volute.Il secondo frammento è parte di una corniceaggettante di cui si vedono i tre lati: all’inter-no di un archetto con volta a fondo in azzur-ro, è applicata una conchiglia a rilievo bianca.Nel terzo frammento: da una palmetta a ri-lievo in bianco angolare nasce una voluta, cuisegue a destra una fascia di fiori di loto e pal-

mette; i colori sono bianco, rosso, blu, ama-ranto e ocra giallo.

V.V.

BibliografiaInediti.Cfr. Pisani Sartorio G.,Una domus sotto il giardino delPio Istituto Rivaldi sulla Velia, in Città e architetturanella Roma imperiale, Analecta Romana Istituti Dani-ci, Suppl. X, 1983, pp.147-168.

Il processo di scolpire un qualsiasi genere di pietra allo scopo di rea-lizzare una scultura o un altro oggetto tridimensionale risponde a unalogica di progressivo trattamento della massa solida attraverso se-quenze successive di intervento sulla superficie fino ad ottenere for-me sempre più definite: permezzo dell’uso di una serie di strumenti,impiegati singolarmente o in coppia, si interviene amodificare emo-dellare la materia prima (calcare, marmo, granito, porfido ecc.).La prima fase era la scelta dei materiali. Questa era dettata non so-lo dai criteri di disponibilità e lavorabilità, ma era anche motivatadal loro contesto di impiego, come dalla capacità di veicolare con-tenuti simbolici: ad esempio in età imperiale il porfido, con la suatonalità porpora, richiamava la magnificenza imperiale o, come in-segna la famosa munificenza di M. Emilio Scauro (Plinio, Natura-lis Historia 36, 50.113-115), la profusione deimarmi colorati segnalavaefficacemente il raggiunto prestigio sociale della committenza. Inquello che era il vasto network commerciale dell’impero romano ilmarmo, con le sue molteplici varietà e colorazioni, diviene il ma-teriale più utilizzato e più diffuso: soggetto a scambi, trasporto edesportazione su larga scala costituirà un fattore importante di ric-chezza economica, tanto che l’autorità imperiale era coinvolta di-rettamente nello sfruttamento di alcune cave di marmo (fig. 1).Quali sono i metodi di lavorazione attestati nel mondo romanorelativi alla produzione di oggetti scultorei?Il procedimento di produzione delle statue è strettamente connessoad alcuni fattori determinanti: le tradizioni e la trasmissione dei sa-peri tecnici, la natura del materiale e la destinazione delle sculture. Atal scopo la nostra base documentaria è fornita da significativi ritro-vamenti archeologici di sculture non finite, più specificatamente esem-plari a volte appena abbozzati o lasciati in momenti diversi della lorolavorazione che permettono di definire la successione delle varie fa-si di intervento e di identificare gli appositi strumenti utilizzati. È pro-prio questa ampia mole di oggetti non finiti sparsi in tutto il bacinodel Mediterraneo che documenta l’esistenza contemporanea di varimodi di lavorazione delle sculture. In una prospettiva sincronica sipuò verificare che per giungere allo stesso esito finale vengano ado-perati gli stessi strumentima in diversa successione e con diversa in-tensità: si tratta appunto di un variegato panorama di tradizioniartigianali locali che coesistono in diverse parti dell’impero romano.Al contrario in una prospettiva diacronica non ci si deve sorprendereche sia gli strumenti che i metodi usati per l’età imperiale non si di-scostino molto da quelli impiegati in età arcaica o classica: si consi-deri che, nonostante variazioni occasionali e successivi perfezionamenti,i tipi fondamentali di strumenti impiegati per la lavorazione delle pie-

tre rimangono fondamentalmente gli stessi a partire dal VI sec. a.C.Secondo la classificazione proposta dall’antropologo ed etnologo Le-roi-Gourhan gli utensili per la lavorazione si dividono in due categorieprincipali: gli attrezzi che vengonoutilizzati da soli, costituiti da un ele-mento in metallo munito di manico, dall’aspetto di un’ascia o mar-tello (fig. 2A). L’urto contro la pietra di questi strumenti è considerevole,ma poco preciso: per questa ragione sono usati in una prima fase dilavorazione, per tagliare e squadrare i blocchi e sbozzatore grezze.Alla seconda categoria appartengono invece quegli attrezzi (fig. 2B)utilizzati in coppia, vale a dire per mezzo dei quali l’attacco della su-

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Tecniche della scultura in età romana

Marco Galli

Fig. 1 - Cave di marmo proconnesio, isola di Marmara-Turchia: veduta generale

del fronte di cava con i tagli antichi a gradoni, mentre in primo piano a destra

il taglio moderno eseguito con mezzo meccanico (foto P. Pensabene)

Fig. 2 - Classificazione degli utensili per la lavorazione della pietra. a) strumenti im-

piegati da soli: esempio del taglio di un blocco con ascia; b) lavorazione della su-

perficie concoppiadi strumenti: scalpello apunta emazzetta (rielab. daBessac 1986)

Sez. 10.3 - Frammento di mosaicoparietale

Originale: frammento di mosaico parietaleMisure: 48 x 30 x 10Provenienza: RomaCronologia: età imperialeLuogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. n. 31778

Il frammento appartiene alla decorazione diuna parete a mosaico, probabilmente da col-locare nel punto di partenza del catino di unambiente absidato.La decorazione musiva è articolata per fasce:una fascia di gusci dimurex annegata nellamal-ta, cui segue una fascia in mosaico a paste vi-tree blu, una fascia di piccoli ciottoli bianchi,una fascia di gusci di ostriche madreperlacee,un’altra fascia di paste vitree blu, una fascia dipiccoli ciottoli bianchi, una fascia a disegno difoglie lanceolate fatta con paste vitree blu al-ternate a piccoli ciottoli e una fascia di rosettea ciottoli entro riquadri col fondo di paste vi-tree blu.La caratterista commistione di tessere vitreee gusci di molluschi fa pensare che si trattidella decorazione parietale di un ninfeo.

BibliografiaInedito.

Sez. 10.4 - Opus sectile

Originali: n. 7 frammenti di crustae marmoreeMateriale: marmi vari (giallo antico, bianco, etc.)Misure: varieProvenienza: da RomaLuogo di conservazione: Roma, AntiquariumComunale, inv. nn. 36917, 36922, 36930, 36933,36938, 36939, 36942

Frammenti vari (7) di elementi di crustaemar-moree, facenti parte di decorazioni parietaliad opus sectile (elementi vegetali, un capitel-lo di lesena graffito, una testina in marmobianco bruciato, etc.).

BibliografiaInediti.Per confronti: F. Bianchi, M. Bruno, M. De Nuccio, Ladomus sopra le Sette Sale. La decorazione pavimenta-le e parietale dell’Aula absidata, in M. De Nuccio, L.Ungaro (a cura di), I marmi colorati della Roma im-periale, Venezia 2002, pp. 160-168; F. Bianchi, M. Bru-no, La domus delle Sette Sale. Il pavimento dell’aularettangolare, in Atti AISCOM, XII, Padova-Brescia 14-17 febbraio 2006, Tivoli 2007, pp. 279-286

Sez. 10.5 - Bottega di scalpellino omosaicista

Materiale: lastra sepolcrale in marmo biancoMisure: 45 x 50 x 5Provenienza: dalla necropoli di Pianabella. Ostia,Antiquarium, inv. n. 132Cronologia: 270-280 d.C.Riproduzione: calco in gesso. Roma, Museo dellaCiviltà Romana,inv. n. 3325

Sulla lastra sepolcrale sono raffigurati, in se-condo piano, due uomini in atto di trasporta-re e scaricare blocchi di pietra, e un altropersonaggio, probabilmente il capo officina,con la destra alzata che indica ai due dove de-vono poggiare i blocchi e nella mano sinistratiene uno strumento per contare. In primo pia-no due uomini seduti sono forse intenti alla la-vorazione di tessere musive e utilizzanoun’incudine e la martellina. Accanto all’opera-io di destra, un cesto rovesciato sparge a ter-ra tessere già lavorate. La scena è certamentein relazione all’attività esercitata in vita dal de-funto e, in considerazione del numero delle te-stimonianze trovate ad Ostia, fa presupporrela presenza di officine specializzate nella lavo-razione dei marmi, che arrivavano nel porto, enella realizzazione di composizioni musive.

BibliografiaMarmi colorati 2002, pp. 497-498 (P. Olivanti) (conbibliografia preced); MCR Catalogo 1982, sala LII, n.26, p. 613; Olivanti P., in J.-P. Descoeudres (éd.),Ostie.Port et porte de la Rome antique, Genève 2001, p. 415.

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In corrispondenza delle pieghe delmantello (paludamentum), la frec-cia a destra indica, invece, i numerosi e tipici segni lasciati dallo stru-mento chiamato gradina (fig. 4B.C.D.): si tratta di un attrezzo con lapunta dotata di una serie di denti paralleli e affilati che ripulisce la su-perficie grezza lasciata dalla subbia per giungere ad una definizionepiù precise delle forme e dei contorni.Le sequenze registrate nell’analisi della statua loricata ha mostratoche l’ordine principale degli strumenti è dettato dallemodalità del la-voro: più pesanti e potenti sono gli utensili più rapidi sono nel ri-muovere ampie porzioni dimateriale,mentre gli strumenti più leggericonsentono invece un maggiore grado di precisione e sono quindiimpiegati per operazioni più in dettaglio e di rifinitura.

A questo stadio intermedio, caratterizzato dall’azione di vari tipi digradine, segue una fase successiva di modellatura segnata dall’im-piego di scalpelli a punta curva e poi a punta diritta (fig. 4E.F.G.),adoperati in una sequenza di diversa intensità: quelli a taglio più ro-busto all’inizio e, in successione, più fini; eventualmente in questafase ci si poteva aiutare con l’azione del trapano detto corrente (fig.6A-B).Dopo la levigatura con scalpelli, una fase finale di rifinitura potevacomportare l’uso di raspe (fig. 4H) o di abrasivi naturali come la sab-bia o la pietra pomice. Il procedimento di rifinitura tende in realtà acomprendere tante varianti a seconda del pezzo, della parte o deldettaglio che si vuol eseguire: può comprendere raspa e abrasivi, ma

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perficie avviene mediante il colpo di un percussore: si può trattare diunmartello di legno duro oppure di unamazzetta, nel caso che il per-cussore abbia una testa metallica.La prima fase di elaborazione di statue può avvenire già nel luogo incui viene estratto il materiale: presso le cave stesse infatti, dove si èpotuta spesso identificare la presenza di botteghe, i blocchi vengonopreliminarmente sbozzati per essere completati poi sui luoghi di de-stinazione finale dei pezzi. Un esempio è fornito dalle cave di uno dei

marmi bianchi più diffusi e apprezzati nell’impero romano, il pro-connesio, proveniente da Proconneso, oggi isola di Marmara (Tur-chia) (Fig. 1). Gli esemplari di manufatti non finiti che si trovano ogginel lapidario locale ci permettono di documentare lo stadio di lavo-razione talvolta appena avviato, altre volte invece in stadi più avan-zati di lavorazione, come dimostra un’interessantissima statua diimperatore loricata rimasta incompiuta (fig. 3A-B).Le due immagini ci mostrano la veduta frontale e retro di una statuala cui iconografia si richiama a forme ben conosciute dell’autorap-presentazione imperiale: il personaggio maschile stante porta la co-rona di quercia con medaglione centrale (v. il ritratto di Traiano sez.6.2b) e indossa la corazza militare con a fianco un piccolo barbarosottomesso, appoggiato al puntello in basso a sinistra della statua. Ilmanufatto mostra tracce evidenti dei diversi stadi di lavorazione: diparticolare interesse sul lato sinistro della testa si conserva ancoral’attacco del puntello che doveva sostenere, in fase di lavorazione,l’avambraccio sinistro alzato.La testa è chiaramente rimasta ad uno stadio di lavorazione iniziale,in cui, grazie all’impiego di uno scalpello a punta (subbia) usato conparticolare forza (fig. 4A), si è potuto produrre una prima sbozzatu-ra del capo e della corona,mentre sul volto sono state delineate le ar-cate sopraccigliari.La parte frontale della statua mostra al contrario uno stadio di lavo-razione avanzato, come rivela la resa dei dettagli anatomici e della lo-rica.L’analisi da vicino di una parte (fig. 5) del fianco sinistro sul retro del-la statua ci permette di identificare i vari strumenti utilizzati: nel set-tore dove sono rese le strisce di cuoio e le alette lunate della lorica(pteryges) la freccia a sinistra indica i segni rimasti della già citata sub-bia (fig. 4A), cioè lo scalpello utilizzato come strumento per trarre dalblocco di pietra la forma base.

260

Fig. 3 a-b - Cave di marmo proconnesio, Isola di Marmara-Turchia: veduta fron-

tale e retro di statua loricata di imperatore non finita, con tracce evidenti dei di-

versi stadi di lavorazione (II sec. d.C. ?) (foto P. Pensabene)

Fig. 5 - Statua loricata di imperatore,

dettaglio del fianco destro visto da retro:

la freccia a destra indica i segni della

lavorazione con scalpello a punta (subbia),

la freccia a sinistra tracce di scalpello

dentato (gradina)

(foto P. Pensabene)

Fig. 6B - Disegno ricostruttivo del trapano

corrente e del suo utilizzo (rielab. da

Bessac 1986)

Fig. 4 - Strumenti e fasi principali per la realizzazione di sculture in età romana (rielab. da Bessac 1986)

- fase di sgrossamento con l’impiego di scalpello a punta (a), o subbia, adoperato con forza per una prima abbozzatura dell’intera immagine. Percosso con un

martello di metallo o di legno tale strumento è utilizzato per rimuovere gran parte del materiale dalla pietra: a seconda dell’inclinazione con cui viene tenuta ri-

spetto alla superficie da scolpire (verticalmente, 70° o 45° gradi v. fig. 2), ogni angolazione con cui viene percossa produce un effetto diverso.

- fase intermedia di modellatura con delineamento delle forme sbozzate tramite vari tipi di gradine (b.c.d). La gradina è uno strumento il cui bordo da taglio, fi-

nemente affilato, presenta una serie di denti paralleli. L’impiego della gradina serva rendere le superfici chiare, la sua azione è indirizzata alla ripulitura della

superficie grezza lasciata dalla subbia, alla definizione delle forme e dei contorni.

- ulteriore stadio di lavorazione dall’impiego di scalpelli a taglio curvo (g) e poi dritto (e) a taglio più robusto all’inizio e poi più fini (f).

- fase finale di trattamento di rifinitura delle superfici: lisciatura con raspe (h) e/o abrasivi (sabbia, pietra pomice ecc.)

Fig. 6A - Sarcofago dello scultore Eutropo

(metà IV sec. d.C.) con scena di bottega:

lo scultore è intento a scolpire con il

trapano corrente un sarcofago strigilato

aiutato da un giovane apprendista

(dal cimitero di S. Elena sulla via Labicana

presso Roma, conservato ad Urbino Museo

Arcivescovile) (copia: Roma, Museo della

civiltà Roomana)

ne del lavoro e modalità produzione delle officine statuarie antiche;anche per quanto riguarda la loro dislocazione geografica non è pos-sibile stabilire con precisione se ci fossero laboratori permanenti al-l’interno di Roma o nella periferia, o piuttosto se si costituisseroall’occorrenza delle “botteghe sul luogo”, nei pressi di importanticantieri pubblici o privati, oppure, infine, quale fosse la diffusione discultori e di botteghe itineranti. Ugualmente lacunose sono le no-stre conoscenze sul grado di specializzazione dei centri di produ-zione secondo tipologie sculturee, materiali o destinazione comepure le notizie sulle competenze in fatto di manutenzione o ripara-zione-restauro di tali sculture. Infine, di più si vorrebbe sapere sulrapporto tra committenza e botteghe, se queste ultime fossero con-cepite come una sorta di spazi in cui fosse possibile per il cliente sce-gliere tra diversimanufatti, o quali committenze richiedessero l’attivitàdi artisti o manovalanze non locali.Per quanto riguarda la presenza di artisti itineranti le testimonianzeletterarie attestano già per i primissimi tempi della repubblica casi fa-mosi: fin dall’inizio del V sec. a.C. l’attività di plastae laudatissimi...ii-dem pictores (Plin. Naturalis Historia 35, 154) greci si concentra nelcomplesso cultuale di Cerere, Libero e Libera, sulle pendici dell’Aventino,dove sono attivi i coroplasti e pittori Damophilos e Gorgasos. Il tem-pio ospitò inoltre, secondo Plinio (Naturalis Historia 34, 15) anche laprima statua in bronzo a Roma: il simulacro di Cerere offerto nel 485a.C. da Spurio Cassio, dedicante nel 493 dello stesso tempio. Taleconsuetudine continua nel corso della Roma repubblicana, quandonel II sec. a. C. – uno dei periodi più fervidi per la ricezione e diffu-sione dei modelli ellenistici nella metropoli – si colloca l’attività del-la bottega dello scultore attico Timarchydes e dei figli Dionysos ePolycles, quest’ultimi impegnati nello straordinario portico di C.Me-telloMacedonico in CampoMarzio. Tale habitus si protrarrà per tut-ta l’età imperiale come dimostrano i grandi cantieri imperiali allastregua dell’Ara Pacis fino a realizzazioni piùmodeste come il rilievo

263

anche tipi più fini di scalpello o, ad esempio per la zona dei capelli,anche con una speciale gradina a due denti.In una sintesi sulle varie tecniche di lavorazione del marmo in etàromana merita un breve rimando il trapano a corda, chiamato an-che trapano corrente (fig. 6B), che a partire dal II sec. d.C. verrà im-piegato in modo sempre più esteso e visibile. Del suo modo diparticolare utilizzo resta un documento di particolare efficacia espli-cativa: si tratta di una scena raffigurata sulla fronte del sarcofago del-lo scultore cristiano Eutropo (IV sec. d.C)-, oggi conservato alMuseoVescovile di Urbino, ma proveniente dai dintorni di Roma (fig. 6A).La scena riproduce l’interno di una bottega di uno scultore di sar-cofagi: al centro si trova una grande lenòs (vasca) strigliata, con dueteste leonine, in uno stadio avanzato di lavorazione. Al di sotto delsarcofago si riconoscono degli strumenti, certamente uno simile al-l’ascia. Il dettaglio più interessante si trova a sinistra dove il maestroscultore siede su una scaletta da lavoro e, aiutato da un giovane in-serviente, è intento a manovrare il trapano: lo scultore regge il po-mello del trapano nella mano destra alzata, mentre con la sinistra sisorregge con una lunga bacchetta di legno anch’essa puntata con-tro la parete del sarcofago; l’inserviente a lato tira alternatamente conentrambe le mani la corda avvolta attorno al trapano, facendo gira-re la punta sulla superficie della pietra.Al patrimonio tecnologico relativo alla statuaria di età romana ap-partengono anche quelle tecniche di giunzione di diversi parti delcorpo permezzo di pernimetallici e tenoni. Si tratta di procedimentiche sono attestati già a partire dall’età arcaica e applicati ad esem-pio all’alloggiamento della testa, lavorata separatamente, tramite unincavo posto sulla sommità del torso, o alla giunzione degli arti, an-ch’essi realizzati a parte e poi fissati per mezzo di un perno metalli-co. Tale tecnica è ripresa e largamente attestata in età romana con

un’ampia gamma di variazioni a seconda della tipologia, dimensio-ni e materiali della scultura. Particolarmente esemplificativo il casodi una statua loricata (fig. 7) di età imperiale (ca. 100 d.C.), il cui cor-po era originariamente costituito da due blocchi: il torso con indos-so l’armatura presentava nella parte inferiore un incavo funzionalead alloggiare il tenone, con cui si fissava la parte inferiore costituitadalle gambe e dalla relativa base; a questo nucleo si assemblavanorispettivamente le braccia tramite due perni e la testa dotata di ap-posito tenone.Una variante delle tecnica di realizzazione della statue tramite la giun-zione di elementi lavorati a parte si può considerare quella degli akro-litha di età romana, il cui termine indica che le parti estreme eranoin pietra (akro-lithos): si tratta di un procedimento tecnico di età clas-sica applicato a statue di culto di dimensioni notevoli, le quali eranocostituite da singole parti inmateriale in pietra assemblate ad un nu-cleo di sostegno centrale ligneo. Alcune attestazioni di età romanasono particolarmente interessanti, ad esempio gli elementi in mar-mo di una statua di Atena, del tipo chiamatoMedici, datati al II sec.d.C. e conservati oggi al Museo Archeologico di Salonicco: la rico-struzione (fig. 8A) mostra chiaramente che la testa, le braccia e lagamba destra, ricoperta dal chitone, erano in marmo, mentre il cor-po centrale in legno come pure le parti ricoperte dal peplo e dalman-tello; questi elementi in marmo venivano fissati al nucleo tramiteperni in legno. Tale tecnica non era circoscritta alle sole statue di cul-to ma era estesa anche alle statue di imperatore, come dimostra unaltro ritrovamento dello stessomuseo raffigurante un imperatore lo-ricato (fig. 8B).Nel patrimonio di tecniche relative alla statuaria romana un postoconsiderevole spetta, infine, all’utilizzo del colore che costituiva unomezzo espressivo fondamentale e inscindibile dalla componente pla-stica del manufatto. Se nella maggior parte dei casi tale componen-te risultava un tempo irrimediabilmente perduta, soprattuttorecentemente l’applicazione di nuove tecnologie, quali la documen-tazione fotografica con radiazione ultravioletta, la fluorescenza UV,l’analisi microscopica e chimica dei pigmenti, ha permesso il recu-pero delle tracce dell’originaria cromia e con essa, in primo luogo,la restituzione di quel forte impatto generato dalla combinazione divolume e colore. L’importante restauro e l’approfondito studio con-dotto nei laboratori dei Musei Vaticani ha reso possibile la ricostru-zione della partitura cromatica della celebre rappresentazione (fig.9) di Augusto in veste di imperator, con lo straordinario apparato de-corativo sulla lorica a celebrazione della restituzione nel 20 a.C. del-le insegne romane da parte dei Parti. Qui, la presenza del coloreenfatizzava senza dubbio quelle valenze simboliche di cui erano giàcariche le immagini: ad esempio, “il blu egiziano” negli elementi delmanto celeste e, il più eclatante, il rosso porpora del paludamentuma sottolineare la potenza del primo Princeps.Gli aspetti tecnologici relativi alla realizzazione delle sculture sonostrettamente correlati alla realtà concreta della produzione, vale a di-re agli spazi dove essa avveniva, nei qualimaestro, operai e apprendistilavoravano, e dove concretamente aveva luogo quella trasmissionedel sapere tecnico da insegnante e allievo.Dalle fonti letterarie e dalle iscrizioni come pure dalle rappresenta-zioni sui rilievi e da scarse tracce archeologiche possiamo ricavaresolo poche e limitatissime informazioni sull’aspetto, organizzazio-

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Fig. 8A - Acrolito di età romana: ricostruzionedella statua dell’Atena tipo Medici (II sec. d.C.),Museo Archeologico di Salonicco(da Despinis 1975

Fig. 7 - Disegno ricostruttivo

dell’assemblaggio di statua loricata di

imperatore, ca. 100 d.C. Museo

Nazionale Romano inv. 10824, di cui

rimane solo la testa e la parte superiore

(da Claridge 1990)

Fig. 8B - Acrolito di età romana, ricostruzionedi statua loricata (II sec. d.C.) MuseoArcheologico di Salonicco (da Despinis 1975)

Fig. 9 Ricostruzione della policromia antica

sulla statua di Augusto proveniente dalla Villa

di Livia a Prima Porta, orig. conservato ai

Musei Vaticani (Liverani 2004)8A 8B

Sez. 10.6 - Pilastrino in marmobianco lavorato

OriginaleMateriale: marmo bianco.Provenienza: sconosciutaDimensioni: 19 x 20 x 8, 50 cmCronologia: prima metà del I sec. d. C., età tiberiana(?)

Collocazione: Antiquarium Comunale, Inv. 36499Stato di conservazione: spezzato alle due estremità,superfici ben conservate

Pilastrino a sezione rettangolare, decorato aleggero rilievo su tutte e quattro le facce, de-finite da modanature a rilievo (tondino e ky-ma reversa). Le specchiature delle faccemaggiori sono decorate da aerei racemi, consteli sottili e foglie articolate in lobi appunti-ti, con occhi d’ombra larghi ed aperti. Dai ra-cemi si dipartono fiori con calice di petali liscied appuntiti, rosette con petali a cuore mol-to carnosi, e infiorescenze con cuore a granirotondi. Tra gli elementi del fregio vegetale siconserva la figura di uccellino; secondo unanota iconografia, questo è colto nell’atto diportare al nido, stringendolo nel becco, l’in-setto destinato a nutrire la prole. Sui lati bre-vi si sviluppa una sequenza di fiori a calicecon lunghi petali appuntiti, alternati a roset-te. Sulla faccia superiore incasso con traccedel perno di ferro, con lato di 2, 2 cm.Dal punto di vista dell’esecuzione tecnica, sinota come le superfici siano state accurata-mente rifinite, con una politura finale del ri-lievo che ha cancellato le tracce degli strumentiutilizzati nelle fasi precedenti di lavorazionedel marmo. La rifinitura non impedisce peròdi rilevare l’utilizzo del trapano corrente, benriconoscibile nei piccoli fori circolari piuttostoprofondi, utilizzati per dividere i petali dei fio-ri, definire gli occhi d’ombra e dare l’aggettodesiderato ai grani delle spighe dei fiori.Il tipo del fregio vegetale popolato da anima-li trovò a Roma e nelle città delle province oc-cidentale grande diffusione nell’architetturapubblica e privata, grazie al suo ingresso trai temi iconografici più cari alla propagandaaugustea dell’aurea aetas, come ben esem-plificato dal celebre fregio dell’Ara Pacis.

T.I.

BibliografiaMathea-Förtsch 1999; Schörner 1995.

265

di Antinoo da Lanuvio, firmato dall’artista afrodisiense Antonianos.Alla produzione di maestranze non locali si affianca inoltre il feno-meno dell’importazione di prodotti particolarmente apprezzati nonsolo per tipologia e iconografia ma anche per tipo di materiali im-piegati (marmo pentelico, docimio), come documenta il caso deisarcofagi di produzione attica emicroasiatica diffusi a Roma e in va-rie regioni dell’impero, anche lontane da quelle di produzione.La presenza di officine di lapidarii in rari casi può essere identificataanche all’interno di strutture abitative, come nel caso di abitazioni tar-do ellenistiche a Delo o nella “Casa dello Scultore” a Pompei (VIII 7,24.22), interessante contesto archeologico situato tra il tempiodi ZeusMelichios ed il teatro (fig. 10). Qui l’antico atrio (n.11), a cui si acce-deva direttamente dalla strada senza vestibolo e che presenta tre cu-bicoli (nn. 1.2.3) disposti sullo stesso lato, venne rifunzionalizzato comelaboratorio-deposito di un marmorario: all’interno dei tre piccoli spa-zi furono trovati durante gli scavi del 1796-98 sculture inmarmo, un’er-ma inmarmo rosso, una statuetta spezzata in più parti, statue appenasbozzate, assieme ad una trentina di martelli di ferro e compassi di-ritti e curvi, “un’infinità di scalpelli di varie grandezze ed altri piccoli”,infine anche una lastra nella quale era rimasta infissa una sega.

Un documento passato inosservato ci aiuta a cogliere qualche fram-mento dell’organizzazione del lavoro vero e proprio all’interno di unlaboratorio di scultura nell’antichità. Questa rara scena di bottega discultori è conservata su rilievo di sarcofago (fine II sec. inizi III sec.d.C.) proveniente dalla città di Efeso e conservato oggi al Museo Ar-cheologico di Istanbul (fig. 11A-B). A sinistra uno scultore con tuni-ca da lavoro è rappresentato seduto su uno sgabellomentre percuotecon un utensile uno scalpello per rifinire la superficie di una statuaraffigurante un togato con barba stante; più a sinistra è seduto unapprendista intento, come sembra, a dipingere o incidere una sortadi panello o tabula di forma rettangolare. Nel parte destra del rilie-vo è rappresentata una simile situazione con al centro un secondoscultore stante e in abito da lavoro, mentre con mazzetta e scalpel-lo sta probabilmente lisciando la superficie di un busto su basemo-danata, il quale è disposto sopra un piccolo tavolo per facilitarne lalavorazione; questo bustomostra una figuramaschile, probabilmentebarbata, con tunica e unmantello la cui foggia potrebbe ricordare senon un ritratto anche una statua ideale di filosofo. Dietro al secon-do scultore assiste un più giovane apprendista che tiene pronti altriutensili per il maestro, mentre di difficile interpretazione è l’azioneche sta compiendo il personaggio, con un abbigliamento più suc-cinto (uno schiavo?), chino a manipolare qualcosa su uno spessopiano di lavoro disposto su una struttura a cavalletto.Si tratta quindi di un’interessantissima scena di una bottega di scul-tori intenti nelle ultime fasi di lavorazione di due statue assieme adaltri inservienti e apprendisti: i duemanufatti, rappresentati ormai co-me finiti, dimostrano che l’officina di questi scultori poteva esserespecializzata in statue e busti ritratto. Di grande interesse è anche lapresenza dell’altro personaggio accovacciato a dipingere su una gran-de tavola forse un disegno: si potrebbe, con la dovuta cautela, pen-sare all’importanza di disegni o cartoni che fornivano nelle bottegheuna base, come modello preliminare, all’ideazioni della sculture.In sintesi: l’impero romano e le esigenze autorappresentative deisuoi ceti comportarono un incremento straordinario della produtti-vità di statue, la cui collocazione finale era caratterizzata da uno spet-tro incredibilmente ampio di contesti e funzioni. Quello che emergeda una preliminare ricognizione dei manufatti non finiti sparsi nelleprovince e nelle città dell’impero è che, così come per altri ambititecnologici, anche la tecnologia di età romana relativa alla produ-zione di sculture si delinea come una realtà globalizzante in tutto ilbacino del Mediterraneo, un sistema, cioè, di influssi e contatti, dielaborazioni locali e di tradizioni preesistenti.

BibliografiaAdam 1988; Adam 1966; Bessac 1986 ; Claridge1985; Claridge 1990; Cuomo 2007; Feifer 2008;Hellmann 2002; Landwehr 1985; Marble 1990;Mu-stilli 1950; Liverani 2004; Pensabene 1985; Rock-well 1989

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Fig. 10 - Pompei, Casa dello Scultore (VIII 7, 24.22): atrio (11) con cubicoli (1-3)

destinati a laboratorio-deposito di sculture

Fig. 11A-B - Rilievo di sarcofago da Efeso (fine II – inizi III sec. d.C.): scena di bottega con scultori al lavoro,

(Museo Archeologico di Istanbul)

Sezione 11

tecnologia per lo spettacolo

caratteristiche del teatro romano; Ammiano Marcellino ricordache (14, 6, 18) “Siccome le biblioteche sono chiuse per sempre co-me fossero tombe, si fabbricano organi idraulici”. Si riferisce alfatto che nel 383 erano stati espulsi i peregrini filosofi e cultori del-le arti liberali (tra cui forse lo stesso Ammiano) mentre mimi eballerine e musicisti erano potuti rimanere (Traina 2006). Il pan-tomimo, introdotto a Roma nel 22 a.C. da Pilade di Cilicia e Batil-lo di Alessandria, era una danza drammatica su soggetto storicoo mitologico, dove l’attore era accompagnato da un coro e daun’orchestra formata da un tibicine che batteva il tempo con loscabillum (Guidobaldi 1996). Dal momento che in teatro è fon-damentale la diffusione della voce e del suono, importante era lostudio dell’acustica e di questo ci dà notizia puntualmente Vitru-vio (de Architectura, 5, 8, 1-2) (sez. 11, n. 9).Le tecnologie nei ludi anfiteatrali dovevano essere ancora più spet-tacolari, dal momento che le battaglie gladiatorie non erano solocombattimenti fra uomini, ma tra uomini e fiere ed occorreva unascenografia che inquadrasse l’ambiente con foreste e boschi, do-ve tali animali abitualmente abitavano e, per rendere lo spettacolo(le cacce, venationes) più veritiero gli allestimenti esibivano di vol-ta in volta cambi spettacolari di scene e per le quali venne definito‘teatro per le cacce’. Le battaglie navali e le rappresentazioni di mi-mi, come quello di Ero e Leandro, allestite per l’inaugurazione delColosseo da parte di Tito nell’80 e poi da Domiziano nell’89 d.C.–come narrano Dione Cassio (66, 25, 4) e Marziale (Liber de spec-taculis, 20, 27) – richiesero certamente apparecchiature assai com-plesse, funzionali, smontabili e riassemblabili in tempi brevi, chenessuno descrive, poi distrutte dalle successive trasformazioni inarena stabile (Rea 2001).Lo studio dei sotterranei del Colosseo harivelato una complessa e tecnicamente sofisticata organizzazione

impiantistica per il sollevamento degli animali e di porzioni dellastessa arena (Beste 2001) (sez. 11, n. 10).Nella Historia Augusta (Vita di Caro, Carino e Numeriano, 19) Fla-vio Vopisco, nel raccontare i giochi, li definisce “ricchi di novitàspettacolari”, tra cui oltre a esibizioni di acrobati, “C’era anchequella speciale macchina che eruttando fiamme incendiava la sce-na e che fu poi perfezionata da Diocleziano”, della quale però al-tro non sappiamo.Negli spettacoli d’epoca tarda, oltre alla esibizione di animali rari,compaiono anche delle attrezzature: la cochlea, l’ericius e il conto-monobolom. Con cochlea in cavea si indicavano degli sportelli gire-voli che facilitavano l’entrata o l’uscita dall’arena degli uomini,bloccando il passaggio agli animali; la cochlea a quattro ante gire-voli di legno fatta di tavole e assi assemblate è raffigurata nei ditti-ci tardo antichi (dittico di Areobindus di Zurigo e di Anastasius diParigi, Bibliothèque Nationale). L’ericius (il riccio) era una specie digabbia di forma ovale (raffigurata nel dittico di Areobindus di Pari-gi, Musèe di Cluny), nella quale un uomo poteva rifugiarsi per sfug-gire agli assalti delle fiere, rotolandosi sull’arena. Il contomonobolomera formato da un palo centrale al quale erano attaccati due cesticontenenti ciascuno un uomo: il palo doveva essere dotato di unabase girevole autonoma; sull’estremità superiore del palo venivapraticato un foro all’interno del quale scorreva una corda alla qua-le erano attaccati alle opposte estremità i due cesti: strattonando lacorda l’occupante di un cesto determinava la salita dell’altro e la di-scesa del suo e viceversa, forse aiutati da pertiche. Girando e va-riando la quota dei cesti si cercava di disorientare l’animale (orso).Un altro tipo di spettacolo comportava l’impiego di una ruota gire-vole, sulla quale veniva legato un uomo che, esposto alle fiere, po-teva salvarsi solo facendo girare velocemente la ruota (Rea 2001).I ludi circensi, iniziati nel VI secolo a.C. come giochi in occasioni difunerali, acquistarono sempre di più il favore del pubblico romanoe sopravvissero alla caduta dell’impero d’Occidente nella corte bi-zantina. Una nuova attenzione per alcuni aspetti dello svolgimen-to della gara delle quadrighe ha permesso di ricostruire virtualmentel’andamento della gara e il meccanismo di controllo dei giri effet-tuati mediante due contagiri (ovarium e delphinium, v. sez. 11, n. 11),molto simili nella loro funzione ai tabelloni che segnano il punteg-gio delle squadre nei nostri stadi (Ioppolo 1999).La struttura stessa del carro da corsa, una struttura robusta, ma estre-mamente leggera e flessibile, era del tutto simile ai carrozzini dei mo-derni fantini; gli aurighi indossavano anche una specie di casco dicuoio e feltro per proteggersi in caso di ribaltamento del carro.E l’editor spectaculorum, organizzatore di questi spettacoli, dovevascegliere, utilizzare, calibrare tutta una serie di accorgimenti tecnolo-gici per ottenere, come un moderno regista, effetti sempre più stra-billianti per un pubblico sempre più esigente.

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I ludi romani, cioè quell’insieme di festeggiamenti in occasione siadi feste religiose in calendario che di quelle organizzate per spe-ciali eventi o commemorazioni (trionfi di generali o imperatori, fu-nerali di illustri personaggi) che a partire dal VI sec. a.C. fino al VIsec. d.C. occupavano i Romani per buona parte dell’anno, non fu-rono solo corse di cavalli nel circo o rappresentazioni teatrali, macostituirono un aspetto essenziale dell’identità sociale, civile e re-ligiosa romana, al punto che nei giorni ad essi destinati veniva so-spesa ogni attività professionale, commerciale e pubblica.Le peculiarità strutturali dei teatri e degli anfiteatri sono illustratein altra sezione di questa mostra (sez. 2); ma alcune caratteristi-che legate non alla costruzione dell’edificio, ma al suo funziona-mento in relazione alle attività che vi si svolgevano, sia allospettacolo stesso (il sipario, la scenografia, l’acustica), che alla fre-quentazione del pubblico (velario) permettono di definire una ‘tec-nologia dello spettacolo’: gli aspetti tecnologici cioè nell’allestimentodegli spettacoli, nelle invenzioni scenografiche ed effimere, sia tea-trali che circensi o anfiteatrali, di cui qui illustriamo alcuni esem-pi, ma che certamente potrebbero fornire, se approfondite, altrispunti alla ricerca.Nel teatro romano molti aspetti funzionali sono legati al tipo dispettacolo che vi si rappresentava: non più o non solo tragedie ecommedie classiche tradotte o reinventate, ma nuovi tipi di rap-presentazioni (le stesse commedie di Plauto e Terenzio, ma so-prattutto mimi, pantomimi, tragoedia saltata, tragoedia cantata,citharoedia, tetimimi), che richiedevano maggior mobilità e mi-mica scenica da parte degli attori, non più legati all’uso della ma-schera, apparecchiature sceniche nuove e l’introduzione semprepiù importante della musica e della danza. Spettacoli quindi mol-to simili alla nostra ‘opera’, o ancor meglio all’’operetta’, dove re-citativi e pezzi cantati si alternano.In questo nuovo modo di fare teatro, gli accorgimenti teatrali do-vevano avere un posto preminente, pur tenendo conto della pre-senza della frons scaenae, elemento già di per sé scenografico chechiudeva il pulpito, dove agivano gli attori.Lo studio dell’ottica, scienza della visione, da parte dei Greci for-nisce le basi della teoria della prospettiva alla scenografia, che èla tecnica di realizzazione di scenari teatrali realistici; la pittura ro-mana di II e IV stile utilizza ampiamente e porta alle estreme con-seguenze proprio l’uso della prospettiva sulle pareti ‘sfondateprospetticamente’ delle domus e gli stessi principi vennero utiliz-zati nella creazione dei fondali nella scena del teatro romano (Rus-so 2006): le prospettive scenografiche conservate sulle pareti delle

case di Pompei ci possono suggerire l’idea di come dovevano es-sere le effimere scenografie nei teatri romani diversamente da co-me ce le possono descrivere i testi letterari.Altra tecnologia dovevano richiedere gli spettacoli acquatici nelteatro, dove veniva allagata l’orchestra per permettere le evolu-zioni di nuotatrici: cisterne per raccogliere l’acqua, condutture diadduzione e di smaltimento, impermeabilizzazione dell’orchestra(v. sez. 11, n. 4).L’introduzione sempre più invasiva della musica è un’altra delle

268

Scenografie e macchine per spettacoli

Giuseppina Pisani Sartorio

Scena di commedia

(Napoli, Museo

Archeologico Nazionale;

calco: Roma, Museo della

Civiltà Romana)

Lecce, teatro: ricostruzione della frons scaenae e del suo apparato decorativo

(da F. D’Andria (a cura di), Lecce romana e il suo teatro, Lavello 1999, fig. 26).

Restituzione virtuale di una scenografia da un affresco da Pompei con partiti

architettonici (Henrique Rossi Zambotti, in Ciancio Rossetto - Pisani

Sartorio 2006).

BibliografiaBeste 2001, pp. 277-299; Chiarini G., La scena romana, in Savarese 1996, pp. 41-56; Ciancio Rossetto, PisaniSartorio 2006; Dupont F., I ludi scenici, in Savarese 1996, pp. 31-38; Guidobaldi M.P., Musica e danza in etàrepubblicana e imperiale, in Savarese 1996, pp. 57-68; Ioppolo G., Il circo, in Ioppolo, Pisani Sartorio 1999; ReaR., Il Colosseo. Teatro per gli spettacoli di caccia. Le fonti e i reperti, in Sangue e arena 2001, pp. 223-243; Russo2006, pp. 23-29; Sangue e arena 2001; Savarese N., Paradossi dei teatri romani, in Savarese 1996, pp. IX-LXXV;Traina 2006, p. 260.

elementi architettonici che decoravano la scae-nae frons.Le strutture note della zona post scaenam sonorealizzate in travertino e peperino.Di considerevole interesse l’analisi dei percor-si: i senatori e i personaggi che sedevano nellaproedria accedevano facilmente dagli ampi pas-saggi in leggera discesa esistenti tra la parte ter-minale della cavea e il palcoscenico; i cavalieripotevano sfruttare sette rampe in lieve salita perraggiungere la galleria interna denominata ‘deicavalieri’ dalla quale alcuni vomitori conduce-vano direttamente nell’ima cavea. Più faticosoil percorso del popolo che aveva a disposizio-ne sette accessi costituiti da una doppia rampacon gradini che si svolgeva in due fornici conti-gui con pianerottolo intermedio per guadagna-re l’ambulacro ionico: da questo una parte salivaal piccolo ambulacro superiore e da lì attraver-so altri vomitori nella media cavea, mentre un’al-tra parte raggiungeva, attraverso percorsi conduplice scala in due ambienti contigui con pia-nerottolo intermedio, il piano superiore (quasidel tutto distrutto) dove si smistava tra la sum-ma cavea e la summa cavea in ligneis.

P.C.R.

BibliografiaCalza Bini 1953; Ciancio Rossetto 1999; Ciancio Ros-setto, Pisani Sartorio 2006; Ciancio Rossetto 2007;Ciancio Rossetto, Buonfiglio c.s.; Fidenzoni s.d.; LaBianca, Petrecca 1986.

Sez. 11.2a. - Velum/velarium

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Nel teatro romano il pubblico era riparato dairaggi del sole, dal momento che le rappre-sentazioni avvenivano di giorno, da un velum,cioè un velario che veniva teso al si sopra del-la cavea e dell’orchestra. Plinio (Naturalis Hi-storia 19, 23) e Valerio Massimo (2, 4, 6)ricordano che i vela furono introdotti a Romanell’80 a.C. da Q. Lutazio Catulo.: Q. Catulus,Campanam imitatus luxuriam, primus spec-tantium consessum velorum umbraculis texit.E Marziale (14, 29) dice del teatro di Pompeoa Roma: “In Pompeiano tectus spectabo thea-tro, nam ventus populo vela negare solet”.Il velum o velarium, formato da più teloni del-la consistenza delle vele delle navi di lino o co-tone, colorato o dipinto, a volte di porpora,poteva riparare dal sole, ma non dalle intem-perie. Era teso tra perni inseriti nella parte piùalta della cavea e pali inseriti sul primo gradi-no inferiore della cavea (Arles) su una tramasi corde attaccate ai pali e tese da carrucole,come avviene oggi nei tendoni dei circhi.Tracce sono state trovate nei teatri di Pom-pei, Orange, Arles, Aspendos; ma il funzio-namento del velario rimane incerto.Una iscrizione ricorda il restauro del velum delteatro di Efeso a cura di Giulia Potentilla inepoca severiana e quello del teatro di Pataraa cura della figlia di Velius Titianus nel 147 d.C.La notizia che il velum avrebbe protetto glispettatori era specificata negli avvisi pubbli-

ci che annunciavano lo spettacolo con la fra-se ‘vela erunt’.Negli anfiteatri, come il Colosseo, ma anchein quello di Pompei - come raffigurato in unaffresco nel Museo Archeologico Nazionaledi Napoli – e in quello di Capua, vi era un ana-logo sistema di copertura provvisoria: nel-l’Anfiteatro Flavio, sulla parete esternadell’ultimo ordine 3 mensole per ogni inter-columnio, quindi 240 in totale, alle quali cor-rispondono altrettanti fori nel cornicionesuperiore, servivano a sostenere e ad inca-strare delle travi verticali, dalle quali partivaun sistema di 240 corde che andavano ad an-nodarsi ad una ellisse pensile centrale all’an-fiteatro; a queste corde era assicurato il velario;ogni settore del velario, secondo alcune ipo-tesi, poteva essere singolarmente manovra-to, secondo a quale settore della cavea dovevaessere fornita l’ombra. Le corde dovevano es-sere tese da verricelli e carrucole (v. sez. 2.1)e tale manovra assai complessa era affidataad un corpo scelto di 100 marinai (classarii)della flotta del Misero, appositamente di-staccati a Roma nei castra Misenatium pres-so il Colosseo in occasione degli spettacoli.

BibliografiaCiancio Rossetto P., Pisani Sartorio G., Teatri antichigreci e romani, Cd.Rom, Roma 2006 (con bibl.); GraefeR., Vela erunt. Die Zeltdächer der römischen Theaterund ähnlicher Anlagen, Mainz 1979; Neppi Modona A.,Gli edifici teatrali greci e romani, Firenze 1961.

Sez. 11.1 - Teatro di Marcello

Plastico ricostruttivo: in scala 1: 100Realizzato da P. FidenzoniMisure: cmLuogo di conservazione: Museo della Civiltà

Romana, inv. n. 1789Cronologia: 13/11 a.C.

Il teatro di Marcello, costruito da Augusto tra ilterzo ed il secondo decennio a.C. e dedicato nel13 o nell’11 a.C. alla memoria del nipote, è sen-za dubbio il meglio conservato tra i più antichiesempi di teatro di tipo romano, un edificio chenon ha necessità di un pendio cui appoggiarsi,provvisto di salda unità architettonica, con lascena collegata alla cavea conclusa esterna-mente dalla facciata semicircolare.Il progetto dell’edificio si presenta, già ad un pri-mo esame, unitario e caratterizzato da ricercae sperimentazione di soluzioni nuove a pro-blemi ancora poco conosciuti.Per valutare appieno l’importanza ed il signifi-cato della struttura, basta considerarne le mi-sure: diametro circa 130 m, altezza presuntaintorno ai 32 m, capienza stimata circa di 15.000spettatori.Il teatro di Marcello aveva una cavea di formaapprossimativamente semicircolare, sorretta dasostruzioni, costruite con un sistema moltoavanzato da un punto di vista ingegneristico,che danno luogo ad un insieme strutturale benarticolato, organizzato su ambienti, a forma dicuneo con funzioni differenziate secondo unoschema ripetitivo, disposti in duplice ghiera (for-nici e ambienti interni) e ambulacri; se ne sonoconservati quattro: due esterni sovrapposti edue interni distribuiti su piani sfalsati. Era con-cluso da una facciata semicircolare di cui sonotuttora visibili i due piani ad arcate: di ordinedorico-tuscanico l’inferiore, ionico il superiore.Le gradinate semicircolari - la cui scansione èdeducibile oltre che dal ritmo delle murature so-struttive, anchedalla rappresentazionenellapian-ta riportata nella Forma Urbis Marmorea (v. sez.1, n. 14) erano suddivise in quatto zone – ima,media, summa, summa cavea in ligneis -, i cuiposti erano destinati alle varie classi di spetta-tori; inoltre nell’orchestra vi erano alcuni grado-ni per i sedili dei personaggi più importanti.L’edificio scenico, conosciuto solo parzialmen-te, aveva scena rettilinea, ampi ambienti latera-li – le c. d. aule regie – e una zona post scaenama cielo aperto, conclusa da un muro articolatodotato di larga abside verso il Tevere.

Nell’edificio sono notevoli l’uso calibrato deimateriali e delle tecniche costruttive, e il siste-ma ponderato di circolazione degli spettatori,che si muovevano in varie migliaia.La costruzionegigantescapoggia suun impiantodi fondazioni costituito da palificata solo nel set-tore esterno e gettate di calcestruzzo (a piatta-forma o lineari, secondo i settori) che arrivanoad un massimo di m 6,35 di profondità.La struttura utilizza tecniche edilizie e materialidifferenziati in rapporto alle necessità costrutti-ve e statiche, in particolare: nella zona esternadella cavea – ambulacri e parte esterna dei for-nici – è adoperata l’operaquadrata a grandi bloc-chi di travertino per la facciata semicircolare, ditufo litoide per la controfacciata e le muraturedei fornici; invece per i settori più interni sonopresenti muri in cementizio rivestiti in opera re-ticolata di tufo e, nei due ambulacri interni l’ope-ra laterizia. Èda sottolineare cheèprobabilmenteil più antico uso documentato a Roma, su largascala, deimattoni (in questa epoca abitualmentesi sfruttavano le tegole fratte).All’interno dell’edificio trionfava il marmo: bian-co rivestiva le gradinate, mentre colorato di va-rie qualità e sfumature era impiegato negli

270 271

Sez. 11.2b - Aulaeum o siparium

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Il sipario, elemento scenografico sconosciutoai Greci (siparium o auleum,che è però un ter-mine greco, quindi un meccanismo simile do-veva già essere in uso presso i Greci, forse eradi origine alessandrina?), sembra sia stato in-trodotto nel 133 a.C., utilizzando ricchi tappetiprovenienti dal regno di Pergamo sui quali era-no rappresentati personaggi a grandezza na-turale: quando il sipario veniva srotolato (tollitur)dal basso verso l’alto, si aveva l’impressioneche queste persone lo sollevassero con le brac-cia. Infatti il sipario si ‘abbassava’ premitur),scomparendo in una fossa, appositamente co-struita nel sottopalcoscenico (iposcaenium) delteatro romano ed iniziava lo spettacolo.La fossa o canale presenta in genere dei poz-zetti (8 e più) nei quali erano inserite le anten-ne o pali di legno che reggevano e irrigidivanoil telone e, forse, organizzate in più segmenti‘a cannocchiale’, venivano sollevate per mez-zo di carrucole installate ai due lati del pulpitoe il cui alloggiamento è stato rinvenuto in piùstrutture teatrali.In età romana c’era anche un siparium, chedissimulava il fondo della scena, davanti allaquale recitavano i mimi: era una tenda divisain due parti, che veniva raccolta ai lati, comeun paravento (cfr. Apuleio, Metamorfosi 1,8;10, 29).Il sipario era importante per la scansione deitempi delle scene, nel teatro romano; ma

cisterne comunicanti con l’orchestra nella se-conda metà del IV secolo; teatro di Spoleto;teatro di Pompei, collegamenti sotto l’orche-stra con un serbatoio per l’acqua.

G.P.S.

BibliografiaAricò G., Ostia antica e il suo teatro, in Teatro italia-no, I, a cura di P. Carriglio e G. Strehler, Bari 1993, pp.344 – 349.Gismondi I., La colimbetra del teatro di Ostia, in An-themon 1955, pp. 293-308.Traversari G., Tetimimo e colimbetre, ultime manife-stazioni del teatro antico, in Dioniso,13,1950, p. 18 ss.Traversari G., Nuovi contributi alla conoscenza dellacolimbetra teatrale e del tetimimo, in Dioniso 15, 1952,p.302 ss.Traversari G., Gli spettacoli in acqua nel teatro tardo-antico, Roma 1960.

Sez. 11.4 - I due teatri di Curione

Ricostruzione virtuale: H. Rossi Zambotti(2009)

Plinio, a proposito di questa invenzione po-neva la domanda “Che cosa ci deve meravi-gliare di più, l’inventore o l’invenzione?”(Naturalis Historia, 36, 24, 113-115)Sempre Plinio così li descrive (36, 34, 117):“Due vasti teatri poggianti su piattaforme ro-tanti indipendenti; da essi, dopo la rappre-sentazione antimeridiana fatta quando eranocontrapposti in modo che le scene non si osta-colassero a vicenda – facendoli girare su sestessi […] anche con alquanti spettatori, si ot-teneva un anfiteatro ricongiungendo le estre-mità delle cavee”Per il movimento dei due teatri va ipotizzatol’uso di piattaforme girevoli (v. sez. 2, n.15).

G.P.S.

BibliografiaBrandt J.R., Curio’s Curious Theatres, in ‘Ultra terminumvagari’. Scritti in onore di C. Nylander, Roma 1997, pp.51-57 (con bibliografia precedente)

273

certamente anche nel teatro greco, primadell’invenzione dell’auleum, ci doveva essereuna tenda o altro accorgimento, che impedivala vista della scena agli spettatori, mentreveniva preparata la scena successiva.La parola veniva usata preferibilmente al plu-rale, aulaea, cfr. “aulaea premuntur”; “quattuoraut plures aulaea premuntur”(Orazio, 2,1,189);per far salire l’auleo, si diceva“aulaea tollun-tur”. Ovidio, 3, 111. “E così il giorno della festa,quando viene sollevato il sipario nei teatri, si ve-dono sorgere delle figure dipinte che mostranodapprima il loro viso, poi poco a poco tutto il re-sto, fino a che, tirate in alto con un movimentolento e progressivo, siano visibili tutte intere e po-sano i loro piedi sul bordo della scena” (cfr. an-che Virgilio, Georgiche, 3, 24-25).Un siparium deve essere raffigurato nel rilie-vo di Castel S.Elia: è un tendaggio a festoni,che scende dall’alto verso il basso con file ver-ticali di anelli, entro i quali scorre il cordoneper la manovra, fissato ad un anello più bas-so (v. teatri di Orange e di Aspendos).Canali per il sipario, al di sotto del pulpito, so-no stati trovati in moltissimi teatri, quali Vien-ne, Autun, Pompei, Ercolano, Lione, Arles,Dugga, Timgad, Tipasa; nell’odeon di Corin-to etc.

G.P.S.

BibliografiaCiancio Rossetto P.- Pisani Sartorio G., Teatri antichi grecie romani, Cd.Rom, Roma 2006 (con bibl.); Daremberg,Saglio 1877-1918, s.v. mimus e histrio; Graefe R., Velaerunt. Die Zeltdächer der römischen Theater undähnlicher Anlagen, Mainz 1979; Neppi Modona A., Gliedifici teatrali greci e romani, Firenze 1961.

Sez. 11.3 - Colimbetra

Ricostruzione virtuale: Henrique Rossi Zambotti

Per le rappresentazioni acquatiche, tetimimi,cioè danze acquatiche, e mimi a soggetto perlo più mitologico (mimi e tetimimi), che perle cacce in cui gli uomini erano impegnati coni coccodrilli,veniva usata l’orchestra come unapiscina, detta con termine moderno ‘colim-betra’: in tali occasioni l’orchestra veniva al-lagata e alimentata mediante canalizzazionie serbatoi idrici di una certa consistenza (v.Daf-ne, mosaico).L’uso dell’orchestra per spettacoli acquaticipresupponeva la presenza di una pavimen-tazione impermeabile, di un condotto perriempire la vasca dell’acqua con serbatoio oacquedotto e di una via d’uscita o di deflus-so dell’acqua probabilmente da un euripus,prevedendo anche la chiusura delle parodoicon delle paratie.Le colimbetre sono state individuate in unaventina di teatri, ma appare abbastanza evi-dente che un’indagine più attenta in questadirezione potrebbe fornire nuovi risultati.Teatro di Gioiosa Ionica; teatro di Dafne ad An-tiochia con condotto per l’acqua al centro del-l’orchestra, teatro di Dioniso ad Atene:colimbetra e canale di scarico; teatro di Mon-tegrotto: colimbetra per tetimimi; teatro di Ar-go: con parapetto circoscrivente la colimbetrae canali di scarico; teatro di Corinto; teatro diOstia: identificazione della colimbetra sullabase della trasformazione di due taberne in

272

Sez. 11.5 - Scenografia da unpantomimo di Apuleio:il ‘Giudizio di Paride’

Ricostruzione virtuale: di Henrique Rossi Zambotti

Pompei. Affresco. Il giudizio di Paride (Ins. V. 2. 15,

triclinio I, parete ovest) (Napoli, Museo Archeologico

Nazionale) (da Rosso Pompeiano, 2007, p. 102).

Nel racconto, inserito nelle Metamorfosi diApuleio (10, 29,4-32; 34,1-2), della rappre-sentazione nel teatro di Corinto di un panto-mimo, che aveva per tema “il giudizio diParide”, si descrive una vera e propria sce-nografia: un danzatore diverso per ogni per-sonaggio e la parti femminile erano intepretateda donne senza l’uso della maschera con ac-compagnamento di musica di flauti.Dopo un balletto di giovanetti e fanciulle, ec-co che “... uno squillo di tromba pose fine atutte quelle giravolte e a quei complicati eser-cizi, le tende furono arrotolate, il sipario ven-ne piegato e apparve la scena.

Si vedeva una montagna di legno, altissima,simile al famoso monte Ida cantato da Ome-ro, ricoperta di piante vere, tutte belle ver-deggianti; dalla cima, grazie all’abilità delmacchinista, scaturiva una sorgente che ver-sava le sue acque giù per le pendici, come unfiume; alcune capre brucavano l’erbetta ed ungiovane, che rappresentava Paride, il pastorefrigio, le guardava, stupendamente vestito conun mantello di foggia orientale, che gli scen-deva dalle spalle ed una tiara d’oro sul capo”Come si vede, ci sono tutti gli elementi perpoter ricostruire nei dettagli la scenografia. EApuleio prosegue in questa sua rutilante de-scrizione con dettagli sui costumi degli atto-ri, sulle nudità delle attrici-dee, sui movimentidei danzatori, che dovevano esprimere sen-timenti e azioni solo con i gesti, la danza e lamimica. E così prosegue:“Dunque, terminato il giudizio di Paride, Giu-none e Minerva, deluse entrambe e indispet-tite, uscirono dalla scena, manifestando agesti il loro disappunto per l’umiliazione su-bita; Venere invece, giuliva e sorridente espres-se nella danza la sua gioia, ch’ella eseguì contutto il suo corteggio.Ad un tratto, dalla cima del monte, attraver-so un tubo nascosto, sprizzò in alto un get-to di vino misto a zafferano che ricadendoqua e là come una pioggia profumata, bagnòle capre che pascolavano lì intorno, facendo-le più belle, tutte d’oro, da bianche che era-no. E mentre il profumo soave si spandevaper tutto il teatro, s’aprì una voragine e il mon-te di legno sprofondò sotto terra”.

BibliografiaKelly H.A., Tragedia e rappresentazione della tragedianella tarda antichità romana, in Savarese N. (a curadi), Teatri romani. Gli spettacoli nell’antica Roma, Bo-logna 1996, pp. 69-98.

Sez. 11.6 - Organo idraulico

Nel mondo romano l’organo idraulico (orga-num hydraulicum) è ricordato da Plinio (Na-turalis Historia, 7, 125) come l’invenzione percui è degno di fama Ctesibio di Alessandria,insieme alla pompa idraulica (ratione pneu-matica), e bisogna sottolineare che nello stes-so paragrafo Ctesibio è citato accanto adArchimede. Non sappiamo quando questostrumento sia stato introdotto a Roma dalmondo ellensitico, ma ne parla Cicerone, quin-di doveva essere in voga intorno alla metà delI sec. a.C. Alcune informazioni sulla colloca-zione dello strumento vengono date da Sve-tonio e Petronio (v. sez. 3, n. 8). Svetonioricorda in particolare la passione di Neroneper l’organo, che l’imperatore soleva anchesuonare: “E non convocando neppure ora ilsenato o il popolo, chiamò alcuni tra gli uo-mini più illustri e, conclusa rapidamente laconsultazione, passò il resto della giornatatra organi idraulici nuovi e sconosciuti (orga-na hydraulica novi et ignotis generis), mo-strandoli uno per uno, spiegando il lorofunzionamento e le difficoltà nel suonarli edaffermò che li avrebbe presentati in teatro, seVindice lo avesse permesso”(Nero 41); “ver-so la fine della sua vita aveva fatto voto, senulla fosse mutato della sua condizione, diprender parte ai giochi celebrati per la Vitto-ria come suonatore di organo idraulico (hy-draula) ed anche come flautista, suonatoredi cornamusa e l’ultimo giorno come attorenel ruolo del Turno virgiliano” (Nero, 54).Petronio, nella descrizione del banchetto diTrimalchione, dà un’informazione importantesull’utilizzo dell’organo idraulico: “Avanzòimmediatamente il tagliatore che, con gestipantomimici, a suon di musica, fece a pez-zetti la pietanza con uno stile che lo facevasembrare un gladiatore essedario che com-batte accompagnato dalla musica dell’orga-nista (ut putares esssedarium hydraulecantante pugnare)”. L’organo era dunque po-sto nei teatri e negli anfiteatri (sicuramenteper la sua caratteristica di produrre suonimolto forti), accompagnava le rappresenta-zioni teatrali e gli spettacoli gladiatori, con-fermando dunque che la musica in etàromana aveva un legame con il mondo delteatro quasi inscindibile; ciò non significa chela musica dell’organo fosse utilizzata esclu-sivamente come sottofondo, come racconta

Petronio, poichè con il passare del tempo du-rante spettacoli teatrali o ludi gladiatori, erapossibile assistere anche ad esibizioni mu-sicali libere da ogni vincolo e praticate da vir-tuosi dello strumento. Il passo di Svetonio èinoltre utile poichè offre anche altre infor-mazioni: in primo luogo, Nerone mostra mo-delli di organo idraulico sconosciuti, per cuiè possibile ipotizzare che fosse in atto l’evo-luzione tecnica dello strumento che lo por-terà ad abbandonare l’impianto idraulicoutilizzando mantici per trasmettere aria allecanne, e si può ipotizzare che vi fu probabil-mente un periodo in cui i due strumenti, l’or-gano idraulico e l’organo a mantici, venneroutilizzati contemporaneamente, fino a che ilsecondo, in seguito ad una sua evoluzionetecnica, fu preferito al primo per i minori co-sti di impianto e manutenzione. Svetonio of-fre però anche un ulteriore informazione:Nerone infatti parla del funzionamento del-lo strumento e della difficoltà (difficultate) in-contrata nel suonare, poiché effettivamentel’organo era uno strumento estremamentecomplesso non solo da realizzare, ma ancheda suonare; probabilmente le due pompe era-no azionate non dall’organista ma da duepersone poste ai suoi lati, l’organista dove-va invece occuparsi della tastiera e dei ma-nubri necessari ad aprire i canali. Nel corsodell’età imperiale l’organo divenne un ele-mento fondamentale per il cerimoniale di cor-te, a tal punto che nell’Historia Augusta vienesottolineato che Gallieno nel III sec. d.C. vol-

le espressamente che l’organo suonasse sem-pre al ritorno nella sua residenza (HistoriaAugusta, 2, 87, 10). C’è da notare che lo stru-mento resterà un elemento cardine nella cor-te di Bisanzio mentre tenderà a scomparirein occidente, per poi essere sempre presen-te nel mondo bizantino, da dove sarà ripor-tato in Europa nel VII ed VIII sec d.C.Numerosi sono i mosaici, i graffiti, le scultu-re e le terrecotte che lo raffigurano. Ma le de-scrizioni più accurate sono quelle di Erone(Spir. I (66), 42) e di Vitruvio (De architectu-ra, X, 8, 1-6).Nel 1992 a Dion in Grecia è stato ritrovato unorgano idraulico, databile, come quello diAquincum (v. sez. 11, n. 8), al I-II sec. d.C.: èil primo esempio monumentale di questo ti-

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Ricostruzione dell’organo idraulico descritto da

Vitruvio (da Guidobaldi 1992)

Mosaico dalla villa di Nennig (Treviri) con

suonatore di corno e un organista (età adrianea)

po di strumento, alto circa m 1,20 e largo 70cm, 24 canne di varia altezza con diametro dicm 1,8 e 16 canne della metà di tale diame-tro in forma conica, che presentano nel pun-to di inserimento nella cassa un’apertura comenelle canne degli organi moderni, in cui l’ariaspinta dai mantici fuoriesce e produce dellevibrazioni sonore che vengono moltiplicatedall’ascesa dell’aria nel corpo della canna.

A.I.

BibliografiaSu Ctesibio e sul suo ruolo nel mondo scientificogreco:Drachmann A., Ctesibios, Philon und Heron. A studyin Ancient Pneumatic, Copenhagen 1948; L. Russo, Larivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco ela scienza moderna, Milano 2008.Sugli automata, sul loro ruolo nel mondo greco eromano e una loro ricostruzione:Pugliara M. Il mirabile e l’artificio. Creature animate esemoventi nel mito e nella tecnica degli antichi, Roma2003.Per un’introduzione agli aspetti teorici della musicanel mondo greco e romano:Comotti G., La musica nella cultura greca e romana,Torino 1979.In particolare sulla musica nel mondo romano:Wellesz E., New Oxford history of music, 1. Ancient andOriental music,London 1957; Guidobaldi M.P., Musi-ca e danza in età repubblicana e imperiale, in: Teatriromani. Gli spettacoli nell’antica Roma. Bologna 1996.Per una ricostruzione dell’organo idraulico edun’analisi della descrizione di Vitruvio:Frau B., Pompe e organi musicali del III sec. a.C. Notedi tecnologia meccanica antica, Roma 1980; MorettiC. L’organo italiano, Monza 1997; Landels J.G., Musicin ancient Greece and Rome, London, Routledge 1999.Pandermalis D. L’hydraulis di Dion, in Eureka! il geniodegli antichi, Catalogo della mostra, Napoli 2005, pp.150-153.

Sez. 11.7 - Organo a mantice 0‘pneumatico’ di Aquincum

Originale: Aquincum (Budapest), MuseoArcheologicoDatazione: 228 d.C.Ricostruzione: eseguita dal dott. Nagy, donata econservata presso il Museo della Civiltà Romana,inv. n. 2870

L’organo a mantici o ‘ pneumatico’, molto piùleggero di quello idraulico e quindi più facil-mente trasportabile, doveva già essere in usonei primi anni dell’età imperiale ed è ricor-dato da Polluce (4, 69-70) nel II sec. d.C..L’originale è stato rinvenuto nel 1931 in unacasa di Aquincum (Budapest), quasi certa-mente la schola dei pompieri della città.

Un’iscrizione nella parte posteriore dice chelo strumento fu donato nel 228 d.C., sotto ilconsolato di Modesto e Probo, al collegio deipompieri (collegium centonariorum) da Giu-lio Vittorino, decurione della colonia di Aquin-cum e prefetto di quel collegio.L’organo è composto di 52 canne su quattroregistri di tredici canne ciascuno. Il somiere,lungo 27 cm, largo 8 ed alto 13,4, è costruitonello stesso modo di quello descritto da Vi-truvio, con la sola differenza che in luogo deirubinetti regolati da maniglie di ferro ci sonodelle chiusure a scorrimento più solide e piùfacilmente manovrabili. Nell’accumulatore adaria compressa sono quattro canali da apriree chiudere a mezzo di valvole dei registri, se-condo su quale fila di canne si doveva suo-nare. I mantici venivano adattati direttamenteal somiere, spingendo dentro l’aria compressacome in una zampogna. Oltre al mantice ge-neratore d’aria era indispensabile un manti-ce compensatore o regolatore senza il quale,tra ogni arrivo nuovo d’aria, il suono si sa-rebbe spento. Una lastra di bronzo con 52aperture serve da copertura della secreta a

vento. Sulle aperture sono le val-vole dei tasti. In mezzo al leggiosono le canne della prima fila di-

sposte in ordine di grandezzae unite da nastri.Due organi simili sono raffi-

gurati sulla base dell’obeliscodi Teodosio a Costantinopoli.

G.P.S.

BibliografiaCallebat, Fleury 1986, pp. 170-179;

Guidobaldi 1992, pp. 47-53; Kaba 1976;Perrot 1965; Walcker-Mayer 1970.

Sez. 11.8 - Vasi di risonanza el’acustica nei teatri romani

Ricostruzione virtuale di Henrique Rossi Zambotti

Vitruvio, architetto romano dell’età augustea,nel suo manuale (De architectura, 5, 8, 1-2)raccomanda per la costruzione di un teatrodi scegliere un luogo “dove la voce possa giun-gere leggera senza essere ostacolata e rim-balzare indietro trasmettendo all’orecchiosuoni confusi”, e distingue i luoghi in disso-nanti, circumsonanti, resonanti e consonan-ti; per il teatro sono ideali i luoghi consonanti,dove la voce, secondata dal basso, aumentadi volume a mano a mano che sale e giungeall’orecchio chiara e distinta. Così operandonella scelta del luogo “si otterrà in teatro uneffetto sonoro ottimale sfruttando al megliol’effetto della voce”.Tuttavia quando l’acustica del luogo non erasufficiente, si ricorreva ad accorgimenti tec-nici, di cui ci parla in altra parte del suo librosempre Vitruvio e che - anche se raramentee con qualche dubbio - sono stati riconosciutio si è creduto di riconoscere in alcuni teatri,come ad esempio a Nora in Sardegna, dovegrandi orci rinvenuti sulla scena sono stati at-tribuiti a sistemi di risonanza; in altri teatri, ilritrovamento di spazi vuoti dislocati a inter-valli regolari sulla cavea ha fatto pensare ameccanismi artificiali per l’amplificazione del-la voce.La stessa pedana lignea del palcoscenico, sul-la quale recitavano gli attori, poteva servireda cassa armonica. Nei teatri romani la tet-toia di legno, che copriva la scena, il muro difondo e le pareti dei parasceni potevano for-mare una cassa di risonanza.Vitruvio scriveva (De Architectura, 5, 1-2; 8) -non sappiamo con quanta sperimentazionepratica - che bisognava “far fare dei vasi di

bronzo di dimensioni proporzionate a quelledel teatro e realizzati in modo che per effet-to di percussione sonora emettano note diquarta, quinta e così via fino alla doppia ot-tava. Si dispongano poi questi vasi in appo-site cellette situate fra i seggi del teatro,calcolandone gli effetti sonori e senza che sia-no a contatto con qualche parete, ma abbia-no piuttosto uno spazio vuoto tutt’attorno esopra. Si badi inoltre a disporli rovesciati e inmodo che poggino su di una base a forma dicuneo di almeno mezzo piede e siano rivoltiverso la scena. Di fronte a queste cellette sipratichino delle aperture alte mezzo piede elarghe due, in corrispondenza dei posti situatisulle gradinate più basse”. A seconda dellanota emessa dal vaso, questo veniva collo-cato in uno spazio ben definito in relazioneanche alle dimensioni del teatro.E Vitruvio, romano, continua in merito allapropagazione del suono: “7… Ciò del resto lo

si può intuire (nei teatri lignei) anche dal com-portamento dei citaredi che per alzare il tonodella voce si girano verso le porte della sce-na che fungono da casse di risonanza. Si de-ve invece ricorrere al sistema dei vasirisuonatori di bronzo, quando i teatri sonocostruiti con materiali solidi, in muratura, inpietra o in marmo, che per loro natura nonrisuonano. 8. Se poi vogliamo sapere dovesiano state applicate queste norme, a Romanon saprei indicare nessun teatro; in com-penso ve ne sono in alcune città italiche e damolte parti in Grecia. Abbiamo inoltre anchela testimonianza di Lucio Mummio, il qualedopo la distruzione del teatro di Corinto, fe-ce portare a Roma quei vasi risuonatori dibronzo e li consacrò come bottino di guerranel tempio della Luna. Molti abili architetti,che costruirono teatri in piccole città, non po-tendo disporre di vasi di bronzo, scelsero co-me strumenti di amplificazione dei vasi diterracotta opportunamente disposti secondoqueste regole, ottenendo ottimi risultati”.(tra-duzione di L.Migotto)Sembra che nel teatro ellenistico-romano diAizanoi in Frigia alcune nicchie, che si trova-no ad intervalli nella cavea, possano avereavuto funzione acustica.

G.P.S.

BibliografiaBardis P.D., The Theater of Epidaurus and the myste-rious vanishing vases, in Platon 41, 1989, pp. 16-19; Frau1987; Guglielmetti F., Le metodologie per l’analisi e ilrecupero funzionale dell’acustica nei teatri antichi, inAtti del Convegno “Teatri antichi nell’area del Medi-terraneo”,Siracusa 13-17 ottobre 2004, Palermo 2006,pp. 58-71; Mazzeo A., La rinascita del teatro antico, Ro-ma 2001, p. 96 ss.; Poulle P., Les vases acoustiques duthéâtre de Mummius Acaius, in RA, 1, 2000, p. 45 ss.;Tosi G., Il teatro antico nel De Architectura di Vitruvio,in RdA 21, 1997, pp. 49-75, figg. 1-2; Vitruvio, De Ar-chitectura, edd. P. Gros, E. Romano, A. Corso, Einau-di, Torino 1997, pp. 688, 696-697.

277276

Sez. 11.9 - Ascensore per le fierenel Colosseo

Plastico ricostruttivoLuogo di conservazione: Roma, Museo della CiviltàRomana, inv. n. 2801

I 15 corridoi in cui si articolano i sotterraneidell’Anfiteatro Flavio sono il più grande im-pianto di questo tipo conosciuto, con il soloconfronto con quelli degli anfiteatri di Capua,Pozzuoli e Thysdrus (El Jem).Per rendere sempre più eccezionali gli spetta-coli venivano messi in scena nell’arena vere eproprie rappresentazioni di miti o di eventi sto-rici e negli ipogei trovavano collocazione gliapparati scenici per far comparire all’improv-viso sull’arena uomini, fiere e scenografie.Un accurato studio, rilievi ed analisi del mo-numento (Beste 2001) ha potuto ricostruirenel dettaglio il funzionamento di questi ap-parati scenografici: nel corridoio B erano in-stallati 28 ascensori ed altrettanti argani ditipo semplice, smontabili secondo le neces-sità degli spettacoli, le funi passavano su car-rucole fissate alla struttura sottostante lapavimentazione in legno dell’arena (oggi nonpiù esistente). L’ascensore/gabbia non salivafino al livello dell’arena, ma si fermava ad unlivello immediatamente sottostante il pavi-mento e le fiere raggiungevano l’arena spin-te su di un piano inclinato o rampa, che venivamanovrata solo al momento dell’ingresso nel-l’arena delle belve.Nei corridoi definiti H e F erano inserite 20piattaforme mobili di circa m 4 x 5 usate persollevare nell’arena le decorazioni per creare

dei veri e propri scenari: le piattaforme face-vano parte del pavimento dell’arena, che al-l’occorrenza venivano fatte inclinare di 30° e,tenute con corde e verricelli, fatte scivolare suguide fino a livello dei sotterranei: qui veni-vano caricate con le scenografie e le personee, sempre per mezzo di verricelli o argani, ri-portate nella loro posizione iniziale a livellodell’arena.

G.P.S.

BibliografiaBeste H.J., I sotterranei del Colosseo: impianto, tra-sformazioni e funzionamento, in Sangue e arena, Ca-talogo della mostra, Roma 2001, pp. 277-299 (conbibliografia)

Sez. 11.10 - Funzionamento delmeccanismo delle uova e deidelfini sulla spina e tecniche dellacorsa circense

Lo spettacolo più frequente che si svolgevanel circo erano le corse dei carri (ludi cir-censes): dodici carri, tre per ciascuna dellequattro fazioni (la blu, la verde, la bianca, larossa); la migliore posizione di partenza erascelta tramite sorteggio. All’apertura dei can-celli degli stalli (carceres), i carri si lanciavanosulla pista e, dopo aver passato una lineabianca posta davanti alla tribuna dei giudicidi gara, dovevano effettuare per regolamentosette giri completi (per un totale di 5000 me-tri nel Circo Massimo o 3000 nei circhi piùpiccoli). Il numero sette è simbolico: sette ipianeti che nel sistema tolemaico girano in-torno alla terra; la corsa si svolge intorno allaspina, elemento che divide la pista di andatada quella di ritorno, alle cui estremità ci sonole due mete, anche queste simbolicamenteindicano il giorno e la notte; la spina è cir-condata da un bacino d’acqua, simbolodell’oceano; al centro si leva l’obelisco, sim-bolo solare: ogni giro della pista da partedell’auriga corrispondeva ad una giornata, isette giri ad una settimana; i dodici stalli po-tevano essere assimilati ai dodici mesi o alledodici costellazioni e i quattro cavalli allequatto stagioni. Lo scopo della gara non eraquello di essere i più veloci, ma di arrivare perprimi. Lo stato di avanzamento della corsaveniva indicato al pubblico e ai giudici di gara,che ne controllavano e garantivano il regolaresvolgimento, da due contagiri, i piccoli edificidelle uova e dei delfini posti sulla spina,ognuno dei quali era composto da sette ele-menti mobili (uova e delfini) che indicavanoi giri effettuati ed erano manovrati da un ad-detto, che riceveva un segnale dai giudici digara. L’aspetto di questi contagiri è ben notadai mosaici e dai bassorilirvi che li rappre-sentano, ma soprattuto sulla base dei restidel circo di Leptis Magna è stata possibile unaricostruzione virtuale.Il contagiri con le uova (ovarium) era una pic-cola trabeazione parallela alla spina, per es-sere visibile dai giudici di gara, sorretta dadue colonnine distanti l’una dall’altra circa2,10 metri, sulla quale poggiava una barra me-tallica o di legno con sette fori nei quali eranoinserite delle aste di legno alla sommità delle

Anfiteatro Flavio. Ricostruzione del sistema di piat-

taforme a scivolo nel corridoio H (da Beste 2001, p.

295, fig. 18)

quali erano infisse le uova (probabilmente inmarmo del diametro circa 20/25 cm) (v. mo-saico di Lione) e che dovevano essere alzate– una dopo l’altra - di circa 1 metro per se-gnalare l’inizio del giro: quando veniva alzatol’ultimo uovo, voleva dire che era inziato l’ul-timo giro dei carri.Una struttura simile, larga circa 2 e alta circa4,70 metri, doveva sorreggere i delfini (del-phinium), posta dal lato dei carceres e per-pendicolare alla spina. I delfini in bronzo caviall’interno (misure ipotetiche m 1 x 0,50 x 0,25)erano inseriti su perni ruotanti posti suun’unica barra orizzontale, cava anch’essaall’interno che serviva da asse di rotazione,nella quale scorreva l’acqua che riempiva idelfini. L’operatore, che utilizzava una scalettaper monovrare i delfini, nell’abbassarli facevauscire un getto d’acqua dalla loro bocca, ac-qua che finiva nel canale (euripus) della spina.L’abbassarsi dell’ultimo delfino doveva indi-care la fine della gara.

F.F.

BibliografiaFauquet 2008, pp. 261-289; Ioppolo, Pisani Sartorio1999; Pisani Sartorio 2008, pp. 47-78.

279278

1. Ricostruzione dello svolgimento della corsa circense (M. Peres, F. Fauquet, Ausonius)

2. Restituzione delle dimensioni dell’edicola delle

uova del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

4. Restituzione delle dimensioni dell’edicola dei

delfini del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

5. Restituzione della posizione dell’edicola dei

delfini sulla spina del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

3. Restituzione della posizione dell’edicola delle

uova sulla spina del circo di Leptis Magna

(F. Fauquet, Ausonius)

Sez. 11.11 - Carro da corsa

Materiale: legnoRiproduzione: Roma, Museo della Civiltà RomanaRestitutione virtuale: F. Fauquet, Ausonius, Bordeaux

Il carro da corsa era un veicolo stabile e leg-gero, ma allo stesso tempo molto robustopoiché doveva sopportare il traino di nume-rosi cavalli. Di questo mezzo di trasporto nonci sono giunti esemplari, ad eccezione di unmodellino in bronzo rinvenuto nel Tevere. Lesue ipotesi ricostruttive sono dunque staterealizzate esclusivamente sulla base della do-cumentazione figurata, rilievi e mosaici, mol-to abbondante anche se spesso assai generica.Il carro da corsa era costituito da due ruote,sistemate all’estremità posteriore del carro,e così tutto il peso della struttura gravava sul-la parte anteriore, cioè sul timone; questo eraricurvo verso l’alto e lungo 2,5 m, e partivadall’assale per mezzo di un attacco a T. Laparte del pianale era costituita da un rettan-golo, leggermente ricurvo nella parte ante-riore, di circa 35 cm di lunghezza e 70 cm dilarghezza. Per rendere più leggero il veicolosia il pavimento che il parapetto non erano dilegno massiccio, ma costituiti da un tralicciodi bacchette lignee su cui poggiava una leg-gera sfoglia di legno, o un copertone di cuo-io, che riparava le gambe dell’auriga.Il carro da corsa romano, a differenza di quel-lo celtico o greco, era guidato da un solo au-riga. Generalmente veniva trainato da quattrocavalli, due aggiogati al centro e due, ai latidi questi, legati direttamente al carro per mez-zo di funi (funales). Questi ultimi, durante lagara, sostenevano lo sforzo maggiore. A vol-te il carro veniva trainato da un numero mag-giore di cavalli, che poteva andare da sei adieci (Isidoro, Originum seu Etymologiarumliber XVIII, 36; Virgilio, Aeneidos liber XII, 164;Sant’Agostino, De Civitate Dei, XIX, 3). Le iscri-zioni ci attestano che l’auriga M. Aurelio Po-linice gareggiò su carri trainati da otto e novecavalli (CIL VI, 10049), mentre in una gem-ma ne compaiono addirittura venti.

Il carro da corsa giunse in ambiente romanodirettamente dal mondo greco, attraverso lamediazione culturale del mondo etrusco. Ta-le tipo di veicolo fu però perfezionato dai Cel-ti, che dal V sec. a.C. al III d.C. lo impiegarononel contesto bellico, in cui conferiva maggio-re mobilità ai guerrieri: l’abilità degli aurighibritannici è ampiamente lodata da Cesare neisuoi Commentarii De Bello Gallico.Il luogo prediletto per i giochi nel mondo ro-mano fu fin dalle origini la valle paludosa trail Palatino e l’Aventino, dove fu realizzata l’im-ponente struttura del Circo Massimo, che po-teva ospitare fino a 250.000 spettatori.Durante l’Impero gli aurighi erano presi a ser-vizio da fazioni, che erano distinte da diversicolori, e fomentavano un violento entusiasmotra tutte le classi della società romana: i mi-gliori passavano da una fazione all’altra, co-me nel moderno mondo calcistico. Questotipo di competizione agonistica sopravvisseall’arrivo del Cristianesimo, e l’entusiasmo daessa scaturito fu forse più violento a Costan-tinopoli che a Roma: è stato detto che gli abi-

tanti della nuova capitale dell’Impero divi-dessero i loro interessi tra la passione per lacorsa dei carri e i discorsi teologici.

I.F.

BibliografiaAmouretti 1991, pp. 219-232; Cagiano de Azevedo 1938;Daremberg-Saglio, s.v.; Fauquet 2008, pp. 261-289.;Ioppolo, Pisani Sartorio 1999; Jope 1993, pp. 544-571;Pisani Sartorio 2008, pp. 47-78; Raepsaet 2002; Rus-so, Russo 2008; Weber 1986; Weber 2007; White 1984.

Restituzione del carro da corsa

(F. Fauquet, Ausonius)

Ricostruzione grafica

di un carro da corsa

(G. Ioppolo)

Per mezzo dell’interazione di aria, fuoco, acqua e terra e com-binando tre o quattro principi, possono essere realizzati con-gegni diversificati, i quali, da un lato provvedono ai maggioribisogni della vita, mentre dall’altro generano stupenda mera-viglia (ekplektikos thaumasmos)(Erone di Alessandria, Pneumatika 2, 18-20)

Tecnologia come utilitas e come meraviglia: per quanto possa ap-parire un’associazione strana, la nozione di vantaggio o utilità, no-zione tanto cara alla mentalità romana, si è prestata ad esserecoordinata alla sfera del divertimento e dell’espressione del lusso.Tale sorprendente sintesi di utilitas e di ricerca dell’effetto si riflettenelle elaborazioni di uno dei teorici e degli autori più prolifici nelcampo della tecnologia antica di età imperiale. Erone di Alesandria,intellettuale molto probabilmente formatosi nel circolo scientifico efilosofico del celebre museion alessandrino ed attivo a Roma intor-no al 60 d.C., scrive su una vasta gamma di congegni meccanici,idraulici, pneumatici. Dalla misurazione del terreno alla costruzio-ne di macchine da guerra, dalle macchine per il sollevamento deipesi a strumenti ottici sofisticati: molti dei congegni da lui descrit-ti sono esplicitamente motivati dall’intento di suscitare stupore ne-gli osservatori. L’opera di questo autore è esemplare di un’interaproduzione tecnologica di oggetti, comunemente denominati co-me automaton/automata. Si tratta, nella maggior parte dei casi de-scritti, di oggetti meravigliosi la cui prima peculiarità è quella difingere di funzionare senza alcun ausilio o apporto di energia ester-na, per l’appunto, come indica la composizione greca del terminecon il prefisso auto-‘da se stesso’, di ‘vivere di vita propria’.Forse anche per queste peculiarità, la popolarità di Erone di Ales-sandria fu notevole non solo nel mondo antico ma anche in quellobizantino e arabo, come dimostra l’esistenza di circa un centinaio dicopie di codici greci con disegni illustrativi (il testo più antico è il Mar-cianus cod. gr. 516 probabilmente del XII secolo), per passare, infi-ne, all’entusiastica ricezione delle sue opere in epoca rinascimentale,tanto che anche Leonardo da Vinci sembra averne subito il fascino.Nonostante il silenzio nei suoi scritti sulla sua attività e sul con-testo storico è stata avanzata una suggestiva ipotesi di riconoscerenell’episodio narrato da Svetonio concernente i nuovi congegniidraulici dell’imperatore Nerone un’eco dell’attività di Erone e del-le sue creazioni presso la corte imperiale:

(…) dopo aver fatto una rapida consultazione passò (Nerone)il resto della giornata a mostrare loro degli organi idraulici di

modello nuovo e sconosciuto (organa hydraulica novi et igno-ti generis), e ne fece esaminare ogni singola parte, illustrandoil meccanismo e le complesse strutture che presentavano, epromettendo loro che li avrebbe ben presto fatti vedere in tea-tro, se Vindice glielo avesse permesso” (Svetonio, Vita di Ne-rone, 41, 2 trad. F. Dessì, Milano 1982)

In questa associazione non è sembrato casuale che anche Eroneparli di nuovi tipi di organi (Erone, Pneumatica 1, 42) rispetto amodelli già esistenti, soprattutto al primo esemplare inventato in-torno alla metà del III sec. a.C. da un altro grande scienziato ales-sandrino, Ctesibio. Erone, come pure i suoi predecessori e ‘maestriideali’, Ctesibio (III a.C.) e il suo ugualmente celebre allievo Filo-ne di Alessandria (II a.C.), appartiene a tutta una tradizione di ‘in-gegneri’ delle scienze meccaniche, pneumatiche ed idrauliche, cheun altro più tardo prosecutore della stessa scuola, Pappo di Ales-sandria (ca. 300 d.C.), chiamerà in modo suggestivo thauma-siourgoi, cioè creatori di congegni meravigliosi e oggetti magici,funzionanti per pressione dell’aria o dell’acqua (Hultsch 1878, vol.3, 1022 ss.).Contrariamente al notevole apprezzamento e alla diffusione di ta-li congegni in antico, per i quali Erone offre senza dubbio la mi-gliore testimonianza, gli storici moderni di tecnologia antica hannoespresso, invece, giudizi assai limitativi su tale produzione: nonrientrando in categorie moderne, come ingegneria idraulica o ci-vile, né funzionali ad un discorso di produttività, come agricoltu-ra, estrazione mineraria, trasporti ecc., le machinae/mechanai dicui ci parlano Erone o Svetonio vengono considerate nella lette-ratura specialistica alla stregua di “giocattoli”, di prodotti secon-dari negli autori antichi di tecnologia, con limitata portata scientifica,in qualche modo retaggio di una cultura ellenistica e estranei almentalità romana.Su quest’ultimo punto un vivace quadro tratto dal Satyricon di Pe-tronio ci mostra quanto tali oggetti fossero parte comune della vi-ta e dell’immaginario dei romani: durante l’opulenta coena delricco liberto Trimalcione, sotto Nerone (54-68 d.C.), un incidentedovuto alla caduta di un giocoliere produce scompiglio tra gli ospi-ti e sembra, nell’immaginazione della voce narrante, preludere al-l’entrata in scena di un qualche misterioso congegno:

Perciò cominciai a sbirciare, intorno, aspettandomi che qual-che macchina misteriosa uscisse dalla parete … (trad. G.A. Ci-botto 1972)

Itaque totum circumspicere triclinium coepi, ne per parietema u t o m a t u m aliquod exiret… (Petronio, satyricon 44)

Anche se non sapremo mai quale automaton aveva in mente l’ospi-te di Trimalcione, il passo di Petronio getta luce sul luogo e sullesituazioni sociali nel mondo romano, in cui tali congegni trovava-no la loro collocazione ideale, vale a dire il momento del banchet-to conviviale. Il quadro petroniano crea, dunque, lo sfondo adeguatoper comprendere tutta una serie di oggetti accuratamente descrit-ti da Erone con un’ampia gamma di variazioni. Un esempio in Pneu-matica 1, 9 (fig. 1) esemplifica quello che viene definito trick-vase,recipiente-scherzo, che produce un inganno dei sensi: si tratta diun recipiente per liquidi, la cui ansa è cava all’interno e che prose-gue con un piccolo tubo (ξ−η) per l’aria all’interno del recipientestesso; l’ansa è dotata di un piccolo foro (κ) che permette l’entra-ta o il blocco dell’aria all’interno del vaso. L’interno del vaso è do-tato di un fondo intermedio (υ−δ) che ne divide il corpo interno indue settori, comunicanti per una serie di piccoli fori (ε). Qual erail fenomeno a cui assisteva lo spettatore durante lo spettacolo del-la festa? Tenendo chiuso il foro (κ) il recipiente poteva essere riem-pito, ad esempio con acqua, nel settore superiore del vaso e senzacolare in quella inferiore (β), dando l’impressione che il vaso fos-se pieno; mentre all’aprirsi del foro (κ) l’acqua si riversava attra-verso i fori del diaframma(β), lasciando di nuovo vuota la partesuperiore. Riempito nuovamente, questa volta con vino, se chi os-serva la scena si aspetterà di ottenere questa volta versata la mi-scela tradizionale di vino ed acqua, rimarrà fortemente deluso:mantenendo chiuso il foro (κ) il vino non si potrà mischiare al-l’acqua e l’ospite sorpreso riceverà, invece, vino pretto.Notiamo come la tensione a suscitare meraviglia e sorpresa nel-lo spettatore sia la finalità anche di questi piccoli congegni; dalpunto di vista scientifico non si può fare a meno di evidenziarecome questi vasi premettono la diffusione di conoscenze pneu-

281280

Tecnologia per stupire: gli automata nel mondo romano

Marco Galli

matiche e idrauliche – quella fondamentale in questo caso è chel’aria si comporta un corpo che occupa un certo spazio – da par-te di chi li realizzava. Le indicazioni di Erone su come nasconde-re il meccanismo che genera l’azione dell’automaton lascianotrasparire questa tensione tra l’ideatore-meccanico, che conoscele cause del movimento, e spettatore che non può vedere rima-nendo preda della suggestione.Oltre a singoli oggetti “meravigliosi” Erone descrive pure tutta unaserie di più complessi congegni automatici che combinano prin-cipi della pneumatica con l’utilizzo di espedienti idraulici, grazieall’uso di acqua corrente: si tratta per lo più di impianti di fonta-ne artificiali, destinate per dimensioni a luoghi aperti, ad esempioi lussuosi giardini residenziali. Un caso suggestivo è quello di unafontana (v. sez. 11.12a) che prevede la presenza di un animale inbronzo: quando l’animale segnala, emettendo un suono, la pro-pria sete attirerà l’attenzione di uno spettatore, che porgendogliun recipiente pieno d’acqua, permetterà all’animale “assetato dibere”, ovviamente per un effetto di aspirazione dell’acqua. La con-cezione di un siffatto congegno è interessante sotto due aspetti:l’effetto illusionistico di vita, attraverso suono e la finzione del be-re, e, soprattutto, l’aspetto dell’interazione con uno spettatore-at-tore. Constatiamo, quindi, la commistione tra conoscenze esperimentazioni scientifiche e ‘mondo della vita’: una variegatacasistica di orologi ad acqua o ad ingranaggi, congegni acustici eidraulici (sez. 11.12a.b.c) fino a comprendere l’affascinante cate-goria di androidi, come ad esempio bambole che muovono auto-nomamente le membra o manichini con fattezze umane. Tuttoquesto poteva trovare collocazione adeguata, per dimensioni efunzionalità, nelle residenze delle aristocrazie romane: è stato pro-posto convincentemente di vedere gli spettacoli pneumatici e idrau-lici di Erone non come puro risultato di una speculazione teoricama come produzione destinata agli spazi e ai momenti sociali del-le élites dell’impero.Sulla base delle esemplificazioni fatte ci sembra che si possa enu-cleare la natura degli automata in tre aspetti essenziali: il loro fun-zionamento automatico, la suggestiva finzione di riprodurre unfenomeno naturale, il celarsi del meccanismo che li mette in azio-ne agli occhi dello spettatore.Ma il campo di azione degli automata appare più ampio rispettoa quello degli spazi residenziali, andando ad interessare la sferadel sacro e quella dell’esperienza teatrale.La descrizione (sez. 11.12b) di un congegno automatico per mez-zo del quale è possibile aprire le porte del tempio di Serapide adAlessandria in associazione con l’accendersi del fuoco sull’altarecultuale rientra in una serie di impianti complessi descritti da Ero-ne che hanno come soggetti vittorie, menadi, satiri e figure di di-vinità tra cui Dioniso, Pan ed altre divinità; qui il contesto sacrodiventa lo sfondo per forme di spettacolarizzazione del rituale at-traverso l’impiego di ingegnosità tecnologica.Se l’impiego della tecnologia ha come fine la combinazione di uti-litas e del meraviglioso, alla ricerca di un più diretto e emoziona-le coinvolgimento dello spettatore, certamente l’applicazione degliautomata nell’ambito della performance teatrale non stupisce. Lodimostra nella vasta produzione di Erone l’opera automatopoieti-ke, la creazione di automata, dove il meccanico alessandrino ad-

Fig. 1 Trick-Vase,

ricostruzione del ‘vaso-

scherzo’ da Erone di

Alessandria, Pneumatica

1, 9: si tratta di un

recipiente per liquidi, la

cui ansa è cava all’interno

e che prosegue con un

piccolo tubo (ξ−η) per

l’aria all’interno del

recipiente stesso; l’ansa è

dotata di un piccolo foro

(κ) che permette l’entrata

o il blocco dell’aria

all’interno del vaso.

L’interno del vaso è dotato

di un fondo intermedio

(υ−δ) che divide lo spazio

interno in due settori,

comunicanti per una serie

di piccoli fori (ε)

Sez. 11.12a - Automata di EroneAlessandrino

‘La fonte con l’aquila che beve’Nel testo di Erone (Pneumatica, I. 29) si descri-ve la costruzione ed il funzionamentodi una fon-tana monumentale composta da un sistemaidraulico di vasche comunicanti, caratterizzatadalla presenza di un animale, riprodotto artifi-cialmente in bronzo o in altro materiale. L’auto-realessandrinodel I sec.d.C. consigliadi installarequesta fontana in prossimità di una fonte.Il congegno è funzionale a far sì che l’animale,producendo un sibilo, segnali al visitatore che èin grado di bere: questo, porgendogli una cop-pa piena d’acqua, attiverà il meccanismo per cuil’animale sarà in grado di aspirare l’acqua, dan-do l’illusione di bere.Il sistema è costruito nel modo seguente: l’ac-qua sgorgando dalla fonte riempie la vasca su-periore α−β, in cui è presente un sifone ricurvoδ−ε−ζ, attraverso il quale l’acqua si riversa in unpiccolo vaso collettore ο−π, dal quale si riversain un’altra vasca η−θ−κ−λ intermedia. Anchequesto collettore d’acqua contiene un sifone ri-curvo µ−ν−ξ che permette il flusso dell’acquaverso il fondo del vaso collettore inferiore ω, ilquale, appesoadunmanico,oscillanelmomentoin cui cade al suo interno l’acqua. Anche l’ani-male è collegato al sistema di vasi comunicanti,infatti è dotato di un tubo ρ−σ−τ, nascosto, chedal becco (ρ) passa per una delle zampe (τ) col-legandolo alla vasca intermedia η−θ−κ−λ.Il funzionamento è invece il seguente: quandola prima vascaα−β sarà piena, l’acqua attraver-so il sifone δ−ε−ζ giunge alla vasca intermediaη−θ−κ−λ riempiendola, mentre la vasca supe-riore tenderà a svuotarsi. Analogamente quan-do la baseη−θ−κ−λ si riempe, l’acqua si riversanel recipiente sottostante ω creando un vuotoall’interno e contemporaneamente causandoun’aspirazione dell’aria attraverso il becco arti-ficiale dell’animaleρ. Quando il vaso inferioreωcomincerà ad oscillare per la caduta dell’acquadal sifone µ−ν−ξ, l’animale, a causa del vuotocreatosi all’interno della vasca intermedia, co-mincerà a risucchiare aria attraverso il tubo ρ−σ−τ, dando origine all’effetto acustico del sibilo:in questo preciso momento, quando il visitato-re porgerà all’animale una coppa piena d’acqua,egli comincerà ad assorbire il liquido creandol’illusione di bere.

D.S.

Sez. 11.12b - ‘Il Tempio di Serapide conle porte automatiche’

Il brano, tratto dal testo di Erone (Pneumati-ca, I. 38), descrive la costruzione del mecca-nismo che permette l’apertura delle porte diun piccolo tempio, quando il fuoco del sacri-fico è acceso. Tale macchina era utilizzata peraprire le porte del tempio di Serapide ad Ales-sandria e può essere considerata uno dei pri-mi esempi di macchina a vapore della storia.Il sistema è costruito nel modo seguente: iltempietto è collocato su di una base α−β−γ−δ insieme alla piccola ara sacrificale ε−δ. At-traverso di essa si farà passare il tubo η−ζ inmodo tale che l’apertura ζ sarà all’interno del-l’ara e l’apertura η sarà nella sfera θ, conte-nuta nella base α−β−γ−δ. Nella sfera vi saràun sifone ricurvo κ−λ−µ la cui estremità µ,esterna alla sfera, si troverà in un vaso sospesoν−ξ, mentre l’estremità κ sarà sulla sfera. Aiprolungamenti dei cardini delle porte che giun-gono nella base sottostante α−β−γ−δ, saran-no fissate due piccole catene che unitepasseranno per la carrucola di destra e giun-geranno al vaso sospeso ν−ξ. Altre due pic-cole catene saranno collegate ai cardini,analogamente alle prime ma nel senso inver-so, ed unite in una sola, saranno fatte passa-

re per la carrucola di sinistra e agganciate adun peso in piombo .Il funzionamento è il seguente: inizialmenteattraverso un foro π sulla sfera θ s’introducedell’acqua fino a riempirne la metà e succes-sivamente verrà chiuso.Tale sistema utilizza l’espansione dell’aria cheviene riscaldata dal fuoco dell’ara, la quale at-traverso il tubo η−ζ giunge nella sfera θ, piùgrande, facendone aumentare la pressione.Questa dilatazione spingerà l’acqua che si ri-verserà attraverso il sifone κ−λ−µ, nel vasosospeso ν−ξ, aumentandone il peso. Que-st’ultimo scenderà, tirando le catene collega-te alla carrucola di destra facendo girare icardini e la loro rotazione tirerà l’altra catenacollegata alla carrucola di sinistra, alzando ilcontrappeso φ.A questo punto le porte del tempio si apri-ranno e, come espressamente sottolinea l’au-tore alessandrino, produrrà un effetto dimeraviglia negli astanti.Infine, quando il fuoco verrà spento, la pres-sione nella sfera θ diminuirà e il sifone κ−λ−µ risucchierà l’acqua svuotando il vasosospeso ν−ξ. In questo modo il contrappesoφ scenderà facendo ruotare in senso inversoi cardini che chiuderanno le porte del tempio.

A.S.

dirittura descrive il progetto di un teatro mobile con la rappre-sentazione (molto probabile) di un testo tragico sofocleo. Ma for-se a dimostrazione dell’efficacia e dell’importanza di tali apparatitecnici basta ricordare un caso straordinario di uso emotivo e alcontempo politico di un automaton, proprio durante uno dei mo-menti salienti della vita pubblica di età repubblicana: l’esposizio-ne del cadavere di Cesare dopo il suo assassinio nel 44 a.C.Leggiamolo nella suggestiva ricostruzione che ne da lo storico Ap-piano (bella civilia, 2 143-148) attraverso la bellissima ricostruzio-ne di Luciano Canfora:

Quando fece la sua apparizione il cataletto, con il corpo deldittatore, portato a braccia da magistrati in carica e da altricittadini che avevano ricoperto le magistrature, l’emozione eraal colmo. Essa fu acuita da una trovata teatrale, di cui dà no-tizia Appiano: una trovata che rinvia chiaramente ad una re-gia. Per eccitare fino alla commozione era necessario esibirealla folla il corpo trafitto, ma ciò non era possibile; «la salmaera distesa supina sul cataletto, e perciò non risultava visibile.Allora fu issato da un tale, grazie ad una mechané (…), unfantoccio di cera con le fattezze di Cesare, trafitto da ventitrèpugnalate e orrendamente sfigurato. Veniva spostato di qua edi là un po’in tutte le direzioni. E questa vista risultò alla finescatenante». Fu allora che si passò, quasi verso un ovvio sboc-co, alle vie di fatto: appiccare il fuoco.(Canfora 1999, 375)

La presenza degli automata nella cultura romana, di cui Erone cirende la più completa ed efficace testimonianza, è in linea di con-tinuità con una ben più lunga tradizione che partiva dagli alboridella civiltà greca, proprio da quel diciottesimo libro dell’Iliade, do-ve nell’officina di Efesto venivano realizzati venti tripodi “auto-matici”:

… venti tripodi in una volta faceva,da collocare intorno alle pareti della sala ben costruita;ruote d’oro poneva sotto ciascun piedistallo,perché da soli entrassero nell’assemblea divina,poi tornassero a casa, meraviglia a vedersi.Il. 18, 373-377 (trad. R. Calzecchi Onesti Torino 1950)

Il mito di quello che i poeti comici greci di età classica chiame-ranno automatos bios, una vita in cui tutto può funzionare senzaalcuno sforzo né dispendio di fatica e dolore, ancora esercita unaforte suggestione e mantiene una sua validità nelle culture del-l’impero romano: allora come anche nel mondo contemporaneo,un mito alimentato e sostenuto dalla convinzione in un saperetecnologico capace di unire utilitas allo stupore o, come dice ilpoeta, meraviglia a vedersi.

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Sez. 11.12.c - Organo idraulicocinquecentesco e il gioco dellacivetta

Nella seconda metà del 1500, a Villa d’Este, siinstalla ad opera di due fontanieri francesi, unautoma idraulico di tale fascino da essere co-piato e costruito nei più importanti giardinid’Italia e d’Europa. Nel corso di un secolo siascoltano le melodia degli organi idraulici inville romane e del suburbio (Quirinale, villaPanphili, Frascati),in Italia, a Parma Caserta eModena, in Francia a Versailles e San Germainen Laye e in Germania, Austria e Inghilterra.L’automa è un organo automatico che funzio-na con l’acqua. Un flusso d’acqua entra in unrecipiente con un foro connesso ad un tuboverticale. L’acqua entra nel recipiente con vio-lenza e produce vortici che catturano aria. Iltubo verticale termina in un ambiente stagno(la camera eolia)e l’acqua che lo percorre escee frange su una lastra di marmo. L’aria conte-nuta nell’acqua si libera e sale nell’ambientedove vi è un fono connesso ad un tubo che ar-riva al somiere di un organo munito di canne.

Il troppo pieno della camera eolia nell’uscireè dirottata verso una ruota a pale che azionaun cilindro con denti (un carillon) che apro-no le valvole delle canne secondo un ordinepredisposto che corrisponde a un motivo.Grande meraviglia e stupefazione tra gli ospi-ti di Ippolito II d’Este che felicemente ascol-tava la musica.Dopo anni di studi a Villa d’Este è stato ripri-stinato un organo idraulico che funziona esat-tamente come quello rinascimentale.Sempre a Villa d’Este fu realizzato il gioco del-la civetta, riportato da Erone che riferisce un’in-venzione alessandrina. Il gioco si diffuse, tantoche a Pompei ne sono stati trovati frammen-ti. Il gioco è rappresentato da un gruppo diuccellini che cantano, all’apparire di una ci-vetta interrompono il canto per riprenderloquando il rapace scompare. Il gioco in epocaantica aveva un solo uccellino che emettevaun suono grazie all’aria spinta dall’acqua en-tro un recipiente, il movimento della civettaera dato da un peso che faceva girare un rul-lo a cui era connesso il rapace.Nel gioco estense un meccanismo come quel-

lo dell’organo idraulico consentiva il canto con-temporaneo di più di dieci uccelli. Il movi-mento della civetta era dato da un secchio checadendo faceva girare un rullo e la civetta. Tut-to era comandato da un rullo fono-tattico adenti (un carillon) che consentiva l’aperturadelle valvole per le canne del canto degli uc-celli e dei denti servivano alla caduta del sec-chio che, quando si svuotava, risaliva e facevagirare la civetta. Il gioco degli uccelli e della ci-vetta è stato ripristinato a Villa d’Este con unprogetto filologicamente corretto.

L.L.

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Finito di stamparenel mese di dicembre 2009

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