linkati alla storia. la narrazione biografica nell'era delle comunicazioni sociali

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Perché nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web non è anacronistico? Quali sono le motivazioni di fondo che spingono milioni di utenti a digitare sui principali motori di ricerca per capire e rileggere le biografie di uomini e donne che hanno determinato il corso degli eventi? Un sociologo e un giornalista indagano sul fenomeno della crescita d’interesse verso la storia e le biografie nell’era dei social network, del multitasking e della realtà aumentata. Ne emerge un quadro nuovo e originale.

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Claudio Saita / Vincenzo Grienti

Linkati alla storiaLa narrazione biografica

e il ruolo delle comunicazioni sociali

Euno Edizioni

Sommario

Presentazionedi Claudio Saita e Vincenzo Grienti 7

La narrazione biograficanell’era della contemporaneitàdi Claudio Saita 13

Rosario LivatinoUn uomo affamato di giustizia 59

Giacomo AlberioneTestimone del Vangelo attraverso i media 63

Don Lorenzo MilaniPrima leggere, poi fare cultura partendo dalla scuola 69

Nino BaglieriL’atleta della fede 73

Paul ClaudelQuando il corpo esprime la poesia di Dio 77

Emmanuel LévinasLa filosofia del limite 81

© 2015Euno EdizioniVia Mercede 2594013 Leonforte (En)Tel. e fax 0935 905877info@ eunoedizioni.it - www.eunoedizioni.it

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Agostino GemelliLa sfida culturale del primo dopoguerra 85

Ryszard KapuscinskiIl cronista che ascoltava le persone 89

Giovanni Paolo IIIl Papa pellegrino 93

Gianna Beretta MollaUna vita per la famiglia 97

Enrico MatteiProtagonista del miracolo economico 101

Alcide De Gasperi e Giorgio La PiraQuando la politica è vocazione 105

Padre Mariano da TorinoPioniere della televisione italiana 111

Igor ManIl vecchio cronista che incontrò i grandi della Terra 115

Luigi SturzoL’azione politica come alta forma di carità cristiana 119

Annibale Maria di FranciaIncisore di vocazioni 125

Giovanni PalatucciUn eroe normale nella tragedia della guerra 129

Edith SteinIl coraggio e la fede al servizio dell’umanità 133

Adriano OlivettiQuando l’impresa è al servizio dell’uomo 139

Conclusioni 143

Bibliografia 151

Presentazionedi Claudio Saita e Vincenzo Grienti

In tempi di politica e antipolitica, di V-day e Grillo Boyspotrebbe sembrare anacronistico un saggio che raccogliealcune biografie del Novecento facilmente rintracciabilisu Internet. Eppure, nonostante i social network, i postdei blogger, i dibattiti televisivi, i reality show, la vita dialcuni protagonisti della politica, della scuola, del mondosociale e culturale, italiano ed estero, è da rileggere e ri-percorrere non solo per fare memoria e rendere onore allaloro testimonianza, che in taluni casi è sfociata nel marti-rio, ma anche per sottolineare come nella ciclicità dellaStoria ci siano stati uomini e donne che, pur non essendoeroi paragonabili a quelli della mitologia greca, hannocreduto nella possibilità di vivere e impegnarsi per il be-ne comune, per gli altri, per la comunità.

Da qui la scelta del titolo Linkati alla storia. La narra-zione biografica e il ruolo delle comunicazioni sociali.Solo “linkandosi” alla Storia si possono riscoprire esem-pi virtuosi a cui ispirarsi anche oggi. Infatti, ogni singo-la biografia contenuta in questo saggio, induce a riflette-re in quali condizioni sociali e culturali si trovarono uomi-

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servono operai che, con il genio della fede, sappiano farsi interpretidelle odierne istanze culturali, impegnandosi a vivere questa epocadella comunicazione non come tempo di alienazione e di smarrimen-to, ma come tempo prezioso per la ricerca della verità e per lo svilup-po della comunione tra le persone e i popoli (Discorso ai partecipan-ti al Convegno per gli operatori della comunicazione e della culturapromosso dalla Conferenza episcopale italiana, 9 novembre 2002).

Un esplicito richiamo a quegli “operai” come RosarioLivatino convinto che la giustizia è necessaria, ma può edeve essere superata dalla legge della carità; don Giaco-mo Alberione che ha dato alla Chiesa nuovi strumentiper esprimersi e dare vigore e ampiezza all’annuncioevangelico; don Lorenzo Milani, la cui missione fu di in-segnare a leggere; Nino Baglieri, la cui conversione esofferenza restano una grande testimonianza di fede;Paul Claudel, la cui arte e letteratura, dopo la conversio-ne, sono state protese a quell’armonia dell’uomo e delsuo corpo che è espressione di Colui che ci ha creati; pa-dre Agostino Gemelli, che dedicò la sua vita alla trasmis-sione dei nuovi saperi e delle conoscenze.

Da queste e altre biografie che hanno caratterizzato lavita culturale del secolo scorso è possibile individuareuna chiave di lettura, forse non pienamente originale, mada riproporre alle nuove generazioni e da far riscoprire al-le generazioni precedenti. La chiave di lettura da tener be-ne in mente nello scorrere questo saggio è il bene comu-ne, la prossimità verso l’altro, la solidarietà intesa comeaccoglienza dell’altro, la carità, il coraggio, la dignità. Tut-ti fattori che sono scritti nel Dna di ogni singola storiaumana contenuta in quelle che si possono definire schedebiografiche a impatto immediato. Il denominatore comu-ne però di questa carrellata di biografie – stilata nella con-sapevolezza che non è esaustiva – è il concetto di iden-tità legato proprio a quello del bene comune. Senza una ve-

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ni e donne come Giovanni Palatucci, Edith Stein, Adria-no Olivetti, Ryszard Kapuscinski, Karol Wojtyla, Gian-na Beretta Molla, don Lorenzo Milani, Alcide De Gaspe-ri, Giorgio La Pira, Emmanuel Lévinas, Paul Claudel e tan-ti altri quando decisero con le loro idee e le loro azioni dicambiare il corso degli eventi.

Basta percorrere le città, sia grandi che piccole, percomprendere che c’è desiderio di cambiamento e di spe-ranza per una svolta pacifica e seria a favore delle catego-rie sociali più povere ed emarginate. In fondo il compitodi ogni cittadino e di ogni persona impegnata nella politi-ca, nella magistratura, nella scuola, nel mondo dello sport,nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali, nella societàcivile e nelle organizzazioni di volontariato, dovrebbe es-sere proprio quello di impegnarsi per il bene comune.

Le diverse culture e religioni, i diversi regimi politicipossono essere misurati rispetto al loro servizio al benecomune se rispondono e si confrontano con quelle legginon scritte che caratterizzano il cuore dell’uomo e si con-cretizzano nell’esplicitazione di quei diritti inalienabilidella persona alla vita, alla libertà, all’educazione, al la-voro, alla sussidiarietà come libertà di iniziativa sociale,alla democrazia come ricerca del bene comune.

Scriveva don Luigi Giussani:

Democrazia non è solo rispetto di procedure formali, ma dialogoche nasce da un rispetto attivo verso l’altro [...] che giunge a una co-munione tra le diverse identità ideologicamente impegnate (Il cam-mino al vero è una esperienza, BUR, Milano 2006, p. 190).

Linkati alla storia è un titolo-paradosso che vuole ri-chiamare il termine su cui si basa la rete internet, link ap-punto, con la parola storia.

Scriveva Giovanni Paolo II – di cui in questo saggioviene riproposta la grande figura – che nella società

gio e l’umiltà di voler dare il proprio contributo alla co-munità in nome di quei grandi valori di giustizia, solida-rietà, carità e bene comune che restano intramontabili.

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ra conoscenza della propria identità, per tutti questi “eroidel quotidiano” del Novecento non sarebbe stato possibi-le adoperarsi per il bene comune e per la collettività.

Questo saggio vuole essere pure una pillola di speran-za per quanti sono pervasi da sintomi di sofferenza socia-le e culturale che possono sfociare nella perdita di fiduciae in tutti quei comportamenti sintomatici che rappresenta-no il tentativo disperato di trovare la soluzione all’enigma,oggi della crescita e domani della presa di responsabilitàquando da adulti si affronteranno le sfide della vita.

Le biografie qui proposte hanno dato un esempio digrande speranza. Ognuna di esse ha dato un contributonotevole alla società umana incidendo non poco sullacultura del tempo. Scorrendo le vite e le opere di questipersonaggi sorge spontanea una domanda: quante voltenella società attuale i casi di cronaca descrivono compor-tamenti di uomini e donne, anche con ruoli rilevanti a li-vello politico, manageriale, imprenditoriale e culturale,che rifiutano di assumersi le proprie responsabilità davan-ti alle piccole o grandi comunità che guidano? Nella so-cietà dell’immagine in cui tutto è perfezione, design es-senziale, stile minimal, e in cui tutto deve essere sempree comunque efficiente, ottimizzato, razionalizzato, lebiografie qui raccolte sembrano quasi dare uno “stop” aquella corsa all’organizzazione dei comportamenti tuttaproiettata, da parte di giovani e adulti, a far credere di“avercela fatta”, di “aver superato l’ostacolo”, di “averfatto carriera” di “aver già conquistato subito il potere”,la visibilità sociale e, perché no, il dominio.

Ebbene, rileggendo le sedici biografie di questo sag-gio non si scorgerà nessuna smania di potere, nessunaazione diretta a ottenere visibilità e l’apice del successoper sopraffare l’altro. Ciò che ha fatto entrare questi per-sonaggi nella Storia – non è retorica – sono stati il corag-

La narrazione biograficanell’era della contemporaneitàdi Claudio Saita

Se vuoi costruire un’imbarcazione non preoccupartitanto di distribuire il lavoro tra gli uomini, [...] vedipiuttosto di risvegliare in loro la voglia del mare.

A. De Saint-Exupéry

1. La domanda iniziale

Il motivo per il quale nasce questo nostro lavoro va cerca-to nel fatto che – nell’epoca definita dell’accesso (J. Rif-kin, 2000) da tanti studiosi di aree diverse del sapere, masoprattutto della contemporaneità, secondo molti altriautori (Bauman, Magatti, Barcellona ecc.) – ci siamo po-sti la domanda della pratica della narrazione. La questio-ne, a nostro avviso densa di importanti conseguenze teo-riche e pratiche, la solleviamo mediante la presentazionedi brevi profili biografici relativi a personaggi noti e menonoti vissuti nel “secolo breve”. Uomini e donne di diversaprovenienza per cultura e ruolo sociale, umili servitoridello Stato, preti, statisti e operatori della comunicazione,papi e giudici, filosofi, insegnanti, imprenditori, intellet-tuali o semplicemente persone animate da fede e da pas-sione per il bene comune. La prima questione da affron-tare, quando si leggono storie di vita come queste, è: qua-li domande suscitano queste biografie e quale significatopossono alimentare le loro azioni nell’epoca attuale?

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cità d’espressione teatrale, quella che Sennett definisce larecitazione. Il Soggetto, rinchiuso dentro se stesso, colti-va prevalentemente forme espressive emozionali non si-gnificanti nella scena pubblica («società intimista», Sen-nett) perché se la recitazione esige un pubblico di scono-sciuti, essa diviene deleteria quando la si esprime solocon gli intimi. La recitazione è un’arte pubblica perché siavvale di gesti rituali e convenzioni che intendono pro-durre effetti riflessivi nella platea dei destinatari. La nar-razione diventa recitazione perché nasce dalla necessità divivere e di dare un significato all’esistenza anche attraver-so la comunicazione pubblica. Con la recitazione non sisalva appena il vocabolario ma si cerca di ridare contenu-to a parole svuotate di contenuto reale. Quanto più i sog-getti sono privati della loro dimensione pubblica, e il pri-vato (la coscienza), ciò che suscita l’azione, è ridotto aintimismo o psicologismo, tanto più viene loro sottrattala possibilità dell’esercizio quotidiano delle loro capacitàteatrali. Per questa ragione i membri di una società inti-mista sono definiti da Sennett «artisti privi d’arte». L’ar-tista, homo laborans, che intende mettere in scena ele-menti appartenenti a una storia singolare ma interessantiper tutta la polis, non potrà cogliere il senso né forgiareprincipi che implichino una permanenza indipendente diquello che si realizza nel mondo, per l’appunto il raccon-to che diventa la storia di un’unicità umana. Anche l’arti-sta diventa un homo faber nella cui opera il discorso svol-ge una funzione residuale, quasi strumentale, perché tuttoin lui si riduce in mezzo per portare avanti il progetto cheha concepito. Il nostro tempo è perciò considerato da ungrande antropologo una «modernità in polvere» (A. Ap-padurai, 2012), un movimento simile alla diaspora, per-ché senza ritorno di senso. Una situazione, quella attua-le, in cui si diffondono «le forme diasporiche della no-

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2. Lo scenario del Soggetto Intimistico e la fine del racconto

Il nostro è un tempo definito dalla letteratura antropo-logica un paesaggio globalizzato, apparentemente unifor-me ma in realtà drammaticamente frammentato e attraver-sato da movimenti di protesta e flussi umani decisamenteeterogenei. Queste culture e uomini in movimento sonouno dei frutti dell’odierno fenomeno «d’interconnessioneglobale» (J.E. Stiglitz, 2002) che ha creato indubbi van-taggi ma anche altrettanto legittime opposizioni. Il “pae-saggio” ora descritto è stato efficacemente definito unpianeta abitato da «globalizzati e scontenti» (S. Sassen,2002), espressione dalla quale si evince che si è rotto l’e-quilibrio fra il centro e la periferia, fra lo stanziale e l’iti-nerante, e che l’esplorazione dei luoghi dove si concen-trano ricchezza o povertà consente di decifrare i nuovi re-gimi di connessione fra le nuove forme del potere post-nazionale e gli apparati scientifico-tecnologici.

Uno scenario caratterizzato da una forte disintegrazio-ne dei legami primari e secondari che rende tendenzial-mente poco leggibile la “grammatica dei segni” del tes-suto connettivo della polis. Una delle ragioni di questadifficoltà interpretativa risiede nell’impossibilità episte-mologica di definire nella globalizzazione un legamesensato fra la dimensione individuale dell’azione (oikos)e la dimensione pubblica (ekklesìa), diaframma che de-termina quell’effetto di singolarizzazione (P. Barcellona,2003) che produce «l’eclissi del Soggetto» (A. Touraine,1993) nella società «dell’opinione pubblica» (J. Haber-mas). L’impossibilità di definire epistemologicamente lemodalità di connessione fra le due dimensioni, privata epubblica, ha provocato nell’Occidente il declino dell’«uo-mo pubblico» (R. Sennett, 2006), il fallimento della capa-

te della loro «razionalità strumentale» (M. Weber) posso-no essere per i teorici del sistema unico globalizzato solooggetto di narrazione biografica. In altri termini, il rac-conto biografico dell’umano, nell’era del pensiero uni-forme, perde la sua natura di linguaggio comunicativoper divenire un semplice strumento, una tecnica, persemplificare e rendere leggibile la storia di una vita mos-sa da motivazioni non chiare, non razionali, scopi non fa-cilmente identificabili secondo un criterio etico-utilitari-stico. Il racconto biografico appare così come la grande«simulazione» (P. Barcellona, 2003) di fatti accaduti dagodere nell’immaginario privato che proietta i propridesideri in un mondo virtuale. Questa narrazione perdepertanto l’interpretazione, il valore, il tono, il senso dellinguaggio che comunica una storia. Si trasforma in piat-ta e inspiegabile descrizione di sequenze di fatti che ri-guardano il mondo intimo del soggetto protagonista dellastoria. La narrazione biografica rimane solo l’espressionedi un fatto del tutto privato a cui «una società confessio-nale» (Z. Bauman, 2013) assicura una certa audience perragioni che risiedono nell’equilibrio “democratico” del si-stema. Questo racconto del protagonista, come si evinceanche da alcuni dei profili presentati, può giungere fino al“sacrificio”, l’atto supremo del “dare”. Nella chiave inter-pretativa offerta dalla teoria utilitaristica, l’esito finale delsacrificio nella dialettica con la realtà viene definito “ilsogno”, la sublimazione della privacy intimistica destina-ta, suo malgrado, a non incidere sullo sviluppo linearedella realtà. Con questo profilo storico fortemente psico-logizzato, il protagonista di una storia perde il suo «No-me» (P. Barcellona, 2003), le sue radici identitarie, la suacollocazione geografica, le sue origini sociali, il suo habi-tat, in quanto il Soggetto è stato trasformato in un “singo-lo” facente parte di una folla indifferenziata. Se noi ne

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stalgia, della memoria, e della (dis)identificazione» (Clif-ford, 1997), una «grande contrazione» (M. Magatti,2012) nella quale avviene un processo di «de-territoria-lizzazione» (A. Appadurai, 2012) delle azioni degli in-dividui, una loro decontestualizzazione, la disintegra-zione dell’«ecologia dell’azione» (E. Morin).

La «fine della geografia» (M. Augè, 2009) sgancia ilsoggetto dai propri ancoraggi fisici e dal proprio contestorelazionale – un soggetto sconfitto nel proprio bisogno dilibertà, in quanto vincolis solutus, e dunque impossibili-tato a dare esito plausibile ai propri «desideri» (M. Recal-cati, 2012) –, mentre il tempo presente vissuto dal Sog-getto è contratto, ridotto a mera “fascinazione estetica”,in definitiva a impulsi per la maggior parte di carattereistintivo-emozionale. L’enfatizzazione di tale istintivitàcaratterizza l’obiettivo di tutte le forme della comunica-zione dello spazio globale («spazio planetario esteticomediatizzato», M. Magatti, 2013). Questo sistema me-diatico globalizzato rappresenta uno dei principali «dan-ni collaterali» (Z. Bauman, 2013) prodotti dalla societàdei consumatori, ossia un sistema sociale che tende a re-lativizzare ogni valore che struttura in modo sistematicoun’azione e a decostruire ogni obiettivo dell’agire chenon è mosso dal principio di efficacia. Lo statuto episte-mologico che qualifica in direzione di questo riduzioni-smo di carattere psicologico tutto ciò che attrae il Sogget-to verso la realtà e lo mette in azione è precisamente ispi-rato dal paradigma del “principio di utilità”. L’insieme de-gli elementi coinvolti nell’azione di un individuo che, in-fatti, non sono misurabili secondo il principio dell’equi-valenza nello scambio relazionale fra l’Ego e l’Alter ap-paiono come un’insignificante espressione di intimismodell’individuo medesimo, una dimensione «estetica de-territorializzata» (M. Magatti, 2012). Queste azioni priva-

resse e dal fascino verso i beni materiali. Le passioni del-l’anima e le strategie che da esse scaturiscono sono cosìricondotte dal pensiero dominante a impulsi non raziona-li, forme del desiderio tendenzialmente psicotiche, desti-nate comunque a subire modalità plurime di apartheidculturale e sociale da parte della leadership espressionedel pensiero dominante tecnico-scientifico.

Riconoscere il senso cognitivo delle emozioni non si-gnifica andare contro il pensiero e la ragione. Le emozio-ni anzi, come ha fortemente sostenuto la filosofa ameri-cana Marta Nussbaum (2004), sono dotate d’intelligen-za, della capacità di esplorare e conoscere la realtà neisuoi profili dicibili e soprattutto in quelli indicibili.

Scrive acutamente Eugenio Brogna (2011): «la ragio-ne astratta radicalmente de-emozionalizzata non cogliese non alcuni aspetti del reale, del reale divorato oggi dal-la tecnica». Lo stesso Brogna, citando Giacomo Leopar-di, ci ricorda che nello Zibaldone il grande poeta sottoli-neava che, non solo non bisogna estinguere le passionicon la ragione, ma convertire la ragione in passione, epoi – evidenzia Brogna – concludeva con un’affermazio-ne sferzante: «[...] la ragione pura e senza mescolanza èfonte immediata e per sua natura di assoluta e necessa-ria pazzia». Questo punto di vista di Brogna, attraversouna rilettura dell’origine della melanconia di Leopardiverso la realtà, spiega le cause dell’origine di una nuovaforma di alienazione del Soggetto dell’era post- modernarispetto a quella postulata da Herbert Marcuse circa mez-zo secolo fa. Nel pensiero del sociologo della Scuola diFrancoforte era indubbiamente prevalente l’esame dellapervasività della tecnica come causa del consolidamentodi un dominio del capitalismo “tecnologico”, un dominiodel sistema produttivo il cui apparato culturale influenza-va fortemente il formarsi di un’antropologia unidimensio-

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conserviamo il ricordo negli scaffali della storia, ciò di-pende in parte da alcune caratteristiche della personalitàdel soggetto, dall’“eroicità” del suo operato, dalla sua so-vraesposizione mediatica, e per un’altra parte da una se-rie di fortuite o fortunate contingenze storiche. La testi-monianza di questa vita agganciata alla storia di un con-testo che l’ha generata, viene così in qualche modo spet-tacolarizzata in quanto sganciata da una ragione comunedi riflessività e quindi destinata a perdere interesse per lapolis. Lo stesso coraggio spinto fino al “dono”, paroladifficilmente comprensibile dall’etica utilitaristica, è in-terpretato come esito di credenze molto rispettabili manon plausibili dal punto di vista razionale. Questa formadi illuminismo “radicale” tende a relegare pertanto fuoridalla sfera del logos e della “non-conoscenza” tutto ciòche produce come esito un “non-scambio” di beni nego-ziabili. Tra i risultati prodotti da questa posizione teoricaci sono la riduzione delle emozioni a istintività irraziona-le e la rimozione del dramma del dolore e della sofferen-za dallo scenario pubblico. Ciò che sfugge ai teorici delpensiero globalizzato è che il dolore, come la nostalgia, lamelanconia, l’attesa e la speranza, non solo configura di-mensioni psicologiche del soggetto ma connota anche unasua concezione del rapporto con il reale. Una welta-schaung, quella che si consolida in chi ha conosciuto o hafatto l’esperienza del dolore proprio o altrui senza rimuo-verlo, che si pone antropologicamente in modo radicalecontro la società del desiderio di consumo alimentato inmodo ossessivo e compulsivo.

Questo modello culturale e sociale fondato sull’aspi-razione alla soddisfazione simultanea del bisogno pro-muove e sostiene pratiche sociali che propugnano l’indif-ferenza e la noncuranza rispetto ad azioni che non sianomosse dall’obiettivo del raggiungimento del proprio inte-

to esito di una “storia”, non è più un “discorso”, una reci-tazione pubblica, ma si affievolisce in un processo di ri-duzione imposto dal pensiero dominante a un melting potdi “sentimenti” parziali e precari.

Il riduzionismo psicologico-emotivo è tale da far per-dere di vista la ragione che ha generato l’azione, la rile-vanza pubblica della forma della vita del Soggetto e lastruttura delle sue azioni. Il racconto biografico perde lasua “teatralità”. Il teatro è la metafora che ci consente difocalizzare l’attenzione del pubblico su un insieme corpo-so di elementi che sono caratterizzati da «rappresentazio-ne, azione, ruoli, personaggi, scenografia, regia, materialidi scena, costumi ed altro ancora» (C. Piccardo, F. Pelli-coro, 2008). La narrazione così non descrive più un pro-cesso di costruzione essenziale che riguarda un uomo, lastoria di un “affetto” verso la realtà, la ragione che deter-mina il legame del Soggetto con essa. Il racconto biogra-fico, perdendo la sua trama di segni legata a fatti accaduti,viene destrutturato e assume pertanto, esclusivamente,una forma illogicamente ordinata di una sequenza di paro-le fra loro collegate in modo semanticamente incompren-sibile o sconnesse tout court. La narrazione biografica sicaratterizza così attraverso una catena di eventi dai qualisi riverberano prevalentemente reazioni istintive, cioèespressioni verbali “non-sensate” rispetto al reale, paro-le che non entrano nel corpo della relazione fra il Sogget-to e la realtà, suoni in-significanti nel contesto ecologicodel tempo presente. Il racconto, come la recitazione, siconnota di conseguenza solo come afasia o dislessia, co-me «parole perdute» (P. Barcellona, 2007) o «parole pie-gate» (C. Peguy, 1996), perché esse sono destinate a crea-re solo sentimenti fragili e vulnerabili rispetto al reale. Pa-role dunque “non-utili” per la comprensione del nessocon la “contemporaneità”, intesa come un presente “com-

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nale progressivamente “impaurita” di questa “totalità rea-le ed immaginaria” al tempo stesso. Il «timore cosmi-co» odierno, la «paura ufficiale» dell’uomo (Z. Bauman,2013), sono caratterizzati invero da vulnerabilità e incer-tezza che determinano e modellano la paura dell’uomoverso altri uomini e verso il potere detenuto da essi. Trat-tiamo di un individuo le cui relazioni affettive e l’empatiaverso l’altro sono devitalizzate e alienate in una umanitàde-socializzata. Il rapporto di relazione e sociale con tut-to ciò che è altro da sé muta da legame affettivo «in lega-me utile» (A. Bonomi, 2011). Si afferma un modello dimessa al lavoro di un individuo cognitivo che è un insie-me di corpo, anima e macchina, la cui fragilità è misura-ta dal diaframma relazionale con una realtà spesso me-diata da un video terminale. Manuel Castells nella sua ri-flessione sulla società della rete (2008) chiama la nuovastruttura sociale informazionalismo (2001). Secondo Ca-stells, infatti, la società digitale si nutre e si concretizzaproprio attraverso lo scambio di informazioni e la costru-zione di relazioni; mentre l’altro elemento per nulla tra-scurabile – sottolinea – è che si tratta di dinamiche a-di-mensionali che prescindono cioè dalle dimensioni deisoggetti che interagiscono con il web. La dimensione sto-rica di una vita, in tal modo, è dis-fatta come racconto a-spaziale e a-temporale, priva di comprensibilità e d’inci-denza pratica rispetto alla dinamica di un presente che, inquanto “contemporaneità”, tende a rigettare tutte le azio-ni che possono produrre retroazioni nella realtà e il cuidiscernimento richieda un processo di lettura comples-so, multidimensionale, nel quale la dimensione diacro-nica abbia un significato ontologicamente superiore ri-spetto a quella sincronica. Il Logos, il pensiero sulla real-tà che nasce da una vita in essa «in-corporata» (embed-ded,K. Weick) e diviene comunicazione di senso in quan-

cetto di pratica connota “il fare” in un contesto storico esociale che dà struttura e significato all’attività di unSoggetto. La pratica così intesa include due dimensioni:a) l’esplicito: i documenti, i simboli, le immagini, i

ruoli definiti, le procedure codificate, le normative;b) il tacito: le regole inespresse, le allusioni sottili, le

convenzioni tacite, gli assunti sottostanti, le visioni con-divise del mondo.

È necessario sottolineare ulteriormente che la pratica èl’attitudine alla riflessione in azione che genera una ri-flessività, esperienze vissute soggettivamente che gene-rano un nuovo pensiero su ciò che è accaduto (erlebnis-se) e dunque una comprensione e comunicazione di sen-so del nesso delle azioni compiute con la realtà.

È essenziale che si parli di esperienza al singolare enon al plurale per specificare che si è creato nella realtàad opera del Soggetto qualcosa di ex novo che non è mi-surabile secondo il principio di una ponderazione equiva-lente nello scambio e che non si sono accumulate sempli-cemente azioni o attività da riprodurre con modalità se-riale. Karl Weick per spiegare questo punto (1997) sostie-ne che fra le proprietà per generare il sense making si ri-chiede necessario che il Soggetto decodifichi il significa-to della situazione che deve affrontare sulla base dellapropria identità e pertanto questo significato va progres-sivamente rischiarandosi sulla base della consapevolez-za di chi sono io mentre affronto la situazione o che co-sa rappresento. Secondo Weick il sense making è un nuo-vo apprendimento del o sul contesto che lo stesso Weickdefinisce possibile soltanto se viene generato all’internodi una cornice che consenta una interpretazione e sele-zione delle informazioni scaturenti dal rapporto dell’a-zione con il contesto medesimo. Parlare di sense makingsignifica parlare della realtà come una “costruzione” con-

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presso” di accadimenti, compresso in quanto non interes-sato a comprendere ciò che lo ha preceduto (la memoria)e indifferente verso la prospettiva (il futuro).

Marco Dotti molto efficacemente ha definito questoprocesso di dissipazione della parola come un effetto di«sradicamento» dell’uomo dal mondo (2013). Lo stes-so Dotti, per spiegare questa affermazione, richiama nelsuo saggio un intervento di Papa Francesco nella sua re-sidenza romana di Santa Marta, discorso nel quale ilSommo Pontefice, citando G. Chesterton, ricorda che perlo scrittore inglese le «eresie» sono parole che sono di-ventate «pazze» e queste parole sono impazzite perchénon generano azione, cioè non producono una «pratica».

3. L’esperienza comepratica di restituzione di senso

Il concetto di pratica non si schiera per uno dei poli del-le tradizionali dicotomie che distinguono l’agire dal co-noscere e l’attività mentale dall’attività manuale. Il pro-cesso di coinvolgimento nella pratica coinvolge la perso-na nella sua totalità, in quanto soggetto che conosce eagisce nello stesso tempo. Il Soggetto con le sue azioniquotidiane produce un significato che estende, ri-orien-ta, modifica o re-interpreta, ovvero conferma le storie disignificato di cui egli stesso fa parte nel contesto stori-camente determinato. Questo processo può essere defi-nito di “negoziazione” del significato (K. Weick, 1997),ovvero di caratterizzazione del nostro «essere nel mon-do» (M. Heidegger). Il concreto e l’astratto acquistano iloro significati entro attività specifiche: la distinzione frateorico e pratico si riferisce a distinzioni fra attività e nona differenze sulla qualità dell’esperienza umana. Il con-

formali di esperienze, dando luogo a fenomeni di appren-dimento che dalla pratica hanno origine e alla pratica ri-tornano. Questa nuova conoscenza si può definire comel’esercizio anche di quell’intelligenza che i greci chiama-vano mètis, cioè l’insieme di attitudini mentali che com-binano l’intuizione, la sagacia, la previsione, l’elasticitàmentale, la capacità di cavarsela, l’attenzione vigile, ilsenso dell’opportunità. Profili della personalità e dell’a-zione del Soggetto, dunque, tutt’altro che irrazionali, an-che se la motivazione dell’azione spinta fino alle estremeconseguenze può provocare la morte violenta del testi-mone per mano altrui. Alcune delle biografie del presen-te volume riportano questo esito drammatico della vitadei protagonisti. L’expertise, così definita come la nuovaintelligenza del reale dei testimoni, non è stata solo deter-minata dall’esperienza vissuta ma essa a sua volta è ingrado di generare nuova riflessività e quindi nuove prati-che. Queste nuove pratiche connotano tra l’altro l’assun-zione di un nuovo punto di vista sul reale che potremmodefinire complesso (E. Morin, 2001), cioè una nuovacomprensione della realtà che parte dalla consapevolezzache il reale, oltre che essere ricco di fenomeni la cui gene-si è multi causale, «comprende un possibile ancora invisi-bile» (E. Morin). L’azione del Soggetto si misura dunquecon l’incertezza del reale e l’affronta in un gioco comples-so fra ordine, disordine e organizzazione che genera “unanuova conoscenza” del reale. Il processo conoscitivo por-ta con sé il dramma del viaggio attraverso il proprio e l’al-trui dolore, la sofferenza dell’incontro con l’Altro ma an-che la gioia del rischiaramento di nuovi orizzonti e signi-ficati nel presente. Quel presente di cui “il regime della si-multaneità” ha dilatato i confini in modo ipertrofico, «ri-ducendo l’esperienza di vita e la sua narrazione ad un in-coerente e frammentato succedersi di eventi, spostamen-

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tinua che prende una “forma” (enactment, Weick) quan-do le persone danno un senso retrospettivo a ciò che han-no creato e alle situazioni nelle quali si trovano. Il pro-cesso retrospettivo si configura, attraverso la forma dellanarrazione biografica, come il racconto di una connessio-ne al contesto che viene rischiarato da una luce che si de-finisce al contempo come “invenzione” e “scoperta” diprofili e dimensioni prima ignoti. La riflessione è come un“cono di luce” sul passato partendo dal presente, essa il-luminerà porzioni del passato ma per rischiarare il pre-sente. Questo nuovo apprendimento della struttura delcontesto si configura come una nuova expertise, cioè unnuovo sapere pratico sulla realtà o su quella porzione diessa sulla quale il Soggetto è intervenuto o che è statol’oggetto del suo interesse. Ciò che è creato dal Sogget-to rappresenta un flusso di eventi che focalizzano una se-rie di punti significativi nell’organizzazione storico-so-ciale. Questi eventi rappresentano punti di “ri-partenza”:momenti di consuntivo delle azioni compiute, tessitura dinuove storie, messa in moto di azioni future, pietre milia-ri o conclusioni, riaffermazione delle identità individualie comunitarie. La storia del Soggetto diviene così nel con-testo storico la recitazione, cioè l’interpretazione di ciòche ha creato, un nuovo sapere sulla realtà che viene tras-lato, trasmesso per essere rielaborato nella e dalla agorà.La traslazione nell’ambito della polis può dar vita allagenesi di una “comunità di nuove pratiche”. Per comuni-tà di pratica intendiamo un gruppo di attori che, nel con-testo storicamente considerato, si costituiscono sponta-neamente a pratiche di lavoro comuni nel cui ambito svi-luppano solidarietà organizzativa sui problemi, condivi-dono scopi, saperi pratici e linguaggi, generando così nuo-ve conoscenze. Le nuove conoscenze circolano tra i mem-bri della polis grazie alla comunicazione e agli scambi in-

lazione) del reale. Esplorare significa “avventurarsi” nel-la strada della conoscenza senza un’assicurazione pre-ventiva sull’esito. Esplorare è avventurarsi alla ricerca diluoghi ignoti o di difficile accesso con uno sguardo gio-vane e ingenuo. L’esplorazione da parte del Soggetto hadunque il passo del cammino aperto alla sorpresa, all’in-contro e all’imprevisto. L’esplorazione si fa raccoglimen-to e riconciliazione con tutto ciò che la vita offre: «è unpensiero non nomade ma pellegrino» (G.P. Quaglino,2011). Un viaggio che si muove da un’idea, una possibi-lità, una speranza sul futuro anche talvolta molto fragile.

Le dimensioni esistenziali connesse alla “fragilità”,come sottolinea Brogna (2011), sebbene ormai scompar-se dalla coscienza occidentale, contrassegnano una di-mensione dell’esistenza che va valutata e rivalutata poi-ché la fragilità è la condizione esistenziale che consenteall’Ego di creare la relazione con l’Alter come terreno diuna comune possibilità da cui nasce la dimensione del“Noi”. Questo pensiero esplorativo si configura come un“ascolto pensante” nei confronti della realtà che isola dairumori normali; una “solitudine costruttiva” che aiuta avedere altrimenti, dispone a un altro ascolto delle stessevoci e delle parole che abbiamo avuto e abbiamo sottomano. In realtà la riflessione non ci porta al passato maall’esperienza del pensiero del passato e getta una lucesul futuro. La riflessione volta al passato si manifesta piùcome “ri-pensamento” che come pensamento e quellavolta al futuro più come rivolgimento che come svolgi-mento. Per tali ragioni il Soggetto che mette in gioco leproprie convinzioni in un rapporto complesso anche con-flittuale con la realtà – egli è un protagonista che spessoappare “solo” (talvolta isolato) e “melanconico” («inquie-to perché avverte la vicinanza dell’infinito», R. Guardi-ni, 2006) – produce in essa un nuovo effetto generativo in

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ti» (A. Bonomi, 2011). La nuova conoscenza che emergedalla lettura dei profili biografici riportati in queste paginepuò altresì essere definita “un’intelligenza diffusa”, unnuovo “ordito” rispetto al reale. Per ordito intendiamo larisultante di tre fattori: conoscenza, competenza e appren-dimento sistematico (far tesoro delle esperienze, non ripe-tere gli stessi errori). Erroneamente spesso il termine cono-scenza è considerato inclusivo anche del termine compe-tenza, mentre la distinzione fra i due è sostanziale. La con-divisione della conoscenza è un processo comunitario.Lo sviluppo delle competenze è anche e soprattutto unasfida individuale. La conoscenza, il “petrolio” del cervel-lo, è necessaria ma non sufficiente. Analogamente, non èsufficiente agire perché non si devono confondere glisforzi con i risultati. La conoscenza infatti è una “risorsa”,l’intelligenza è una “capacità”, cioè la dimensione del ta-lento o il merito di far funzionare le cose. L’intelligenzas’intreccia con la “cultura”, con l’insieme cioè dei com-portamenti strutturati individuali e di gruppo che creanoprocessi di costruzione di modalità dotate di “senso” (in-dividuale e comune) per affrontare e risolvere dimensioniproblematiche che un certo contesto societario pone agliattori (capacità di contestualizzazione). La “contestualiz-zazione” è un sapere teorico-pratico complesso capace didare un ordine alla relazione fra dimensione privata e pub-blica del soggetto che si formalizza, come già detto, inuna riflessività che genera una nuova expertise.

4. Esplorazione e rigenerazione della conoscenza della realtà

Il nuovo sapere di cui stiamo parlando si configura co-me l’esito di una nuova “esplorazione” (non mera specu-

5. Lo statuto della contemporaneità e i suoi effetti

La “contemporaneità” si configura come una dimen-sione prospettica che non riesce a discernere il nesso cheesiste fra le ragioni dell’azione individuale e i suoi effettidi rilevanza nello scenario pubblico. Questa impossibili-tà di discernimento della relazione fra dimensione “pri-vata” e pubblica promana dalla pervasività del pensierodell’epoca del «post-umano» (P. Barcellona, 2007), un si-stema normativo e simbolico che opera per regolare nellacontingenza un’infinita gamma di bisogni secondo un or-dine (codice) simbolico la cui normatività è dettata daiprincipi dello sviluppo della tecnica. L’apparato tecnico in-crementa in modo pervasivo quelle già accennate dimen-sioni di vulnerabilità e fragilità che vengono sintetizzatenella letteratura socio-psicologica contemporanea con laparola-chiave disagio. Le principali dimensioni del di -sagio dell’epoca del post-umano, per citare Pietro Bar-cellona, sono costituite «dallo sbriciolamento progressi-vo della tenuta dei legami sociali: perdita di radici, vola-tilità delle sensazioni, perdita dell’esperienza, tramontodegli ideali, isolamento, assenza di avvenire, consumocompulsivo, svuotamento del valore simbolico della pa-rola, impero dell’oggetto, annichilimento del senso, spin-ta imperativa al godimento immediato, fatica di desidera-re, pratiche pulsionali perverse» (2007). Questo orizzon-te ermeneutico delle proprietà che definiscono alcune di-mensioni costitutive del “nomadismo culturale” contem-poraneo contribuisce a definire i diversi profili di una vi-sione antropologica che tende a ridurre il principio di li-bertà dell’uomo alla necessità di consumare in modo com-pulsivo e ossessivo tutti i “prodotti” della sua mente e delsuo corpo. Un bisogno illimitato di possedere feticci il cuisoddisfacimento è impossibile da ottenere. Questa erme-

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termini di cultura e di azione. Potremmo definire la qua-lificazione della tipologia di questo pellegrinaggio “co-struttivo” nella realtà non di semplice “miglioramento”dell’esistente ma di “discontinuità” rispetto a esso, e la ci-fra di questo valore aggiunto creato è fornita dal suo tas-so di generatività culturale e sociale. Come ha messo giu-stamente in evidenza Chiara Giaccardi, la cornice episte-mica della parola chiave generatività implica la fine dellacontrapposizione, a cui la post-modernità si dichiara osti-le, fra mythos e logos. Il logos senza il mythos, senza illuogo delle dipendenze originarie, senza «il discorso sullecose ultime» (R. Panikkar), diventa parola afasica, ridon-tante, strumentale alla dittatura del dato, della fattuali-tà. «La parola, separata dalla catena mitica delle risonan-ze, diventa prima di tutto una parola pronunciata piuttostoche ascoltata. L’ascolto è relazionale e riconosce un’in-terdipendenza; il soggetto che diventa “emittente” è inve-ce autoreferenziale» (C. Giaccardi). Come ricorda la stes-sa Giaccardi, Raimon Panikkar scrive che «la moderni-tà è fondamentalmente una cultura del logos, convertitoin ragione (ratio), e ha voluto relegare il mythos a unatappa già abbandonata, o a mero intrattenimento».

Questo è il dramma della modernità: il mito, screditatocome tappa immatura dell’infanzia della ragione, non so-lo non scompare ma, separato dal logos, si ripresenta informa ancora più inconfutabile e potente, perché total-mente arbitraria. Separati dal senso, i significati fluttuanoliberamente in uno spazio estetico deculturalizzato, conpura funzione di intrattenimento. Uno spazio in cui, comescrive François Varillon, «tutto è Dio tranne Dio stesso».La rilevazione fenomenologica dell’assenza di generativi-tà di una certa serie di pratiche è interessante per spiegarequale sia lo statuto epistemologico di quell’orizzonte delpensiero e dell’azione che definiamo “contemporaneità”.

vinzione che tutto sia negoziabile, cioè scambiabile, mi-surabile e vendibile, anche il singolo individuo che entrain competizione nel mercato. Nella società dei consuma-tori, pertanto, è difficilmente comprensibile “il gesto”non misurabile che non attende restituzione. Questa azio-ne non può che rispondere, nel codice formalizzato dellacontemporaneità, a una caratteristica di eccezionalità(eroicità) che non appartiene alla sfera dell’ordinarietàdel tempo presente. Sono storie di un passato anche pros-simo, magari molto vicino a noi, che vanno conservate(rimosse) come in un museo per sterilizzarle e renderleindolori. Sono storie magari generate da forti passioniche però sono destinate a estinguersi quasi rapidamenteperché disincantate rispetto a un mondo che non coltivala promessa del futuro e custodisce solo il «senso del tra-monto» (U. Galimberti, 2005). Gli “eroi” del nostro tem-po, dunque, secondo il paradigma tecnico-scientifico do-minante, sono solo ospiti di un’epoca che ha abolito i finiperché ha rinunciato a porre domande sul senso del vive-re e dell’agire. Le passioni esistono e sono anche virulen-te ma non possono che essere tristi perché «eventi umaniin-significanti che la terra ospita a sua insaputa» (U. Ga-limberti, 2007). Il pensiero unico dell’era della globaliz-zazione, coincidendo sul versante epistemologico con ildominio del paradigma tecnico-scientifico, nella sua“grammatica dei segni” non può che sconnettere da qual-siasi senso la storia di una vita, perché la tecnica è entratain conflitto irreversibile con il «primato che l’uomo ave-va assegnato a se stesso nella storia dell’essere» (U. Ga-limberti, 2007). L’estinzione della vita come racconto diuna storia legata alla storia di tutti, è determinata da que-sta implosione di senso che è il trionfo del nichilismo del-l’epoca attuale. Una concezione estetizzante e immanen-te del mondo, pervasa di relativismo e scetticismo, che

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neutica della antropologia dell’epoca del post-umano siconfigura, pertanto, «come il prolungamento dell’ideolo-gia moderna dell’onnipotenza dell’autocostituzione dellaprassi e dell’immutabilità dell’essere. Un’ideologia del-l’immortalità mascherata da conquista scientifica, che,intanto, ha l’effetto di prolungare all’infinito l’antropolo-gia dell’uomo soggetto di bisogni e del modo di produrreche a essa corrisponde» (P. Barcellona, 2007).

Si consumano («reificano», G. Lukacs, 1967) così nel-la contemporaneità i beni ma anche le storie di vita esem-plari di una modalità di stare al mondo non consumisticadelle relazioni con gli uomini e con gli artefatti da essiprodotti. Il processo di reificazione consegna al passato,alle generazioni future, la narrazione delle gesta di qual-cuno. L’apparizione di questa unicità dura solo il tempodella prestazione viva dinanzi ad altri. L’azione non pro-duce nulla. L’architettura (P. Ricœur, 1998), la capacitàdi fabbricazione, al contrario, consente di far rivivere leazioni dei protagonisti perché le loro storie non solo sia-no ricordate ma siano ripetute e recitate. La post-moder-nità, riducendo l’unicità a “singolarità” – l’orizzonte del-lo scopo viene riassorbito nella sfera dei mezzi – cancellacosì ogni possibilità di costituzione di legame sia affetti-vo che pratico, frustrando la possibilità della riproducibi-lità delle azioni nella dimensione pubblica e trasforman-do di fatto tutte le relazioni in relazioni di carattere fun-zionale. L’osservazione di questo processo lavorativosulla mente dell’uomo è reso possibile dal fatto che la so-cietà dei consumatori lavora sullo “spirito”, lasciando lacura del corpo “al fai da te” dei singoli soggetti, ossia in-terpella i suoi membri e si attende da essi «ascolto, atten-zione e obbedienza» (Z. Bauman, 2008).

La “dipendenza da negozio” favorisce nella polis laconformità alle regole routinarie ma soprattutto la con-

scendenza e fondamento nella realtà, determinando una co-incidenza fra «norma e fatto» (P. Barcellona, 2007). Que-sta reificazione della Legge si configura come una castra-zione nei confronti della libertà del Soggetto. La libertà,infatti, significa non privarsi delle possibilità che il futu-ro può riservare, possibilità che ancora non si conosconoma che possono procurare il nostro benessere. La castra-zione di questa libertà allora è l’asfissia che caratterizzaun vivere che non è aperto a riconoscere questa possibili-tà. Ci pare che molte delle storie dei nostri protagonistioffrano un’attitudine della loro mens dedita a coltivarequesto dinamismo della libertà aperto alla dimensionedella scoperta della possibilità. A differenza del paradig-ma tecno-nichilista che propugna l’idea della “libertà aiosa”: «noi siamo tanto più liberi quante più opportunitàe quante più esperienze riusciamo a vivere» (M. Magat-ti, 2012). L’esperienza, come già sottolineato, non confi-gura un processo di reificazione/rimozione di fatti/eventima formalizza e riallinea fino a un livello epistemologica-mente più complesso ciò che è accaduto affinché esso, nelprocesso narrativo, possa divenire traslabile per l’Alter,cioè comprensibile e dunque rielaborabile.

Ci ricolleghiamo a questo punto alla questione inizialeda cui si è mossa la riflessione su quale possa essere ilsenso, nell’epoca del post-umano, della proposta di alcu-ne brevi narrazioni biografiche, storie di protagonisti diun passato anche molto vicino al nostro presente.

6. I temi della relazione: il Desiderio, il Nomeil Volto, il Padre e il ritorno nello spazio pubblico

La prima generalizzazione tematica riguardante questiprotagonisti di eterogenea provenienza è il tratto comune

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annulla l’esistenza di qualsiasi valore e lo rende razional-mente incomprensibile, cioè incapace di discernimento.Il nichilismo lenisce ogni dolore fino a rimuoverlo e va-nifica tutte le norme su cui sono state scolpite le moralidell’Occidente. Con il nichilismo l’Occidente si trasfor-ma in “occidentalismo”, per il quale «tanto la dimensionereligiosa quanto l’ateismo divengono termini desueti,fuori luogo, superati dalla storia» (M. Borghesi, 2013).Ma di quale storia si parla? Una storia che, nell’interpre-tazione post-storica e post-ideologica fornita da FrancisFukuyama nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo(2003), reinterpreta, nell’epoca della globalizzazione,l’economia come scienza totalizzante e forma di guerraal tempo stesso. Fukuyama legittima questo ruolo dellascienza economica con una “copertura” di matrice ideali-stica (l’Asse del Male) per provare a fornire una convin-cente cornice filosofica alla politica estera americana di-venuta particolarmente aggressiva dopo l’attentato alleTwin Towers dell’11 Settembre 2001. La “fine della sto-ria”, nell’interpretazione di Fukuyama, si coniuga con ilcapitalismo finanziario trionfante che, nella sua dimen-sione sovrastrutturale, adotta un paradigma ludico-edoni-stico che svuota di qualsiasi spessore di senso storico ogniforma di agire umano che promuova valori non negozia-bili. L’homo oeconomicus e l’homo ludens in questa cor-nice epistemica sono i due volti di un Giano bifronte del-l’ètà contemporanea. Come osserva acutamente Borghe-si (2013), contrariamente a ciò che pensava Herbert Mar-cuse nel suo Eros e Civiltà (1964), l’eros è l’altro voltodel capitalismo trionfante, non la sua negazione, «il mon-do “estetico”, erotico, è il volto radioso che copre gli spi-riti animali del mondo reale, quello dominato dalle leggibronzee dell’economia» (M. Borghesi, 2013). Si conso-lida così un codice vivente che punta ad annullare ogni tra-

da quello che a questo proposito pensava Freud per il qua-le «la violenza genera persistenza, attaccamento all’og-getto colpito. [...] L’odio ci vincola eternamente all’ogget-to. Non è una modalità di separazione, ma un modo pernon separarsi mai» (2011). Sotto questo profilo la narra-zione dell’esperienza del desiderio dei nostri protagoni-sti è quella della perdita di una quota della loro identitàoriginaria – l’immagine alterata del proprio volto – per-ché «l’esperienza del desiderio è sempre esperienza di unaalterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di per-dita dell’identità, una dis-indentità, una non coinciden-za» (M. Recalcati, 2012). Il “racconto” così considera-to descrive un dis-fare per ri-fare un volto, il proprio vol-to nell’incontro con l’Alter, condizione essenziale per-ché ciò avvenga, infatti, è «solo sconfinando che si capi-sce» (L. Althusser). Il riconoscimento della diversità del-l’Altro, come altrove ho avuto modo di sottolineare inuna riflessione sull’Intercultura (2012), si configura co-me rispetto poiché, secondo la radice etimologica dellaparola, l’Ego e L’Alter, pur non simili, sono in grado distare l’uno di fronte all’altro, guardandosi reciprocamen-te in volto e conversando fra loro. Nel racconto biografi-co emerge pertanto il tema del guardare il volto dell’altrocome condizione per riconoscere il proprio. Questa ma-nifestazione di tipicità o di «proprietà culturali esclusi-ve» (H. Simon) viene descritta nel racconto del reciprocoriconoscimento. Roger Scruton per trattare il tema deldisvelamento del «Volto di Dio» (2012) sostiene che ilpunto di partenza più naturale è il volto umano e, ripren-dendo sull’argomento il nucleo del pensiero di Emma-nuel Lévinas, ne cita un’espressione significativa allor-quando il filosofo lituano scrive sul volto che «è in sé eper sé visitazione e trascendenza» (1985). Questa scoper-ta del volto dell’Alter include la scoperta della comuni-

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della loro azione. Gli eventi che li hanno visti protagoni-sti segnano – a mio giudizio – un movimento del loro fa-re indotto dal desiderio di dare un senso alla propria esi-stenza nel mondo, tentare cioè di fornire una risposta sen-sata (plausibile) alla domanda sul proprio nome. Il rac-conto biografico è questo link che prova a costruire ilnesso fra la parola e la forma di vita storicamente assun-ta dal Soggetto protagonista di una storia, della “sua” sto-ria che è divenuta, in tutto o in parte, la “nostra” storia.Nel corso della rivisitazione del quadro epistemico attua-le con il quale la narrazione biografica dei nostri protago-nisti deve fare i conti, ci siamo più volte soffermati sullaparola bisogno, concetto che indica soprattutto la consa-pevolezza di una mancanza, di un’assenza che in modofeticistico la società del consumatore, come già detto,cerca di colmare in modo illusorio e parossistico. Il Desi-derio, al contrario, si configura come il tentativo di dareuna risposta a questa coscienza della mancanza mettendoil soggetto in azione, in movimento. Il desiderio, a diffe-renza del bisogno, turba il soggetto, lo inquieta, lo straziaperché è una forza che eccede l’io e lo costringe ad andarfuori dai suoi confini irrigiditi. L’esperienza del deside-rio, per questa ragione, lotta contro il narcisismo e l’auto-referenzialità dell’io che andando verso l’Altro perde unaparte della propria padronanza, cioè della propria smaniadi dominio e di possesso nei confronti dell’Alter, il cuibisogno a sua volta rappresenta la realtà a cui il protago-nista va incontro perché il bisogno dell’Alter si trasformia sua volta in desiderio.

Questo incontro può essere storicamente drammaticoperché deve lottare con la tentazione della violenza dellasopraffazione nei confronti dell’Altro da parte di ciascu-no dei protagonisti affinché il Nome dell’Ego possa assi-milare il Nome dell’Alter e viceversa. Recalcati ci ricor-

tà. In questo orizzonte ermeneutico, l’esperienza del de-siderio di molti dei nostri protagonisti agganciati alla sto-ria si potrebbe interpretare, nel loro rapporto con la realtàche li ha visti attori e non comparse sulla scena della sto-ria, come l’esplicitazione della ricerca dell’aggancio conil Padre. Queste storie fanno emergere dunque il temadel Padre, colui che ha dato il Nome a un figlio e la cuipresenza «non evapora» (J. Lacan, 2001) sul palcosceni-co dell’azione, di guisa che il padre genera la Legge delrapporto dell’Ego con l’Alter, cioè con la realtà. Il no-me, la definizione della dimensione dell’unicità del sog-getto, connota da un lato la sua originalità, dall’altro de-finisce un explanans del Soggetto verso un explanan-dum, un punto di partenza che lo porterà a una compren-sione della realtà come possibilità ontologica di costru-zione della relazione con l’Alter diverso da sé.

Il tema del padre, qui introdotto come chiave erme-neutica della genesi e orizzonte al tempo stesso dell’azio-ne dei nostri protagonisti, è molto complesso e ha coin-volto nella sfera della modernità varie aree di pensiero fi-losofico, psicanalitico di matrice freudiana e junghiana enaturalmente sociologico, riferite prevalentemente, que-ste ultime, alla dimensione del rapporto del singolo indi-viduo e della comunità con l’Autorità, il Potere e il loroapparato simbolico. In questo contesto di riflessività noiprivilegiamo un’interpretazione della figura del padrecome ambito di riferimento della ragione dell’azione maanche dell’orizzonte di essa da parte del Soggetto. Il Pa-dre, quindi, deve essere sfilato dal ruolo di creatore delDiritto, come larga parte della cultura occidentale fino auna certa epoca lo ha catalogato, attribuendogli responsa-bilità non proprie. D’altro canto a lui sono stati attribuitiruoli di nume tutelare dal punto di vista biologico, igno-randone volutamente il ruolo genealogico per le sue evi-

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tà, perché l’altro è spesso abbandonato e senza riparo inluoghi sociali. In questi luoghi il Soggetto incontra an-che altri che “lo” riguardano che “li” riguardano (M. Il-liceto, 2008). Il riconoscimento di questo volto si tradu-ce pertanto in ricerca della giustizia senza che questa giu-stizia dimentichi l’amore, cioè la presa in carico da partedel sé del destino dell’altro. Dal riconoscimento del voltodell’Alter si passa così «alla comunità dei volti» (E. Lé-vinas), alla cura della polis, il passaggio dall’etica allapolitica. Nel rapporto dialogico fra l’Ego e l’Alter si ma-nifesta l’unicità di ciascuno come perpetuo movimentodi differenziazione, come «l’essenza vivente della perso-na così come si mostra nel flusso dell’azione e del discor-so» (H. Arendt, 1988). Al tempo stesso questo riconosci-mento dell’unicità, della singolarità conduce, come giàdetto, al riconoscimento della polis, il luogo della comu-nità che non nasce dal di fuori ma che sia l’Ego che l’Al-ter si portano dentro. Il racconto dell’io feticista, al con-trario, si connota con la descrizione di un movimento ver-so un godimento illimitato che lo porta istericamente aconsumare l’Altro come se fosse il nulla.

L’io feticista è un corpo senza volto, senza memoria,senza identità e senza appartenenza. Egli non abita il pro-prio corpo ed è perennemente in fuga oltre che da se stes-so anche dagli altri corpi, cioè dalla comunità. L’esito diquesto incontro disperato è quello della fine del “discor-so” del Soggetto ma anche della relazione dialogica fral’Ego e l’Alter. La natura di questa relazione, infatti, nonè intima, chiusa, o come la definisce Lévinas «clandesti-na» (1954), bensì pubblica, in quanto la sua evidenzapubblica implica l’esistenza di luoghi dove si svolgonodelle pratiche esperienziali di reciproco riconoscimen-to. La fine del discorso coincide per questa ragione conl’eclisse della dimensione del “noi”, cioè della comuni-

“agonistica” ma, come sottolinea sempre la Arendt, nonha mai la caratteristica della lotta, non si ispira al com-battimento militare ma a un approccio di tipo investigati-vo. Nel movimento esplorativo, la scoperta avviene sem-pre sulla base di indizi che consentono di seguire una opiù piste che portano il Soggetto alla scoperta della verità,cioè all’incontro e al discernimento del proprio desideriocorrispondente a quello dell’Alter, in un contesto relazio-nale non intimistico ma pubblico. Questo spazio pubbli-co è costituito da innumerevoli volontà e frequenti inten-zioni fra loro in contrasto ed esso emerge quando si è «congli altri; non per, né contro» (H. Arendt, 1988). La narra-zione, cercando così di dipanare l’inestricabile insito inogni relazione complessa, attesta questo percorso comu-ne che diviene uno spazio abitato e un tempo condiviso.Una dimensione spazio-temporale infra fra l’Ego e l’Al-ter mai visibile, mai calcolabile, impossibile da fabbrica-re, «un “intreccio”, un tessuto che si crea fra gli uominidacchè si rivelano in atti e parole» (M. Leibovici, 2002).

Il racconto degli atti, pur nella loro strutturale fragilità,si configura così come la dinamica del riconoscimento diqueste unicità dell’Ego e dell’Alter che consente la co-struzione di una dimora comune nella quale non vi sonosolo parole metaforicamente scambiate ma si edifica an-che un terreno materiale. Nascono di conseguenza anchepratiche e talvolta “comunità di pratiche”. Le azioni se-gnano spazi di avvenimenti che ineriscono alla disposi-zione spaziale delle cose ed esse qualificano ogni storia divita come processo di costruzione di un habitat in unospazio di vita (P. Ricœur, 1998). L’habitat si configura asua volta come il riconoscimento da parte di ciascuno delproprio essere figlio nei confronti del padre che gli testi-monia che la vita non è solo appagamento ma è fatica eperdita. Il figlio riconosce la ferita che gli procura il pa-

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denti implicazioni sul piano pedagogico. La figura del Pa-dre, infatti, è l’archetipo con una forte valenza simboli-ca che contribuisce a strutturare la prossemica del sog-getto nella realtà, ne stimola il desiderio di libertà e ne su-scita il desiderio di muoversi verso l’Altrove, cioè versoil luogo del «non conosciuto e del non pensato» (C. Ca-storiadis). Il padre nella sua funzione trasformativa svol-ge una funzione fondamentale, complementare a quelladella madre. Entrambi con modalità e cronologia diver-sa consentono al figlio di iniziare l’avventura della ricer-ca del significato del proprio nome nel mondo. «La ma-dre è indispensabile per nascere ed entrare nella vita; ilpadre per crescere ed entrare nel tempo e nella storia. En-trambi per vivere ed imparare ad amare ed essere ama-ti» (C. Risè, 2013). Il rapporto con la madre ha consenti-to al bambino, dopo la nascita fisica, la crescita psicolo-gica. Il rapporto con il padre, colui che è l’altro, «l’altro-ve» (C. Risè, 2013), lo spinge al movimento e alla esplo-razione nel tempo e nello spazio, riconducendolo verso lascoperta del rapporto con l’Alter, cioè della propria e al-trui umanità. La presenza del padre, rendendo dunquepossibile lo sviluppo della dinamica della relazione fral’Ego e l’Alter, costruisce la dimora, il tèmenos dell’in-contro, il tòpos della relazione che può portare al loro re-ciproco riconoscimento. Questo riconoscimento è l’esi-to dell’attraversamento dell’intervallo sulle labbra dellaferita che segna il confine della separazione fra il padre eil figlio, fra l’Ego e l’Alter, ma indica anche il punto dipassaggio per il ricongiungimento. In questo luogo doveprevale la mitezza e la sagacia, l’Ego e l’Alter, per ripren-dere uno dei temi della riflessione di Hannah Arendt,conversano insieme in “uno spazio pubblico di apparizio-ne”. Il discorso che accompagna l’azione dialogica nonha mai fra loro la forma dell’intesa pacifica, è al contrario

to, è interessante riprendere, come ha fatto Rossella Prez-zo nella sua Introduzione all’edizione italiana del testodella Zambrano Verso un sapere dell’anima (1996), ilracconto che la grande filosofa e letterata spagnola ha fat-to sul proprio esilio durante la guerra civile del suo pae-se. Ella ha così scritto (in ABC, 28 Agosto 1989): «Vi sonoviaggi di cui solo al ritorno si comincia a sapere. Per me,da questo sguardo del ritorno, l’esilio che mi è toccato vi-vere è essenziale. Non concepisco la mia vita senza l’esi-lio che ho vissuto. L’esilio è stato la mia patria, come ladimensione di una patria sconosciuta ma che, una voltaconosciuta, diventa irrinunciabile». In questa erranza, an-che molto prolungata, il Soggetto mette in gioco le pro-prie paure e fragilità osservando quei “luoghi” relazionalidove la vertigine del “non-conosciuto” e del “non-speri-mentato” si manifesta come possibilità di riscatto dellapaura del vivere, in quanto l’attraversamento delle proprie«mappe cognitive» (S. Covey) precedenti ha messo inmoto la ragione esplorativa del Soggetto. Egli, in virtù diquesto potenziamento del desiderio di avventurarsi in luo-ghi – l’Altrove – dove il già sperimentato mai l’avrebbeportato, è alla ricerca dei punti di fuga. Il “punto di fuga”è un aspetto dell’esperienza che l’uomo compie, per cuil’orizzonte, verso il quale si muovono il suo desiderio e lesue pratiche esperienziali, non è mai vagliato totalmente.La realtà infatti è sempre segno che rimanda ad altro, a unpunto di fuga che suscita interrogativi e di cui la ragionedeve tener conto. Quel “punto di fuga” si connota comequel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cuila conoscenza di qualsiasi cosa segnala l’insopprimibileesigenza di qualcosa d’altro oltre i fattori razionalmentedimostrabili. La ratio, la capacità cognitiva non decifra ilMistero, il non conosciuto, il non già sperimentato, ma ri-vela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana.

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dre che non è un’ingiuria ma è un dolore da cui nasce laconsapevolezza della sua fisionomia che lo condurrà allalibertà e alla capacità di acquisizione del principio di co-scienza della natura e del significato della realtà. La li-bertà che il figlio impara dal Padre non è la libertà chiusadell’io autoreferenziale ma è la libertà concreta dell’ac-cettazione degli altri, del realizzarsi appieno nel rapportocon gli altri. Il Padre dunque non impone la Legge dellarealtà al figlio ma lo accompagna, spesso nel dramma enel dolore, alla comprensione della legge che la regola,legge nella quale il figlio scoprirà l’esistenza del’Alternella stessa agorà di cui entrambi fanno parte in modo noncasuale. «Il padre, dunque, è innanzitutto, in prima perso-na un portatore della ferita; per questo ne può trasmettereal figlio la sensibilità, il sentire» (C. Risè, 2003). Il rico-noscimento si manifesta come la sola connessione checonta, «la sola che inonda la vita, è quella dell’incontrocon il desiderio dell’Altro» (M. Recalcati, 2013). Que-sti nostri protagonisti, attraverso la narrazione di questiprofili delle loro storie di vita, sviluppano inoltre il temadel viaggio e non del “vagabondaggio” nella realtà.

7. La storia come racconto del viaggio

Il viaggio ha sempre affascinato l’uomo perché è lametafora più semplice e adeguata per descrivere il cam-mino umano: l’homo viator. Il viaggio costituisce, altre-sì una dimensione antropologica per gestire da parte delSoggetto il risanamento delle proprie ferite. Colui cheviaggia in qualche modo, come già detto, per ritrovare lameta cercata deve fare anche per qualche momento l’e-sperienza della tragicità della solitudine e dell’abbando-no da parte della stessa propria comunità. A tale proposi-

ta metropolitana si svolge prevalentemente in luoghi di“transito”, in “non-luoghi dove si svolgono ancora raccon-to e dialogo, ma dove ogni cosa evapora nell’atto stesso dipresentarsi» (P. Barcellona, 2007). La narrazione biogra-fica che origina dall’erranza recupera invece il linguag-gio dotato di senso perché esso nasce da luoghi e vive diluoghi. In questi luoghi ci si incontra, talvolta ci si com-batte, altre volte ancora si perde la vita per l’Altro. Chi èquesto Altro per il quale si può anche morire? Vengono inmente le parole del grande Pär Lagerkvist:

Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco. Uno scono-sciuto lontano lontano. Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia. Per-ché egli non è presso di me. Perché egli forse non esiste affatto? Chisei tu che colmi il mio cuore della tua assenza? Che colmi tutta la terradella tua assenza? (P. Lagerkvist, Uno sconosciuto è il mio amico).

8. La pratica della narrazione e la rinascita della parola nella relazione

La pratica della narrazione consente il transito nel ter-ritorio delle storie che divengono racconti. Il racconto sisvolge in un luogo che non è appena della memoria indi-viduale ma della memoria di tutti: il luogo in cui la me-moria di tutti accoglie le storie, accomuna i racconti, chedivengono le storie dell’Alter, della comunità. La narra-zione è un’opera di componimento che mette insieme,annoda e ricongiunge, combina e rilega. «È un’opera ditrama nella quale si riordineranno tempi e avvenimenti,soste e passaggi, intenzioni ed azioni» (G.P. Quaglino,2011). La parola che si fa narrazione serve a dare ordinealla vita e rappresenta un mezzo di ricerca della propriadignità e di riorganizzazione dell’esperienza. La parolache si fa racconto aiuta a “leggere” la realtà, lascia “trac-

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Il bottaio deve intendersi di botti. Ma io conoscevo anche la vita,e voi che gironzolate fra queste tombe credete di conoscere la vi-ta. Credete che il vostro occhio abbracci un vasto orizzonte, forse,in realtà vedete solo l’interno della botte. Non riuscite a innalzar-vi fino all’orlo e vedere il mondo di cose al di là, e a un tempo ve-dere voi stessi. Siete sommersi nella botte di voi stessi – tabù e re-gole e apparenze sono le doghe della botte. Spezzatele e rompete lamagia di credere che la botte sia la vita, e che voi conosciate la vita!(E.L. Masters, «Griffy il bottaio», in Antologia di Spoon River).

Il viaggio – come nell’Ulisse dantesco – è il moventeche suscita il desiderio ardente di conoscere, il bisognoprofondamente umano di vedere ciò che è oltre, l’igno-to, ciò che è al di là del limite non valicato e che non puòessere posseduto con certezza come il Mare Nostrum.Il buon senso comune si fermerebbe di fronte alle colon-ne d’Ercole, ma a prezzo di una rinuncia incalcolabile:perché il cuore, la ragione, proiettati per loro stessa natu-ra verso l’infinito, esigono di andare e di affrontare il ri-schio. Il viaggio si connota come un’umana avventuranella quale tutto si deve conquistare, per tutto si deve lot-tare, tutto deve essere scelto. Questo pellegrinaggio, co-me già detto, segna una netta discontinuità di natura an-tropologica rispetto al vagabondare dei luoghi caratteri-stici dei nostri “paesaggi” globalizzati. Il pellegrino è co-lui, infatti, come nel teatro delle marionette di Heinrichvon Kleist, che si muove leggero, più leggero di un balle-rino che, pur volteggiando, è sempre riportato dal suostesso peso al suolo. Le marionette invece, poiché il lo-ro principio viene dall’alto, hanno un movimento che qua-si non fa loro toccare il suolo. Esse, infatti, «della pigri-zia della materia, di questa fra tutte le proprietà la più av-versa alla danza, le marionette proprio “non sanno nul-la”» (H. Von Kleist, 2005). Nello scenario della globalizza-zione, al contrario, molti soggetti stralunati si muovono ap-pesantiti e goffi senza intenzioni e direzioni precise: «la vi-

ziazione, obbedienza senza critica, conservazione monu-mentale e archeologica del passato. Lo sguardo dell’eredenon è mai uno sguardo rivolto all’indietro. Per riconqui-stare e, dunque, per possedere davvero la propria eredità,non si può sostare troppo vicino a ciò che il morto ci ha la-sciato» (M. Recalcati, 2013). Il legame con il Padre è l’a-more per la scoperta di questo proprio Nome, il discerni-mento della natura dell’eredità ricevuta, eredità che nonannichilisce il Soggetto nella simultaneità, nell’orrore delpresente e delle sue «razionalizzazioni» (M. Foucault)ma, facendogli intravedere una nuova modalità di posses-so della realtà, gli offre la visione del futuro come possi-bilità. Il soggetto sceglie di vivere, sceglie il padre e sce-gliendo il padre sceglie il “fuoco”, e la scelta del fuoco èla scelta della «legge della parola, la Legge del desiderio.Stare assieme attorno al fuoco inscrive la possibilità di unlegame» (M. Recalcati, 2011). Intorno al fuoco nasce laparola come conversazione, nuova narrazione fra sogget-ti che stabiliscono fra loro nuove dinamiche relazionali.La conversazione si esprime con l’adozione di due metodidi scambio, quello dialettico e quello dialogico. La societàmoderna, come sostiene Richard Sennett (2012) è più bra-va a organizzare gli scambi del primo tipo che non del se-condo. Il metodo dialettico si sviluppa sulla pratica dellaconversazione mediante il gioco dei contrari che portaall’accordo; l’altro lancia nel campo della relazione opi-nioni ed esperienze in modo interlocutorio. Il metodo dia-lettico sviluppa toni fortemente assertivi, talvolta quasiimperativi; l’altro fa un uso sapiente del condizionale at-tenuativo per creare uno spazio sociale aperto. La prospet-tiva dialogica stimola la curiosità verso gli altri come per-sone e pertanto richiede una capacità d’ascolto affinchépossa nascere una relazione dotata di senso. Una periziaper imparare a proporsi e a non imporsi nella vita altrui.

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cia”, talvolta “cura”, altre volte “guarisce”, “riconcilia”con il mondo. Il racconto del pellegrino, attraverso la di-namica del viaggio, descrive la traiettoria dell’incontrocon l’Alter, con la comunità. Questo viaggio verso l’Alternon è tuttavia un percorso lineare da parte del pellegrinoerrante, il quale perché possa incontrare deve perdersi, an-che fallire. Come sostiene con acume Recalcati (2011),«chi non si è mai perduto non sa cosa sia ritrovarsi [...] So-no necessari una casa, un legame, un’appartenenza perchél’erranza dia i suoi frutti». Il viaggio di questo pellegrinoè l’erranza di colui che coltiva il desiderio della scopertadel legame con il Padre, cioè con colui che con la sua pa-rola gli ha dato il Nome, per incontrare altri Nomi, cioè al-tri figli come lui. Durante il viaggio il Soggetto trasformale informazioni in conoscenza e quest’ultima in sapien-za, capacità di comprensione (intelligere) unitaria dellapropria soggettività e di quella del contesto. La narrazio-ne biografica racconta il tragitto di questa Legge dellaParola che richiede ai protagonisti la forza di parlare “de-gli” e “con” gli altri per poter parlare di se stessi giacchè«noi siamo la nostra parola, ma la nostra parola non esi-sterebbe se non si fosse costituita attraverso la parola de-gli altri che ci hanno parlato» (M. Recalcati, 2013). Il rac-conto è questo viaggio verso l’Alter per la scoperta delproprio Nome ereditato dal Padre, tragitto durante il qualeil soggetto impara la “conversazione” con l’Alter: «Unavita non è che questo apprendere a parlare la propria paro-la attraverso la parola degli altri. L’ereditare non può esse-re la cancellazione di questa parola e di questa memoriadell’altro [...]. Ereditare non è clonazione, non è mai ri-produzione passiva di un modello ideale attinto dal passa-to. È la nevrosi che tende ad interpretare l’eredità come ri-petizione, fedeltà assoluta al proprio passato, infantilizza-zione perpetua del soggetto, dipendenza senza differen-

del terreno su cui poggiano i passi delle persone. L’Obiet-tivo è un preventivo. Il Risultato è un consuntivo. La dif-ferenza fra preventivo e consuntivo definisce la capacitàdi aver rispettato le regole operative corrispondenti, l’in-sieme degli elementi prescrittivi assunti consapevolmentedal soggetto, e la messa in atto di tutte le competenze ne-cessarie allo scopo. Non c’è responsabilità se non ci sonoregole; non c’è regola che non determini delle responsabi-lità. Gli eventi storici che hanno segnato la presenza deiprotagonisti, pertanto, potrebbero essere più compiuta-mente decifrati, nella rilettura delle loro ragioni (logos emythos) che hanno generato azioni (pratiche) improntatealla responsabilità e regolarità, pratiche che hanno prodot-to risultati storicamente documentabili, fra i quali i discor-si, nel senso già detto di conversazione, che ne hanno ga-rantito non solo la trasmissibilità ma anche la traslazione.

Il discorso genera una possibilità di nuova compren-sione sociale, una rilettura della mappa delle relazioni deiluoghi di un contesto umano e civile. Il fuoco intorno alquale si sviluppa la conversazione rappresenta simbolica-mente la Legge della convivenza, cioè la possibilità che sicostituisca il legame, il nesso, la relazione fra l’Ego el’Alter, fra il Soggetto e la realtà della comunità. Il Pa-dre, nel momento in cui dà il Nome al figlio, gli dà il fuo-co, porta con lui la Legge del fuoco, cioè la Cultura e ilDesiderio. Il Padre portando il fuoco è colui che dà la Pa-rola al figlio e dunque per quest’ultimo parlare con il pa-dre significa non perdere il fuoco, la possibilità che la vi-ta non sia solo espressione di un parossistico desiderio didominio della realtà. Il figlio, alimentando il desiderioche nasce dalla ricerca del nome proprio e altrui, non re-sta altresì vittima di un Rancore che nasce dall’impossi-bilità di soddisfare il proprio bisogno di godimento illimi-tato. Il Rancore si connota come odio indifferenziato del-

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9. L’arte nel prendersi curadi sé e dell’altro intorno al fuoco

È interessante osservare che, come dice Sennett, que-sta capacità di ascolto si configura come una disciplinache «[...] crea lo spazio per esplorare la vita altrui, e con-sente che l’altro, alla pari di noi, possa esplorare la no-stra» (2012). Occorre riflettere sul fatto che quando Ri-chard Sennett configura l’arte del dialogo come frutto diuna disciplina dei soggetti implicati nella relazione, taleparola chiave da un punto di vista ermeneutico non do-vrebbe essere ascritta a un regime codificato di compor-tamenti organizzativi o sociali bensì dovrebbe essere ne-cessario risalire alle cause che li hanno prodotti e resisocialmente rilevanti. In altri termini dovrebbe esserepiù producente da parte della ragione esplorativa indaga-re sulle cause che hanno messo in moto determinati even-ti che hanno marcato la presenza storica di alcuni sogget-ti, definendoli come protagonisti.

Sotto questo profilo è necessario ricordare che il ter-mine disciplina deriva da due parole bibliche. Nell’Anti-co Testamento si riferisce alla coltivazione diligente dellagiustizia nella propria vita ed è tradotto come: istruzione,educazione, cultura mentale, castigo. Nel Nuovo Testa-mento si trova il termine tradotto come “mente compo-sta” e “autocontrollo”. La parola quindi connota il presi-dio dei comportamenti positivi e ordinati che garantisco-no la coincidenza con il modello della comunità (educa-zione e sviluppo morale). Il Risultato delle proprie azionisecondo le scritture antiche e sacre è l’esito dell’obbe-dienza alle regole divine. La differenza fra obiettivo e ri-sultato è sostanziale. L’Obiettivo è un dichiarato, una me-ta, qualcosa che non esiste a cui si tende, verso cui si pro-cede. Il Risultato è una realtà concreta inserita al livello

sioni in grado di elaborare una relazione rispetto al pas-sato, al presente e al futuro. Il presente per il Soggetto sicolloca fra “uno spazio d’esperienza” in cui giocano unruolo fondamentale la coscienza e la memoria della culturad’appartenenza e “un orizzonte d’attesa” che ingloba pro-gettualità personali e percorsi di vita possibili. Per quan-to riguarda l’aspetto legato alla memoria della culturad’appartenenza, il passato sembra comportare, al livellodel vissuto personale, il prevalere della memoria sulla sto-ria. In ogni caso la memoria costituisce un repertorio dacui attingere le risorse per la costruzione delle traiettoriedi azione (anche rivolte verso il futuro): un repertorio cheviene continuamente rivisitato e sottoposto a valutazionecritica sulla base delle esigenze presenti. Si può ricorrerea una memoria reiterativa e compulsiva (che resiste allacritica) e una memoria-ricordo, lavoro di “rimemorazio-ne”, rivisitata dal Soggetto, “memoria di ricostruzione”che è anche memoria critica, capace di non cancellare oipostatizzare il passato, ma di affermarne la rilevanza ri-spetto al presente e al futuro. L’intreccio fra le tre dimen-sioni temporali si potrebbe definire, secondo la letteraturasociologica sulla teoria dell’azione, come ricerca di origi-nalità culturale dei singoli soggetti. Alludiamo con que-sta definizione alla capacità da parte del Soggetto di sa-per collegare ciò che sa con ciò che fa e con ciò che è. Que-sto elogio della cultura dei nostri protagonisti evidenziatra l’altro sia la velocità di trasferimento del loro pensieroin azioni e risultati, sia la intensità e diffusione del pen-siero a valore aggiunto in campi e settori anche differenti.Per ciò che concerne “l’orizzonte dell’attesa” dei nostriprotagonisti, tale dimensione appare del tutto dissimileda quella tragicamente illusoria descritta nell’AspettandoGodot di Samuel Beckett o da quella disperatamentescettica espressa dai versi della poesia di Cesare Pavese:

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la folla ma anche spesso dell’uomo nella sua irriducibi-le individualità, nei segni interni dell’anima, nei trattiesterni della fisionomia e del corpo. Si cerca un nemi-co, perché in assenza di un nemico fuori di sé, il soggettoportatore di rancore sa che si ritroverà inesorabilmente acercarne uno davanti allo specchio. È interessante riflet-tere sul fatto che quando l’Altrove diventa il luogo delracconto, la fragilità, la paura dell’ignoto, la fatica nonvengono trasformate in indifferenza, intolleranza o ran-core, bensì in ascolto e scoperta della realtà di soggettianche vinti ma non piegati dal dolore e dalle difficoltà.

10. Il racconto come scopertadell’Altrove e la rigenerazione della memoria

Il racconto dei luoghi della scoperta e dell’incontro conl’Alter (la realtà della diversità, E. Morin) costituisce unanuova Antropologia del Presente (A. Bonomi). Una pri-ma conclusione che possiamo tirare rispetto alla valenzadel racconto biografico nell’era della contemporaneità èdunque quella che esso mostra un soggetto protagoni-sta della narrazione, non eroe o dotato di qualità eccezio-nali, ma un individuo con una personalità umana stabile.La stabilità non coincide con il mantenimento ossessivodella stessa idea ma anche con il cambiamento di essasenza che ciò debba provocare una negazione dei proprilegami costitutivi. In altri termini, il “salto del paradigma”non coincide necessariamente con la negazione del padre.Trattiamo racconti di storie di soggetti agganciati alla sto-ria che sono persone aperte, nella drammaticità della pro-pria fragilità e della propria condizione storica, alla di-mensione della positività perché coltivano e assecondano,non per mera posizione di status, delle ragioni e delle pas-

me una forma di civiltà, il “volto” di un’epoca, una rete dicausalità, un unico e identico nucleo centrale. Per conclu-dere, le nostre conversazioni svelano la direzione e l’inten-sità dei nostri legami e testimoniano le nostre intenzioniintorno a un reale desiderio di costruire una vita comune.

11. Lo sguardo esplorativoe il prendersi cura della polis

La natura e i contenuti del desiderio specificano nonsolo le caratteristiche dell’orizzonte del mio sguardo maanche la direzione che assume il pensiero esplorativo.

Il pensiero esplorativo rifugge dalla camicia di forzadella sistematicità, del rigore logico e analitico, dell’esse-re categorico. Esplorare significa avventurarsi nella stra-da della conoscenza senza un’assicurazione preventivasull’esito. L’esplorazione ha dunque il passo dell’incede-re aperto alla sorpresa, all’incontro e all’imprevisto.

L’esplorazione si fa raccoglimento e riconciliazionecon tutto ciò che la vita offre; è un pensiero non nomadema pellegrino. La narrazione dei percorsi di questi vian-danti dà respiro e ordine alla loro ma anche conseguente-mente alla nostra storia che, senza questi coni di luce, sa-rebbe inevitabilmente connotata da una serie di “eventiracchiusi” (G.P. Quaglino, 2011). Attraverso la narrazio-ne ormeggiamo nella nostra vita tutto ciò che è imprevi-sto e inatteso; essa ci porta nella casa dell’identità: ci fatornare i conti e imparare il nome proprio e altrui. La nar-razione riconduce a mitezza l’io dispotico e favoriscel’insediamento del Sé, cioè la condizione essenziale perla messa a dimora della dimensione del noi.

La seconda considerazione che emerge quindi dalla let-tura delle storie dei protagonisti è che il loro pensiero sul-

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Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla acca-drà. Non c’è cosa più amara che l’inutilità. La lentezza dell’ora èspietata per chi non attende più nulla (C. Pavese, Lo steddazzu).

L’attesa alimenta, al contrario, la nostra memoria cheè costituita da tutto ciò che non muore perché aiuta a vi-vere in quanto dà un senso a una storia personale e comu-ne. Il discorso, la forma di una conversazione fra un Egoe un Alter, può prendere vita ed emergere socialmentesoltanto intorno a una percezione che diviene progressi-vamente convinzione che la nostra libertà si gioca nellacostruzione di un cammino comune. Un percorso scandi-to da fatti condivisi e che, pur con le inevitabili dispersio-ni, creano una narrazione, un legame che si alimenta del-la reciprocità di un desiderio di ricerca di senso del vive-re e dell’agire. La parola diviene così il riverbero di unavita che nasce da un rapporto e cresce in esso. Una rela-zione nella quale è viva e presente la memoria di un pas-sato e l’esperienza di un presente e che diviene il luogoin cui si crea un nuovo sapere sulla realtà. Noi conoscia-mo veramente solo ciò che ci crea un legame con la real-tà, ciò che ci attrae (affectus); la conversazione è la formache consente al rapporto fra l’Ego e l’Alter di poter fun-zionare in modo biunivoco e non come monologo di sin-goli vincolis soluti. Per questa ragione c’è un nesso stret-to fra le parole, il loro significato e il contesto nel qualeesse prendono vita. Il Perché, il Dove, il Come e il Quan-do dei nostri dialoghi sono segni visibili dell’impronta edella cura delle nostre relazioni. Le parole testimonianonon solo la direzione dei nostri pensieri ma anche dei no-stri desideri e dei nostri affetti. Un sistema di relazioni che,come sostiene Michel Foucault, ci dice se ciò a cui tendia-mo sia una semplice storia generale o una storia globale,un approccio quest’ultimo che mette in connessione feno-meni e avvenimenti, cercando di ricostituire nel suo insie-

non era mossa da uno schema precostituito, sebbene qua-si sempre si collocasse all’interno di una tradizione cultu-rale o religiosa. Queste azioni, mosse da desiderio dellascoperta del volto proprio e altrui, hanno assunto qualedomanda il tema della comunità come “assenza”, la co-munità cioè come entità in continuo dissolvimento e alcontempo in continua riproduzione in forme nuove.

Che cosa emerge dalla narrazione della vita dei prota-gonisti come risposta che si cimenta oltre gli schemi con-solidati nell’ambito delle rispettive tradizioni?

12. La rottura del paradigma precedente: il processo di donazione

Riprenderei a questo punto il tema dello scambio nonnegoziale come chiave ermeneutica per leggere molte diqueste traiettorie di vita. Lo scambio di siffatta natura, at-traverso il loro percorso di vita, si è rivelato in molti casiun motore per la ripresa di possesso da parte della comu-nità del proprio destino. Il primato della comunità ha tro-vato lo spazio necessario nelle pratiche sociali anche isti-tuzionalizzate di molti dei protagonisti. Si nota infatti inmolti casi un continuum fra le azioni dei protagonisti e laspecificazione degli elementi della restituzione ad essi daparte degli interlocutori o dei destinatari. L’azione di col-tivazione, naturalmente, rigetta l’idea della retroazionesimultanea perché le azioni complesse non possono esse-re interpretate secondo una chiave di rapporto causa-ef-fetto. I tempi della risposta sono correlati alla multidimen-sionalità degli elementi immessi nel contesto. Così co-me la qualità dell’azione ecologica (E. Morin) dei prota-gonisti può essere decifrata dall’interpretazione con loscandaglio della profondità e durata dei cambiamenti pro-

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la realtà è stato positivo non solo perché non è stato per-meato dal rancore ma in quanto è stato un pensiero co-struttivo mosso dal desiderio di edificazione di questa di-mora comune. La solidità e la durata nel tempo della co-struzione dipendono in larga misura dagli interventi spe-cifici di “coltivazione”. L’idea di coltivazione si differen-zia da quella di progettazione organizzativa perché laqualificazione della sua azione si basa su relazioni consoggetti autonomi, liberi anche se in situazioni di depriva-zione culturale, sociale, forte limitazione o sofferenza fi-sica. Ecco perché il concetto di “coltivazione” evita ognisoluzione standardizzata d’intervento e si concentra supratiche di sostegno della comunità, di individuare e ana-lizzare i problemi che emergono dalle pratiche, dalle re-lazioni e che, se non affrontati, alla lunga determinano ildeperimento della medesima comunità.

Sotto questo profilo, per riaffermare il senso di appar-tenenza alla comunità, le pratiche dei nostri protagonisti,anche quando le loro azioni hanno determinato forti cam-biamenti collettivi, sono sempre partite da una concezio-ne di sfida alla libertà dei singoli ai quali sono stati offer-ti gesti di matrice non strettamente utilitaristica. Potrem-mo definire questa sfida lanciata dai nostri protagonistianche un forte contrasto culturale al trionfo dell’idea dimoltitudine (A. Bonomi, 1996), intendendo con tale con-cetto tutte quelle voci prive di quei riferimenti forti del-l’epoca precedente. La moltitudine costituisce quel nuo-vo asset comunitario, quel nuovo bacino sociale privo diattori forti ma popolato da una molteplicità di soggettitra loro molto diversi e dotati di propri linguaggi. A que-sta eterogeneità culturale, sociale e politica degli interlo-cutori i nostri protagonisti hanno risposto, quasi semprecon un linguaggio e con corrispondenti pratiche che su-peravano gli schemi precedenti, in quanto la loro azione

be mai pensato senza l’attivazione del pensiero strategi-co! Guy Kawasaki, uno dei più stretti collaboratori diSteve Jobs, lo scomparso fondatore della Apple, era so-lito affermare che «[...] le grandi vittorie arrivano quan-do riesci a liberarti dall’idea di fare meglio la solita co-sa». Questa lapidaria affermazione esemplifica la confi-gurazione dell’unione di ragione e passione, mythos e lo-gos, che produce la discontinuità e la dissimiglianza nellasfera dell’azione, come le storie dei nostri protagonisti citestimoniano, e precostituisce le condizioni di una persi-stenza dei risultati, cioè di una modifica non estempora-nea del contesto di riferimento dell’azione.

Riesce ovviamente quasi impossibile immaginare per iteorici della contemporaneità come un sacrificio “singola-re” possa determinare dei cambiamenti “plurali” anche dilunga deriva. Sta proprio in questo giudizio la rottura delparadigma vigente legato al consumo istantaneo anche diciò che è bonum et iustum e l’instaurazione di una nuovacornice epistemologica che consenta di vedere ciò che al-tri, pur osservando con pignoleria, non sono in grado di di-scernere. In ciò la pratica della narrazione, per parafrasareMontaigne, è l’esercizio di una testa ben fatta e non di unatesta ben piena di oggetti feticisti, di idola destinati a por-tare il Soggetto sulle sabbie mobili dell’ignoranza, sul ter-reno descritto da Daumal di coloro che sanno tutto ma noncomprendono nulla della realtà intorno a se stessi. I no-stri protagonisti hanno avviato, ognuno con la propria sto-ria, un principio di nuova conoscenza della realtà. Spor-candosi le mani con essa, hanno deciso di abitare i luoghi,di fare i conti con la realtà concreta dell’uomo vittima dise stesso o delle ingiustizie e dei pregiudizi degli altri. Es-sere vivi significa abitare una dimora, non essere semprecon la testa e con il corpo da un’altra parte quando c’è bi-sogno di assumersi una responsabilità, rispetto a una situa-

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vocati da queste azioni strategiche. La persistenza di ta-li mutamenti è altresì fortemente influenzata dalla perce-zione “popolare” delle cause che hanno determinato lescelte dei protagonisti nonché ovviamente dai risultatimateriali e immateriali delle loro azioni.

La chiave di lettura ermeneutica di queste storie di vitaci riconduce al tema del dono. La forza del dono fatto al-la comunità non sta nelle cosa donata o nel quantum do-nato – come accade nella graduatoria delle organizzazio-ni filantropiche – ma nella speciale cifra che il dono rap-presenta per il fatto di costituire o ricreare una relazionefra persone, nella quale il destinatario dell’azione possamettere in essere un contro-dono. Se chi riceve gratuita-mente non viene posto nelle condizioni di reciprocare al-trettanto gratuitamente, finirà per sentirsi umiliato e allalunga odierà il suo benefattore. È solo dunque con la re-ciprocità che si attuano il principio e la dinamica del ri-conoscimento fra l’Ego e l’Alter, il principio generatoredella socialità umana. La permanenza del legame, co-me emersione della intensità e della densità della relazio-ne, è l’esito di una lotta vittoriosa contro i pensieri killer,atteggiamenti mentali che paralizzano il Soggetto quan-do il rapporto fra l’Ego e l’Alter è segnato dall’impreve-dibilità o dalla rassegnazione per un esito favorevole rite-nuto impossibile. Per questa ragione l’Ordine e la Disci-plina della Relazione del Dono richiedono il superamentodi comportamenti di consumo della e nella simultaneitànonché la coltivazione del Pensiero Strategico. Con que-sta definizione intendiamo l’educazione della mens a co-gliere i segnali “deboli” (deboli perché percepiti ancorada pochi), i nuovi trend, e raccogliere informazioni a lar-go raggio nella sfera della complessità. Entrano così nel-la mente del Soggetto elementi che ne ristrutturano la vi-sione e lo portano a immaginare qualcosa a cui non avreb-

Soggetto che dell’Altro. Questo racconto può essere con-diviso dalla polis perché assume una connotazione pub-blicistica. Emerge in queste storie che la vita dei protago-nisti viene ripensata con parole diverse, ad esempio la re-sponsabilità, che, secondo il significato etimologico deltermine, aiutano a intraprendere un’altra direzione, unnuovo viaggio, offrire nuove risposte a nuove domande,pur permanendo i nostri protagonisti nel solco della pro-pria tradizione culturale.

In conclusione la parola che si fa narrazione è un mez-zo di ricerca della dignità propria e altrui che genera unnuovo legame. Questa parola, riorganizzando l’esperienza,serve a dare ordine alla vita non solo nella sfera soggettivama anche nella polis. La parola che si fa racconto lasciatraccia e genera una nuova conoscenza della realtà che ri-concilia con il mondo anche perché definisce nuove prati-che di cura nella polis. Con la narrazione e le pratiche cheda essa derivano, pertanto, può rinascere il senso di appar-tenenza alla comunità. Credo che il senso, nella nostra eradella contemporaneità, della narrazione di storie di vita diprotagonisti connessi alla realtà del loro tempo possa esse-re riposto in particolare in quest’ultima affermazione.

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zione concreta che richiede un impegno. Come ci ricor-da il filosofo Jean-Luc Nancy, “dimorare” è una condotta,l’essere-il-ci. L’esserci è l’unica possibilità di comprende-re la realtà senza esserne vinti dalla sua apparente ostilità.

13. Conclusioni

Possiamo provare a individuare alcune generalizza-zioni che diano la forma di qualche risposta alla domandainiziale sul senso oggi del racconto biografico di alcunestorie di vita di protagonisti del ‘900.

Questi personaggi con le loro storie hanno ridato vitaa ciò che nell’epoca della contemporaneità è consideratoirrilevante, incidentale, non ha precedente, fa parte delgià pensato, non appartiene alle nostre esperienze e cono-scenze acquisite e quindi è invisibile nello scenario pub-blico. Essi hanno costruito con un metodo di scavo nelprofondo del disagio, nella fragilità che è la difficoltà daparte dell’uomo di uscire da una percezione di sconfittache non è solo materiale ma imprime «uno stigma nell’a-nima» (M. Foucault). Hanno generato una nuova cono-scenza come chiave per comprendere (cum-prehendere),cioè cogliere la differenza insieme, ciò che accade dentroe fuori di noi, i nostri confini mobili, per avventurarsi nel-la società del rischio (U. Beck), donando anche la vita.

Lavorando sulle terre di mezzo, luoghi in cui si mesco-lano certezze e incertezze, essi hanno generato una nuo-va cultura dell’incontro con l’Altro, non come dimensio-ne intimistica ma nell’Agorà. Hanno generato la storia,come viaggio e racconto di una vita, lasciando la parolaalla vita stessa; un nuovo regime di connessione alla real-tà che la “rigenera”, cioè la fa nuova e nella quale la nar-razione si “fa racconto” di questo cambiamento sia del

Rosario LivatinoUn uomo affamato di giustizia

La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e de-ve essere superata dalla legge della carità che è la leggedell’amore verso Dio e il prossimo in quanto immaginedi Dio, quindi non riducibile alla mera solidarietà umana.

«Da giovani crediamo che il “minimo” che il mondoci debba sia la giustizia; da vecchi ci accorgiamo, invece,che è il “massimo”» dice Marie von Ebner-Eschenbach.Un insegnamento che Rosario Livatino ha scoperto dagiovane, e non da vecchio, e lo ha fatto proprio fino al-la morte. Nell’agenda di Livatino del 1978 c’è un’invo-cazione sulla sua professione di magistrato, datata 18 lu-glio, che suona come consacrazione di una vita: «Oggiho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura.Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giura-mento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che imiei genitori mi hanno impartito, esige».

Fede e diritto, come Livatino spiegò in una conferenzatenuta a Canicattì nell’aprile del 1986 a un gruppo cultu-rale cristiano, sono due realtà «continuamente interdi-pendenti fra loro, sono continuamente in reciproco con-

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Rosario Livatino cercava di guardare tutti, mafiosi ecriminali compresi, con gli occhi di Dio. Fede e dirittonella storia di questo giovane magistrato agrigentino uc-ciso dalla mafia nel 1990 sono due realtà interdipendentie indispensabili. E anche per il suo modo cristiano di in-terpretare il ruolo del giudice, Papa Giovanni Paolo II,dopo avere incontrato i suoi genitori, disse dei morti permano della mafia: «Sono martiri della giustizia e indiret-tamente della fede». E, infatti, Livatino è stato scelto co-me testimone della Chiesa siciliana al Convegno Eccle-siale nazionale di Verona.

Basta guardare la sua biografia e consultare gli archividei tribunali dove prestò servizio per comprendere quan-to intensa e difficile fu la sua attività professionale.

Livatino Nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento,il 3 ottobre 1952. Si laurea in Giurisprudenza all’Univer-sità di Palermo il 9 luglio 1975, a 22 anni, col massimodei voti e la lode. Nel 1978 vince il concorso in magistra-tura e lavora a Caltanissetta come uditore giudiziario pas-sando poi al Tribunale di Agrigento, dove per oltre un de-cennio, dal 29 settembre 1979 al 20 agosto 1989, comesostituto procuratore della Repubblica si occupa delle piùdelicate indagini antimafia, di criminalità comune ma an-che di quella che poi negli anni Novanta sarebbe scoppia-ta come la «Tangentopoli siciliana».

Molto rari sono i suoi interventi pubblici, come anchele immagini che lo ritraggono, e mai volle far parte diclub o associazioni di qualsiasi genere.

È ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 set-tembre 1990 sul viadotto Gasena lungo la Statale 640Agrigento-Caltanissetta, mentre con la sua Ford Fiestaamaranto, senza scorta, si sta recando in Tribunale.

Per la sua morte sono stati individuati, grazie al super-testimone Pietro Ivano Nava, i componenti del comman-

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tatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a vol-te armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sem-pre indispensabile». Forse è per questo che “il giudice ra-gazzino”, per citare il film tratto dall’omonimo libro diNando Dalla Chiesa, attrae così tanto i giovani.

Tutta la vita di Livatino è un inno ai valori, primo tratutti alla giustizia. Rifacendosi ad alcuni passi evangelici,egli osservava come Gesù affermi che «la giustizia è ne-cessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superatadalla legge della carità che è la legge dell’amore, amoreverso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo inquanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibilealla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsiun possibile ulteriore significato: la legge, pur nella suaoggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, èfatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stes-sa interpretazione e la stessa applicazione della legge van-no operate col suo spirito e non in quei termini formali».Ancora su questo aspetto, egli dichiarava: «Cristo non hamai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche sein molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia.Egli ha invece elevato il comandamento della carità a nor-ma obbligatoria di condotta perché è proprio questo saltodi qualità che connota il cristiano». Rispetto al ruolo delmagistrato, nella stessa conferenza, Livatino affermava:«Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene,decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o stradeo soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili chel’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo sceglie-re per decidere, decidere per ordinare, che il magistratocredente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto di-retto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, èpreghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indirettoper il tramite dell’amore verso la persona giudicata».

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Giacomo AlberioneTestimone del Vangelo attraverso i media

Ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuo-vi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato,nuova capacità e nuova coscienza della validità e possibi-lità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzimoderni. Don Alberione, tra i più creativi apostoli del XXsecolo, fondatore della Famiglia Paolina, è il modello diun sacerdote tutto proiettato con passione a comunicare ilVangelo attraverso i mezzi di comunicazione sociale.

Nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile1884, il piccolo Giacomo, quartogenito di una famiglia diumili origini contadine, avverte presto la chiamata diDio. È in prima elementare quando, interrogato dallamaestra su cosa farà da grande, risponde: «Mi farò pre-te!». Quando è adolescente si trasferisce con la famiglianel comune di Cherasco, diocesi di Alba, ed è qui che in-contra don Montersino, parroco di San Martino che loaiuta a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata.

A 16 anni Giacomo viene accolto nel Seminario di Al-ba dove conosce il canonico Francesco Chiesa che gli sa-rà padre, guida, amico e consigliere per 46 anni. Al ter-

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do omicida e i mandanti, tutti condannati all’ergastolo intre diversi processi nei vari gradi di giudizio, con riduzio-ne della pena per i collaboratori di giustizia. Rimane an-cora oscuro, invece, il contesto in cui è maturata la deci-sione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto.

Secondo i collaboratori di giustizia Livatino fu uccisodagli «stiddari», mafiosi delle province interne siciliane,«per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosanostra» e per punire un magistrato severo e imparziale.

na a cui don Giacomo si ispira è composta di fratelli e so-relle. La prima donna che egli segue è una ragazza ven-tenne di Castagnito: Tecla Merlo. Con il suo contributo,Alberione dà inizio alla Congregazione delle Figlie diSan Paolo (1915). Lentamente la “famiglia” si sviluppa,le vocazioni maschili e femminili aumentano, l’apostola-to si delinea e prende forma. Nel dicembre 1918 avvieneuna prima partenza di “Figlie” verso Susa: inizia una co-raggiosa storia di fede e di intraprendenza che genera an-che uno stile caratteristico, denominato “alla paolina”.

Il cammino pare interrompersi nel 1923 quando donAlberione si ammala gravemente e il responso dei medicinon lascia speranze. Ma il fondatore riprende miracolosa-mente il cammino: «San Paolo mi ha guarito» commente-rà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoli-ne la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Mae-stro rivolge al fondatore: «Non temete. Io sono con voi.Di qui voglio illuminare. Abbiate il dolore dei peccati».

Nel 1924 prende vita la seconda congregazione femmi-nile delle Pie Discepole del Divin Maestro, per l’apostola-to eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle don Albe-rione chiama la giovane Suor Maria Scolastica Rivata chemorirà novantenne in concetto di santità.

Sul piano apostolico, don Alberione promuove la stam-pa di edizioni popolari dei Libri Sacri e punta sulle formepiù rapide per far giungere il messaggio di Cristo ai lon-tani: i periodici. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pa-storale destinata ai parroci; nel 1921 nasce il foglio litur-gico-catechetico La Domenica; nel 1931 nasce FamigliaCristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare lavita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio(1933); Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua la-tina; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la co-noscenza e l’insegnamento della dottrina cristiana; La Vi-

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mine dell’Anno Santo 1900, già interpellato dall’encicli-ca Tametsi Futura di Papa Leone XIII, vive l’esperienzache gli segnerà la vita: nella notte del 31 dicembre, versol’alba del nuovo secolo, prega per quattro ore davanti alSantissimo Sacramento. Una particolare luce gli vienedall’Ostia, e da quel momento si sente profondamenteobbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uominidel XX secolo, «obbligato a servire la Chiesa» con i mez-zi nuovi offerti dall’ingegno umano.

La formazione del giovane Giacomo prosegue inten-samente con lo studio della filosofia e della teologia. Il29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote e inviato a Nar-zole (Cuneo) in qualità di vice parroco. Qui in particolarematura la comprensione di ciò che può fare la donna co-involta nell’apostolato, tematica poi approfondita nel li-bro La donna associata allo zelo sacerdotale (1911-1915), mentre del 1912 è Appunti di teologia pastorale.

Nel Seminario di Alba svolge invece il compito di in-segnante e di padre spirituale dei seminaristi maggiori eminori. Si presta per predicazione, catechesi e conferen-ze nelle parrocchie della diocesi; dedica molto tempo al-lo studio sulla situazione della società civile ed ecclesia-le del suo tempo e sulle nuove necessità che si prospet-tano. Comprende che il Signore lo guida ad una missio-ne nuova: predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spi-rito dell’Apostolo Paolo, utilizzando i moderni mezzi dicomunicazione. Tale missione, però, per avere efficacia econtinuità deve essere assunta da persone consacrate poi-ché «le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio». Co-sì il 20 agosto del 1914, mentre a Roma muore il Som-mo Pontefice Pio X, ad Alba don Alberione dà inizio allaFamiglia Paolina con la fondazione della Pia Società SanPaolo. L’inizio è poverissimo, secondo la pedagogia divi-na: «iniziare sempre da un presepio». La famiglia uma-

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na sarà la santità della vita, la seconda la santità della dot-trina». In questa luce va inteso il suo progetto di una en-ciclopedia su Gesù Maestro (1959).

Nel 1954, ricordando il 40esimo di fondazione, donAlberione accetta per la prima volta che si scriva di luinel volume Mi protendo in avanti, ed esaudisce la richie-sta di dare alcuni suoi appunti sulle origini della fonda-zione. Nasce così il volumetto Abundantes divitiæ gra-tiæ suæ, il quale è considerato come la storia carismati-ca della Famiglia Paolina che andò completandosi tra il1957 e il 1960, con la fondazione della quarta congrega-zione femminile dell’Istituto Regina Apostolorum per levocazioni (Suore Apostoline) e degli Istituti di vita seco-lare consacrata San Gabriele Arcangelo, Maria Santissi-ma Annunziata, Gesù Sacerdote e Santa Famiglia.

In tutto sono dieci istituzioni (inclusi i cooperatoripaolini), unite tra loro dallo stesso ideale di santità e apo-stolato: l’avvento di Cristo «Via, Verità e Vita» nel mon-do, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.

Negli anni 1962-1965 don Alberione è protagonista si-lenzioso ma attento del Concilio Vaticano II, alle cui ses-sioni partecipa quotidianamente. Nel frattempo non man-cano tribolazioni e sofferenze: la morte prematura deisuoi primi collaboratori, Timoteo Giaccardo e Tecla Mer-lo; l’assillo per le comunità estere in difficoltà e, perso-nalmente, una crocifiggente scoliosi che lo tormenta gior-no e notte. Compiuta l’opera che Dio gli aveva affidato, il26 novembre 1971, all’età di 87 anni, torna alla Casa delPadre. Le sue ultime ore sono confortate dalla visita e dal-la benedizione di Papa Paolo VI che mai nascose la suaammirazione e venerazione per don Alberione. Al riguar-do, rimane commovente la testimonianza del Papa in oc-casione dell’Udienza concessa alla Famiglia Paolina il 28giugno 1969, quando don Alberione aveva 85 anni: «Ec-

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ta in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far co-noscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello cheserve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa.

Don Alberione pensa anche ai ragazzi e per loro fapubblicare Il Giornalino. Si pone pure mano alla costru-zione del grande tempio a San Paolo in Alba. Seguiran-no i due templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il san-tuario alla Regina degli Apostoli (Roma). Soprattutto simira a uscire dai confini locali e nazionali. Nel 1926 nascela prima Casa filiale a Roma, seguita negli anni successivida molte fondazioni in Italia e all’estero. Intanto crescel’edificio spirituale, insieme con la particolare dedizione aSan Paolo Apostolo, a Gesù Maestro e Pastore, a MariaMadre Maestra e Regina degli Apostoli. Ed è proprio il ri-ferimento all’Apostolo che qualifica nella Chiesa le nuo-ve istituzioni come Famiglia Paolina, il cui obiettivo pri-mario è la conformazione piena a Cristo, ben descritta nelvolumetto Donec formetur Christus in vobis (1932).

Nell’ottobre 1938 don Alberione fonda la terza Con-gregazione femminile delle Suore di Gesù Buon Pastoreo Pastorelle, destinate all’apostolato pastorale diretto inausilio ai pastori. Durante la sosta forzata della secondaguerra mondiale (1940-1945), il fondatore non si arrestanel suo itinerario spirituale. Egli va accogliendo in misu-ra crescente la luce di Dio in un clima di adorazione econtemplazione. Ne sono testimonianza i Taccuini spiri-tuali, nei quali don Alberione annota le ispirazioni e imezzi da adottare per rispondere al progetto di Dio.

In questa atmosfera spirituale nascono le meditazioniche ogni giorno detta ai figli e alle figlie, le direttive perl’apostolato, la predicazione di innumerevoli ritiri e corsidi esercizi (raccolti in altrettanti volumetti).

La premura del fondatore è sempre la stessa: far com-prendere a tutti che «la prima cura nella Famiglia Paoli-

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Don Lorenzo MilaniPrima leggere, poi farecultura partendo dalla scuola

Insegnare a leggere fu la missione che don Lorenzo Mi-lani – prete coerente, amante della Chiesa, desideroso didare e ricevere il perdono – si propose di portare a termi-ne quando mise piede a Barbiana.

Chiunque in quella situazione si sarebbe disperato, luiricominciò la sua vita organizzando una scuola per i pri-mi sei ragazzi che finirono le elementari: una scuola uni-ca al mondo, unica per tutti i bambini figli di contadini.

Oggi la lettura è per molte persone una passione. Ses-sant’anni fa, invece, in Italia il livello di alfabetizzazioneera pari quasi allo zero. Eppure, il modello scolasticotracciato dall’autore di Lettera a una professoressa ri-mane ancora di grande attualità. Nel dopoguerra aiutare ilPaese a liberarsi dalla miseria e dalla fame non era certoimpresa semplice. Erano anni in cui l’Italia e gli italianimancavano di tutto. Servivano strutture per ogni esigen-za della popolazione, e soprattutto servivano scuole. Sol-tanto l’istruzione scolastica e la formazione potevano in-fatti liberare la gente dalla morsa dell’ignoranza, primaforma di povertà che impedisce lo sviluppo. In tutta Ita-

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colo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sem-pre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghieraall’opera, sempre intento a scrutare i segni dei tempi, cioèle più geniali forme di arrivare alle anime, don Alberioneha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovimezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuovacapacità e nuova coscienza della validità e della possibili-tà della sua missione nel mondo moderno e con i mezzimoderni. Lasci, caro don Alberione, che il Papa goda dicodesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essaprodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa».

Il 25 giugno 1996 Giovanni Paolo II firmò il decretocon cui sono riconosciute le virtù eroiche del futuro Beato.

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devono studiare. Il 9 ottobre, nominato cappellano arri-va a San Donato di Calenzano dove rimane per sette an-ni. Ciò che conosciamo di questa esperienza è frutto diuna serie di testimonianze raccolte, ma anche di un epi-stolario e di testi editi, tra cui articoli pubblicati su Ades-so di don Primo Mazzolari e sul Giornale del Mattino.

Dal dicembre 1954 al marzo 1967, cioè dai trentuno aiquarantaquattro anni, don Lorenzo sviluppa l’esperienzadi sant’Andrea di Barbiana da cui prende le mosse l’or-mai famosa Lettera a una professoressa.

Vivere in un periodo storico come quello tra le duegrandi guerre, segnato dalle complicità di classe e dagliorrori del nazifascismo, ha consentito a Milani di analiz-zare con lucidità e sensibilità particolari i meccanismi chesostengono il potere egemone della classe dominante.

«Non tutti gli esseri umani nascono eguali. Se poi cre-scendo non lo sono, tocca a noi rimediare», scrive in Let-tera a una professoressa, testo ancora oggi più che maisignificativo e sempre attuale che aiuta a ragionare suquello che deve essere la scuola.

Quella di don Milani è un’operazione culturale impor-tante e rivoluzionaria. Educare alla lettura significa infattiistruire i ragazzi, e a quel tempo l’alfabetizzazione non eracerto alla portata di tutti. La Lettera fu un appello per unanuova generazione di educatori-maestri, più aperti e impe-gnati a servire i poveri e gli emarginati. Anche in questoaspetto il testo si può considerare di grande attualità.

La vita di don Lorenzo Milani è stata breve ma intensae ha lasciato profondamente il segno nella storia religiosaeducativa e sociale della seconda metà del novecento.

Il suo modo di essere sacerdote, a Barbiana si defini-sce completamente. Quella frazione nell’Appennino to-scano non era niente, non era un paese, non era un villag-gio. C’erano solamente una chiesa con la canonica e po-

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lia, nascono così molti pionieri della scuola e tra loro c’èdon Lorenzo Milani, la cui pedagogia e testimonianza divita continuano a suscitare attenzione.

Lorenzo nasce il 27 maggio 1923 a Firenze da una fa-miglia benestante di livello culturale molto alto, inseritain una ricca e ampia rete di relazioni sia da parte del pa-dre, sia da parte della madre che è di origine ebraica. Dal-l’inverno 1930 all’autunno 1942 la famiglia si trasferiscea Milano, senza tuttavia mai perdere i contatti con Firen-ze e la Toscana. Dai sei ai diciannove anni Lorenzo fre-quenta le scuole a Milano e poi l’Accademia di Brera.

Una mattina d’estate del 1943 entra nella sacrestia diSanta Maria Visdomini nel cuore di Firenze. «Per salva-re l’anima venne da me – dirà monsignor Raffaello Ben-si, padre spirituale di Lorenzo seminarista in una delle po-che testimonianze da lui lasciate –. Da quel giorno d’ago-sto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vange-lo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto,senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni co-sto. Trasparente e duro come un diamante, doveva subitoferirsi e ferire. E così fu». Il 9 novembre entra in Semina-rio e vi rimane fino al 1947, salvo alcuni periodi, a causadella guerra nel 1944 e poi in occasione di malattie.

Racconta ancora Bensi: «[...] mi chiamava il su’ babboe il su’ nonno, e anche quando pareva che fosse venutosenza scopo, bastava quel certo modo di guardarmi per-ché capissi che dovevo far qualcosa per aiutarlo. Ho sem-pre fatto tutto quello che ho potuto, anche se lui, benedet-to testone, si cacciava subito in guai peggiori [...]».

Il 14 luglio del 1947 celebra la prima Messa, presso lachiesa dove è parroco don Bensi. Dall’agosto all’ottobreè coadiutore provvisorio del parroco a Montespertoli e,come risulta da testimonianze documentali, avvia unascuola dove aiuta, anche organizzando lezioni, giovani che

Nino BaglieriL’atleta della fede

Nino Baglieri era un diciassettenne con tanta voglia di vi-vere e tanti sogni per il futuro, il culto del fisico asciut-to, tanta forza e spensieratezza. Tutto però precipita insie-me a lui un lunedì tiepido di primavera.

È il 6 maggio del 1968 quando Nino cade da una im-palcatura al quarto piano mentre intonaca la parete ester-na di un palazzo, e da quel giorno la sua vita non è più lastessa. Un volo di diciassette metri, lo schianto a terra euna diagnosi tremenda: frattura dalla quinta alla settimavertebra cervicale e un’altra esposta al femore destro. Al-l’ospedale Maggiore di Modica delineano un quadro cli-nico gravissimo, tanto che si consiglia il trasferimentodel paziente presso il più attrezzato nosocomio di Siracu-sa. All’epoca Nino era un diciassettenne con tanta vogliadi vivere e tanti sogni per il futuro, il culto del fisicoasciutto, tanta forza e spensieratezza. Tutto però precipitainsieme a lui quel lunedì tiepido di primavera.

Le sue condizioni sono talmente gravi che anche a Si-racusa il personale sanitario può fare ben poco. Aspettan-dosi il decesso, subito gli consigliano la somministrazio-

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che povere case sparse nel bosco. Senza scuola, strade,luce e acqua potabile. Senza popolo (solo quaranta ani-me), senza futuro e senza speranza: un vero esilio eccle-siastico per un sacerdote di 31 anni. Chiunque in quellasituazione si sarebbe disperato. Lui invece ricominciò lasua vita organizzando una scuola per i primi sei ragazziche finirono le elementari: una scuola unica al mondo;unica per ragazzi tutti figli di contadini; unica per orari,otto ore al giorno per tutti i giorni comprese le domenichee le feste; unica per metodo; unica per insegnanti. Unascuola severa e impegnativa che poneva ai ragazzi obiet-tivi alti mai legati all’interesse individuale, ma semprecon lo sguardo rivolto alla umanità sofferente.

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croce che il Signore gli aveva affidato divenne una com-pagna, una testimonianza e un messaggio per tutti coloroche nella sua casa accanto all’oratorio dei salesiani diModica Alta lo andavano a trovare. Chi usciva da quellacasa non poteva nascondere la gioia di aver incontratoNino, che a tutti consegnava parole di conforto e bigliet-tini che lodavano Dio scritti con la penna sulle labbra.

Nel 1982 entra nella famiglia salesiana. Gli succedonocose straordinarie: impara a scrivere con la bocca, a com-porre numeri di telefono grazie a un’asticella e a usare ilcomputer, spinto dal desiderio e dalla volontà di testimo-niare il Vangelo della gioia e della speranza a quanti vo-lessero mettersi in contatto con lui e ascoltarlo.

Dopo trentanove anni di infermità totale e di sofferen-za vissuta con coraggio nella fede è morto all’età di 56anni nel letto della sua casa circondato dall’affetto di tan-ti amici – tra i quali l’allora vescovo Angelo Comastri,oggi cardinale – e dalla sua famiglia.

La sua esperienza, già raccontata da lui stesso in un li-bro che scrisse con la penna in bocca, è una storia di sof-ferenza vissuta nella fede senza polemiche, in forte alter-nativa al sistema di oggi che propone l’idea della vita co-me di un bene disponibile da valutare solo in base allecondizioni o alle sensazioni che lo caratterizzano nellesue varie fasi. Sul letto di morte i familiari hanno realiz-zato il suo ultimo desiderio: vestirlo con tuta e scarpe daginnastica per affrontare la sua ultima corsa, quella del-l’incontro con il Signore che gli aveva dato la vita, quellastessa esistenza che è stata una testimonianza di fede vis-suta e alimentata nei sacramenti, lucida e profonda, basa-ta anche sulla partecipazione alla vita comunitaria.

Nino Baglieri resta l’esempio di un grande atleta dellafede. Un uomo che sulle capacità fisiche fondava il suo la-voro, ma che qualcuno più in alto di lui ha messo alla pro-

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ne del sacramento dell’estrema unzione. Poi uno dei me-dici, il professor Carnera, fa un’insolita proposta ai geni-tori: «Se vostro figlio riuscisse a superare questi momenti,il che sarebbe solo frutto di un miracolo, dovrebbe passarela sua vita in un letto; se voi credete, con una puntura le-tale potete risparmiare sia a voi che a lui tante sofferenze».

Una proposta che la madre di Nino immediatamenterifiuta: «Se Dio lo vuole con sé lo prenda, ma se lo lasciavivere sarò felice di accudirlo ogni giorno».

Nonostante le cure e numerose consultazioni, la pro-gnosi definitiva non lascia speranza: Nino dovrà trascor-rere la vita sdraiato su un letto o in carrozzina, con il cor-po completamente paralizzato e la possibilità di muoveresolo la testa. All’inizio nel suo cuore c’è tanta rabbia e di-sperazione. Poi, dopo dieci anni trascorsi in solitudine,tra pianti e sogni ad occhi aperti, imprecazioni e altrettan-te preghiere della madre, sente qualcosa che gli scuoteprofondamente l’anima. Come scrive lui stesso, «il ve-nerdì santo del 1978, verso le 17, venne a trovarmi il sa-cerdote coordinatore del movimento di Rinnovamentonello Spirito, don Aldo Modica, insieme al gruppo di pre-ghiera della mia città. Ero felice di quella visita perchécredevo che grazie ad essa il Signore potesse operare inme la guarigione fisica. Chiesi perfino a mia madre dimettermi il pigiama perché fossi vestito nel caso in cuiDio mi facesse la grazia di alzarmi dal letto». Invece, do-po che il sacerdote impose le mani sulla sua testa e tutti siunirono in preghiera, Nino si sentì un uomo nuovo nelcuore. Dieci anni di disperazione furono cancellati in po-chi istanti e una guarigione più grande di quella del cor-po: la guarigione spirituale. Nino continuava a non potercamminare, mangiare, lavarsi e vestirsi da solo, ma la suavita da quel momento cambiò: non sentiva più il letto co-me una catena, la camera come una prigione. Da allora la

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Paul ClaudelQuando il corpo esprime la poesia di Dio

«Agisci in modo che le tue azioni e i tuoi pensieri segre-ti non solo non impediscano l’armonia di cui sei un ele-mento, ma la creino attorno ad essi». La frase è di PaulClaudel, poeta e drammaturgo, nonché diplomatico fran-cese, tutto orientato, dopo gli anni della sua conversione,a comunicare attraverso l’arte e la letteratura la Parola diDio, proteso verso quell’armonia dell’uomo e del suocorpo che è espressione di Colui che ci ha creati.

Chiediamoci che cosa più del corpo umano sia immagi-ne armoniosa di Colui che ci ha creati. Nella società fran-cese di fine ‘800 e inizio ‘900, sconvolta da una crisi pro-fonda che aveva rimesso in discussione tutto distruggen-do gli stessi valori ideali che permettono all’uomo diconservare la sua dignità umana, Claudel tuona forte e ri-vendica la riappropriazione della coscienza umana con-tro tutti i tentativi di seppellirla sotto la grande fede ma-terialista nel progresso scientifico, capace di dare la spie-gazione dell’universo, dell’uomo pensante e addiritturadi Dio. Non era uomo dal carattere facile, non si piegavaai compromessi e non ammetteva incertezze e sfumatu-

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va. Un grande testimone di umanità, di esemplarità cri-stiana nella sofferenza, di amore verso quelli che puravendo un fisico in forma e integro non comprendonoche il significato profondo dell’esistenza umana è annun-ciare il Vangelo attraverso la propria vita.

particolare gli infondono una visione del mondo e dellavita angosciosa e disperata che egli non comunica ad al-cuno. Frequenta il liceo Louis Le-Grand dove imperversala moda del positivismo materialista di Taine e di Renanche in nulla placa la sua inquietudine interiore. Un am-biente, quello liceale, che lo sconvolge.

Nella sua lotta per la vita, mossa dal desiderio di cer-care il senso e lo scopo di un’esistenza terrena, finalmen-te trova un primo punto fermo cui ancorarsi: nel giugno1886 legge l’inizio del poema Les Illuminations di Ar-thur Rimbaud. Claudel si riconosce simile a lui: ambeduesolitari, assetati di verità, profondamente attaccati allastessa dura terra che è il mondo ma come attratti da qual-cosa di sconosciuto, superiore e ben più importante del-l’uomo in sé. Claudel impara in questo modo a respirare,a dar voce e spessore alle sue domande interiori nellaconsapevolezza della vacuità dell’animo umano che fa diogni persona un essere condannato all’insoddisfazioneperpetua. Una simile intuizione ha come esigenza prima-ria il bisogno di colmare il vuoto che esiste tra l’uomo eil soprannaturale, cioè l’incarnazione del soprannaturale,come dice egli stesso. È questo il punto di partenza fon-damentale del suo cammino verso la fede che arriverà al-la conversione nel Natale del 1886: colpito dal canto delMagnificat mentre assiste alla funzione dei Vespri diNatale a Notre-Dame, avverte il sentimento vivo dellapresenza di Dio: «In un istante il mio cuore fu toccato eio credetti» ebbe modo di dire successivamente.

Solo ventisette anni dopo (nel 1913) Claudel si sente ingrado di parlare e di raccontare questo momento capitaledella sua vita, ma il tempo intercorso non ha tolto o ag-giunto alcunché alla realtà di quell’avvenimento. In quel-l’istante luminoso Claudel ha percepito la sua vocazione,ciò a cui era chiamato, ciò che doveva dare alla sua vita il

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re. Là dove, ad esempio, l’ortodossia dei cattolici gli ap-pariva imperfetta, troncava ogni rapporto, come fu perMaritain, allontanando coloro che si mettevano in contra-sto con le sue posizioni e convinzioni. Non fece mai nullaper creare attorno a sé un clima di amicizia e di affetto equesto non contribuì a creare attorno a lui commenti po-sitivi. Così, se Rivière, Jammes e Milhaud lo seguironoanche nella conversione a Dio perché colpiti dal grandevalore che la sua vita e la sua opera esprimevano, altri co-me Gide, e in fondo molti dei grandi artisti del ‘900, eb-bero nei suoi confronti un atteggiamento apertamenteostile, rifiutando in blocco la sua produzione letteraria.

Paul Claudel nasce a Villeneuve-sur-Fère-en-Tarde-nois, il 6 agosto del 1868, ultimo di quattro figli. Qui vie-ne battezzato l’8 settembre e consacrato alla Vergine Ma-ria, come egli stesso amerà ripetere più volte. A Villeneu-ve, Claudel resta solo due anni poiché il padre è costrettodalla sua professione (era conservatore delle ipoteche) avari trasferimenti, finché nel 1882 si stabilisce a Parigidove tuttavia la famiglia continua a vivere disunita, ritro-vandosi insieme soltanto la domenica.

Durante le vacanze Claudel ritorna al paese natale do-ve vive ancora il nonno materno. Il piccolo è molto lega-to al nonno e l’agonia lunga e dolorosa dell’uomo lo se-gnerà in modo quasi traumatico. La lontananza, gli inte-ressi diversi, le amicizie non gli faranno mai dimentica-re questo piccolo paese in cui ha avuto il primo contat-to con il mondo e con l’universo intero. Ma se Villenue-ve lo ha visto nascere, è Parigi che lo vede crescere in tut-ti i sensi. Claudel è un solitario introverso e nessuno, nédella sua famiglia né tra i suoi amici, ha sospetti sulla cri-si profonda che lo attraversa. Le sue letture sono scelte acaso, seguendo l’istinto personale: i romanzi di Hugo, diZola, La vie de Jésus di Renan. Questi ultimi in modo

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Emmanuel LévinasLa filosofia del limite

«Il nostro rapporto col mondo, prima ancora di essere unrapporto con le cose, è un rapporto con l’Altro. È un rap-porto prioritario che la tradizione metafisica occidentaleha occultato, cercando di assorbire e identificare l’altro asé, spogliandolo della sua alterità». Sono parole del filo-sofo Emmanuel Lévinas, nato a Kaunas, in Lituania, nel1905 da una famiglia ebrea e vissuto durante la rivoluzio-ne russa in Ucraina. Per Lévinas l’Altro è un viatico chepuò ricondurre alla fede poiché l’Altro, con la sua irridu-cibilità e alterità, è la rivelazione dell’infinito, dell’infini-ta alterità, che pure è presente e ci ispira, anche se non sisvela compiutamente a noi. Lévinas contrappone Rivela-zione biblica a Ossessione dell’essere: è la prima a con-sentirci di riconoscere l’Altro come tale, con una sua to-tale autonomia, un suo compiuto orizzonte di senso. Es-sa ci impone di non ridurlo a noi stessi con un uso totaliz-zante delle nostre categorie interpretative. Ma la relazio-ne all’Altro, oltre che fondata sulla fede, ha anche unaconnotazione etica: l’irriducibile alterità dell’Altro è quel-la, ad esempio, che ci impone di non uccidere o che ali-

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senso che le mancava. Così tutta l’arte, la letteratura e lapoesia di Claudel è protesa a quell’armonia che è espres-sione dell’uomo immagine e somiglianza di Dio.

Dice Armogathe che Claudel in quell’istante si è sen-tito chiamato alla scrittura: egli infatti comincia solo allo-ra la sua attività letteraria che, proprio perché nata dallacertezza della presenza divina, non si disgiunge mai dalsuo cammino di fede ma di questo diventa strumento diconoscenza e di espressione. Il primo abbozzo del dram-ma La giovane Violaine nasce proprio dall’antitesi tra ter-ra e cielo, tra l’attaccamento profondo alla terra e a quantoessa dispensa e il desiderio insaziabile di far posto a Dionella sua vita, teso a far sì che in ogni momento umanopenetri e si dilati il soffio vitale di Colui che si è rivelato.

Dopo aver svolto studi nel campo del diritto, Claudel la-vorò per il Ministero degli Esteri e intraprese la carriera di-plomatica. Contemporaneamente si interessò alla letteratu-ra privilegiando, fra gli altri, Shakespeare, Dante, Dosto-evskij. Conobbe Mallarmé e partecipò ai suoi martedì. Nel1893 fu console negli Stati Uniti, suo primo incarico all’e-stero. Da allora soggiornò in moltissimi paesi: Cina, Giap-pone, Germania, Italia, Brasile. Ritornò negli Stati Unitinel 1927 come ambasciatore. L’ultimo suo incarico fu aBruxelles fino al 1935, anno del suo congedo dal lavoro.

La sua movimentata carriera non gli impedì di avereuna famiglia: nel 1906 si sposò con Regina Perrin ed eb-be molti figli. Nel 1946 fu eletto accademico di Fran-cia. Scrisse varie opere poetiche e teatrali, ma il lavoroche lo prese tutta la vita fu L’Annuncio a Maria di cuipresentò innumerevoli stesure, la prima nel 1892, l’ulti-ma nel 1948: si tratta di un dramma in cui, tramite il rac-conto delle vicende di Violaine (il personaggio principa-le) e della sua famiglia, si esplora il ruolo delle vicendeumane in rapporto alla totalità di ciò che esiste.

tate da un ordinamento giuridico, ma ci sono regole e co-dici di comportamento che danno l’idea di quanto sia im-portante agire con responsabilità, discernimento, equili-brio. Tutto ciò fa capire che ogni persona umana non puòavere comportamenti illimitati e che c’è un “limite” a tut-to. Il pensiero di Emmanuel Lévinas nasce, cresce e siconsolida nel tempo durante tutta la sua vita. Nel 1923 sitrasferisce in Francia a Strasburgo, dove inizia gli studiuniversitari, seguendo i corsi di Blondel e di Halbwachs.Nel 1928-1929 si reca a Friburgo, dove assiste alle ultimelezioni di Husserl e conosce Heidegger di cui rimane af-fascinato. L’«apprendistato della fenomenologia», comeegli lo ha definito, orienterà poi la sua ricerca personale.Dal 1930 fino alla guerra occupa diverse funzioni nellaÉcole Normale Israélite di Auteuil, che forma gli inse-gnanti dell’Alliance Israélite Universelle, e stringe ami-cizia con Henri Nerson, cui dedicherà il suo primo librodi scritti giudaici Difficile Liberté. Lévinas rievoca spes-so gli anni dei suoi studi universitari a Friburgo, dove sirecò prima che «Hitler diventasse Hitler». Fa poi ritornoin Francia prima che Hitler salisse al potere, nel 1932.

Molto interessante per prendere spunti sul concetto dilimite è il testo Dall’esistenza all’esistente, scritto nel1947. Di quest’opera non si comprenderà nulla se non lasi illumina con il «sole nero» che ha coperto l’Europa trail 1939 e il 1945, dove la semplice positività autoeviden-te dell’esistere è stata scossa per sempre, ha visto svani-re il suo diritto. Tutta l’opera di Lévinas è “assillata” daciò che non può essere detto (anche questo è un limite,nda). E non per dirlo, finalmente, piegandolo alle condi-zioni del linguaggio, ma per ricomprendere l’intero com-pito del linguaggio e della parola a partire da ciò che ine-vitabilmente vi si sottrae. Una comunicazione con l’altroche lo lasci essere altro, senza ridurlo alla comune misu-

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menta, quando lo facciamo, un perenne rimorso della co-scienza. Ecco perché la relazione e la responsabilità cheabbiamo nei confronti dell’Altro sono una dimensione co-stitutiva di noi stessi. Da qui le basi dell’origine del limi-te umano. Per dirla come più volte maestri e docenti sot-tolineano ai propri alunni e allievi, «la libertà di fare lecose finisce dove inizia la libertà dell’altro». Ecco il limi-te umano nelle relazioni quotidiane. Per diversi studio-si, la riflessione di Lévinas sull’Altro costituisce uno deifondamenti teorici del multiculturalismo contempora-neo, suggerisce, cioè, una visione nuova e diversa dei rap-porti fra gli individui e fra le culture: come rapporti fra di-versi, che come tali vanno riconosciuti e valorizzati. So-lo attraverso questo riconoscimento è possibile attivareuna comunicazione autentica fra le culture, senza affer-mazioni egemoniche di una sull’altra. Questa è una pro-spettiva feconda, attraverso cui, ad esempio, è possibileguardare in modo nuovo ai problemi di rapporti fra le cul-ture che vengono a determinarsi con i processi migratori inatto su scala planetaria. Il pensiero di Lévinas si è svilup-pato, quindi, su due versanti privilegiati: l’esercizio feno-menologico di cui è stato tra i primi rappresentanti inFrancia e le letture talmudiche, ispirate a temi biblici edebraici. Partendo da Heidegger, Lévinas rimette in que-stione il primato del problema dell’essere, dominato dalprincipio di totalità, per cercare nell’appello dell’alterità ilfondamento di una soggettività autentica. In questa premi-nenza dell’etica, nella parte più interna della quale si in-contra il principio dostoevskiano della responsabilità uni-versale, l’essere responsabili di tutto verso tutti, Lévinasritrova il tema della Legge, centrale nel pensiero ebraico.

È qui che si potrebbe inserire il concetto di regola, in-tesa anche e non solo come “regola di condotta”. Nella vi-ta di ogni persona non esistono solamente le “regole” det-

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Agostino GemelliLa sfida culturale del primo dopoguerra

Il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore de-dicò la sua vita alla trasmissione dei nuovi saperi e del-le conoscenze. Nel 1909 fondò la Rivista di filosofia neo-scolastica e nel 1914 la rivista di cultura Vita e Pensie-ro in risposta alle derive del tempo. Un impegno per l’e-ducazione, una sensibilità verso la conoscenza e i nuovisaperi, oltre che una vita spesa per la Chiesa.

Padre Agostino, al secolo Edoardo Gemelli, nacque aMilano il 18 gennaio 1878 da un’agiata famiglia borghe-se. Il padre, iscritto alla massoneria, e la madre gli diede-ro un’educazione fondata esclusivamente sull’onestà na-turale. Nella Facoltà di Medicina a Pavia, allievo del Col-legio Ghislieri, assorbì lo spirito positivista e anticlerica-le che vi dominava. Portato, oltre che allo studio, all’a-zione, si gettò ben presto nella mischia delle lotte sociali,come esponente socialista. Un inizio turbolento, influen-zato dalla cultura del tempo, che però ebbe una battutad’arresto quando ritornò a Milano. Infatti, dopo la laurea,discussa con il premio Nobel Camillo Golgi, Edoardo fe-ce il servizio militare presso l’ospedale di Sant’Ambro-

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ra. Un cammino che, obbediente all’intenzione ebraica del«dabar», che assieme significa «parola» ed «evento», ciconduca verso una patria nella quale non siamo mai nati.

Nessun ritorno all’origine, dunque, nessuna ricompo-sizione, ma esodo, partenza, destituzione della sovranitàdi un soggetto che conosce e dispone e che, nella sua ori-ginaria libertà, dice e pensa ogni cosa a partire da sé, co-me se avesse assistito alla creazione del mondo e allapropria stessa nascita. Generalmente si affronta il pensie-ro di un filosofo attraverso l’enucleazione dei suoi temi,ma è proprio questo che in Lévinas risulta impossibile.L’unico suo interesse è nella costruzione di un pensiero edi una scrittura che si lascino sollecitare da ciò che resistealla coscienza e al suo movimento appropriante.

Il profilo di padre Gemelli resta attuale. Basta confron-tare la società di oggi per capire che i nuovi saperi, le co-noscenze, le competenze e tutto ciò che rientra nel gran-de fiume dell’educazione e della formazione spesso è unconcentrato di superficialità e disinformazione culturale.

Le ricerche scientifiche di padre Gemelli continuaro-no in laboratori italiani ed esteri, a Bonn, Francoforte,Monaco di Baviera, Vienna, Amsterdam, Colonia, Parigi,Lovanio, Mannheim. Poi, nel 1911, conseguita la specia-lizzazione in istologia all’Università di Lovanio, si diedealle ricerche di psicologia sperimentale prima col Kiesownel laboratorio dell’Università di Torino, poi col Külpe al-l’Università di Monaco e nella clinica psichiatrica delKraepelin a Monaco fino al 1914, anno in cui conseguì lalibera docenza in psicologia sperimentale, ricusando qua-si contemporaneamente l’invito che gli veniva dal lontanoGiappone di coprire la cattedra di psicologia nell’Univer-sità di Tokyo. Durante la prima guerra mondiale prestò lasua opera al fronte, come medico e sacerdote. A lui si devel’Opera di consacrazione dei soldati dell’esercito e dellamarina d’Italia, che portò quasi due milioni di soldati alla“sacra comunione” nel primo venerdì del gennaio 1917.

A guerra conclusa padre Gemelli ritornò alle ricerchescientifiche toccando i vari settori della psicologia speri-mentale e applicata. In particolare sono da segnalare glistudi di antropologia criminale e di psicologia professio-nale, ma anche quelli sulla fonetica sperimentale e suirapporti tra biologia – soprattutto la neurologia – e psico-logia. Padre Gemelli, grazie all’opera prestata durante laguerra nel laboratorio psicofisiologico da lui fondato ediretto presso il comando supremo dell’esercito, compìpure importanti studi sulla psicologia dei soldati, spe-cialmente degli aviatori. Una vita, quella di padre Ago-stino, che si arricchisce di elementi ancora più interessan-

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gio con un vecchio amico e compagno di scuola, Ludovi-co Necchi, e con un padre francescano, Arcangelo Maz-zotti. Partendo dall’esempio e dalle discussioni avute coni due, Gemelli cercò momenti di studio diversi da quelliseguiti fino a quel momento. Così arrivò ben presto allaconversione, che già stava maturando da tempo attraversola critica al positivismo e alla delusione provocata in luidal marxismo. Una convinzione, questa, che nel novem-bre del 1903 lo portò alla decisione di entrare nel conven-to francescano di Rezzato a Brescia, dove assunse il nomedi fra Agostino. Fu ordinato sacerdote il 14 marzo 1908.

Deciso a mettere la sua cultura a servizio della veritàcristiana, insieme a Ludovico Necchi, monsignor France-sco Olgiati, Armida Barelli, Ernesto Lombardo e tanti al-tri – tutti amici che gli saranno sempre fedeli collaborato-ri – nel 1909 fondò la Rivista di filosofia neoscolastica enel 1914 Vita e Pensiero. L’amore per la trasmissione del-la conoscenza attraverso la cultura derivante da un retro-terra culturale cristiano fu la “mission” di Gemelli. I sa-peri non potevano essere lasciati alle correnti filosofichee di pensiero che andavano maggiormente di moda, a se-conda del vento che soffiava all’interno della società deltempo. Era più che mai necessario partire dal Vangelo perfare cultura. Sin dal primo numero della Rivista di filo-sofia neoscolastica, l’impostazione vigorosa e battaglie-ra emerse con un articolo, «Medioevalismo», nel quale siproclamava che l’«unica risposta ai gravi problemi postidalla civiltà moderna poteva essere trovata in un intelli-gente ritorno alla concezione organica e teocentrica delMedio Evo cristiano». Sono gli anni in cui Gemelli com-batté pure la cosiddetta «lotta per Lourdes», difendendo imiracoli ivi avvenuti contro alcuni circoli medici legatialla massoneria che tentavano di diffondere nel popolo enelle classi colte le loro negazioni e il loro agnosticismo.

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Ryszard KapuscinskiIl cronista che ascoltava le persone

«Al viaggio è connaturale l’incontro con il diverso da teche ti apre a prospettive nuove e ti fa scoprire quello chesei», dice un antico proverbio swahili di una terra, l’Afri-ca, tanto affascinante quanto martoriata e raccontata ve-ramente da pochi reporter al mondo.

Ryszard Kapuscinski è stato un giornalista che, per dir-la con le parole di un altro grande inviato di guerra, Egi-sto Corradi, ha «consumato le suole delle scarpe» per levie polverose del continente nero anche a rischio dellapropria vita, come quella volta in cui, trovandosi in unastrada sperduta dell’Africa, si trovò davanti a un gruppet-to di bambini che gli puntavano i loro mitra addosso e neuscì fuori grazie alla provvidenza o forse per fortuna.

Per capire il profilo e il carattere di Kapuscinski bastaleggere il suo libro Autoritratto di un reporter. Egli è sta-to un uomo cresciuto nella povertà che a un certo puntodella propria esistenza decide di intraprendere un viag-gio per descrivere mondi e lanciare un messaggio attraver-so i suoi reportage: l’importanza della comprensione e delrispetto per le sofferenze degli altri. Autoritratto di un re-

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ti dopo che il 16 aprile 1919 costituì, con la collaborazio-ne dell’on. Filippo Meda, l’Istituto di studi superiori Giu-seppe Toniolo eretto in ente morale con Regio Decretodel 20 giugno 1920 a firma di Benedetto Croce, ministrodella Pubblica Istruzione nell’appena costituito governoGiolitti. L’istituto diverrà l’ente promotore dell’attualeUniversità Cattolica del Sacro Cuore. Il 2 aprile 1919 pa-dre Gemelli aveva iniziato le pratiche per ottenere intantoil riconoscimento pontificio. Il suo progetto doveva supe-rare il veto di alcuni consultori vaticani al piano di studie al modello di università proposto. Inoltre doveva repe-rire finanziamenti, sede e attrezzature. Padre Gemelli ciriuscì grazie all’industriale tessile Ernesto Lombardo e aisuoi storici collaboratori, fra cui Armida Barelli, presi-dente della Gioventù femminile cattolica, organizzazioneche costituirà per almeno tre decenni la principale strut-tura di propaganda e di sostegno materiale dell’ateneo.

Il 9 febbraio 1921 ci fu l’approvazione di BenedettoXV e l’Università Cattolica fu inaugurata il 7 dicembresuccessivo con due facoltà: filosofia e scienze sociali.

la: bisogna cercare in profondità e risalire alle cause, chepoi stanno nella cultura. Con quali motivazioni, se noncon quelle di tipo culturale, spiegare il fatto che oggi certiPaesi dell’Africa si trovano a un livello superiore di altri,pur essendo partiti alla pari? La cultura si manifesta piùnella vita quotidiana che nei rivolgimenti, per cui è pro-prio a essa che bisogna guardare».

Questo sforzo umano e professionale resta una costan-te in Kapuscinski ed emerge da Autoritratto di un repor-ter e da tutte le sue opere. Certo, nella vita dell’inviato diguerra non sono mancati momenti di scoraggiamento co-me nel 1956, anno in cui Ryszard si trovava in India men-tre imperversava la crisi di Suez, e nel 1957 nella Cina co-munista. Qui il giornalista cercò di raccontare nei limi-ti del possibile – e della censura di regime – due difficilirealtà, ma non rimase immune dal senso di impotenza,quasi di sconfitta, davanti all’impenetrabile situazionepolitica, sociale e culturale indiana e cinese.

Tuttavia sarà l’Africa a conquistare il cuore del repor-ter originario di Pinsk. La sua attività professionale si in-treccia con la Pap, l’Agenzia polacca di stampa, in cui ri-vestirà un incarico senza precedenti: unico corrisponden-te estero dall’Africa tra il 1962 e il 1966. Nel cosiddettoTerzo Mondo Ryszard Kapuscinski ritroverà se stesso eperfezionerà uno stile di scrittura asciutto, descrittivo eprivo delle enfasi ideologiche del tempo, caratteristicodella metodologia di lavoro in uso nelle agenzie di infor-mazioni moderne – complice il fatto che durante il perio-do della guerra fredda, nel sistema politico socialista ilgiornalista doveva inviare i pezzi senza alcun commento(i lanci o take venivano pubblicati sul bollettino dell’a-genzia riservato ai quadri dirigenti del partito, poi un re-dattore confezionava la versione tagliata e politicamentecorretta per i giornali polacchi, nda). In Africa, in Ameri-

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porter ripercorre la vita del grande cronista, partendo dal-le sue origini e proseguendo nella descrizione delle ra-gioni che lo hanno condotto a scegliere la professione direporter. Un libro che si aggiunge a tutta la ricca produ-zione pubblicistica di Kapuscinski da Imperium, Lapi-darium, Il Negus e Shah-in-shah fino a Ebano, La pri-ma guerra del football e In viaggio con Erodoto.

In ogni pagina di Autoritratto di un reporter trasparel’amore per il diverso e il nuovo che ha portato lo stes-so Kapuscinski a coltivare l’interesse verso l’antropolo-gia e gli studi di Margaret Mead e di Bronislaw Malinow-ski. Quest’ultimo ai primi del ‘900 disse che non esisto-no razze, ma diversità umane. Kapuscinski lo ha scoper-to viaggiando: «Si viaggia per vedere chi sono gli altri.Ma nell’istante in cui lo si scopre, si capisce anche chi sia-mo noi. Io ho scoperto di essere un uomo bianco grazie almio primo viaggio in Africa. Ero in Ghana, nel 1957, pervedere il primo paese dell’Africa subsahariana che ha ot-tenuto l’indipendenza. All’improvviso, per la strada honotato che tutti mi guardavano. Ero diverso, avevo la pel-le bianca. Non ci avevo mai pensato prima».

Kapuscinski più volte cita nei suoi saggi Malinow-ski sottolineando che la professione dell’antropologo èuna presenza partecipativa come quella del reporter. Mac’è di più: il mestiere del reporter è affine a quello del-l’interprete. C’è bisogno di costruttori di ponti tra le cul-ture: gli interpreti e i reporter lo sono. Quella di Kapu-scinski sembra essere quasi una risposta a quanti, comeHuntington, teorizzavano lo scontro di civiltà.

Scrive Kapuscinski: «Più della rivoluzione in sé, miinteressa ciò che è avvenuto prima; più del fronte, quelloche vi accade dietro; più della guerra, quello che verràdopo la guerra. Si continuano a descrivere sempre nuoviattentati, colpi di Stato e rivolte senza mai spiegare nul-

Giovanni Paolo IIIl papa pellegrino

Il pontefice che diede vita alle Giornate mondiali dellagioventù è una figura di santità senza precedenti. I viag-gi, il feeling con i giovani, la vicinanza ai poveri e agli ul-timi, il no alla guerra e i sì alla pace. Promotore dell’in-contro ecumenico e del dialogo interreligioso tra i popolidella Terra, Karol Wojtyla oltre che guida spirituale e re-ligiosa della Chiesa cattolica universale sarà ricordatocome uno dei protagonisti assoluto della scena mondialetra gli anni Ottanta e i primi anni del Terzo millennio.

Un pontificato ricco di pellegrinaggi quello di Gio-vanni Paolo II, un Papa che può essere considerato dop-piamente pellegrino: da una parte viaggiatore instancabi-le nel mondo, predicatore del Vangelo nei luoghi più lon-tani dalla parola di Dio e testimone di Cristo Risorto, dal-l’altra vicario di Cristo sempre in cammino verso le metedella tradizione cristiana, dal soglio di Pietro a Santiagodi Compostela, da Manila a Denver e Parigi, da Czesto-chowa a Toronto fino a Gerusalemme, nel 2000.

Giovanni Paolo II ha sottolineato: «È risuonato nelmio intimo con particolare intensità ed urgenza il coman-

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ca Latina e in Asia il Kapuscinski di Autoritratto di un re-port diventerà testimone e modello di un giornalismo cheva alla ricerca della verità per il semplice gusto di raccon-tare fatti, luoghi e persone.

sé, il profeta che ha guidato il popolo di Israele fuori dal-l’Egitto. Giovanni Paolo II ha sostato in preghiera nelpunto esatto da cui Mosé contemplò la terra promessa,che però non raggiunse. Sul Monte Nebo il Papa ha guar-dato in direzione di Gerusalemme, la città santa delle trereligioni monoteiste. Ha pregato per tutti i popoli che abi-tano la Terra promessa – ebrei, musulmani e cristiani –invocando il dono della vera pace, della giustizia e dellafraternità. Nella sua visita sul Nebo, Wojtyla è stato gui-dato da un frate francescano. Così egli ha lanciato la sfidadella pace e ha voluto inviare un messaggio di riconcilia-zione fra cristiani, ebrei e musulmani: questo era il signi-ficato del suo viaggio in terra di Gesù, Giordania, Israelee Palestina. Uno dei momenti più suggestivi del pellegri-naggio del pontefice è stata la visita a Betlemme dove se-condo la tradizione è nato il Salvatore. Davanti alla Basi-lica della Natività, nel punto esatto dove «il verbo si fececarne» (Giovanni 1,14), si è inginocchiato in preghiera.

Durante tutto il viaggio in Terra Santa il Papa ha con-fermato più volte la sua vicinanza agli amici ebrei inizia-ta con la sua visita alla Sinagoga di Roma il 13 aprile del1986, sottolineando la loro sofferenza e le responsabilitàdi tutti per il dolore provocato al popolo eletto.

Wojtyla ha visitato il memoriale all’olocausto pregan-do davanti alla pietra dove sono incisi i nomi di tutti i la-ger nazisti. Insomma, un pellegrino, Giovanni Paolo II,che ha portato il vento della pace in Medio Oriente e ilmessaggio evangelico in tutto il mondo; un pellegrinospeciale dal quale si dovrebbe prendere esempio.

Il cammino di Giovanni Paolo II nel corso dei suoiviaggi è stato sempre compiuto per seminare speranza,pace e riconciliazione tra i popoli.

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do di Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Van-gelo ad ogni creatura”. Mi sono sentito quindi in doveredi imitare l’apostolo Pietro che andava a far visita a tuttiper confermare e consolidare la vitalità della Chiesa nel-la fedeltà alla Parola e nel servizio della verità; per dire atutti che Dio li ama, che la Chiesa li ama, che il Papa liama; e per ricevere da essi l’incoraggiamento e l’esem-pio della loro bontà, della loro fede».

Dalla Basilica che custodisce le spoglie di Pietro, cuo-re occidentale della cristianità, e per questo già meta dipellegrinaggio, il vescovo di Roma ha raggiunto i cuoridi innumerevoli fedeli, soprattutto giovani. Proprio a que-sti ultimi Karol Wojtyla si è rivolto, invitandoli «ad apri-re» anzi «a spalancare le porte a Cristo», e poi li ha gui-dati lungo le vie della fede. Un esempio per tutti sono leGiornate mondiali della Gioventù, «nate dal desiderio dioffrire ai giovani significativi “momenti di sosta” nel co-stante pellegrinaggio della fede». È stato lui stesso pelle-grino tra i giovani pellegrini. Ma è solo nel 2000, al ter-mine dell’Anno Santo che ha affidato ai suoi giovani ilsegno stesso di quel Giubileo: la Croce di Cristo.

«Portatela nel mondo – disse loro – come segno del-l’amore del Signore Gesù per l’umanità ed annunciate atutti che solo in Cristo morto e risorto c’è salvezza e re-denzione». Da allora la Croce ha viaggiato attraverso icontinenti e i giovani di tutto il mondo continuano ad es-sere periodicamente chiamati a farsi pellegrini per le stra-de del nostro pianeta, in sintonia con la lezione del pelle-grinaggio cristiano, costruttori di ponti di fraternità e disperanza tra i continenti, i popoli e le culture.

C’è un altro storico pellegrinaggio compiuto dal Papapellegrino: quello in Terra Santa (il novantunesimo fuoridai confini d’Italia), iniziato dal Monte Nebo in Giorda-nia dove, secondo la tradizione, si trova la tomba di Mo-

Vincenzo
Commento testo
, oggi santo proclamato da Papa Francesco,

Gianna Beretta MollaUna vita per la famiglia

Una vita per la vita. Quella di Gianna Beretta Molla peril suo bimbo. È il 25 aprile del 1962. Tre giorni dopo, il28 aprile, si compie il sacrificio estremo di Gianna, unamadre come tante e, come tutte le madri, speciale per ilproprio marito e i propri figli.

Gianna Beretta Molla ha offerto consapevolmente lasua esistenza in cambio di quella della piccola GiannaEmanuela, nata pochi giorni prima, il 21 aprile, al termi-ne di una gravidanza difficilissima. Questa mamma restaper i giovani una grande testimone di santità. Il 16 mag-gio 2004 è stata proclamata santa da Giovanni Paolo II.

«Dell’amore divino Gianna Beretta Molla fu sempli-ce, ma quanto mai significativa messaggera – disse il Pa-pa nell’omelia della canonizzazione –. Pochi giorni pri-ma del matrimonio, in una lettera al futuro marito, ebbe ascrivere: “L’amore è il sentimento più bello che il Signoreha posto nell’animo degli uomini”. Sull’esempio di Cri-sto, che “avendo amato i suoi [...] li amò sino alla fine”(Gv 13,1), questa santa madre di famiglia si mantenneeroicamente fedele all’impegno assunto il giorno del ma-

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pie la sua opera di medico, che sente e pratica come unamissione, accresce il suo impegno generoso nell’AzioneCattolica, prodigandosi per le giovanissime e, al tempostesso, esprime con gli sci e l’alpinismo la sua grandegioia di vivere e di godersi l’incanto del creato. Si inter-roga, pregando e facendo pregare, sulla sua vocazioneche considera anch’essa un dono di Dio.

Scelta la strada del matrimonio, la abbraccia con entu-siasmo e si impegna a donarsi totalmente «per formareuna famiglia veramente cristiana». Si fidanza con l’inge-gnere Pietro Molla e vive il periodo di fidanzamento nel-la gioia e nell’amore. Ringrazia e prega il Signore.

Si sposa il 24 settembre 1955 nella basilica di San Mar-tino in Magenta ed è moglie felice. Nel novembre del1956 è mamma più che felice di Pierluigi; nel dicem-bre 1957 di Mariolina; nel luglio 1959 di Laura. Sa armo-nizzare, con semplicità ed equilibrio, i doveri di madre,di moglie, di medico, e la gran gioia di vivere.

Nel settembre del 1961, verso la fine del secondo me-se di gravidanza, è raggiunta dalla sofferenza e dal miste-ro del dolore. Insorge un fibroma all’utero. Prima del ne-cessario intervento operatorio, pur sapendo il rischio cheavrebbe comportato il continuare la gravidanza, suppli-ca il chirurgo di salvare la vita che porta in grembo e si af-fida alla preghiera e alla Provvidenza.

La vita è salva, ringrazia il Signore e trascorre i settemesi che la separano dal parto con impareggiabile forzad’animo e con immutato impegno di madre e di medico.

Trepida, teme che la creatura in seno possa nascere sof-ferente e chiede a Dio che ciò non avvenga. Alcuni gior-ni prima del parto, pur confidando sempre nella Provvi-denza, è pronta a donare la sua vita per salvare quella del-la sua creatura: «Se dovete decidere fra me e il bimbo,nessuna esitazione: scegliete – e lo esigo – il bimbo. Sal-

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trimonio. Il sacrificio estremo che suggellò la sua vita te-stimonia come solo chi ha il coraggio di donarsi totalmentea Dio e ai fratelli realizzi se stesso. Possa la nostra epoca ri-scoprire, attraverso l’esempio di Gianna Beretta Molla, labellezza pura, casta e feconda dell’amore coniugale, vissu-to come risposta alla chiamata divina!».

Gianna Beretta nacque a Magenta, nella diocesi e pro-vincia di Milano, il 4 ottobre 1922, decima di tredici figlidei coniugi Alberto Beretta e Maria De Micheli. Fin dal-la fanciullezza accoglie con piena adesione il dono dellafede e l’educazione limpidamente cristiana, che riceve daigenitori e che la portano a considerare la vita un dono me-raviglioso di Dio, ad avere fiducia nella Provvidenza, a es-sere certa della necessità e dell’efficacia della preghiera.

La Prima Comunione, all’età di cinque anni e mezzo,segna in Gianna un momento importante, dando inizio aun’assidua frequenza all’Eucaristia, che diviene soste-gno e luce della sua fanciullezza, adolescenza e giovinez-za. In quegli anni non mancano certo difficoltà e soffe-renze: cambiamento di scuole, salute cagionevole, trasfe-rimenti della famiglia, malattia e morte dei genitori. Tut-to questo però non produce traumi in Gianna, data la ric-chezza e profondità della sua vita spirituale, anzi ne affi-na la sensibilità e ne potenzia la virtù. Negli anni del liceoe dell’università è giovane dolce, volitiva, riservata e,mentre si dedica con diligenza agli studi, traduce la suafede in un impegno generoso di apostolato tra le giovanidi Azione Cattolica e di carità verso gli anziani e i biso-gnosi nelle Conferenze di San Vincenzo.

Laureata in Medicina e Chirurgia nel 1949 all’Univer-sità di Pavia, apre nel 1950 un ambulatorio medico a Me-sero, un comune del Magentino; si specializza in Pediatriaall’Università di Milano nel 1952 e predilige, tra i suoi as-sistiti, mamme, bambini, anziani e poveri. Mentre com-

Enrico MatteiProtagonista del miracolo economico

Un protagonista del miracolo economico, un uomo chenegli anni seguenti il secondo conflitto mondiale intrapre-se una sfida senza precedenti seguendo il suo sogno: mo-dernizzare e sviluppare l’Italia nonostante gli attacchi del-la stampa e i numerosi avversari. Questo era Enrico Mat-tei, nato il 29 aprile 1906 ad Acqualagna, nel pesarese.

Nel 1919 la famiglia Mattei si trasferì a Matelica. En-rico fu verniciatore a 14 anni e mezzo, fattorino a quindi-ci, impiegato a sedici e tecnico a diciassette. Poi conse-guì il diploma di ragioniere e a 19 anni era già direttoredi una fabbrica con 150 dipendenti. Dieci anni dopo di-ventò titolare dell’Industria Chimica Lombarda. Una car-riera fulminante che però fu interrotta dalla guerra.

Enrico divenne partigiano tra i capi di maggior presti-gio. Per due volte fu fatto prigioniero e per due volte eva-se. Dopo la guerra, a 39 anni, fu nominato commissariodell’Agip per l’Alta Italia per provvedere all’organizza-zione e direzione delle attività aziendali. Un preludio allaliquidazione dell’azienda. Nonostante il compito affida-togli, si fece consegnare da Vincenzo Cazzaniga, in pre-

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vate lui». Il mattino del 21 aprile 1962 dà alla luce Gian-na Emanuela e il mattino del 28 aprile, nonostante tuttigli sforzi e le cure per salvare entrambe le vite, tra indici-bili dolori, dopo aver ripetuto la preghiera «Gesù ti amo,Gesù ti amo», muore santamente. Aveva 39 anni.

I suoi funerali furono una grande manifestazione una-nime di commozione profonda, fede e preghiera. Fu se-polta nel cimitero di Mesero, mentre rapidamente si dif-fondeva la fama di santità per la sua vita e per il gesto diamore e di martirio che l’aveva coronata.

«Meditata immolazione», così Paolo VI ha definito ilgesto della beata Gianna, ricordando all’Angelus del 23settembre 1973 «una giovane madre della diocesi di Mi-lano che, per dare la vita alla sua bambina, sacrificava,con meditata immolazione, la propria».

spostamenti rapidi. Per primo in Italia collegò tutti i cen-tri operativi con ponti-radio che permettevano a tutti i re-parti e uffici di essere collegati in tempo reale in tutta Ita-lia, il Nord Africa fino all’America Latina.

Su di lui sono stati scritti numerosi libri, tra i qualiMattei. Storia dell’italiano che sfidò i signori del petrolio(Le Scie), del giornalista Carlo Maria Lomartire, ed Enri-co Mattei. Un protagonista della modernizzazione italia-na (Il Mulino 2004), dello storico Nico Perrone – mem-bro dello staff centrale dell’Eni di Mattei –, testo che siaggiunge a un’ampia bibliografia dedicata anche alla suamisteriosa morte avvenuta il 27 ottobre 1962 quando ilsuo aereo a reazione precipitò nelle campagne di Bascapè,a dieci chilometri da Linate, dopo essere decollato dal-l’aeroporto Fontanarossa di Catania.

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cedenza membro della commissione incaricata dei rifor-nimenti petroliferi, il piano completo degli impianti pe-troliferi contenenti depositi, raffinerie, punti di distribu-zione dell’Italia del nord. Mattei di fatto disobbedì all’or-dine del Governo Bonomi, inviato tramite apposita di-rettiva del 15 maggio 1945, «di sospendere ogni iniziati-va tendente all’attuazione di nuovi programmi». Così ini-ziarono le ricerche di metano in tutta Italia, una intuizio-ne che si rivelò vincente perché poco più di un anno do-po a Caviaga e a Ripalta avvenne la scoperta dei giaci-menti. Mattei aveva quarant’anni. Sette anni dopo il Par-lamento vota la legge istitutiva dell’Eni, l’ente naziona-le idrocarburi. Per Mattei inizia la sfida, ma anche labattaglia a quanti lo osteggeranno dentro e fuori l’Italia.I suoi amici furono molto pochi, la maggior parte ex par-tigiani o compagni di partito nella Dc. Tra questi Gior-gio La Pira, con il quale si impegnerà per la questione del-la Pignone, una fabbrica fiorentina con 1200 operai cherischiavano il posto di lavoro. Grazie a Mattei la fabbri-ca non chiuse. Di lui William R. Scott, vicepresidenteesecutivo della maggiore società petrolifera del mondo,la Standard Oil Company del New Jersey, disse: «aveva acuore soprattutto gli interessi del suo Paese».

Mattei, cattolico credente e praticante, era una perso-na avveduta, dotata di una capacità di immaginazione e diprevisione a volte sovrumana. In Italia non c’era una for-te tradizione petrolifera e molti lavori connessi all’indot-to petrolifero erano sconosciuti da maestranze e dirigen-ti. Mattei intuì tutto questo e inventò le scuole per salda-tori e trivellatori; aprì i bandi per assumere giovani inge-gneri da mandare a scuola negli Stati Uniti d’America aturno per circa sei mesi; infine fornì l’azienda di tutti ipiù avanzati mezzi operativi, da quelli meccanici, comesonde anche off shore, fino agli aerei aziendali per gli

Alcide De Gasperi e Giorgio La PiraQuando la politica è vocazione

Due protagonisti della politica italiana a partire dall’As-semblea Costituente. Entrambi esponenti della Democra-zia Cristiana, ma di correnti diverse, li accomunò la pas-sione per la politica, l’impegno per il bene comune, l’af-flato per la crescita democratica del Paese.

Alcide De Gasperi, uno dei padri fondatori della no-stra Repubblica, guidò con abilità ed equilibrio i primi an-ni di vita del Paese. «La libertà politica è legata alla libertàeconomica – disse – e la democrazia senza la giustizia so-ciale sarebbe una chimera o una truffa. Accanto a quellache fu detta la democrazia formale bisogna costruire la de-mocrazia sostanziale, riformare cioè la struttura sociale».

Nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino (Trento), nel 1905entra nella redazione del giornale Il Nuovo Trentino, nediventa direttore e appoggia il movimento che auspicavala riannessione del Sud Tirolo all’Italia. Dopo il passag-gio del Trentino e dell’Alto Adige all’Italia continua l’at-tività politica nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo.

Deciso avversario del fascismo, De Gasperi viene im-prigionato nel 1926 per la sua attività politica. Dopo l’o-

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za sul piano religioso non furono di ostacolo a questa col-laborazione, né diminuirono il suo impegno per la cosapubblica. Negli anni in cui, dopo la tragedia della guerra,fu alla guida del governo, cioè dal 1945 al 1953, dedicòtutte le sue forze alla ricostruzione, al rilancio dell’econo-mia e al recupero di credibilità per il nostro Paese.

Giorgio La Pira nasce a Pozzallo, in provincia di Ra-gusa, il 9 gennaio 1904, primogenito di una famiglia dimodeste possibilità economiche. Per questo motivo nel1921 si trasferisce a Messina, dove stringe amicizia conGiuseppe Pugliatti e Salvatore Quasimodo.

La Pira è un modello di santità laicale, un appassiona-to di Cristo e dell’uomo, specialmente di quello più biso-gnoso. Un profeta di pace che parla in modo semplice aigrandi della Terra. Un uomo del dialogo che vede nelletre grandi religioni monoteiste una possibilità di incon-tro. Giorgio La Pira è stato un uomo, un cristiano e poi unpolitico. Da Pozzallo, nella Sicilia sud orientale, terrazzasul Mediterraneo a poche miglia marine dall’Africa e dalMedio Oriente, partì portando con sé una mediterraneitàche gli tornò utile in tante occasioni. Nella Pasqua del1924 si converte e supera gli atteggiamenti anticristiani.Segue una vita di fede e devozione a Cristo e all’uomo.

Il grande genio di Giorgio La Pira, il suo entusiasmo,la sua positività, il suo parlar chiaro a tutti, escono fuorifin dalla pubblicazione di Princìpi nel 1939, rivista anti-fascista e antirazziale che difende il valore della personae la libertà. Nel 1940 il fascismo chiude la rivista.

Tre anni dopo la polizia segreta lo ricerca, sfugge al-l’arresto e ripara in Vaticano. Passano altri tre anni. Sia-mo al 1946: La Pira viene eletto deputato alla Costituen-te. Con Moro, Dossetti, Togliatti, Basso e Calamandreiformula i principi fondamentali della Costituzione repub-blicana. Nel 1948, da sottosegretario al lavoro, è al fian-

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micidio Matteotti, la sua opposizione al regime e al Du-ce fu ferma e risoluta anche se coincise col ritiro dalla vi-ta politica. Lavorò nelle biblioteche vaticane per sfuggi-re alle persecuzioni fasciste e durante la seconda guerramondiale contribuì alla fondazione della Democrazia Cri-stiana, che ereditava le idee e l’esperienza del Partito Po-polare di don Sturzo. Ricoprì la carica di ministro degliEsteri dal dicembre 1944 al dicembre 1945, quando for-mò un nuovo gabinetto. In qualità di presidente del consi-glio, carica che mantenne fino al luglio del 1953, De Ga-speri favorì e guidò una serie di coalizioni di governo,composte dal suo partito e da altre forze moderate delcentro. Contribuì all’uscita dell’Italia dall’isolamento in-ternazionale, favorendo l’adesione al Patto Atlantico Na-to e partecipando alle prime consultazioni che avrebberocondotto all’unificazione economica dell’Europa.

L’azione di De Gasperi negli anni cruciali del dopo-guerra ha segnato il cammino e ha determinato il futurodell’Italia. È fuor di dubbio, infatti, che gran parte dellavita italiana di questo ultimo mezzo secolo è stata deter-minata dalle decisive scelte compiute in quegli anni cheportano impresso il segno degasperiano e che hanno assi-curato al Paese un futuro di libertà, democrazia e prospe-rità. L’uomo dell’equilibrio, come più volte è stato defi-nito da cronisti e commentatori politici, era un cattolicoserio e convinto, deciso nel portare avanti la politica incui credeva, ma al tempo stesso costantemente rispettosodegli altri e attento alla verità contenuta nelle ragioni de-gli altri. De Gasperi credeva nella libertà e nella democra-zia e seppe costruire un equilibrio dando spazio a tuttiquelli che, pur di differente orientamento, accettarono didare vita a una forza politica che ebbe tra l’altro il compitodi salvare la libertà anche per chi seguiva vie diverse daquelle del suo partito. La sua vita spirituale e la sua coeren-

reth e alla sinagoga di Nazareth. Il sindaco santo era uo-mo attento al passato che guardava al presente e pensavaal futuro. Da Firenze guardava al mondo, ma anche allacondizione umana della povera gente.

I ruoli di De Gasperi e La Pira erano diversi, ma il loroobiettivo era comune. De Gasperi era uno statista: guar-dava a tutta l’Italia, all’Europa e al mondo. Egli capì su-bito la collocazione occidentale dell’Italia, l’alleanza, nonla sudditanza, con gli Stati Uniti, l’adesione alla Nato persancire questa collocazione, la necessità di uno stretto le-game con l’Europa per superare gli antagonismi che ave-vano provocato le due guerre suicide, la Comunità delcarbone e dell’acciaio, il tentativo della Comunità euro-pea di difesa, la libertà dei commerci per rilanciare laproduzione, l’urgenza di ridurre l’inflazione e mantenereuna lira salda per dare sicurezza ai mercati, e quindi l’im-prescindibile, anche se dolorosa, manovra finanziaria del1947. Ma quando volle fare riforme in Italia, penso allariforma agraria, al Nuovo Iri, all’Eni, ebbe bisogno dellasinistra democristiana di cui La Pira era l’icona ricono-sciuta. La Pira era un politico che rappresentava gli inte-ressi delle classi deboli: poveri, disoccupati, privi di casa.

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co dei lavoratori nelle gravi vertenze sindacali che agita-no il nostro Paese. Nel 1951 interviene presso Stalin a fa-vore della pace in Corea. L’anno successivo è sindaco diFirenze. «Non case, ma città!» disse nel 1953 prima di ini-ziare la costruzione dell’Isolotto. Poi lotta per la difesa deiduemila operai della Pignone e con Enrico Mattei, presi-dente dell’Eni, potenzia l’industria aprendola ai mercatiinternazionali. Sono anni difficili quelli di La Pira: è quel“secolo breve” caratterizzato da due guerre mondiali, dallapaura di un conflitto nucleare, da tanti contrasti, ma anchedal Concilio Vaticano II e dalle prese di posizione di pon-tefici come Pio XI, Pio XII e Giovanni XXIII. Nonostan-te tutto il Professore va avanti. Di fronte alla minaccia del-la distruzione atomica indice il Convegno dei Sindaci del-le Capitali del Mondo e i Colloqui Mediterranei in cui so-stiene la libertà per l’Algeria e la pace per il Medio Orien-te. È questo il sindaco santo: un uomo di fede. Una Fe-de che riversa nel suo impegno per la giustizia sociale.

«Stato democratico: sì, proprio perché rispettoso delpluralismo degli organismi che lo costituiscono – disse inun intervento all’Assemblea Costituente –. Quindi demo-cratico nel senso non solo roussoiano – tutti i cittadini par-tecipano ordinatamente alla formazione della legge ed al-la direzione politica dello stato –, ma anche nel senso chei cittadini sono membri attivi di tutto quel tessuto di co-munità che fa del corpo sociale un corpo ampiamente ar-ticolato e differenziato, una democrazia organica, diversada quella individualistica. Democrazia nello stato, demo-crazia nella comunità professionale, nella comunità di la-voro, nella comunità territoriale e così via».

La politica di La Pira aveva il fulcro in una spirituali-tà aperta riconducibile a una triplice dimensione: la fami-glia, il lavoro e la fede. È la teologia della città che si le-ga all’icona della casa di Nazareth, alla bottega di Naza-

Padre Mariano da TorinoPioniere della televisione italiana

Il 22 maggio 1906 nasceva un uomo, un frate e un comu-nicatore: padre Mariano da Torino, alias Paolo Roasenda,professore di latino e greco, che a 34 anni decise di indos-sare il saio dei cappuccini. Il suo carisma era quello di an-nunciare il Vangelo attraverso i mezzi di comunicazionesociale in un periodo complesso e completamente diffe-rente dal punto di vista culturale ed ecclesiale rispetto aquello in cui siamo abituati a vivere cento anni dopo conInternet, la Televisione on demand, il digitale terrestre,l’iPod e i video-telefonini, ma soprattutto dopo il pontifi-cato di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

Nel gennaio 1955 la direzione generale della Rai affi-dò a padre Mariano il compito di condurre un programmareligioso che fece emergere il carisma del frate torinese:l’apostolato televisivo. Padre Mariano iniziò la sua av-ventura mediatica con la rubrica quindicinale “La Posta diPadre Mariano”, alla quale si aggiunse un’altra dal tito-lo “In Famiglia” e poi una terza “Chi è Gesù?”. Quello diPadre Mariano era un incarico non facile: dietro il lavorodi ogni operatore delle comunicazioni sociali, in partico-

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Il 5 maggio 1955 Padre Mariano scriveva: «Lo svilup-po della Tv mi allarga il cuore, ma anche accresce il pesodella mia responsabilità. Sento che dovrò rispondere alSignore di tante e tante anime!». E poi ancora, nel 1957,ebbe a ribadire: «Mi dicono che la mia è una delle tra-smissioni più attese, anche la Direzione è entusiasta e sispera di avere 6-7 milioni di ascoltatori! Sento la mia mi-seria, la responsabilità terribile e penso quanto dovrei es-sere più unito a Dio per il nuovo tremendo compito!».

Sono parole che oggi appaiono anacronistiche e chepotrebbero suscitare ilarità in quanti, invece, tra giornali-sti e conduttori televisivi vorrebbero stare al centro del-l’attenzione – o, per dirla in termini tecnici, “in campo” –e incrementare l’audience della rubrica che conduconoper mostrare se stessi, anziché mettere in risalto i conte-nuti. Padre Mariano, pur essendo un conduttore da milio-ni di telespettatori, non si poneva problemi di questo ti-po. Al contrario, quando il suo nome fu inserito tra i venticandidati proposti alla direzione dell’Informazione reli-giosa della Rai, la cosa lo lusingò, ma non si adoperò perportare in porto la sua candidatura.

Padre Mariano è l’esempio tangibile di un comunica-tore del Vangelo tutto portato verso un apostolato televi-sivo che punta a ridare dignità e autenticità alla stessa co-municazione perché sia a servizio dell’umanità e dellesue speranze. Un impegno profetico, quello del frate tori-nese, come dimostrano le sue teleconversazioni accurata-mente preparate dal punto di vista di resa televisiva masoprattutto attente ai contenuti e allo spirito evangelico.

Chi ascoltava Padre Mariano, aveva la netta impres-sione che tutta la Bibbia, soprattutto il Vangelo, era il suolibro di predicazione, la fonte principale delle sue istru-zioni e riflessioni. Per questo motivo egli è diventato unpersonaggio popolarissimo, amato e cercato, che sapeva

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lar modo per quelli televisivi e radiofonici, c’è tantissi-ma responsabilità morale di fronte al pubblico.

Egli iniziava le sue rubriche con la frase «Pace e benea tutti!» e concludeva allo stesso modo salutando un pub-blico che negli anni Cinquanta e Sessanta, tra una Televi-sione a dir poco pionieristica e una Chiesa nel pieno sub-buglio post-conciliare, cresceva sempre di più proprioper il modo o, meglio, le modalità con cui padre Marianosi faceva ascoltare. Anzi, capire o, megli,o comprendere.

«Farsi sentire dall’orecchio, dalla mente, dal cuore»diceva Padre Mariano, dato che «la prima carità da usarsiè mettersi nei panni degli ascoltatori e rendere facile ciòche per sua natura è difficile a comprendersi».

Una volta gli scrisse un ascoltatore e gli chiese: «Per-ché alcuni sacerdoti, quando parlano, sono tanto oscu-ri?». Il frate rispose: «È vero. Il parlare ermetico non soloè una consuetudine tra i politici, ma lo è anche tra i teolo-gi». Per questo ripeteva spesso che «la prima carità, dausare con chi ci ascolta, è faticare noi per essere chiari,perché non fatichi lui nell’ascoltarci».

Proviamo a riportare le sue parole ai giorni nostri, nel-l’attuale contesto sociale e mediatico, chiedendoci se so-no ancora valide. Padre Mariano era un semplice. Atten-zione: questo non vuol dire che era un sempliciotto.

Barba lunga, occhialini neri e aspetto energico. Insom-ma, era un frate come ciascuno di noi se lo immagina,con il barbone e il cordone. Oggi magari mass mediolo-gi di fama, giornalisti ed esperti potrebbero sostenere cheuno come padre Mariano non è televisivo, non è telegeni-co. Al contrario, invece, possiamo dire, come ha sottoli-neato il sociologo della comunicazione Aldo Grasso nelsuo libro Storia della televisione italiana, che Padre Ma-riano con la sua voce robusta e la sua serenità ha portatoin Tv valori morali e verità consolatoria.

Igor ManIl vecchio cronista che incontrò i grandi della Terra

L’incontro con Madre Teresa di Calcutta, con GiovanniPaolo II e l’uscita indenne dal plotone di esecuzione in Su-dan nel 1975. La testimonianza del vecchio cronista cheintervistò Kennedy, Kruscev, Che Guevara, Golda Meir,Gheddafi, Padre Pio, Khomeini, Arafat, Shimon Peres.

Igor Man, alias Igor Manlio Manzella, di padre sicilia-no e madre russa, da “vecchio cronista” qual è stato – tan-to per riprendere il titolo della rubrica che per lungo tem-po ha firmato sul quotidiano La Stampa –, nel corso dellasua vita ha sempre offerto principalmente ai lettori una fi-nestra e la sua personale testimonianza umana e giornali-stica sul rapporto “fede e notizia”. Nel febbraio del 2009,Igor Man offrì ai giornalisti uno spaccato della sua vita inoccasione di una tavola rotonda dal titolo “... soprattuttoniente giornalisti. Se la fede diventa notizia”. Il concet-to della fede che si fa notizia e la notizia che approda allafede «mi accende un flash: l’incontro che ho avuto conMadre Teresa di Calcutta. Ero molto curioso di sapere, dicapire come Giovanni Paolo II si fosse comportato con ilebbrosi. Con aria divertita Madre Teresa mi disse: “io ho

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arrivare al cuore della gente con il microfono e con il vi-deo nonostante ne avesse intuito i pericoli e i rischi per lafamiglia, i giovani e i bambini.

giovanissimi, che a pedate ci costrinsero a salire [...]. Cer-cammo di spiegare che eravamo giornalisti, mostrammole tessere, ma niente. Ci intimarono di stare zitti. La ca-mionetta iniziò a girare sotto il sole cocente. Il giornali-sta di Le Monde ci disse di aver intuito che stavano cer-cando un posto dove fucilarci. Arrivammo in un terrenoabbandonato con dei ruderi. Scendemmo dalla camionet-ta a colpi di calcio di fucile e sotto la calura assistemmoalla scena dei militari che imbracciavano i mitra. A quelpunto Egisto Corradi disse: “Stanno aspettando un gra-duato” (in Sudan vigeva il regolamento militare inglese el’esecuzione doveva essere comandata da un graduato,nda). Ero consapevole che mi stavano per fucilare. Ini-ziai a pregare e mentre pregavo pensai: è impossibile chemi uccidano, impossibile che devo morire. Penso che fi-no all’ultimo momento un uomo non crede mai che po-trà morire. Insomma: aspettavamo la fucilazione. Alter-navo la preghiera all’ottimismo che sarebbe stato impos-sibile morire. Ad un certo punto arrivò un’altra camionet-ta dalla quale scese un graduato che aveva al petto decinedi decorazioni. Corradi, che aveva fatto l’alpino in Rus-sia e che si intendeva di decorazioni militari, individuòtra le tante decorazioni anche quella della campagna mi-litare in Congo. Fu in quel preciso e drammatico istanteche l’inviato di Le Monde esclamo “Dio”, quasi invocan-dolo per la situazione che da lì a poco si sarebbe venuta acreare. Corradi invece si rivolse al graduato e gli chiese:“È stato in Congo?”. Il sergente rispose di sì. Iniziò unachiacchierata e il momento divenne liberatorio perché cifu un colloquio tra i due che poi ci portò addirittura adaiutare il sergente, la cui camionetta si era insabbiata».

I giornalisti non diedero mai notizia di quell’episodioper non fare allarmare i parenti, ma Igor Man non dimen-ticherà mai l’esclamazione “Dio!” dell’inviato di Le Mon-

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baciato un lebbroso e ho detto al Papa: bacia”. Ma Gio-vanni Paolo II ha fatto finta di non sentire». Madre Tere-sa si ripropone e davanti a un altro lebbroso suggeriscedi baciarlo, ma lui fa sempre finta di niente. La terza vol-ta Madre Teresa lo invita ancora a baciare un lebbroso.Alla fine il Papa cede. «E qui – raccontò Igor Man – Ma-dre Teresa mi ha detto piangendo: “È stato un miracolodella fede perché dopo il Papa li ha baciati tutti e tutti ve-nivano da lui piangendo di gioia”. Io sono solo un pove-ro cronista – proseguì Igor Man – ma, se ci penso, quellavolta mi sono trovato davanti a un miracolo terreno. È sta-ta la fede che in quella occasione colpì e intenerì un gran-de personaggio come Giovanni Paolo II». Un grande uo-mo che anni dopo si trovò davanti: «Più che intervistar-lo io, fu Giovanni Paolo II a intervistarmi. Questo gran-de pontefice annullò tutta una serie di incontri per parlarecon me. Voleva parlare di Padre Pio. Voleva bene a PadrePio. Gli chiesi: “potrebbe essere il tredicesimo aposto-lo?”. Mi rispose: “mi piace questa definizione”».

C’è un’altra esperienza che Igor Man non dimentiche-rà mai: nel 1975 durante il periodo di governo del gene-rale Ja’far al-Nimeiry – che nel 1969 aveva conquistato ilpotere in Sudan con un colpo di Stato –, con altri giorna-listi, tra i quali il grande Egisto Corradi, l’inviato di LeMonde e l’inviato di Le Figaro, arriva a Karthoum e poisi trasferisce nella città gemella Omdurman. «Prendem-mo un taxi [...] mentre parlavamo con le donne del postoche avevano il volto come se piangessero, tracciato con ilsughero riscaldato con il fuoco di una candela come se-gno di lutto, quasi fossero preda di un interminabile pian-to. L’inviato di Le Monde, ebreo e cittadino francese na-to ad Alessandria D’Egitto, ci stava aiutando a parlarecon le donne perché sapeva bene l’arabo. Improvvisa-mente arrivò una camionetta con dei soldati nevrotici,

Luigi SturzoL’azione politica come alta forma di carità cristiana

L’esperienza del popolarismo sturziano rappresentò iltentativo di concepire un ordine sociale coerente con laprospettiva della Dottrina sociale della Chiesa; un ordi-ne politico ed economico ispirato al personalismo cri-stiano che si distingue per le risposte che è in grado di da-re ai concreti problemi degli uomini.

Luigi Sturzo nasce in Sicilia, a Caltagirone, il 26 no-vembre 1871. A ragione dei suoi studi e per motivi di sa-lute frequenta i seminari di Acireale, di Noto e di Calta-girone, dove nel 1988 si diploma. Nel 1894 è ordinato sa-cerdote e si trasferisce a Roma. Qui nel 1898 consegue lalaurea in filosofia all’Università Gregoriana e matura lasua “vocazione politica”. È lo stesso Sturzo a narrarci cheil giorno del sabato santo del 1895, nel corso della bene-dizione delle case nel ghetto, si rende conto della miseriain cui versano tante persone. In questa circostanza deci-de di dedicarsi alla questione sociale: di studiarla e viver-la con carità cristiana e competenza scientifica.

Rientrato a Caltagirone, accanto all’insegnamento del-la filosofia, prende forma il suo impegno religioso e so-

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de: «Penso che in quel momento la Provvidenza ci abbiaaiutato». Poi si lascia andare a una considerazione: «Og-gi posso dire che non siamo più il quarto potere, ma ab-biamo sempre il potere di fare del bene e di fare del male.Per me il bene è raccontare i fatti così come sono, senzadeformarli. Il male torturando i fatti secondo una moralevoluta. Oggi il giornalismo italiano è in crisi, quello ame-ricano pure, perché non riesce [...] ad avere fede nel pro-prio lavoro. È diventato un impiego: si è impiegati dellanotizia. Pochi sono coloro che credono in questo mestie-re. Che poi è molto semplice: raccontare la vita, raccon-tare la morte, raccontare la realtà». Una realtà che ha con-dotto Igor Man a intervistare anche Ernesto Che Gueva-ra, il quale alla domanda «qual è il suo rapporto conDio?» rispose: «Non mi sono mai posto il problema diDio. Però se veramente esiste mi auguro che nel suo cuo-re ci sia posto anche per il comandante Che».

Con Igor Man è scomparso uno degli ultimi inviati diguerra, una firma storica del giornalismo italiano. Subi-to dopo la Liberazione, giovanissimo, entra nel quotidia-no Il Tempo. Nel 1963 Giulio de Benedetti lo chiama allaStampa dove lavora fino alla fine come editorialista e in-viato. È stato testimone degli accadimenti più significati-vi degli ultimi cinquant’anni: dalle guerre meridionali alVietnam, dall’Africa all’America Latina, sopravvivendoall’assedio di Camp Kannack in Vietnam e al plotone diesecuzione in Sudan. È stato uno studioso delle religioni,tra i massimi esperti del Medio Oriente. Autore del long-sellerDiario arabo (Bompiani, 1992), ha vinto, fra gli al-tri, il Premio Hemingway, il Premio Colomba d’Oro perla Pace (ex aequo con Amnesty International) e il PremioInternazionale St. Vincent alla carriera. Nel 2000 l’Uni-versità internazionale Giorgio la Pira lo ha nominato, in-sieme con l’Abbé Pierre, «Artisan de la Paix».

sona. Un nuovo ordine al centro del quale, in sintonia coni principi di sussidiarietà e di solidarietà, si imponga l’ope-ra spontanea e creativa della società civile (persone, fami-glie, associazioni, imprese...), capace d’accrescere le pos-sibilità di scelta da parte dei singoli e delle associazioni, alfine di ottenere una più efficace risposta ai reali bisognidei cittadini e un maggior rispetto della libertà, della di-gnità e della responsabilità della persona. Ecco come il sa-cerdote di Caltagirone ricorda la fondazione del PartitoPopolare: «Era mezzanotte quando ci separammo e spon-taneamente [...] passando davanti la Chiesa dei santiApostoli picchiammo alla porta: c’era l’adorazione not-turna. [...] Durante quest’ora di adorazione rievocai tutta latragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, noncercavo nulla, ero rimasto semplice prete [...]. Accettavo lanuova carica di capo del partito popolare con la amarezzanel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio».

Nell’aprile del 1923, al Congresso Nazionale di Tori-no del Partito Popolare, Sturzo denuncia Benito Mussoli-ni e il fascismo. Il duce da quel momento lo indicherà co-me il «nemico principale del fascismo» e interverrà sulCardinale Gasparri per costringere don Sturzo prima a di-mettersi dal partito e poi ad abbandonare l’Italia.

L’esilio di Sturzo durerà 22 anni. Passando per Pari-gi, Sturzo vivrà a Londra fino al settembre del 1940 e poinegli Stati Uniti d’America fino al 5 settembre 1946,quando torna in Italia sbarcando a Napoli.

I suoi lavori più importanti di teoria politica e sociolo-gica videro la luce durante l’esilio. A Londra anima diver-si gruppi politici di italiani fuoriusciti e di cattolici euro-pei e nel 1936 fonda il People and Freedom Group. Scri-veva Sturzo nella lettera di presentazione: «Popolo e li-bertà è il motto di Savonarola; popolo significa non solola classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti

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ciale. Fonda perciò un comitato diocesano e interparroc-chiale, apre una sezione operaia e una degli agricoltori, dàvita a una cassa rurale per combattere l’usura e a un gior-nale per diffondere le idee presenti nella Rerum nova-rum: «La Croce di Costantino». Nel 1902 guida i catto-lici di Caltagirone alle amministrative, nel 1905 vince leelezioni e diventa prosindaco, carica che ricopre fino al1920. Sempre nel 1905, alla vigilia di Natale, pronunciail discorso di Caltagirone, I problemi della vita nazionaledei cattolici, piattaforma politica e organizzativa per lacostituzione di un partito di ispirazione cristiana che, su-perando il non expedit, faccia rientrare i cattolici sullascena della politica nazionale. Nel 1915 è eletto vice pre-sidente dell’Associazione Nazionale Comuni d’Italia.

Il 18 gennaio 1919 si compie quello che molti conside-rano l’evento politico più significativo dall’Unità d’Ita-lia. Dall’albergo Santa Chiara di Roma, don Luigi Sturzolancia l’«Appello ai Liberi e Forti», carta istitutiva delPartito Popolare Italiano: «A tutti gli uomini liberi e forti,che in questa grave ora sentono alto il dovere di coopera-re ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né pre-concetti, facciamo appello perché uniti insieme propu-gnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà».

L’esperienza del popolarismo sturziano rappresentò iltentativo di concepire un ordine sociale coerente con laprospettiva della Dottrina sociale della Chiesa. Un ordi-ne politico ed economico ispirato al personalismo cristia-no che si distingue per le risposte che è in grado di dare aiconcreti problemi degli uomini. Il tratto caratteristico del-l’Appello di Sturzo è caratterizzato dalla convinzione che,al processo dirigista, centralista, monopolista dello Stato,sia preferibile un corretto sistema competitivo, che ten-ga conto della contingenza e della limitatezza che con-traddistinguono la costituzione fisica e morale della per-

mento alla libertà della scelta educativa scriveva: «Fin-ché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gli italia-ni saranno liberi; essi saranno servi, servi dello Stato, delpartito, delle organizzazioni private o pubbliche di ognigenere [...]. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entu-siasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, coninsegnanti impegnati nella nobile funzione di educatori,non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dalmonopolio burocratico statale».

Tutto ciò lo porterà a scrivere pagine di grande spesso-re teorico e di notevole impatto politico contro le cosid-dette «tre male bestie». Sturzo denuncia lo statalismo co-me residuo tradizionale di marca laicista-risorgimentale efascista e, nella nuova versione, nell’Italia del secondo do-poguerra, come via al socialismo di Stato; accusa la par-titocrazia, come illegittima occupazione delle istituzionida parte dei sistemi clientelari e infine, a ‘mo di corolla-rio, denuncia il ricorrente «abuso del denaro pubblico» co-me strumento di gestione illecita del potere pubblico.

Nel dicembre del 1952 viene nominato senatore a vitadal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Con la sua opera, teorica e pratica, egli è stato ed è an-cora oggi una solida guida morale all’azione politica,una guida morale all’azione pubblica improntata alla ca-rità cristiana e all’amore per il prossimo al fine di «porta-re Dio nella politica». Sturzo ha consacrato se stesso al-la missione di portare un soffio di santità e di trascenden-za nella vita politica e il suo impegno non fu altro che ilrisultato di una serie di provvidenziali eventi che lo solle-citarono decisamente all’azione sociale, intesa come svi-luppo coerente di quella pastorale.

Don Sturzo muore l’8 agosto 1959 a Roma (oggi è se-polto nella Chiesa del SS. Salvatore a Caltagirone), la-sciandoci una grande eredità sia per lo sviluppo della teo-

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devono godere della libertà e partecipare al governo. Po-polo significa anche democrazia, ma la democrazia senzalibertà significherebbe tirannia, proprio come la libertàsenza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcu-ne classi privilegiate, mai dell’intero popolo». Seguendoquesta strategia, negli Stati Uniti intreccia rapporti conCarlo Sforza, Lionello Venturi, Mario Einaudi, GaetanoSalvemini, l’amico non credente che ebbe a definire l’e-sule di Caltagirone «Imalaia di certezza e di volontà».

Al suo rientro in Italia, dopo il referendum sulla Re-pubblica e le elezioni per l’Assemblea Costituente, nonsi iscrive alla Democrazia Cristiana, ma si dichiara «ca-po di un partito disciolto». Nonostante ciò, con i suoi di -scorsi, gli articoli sui giornali, i libri e le pubblicazioni suvarie riviste, don Luigi Sturzo intraprende la sua ultimabattaglia, quella per una Costituzione maggiormente ispi-rata alla libertà, laica ma rispettosa dell’ispirazione cri-stiana nei suoi elementi fondamentali; vale a dire, acco-gliendo dalla Dottrina sociale della Chiesa il principio disussidiarietà e rielaborandolo sulla base della sua teoriasociologica, «la sociologia del concreto», e dell’econo-mia sociale di mercato che lo avvicinava ai teorici e ai po-litici tedeschi del secondo dopoguerra – quali, tra gli al-tri, Röpke, Erhard e Adenauer –, contro ogni forma di oli-smo metodologico che finisce per esaltare lo Stato comeuna «realtà a sé stante, un’ipostasi vivente».

Sturzo difese e promosse un’articolazione socio-eco-nomica che riconosceva il primato della persona e il ruo-lo fondamentale della società civile: la famiglia, i libericorpi associativi – tra cui i partiti –, i sindacati e la Chie-sa. Si impegnò nella promozione della libertà d’insegna-mento e della scelta educativa, per la difesa della proprie-tà privata, del risparmio, della libera impresa, della parte-cipazione del lavoratore al capitale d’impresa. Con riferi-

Annibale Maria di FranciaIncisore di vocazioni

Era un siciliano di ingegno vivace, un giovanissimo mae-stro conteso dalle migliori famiglie di Messina che loconsideravano una promessa di sicura e splendida carrie-ra letteraria. Ma per lui, animo sensibile di poeta, dote discrittore e giornalista, il Signore aveva altri progetti.

Annibale Maria di Francia, nato a Messina il 5 luglio1851 da una famiglia della nobiltà cittadina e rimasto or-fano di padre pochi mesi dopo la nascita, a 17 anni, men-tre si trova in adorazione davanti al santissimo Sacra-mento, ha un’illuminazione che gli segnerà la vita e chegli studiosi hanno definito Intelligenza del Rogate (intui-zione della preghiera). Annibale scopre che il Rogate piùche una semplice raccomandazione è un comando espli-cito di Gesù e quindi un rimedio infallibile per il benedella Chiesa e della società. Una scoperta, questa, che in-cide profondamente e in modo determinante nel suo cam-mino spirituale e che è certamente alla base della suascelta di vita, visto che l’anno dopo, con sorpresa di tutti,a cominciare dalla madre, Annibale veste l’abito talare,spiegando di aver sentito impellente la chiamata del Si-

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ria politica e della teologia pastorale, sia per l’azione poli-tica vissuta come alta forma di carità cristiana: «La politi-ca è un dovere civico, un atto di carità verso il prossimo».

gnano a vivere lo spirito del rogate nella Chiesa, in for-ma privata o associata. Le due famiglie religiose da luifondate, le suore Figlie del Divino Zelo e i Rogazionisti,continuano a essere presenti in tutto il mondo con centridi spiritualità vocazionale e diffusione della preghieraper le vocazioni, scuole di ogni ordine e grado, collegi,istituti per portatori di handicap, case-famiglia per mino-ri, madri in difficoltà e persone anziane, asili, centri socia-li per l’accoglienza e la cura di poveri, centri nutrizionali,missioni, parrocchie e santuari. Riconosciuto come «pa-dre degli orfani e dei poveri», ed «autentico anticipatoree zelante maestro della moderna pastorale vocaziona-le», padre Annibale concluse la sua vita terrena l’1 giu-gno 1927 in contrada Fiumara Guardia, a Messina. Gio-vanni Paolo II lo ha proclamato beato il 7 ottobre 1990 esanto il 16 maggio 2004. Uno dei suoi sogni si è realizza-to con l’istituzione nel 1964 della Giornata mondiale dipreghiera per le vocazioni da parte di Paolo VI.

Una delle sue frasi che più vengono citate è la seguen-te: «Gesù andava attorno per tutte le città e i villaggi, in-segnando nelle loro sinagoghe, predicando il vangelo delregno e curando ogni malattia e infermità. Vedendo lefolle ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite,come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli:“la messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dun-que il padrone della messe perché mandi operai nella suamesse” (Mt 9, 35-38; cfr. Lc 10, 1-3)».

Queste parole evangeliche costituiscono la sorgente eil cuore della vita e della missione dei Rogazionisti oggipresenti in tutto il mondo (Italia, Spagna, Polonia, Alba-nia, Brasile, Argentina, Paraguay, Stati Uniti d’America,Rwanda, Camerun, India, Filippine, Corea del Sud, Viet-nam, Papua Nuova Guinea). Il miracolo della sua cano-nizzazione parte dal caso clinico di guarigione della neo-

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gnore, con una vocazione che egli definisce «improvvi-sa, irresistibile, sicurissima». Già dall’infanzia, comun-que, Annibale aveva sviluppato una grande devozione al-l’Eucaristia, tanto che a soli sette anni, quando ancorastudiava nel Collegio dei Cistercensi, ottenne il permes-so, a quel tempo raro, di accostarsi quotidianamente allasanta Comunione. Proprio dall’Eucaristia, da lui conside-rata «centro amoroso, fecondo, doveroso» di ogni pensie-ro e azione, attinse ispirazione durante tutta la vita.

L’amore teologale verso Dio e il prossimo gli facevasentire come sue la compassione e le pene intime del cuo-re di Gesù. Uno spirito di carità da cui ebbero origine tuttele sue attività tese a cercare unicamente la gloria di Dio ela salvezza delle anime. Eccolo allora, novello sacerdote,dedicarsi alla redenzione morale e spirituale di una dellezone più povere e degradate della sua città, il quartiereAvignone, dove era stato introdotto da Francesco Zanco-ne, un mendicante incontrato per caso e che aveva soccor-so quando era ancora diacono. In questo quartiere, radi-calmente trasformato dalla sua attività apostolica, istituìgli Orfanotrofi Antoniani (nel 1882 quello femminile, nel1883 quello maschile) per accogliere, soccorrere e forma-re civilmente e religiosamente la gioventù più bisognosa.

Attratti dal suo carisma, ben presto si unirono a lui uo-mini e donne impegnati nello stesso apostolato: il 19 mar-zo 1887 fonda la Congregazione delle Figlie del DivinoZelo e il 16 maggio 1897 la congregazione maschile, iRogazionisti del Cuore di Gesù, entrambi con il compitodi vivere e diffondere l’insegnamento di Gesù sulla pre-ghiera per le vocazioni mettendosi a servizio dei piccoli edei poveri. Un angelo in carne e ossa, come è stato defi-nito quando era in vita per le virtù spiccate di castità, pa-dre Annibale ha attratto alla sua speciale missione anchenumerosi laici, uomini e donne, che ancora oggi si impe-

Giovanni PalatucciUn eroe normale nella tragedia della guerra

Un cattolico di profonda fede che si oppose con determi-nazione e coraggio alle leggi razziali a danno degli ebreitanto da sacrificare la propria vita per difendere quelladegli altri. Ecco chi fu Giovanni Palatucci.

Un personaggio dal profilo affascinante in cui le om-bre e la paura della morte si illuminano di speranza egioia quando rischiare la propria vita significa salvarequella di tanti fratelli ingiustamente condannati.

Il suo processo di beatificazione si è concluso ufficial-mente il 16 febbraio 2004 presso il Tribunale diocesanodi Avellino. Le fasi di canonizzazione erano iniziate il 9ottobre del 2002 su richiesta dell’associazione «Giovan-ni Palatucci». Nel 1955 l’Unione delle Comunità israeli-tiche italiane gli ha conferito la medaglia d’oro al valore.Nel 1990 l’istituzione del Memoriale Ebraico dell’Olo-causto dello Yad Vashem lo ha riconosciuto «Giusto tra leNazioni». Nel 1995, a cinquant’anni dalla morte, il Presi-dente della Repubblica gli ha concesso la Medaglia d’oroal merito civile alla memoria. Giovanni, il «Questore diFiume», infatti, salvò la vita a oltre cinquemila ebrei im-

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nata Charisse Nicole Diaz affetta da grave meningoence-falite, complicata da stato settico, idrocefalo e atrofia cor-ticale cerebrale. Il 28 gennaio 1993, a Iloilo City nelle Fi-lippine, nasceva presso il St. Paul’s Hospital Charisse Ni-cole Diaz, da una gravidanza a termine, tramite parto eu-tocico. Il liquido amniotico era tinto da meconio e per ta-le ragione fu praticata profilassi antibiotica per via endo-venosa e la bambina fu trattenuta in ospedale oltre il do-vuto. I genitori, ambedue medici, avevano già predispo-sto il luogo della sepoltura. Sollecitati da un parente Ro-gazionista, alcuni familiari e amici iniziarono con rinno-vata fiducia una novena di preghiere per l’intercessionedel Beato Padre Annibale, mettendo contemporaneamen-te una sua reliquia sul corpicino della bambina.

Charisse fu dimessa, in 36a giornata di degenza, com-pletamente guarita malgrado l’atrofia della corteccia ce-rebrale, senza esiti psico-motori, come chiaramente rile-vano, non senza meraviglia degli esaminatori, le perizieneuro-spichiatriche alle quali è stata sottoposta anche re-centemente. A confermare ciò stanno le indagini strumen-tali, Eco e Tac, che dimostrano chiaramente la risoluzionedell’idrocefalo e dell’atrofia. A conclusione del ProcessoDiocesano sul presunto miracolo, la Consulta Medica del-la Congregazione delle Cause dei Santi il 15 ottobre 2003,all’unanimità, ha concordato sulla inspiegabilità dellaguarigione e della totale assenza di esiti prevedibili.

molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comu-nicare». È quanto scriveva l’8 dicembre 1941 in una let-tera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se nonfosse per il “piccolo” particolare che quel «po’ di bene»,compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempidifficili, significò la salvezza per migliaia di persone al-trimenti condannate a morte certa.

Ancora oggi di Giovanni Palatucci i membri dell’as-sociazione omonima ricordano una frase detta nelle orebuie, quando, sapendo che una donna ebrea era minac-ciata di imminente arresto, la affidò a uno dei suoi colle-ghi. «Questa è la signora Schwartz – gli disse –. Tratta-la, ti prego, come se fosse mia sorella. Anzi, no: trattala co-me se fosse tua sorella, perché in Cristo è tua sorella».

Tanti anni dopo quella signora è partita da Israele allavolta di Fiume per mettere un fiore davanti alla Questu-ra in memoria di Giovanni Palatucci, l’uomo che le ave-va salvato la vita. D’altronde, di quali nobili sentimentifosse capace il giovane fu subito chiaro: deludendo il pa-dre che lo voleva avvocato in Irpinia, Giovanni entrò nellaPolizia di Stato perché, disse, «mi è impossibile doman-dare soldi a chi ha bisogno del mio patrocinio per averegiustizia». Ma fu soprattutto quando Mussolini pubblicòIl manifesto della razza che la personalità di Palatucci e lasua forza tutta radicata nel Vangelo emersero senza equi-voci. «Vogliono farci credere che il cuore sia solo un mu-scolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore ela nostra religione ci dettano», furono le sue parole.

Migliaia furono i perseguitati che aiutò con ogni stra-tagemma possibile, in particolare li istradava verso ilcampo di raccolta di Campagna (Sa), dove era vescovo lozio, monsignor Giuseppe Maria Palatucci.

La sua opera si fece ancora più intensa all’indomanidell’armistizio (8 settembre 1943) con l’occupazione mili-

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pegnandosi, dopo l’emanazione nel 1938 delle leggi raz-ziali antisemitiche, ad aiutare gli ebrei e tutti coloro che,a causa dell’occupazione tedesca, si trovavano a transita-re dal confine istriano verso luoghi più sicuri.

La sua totale disponibilità si ispirò senza dubbio a unospiccato senso civile del dovere e dello Stato e a un eleva-to spirito di religiosa fratellanza. Questa specifica valen-za religiosa ed ecumenica della sua azione e del suo olo-causto è stata attentamente osservata dalla Chiesa cattoli-ca che ha avviato l’istruttoria per la sua Beatificazione.

Nato in Irpinia, a Montella, in provincia di Avellino,il 31 maggio del 1909 (da Felice e Angelina Molinari),Palatucci si laureò in Giurisprudenza e, dopo aver supe-rato gli esami di procuratore legale, frequentò a Roma,presso la Scuola superiore di Polizia, un corso per vicecommissario di pubblica sicurezza. Assegnato inizial-mente a Genova, il 15 novembre 1937 fu trasferito allaQuestura di Fiume, dove gli fu affidata la direzione del-l’Ufficio stranieri con la qualifica di commissario.

Quando la situazione cominciò a diventare più com-plicata e pericolosa, malgrado i sospetti della polizia po-litica del Terzo Reich, rimase per continuare la sua pre-ziosa opera, rifiutando di mettersi in salvo nonostante iripetuti inviti del Console svizzero a Trieste.

Arrestato dalla Gestapo il 13 settembre 1944, fu con-dotto nel carcere di Trieste e condannato a morte. Grazia-to, con la commutazione della pena fu deportato in Ger-mania nel campo di sterminio di Dachau (matricola117826) il 22 ottobre del 1944. Il 10 febbraio 1945, a po-che settimane dalla liberazione e a soli 36 anni, morì ucci-so dalle sevizie e dalle privazioni (o, come anche fu det-to, a raffiche di mitra) e fu sepolto in una fossa comune.

«Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiatida me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro

Edith SteinIl coraggio e la fede al servizio dell’umanità

Edith Stein, la santa martire ed ebrea, uccisa presumibil-mente il 9 agosto 1942 nel campo di concentramento na-zista di Auschwitz-Birkenau, è stata dichiarata compatro-na d’Europa il 1° ottobre 1999 da Giovanni Paolo II, checosì spiegò la decisione: «Dichiarare oggi Edith Steincompatrona d’Europa significa porre sull’orizzonte delvecchio Continente un vessillo di rispetto, di tolleranza,di accoglienza, che invita uomini e donne a comprender-si e ad accettarsi al di là delle diversità etniche, culturalie religiose, per formare una società veramente fraterna».

Edith Stein ha fatto dell’adorazione e della Croce gliaspetti caratterizzanti della sua santità ed è un punto di ri-ferimento per i giovani. La sua figura è ricordata da duepersone che la conobbero personalmente: Elisabeth Krä-mer, sua alunna quando insegnava all’Istituto magistraledi Speyer, nel convento delle suore domenicane intitolatoa St. Magdalena, e suor Teresia Margareta Drügemüller,novizia al tempo dell’ingresso nel Carmelo di Colonia diEdith, la futura suor Teresa Benedetta della Croce, pro-clamata santa da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998.

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tare tedesca, quando Fiume fu annessa al Terzo Reich. No-minato Questore reggente, intensificò l’aiuto, utilizzan-do la sua autorevolezza istituzionale.

chiava lì. Ma non solo durante la Messa, anche in altrimomenti veniva spesso lì per fare l’adorazione. Persinodi notte si tratteneva spesso a fare l’adorazione davanti alSantissimo. Una chiave della Chiesa era a sua disposizio-ne in un posto concordato. Le sue lezioni erano impegna-tive, ed ella pretendeva molto anche da noi. Non era unasemplice trasmissione di sapere: portava nell’aula con séanche la sua profonda fede in Cristo».

Edith Stein nasce il 12 ottobre 1891 a Breslavia. Do-po il liceo entra nell’Università della sua città natale nel1911 dove frequenta la facoltà di germanistica e segue icorsi di filosofia e di psicologia sperimentale. A Bresla-via venne a conoscenza delle ricerche che il filosofo Ed-mund Husserl (1859-1938) stava svolgendo a Gottinga edecise di seguire le sue lezioni dopo aver letto nell’estatedel 1913 il secondo volume delle Ricerche Logiche.

Husserl, la cui formazione è legata agli studi di mate-matica e di psicologia, aveva attraversato una fase di ri-flessione durante la quale riteneva di poter comprendereil significato dell’aritmetica e in particolare quello delnumero per mezzo dell’analisi psicologica. Però, già nel1901, nel primo volume delle Ricerche Logiche, egli ave-va dimostrato di essersi reso conto dell’insufficienza del-la psicologia e di essersi orientato verso la logica per po-ter afferrare il significato dei processi conoscitivi. In real-tà Husserl era alla ricerca di un metodo di indagine sullainteriorità umana che si ponesse al di là tanto della logi-ca quanto della psicologia, metodo che sarà da lui elabo-rato e definito «fenomenologico», ossia un’analisi dell’at-tività conoscitiva e in generale della vita riflessiva e affet-tiva umana, che la descriva nel suo darsi, così come si pre-senta, senza sovrapporre a essa elementi estranei.

Questa descrizione che mette in evidenza ciò che è pro-prio dei fenomeni, intesi come atti conoscitivi o affettivi,

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Per suor Margareta Drügemüller, «Suor Benedetta eraconsapevole, sebbene con la massima modestia, dell’es-sere prescelta come figlia d’Israele. Rallegrava conoscer-la così perché era completamente di Dio e allo stessotempo figlia del popolo eletto di Dio. Era ebrea ma, sot-tolineava sempre, ebrea tedesca, così come sua madre e isuoi parenti si definivano costantemente “ebrei tede-schi”. Questa consapevolezza conferiva a suor Teresa Be-nedetta un grande carisma. [...]». Edith Stein, figlia delpopolo di Israele ed ebrea tedesca, era nata nel giorno del-lo Jom Kippur, dell’espiazione e del perdono del popolodi Dio. «Questa grande donna – spiega Margareta – po-trebbe essere il membro di riconciliazione tra Ebrei e Cri-stiani, affinché entrambi riconoscano congiuntamente diessere figli e figlie di un unico Padre celeste, e di viveredel Suo amore e della Sua benedizione. La Croce di Cri-sto faceva necessariamente parte della quotidianità dellanostra consorella Teresa Benedetta. Ella soffrì profonda-mente, quando ebbe notizia del destino dei suoi parenti,amici e conoscenti. In quegli anni del periodo nazista[antecedenti il 1938], il disprezzo per gli Ebrei crescevadi giorno in giorno. [...] Da anni [1941] sentiva tutto ilpeso della Croce. L’ideologia del nazionalsocialismo, lamiseria tremenda in tutte le sue manifestazioni subita dalsuo popolo ebraico, la guerra crudele e la povertà estremadel popolo affliggevano profondamente suor Teresa Be-nedetta. Aveva previsto già anni prima la catastrofe, of-frendo a Dio la sua vita per impedire tutto questo male.Solo da Dio si attendeva un aiuto, poiché aveva capitoche in questa situazione l’aiuto umano non bastava».

La dottoressa Stein pregava molto, ricorda la signoraKrämer: «La mattina, in occasione della Santa Messa, ave-va un posto tutto suo nel Coro della Chiesa. C’era un ingi-nocchiatoio vicino alla porta della sagrestia: si inginoc-

e le utilizza contro i sostenitori di un’interpretazione pu-ramente psicologica dei processi conoscitivi, dimostran-do la validità del metodo fenomenologico nell’ambitodella descrizione dei rapporti fra i soggetti.

Nella Dissertazione di Stein c’è un punto particolar-mente significativo: esso riguarda la possibilità dell’esse-re umano di mettersi in contatto con Dio e la modalità dellegame che li unisce in quanto credente. Questa riflessio-ne stupisce, se si pensa che Edith, proveniente da fami-glia ebraica, era diventata fin dall’adolescenza indiffe-rente nei confronti dei problemi religiosi. È però necessa-rio tenere conto di ciò che ella scrive nella sua autobio-grafia. A Gottinga in quel periodo risiedeva Max Scheler,il quale contendeva ad Husserl il primato nella scopertadel metodo fenomenologico, anche se in realtà Scheler sifermava alla sola riduzione all’essenza, che applicava al-l’analisi dei sentimenti e in particolare alla dimensionereligiosa. A prescindere dalla questione del primato nellascoperta del metodo fenomenologico (per Edith spetta adHusserl), Stein confessa di preferire l’atteggiamento di ri-cerca, più rigoroso e onesto intellettualmente, proposto daHusserl, ma di aver subito l’influenza di Scheler riguardoai problemi religiosi, per cui cadevano le barriere dei pre-giudizi razionalistici tra i quali era cresciuta senza saperloe il mondo della fede le si apriva repentinamente dinanzi.

Nel 1917 Edmund Husserl fu nominato ordinarioall’Università di Friburgo e scelse come sua assistenteEdith Stein, la quale venne chiamata a sistemare i nume-rosi manoscritti del maestro e a tenere corsi preparatorialla fenomenologia per gli studenti più giovani. Nel frat-tempo i rapporti con la moglie di Adolf Reinach (suo col-lega a Gottinga, morto durante la prima guerra mondiale)e con Hedwig Conrad Martius, entrambe molto religiose,portarono sempre di più Edith ad approfondire la cono-

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e che cerca di comprenderli in se stessi, è definita appun-to fenomenologia, riflessione su ciò che si presenta, si dànel fluire della nostra coscienza. Essa si scandisce, quindi,in un doppio movimento: un messa in evidenza di ciò cheè «essenziale» (riduzione eidetica, da eidos = essenza),dopo aver messo fra parentesi ogni altro aspetto, perfinoquello esistenziale (epoché), e degli atti che sono «vissu-ti» (Erlebnisse) dal soggetto, preso nella sua universalità(riduzione trascendentale), secondo l’uso che già Kantaveva fatto del termine trascendentale, come ciò che èrelativo alla struttura della soggettività.

Stein comprende a fondo il significato di questo meto-do di indagine, tanto da non abbandonarlo mai sostanzial-mente, anche quando la sua ricerca affronterà temi che laallontaneranno dal suo maestro Husserl. A Gottinga, in-fatti, Edith ha la possibilità di applicare il metodo feno-menologico alla sua prima ricerca importante, quella re-lativa all’empatia, cioè al modo in cui ogni io si mette incontatto con gli altri e li riconosce come alter ego, da leielaborata nella sua dissertazione di laurea, Il problema del-l’empatia, pubblicata ad Halle nel 1917. Tale conoscen-za ha una sua particolarità: l’altro è conosciuto o, me-glio, «sentito» come altro io (alter ego), cioè è ricono-sciuto come un soggetto (io), ma diverso da me e perciò«altro». Tuttavia, se da un lato ogni io rimane estraneo al-l’altro, in quanto una immedesimazione totale è impossi-bile, è anche vero che è possibile comprendere attraver-so la presentificazione ciò che l’altro pensa, vive e sente;si stabilisce così una comunicazione fra i due che si esten-de a tutti i soggetti, diventando appunto inter soggettiva.

Siamo nel 1916 e in quegli anni, accanto ad altre inda-gini, Husserl stava sviluppando (e continuerà a farlo) l’a-nalisi sull’intersoggettività. Edith Stein prende spuntodalle indagini del maestro, le elabora in modo personale

Adriano OlivettiQuando l’impresa è al servizio dell’uomo

Industriale, uomo di cultura, scrittore, politico e fautore ditantissime iniziative, Adriano Olivetti, nato a Ivrea l’11aprile 1901, è stato un personaggio poliedrico. Sempre at-tento al dibattito politico e sociale e frequentatore di am-bienti e circoli liberali e riformisti. Di sicuro un ecletticoche ha fatto della cultura l’arma più forte e utile per incide-re sulla società e sulla politica. Capisce subito che la chia-ve di volta per incidere sulla cultura è la comunicazione.

Dalla biografia di Adriano Olivetti emerge tutta la suapoliedricità di uomo, imprenditore, scrittore, giornalista,politico. Dopo la laurea in Chimica industriale al Politec-nico di Torino, nel 1924 inizia l’apprendistato, come ope-raio, nella fabbrica di macchine per scrivere fondata dalpadre Camillo nel 1908 a Ivrea. Poi il viaggio negli StatiUniti d’America lo segnerà profondamente e lo aiuterà ne-gli anni a introdurre programmi tesi all’innovazione dellaOlivetti. Si parte da una nuova organizzazione e da un au-mento significativo della produttività della fabbrica diIvrea. Nel 1931 Adriano Olivetti viaggia fino in UnioneSovietica con una delegazione di industriali italiani. Pun-

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scenza dei testi sacri, anche se la spinta decisiva verso laconversione al cattolicesimo fu data dalla lettura della vi-ta di Santa Teresa d’Avila. Nel Capodanno del 1922 rice-vette il Battesimo e la Prima Comunione.

Non sentendosi più a suo agio a Friburgo, preferì ac-cettare nel 1923 il posto di docente di lingua e letteraturatedesca presso l’Istituto Magistrale delle Madri Domeni-cane di Santa Maddalena a Spira. Questo non fu un esilio,anzi si intensificò il suo contatto con gli altri e la sua po-polarità aumentò, sia sotto il profilo culturale che spiri-tuale. Edith Stein fu molto conosciuta e la sua partecipa-zione richiesta in numerose occasioni.

L’approfondimento delle analisi fenomenologiche leconsentì di completare la trilogia iniziata con la trattazio-ne del tema dell’empatia con due lunghi saggi, Psicolo-gia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazionefilosofica (1922) e Una ricerca sullo Stato (1925), pubbli-cati sullo «Jahrbuch fuer Philosophie und phaenomenolo-gische Froschung», diretto da Husserl, e dedicati alla de-scrizione fenomenologica dell’essere umano come for-mato da corpo, psiche e spirito, e delle forme associativeumane, la comunità, la società e lo Stato. Già nel 1919 el-la aveva iniziato una sottile analisi ricapitolativa e intro-duttiva delle tematiche che andava affrontando, analisiche condurrà fino al 1932 presso l’Istituto tedesco di pe-dagogia scientifica di Münster, dove insegnò per un an-no. Le sue indagini riprendono il tema della soggettività,dell’intersoggettività e delle scienze umane, e si allarga-no, sulla scia delle analisi della sua amica Hedwig Con-rad Martius, a un argomento che sembrava a lei estraneo,quello relativo al significato della natura. Tali analisi, sot-to il titolo complessivo di Introduzione alla filosofia, so-no state pubblicate come volume XIII delle sue opere.

duttiva è una delle parole-chiave dell’umanesimo olivet-tiano, una parola ancora oggi tutta da esplorare». Al ri-guardo basti semplicemente pensare che, in modo del tut-to controccorrente rispetto ad altri imprenditori del tem-po, con rare eccezioni, Adriano Olivetti chiamò a lavora-re a Ivrea giovani collaboratori come Marcello Nizzoli eGiovanni Pintori per dare quello che oggi verrebbe defi-nito un restyling alla macchina aziendale. Allo stesso tem-po egli aveva capacità decisionali non indifferenti che co-niugavano anche l’attenzione nei confronti di quanti la-voravano con lui. Il risultato di questa miscela di lavoroumano e di attenzione ai mercati si tradusse nella bellez-za del design di macchine per scrivere come la Lexikon80 (1948), la Lettera 22 (1950) e la calcolatrice Divisum-ma 24 (1956). Nel 1959 la Lettera 22 fu indicata da unagiuria di designer a livello internazionale come il primotra i cento migliori prodotti degli ultimi cento anni.

Adriano Olivetti e la sua azienda ebbero così un’espan-sione sui mercati nazionali e internazionali, con stabili-menti a Pozzuoli, ad Agliè (1955), a S. Bernardo di Ivrea(1956), a Caluso (1957), ma anche in Brasile, nel 1959.

Sul sito della Fondazione Olivetti si legge: «Gli otti-mi risultati conseguiti sui mercati internazionali con iprodotti per ufficio non distolgono l’attenzione di Adria-no Olivetti dall’emergente tecnologia elettronica. Già nel1952 la Olivetti apre a New Canaan, negli USA, un labo-ratorio di ricerche sui calcolatori elettronici. Nel 1955 vie-ne costituito il Laboratorio di ricerche elettroniche a Pi-sa; nel 1957 Olivetti fonda con Telettra la Società Gene-rale Semiconduttori (SGS) e nel 1959 introduce sul mer-cato l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico italianosviluppato e prodotto nel laboratorio di Borgolombar-do. Il successo imprenditoriale di Adriano Olivetti ottie-ne il riconoscimento della National Management Associa-

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ta molto sulla promozione e sulla pubblicità, naturalmen-te nelle restrizioni e nelle risorse del tempo. Nel 1932 Oli-vetti viene nominato direttore generale dell’azienda e ri-coprirà nel 1938 la carica di presidente subentrando alpapà. Eccellenza tecnologica, innovazione, apertura ver-so i mercati internazionali, sono le linee guida della Oli-vetti di Adriano. In parallelo l’industriale sperimenta me-todi e impostazioni di lavoro e nella rivista da lui fonda-ta, Tecnica e Organizzazione, pubblica numerosi saggi ditecnologia, economia e sociologia industriale.

Per Olivetti l’impresa non doveva avere come scopo so-lo il profitto, ma essa rappresentava il momento di rela-zione, di costruzione comune e di sviluppo.

Nel 1948 negli stabilimenti di Ivrea nasce il Consigliodi gestione, tra i primi in Italia ad avere competenze sulladestinazione dei finanziamenti per i servizi sociali e l’as-sistenza. Nel 1956 l’Olivetti riduce l’orario di lavoro da48 a 45 ore settimanali a parità di salario, in anticipo didiversi anni sui contratti nazionali di lavoro.

«Quella di Olivetti era semplicemente l’economia ita-liana, cioè l’erede dell’economia dei Comuni, dell’Uma-nesimo civile, degli artigiani artisti, dei cooperatori», hascritto l’economista Luigino Bruni sull’Avvenire il 29 ot-tobre 2013. La «terza via» di Olivetti era troppo italianaper poter essere riconosciuta dagli italiani, perché mette-va a reddito, in piena post-modernità, i tratti tipici e mi-gliori della nostra vocazione: creatività, intelligenza, co-munità, relazioni e territori. Uno «spirito del capitali-smo» italiano, ed europeo, sostiene Bruni «diverso daquello americano che stava già dominando il mondo, do-ve il sociale inizia quando si esce dai cancelli dell’impre-sa e l’imprenditore crea la fondazione filantropica “per” ipoveri. Il capitalismo di Olivetti si occupava del sociale edei poveri durante l’attività d’impresa. E l’inclusione pro-

Conclusioni

Al termine del nostro excursus sulle vite di alcuni grandipersonaggi del Novecento, e non solo, è possibile traccia-re linee di riflessione utili ad offrire spunti per il dibattitoe il confronto culturale soprattutto in un momento storicocome quello che stiamo vivendo, lacerato da crisi econo-miche, sociali e politiche non facili da risolvere. La car-rellata di schede biografiche ha una funzione quasi tera-peutica: la presunzione di incitare, stimolare e suggestio-nare il lettore a entrare nel circuito virtuoso della speran-za cristiana, che è cosa ben diversa dall’ingenuo ottimi-smo o dall’illusione che qualcosa possa cambiare per ma-no di altri. La narrazione biografica delle vite e delle ope-re di queste persone normali, inconsapevolmente diven-tati eroi del quotidiano e figure di santità, vogliono richia-mare tutti a un nuovo protagonismo nei diversi settori delvivere sociale e civile. Nella “modernità liquida” (Z. Bau-man, 2009), nella quale il tempo non è ne ciclico né linea-re – come invece lo era nelle altre società della storia mo-derna e premoderna – viviamo un’attualità trafelata, dicorsa, delle relazioni mordi e fuggi, delle amicizie su Fa-

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tion di New York che nel 1957 gli assegna un premio per“l’azione di avanguardia nel campo della direzione azien-dale internazionale”. Nel 1959 Adriano conclude un ac-cordo per l’acquisizione della Underwood, azienda ameri-cana leader nei prodotti per ufficio con quasi 11.000 di-pendenti, a cui il padre Camillo si era ispirato quando, nel1908, aveva avviato la sua iniziativa imprenditoriale».

Olivetti non fu solo un imprenditore. Con l’aiuto di al-cuni giovani intellettuali fondò la casa editrice NEI (Nuo-ve Edizioni Ivrea), trasformata poi in Edizioni di Comu-nità. Conobbe anche la realtà dell’esilio (1944-1945), inSvizzera, dove scrisse la sua opera più importante, L’or-dine politico delle Comunità, pubblicata alla fine del1945. Nel 1946 la rivista Comunità iniziò le pubblicazio-ni diventando un punto di riferimento culturale indiscus-so per il movimento omonimo. Alla fine del 1959 le Edi-zioni di Comunità pubblicano in raccolta i saggi e gli in-terventi più significativi di Adriano Olivetti con il titoloCittà dell’Uomo. L’anno seguente il Movimento Comu-nità si presenta alle elezioni amministrative e AdrianoOlivetti viene eletto sindaco di Ivrea. Il successo induce icomunitari a presentare alcune liste nelle elezioni politi-che generali del 1958. In Parlamento risulta però eletto,come deputato, il solo Adriano Olivetti.

Adriano Olivetti muore improvvisamente il 27 febbraio1960 mentre viaggiava in treno da Milano a Losanna.

la terra” e “luce del mondo”, uomini e donne che hanno in-contrato Cristo e, come tali, hanno messo al primo postodelle loro vite tutte le virtù cristiane senza le quali sareb-be stato impossibile per questi “eroi” vivere la carità, lasolidarietà e farsi prossimi nel mondo della politica, delvolontariato, della vita religiosa, sacerdotale e civile.

Dalle vicende umane di questi “generatori di speran-za” è possibile trarre numerosi insegnamenti se ciascunodi noi farà memoria delle loro vite, delle loro azioni e del-le loro opere. Per farlo occorre riflettere su un elementoessenziale che spiega anche la scelta di un titolo a effetto,forse pure paradossale, come Linkati alla storia.

Il messaggio di vita che porta in sé ogni biografia nonpuò non essere veicolato, diffuso, reso pubblico. Se da unlato la comunicazione verbale e il racconto possono esse-re utili strumenti narrativi che portano alla riscoperta diquesti testimoni, dall’altro i mezzi di comunicazione so-ciale (da distinguere in modo sottile dai mezzi di comu-nicazione di massa o mass media) sono determinanti pervia della loro azione amplificativa dei contenuti trasmes-si. I messaggi che, direttamente o indirettamente, ciascu-na biografia porta con sé possono essere oggetto di “vi-ralità” (D.F. Jurvetson, 1998) nel momento in cui vengo-no condivisi nella modalità cross-platform, peraltro mol-to in uso nel mondo del web 2.0. In pratica, la narrazio-ne biografica può trovare luogo non solo in Televisioneattraverso le fiction, nelle pagine culturali dei quotidianiin occasioni di anniversari storici o nelle rubriche radio-foniche dedicate ai personaggi del passato, ma anche esoprattutto attraverso i social network, i blog e le commu-nity. Questo fenomeno di amplificazione multipiattafor-ma rende i mezzi di comunicazione sociale, grazie anchealla Rete, strumenti essenziali per la divulgazione e diffu-sione di valori positivi che stanno al centro del vivere so-

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cebook e di una perdita di senso del tempo che, a volte, siaccompagna a uno svuotamento valoriale.

“Linkarsi alla storia” attraverso le biografie qui rac-contate è un invito, almeno per il tempo della lettura diquesto saggio, a sospendere un attimo la nostra corsa,spegnere se è il caso il pc, il tablet, lo smartphone, per ri-flettere su questioni importanti e in particolar modo sullanecessità di adoperarsi sul fronte del bene comune.

Per riflettere sul bene comune è necessario addentrarsinell’“avventura del silenzio” (J.F. Moratiel, 1994), il chenon significa solamente isolamento dal rumore, dal caos,dalla confusione e dal traffico di cui le metropoli, le città,ma anche le autostrade telematiche e digitali, sono pie-ne. Al contrario, nel contesto di cultura convergente in cuiviviamo (H. Jenkins, 2009), addentrarsi nell’avventuradel silenzio vuol dire “entrare in contatto” o, meglio, “lin-karsi” con una persona o con una situazione generata dauna comunità che tende al benessere sociale e al rispettodella dignità della persona umana in tutti i meandri del vi-vere civile e politico. A scanso di equivoci è bene precisa-re il significato di “persona umana”. Con questa espressio-ne si indica ogni individuo umano persona est individuasubstantia rationalis naturae (Boezio). Ma c’è una do-manda che viene posta da uno dei personaggi descritti inquesto saggio: quanto o cosa “vale” l’uomo (ogni singolouomo) alla luce della rivelazione cristiana? Giorgio La Pi-ra, il “sindaco santo” di Firenze, ne La nostra vocazionesociale sottolinea che la risposta è da ricavarsi dall’inse-gnamento vivo di Cristo e da quello dei Padri della Chie-sa: l’uomo “vale” in ragione della preziosità del suo “te-soro” interiore; vale perché “porta” in sé Dio.

Per questo il filo conduttore che collega tutti i testimo-ni della fede qui narrati rimanda a un unico denominato-re comune, quello di essere persone di speranza, “sale del-

I mezzi di comunicazione sociale, a partire da quellitradizionali come il giornale e la radio, soprattutto nei lo-ro sviluppi interattivi come Tv digitale e Internet, costi-tuiscono un sistema sempre più articolato e integrato chericonfigura l’ambiente dell’esperienza umana, ridefini-sce i concetti di prossimità e distanza, consente la discon-nessione dall’ambiente immediato, dalla situazione spe-cifica, dalla dimensione locale, e la connessione a mondilontani. La rete dei mezzi di comunicazione sociale ride-finisce l’idea di mondo comune, la decostruisce fram-mentando gli orizzonti di riferimento. Ma essa è comun-que in «grado di promuovere l’idea di un bene comune odi esasperare le spinte individualistiche; può contribuirealla ridefinizione dello spazio, accentuando l’accessibili-tà e annullando le distanze, e del tempo, rendendone visi-bile lo spessore attraverso la valorizzazione della memo-ria e l’anticipazione del futuro, oppure può appiattire iltempo sulla dimensione del presente assoluto, nel qualenon può esserci continuità e responsabilità, ma solo untrionfo di emozioni effimere o una coincidenza di inte-ressi transitori, appartenenze momentanee, convergenzeoccasionali» (C. Giaccardi). Ciò fa ben percepire comeprima ancora che per i loro contenuti, l’influenza deimass media e degli stessi mezzi di comunicazione socialesi esercita nella loro capacità di ridefinire il mondo in cuici muoviamo e nel quale costruiamo le nostre relazioni.

Oggi i media ridefiniscono e diffondono i “nuovi vo-cabolari” per parlare della realtà, interpretarla e argomen-tare criteri di normalità o di eccezionalità. Per tale ragio-ne la narrazione biografica dei testimoni qui descritti met-te in luce ogni singolo soggetto-testimone di fede e allostesso tempo il grande ruolo esercitato dai mezzi di comu-nicazione sociale nella trasmissione dei valori che ognistoria umana e di santità porta con sé. I mezzi di comuni-

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ciale e civile. Gli sviluppi tecnologici rapidissimi e i cam-biamenti nei modelli di consumo, negli stili di vita degliadolescenti e dei giovani sono quanto mai in grado di “ri-modellare” pensieri, azioni e comportamenti in misura di-rettamente proporzionale con la capacità delle tecnologiea influenzare la produzione stessa dei mass media. Da-vanti a questo c’è l’urgenza di ridefinire ruolo e significa-to dei media. L’etimologia suggerisce “qualcosa che sta inmezzo”, uno strumento, un veicolo di trasporto di mes-saggi e contenuti. Tuttavia, già negli anni Sessanta, lo stu-dioso cattolico Marshall McLuhan aveva individuato inmodo lungimirante e profetico alcune caratteristiche deimedia che oggi paiono ormai scontate, ma che faticano aessere incorporate in una ridefinizione del termine: i me-dia sono estensioni del nostro corpo, protesi tecnologicheche rendono possibili nuove forme di rapporto con il mon-do e le persone. Questo concetto è stato ripreso varie vol-te da Derrick De Kerckhove, il più vicino “discepolo” diMcLuhan. I media, più che “veicoli” sono “metafore”, nelsenso etimologico del termine (che in greco significa tra-sportare, portare oltre), dove nello spostamento è implici-ta la trasformazione, la rielaborazione; i media sono “tra-duttori” che ci consentono, come scrive McLuhan, di la-sciare andare l’esperienza e di riafferrarla in modo nuo-vo; i media, complessivamente, ridefiniscono il nostroambiente percettivo e relazionale. Si capisce bene che perfar diventare i mezzi di comunicazione sociale – smarcan-doli dal concetto di mezzi di comunicazione di massa –veri e propri generatori di valori occorre inserire in essicontenuti che siano espressione di valori autentici qualil’amicizia, il rispetto per la persona, la sensibilità versogli ultimi, la memoria storica e la riscoperta del rapportocon la famiglia e la scuola. Tutti valori riscontrabili inogni singolo gesto, parola e azione dei testimoni narrati.

In sostanza i mezzi di comunicazione sociale nel piùampio e complesso quadro dell’informazione globalecontribuiscono a delineare uno spirito narrativo-rappre-sentativo; a differenza dei mass media, o mezzi di comu-nicazione «di massa», che guardano ai soggetti che popo-lano la società non come persone, ma come individui edestinatari di messaggi politici e pubblicitari. Linkati alla storia ha fatto ricorso alla narrazione bio-

grafica per far conoscere personaggi che hanno dedicatola loro vita a combattere per la giustizia sociale, il benecomune, un futuro migliore. Dalle loro esperienze si puòtrarre l’ossigeno e lo spirito di iniziativa per intraprenderecon speranza nuove strade, ulteriori cammini, vie diverseche possono ridare speranza a una società apparentemen-te in stallo, in crisi di identità. Occorre una svolta, un girodi boa, e l’humus fertile per seminare speranza stavoltaproviene dal passato. Spesso, infatti, la storia può indica-re la rotta da seguire e le biografie di questi testimoni difede lo dimostrano. Essi hanno dedicato l’intera esistenzaterrena ai poveri, agli anziani, ai discriminati e ai disere-dati, con l’impegno di non abbandonarli nella solitudine,nella povertà, nel bisogno. Sono stati dei testimoni chehanno dimostrato come la vita è sempre sacra e che il co-raggio e la dignità, l’umiltà e il mettersi in gioco per l’al-tro, sono due elementi fondamentali e utili per superare ilimiti, le dipendenze, il dolore. In una sola parola, “lin-karsi alla storia” vuol dire guardare al futuro con speran-za nella consapevolezza che non tutto è perduto e che an-cora una volta ci si può spendere per il bene comune.

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cazione sociale, attraverso la pubblicazione di storie di ri-scatto, di conversione, di fede e di speranza, possono es-si stessi diventare “generatori di valori” positivi e incul-turatori di passione per il bene comune, oltre l’individua-lismo che caratterizza l’esistenza umana nelle città e neicentri urbani, spesso anonimi, così come le periferie e lezone extraurbane. In entrambi questi luoghi, sia il centroche la periferia, non mancano emergenze sociali, situa-zioni di degrado e abbandono non solo delle strutture maanche della persona umana che in questi luoghi si trova avivere. Ebbene, la dignità dei poveri, dei sofferenti e de-gli emarginati deve essere riconosciuta da chi governa eda chi si dovrebbe adoperare per il bene comune. In que-sto i mezzi di comunicazione sociale possono essere ingrado di «tradurre l’intraducibile» (P. Ricœur), ovvero da-re “senso” a un fatto, a una notizia, a una storia, a una si-tuazione. «Senso significa direzione» (H.G. Gadamer).Porre domande di senso vuol dire dare risposte di senso ein questo i mezzi di comunicazione sociale, se utilizzatiin modo corretto “per il bene comune” – e non come stru-menti orientati a influenzare l’opinione pubblica sotto ilprofilo politico o, peggio ancora, consumistico –, posso-no condurre alla comprensione del senso come direzione,la Richtungssinn di Hans-Georg Gadamer, cioè senso di-rezionale. Gadamer offre questa definizione all’internodella sua analisi della logica della domanda e delle rispo-sta, mostrando che il senso della domanda è una direzio-ne nella quale si deve muovere anche la risposta. I mez-zi di comunicazione sociale, l’informazione e il giornali-smo professionale attuano quotidianamente questo eser-cizio di domanda-risposta in cui il linguaggio della narra-zione biografica resta uno dei principali strumenti utiliz-zati per raggiungere tutte le fasce culturali dei lettori, te-lespettatori, radioascoltatori e navigatori del web.

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