lucia calogero

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Pubblicazione a cura del Assessorato alla cultura di Firenze

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Lorenzo Calogero Dai Quaderni del 1957

A cura di Lucia Calogero

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Editing Maria Felicia Iarossi

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Lorenzo Calogero

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SOMMARIO p. 5 Avvertenza p. 6 Prefazione p. 35 Alcuni cenni biografici p. 40 Bibliografia essenziale delle opere e della critica p. 45 Giudizi critici essenziali p. 52 Dai Quaderni del 1957 Appendice p.236 Dalla raccolta Ma questo p.242 Lettera a Vittorio Sereni p.249 Frammenti dall’epistolario p.259 Coraggio, coraggio p.261 Indice

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A mia nonna

Giuseppina Cardone

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Avvertenza A oltre quarant’anni dalle belle edizioni postume, a cura dell’editore Roberto Lerici, ormai quasi introvabili e mai ristampate, comprendenti anche una parte di inediti, viene pubblicato il presente volumetto nel quale sono stati raccolti nuovi inediti tratti da alcuni dei tanti quaderni di Lorenzo Calogero. Gran merito va riconosciuto alla sensibilità e all’intelligenza dell’Assessore alla Cultura di Firenze Simone Siliani che ne ha sostenuto con decisione l’idea, facendo imprimere al presente libricino il Giglio fiorentino, di cui Lorenzo sarebbe andato fiero. Scopo della pubblicazione, che cade esattamente a quarantacinque anni dalla morte del poeta, avvenuta fra il 22 e il 25 marzo 1961, è far riemergere dall’oblio la sua grande poesia, ponte gettato sull’infinito, e far sì che tutti i suoi quaderni - che giacciono negletti ormai da vent’anni presso la Regione Calabria - possano essere affidati al circuito culturale vivo e fertile di questa città, crocevia di personalità di indubbio spessore umanistico pronte a interessarsi e a curarne le carte autografe, per diffonderne la conoscenza e il pensiero, al fine di rendere possibile una ristampa di quanto già edito e una pubblicazione completa, filologicamente corretta della sua opera, di cui si sente la mancanza. Un grazie di cuore a quanti si sono prodigati perché questo libro venisse alla luce e che sicuramente continueranno a farlo: in modo particolare mi rivolgo all’Assessore Siliani, che ha reso un servigio alla Poesia, e ad Anna Benedetti, il cui rigore intellettuale ha costituito l’humus fertile per ricollocare in un luogo appropriato un autore importante quasi dimenticato. Leggere per non dimenticare vale anche per Lorenzo Calogero, ancora più adatto e su misura per lui è il titolo dato quest’anno al ciclo di incontri: il silenzio e le parole. lucia calogero

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Prefazione

1 Al fine di rendere maggiormente fruibile la lettura della

lirica calogeriana, non sarà inopportuno sintetizzare alcuni gangli poetici, non solo strumentali, che possano elucidare la ποίησις di Calogero, pur nella consapevolezza della probabile parzialità delle indicazioni che in questa sede si forniscono, considerata l’esistenza del tantissimo materiale non ancora visionabile. Tuttavia si ritiene che, avendo avuto il modo di ripercorrere attraverso diversi quaderni inediti il farsi dell’elaborazione poetica nelle sue molteplici varianti e variazioni, tali indicazioni possano essere sufficientemente attendibili per puntualizzare alcuni aspetti rilevanti della poesia di Calogero.

Jurij Mihajlovic Lotman in un suo saggio sui sistemi segnici focalizza l’esistenza di due entità o classi di opere letterarie che vengono inquadrate nell’estetica dell’identificazione e/o nell’estetica della contrapposizione. La prima si fonda sulla totale identificazione dei fenomeni della vita con i modelli standard noti al pubblico e pertanto rientranti nel sistema delle regole ormai comunemente percepite; la seconda è quella “in cui la natura dei codici non è nota al pubblico prima della percezione artistica”.

Quando ci si pone di fronte alla lettura di un’opera occorre stabilire a quale delle due classi l’opera appartenga. Spesso via via che si penetra nel congegno più intimo dell’opera ci si accorge che l’autore, che sembra essere interprete dell’estetica della contrapposizione nei modi espressivi, sia in realtà interprete dell’estetica dell’identificazione nei contenuti che tratta; e viceversa può accadere che l’autore, che pur si esprime secondo canoni e dettami, per così dire, tradizionali, veicoli contenuti ascrivibili all’estetica della contrapposizione. Non sempre è possibile una

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distinzione netta anche perché, all’interno della stessa opera, è possibile trapassare insensibilmente da una classe a un’altra, oppure è possibile intravedere la coesistenza delle due classi. Ora tutta la poesia del Novecento da Mallarmé a Montale si presenta spesso come poco fruibile perché sembrerebbe veicolare codici non noti o non sufficientemente e consapevolmente noti al pubblico.

Questa impossibilità di autentica fruizione si presentava come fenomeno più estesamente massiccio fino alla metà del ’900 per il persistere di forti resistenze culturali da parte di chi si ostinava a non voler riconoscere l’avvenuta assunzione di nuovi modi di percepire il senso e il valore e dell’esistenza umana, colta nella sua più fonda interiorità, e del diverso rapporto dell’uomo con se stesso, con gli altri, con la natura e con l’esistente in quanto tale. Oggi tuttavia alcuni pregiudizi, per taluni aspetti, sono caduti e vi è una più diffusa consapevolezza dell’essere in sé e dell’essere, così come vi è una più diffusa consapevolezza della precarietà dei significati che si attribuiscono all’esistenza e all’origine umana, così come vi è una più diffusa consapevolezza della necessità di trovare spazi, pure limitati, che giustifichino da una parte, in qualche modo, il nostro essere nel mondo e ci restituiscano dall’altra a una dimensione più autentica e consapevolmente vissuta. Pertanto la poesia di Calogero, che fino a qualche tempo fa poteva apparire come incomprensibile, oggi appare più chiara ed evidente. La ricollocazione del termine “verità”, con tutti gli assiomi e la scala di “assoluti” da essa discendenti, in altri ambiti semantici, diversi da quelli per così dire tradizionali, determinata da tutto il dibattito culturale-filosofico-scientifico del Novecento dalla teoria della relatività ad oggi, è un dato da ritenere sufficientemente interiorizzato e tale da costituire una prima chiave di lettura, anche per chi non è addetto ai lavori, di testi considerati a torto astrusi e difficili. Questa premessa può essere utile sia per superare, da una parte,

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il falso problema dell’astrusità della lirica calogeriana, a torto considerata da alcuni ultima propaggine post-ermetica, e sia per consolidare dall’altra l’ipotesi di lirica di natura esistenziale e quindi di lirica più che mai viva e aperta a ulteriori sviluppi.

Ma passiamo ora a considerare un po’ più analiticamente la poesia del nostro autore, in ciò avvalendoci anche delle varie riflessioni sparse nei quaderni del poeta in ordine al significato e al valore della poesia, dell’uomo, del mondo e della storia che in più occasioni il poeta ha fatto.

Intanto il linguaggio poetico di Calogero è caratterizzato da una diffusa polivalenza semantica; ogni parola si carica di sensi che si moltiplicano indefinitivamente in un giuoco continuo di rinvii. Ciò avviene non solo e non tanto perché il poeta va alla ricerca di sensi e significati che escono dalla norma nota a tutti, ma anche e soprattutto perché la singola parola associata ad altre, viene spostata dal suo usuale contesto semantico per venire ricollocata in un altro contesto semantico, usuale intrinsecamente anch’esso, ma che diventa inconsueto e quindi fortemente pregnante per l’introduzione della nuova parola. Tale procedimento, in Calogero, dalle parole si estende agli enunciati e alle immagini laddove per immagine bisogna intendere la condizione, l’ambiente metaforico nel quale l’atto poetico vive e si fa strettamente connesso ad esso.

Accigendosi alla lettura dei versi di Calogero è necessario abituarsi a questo meccanismo intrinseco alla natura della sua poesia, pena lo scacco della comprensione. Perché Calogero segue questo procedimento fino a rendere esausti? È civetteria di intellettuale narcisista o trae il nutrimento da una visione del mondo e dalla vita maturatasi in modo sofferto nel corso della sua esistenza? La consapevolezza culturale scientificamente fondata, quale si ricava dalle osservazioni sparse sui quaderni, dell’infinita gamma di relazioni e correlazioni esistenti 1) tra gli uomini, ciascuno dei quali è considerato da Calogero un cosmo vivente

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contiguo ad un altro cosmo e così via all’infinito; 2) tra i vari sistemi cosmici e quindi tra gli infiniti universi esistenti; 3) tra i vari sistemi interni allo stesso organismo del singolo individuo non può non frantumare il sistema tradizionale della espressività e quindi del linguaggio.

La parola semanticamente definita, i mezzi logico-sintattici definiti e sottoposti a norme più o meno inderogabili sono accettabili in un sistema di valori in cui ciascuno di essi, pur correlato all’altro, occupi uno spazio in ogni caso definibile e precisamente disegnabile. Ma quando si giunge al convincimento che ogni evento si dirama in una serie “irraggiantesi” di altri eventi, ciascuno dei quali, a sua volta, irradia altri eventi e così via all’infinito, un tale sistema di segni, oltre ad essere insufficiente, non corrisponde e non può corrispondere a questa mutata concezione della vita e della storia.

Nella poesia di Calogero (nelle parole, nelle immagini, nei temi, negli argomenti, nei nessi logico-sintattici, nell’uomo, nella storia, nell’esistenza, nell’essere tutto oggetto dell’evento poetico) avviene ciò che si è appreso attraverso la scissione dell’atomo. La ricerca di Calogero è confluita nello sforzo di cogliere, oltre che il valore in sé di ogni singola cosa (sia essa natura, che universo, che anima, che uomo, che intelletto), l’infinito sistema di relazioni che la lega e disunisce alle altre cose. Il lavoro di scissione e di separazione è sempre connesso, infatti, a un lavoro di ricostruzione e ricomposizione. Più si indaga, più si ci avvicina a nuclei sempre più elementari, nel tentativo di giungere al farsi della vita e dell’essere.

Tale il procedimento poetico di Calogero che seziona, divide all’infinito non per distruggere apocalitticamente, ma per giungere al soffio che genera la vita e che è esso stesso flusso. La polverizzazione atomica (nel senso di atomo) che apparentemente sembra disperdere distruttivamente eventi,

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sensazioni, suggestioni, umanità che vagano casualmente in uno spazio privi di “antefatti” e di senso, è in realtà immagine ricomposta e archetipa di ciò che l’uomo e la natura sono nel mondo o almeno in un determinato mondo o ancora meglio nel mondo che ciascuno si rappresenta e prefigura e che è cangiante ai suoi stessi occhi, alla sua mente, al suo pensiero, per quegli equilibri sempre riformantisi secondo la logica delle infinite relazioni esistenti. Ogni mondo contiene un “suo granellino di verità” - afferma Calogero - e l’evento poetico può “schiudere” solo le tante verità parziali che un mondo o quel dato orizzonte, nel quale ci muoviamo, racchiude e rappre-senta, poiché è impossibile trovare le “ragioni ultime che rego-lano l’universo fisico perché si tratterebbe di regole condizio-nate da altri universi attigui di cui non percepiamo l’esistenza, ma neanche le possibilità e i modi di esistere abbastanza lontani dall’intuibile”. Analogo il discorso del poeta per l’universo umano: il suo sforzo costante si muove nella direzione di chi, obbedendo ad una insopprimibile necessità di libertà interiore, vuole accedere al cuore dell’universo. Per il poeta assillante è il bisogno di cogliere il significato della vita e altrettanto impellente è il bisogno di “delimitare” in maniera sempre rigorosa la sua “sorgente” perché se ne possa utilizzare, più intimamente e profondamente, quanto da essa sgorga o può sgorgare. Pur convinto della perenne “inferiorità” dello sguardo poetico rispetto alle mete di disvelamento dell’essere che l’uomo si prefigge, “lo sguardo del linguaggio” “nell’evento” poetico mira a “condensare e captare”, in una delle possibili formule verbali, la figura dell’uomo o animo o linguaggio che sia colto nella sua naturalità e nel suo destino.

È dunque quella di Calogero non poesia della disintegrazione nucleare e di ciò che resta di essa in frammenti impazziti che vagano eccentricamente in un paesaggio distrutto e dilavato, ma poesia che condensa in sé i procedimenti tecnici della scomposizione atomico-nucleare per captare i singoli

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elementi e i più elementari corpuscoli, ciascuno dei quali è essere. È chiaro che un tale tipo di ricerca è rischiosa e può portare alla disintegrazione nucleare e talvolta ciò avviene anche nella poesia di Calogero:

Passavano a disperate distanze anelli … Dopo la pioggia era un'altra pioggia o violento il sole o questo trasmigrare vuoto di uccelli. Tu ghermivi questo senso diafano dove uno di vuoto in vuoto s’appoggia e non vedevi non indovinavi che era tant’altro

e quindi alla rappresentazione di un mondo da pianeta

inabitabile secondo la raffigurazione che di esso Volponi ci ha dato; ma il pessimismo di Calogero non arriva a una dissoluzione definitiva, perché sempre sorretto dal sottinteso sistema relazionale che lega cosa a cosa, elemento a elemento. “Se una visione veramente spasimante ha il poeta - scrive infatti Calogero in una prosa del 1957 - nell’ordine dei suoi tentativi poetici è che ogni parola del suo animo potrebbe essere il centro di un mondo irradiantesi in una infinità di pensiero, del quale, come non conosce l'inizio, non conosce mai la fine; e per quel che gli riguarda , per il modo di completezza di visione, come lo rimanda continuamente ad origini e inizi sempre remoti così l’allargarsi della cerchia dei possibili fini lo rimanda verso orizzonti più vasti e sconfinati, lontanissimi”.

In tale prospettiva può diventare inconcludente, se non si sta attenti, di cosa tratti in maniera specifica questa o quell’altra lirica, in quanto tutta la produzione lirica calogeriana tratta dell’essere e dell’esistere con tutto quanto ad essi è correlato. Tuttavia, per rendere più agevole la comprensione, possiamo dire che la lettura delle liriche di Calogero rivela la presenza di

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alcuni motivi archetipi che si ripresentano con varia frequenza nel corpus poetico anche a distanza di tempo: alcuni sono di natura monoargomentale come il motivo dell’epifania o quello della memoria, altri sono di natura biargomentale come quello di amore/morte.

Asse portante è l’immagine dello specchio reso ricco dalle combinazioni di un certo numero di variabili nel quale si verifica l’evento poetico. Lo specchio è la superficie riflettente dove avvengono le operazioni poetiche, superficie che si identifica via via con quella dell’acqua piovana o uraganica, di un vetro appannato, di uno stagno, di un lago gelato, di un fiume, delle rive, della luna, del candeliere, della luce, del pozzo, del ponte, della conca, della cisterna, con il verificarsi di innumerevoli scambi e interferenze. In tale superficie riflettente l’oggetto è talvolta fisicamente determinato (la donna, la madre, la natura, il tu emblematico della condizione umana e dell’essere), ma altre volte è costituito da gesti e sentimenti. Altre volte ancora dall’una e dall’altra possibilità insieme. Le operazioni che avvengono sono di due generi: sprofondare o riaffiorare.

Nella poesia di Calogero le due operazioni di frequente sono distinte e spesso si assiste da lirica in lirica o al riaffiorare o allo sprofondare dell’oggetto dell’evento poetico; talvolta invece entrambe le operazioni sono presenti sia pure in ordine diverso in una medesima lirica.

Il tema fondamentale intorno a cui ruota tutto il sistema poetico dell’autore è il tema dell’esperienza esistenziale nel quale si inserisce, come particolarmente significativo, il tema del viaggio con tutte le implicazioni ad esso connesse in termini di rischio, di scacco, di naufragio, di approdo. Tutta la produzione lirica di Calogero è, infatti, un interminabile viaggio nelle non delimitabili plaghe dell’essere, nella inesausta ricerca di percepire l’istante in cui l’essere, sia pure a lembi, si epifanizza. C’è nel poeta una coscienza costantemente

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vigile tesa all’afferramento dell’essere. Gli scacchi sono tanti e tutti visibili nella lirica calogeriana; sono “stigmate” e ferite che rafforzano però nel poeta il convincimento che le strade da percorrere sono quelle che possono condurre, sia pure a sprazzi, al disvelamento dell’essere.

Anche il motivo della memoria, così caro a Calogero, non è vagheggiamento del passato o idilliaca pausa dagli affanni del presente o dai timori del futuro, è bensì strumento di conoscenza per il raffiorare dell’essere. La memoria evocante così non è definibile storicamente, è essa stessa storia, è essa stessa presente e futuro. Quella di Calogero, non lo si ripete mai abbastanza, è memoria che si progetta nel futuro per cogliere l’essere. In questa tensione, inarcata fino allo spasimo, i fatti quotidiani sono semplici accadimenti privi di autentico significato o significanti solo se capaci di avviare questo cammino verso l’afferramento dell’essere.

Connessa alla memoria è la variante ritorno. Gli oggetti della poesia, gesti, sentimenti, la donna, la madre, la figura egli-ella, figura di grande rilevanza perché sta a significare l’uomo archetipo, ritornano evocati dall’evento poetico che si scrive nella memoria con un procedimento diverso da quello usuale, anzi si potrebbe dire inverso. In genere la memoria rievoca il passato in modo che fatti, eventi, situazioni, immagini, accadimenti, emergano avanzando fuori dalla zona dell’oblio attraverso un cammino che dal passato porta al presente.

L’evocazione avviene in Calogero invece attraverso un cammino all’indietro che il poeta compie:

... e tu a ritroso lentamente vedevi; A tergo del letargo scendi, scegli qual più mansueta sia rarefatta l’aria. Il tuo ritornare indietro e il tuo batticuore quando un po’ di fine vedi riflessa dietro"; "Il tuo petto era dipresso nel suo andare più indietro

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e bruciavano i sensi e mi potevo interrompere e non tornare più indietro"; "Le persone morte erano all’indomani ritrose"; "...dal cammino all’indietro sarei disceso volentieri dal letargo sul largo ove, seminando, si odono i ritmi di ieri, ma, simulando secondo te era vero uno sguardo".

È questo ritorno all’indietro che avvia il meccanismo

della memoria poetica. In questo cammino all’indietro, in un cielo in cui la divinità appare e dispare, il poeta, moderno Enea, esplora l’essere e ne conquista pallidi lembi, quasi a voler dire che il destino dell’uomo, come progettualità del futuro che ha come fine il disvelamento dell’essere, è quello di ricadere all’indietro sul suo passato, in quanto lo stesso conserva memoria di una parte dell’essere già disvelato. Il futuro dell’uomo è il suo passato e pare che Calogero, la cui poesia è progettuale nei termini sopra esposti, riesca ad esprimere in modo sufficientemente chiaro questa sua visione del mondo e dell’uomo. In questo contesto la morte diventa il simbolo più pregnante del passato in quanto parte dell’essere già disvelato ed essa stessa intrinsecamente capace di disvelare l’essere:

Col pungolo sonante il guardiano colla voce d’oro aprì in quest’angolo della voce dei morti il vento sonoro a ventagli.

scrive il poeta in una delle sue liriche tratta da uno dei quaderni del 1957.

È quindi nella poesia di Calogero non l’eterno ritorno dell’uguale, bensì il ricadere all’indietro in un oscillante cammino a ritroso / in avanti in cui passato, presente, futuro assumono il medesimo senso poiché commisurati alla “grande meta” cui l’uomo non può essere “indifferente”, scrive il poeta in una lirica: il progressivo schiarimento dell’essere.

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Vi è una prosa nella quale il poeta sembra accettare alcuni postulati kantiani (l’essenza a priori delle cose e la sintesi a priori) giungendo alla conclusione della necessità ineliminabile del dualismo da lui inteso come opposizione tra soggetto indagante e oggetto indagato anche nell’ipotesi in cui soggetto e oggetto dovessero essere entrambi l’essere in sé. Poiché per Calogero l’agire dell’uomo ha il suo fondamento nell’esigenza di libertà interiore e l’esigenza di libertà interiore si può realizzare attraverso la conoscenza, e la conoscenza è ricerca, “ove si dovesse giungere al combaciamento del soggetto coll’oggetto - egli afferma - tale impulso di ricerca verrebbe meno e così l’agire dell’uomo”.

Lo sforzo del poeta, caratterizzato da un arduo e metaforico cammino verso i cieli dell’essere come consapevolezza di sé, è sorretto da “tutto il calore della vita e dell’intelletto”. L’umano sentire, nelle sue passioni più nobili e nei suoi desideri più incoffessati, è tutto presente nella poesia calogeriana, nella cui struttura si squaderna un ventaglio assai ampio di sentimenti, un groviglio di contraddizioni: l’abbattimento di fronte allo scacco esistenziale, la gioia quieta e tuttavia solare di fronte a un conquistato lembo dell'essere, la malinconia per un affetto non più fruibile se non attraverso il cammino all’indietro, l’ansia di un iter caratterizzato da un disegno progettuale costruito intorno alla dimensione “futuro”.

Una diffusa lettura dei testi poetici calogeriani ci mette a contatto di un cosmo costellato da una miriade di suggestioni, sentimenti, immagini, esperienze, i più vari e opposti, che tuttavia mai si contraddicono ma che piuttosto tendono a ricomporre il complesso e poetico universo pullulante dell’autore con un andamento complessivo che potremmo definire sinusoidale in cui, senza soluzione, di continuità, il poeta passa da una situazione ad un’altra, e in cui ogni punto, che pur si allarga e affonda in un giuoco di cerchi ad effetto stagno, trascolora nel punto successivo e così via

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indefinitivamente. Tutto il sentire umano, rappresentato nella sua frastagliata varietà (amore sensuale, amore dell’amore, amore appagante, amore filiale, visione della vita ora gioiosa ora distruttiva, concezione della vita come scacco, come tristezza ineliminabile dalla condizione umana, visione della vita come stato di conquistata quiete, della morte come forma di vita, della vita come prefigurazione della morte, della natura ora serena, ora cupa ora prorompente e gioiosa, ora apocalittica e maestosa) trovano la loro giustificazione e il loro filo conduttore nell’inesausto cammino verso la percezione, l’afferramento e il disvelamento dell’essere. È appunto la soffusa e ovunque diffusa atmosfera di ricerca dell’essere l’elemento coesivo di tutta la produzione poetica dell’autore.

Tutti i luoghi poetici calogeriani sono disseminati e per così dire organicamente composti in una tessitura che vede la vita come “una verticale serie di anelli” anche “filogranati” che Calogero cerca di decifrare: le cime, le rupi scoscese, le rive, le conche, i fiumi, i ruscelli, l’acqua piovana e uraganica sono i luoghi metaforici, ma anche reali, di questo cammino che avviene nella nebbia, nella notte, nel fumo che (senza soluzione di continuità) si infittiscono o si diradano cedendo il posto a una luce variamente intensa e viceversa e lasciando intravedere scintille, aloni variamente soffusi e circoscritti, lembi di essere che vengono così conquistati alla coscienza. La congiunzione e, l’avversativa ma, la disgiuntiva o, i dubitativi forse e non so, il tu ora interlocutorio ora, e più spesso, autointerlocutorio sono significativi perché indicano il flusso e il fluire continui del cammino dell’autocoscienza verso la conoscenza, cammino costellato dagli inevitabili distinguo legati ad una concezione sostanzialmente esistenziale della natura e dell’uomo. La superficie riflettente svuota di quanto inautentico sia nell’umano esistere per restituire un’immagine più autentica anche se mai veramente nitida. Solo “chi fu vero sognante”, e il termine va inteso nel senso di chiaroveggente,

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“può essere” e sa che “infiniti sono i colori dei segni”, così come sa che infiniti sono i “significati”. Ma occorre correre “ottantamila leghe” perché si possa divenire consapevoli di ciò: e questo correre in mezzo ai “vociferanti anelli” avviene, in Calogero, nel segno dell’amore e della pace divenuti sostanza di vita umanamente vissuti:

tendi l’orecchio a questi sparsi rumori uno è solitario sull’orlo del fiume ed uno sparso più indietro nell’universo unico taciturno fiore in solidale incontro d’una vita in amore. … un povero va bussando con un segno di pace Forse invecchiando non più si legge, ma si va a piedi.

E così l’uso solo apparentemente curioso di presente,

passato e futuro sta a significare che la dimensione tempo è uguale per tutti gli eventi così come il premettere ai termini mondo, tempo, riva, fiume quasi sempre l’articolo inde-terminato sta ad indicare non il frantumarsi dell’unità e della verità, ma la scomposizione puntiforme dell’una e dell’altra, come altrettante sorgenti di vita e dell’essere. La lettura della poesia calogeriana ci rivela, così, l’immagine di un poeta non solo sensibile a tutti gli umori, ma interessato ad assorbirli, a diventarne l’originale interprete e a proiettarsi, con una prensilità sorprendente e con piena consapevolezza critica, nei modi più arrischiati e vitali di una lirica moderna e originale, i cui esiti migliori sono frutto di un lungo travaglio stilistico e intellettuale.

Lo stato di purezza che da tanti viene inteso come una conquista scontata e definitiva del poeta e uomo Calogero, alla luce dei quaderni, non è affatto una conquista, ma una tensione costante dell’uomo Calogero, che nel far poesia, riesce in qualche modo a raggiungerla, ma mai a possederla definitivamente.

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Dalla poesia di Calogero, come da ogni grande poesia, scaturisce infatti l’ansia di cogliere il senso ultimo delle cose e della vita in una visione in cui l’uomo continua ad essere parte di un tutto spesso indecifrabile, ma comunque caro. L’insazia-bile scavo linguistico, il mai concluso travaglio stilistico ci riportano al puntiglio doloroso dello sperimentatore che seziona, divide, separa all'infinito per arrivare alla scaturigine della vita e del suo miracoloso farsi e divenire. La ricerca formale inesausta, e a tratti ossessiva ed ossessionante, assume così la veste di un arduo e interminabile cammino per dare un senso a quanto appare disperso e frammentario. 2

Vi è una lettera del 25 ottobre 1960 di grande rilevanza inviata a Vittorio Sereni nella quale Lorenzo Calogero fa o tenta di fare il punto della sua poetica e degli approdi comunque ai quali è pervenuto. Il tenore e il tono di detta lettera, che costituisce una sorta di vademecum, è ben distante dalle prose del 1950 nelle quali il poeta, nel tentativo di chiarire a se stesso il senso e il significato della poesia e della sua poesia, si sofferma più su ragioni di carattere individuale e personale fortemente soggettivi che su notazioni di carattere generale e complessivo. La lettera a Sereni, infatti, oltre a puntualizzare alcuni principi e convincimenti poetici conferma attenzione e partecipazione di Lorenzo Calogero alla vasta problematica del Novecento anche nelle implicazioni relative alla funzione del linguaggio, così come era stata e continuava ad essere dibattuta dalle filosofie di quel secolo, con più specifico interesse ai problemi della conoscenza, del senso e del significato dell’uomo e della vita.

La lettera a Sereni costituisce, per così dire, una piccola sintesi - forse - delle osservazioni che Lorenzo Calogero ha annotato in forma sparsa sui quaderni in relazione alle problematiche su accennate. La conoscenza delle varie

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osservazioni, cui dare ordine, contribuirebbe a rendere più facilmente accessibile la lirica calogeriana.

Ma proviamo a procedere per ordine, schematizzando i fulcri concettuali attorno a cui si snoda il procedere del suo pensiero.

Nell’autore fu sempre viva e pressante la consapevolezza, testimoniata da molte prose, degli ambiti conoscitivi entro cui l’espressività e il segno scritto si muovono. L’esercizio dello scrivere, sempre connesso alle particolari condizioni soggettive ed oggettive in cui la scrittura è possibile, non può mai per Calogero aprire nella loro interezza le zone più recondite dell’universo bensì “schiudere” qualche aspetto o anche un solo aspetto o una particella della vita e/o dell’uomo che vive.

L’esercizio poetico si configura, pertanto, come esercizio di ricerca, con tutti i limiti, le difficoltà, e i rischi che la ricerca in quanto tale, qualunque sia il campo nel quale si svolga sia esso poetico, filosofico, matematico, chimico, comporta. Avverte infatti Calogero che «il pericolo maggiore per chi tenta una ricerca, qualunque sia il modo di essa è di scambiare il prodotto di tale ricerca che è il pensiero colla verità stessa»1.

Si appalesa così evidente la lucida coscienza con cui il poeta si pone di fronte all’attività poetica, nella fattispecie, e all’attività pensante in generale. Sempre nella stessa prosa il poeta assimila il procedimento poetico al procedimento delle reazioni chimiche secondo le leggi della chimica, avvertendo che bisogna evitare il rischio di identificare i prodotti della ricerca colla verità stessa perché tale identificazione, tra l’altro, farebbe venire meno ogni ulteriore impulso e possibilità di ricerca, in quanto quest’ultima “presuppone un soggetto indagante di fronte a un oggetto, il cui combaciamento è impossibile e comunque non auspicabile. Anche coloro che si sono autoconvinti di avere attuato, con la loro ricerca -

1 da una prosa del 10 aprile 1957.

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continua il poeta - tale combaciamento, in realtà non hanno fatto altro che trasferire l’attrito tra oggetto e soggetto dalla zona della coscienza alla zona del subconscio o dell’inconscio innescando così un altro procedimento di ricerca”. Mi pare che si siano enunciati già due aspetti del pensiero di Calogero: a) la poesia come ricerca; b) la poesia come mezzo per giungere a chiarire particelle della vita e dell’uomo che vive.

Se ciò non bastasse aggiungeremo ancora che la convinzione del nostro autore dell’impossibilità da parte della poesia e di tutte le altre branche del sapere di “rivelare” l’universo nella sua interezza nasce da una sofferta riflessione sugli esiti della ricerca scientifica e filosofica del tempo. Scrive, infatti, il poeta in un’altra prosa strettamente connessa alla precedente “essendo l’esistenza di un individuo condizionata da un altro individuo e così ininterrottamente in una lunga catena di altri individui non sarebbe possibile ricavare l’intero universo dell’uno senza che venga compreso l’universo dell’altro, e poiché alle menti umane non è possibile tanto ecco il motivo per cui la scienza deve arenare nell’individuale, laddove il poeta per scienza intende i modi della ricerca così come si esplicitano nei vari rami dell’indagine”.

Un altro aspetto che è bene evidenziare, peculiare del pensiero di Calogero, consiste nella consapevolezza che “l’attività e l’azione chiara e palese dell’uomo rappresenta un valore più alto della più chiara sincera parola”. Pertanto una poesia o ancor meglio un prodotto poetico, perché sia veramente tale qualitativamente, deve essere azione e atteggiamento visibile del poeta verso una data direzione, azione e atteggiamento che trovano la loro espressione meno approssimativa nella parola, nel fatum poetico. Tuttavia per cogliere il rapporto tra i due elementi fondamentali, parola e azione “che entrano nell’atto caratteristico poetico”, “importa

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di intendere tutta la vasta gamma in cui quei due singoli elementi partecipano con un’intensità e diversa quantità”.

All’interno di una singola produzione poetica si viene così ad aprire un ampio ventaglio di esiti poetici: quanto più agire e parola si corrispondono, tanto più un prodotto poetico è significativo. 3

Una costante presente nelle prose di Calogero è costituita dalla riflessione sul valore e sulla funzione del linguaggio in generale e del linguaggio poetico in particolare.

Rilevanti appaiono le sue osservazioni in merito all’evolversi diacronico dei “prodotti conoscitivi” e dello stato cui tali prodotti sono pervenuti. A guisa che il suo pensiero si dipana, si matura in Calogero il convincimento, sempre da lui attenuato dell’immancabile forse (espressione cara al poeta non solo per indicare lo scacco esistenziale, quanto per non precludere, per una sua questione di metodo critico, la possibilità di vie diverse), si matura in Calogero il convincimento ripeto “che di quanto ancora è consentito dire che appaia come nuovo ad altro non corrisponda se non a ciò di cui si è appreso o comunque si è avuta qualche nozione e che novità e originalità di niente altro sono espressione quanto della realizzazione di un miglior uso dei mezzi espressivi. “Tutte le grammatiche - continua il poeta - e le sintassi piut-tosto che essere semplicemente ed esclusivamente un mezzo per l’elaborazione del discorso, possono e debbono essere considerate quali scienze sviluppabili all’infinito per se stesse di cui la poesia come tutte le altre branche...del sapere possano, di volta in volta, servirsi anche per l’uso dei termini e degli elementi più evoluti, cui queste scienze di volta in volta giungono”. In tale prospettiva il linguaggio come fattore tecnico delle singole elaborazioni mentali non indebolisce la

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convinzione che “ogni particella di conoscenza, congiunta a tutte le altre da un lavoro metodico… possa assumere una direzione infinita e svilupparsi coi caratteri di un’estrema libertà interiore del tutto indipendente dal lavoro espressivo da cui ebbe origine”.

Nell’ambito dei manufatti concettuali per Calogero l’originalità consiste nella capacità da parte del soggetto di reperire nuovi spazi semantici e nuove qualità nelle parole già conosciute. Quando infatti il significato interiore della parola viene avvertito “con una maggiore e più profonda penetrazione di sfumature e significati” è possibile accedere alla scoperta, sia pure approssimativa e parziale, di vaste zone prima rimaste nell’ombra. La parola se polisensa si correla pertanto alla conoscenza. D’altra parte per Calogero “il terreno della conoscenza è mutevole e cangiante”, per cui malgrado tutti gli sforzi è assai improbabile anzi impossibile che “la prima cosa toccata” possa mai “collimare con l’ultima”.

In questo contesto la “parola termine alto e conclusivo” è connessa allo sforzo conoscitivo: ma tra tali due termini si interpone “un oceano metafisico” che funge da lente gravita-zionale, per cui non è dato credere che i problemi dell’uomo possano in ultima analisi risolversi nell’ambito della parola se non in modi approssimativi e mai veramente definiti e defi-nibili.

L’intera produzione poetica calogeriana si muove tutta nella direzione dello scarto nei confronti dell’espressione più diretta e dello spostamento semantico, per cui un concetto viene sciolto dalla serie semantica in cui si trova per venire trasferito in un’altra serie semantica sulla linea di pensiero che da Valéry giunge fino a Sklovsky. Per altri aspetti, invece, il pensiero di Calogero è riconducibile alla filosofia esistenzialistica o per meglio dire a taluni aspetti della filosofia esistenzialistica tedesca. Infatti in una prosa sempre del 1957, più precisamente del 31 maggio, Calogero accoglie con te-

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stuale riferimento, le formulazioni che del linguaggio fa Hei-degger in rapporto al problema ontologico dell’essere. In buona sostanza Calogero nell’ambito di tale prosa (riportata pressocché integralmente, considerata la sua rilevanza nella economia poetica di Calogero, nel volumetto) conferma il suo convincimento che l’approfondimento del linguaggio apre la possibilità “di uno scoprimento sempre più profondo del senso dell’essere”. Calogero è ben consapevole, inoltre, che la temperie culturale del suo tempo è ancora tradizionale perché dà più importanza a quanto viene aperto dall’essere aprente, più che all’essere aprente. Laddove per Calogero ciò che conta maggiormente non è “l’aperto” “ma l’essere aprente e cioè la possibilità dell’apertura”.

Si viene così a configurare una direzione di marcia non di facile collocazione, ma comunque sempre aperta e disponibile a muoversi, più che in questo o quell’altro senso, nel mare dell’essere per il graduale e sempre parziale “schiarimento” dello stesso.

Parola e sforzo conoscitivo, attività pensante ed espressività, libertà interiore e quindi azione, sono aspetti integrantesi di un unico procedimento in cui l’equilibrio o meglio il baricentro non è un punto fisso, ma continuamente mobile e cangiante anch’esso. “Basta - dice il poeta - un solo soffio di quelli che danno un maggior significato in profondità ad una sola parola a far sì che tutto il gruppo e il nucleo delle nostre esperienze si dimostri inadeguato a risolvere in pro-fondità e secondo le più lontane direzioni quanto era compreso nel semplice sentimento e nella sensazione di un singolo problema”. 4

Alla radice del pensiero di Calogero, strettamente connes-so al bisogno di conoscenza, vi è il bisogno di libertà interiore,

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componente ineliminabile della condizione umana, o comunque necessaria perché la condizione umana possa essere accettata e pienamente vissuta. Tale esigenza di libertà interiore coniugata alla insopprimibile necessità di conoscenza, tanto da costituire un unicum, non produce verità universali e date una volta per sempre, ma verità individuali e soluzioni parziali che si realizzano nell’ambito di un particolare momento storico e dalle quali risorgono, perché insoddisfatti, i bisogni umani anelanti a trovare risposte più esaurienti alle eterne domande ruotanti attorno alla natura dell’uomo e dell’universo, con tutto quanto ad essi è correlato. Calogero, infatti, diffida di quelle filosofie o comunque di qualunque teoria si presenti con i postulati della verità la più assoluta e indiscutibile che chiuda gli spazi a possibili vie diverse o al risorgere di una situazione problematica e pertanto possibilista. Anche in questo Calogero appare in piena sintonia con quanti negli anni ‘50 avvertivano dei pericoli insiti in quelle teorie vuoi filosofiche, vuoi scientifiche che si presentavano come il diktat della verità.

Infatti il poeta, in una prosa sempre dello stesso periodo (’57), scrive che “la libertà interiore è sentita con così straordi-naria importanza che il sentimento di novità cui si riconduce continuamente l’uomo, sia pure nella sua limitata sfera di valori conoscitivi e di conoscenza individuali”, è così stretta-mente connesso a tale “libertà interiore che sarebbe veramente inefficace qualsiasi studio tendente a dimostrare 1a genesi dell’uno dell’altra e viceversa, o piuttosto la nascita di entrambi da un unico principio indifferenziato il che, come com-plicherebbe i compiti della conoscenza ponendoli dipendenti da un principio cosmico indifferenziato, così sposterebbe la vera natura e sostanza dell’uomo ponendola in una zona così remota e lontana dove non giungono modi espressivi di sorta” puntua-lizzando così non solo la straordinaria e fondamentale rilevanza

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che nell'agire umano ha la libertà interiore, ma stigmatizzando come fuorviante la ricerca localizzata solo e unicamente nella zona antecedente l’uomo stesso e quindi ponendo l'attenzione sull’uomo in quanto tale. D’altra parte che Calogero, nonostante la sua produzione lirica, possa dare l’impressione di una esistenza condotta dal di fuori, fosse invece partecipe e attento osservatore del suo tempo, lo suggerisce un’altra sua prosa nella quale ebbe a scrivere: “Mi dà fastidio persino pensare che esistano opere nelle quali il metodo non sia tale che come non lasci apertura ad ogni più ampia innovazione di pensiero, così non sia che espressione di una così vasta astrattezza da non dare adito ad ombra di polemica”. E ancora “una espressione intellettuale non vuoi dire niente in sé se non sostenuta da tutta una vita e da tutto il calore di un'esistenza completa, nel senso che questa assuma l'unico carattere possibile che rappresenti la spinta verso la conoscenza, la quale in altro non consisterebbe che in un ordinato e risorgente problematicismo. [...] Le soluzioni storiche cui di volta in volta si perviene nel tentativo di far chiaro dentro il mistero sono i soli mezzi più efficaci, nonostante la parte di illusorietà che contengono, che possano guidare come elementi esterni a sciogliere più decisamente la situazione”.

E infine “tuttavia badando al nodo centrale della questione tutto il lavoro poetico sembrerebbe nato dallo sforzo di abbordare uno dei lati della vita, il più prossimo all'uomo durante lo stato di tensione poetica. Si tratti del più forte o del più debole è quanto ancor meno si potrebbe dire. Ad una conclusione attendibile si potrebbe giungere qualora i risultati globali della conoscenza fossero talmente sviluppati che avendo esauriti tutti i problemi presentati, garantissero anche un giudizio dal punto di vista più effimero”.

Continuando, sempre nella medesima prosa, il poeta afferma che spesso si è portati erroneamente a considerare il prodotto poetico come inferiore rispetto ai prodotti degli altri

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ambiti conoscitivi perché la parola poetica tende a sfuggire “continuamente dal suo oggetto sia esso l’uomo, l’animo o la parola stessa, che nel suo significato costituisce una fase distaccata completamente dall’uomo, nel che si concreterebbe quella che si chiama un’esperienza spirituale e una fase conoscitiva dell’essere di un valore nuovo e più immediato”.

Va prendendo corpo in modo consistente l’immagine di un Calogero attento alle filosofie del Novecento e al dibattito culturale che in quel secolo ha visto spesso contrapporsi sistemi di pensiero diversi. Nutritosi in età giovanile sui testi della grande letteratura e filosofia del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento, ha sempre curato per i suoi specifici interessi, di seguire con puntiglio l’appassionata polemica che ha visto lo scontro dei grandi pensatori e scienziati del ’900 le cui elaborazioni mentali e concettuali hanno costituito l’humus fertile dal quale sono scaturite la poesia di Calogero e la sua poetica nella quale è possibile individuare originalmente reinterpretati alcune delle sollecitazioni più rilevanti organizzate in una partitura organica ricca di sfumature.

Per certi aspetti infatti Calogero nega ogni metafisica, per altri riconosce la necessità e la presenza della stessa come humus dell'esistenza umana. Da una parte continua a essere kantiano sia pure attraverso il filtro di Ernst Cassirer e delle sue forme simboliche attraverso le quali si strutturano la cono-scenza umana e la storia, dall'altra si configura come il poeta dell'esistenzialismo per quel suo esplicito convincimento che nel perenne sforzo conoscitivo dell'uomo ciò che maggior-mente conta è la possibilità di apertura. Da una parte afferma con i filosofi della scienza che le superiori forme di conoscenza sono proprie della matematica e della fisica mentre quelle della poesia sono inferiori, dall'altra invece sostiene che la poesia, arricchitasi dell’humus delle altre discipline, è essa stessa scienza, la massima delle scienze e quindi abilitata a collocarsi

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nella posizione più elevata della scala, sia pure limitata, dei valori della conoscenza umana.

Da una parte, i pensieri poetici o non, hanno per Calogero la loro radice in “un dono divinatorio più o meno marcato”, dall’altra si configurano come quantitativamente misurabili.

“Non credo che sia un paradosso - scrive Calogero nel ’57 - ma ove esistessero mezzi così perfezionati di misura e di peso, penso che persino le più alte elaborazioni concettuali potrebbero essere pesate e si vedrebbe che un pensiero ha un peso e un altro peso appartiene ad un altro pensiero”. E per-tanto Calogero (non si dimentichino i suoi studi scientifici e gli interessi in tal senso sempre coltivati: la sua biblioteca era ricca anche di riviste e pubblicazioni scientifiche con le quali si è tenuto costantemente aggiornato, nel campo della psicoanalisi, delle psicologia compresa quella comportamentale), in molte prose tende a: 1) enucleare la genesi scientifico-chimica del generarsi del pensiero umano; 2) ad analizzare scientificamente il prodotto dell’attività umana e nella fattispecie del prodotto poetico, poiché afferma che i prodotti del pensiero sono elementi esterni al pensiero stesso che pure li ha generati, i quali “di fronte agli elementi interni appartenenti alla vita biologica più sensibile dell’attività connessa al generarsi del pensiero, sono la più fisica e inanimata delle materie esistenti”. Soffermandoci su questa ultima affermazione occorre rilevare che Calogero distanzia il prodotto concettuale dal suo autore, ponendo così le basi della vita autonoma di un prodotto, che, esprimendosi attraverso il linguaggio e più precisamente il segno scritto, non coincide né "con l’essere né con la esistenza dell’uomo" ma è solo una particella della conoscenza che coabita e convive con una miriade di altre particelle. Per Calogero il pensiero nasce dalla esigenza interiore di vedere “quanto più possibilmente chiaro tra la propria vita e il proprio futuro” e lo stesso prodursi del pensiero è indissolubilmente legato al futuro, né è dato pensiero non legato al futuro.

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Se dunque il pensiero e il linguaggio, attraverso cui il pensiero si articola, hanno origine da un dono divinatorio, sto-ricamente l’uno e l’altro possono vivere solo attraverso un iter biologico incontestabile e scientificamente incontrovertibile. Se pensiero e linguaggio hanno le loro radici nell’esigenza di libertà interiore, è pur vero che gli stessi sono prodotti finiti, anche se generano un flusso inesauribile sempre più dilatantesi di nuovi prodotti e di nuove particelle di conoscenza e quindi non possono coincidere né con l’essere, né con l’esistenza, né con il mondo, ma sono essi stessi un mondo, un’esistenza, un essere, punti inseriti in un orizzonte conglobante (non mancano infatti anche suggestioni jaspersiane, che Calogero assimila in modo originale perché per lui i vari prodotti poetici e le particelle di conoscenza, pur vivendo una vita autonoma come singolo punto nel gran mare dell’essere, sono strettamente connessi gli uni agli altri in considerazione del fatto che senza soluzione di continuità da un prodotto, poetico o no che sia, si trascolora all’altro in modo non percepibile, anche se poi il nuovo prodotto si distingue dal precedente pur conservandone i tratti più peculiari.

“Rimanendo oscuro il perchè della morte e della nascita dei vari moti conoscitivi, quanto appare chiaro è che ognuno di essi deriva e si accresce dall’accumulo di energie lasciato dagli altri e che esso è tanto più intenso ed esteso quanto più intensa e numerosa è la presenza nella coscienza di tutti gli altri”.

La conoscenza 1) degli iter biologici del farsi del pensiero e dell'attività pensante connessa all'azione ed essa stessa azione 2) dei condizionamenti e dei guasti che gli iter biologici subiscono diventa per Calogero uno degli aspetti che più qualificano ad acquisire la consapevolezza dell’umano esistere senza per questo voler esprimere giudizi di valore.

Il suo forse non necessario ricovero nella clinica di Villa Nuccia (Catanzaro) lo ha messo a contatto diretto con una realtà di sofferenza e di dolore che, invece di annientarlo, lo ha

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arricchito di un’esperienza che gli ha permesso di indagare, con più forza e con un riconquistato amore per la vita, gli interro-gativi eterni dell’uomo nel tentativo di cogliere, come si è già detto, il senso dell’uomo e dell’universo. “Sono stato messo, via via in questi tre anni in contatto ad una realtà sui generis (Villa Nuccia - clinica per malattie mentali). Mi sarebbero, a dir vero, occorsi pochissimi giorni per intendere quello che avevo intuito sin dal primo giorno, ma che ho vissuto specificatamente nel tempo suggestivo. […] Resteranno ancora parecchie cose che io non conosco e forse non conoscerò mai? E pure quello che ho appreso è veramente tanto per cui il titolo che avevo pensato per il mio libro di poesie avrebbe dovuto essere quello di Città fantastica intendendo con tale titolo di designare la possibilità di una capacità espressiva che avesse quasi del fantastico, essendo intercomunicante in tutti i punti di essa”2. 5

Quando si legge qualcosa sui temi della poesia calogeriana, si rileva da talune parti un accentuato insistere sul tema dell’amore come predominante nelle sue liriche, cui si attribuisce una concezione pura e angelicata di esso (non a caso taluni parlano, a proposito di Calogero, di “amore dell’amore”) lontana del fremito delle passioni e dei sensi. Secondo tale interpretazione il poeta avrebbe avuto la ventura di vivere questa privilegiata condizione di purezza, la cui espressione definitiva e massima verrebbe appunto esplicitata dall’amore dell’amore che si identifica con l’immagine femminile.

In realtà, alla luce di quanto riscontrabile, in forma variamente elaborata e più o meno stilisticamente perfezionata e compiuta, nei suoi quaderni, lo stato di purezza non è affatto una conquista né un modo di essere, ma una tensione costante dell’uomo Calogero che, nutritosi ad una concezione per così 2 In appendice viene riportata quasi integralmente il testo della lettera indirizzata a Vittorio Sereni nel 1960.

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dire, puritana dell’amore, viva sia nelle tradizioni familiari sia in quelle socio-culturali del Meridione e del tempo, non oserà mai liberarsi di questo impaccio, ma abilmente travestirà o, ancor meglio, sublimerà i morsi del desiderio e della passione tutta terrena attraverso una serie di passaggi formali e di astrazioni concettuali che tendono a non fare apparire i fremiti della passione, linguisticamente dissimulati nel cielo limpido e cristallino della poesia la più rarefatta ed assoluta. “ Non c’è nulla di se stesso che non sia un po’ vergognosa; parlare di se stesso è pertanto una specie di tradimento. È per questo che i poeti preferiscono parlare dell’essenza a priori delle cose, in quanto questa è più o meno distante dal comune modo di essere e non sfiora che molto alla superficie questo”, scriverà il poeta in una prosa datata 5 marzo 1957, immediatamente, non a caso, successiva alle liriche da lui composte in data 4 marzo 19573 e rinvenibili della sezione “liriche”(XXIV-XXX).

Infatti la lirica XXIV del 3 aprile 1957 costituisce una esemplificazione evidente di come una passione intensa e fortemente ancorata alla terrestrità muova l’espressione poetica:

… e si libera un canto che tu sapevi tra i baci - tu così densa per morire - Ma forse sapevo interrogarti - è giunta l’ora del caprifoglio e tu mi piaci nell’ora che sta per venire - Questo foglio sapevo stamparti fra baci o quel giorno quel mese che non giunge mai o come uno riverso come uno di loro, entro quel grammo di salsedine che ti copre le giunture le dita le braccia le mani –

3 La data reale è 3 aprile poiché il gruppo delle liriche citate si trova in un quaderno la cui prima poesia è datata 23 marzo e l’ultima 28 aprile. L’autore ha invertito le cifre; si accorge dell’errore e apporta la correzione a partire dal 7 aprile.

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Siamo di fronte a una così eloquente pagina d’amore, e non di amore dell’amore, che ogni commento si appalesa superfluo. Sia sufficiente dire che la sottesa malinconia del poeta, che si addensa attorno alla aerea pensosità di Ma forse sapevo interrogarti - è giunta l’ora del caprifoglio, si coniuga felicemente con un lampeggiante fuoco di immagini appassionate. L’anello di congiunzione della dilemmatica concenzione dell’amore è dato, oltre che dalla polivalenza semantica di Ma forse sapevo interrogarti e dalla sua collocazione materiale anch’essa polivalente (siamo di fronte a una lirica di 16 versi e Ma forse sapevo interrogarti cade non casualmente all’ottavo verso, in posizione quasi da spartiacque) anche e soprattutto dall’esplosivo segmento poetico è giunta l’ora del caprifoglio, da cui dirompente rampolla il successivo fuoco di immagini d’amore.

Il caprifoglio infatti, in questo contesto, non è un topos letterario, ma una scelta poetica ben determinata: esso è un’agile e flessuosa liana ingentilita da fiori bianco-rosei che esalano un intenso profumo, particolarmente nelle ore notturne. Vi è, in sostanza, una chiara, seppur dissimulata, allusività all’eterno femminino con tutta la complessità dei sentimenti, dei simboli, dei valori archetipi che esso suggerisce e che è una costante che si ripresenta puntuale nella storia del pensiero.

Ma per ritornare a quanto premesso circa la concezione dell’amore in Calogero, vediamo un po’ di seguire come dalla menzionata lirica si snoda il canto poetico. Nei successivi brevi frammenti (XXV, XXVI, XXVII) il poeta dissolve la materia poetica della lirica in singoli elementi per approdare ad un ulteriore scavo linguistico e ad una interiore chiarificazione dei termini precisi di quella sensualità già individuata nella citata lirica e che ora assume contorni aspri e spigolosi.

Dopo queste puntualizzazioni, se così si può dire, che il poeta fa a se stesso, l’eloquio poetico si rifà nuovamente articolato e complesso: nasce così la lirica che, con significato

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assai pregnante e fortemente allusivo, comincia con il verso scandito ma ancora sapevi ascendere (XXVIII). L’ascensione avviene nei modi campaniani attraverso i vicoli ciechi e bui della notte sulla città (come non ricordare Genova e Firenze di Dino Campana?) dove:

… questo cieco istinto spariva come larva – e furono d’incanto in due ignude le parole - ed una languiva sotto il delirio del sole- cosi come sulla strada – una lacrima è discesa sulla tua pelle - l’avevi sognata

Dopo essere giunta con tale lirica alla sua massima espansione, la tensione poetica si placherà nella dolcezza di un canto che si effonde nei cieli della “purezza”. Infatti la lirica, liberata dai grumi della passione, sublimata per così dire nel cielo anodino dell’astrazione poetica, ci dona il pacato componimento e il bosco non è ombroso come prima (XXX) in cui l’indecisione del poeta tra le varianti trepido e funebre ci riporta alla sorda lotta delle liriche immediatamente precedenti, mentre la chiusa finale:

Tu un casto canto sapevi opaco; ma poi l’ombra è scomparsa da sempre-

non solo ci riporta, così come l’attacco, alla lirica e si libera un canto, bensì ci rende accorti che la passione, ombra che turba, è scomparsa. Ciò che, però, fa stare all’erta, è la postilla ultima da sempre. Tale postilla poetica, che postilla non è, elucida che il canto è intrinsecamente opaco e che la fuga dell’ombra (ombra generata dall’offuscamento della mente e dell’anima e fuga generata da una sofferta e interiore chiarificazione) si limita a renderlo intellegibile.

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È evidente il tentativo del poeta di districare la densa matassa sentimentale per portare alla chiarezza del logos i recessi più nascosti dell’io, del quale si vogliono cogliere tutti i nessi più filiformi e le intercapedini più infinitesimali per giungere alla scaturigine, al farsi e al divenire della vita. In quest’ottica va interpretata una peculiare costante della poesia calogeriana: la ripresa, cioè, nelle liriche successive di segmenti poetici più o meno estesi già adoperati in posizione semantica e fonica di rilievo in liriche precedenti. La ripresa di parole o espressioni poetiche già usate, obbedisce, infatti, ad una esigenza interiore di ulteriore scavo linguistico-semantico, riconducibile ad una stringente necessità di conoscenza e di immersione, per poi riemergere nelle particelle più elementari di ciò che costituisce il generarsi della vita e dell’essere in un processo conoscitivo infinito, che procede per accumuli strettamente connessi o comunque contigui e che non giungerà mai ad un termine.

Il poeta, partito da un primo moto, in cui il poetare ha funzione meramente strumentale, riprende di lirica in lirica più segmenti poetici che si rincorrono in approfondimenti sempre più estesi fino a quando dal primo moto si trascolora, senza soluzione di continuità, a un successivo moto che, sostanziato dagli esiti delle liriche precedenti, dà avvio a un nuovo processo conoscitivo a effetto stagno in direzione sia orizzontale che verticale: e così via senza fine.

Non siamo pertanto in presenza di leit-motiv o di parole chiave stricto sensu, né di moduli poetico-strutturali campaniani (per Campana il dualismo è apparente, per Calogero è una necessità ineliminabile), bensì di un procedere per anelli concentrici legati l’uno all’altro, che si attorcono a spirale lungo un iter inesauribile e inesausto, per un’intrinseca necessità del poeta di trasformare, pur nella consapevolezza della inadeguatezza connaturata ai mezzi espressivi e alla struttura della Poesia, la stessa in scienza esatta, in conoscenza

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pura e di assegnarle una funzione catartica non risolutiva e data una volta per sempre, ma provvisoria e perennemente rinnovatesi, dalla quale, però, Calogero trae nutrimento per proseguire nel suo cammino multidirezionale sulla strada della conoscenza. Sotto tale profilo, anche certo armamentario poetico, a prima vista farraginoso e artefatto, non può essere definito bric à brac o giuochi da paravento giapponese, bensì uno dei possibili percorsi intrapresi coerentemente alla sua concezione del ruolo e della funzione della poesia.

“Se una visione veramente spasimante ha il poeta nell’ordine dei suoi tentativi poetici è che ogni parola del suo animo potrebbe essere il centro di un mondo irradiantesi in una infinità di pensiero, del quale, come non conosce l’inizio, non conoscerà mai la fine; e per quel che gli riguarda, per il modo di una completezza di visione, come lo rimanda continuamente ad origini ed inizi sempre più remoti, così l’allargarsi della cerchia dei possibili fini verso orizzonti più vasti e sconfinati lontanissimi”.

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Biografia essenziale 28 maggio 1910

Lorenzo nasce a Melicuccà (Reggio Calabria) terzo di sei figli (Domenico, Paolo, Concettina, Francesco, Pasquale),da Michelangelo Calogero e Maria Giuseppa Cardone, proprietari terrieri.

1915-18

Primi studi elementare a Melicuccà.

1919-21

Quarta e quinta elementare nella vicina Bagnara Calabra presso gli zii materni.

1922-28

La famiglia si trasferisce a Reggio Calabria per consentire ai figli di frequentare le scuole superiori. Lorenzo frequenta l’istituto tecnico e il liceo scientifico. Tutti gli altri, ad eccezione di Concettina, frequentano il Liceo Classico.

1929

La famiglia si trasferisce a Napoli per consentire ai figli di frequentare l’Università. Lorenzo si iscrive in Ingegneria.

1930

Lorenzo lascia gli studi di Ingegneria e si iscrive alla Facoltà di Medicina.

1932-33

Scrive molti versi a parte dei quali successivamente darà il nome di 25 poesie. Poco Suono, Parole del tempo; manifesta le prime patofobie.

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1934 La famiglia Calogero rientra a Melicuccà per ristrettezze economiche. Lorenzo comincia a mandare senza esito poesie a premi, riviste, case editrici; ne manda anche a Piero Bargellini.

1935

Riprende a frequentare a Napoli la facoltà di Medicina e riceve dalla Reale Accademia d’Italia una sovvenzione premio di L.1000. Scrive a Betocchi inviandogli alcuni manoscritti.

1936

Si accentuano le patofobie. Esce per la Centauro Editore il suo primo libro Poco suono. Vive a Napoli. Continua la corrispondenza con Betocchi.

1937

Conseguita a Napoli la laurea in Medicina.

1937

Consegue a Siena l’abilitazione per l’esercizio della professione.

1938-39

Esercita a Melicuccà. Si interrompe la corrispondenza con Betocchi.

1940-45

Esercita la professione di medico in diversi paesi della Calabria. Tra il 1942-1943 tenta il suicidio sparandosi in direzione del cuore. Nella primavera si fidanza con una ragazza di Reggio Calabria di nome Graziella con la quale inizia una lunga corrispondenza. Si rifugia spesso a Melicuccà

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1945-50 Abbandona i posti di lavoro, si rifugia sempre più spesso a Melicuccà. Rompe il fidanzamento. Precario il suo stato di salute a causa disturbi polmonari. Scrive molto.

1951-53

Invia i suoi manoscritti a molti scrittori, poeti, uomini di cultura sempre con esito negativo.

1954

Ottiene l’incarico di medico condotto ad interim a Campiglia d’Orcia (SI). Invia dattiloscritti a Einaudi recandosi a Torino e Milano per incontrarlo, senza esito. Non riesce a recuperare i manoscritti inediti.

1955

Riscrive a Einaudi con esito negativo. Esce a pagamento Ma questo. Scrive a Leonardo Sinisgalli l’unico che apprezzerà la sua poesia subito e si interesserà a lui con amicizia e stima. Viene dimesso dall’incarico di medico condotto con una delibera comunale.

1956

Sempre a pagamento escono Parole del tempo e Come in Dittici quest’ultimo con l’interessante prefazione di Sinisgalli. Silenzio della critica. Primo ricovero nella clinica per malattie nervose a Gagliano di Catanzaro (Villa Nuccia). Vuole essere dimesso e solo dopo il tentativo di suicidio (si recide le vene dei polsi) otterrà di rientrare a Melicuccà. Muore la madre. Nuovo ricovero.

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1957 Vince il premio di poesia Villa S. Giovanni. Cerca senza esito editori. Nuovo ricovero; compone molti versi.

1958

Trascorso interamente a Villa Nuccia, continua a comporre.

1959

I primi mesi a Villa Nuccia, il resto a Melicuccà.

1960

Vive solo a Melicuccà; contatta Sereni presso la Mondadori inviando un manoscritto. Si reca a Roma da Sinisgalli per essere ricoverato al policlinico. Viene ricoverato ma dopo due giorni, senza alcun preavviso, si allontana per rientrare a Melicuccà.

1961

Conduce una vita ritirata sempre a Melicuccà. Viene trovato morto nella viletta di Melicuccà dove è spirato presumibilmente tra il 22 e 25 marzo.

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Bibliografia delle opere e della critica4

autore;

n Avvertimento di

i Roberto Lerici e Giuseppe

, Milano giugno 1962; comprende Come in dittici e

966; comprende Ma

- Poesie Scelte e Sedici Poesie ico, Angela

gi Tassone; Rubbettino Editore, Soveria

10 poesie, in AA.VV., Dieci poeti; Centauro Editore, Milano 1935, pp. 110-123. Poco suono (1933 – 1935); Centauro Editore, Milano marzo-aprile 1936. Ma questo…(1950 – 1954); Maia, Siena settembre 1955. Parole del tempo (1932 – 1935), con una Premessa dell’Maia, Siena gennaio 1956; comprende 25 poesie (1932 – 1933), Poco suono (1933 – 1935), Parole del tempo (1933 – 1935). Come in dittici (1954 – 1956), con uLeonardo Sinisgalli; Maia, Siena settembre 1956. Opere poetiche - vol. I, a cura dTedeschi, con una Prefazione di Giuseppe Tedeschi; Lerici EditoriQuaderni di Villa Nuccia (169 poesie scritte tra il febbraio 1959 e il maggio 1960). Opere poetiche - vol. II, a cura e con un’Avvertenza di Roberto Lerici; Lerici Editori, Milano maggio 1questo… e Sogno più non ricordo (1956 – 1958). Perpendicolarmente a vuotoInedite, a cura di Giuseppe Bova, Rodolfo ChirStillo; Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria maggio 1982. Poesie, a cura di LuiMannelli (Catanzaro), maggio 1986; contiene alcune poesie

4 La bibliografia delle opere, della critica e i giudizi critici, che qui si

tati nell’Introduzione, nel commento alle quattro liriche finali nuovamente proposte, allo studio dell’autore in generale.

presentano, hanno una funzione essenzialmente introduttiva. Essi mirano, infatti, a fornire gli strumenti che paiono alla curatrice più idonei a un primo approfondimento dei temi e dei problemi trat

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tratte da 25 poesie, Poco suono, Ma Questo, Come in dittici, Sogno più non ricordo, Quaderni di Villa Nuccia.

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Giudizi critici essenziali

he gli fu necrocio di tendenze, rifiutandole tutte per non impoverirsi, in-ter

a altezze degne di Novalis, di Nerval, di Rilke; da noi non vedo esempi analoghi..

Letteratura italiana del nostrosecolo:

La sua pienezza lirica sconcertante mantiene in stato di arità i fattori psichici e quelli formali, e la perizia musicale

co

Giuseppe Ungaretti ha dichiarato e scritto: «Lorenzo

Calogero con la sua Poesia ci ha diminuiti tutti». Il Premio Nobel Eugenio Montale, sul Corriere della Sera: «... quel che sembra certo è che... fu dotato di un reale tem-

peramento poetico ed è quindi da escludersi un abbaglio da parte di coloro che oggi vogliono rendergli l’onore c

gato in vita... Calogero ha lavorato per molti anni in un in-

amente posseduto "dal demone dell’analogia della simili-tudine"».

Questo il giudizio di Giancarlo Vigorelli: «Persino dove persuade meno, tanto è una poesia privatis-

sima, nessuno può negare la miracolosa continuità, che di un diluvio di versi fa un coerente poema unitario. Un poema or-fico, che h

.».

Queste alcune righe di Giorgio Zampa: «...il grande retaggio della poesia moderna lasciato dal

Mallarmé... è stato assunto da Calogero e riportato a una pu-rezza che oggi... direi sia senza equivalente...».

Così Giacinto Spagnoletti, in

«p

mpie l'operazione conclusiva, come si può riscontrare nel secondo gruppo dei Quaderni. Sorprendente è sempre questa capacità di analisi ad oltranza, che talvolta si traduce in

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sensazioni di stare dentro il cosmo svestito, spirito informe, desolata espreegistro di questa analisi raggiunge il culmine, Calogero si ffonde in una sorta di miracoloso addio alle cose (che invece

pe

tore:

«…si ha l'impressione che tutto si sia sviluppato sotto il v

posizioni bellissime, né della sua perizia musicale...». (The Times Literary Supplement, Londra)

essamente e pare costretta a esprimersi per puro effetto di magia...».

Dieter Solneman (Die Welt, Amburgo) «...egli non entra nella poesia, non si mette a scrivere come

quei comodi spacciatori di parole che ben conosciamo. No, Calogero si è trovato davanti alla poesia come di fronte all'ultimo rifugio, il solo modo di manifestarsi a se stesso,

ssione della vita allo stato puro. Quando il re

rsistono ad illuderlo di continuo)». Queste le opinioni più interessanti e pertinenti tratte dalla stampa

estera, a seguito della pubblicazione delle Opere Poetiche, nel giugno 1962, a cura di Roberto Lerici Edi

li ello della coscienza. Le immagini si fondono, le parole si associano stranamente, spesso la sintassi è dislocata, i ritmi quasi ipnotici. Non si può dubitare che questo flusso abbia una forza straordinaria e neppure si può dubitare della abilità di Calogero nel disporre le immagini in improvvise giustap-

«...l'allegoria domina il suo linguaggio in una forma de-

moniaca spesso inafferrabile razionalmente e nelle sue poesie trasognate è racchiuso il poeta come vi fosse sepolto. Nulla di concreto, nessuna immagine, nessuna forma resta nella me-moria, ma solo il mormorare della sua anima che vibra som-m

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l'unica possibilità di vita...».

Jo Guglielmi (Action poétique - Grenoble)

«...si tratta di un monologo senza fine dove il tessuto lirico

ha due leitmotiv, l'amore e la morte... La sua dizione è musicale...le immagini suggestive, passano con visioni di orizzonti sfuggenti effetti di luce misteriosi, tramonti infuo-cati...».

Av Anders Osterling (Stockholms Tidningen - Stoccolma)

«...un testo di sorprendente grandezza e originalità. Tutto è immediato, predestinato, fatale. La sua condizione quotidiana si confonde con un presentimento di ordine universale... il deserto in cui egli visse si trasforma in un abbraccio cosmico. E l'amore, che egli cercò sulla terra, si trasforma magicamente in memoria, ai margini dell'oblio...».

(Supplemento Literario - San Paulo)

«...è stata pubblicata in un volume imponente l'opera lirica di questo poeta scomparso prematuramente che apparteneva alle tragiche figure di poeta solitario che l’Italia ha sempre conosciuto sino dal tempo di Leopardi...».

Arianna Giachi (Frankfurter Allgemeine Zeitung - Francoforte)

«...questo semplice e coerente lirico italiano ci colpisce con i suoi versi come un'autentica scoperta e ci sembra giusto metterlo in rapporto con Éluard... la lirica di Calogero è una lirica di nostalgia dell' amore. Era questa l'unica forma di vita che resistette in lui fino alla fine...» ………………………………………….A.R. (Telegram - Zagabria)

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di Lorenzo Calogero

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re la punteggiatura originale e ogni altra tica presente nei manoscritti.

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