chiaroscuro numero 5

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5 Settembre 2010 chiaro s curo NUMERO S Sommario Intervista al sindaco Mismetti Lo zuccherificio: la foresta dell’oblio Nostra culpa Due o tre cose sulla Quintana Si aspettava Settembre La città imbandierata Aliens Survival Laboratory (ASL) Sulla pelle degli ultimi L’angolo della vergogna Quelli del ‘92 Altrimondiali Na’guara Il comignolo di Castelluccio Impreparato a Settembre Lo specchio della musica L’angolo della tenerezza Il 15 Settembre del 1860 Una vecchia foto. L’archibugio Il carnificio militare Le fontane nel tempo Vecchi caffè di Foligno A proposito della lengua Lo pane fatto in casa Un po’ d’autunno per tutti I ricordi di Tina Lomografia Eremiti Via Vitelleschi Qualche volta mozzico anch’io Libero spazio 0039 3 6 8 9 10 11 12 14 16 17 18 20 22 23 24 25 26 28 31 32 34 36 38 39 40 41 42 43 44 45 46 /Slow Press

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ChiaroScuro numero 5

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5Settembre 2010

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O SSommario

Intervista al sindaco MismettiLo zuccherificio: la foresta dell’oblio

Nostra culpa Due o tre cose sulla Quintana

Si aspettava SettembreLa città imbandierata

Aliens Survival Laboratory (ASL)Sulla pelle degli ultimi

L’angolo della vergognaQuelli del ‘92Altrimondiali

Na’guaraIl comignolo di Castelluccio

Impreparato a SettembreLo specchio della musicaL’angolo della tenerezzaIl 15 Settembre del 1860

Una vecchia foto. L’archibugioIl carnificio militare

Le fontane nel tempoVecchi caffè di Foligno

A proposito della lenguaLo pane fatto in casa

Un po’ d’autunno per tuttiI ricordi di Tina

LomografiaEremiti

Via VitelleschiQualche volta mozzico anch’io

Libero spazio0039

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Guglielmo Castellano[Editoriale]

Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafica: Riccardo Caprai, Gabriele Contilli Stampa: La Tipografica, via Flaminia 40, Bevagna

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscurole immagini che salvano il mondo

Copertina a cura di “Semiserie” laboratorio tipografico di fantasia

Stacca e conserva la sovracoperta:una piccola edizione artigianaleda rilegare seguendo semplici istruzioni.

“Amico mio, la bella stagione volge ormai alla fine; ma l’autunno che segue ha in sé delle premesse eccezionali. Il clima, con gradualità e leggerezza, comincerà a cambiare, regalandoci ancora, comunque, delle splendide “ottobrate”. Ed in questo contesto, ognuno di noi, come anche te del resto, riprenderà serenamente la propria attività. Gli uffici torneranno a popolarsi, le fabbri-che riprenderanno a produrre a pieno regime e gli studenti, più o meno in erba, ritorneranno tra i banchi di scuola con la mente pronta e ricettiva, accompagnati in questa loro crescita culturale, da docenti motivati e “carichi”. In ambito politico e sociale, anche i nostri politici ed amministratori, sia nazionali che locali, dopo il periodo feriale, come al solito discreto e lontano dalla luce dei riflettori del gossip, si preparano ad affrontare al meglio, seriamente, un nuovo anno con tutto il carico di responsabilità che questa loro condizione inevitabilmente comporta. Anche a livello internazionale, pur in presenza delle solite problematiche, ci si prepara con tranquillità alla “ripartenza”. Le questioni sul tappeto sono stesse le sempre, ma lo spirito è decisamente costruttivo.Poi, per fortuna, è ripreso anche il calcio. Il pallone, come al solito a partire dalle 14.30 è tornato a rotolare contemporaneamente su tutti i rettangoli verdi della serie A, per la gioia degli sportivi italiani”.Anche noi, come Lucio Dalla, colti dallo sconforto, abbiamo voluto scrivere (nello sterile tentativo di evadere dalla realtà) ad un nostro ipotetico amico, per descrivere e raccontare uno scenario che rimane solo una chimera, una pia intenzione. In giro, purtroppo, c’è ben altro.

Nel mondo, in Italia, a Foligno (il globo, ormai, è diventata una piccola casa comune) l’estate che si avvia a conclusione non si è manifestata con i soliti crismi: temperature equatoriali in Russia, oscillazioni termiche in “occidente” tipiche, più che dell’estate, dell’inizio primavera. Sì…Qualcuno di noi tornerà a popolare uffici e fabbriche, ma in molti se ne resteranno a casa, magari in cassa integrazione o mobilità, perché il proprio opificio, la propria ditta (specialmente di piccole, medie, dimensioni) non riaprirà i battenti, o se lo farà, sarà a “scar-tamento ridotto”. Il prezzo della crisi è questo; ed a pagare sono i più deboli. Anche Foligno non sfugge a questa momento di difficoltà. La crisi ha colpito, e con fendenti piuttosto pesanti. In affanno non solo determinate Imprese della città e del suo più immediato hinterland ma, tanto per citare la Merloni, grandi realtà industriali il cui travaglio ha avuto ripercussioni in tutta la regione. Siamo disorientati. Non c’è che dire. Ed in presenza di questa nebbia fittissima, volgiamo lo sguardo verso la politica, sperando in alcu-ne risposte. Ma anche lì, c’è poco da consolarsi: la politica sembra essere diventato un universo autoreferenziale, chiuso in se stesso e occupato dai propri gravi problemi (Montecarlo e dintorni…) e quindi distratto dal recepire “il grido di dolore” che da più parti d’Italia giunge verso le stanze del potere.Anche i nostri figli torneranno a scuola, loro sì, a prescindere dalle bizzarrie del clima, dopo un’estate spensierata. Torneranno tra i banchi di scuola e troveranno una marea di insegnanti certamente meno “sereni” di un tempo e in plessi scolastici i cui presidi, invece che “presidiare” la cultura ed il suo sviluppo, saranno sempre più intenti, novelli ragionieri, a far quadrare bilanci scolastici sempre più magri, a scapito dell’arricchimento dei programmi formativi.Ok, direte, le cose non vanno come dovrebbero andare; per fortuna, però, che c’è il pallone… Poveri illusi, tra campionati versione spezzatino e partite sempre più criptate, ci sarà poco da scialare.Ragazzi…Chiaroscuro è tornato……Buona “ripresa” a tutti.

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Abbiamo incontrato il sindaco di Foligno ad un anno e mezzo dalla sua elezione.

Vogliamo parlare con lui della città che amministra, delle difficoltà che, vista la crisi più generale del paese, non possono non riguardare anche questo territorio, ma siamo interessati anche alle azioni che l’amministrazione può intraprendere, che i cittadini stessi possono contribuire a fare concorrendo insieme a superare i problemi, per rendere la città più sicura, tollerante, solidale,

La città è cambiata in meglio urbanisticamente ma è cambiata anche nel suo tessuto economico e sociale. Par-tiamo proprio da questa prima domanda.

D. Come guarda il sindaco la sua città? R . La lunga fase del dopo terremoto ha ridisegnato la città non solo in termini urbanistici ma anche in termini di sviluppo.

Sono stati anni di programmazione territoriale che han-no cercato di valorizzare le opportunità di questa città: l’edilizia residenziale, la formazione post diploma ed uni-versitaria, per esempio, sono interventi che hanno fatto riconquistare un ruolo importante in ambito regionale alla città. Questo però oggi non è sufficiente poiché la grave crisi internazionale avviatasi due anni fa ci obbliga a ri-pensare tutti gli interventi

D. Questo vuol dire che i modelli dello sviluppo di Foligno nel corso del ‘900 e cioè una vocazione indu-striale e commerciale che si organizzava intorno al polo forte del trasporto viario e ferroviario, sono in difficol-tà. Quali allora le possibili scelte, quali le opportunità?R. La storia di questa città non si cancella, Foligno rimane un polo di scambi interregionali ma i settori manifatturie-ro e dei trasporti debbono essere affiancati da altri settori sfruttando le straordinarie capacità attrattive di questa città.

L’impegno per un’economia legata alla tutela dell’am-biente, alla cultura, al turismo diventa fattore di sviluppo per il domani.

I settori tradizionali da soli non possono dare una marcia in più al territorio perché troppo legati a turbolenze eco-nomiche imprevedibili. Ci vorranno anni prima di ritorna-re alle sicurezze di qualche tempo fa, nel frattempo non possiamo interrompere prospettive diverse di crescita.

Oggi la popolazione di Foligno è più numerosa di prima del terremoto per una immigrazione esterna ed interna al territorio italiano.

Di fronte a ciò assistiamo anche nel nostro territorio a una crisi dell’attività edilizia, crisi per altro mondiale e nazio-nale ma che per noi si rivela più grave perché negli ultimi dieci anni si è, oltre che ricostruito, costruito molto.

D. A questo proposito appare a molti infatti che si sia costruito troppo a danno del valore agricolo, paesag-gistico e ambientale del territorio. C’è in atto un ri-pensamento per città grandi, medie e piccole poiché mentre i centri si spopolano le periferie si allargano a dismisura. Anche l’amministrazione di Foligno riflette su questo?R. La città si è senza dubbio allargata urbanisticamente. Dobbiamo però ricordare che con il nuovo piano regola-tore l’amministrazione ha diminuito l’edificabilità di un milione circa di metri cubi rispetto al piano precedente e questo piano regolatore ha avuto anche il merito di ri-definire i confini della città, confini che nel vecchio piano apparivano allargarsi a macchia d’olio sulla pianura.

Sono stati perciò stabiliti finalmente limiti che non posso-no essere superati.

Io credo comunque che si possa riaprire la discussione per rivedere anche questo piano regolatore

La riflessione deve riguardare anche il rapporto di questa città con un territorio più vasto.

Non ha più senso che ogni Comune faccia il suo piano regolatore.

Se ogni Comune della valle umbra sud espande il suo pa-trimonio edilizio in totale autonomia andremo ad erodere irreparabilmente un territorio prezioso dal punto di vista agricolo, ambientale, paesaggistico.

Può fare un esempio?Ha più senso che le aree industriali vengano programmate da ogni singolo comune o addirittura frazione a volte in concorrenza gli uni con gli altri?

Oggi si percorre in dieci minuti il tratto di strada che col-lega Foligno a Spoleto mentre ce ne volevano quaranta dieci anni fa .

E’ perciò arrivato il momento di fare scelte per aree ter-ritoriali omogenee che sappiano individuare le zone più adatte per l’espansione dell’una o dell’altra attività. Lo

di Serena Rondoni

Intervista alsindaco Mismetti

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sviluppo economico deve prevedere una programmazione territoriale più ampia di quella della singola città.

Ad esempio, a San Giacomo di Spoleto c’è un’area pro-duttiva urbanizzata di 50 ettari che può benissimo essere utilizzata da tutti i Comuni dell’area, la viabilità veloce oggi lo consente risparmiando lo sfruttamento ulteriore del territorio. Foligno ha ormai saturato le sue possibilità di espansione dell’edilizia industriale.

D. Anche l’espansione residenziale dovrebbe essere contenuta senza andare ad intaccare le zone agricole migliori.R. Concordo con questa affermazione. Non c’è dubbio che qui a Foligno negli ultimi dieci anni c’è stata una crescita edilizia più alta che a livello nazionale, in parte dovuta alla forte domanda degli stessi cittadini di case più sicu-re. La ricostruzione ha cambiato anche la composizione sociale degli abitanti, se siamo 58.000 abitanti è perché tanti di coloro che sono venuti a lavorare nell’edilizia hanno preso la residenza nella nostra città e ciò significa nuove famiglie, figli che vanno a scuola, ma la crisi econo-mica pone anche qui la necessità di prevenire il possibile crearsi di un nuovo disagio sociale. A Foligno ancora non si avverte una vera e propria emergenza perché c’è an-cora una solida rete familiare che sostiene ed attutisce il disagio soprattutto giovanile, ma una parte di coloro che sono venuti in questi anni non ha reti familiari di suppor-to e con la crisi dell’edilizia queste persone perderanno il lavoro. Se il problema non verrà affrontato nei tempi giusti e con le modalità giuste può diventare davvero un problema sociale rilevante. Ripeto, bisogna con più forza far diventare ambiente cultura e turismo occasione di sviluppo ed occupazione.

D. Concretamente, quali sono gli interventi immediati per questo disagio prima che i nuovi progetti di svilup-po vadano avanti ?R. Abbiamo in atto alcune opere importanti quali il com-pletamento dell’autostrada 77, la piastra logistica, la va-riante nord della circonvallazione della città, il recupero di due grandi spazi: l’ex ospedale e l’area dell’ex zucche-rificio; questa è gia una risposta importante all’emergen-za.

Il secondo settore che possiamo in tempi brevi attivare è quello di progetti per la formazione- lavoro- impresa per rispondere meglio alle nuove esigenze dell’offerta di lavoro al fine di aiutare giovani e persone disoccupate a ricollocarsi sul mercato.

D. Che ruolo possono svolgere le associazioni di volon-tariato e dell’associazionismo no profit ?R. Questa straordinaria risorsa dell’associazionismo, del volontariato che è sorta per impegnarsi nell’ambito so-ciale e culturale è stata una grande ricchezza per Foligno e lo sarà anche per il futuro. Se la città ha risposto bene all’emergenza terremoto è perché qui la rete associativa è molto diffusa ed ampia. L’amministrazione si impegna da sempre a promuoverla e sostenerla.

D. Due o tre cose che vorrebbe vedere realizzate per la fine della legislatura, concrete e prioritarieR. Il primo punto che vorrei vedere realizzato è un diver-so rapporto tra l’amministrazione ed il cittadino. Occorre alleggerire la burocrazia, decentrare i servizi. La pubblica amministrazione deve essere più attenta ai diversi biso-gni dei cittadini perché anche questo fattore contribuisce allo sviluppo. Per una concessione edilizia non può volerci un anno e questo non dipende dall’incapacità dei singoli ma dall’organizzazione del sistema.

D. Da dove vengono le resistenze più forti ?R. Chi era abituato a svolgere il proprio lavoro in un cer-to modo con difficoltà a volte si adatta alle necessarie modifiche. La manovra finanziaria del governo colpisce gli enti locali e mortifica il pubblico dipendente nella scuo-la, nei servizi pubblici, nelle amministrazioni centrali e periferiche ma non c’è una reazione adeguata dell’opi-nione pubblica a questa emergenza perchè nel cittadino c’è questa indotta convinzione che nella pubblica ammi-nistrazione si lavori poco e male.

Solo il cambiamento però farà riconquistare la fiducia del cittadino nelle istituzioni.

In questo particolare momento di disagio economico per molte famiglie la pubblica amministrazione deve impe-gnarsi a rispondere più velocemente ed efficacemente.

Risolvere questo aspetto contribuisce a rafforzare la stes-sa democrazia, la stessa fiducia dei cittadini nelle loro amministrazioni. Per questo stiamo lavorando e speriamo di superare le difficoltà e le inevitabili resistenze al cam-biamento; abbiamo comunque messo in piedi un gruppo di lavoro interarea comunale con l’apporto di esperti esterni all’amministrazione.

Il secondo punto che mi sta a cuore è l’avvio dei lavori per la trasformazione dell’area ex-zuccherificio. Burocra-ticamente siamo oramai alle battute finali; se non ci sono inciampi entro questo mese le demolizioni potrebbero ini-ziare, demolizioni peraltro autorizzate già da un anno.

Giustamente la proprietà che deve dare inizio ai lavori vuole anche la concessione per le costruzioni, il cui iter burocratico è ormai in fase finale. Per altro rimane ancora da definire la convenzione.

D. Quanto ci vorrà perchè si realizzi tutta l’opera?R. Una volta iniziati i lavori la proprietà ha tutto l’in-teresse di finire presto. E’ prevedibile perciò un tempo massimo di tre anni per il completamento delle opere.

Le funzioni sono gia state definite con il piano, adesso la proprietà deve avviare il progetto esecutivo. Data però l’importanza strategica dell’area bisogna studiare bene le soluzioni urbanistiche. I progetti devono essere anco-ra fatti. La proprietà si impegna a trovare un gruppo di professionisti di livello nazionale coinvolgendo anche le nuove leve professionali della città.

Ci vuole tempo perché questa è l’area che segnerà Foligno per i prossimi decenni; con il suo completamento si ridi-segna Foligno per questo secolo.

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Si aprirà una discussione con la città al fine di stabilire con quale progetto la parte pubblica vuole entrare a far parte di questa importante operazione, perché nel piano urba-nistico era stata prevista in quell’area la realizzazione di un campus universitario.

Oggi quel progetto potrebbe essere inattuale vista la scel-ta generale a favore di grandi poli universitari di qualità.

Il nostro centro studi funziona ottimamente, ma sono impensabili doppioni regionali di alto livello culturale e di ricerca quindi dovremo insieme pensare qual è il se-gno pubblico che caratterizzerà quell’area della città così centrale e strategica.

Quale che sarà la scelta io penso che dovrà essere ispirata soprattutto ai giovani.

D. Per la salvaguardia dell’ambiente l’amministrazione ha qualche idea?R. Stiamo lavorando bene per un progetto che interessa la collina e la montagna intorno alla città.

I lavori per il completamento della superstrada 77 dure-ranno quattro o cinque anni.

In questo tempo l’amministrazione deve avviare un pro-getto che metta in rete tutte le straordinarie risorse di quel territorio, dall’altopiano di Colfiorito alla valle del Menotre, alla valorizzazione dell’acqua, dei prodotti ti-pici e quant’altro.

L’autostrada 77 rischierebbe di isolare quelle zone se non si dovessero creare in tempo le opportunità, le occasioni di sviluppo. È comunque altrettanto vero che la realizza-zione della superstrada 77 è fondamentale per far rivi-vere quel territorio già adesso in parte in difficoltà.

D. In realtà proprio grazie alla nuova strada veloce quei luoghi potrebbero rivivere.Quei paesi così ben ristrutturati dopo il terremoto come Scopoli o Leggiana potrebbero rivivere nuova vita ed addirittura ripopolarsi. Chi lavora a Foligno potrebbe andare ad abitare in quei paesi immersi nella natura raggiungibili in soli 10 minuti. Passiamo alle domande rivolte non al sindaco ma all’uo-mo ed alle sue scelte più personali. Sono quaranta anni che lei fa politica: quali sono state le motivazioni che l’ hanno spinta a questo impegno e che cosa rimane oggi di quel patrimonio di ideali ?R. La mia è stata una generazione nata con il ’68. Lì era la passione e la speranza che il mondo si potesse cambiare giorno dopo giorno, passo dopo passo, e quella passione è rimasta intatta . Da allora per me non è cambiato niente nel senso che io sono uno di quelli che ha sempre fatto politica come parte fondamentale del proprio tempo, del proprio impegno. Per me contano fondamentalmente il la-voro, la famiglia e l’impegno politico. Ho cercato sempre di tenere un equilibrio tra questi interessi primari.

D. Ma nel frattempo è cambiato tutto anche dal punto di vista ideologico, gli ideali che l’hanno spinta allora ad occuparsi di politica sono cambiati ?

R. No, sono rimasti per me gli stessi. Da ragazzo non avrei mai pensato di arrivare a fare il sindaco della mia città e riconosco che per chi fa politica è la più gran-de ambizione a cui si possa aspirare. Ma se non ci fosse dentro di me ancora quella speranza che questo mondo possa cambiare, se non ci fosse questa spinta non var-rebbe nemmeno la pena fare il sindaco, un impegno che non riuscirei a portare avanti per quanto impegnativo e di responsabilità.

In me è rimasta questa convinzione che questo mondo possa ancora cambiare; molte cose non mi piacciono così come sono, anche se in questi anni molti cambiamenti sono avvenuti e positivi.

D. Quale è il suo rapporto con la religione ?R. Non ho un rapporto di antagonismo nei confronti dei valori religiosi; non sono credente ma ho un buon rappor-to con il mondo cattolico, di rispetto; è il mondo in cui anch’io sono cresciuto e ho anche un rapporto di amicizia e ricordi comuni con alcuni sacerdoti.

E’ però un aspetto della riflessione umana che personal-mente non mi coinvolge.

Quando ero giovanissimo ho scelto il partito come una re-ligione laica.

La passione e l’emozione per certi ricordi è ancora viva in me. Mi sembra ieri quando sono andato a Roma per i funerali di Enrico Berlinguer, per me momenti come quelli nella vita non si possono dimenticare

D. Quale è la paura più grande che ha?R. Non è tanto paura ma preoccupazione quello che provi quando, per i momenti difficili che stiamo vivendo, vedi nelle facce delle persone che tutte le mattine vengono nel mio ufficio la disperazione di non riuscire a trovare una risposta per poter sopravvivere e tu ti rendi conto che sei nell’impossibilità di potergliela dare.

Per il resto, nella dimensione privata o extra politica non ho paure particolari.

D. La morte le fa paura ?R. No, la morte fa parte della vita, non ci penso. Vedo che mia madre che ha 90 anni si comincia un po’ a preoc-cupare, spero che anche per me ci sia ancora tempo per incominciare a preoccuparmi.

D. Come si immagina allora ad 80 anni ?R. A me piace stare a casa. Vorrei fare il nonno, badare a un nipote. Mi venisse un nipote maschio sarei felicissi-mo perché lo voglio portare a giocare a pallone, è l’unica aspirazione che ho. Con le mie due figlie femmine non ho potuto. Spero anche di essere in grado di avere gli stessi interessi politici e la forza per impegnarmi anche a quella età, si vive meglio se uno si impegna sempre per quello che può dare. Passerò la giornata portando a giocare a pallone il nipote e a fare politica. Si, sarà proprio così.

Salutiamo il sindaco Mismetti e lo ringraziamo per la sua disponibilità.

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Nel numero di maggio avevamo utilizzato la metafora della fiaba – la bella addormentata nel bosco – rilevando una similitudine tra l’area dello zuccherificio e l’area della foresta creatasi intorno al castello: senza informazioni per tanti anni, gli abitanti dei dintorni intrecciano voci e dicerie senza una cognizione precisa della realtà.Avevamo annunciato allora un’indagine tra i cittadini per verificare quanto e cosa conoscessero riguardo ai futuri destini dell’area.L’indagine è stata condotta nelle ultime settimane di agosto e nella prima di settembre e ha coinvolto 66 cittadini di Foligno, incontrati in luoghi di aggregazione informali.In origine si era pensato di sentire un centinaio di persone, ma dopo aver ascoltato le prime 60, è apparso evidente che l’ipotesi che le persone non fossero informate appariva ampliamente e fin troppo confermata e le risposte che si susseguivano erano tutte estremamente simili. Le interviste hanno coinvolto persone diverse per sesso, per età e anche per professione; quest’ultimo dato è stato preso in considerazione essenzialmente per fare attenzione che fosse rappresentata adeguatamente la voce dei piccoli commercianti e artigiani che, come vedremo, è molto omogenea in quanto a preoccupazione. Abbiamo cercato soprattutto di tener presente un’equa distribuzione degli intervistati all’interno delle diverse fasce d’età, che ci sono sembrate indicatori importanti.Era bene, infatti, che fossero ben rappresentati i giovani, che dovrebbero essere i più informati, in quanto saranno per forza di cose i maggiori fruitori di un progetto, che è tutto da realizzare e che pertanto si

colloca nel futuro.Era importante anche ascoltare in egual misura coloro che hanno dai 30 ai 55 anni, che si presume abbiano vissuto da vicino le vicende degli ultimi 10 anni di progetti e dibattiti, come pure sentire le persone che hanno oltre 55 anni perché dovrebbero essere coloro che sono portatori di memorie e di un’attenzione dovuta anche al fatto che hanno vissuto anche la storia passata dell’area, quando lo zuccherificio era ancora attivo. Così - pur non proponendoci la composizione di un campione rigoroso - abbiamo posto attenzione al fatto che la distribuzione degli intervistati all’interno di

queste fasce fosse equa: 20 nella prima fascia, 21 nella seconda e 25 persone oltre i 55 anni. La propensione ad ascoltare un maggior numero di persone più mature ci è venuta dall’ipotizzare che avremmo forse potuto trovare, tra coloro che avevano seguito le sorti dell’area fin dalla chiusura dell’attività, una maggiore curiosità verso i destini degli oggetti materiali e

delle architetture legati a queste memorie, e quindi un maggior numero di informazioni utili alla nostra indagine.

In realtà, tra gli intervistati non vi è nessuno scostamento rilevante in base alle fasce d’età: per tutti, la percentuale di coloro che non sono per nulla o vagamente informati, si aggira intorno al 90%.Il metodo utilizzato prevedeva una brevissima introduzione della conduttrice, tesa a verificare che l’intervistato fosse di Foligno, e a spiegare la collocazione dell’intervista all’interno dell’idea di un

Zuccherificio: di Anna Cappelletti

la foresta dell’oblioInchiesta su quanto sanno e cosa desiderano gli abitanti di Foligno sui progetti futuri

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SSTORIE

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articolo su Chiaroscuro.Appare interessante notare che nessuno degli intervistati si è tirato indietro o è stato reticente.La prima domanda era posta in questi termini “ Che cosa sapete di ciò che verrà fatto nell’area dello zuccherificio”.L’intervista si prefiggeva inoltre di indagare i desideri, le idee e - perché no? – i sogni che le persone nutrono intorno a quell’area.

Rispondendo alla prima domanda, la maggior parte delle persone hanno risposto di non conoscere assolutamente nulla di quanto è previsto al riguardo.La parola che è risuonata con maggior frequenza è NIENTE, non so niente.In realtà, reiterando la domanda o aspettando un po’, si azzardavano risposte come “un centro commerciale?, un parcheggio?” spesso dotate di punto interrogativo.Nelle parole degli intervistati risuona l’ipotesi della fiaba (oblio e dicerie); abbondano espressioni come ho sentito dire, dicevano...

Niente assolutamente niente Non si sa niente, per carità Niente, niente, tutto al buioNiente, qui ‘n se sa mai nienteNo non so niente, una volta dicevano che ci facevano un centro commerciale, ma…Ho sentito dire che c’entra qualcosa la Coop e che ci verrà un centro commerciale, le voci sono queste…Poi se ne parla, ma sempre come una cosa molto lontana… informazione, assolutamente niente…tanto tempo fa dicevano un supermercato, ma… non se capisce ancora di preciso…

Certamente non esiste nelle persone la consapevolezza che molte scelte sono già state fatte e sono definitive. Prevale invece l’idea che l’informazione non ci sia perché è tutto ancora in alto mare, tutto da decidere. Solo una tra le persone intervistate sa che l’area è

stata acquistata dalla Coop, tra le altre 65 persone c’è chi pensa ancora che i proprietari siano una cordata di imprenditori locali e chi ricorda che erano girate anche voci sul fatto che lo acquistasse Berlusconi…

Tra le 66 persone ascoltate solo 4 – ragazze tra i 20 e i 15 anni – manifesta entusiasmo all’idea che nell’area possa essere edificato un Centro commerciale, mentre tutti gli altri intervistati manifestano perplessità o addirittura avversione nei confronti di questa ipotesi; i commercianti e gli artigiani ( poco meno del 10% degli intervistati), manifestano una forte preoccupazione e sia loro, sia numerose persone della II e III fascia d’età esprimono la preoccupazione che un grande centro commerciale a ridosso del centro storico possa ancor più distogliere l’attenzione degli acquirenti dal Centro, che, in molti, ritengono sia già agonizzante.

Come piccola commerciante ovviamente non sono d’accordo, taglierebbe ancora più fuori il centro storico … questo sicuramente .. Si rischia di non riportare per niente la gente nel centro perché ovviamente … si ferma lì …

Comunque non certo un grande centro commerciale, ecco: non quello … rovina il centro

Riguardo ai desideri, i più giovani esprimono con forza la proposta che il terreno potesse accogliere servizi culturali, un’area con molto verde e attrezzature e un parco della musica, mentre dalla seconda fascia d’età in particolare, viene suggerito di utilizzare l’area per servizi per l’infanzia e asili-nido e per un parcheggio davvero ampio che possa risolvere definitivamente i problemi al riguardo.Alcune persone – collocate nella fascia di età 31-55 - si preoccupano del fatto che della memoria materiale del luogo non rimanga niente o troppo poco e insistono perché vengano recuperati alcuni dei vecchi edifici.

Restaurare quella struttura, che comunque è bella anche ora che è fatiscente..non so…ci farei qualcosa che non snaturasse la struttura…

Poi c’è chi raccomanda, o sogna: vorrei che fosse un’occasione…, vorrei che non fosse un altro pezzo di periferia, con i palazzoni…, vorrei che fosse un’architettura diversa, eco-compatibile, un’occasione per una ricerca, per un progetto diverso…

Di sicuro c’è una saggezza nelle persone che attraversa tutte le età, i generi e l’estrazione …Forse varrebbe la pena di prendere sul serio alcune preoccupazione alcuni suggerimenti, finché si è ancora in tempo, perché, come ci ricordava l’assessore al termine della sua intervista sul numero di maggio,“… ciò che andremo a realizzare cambierà il volto della nostra città almeno per i prossimi cinquanta anni”.

Restaurare quella struttura, che comunque è bella anche ora che è fatiscente..

non so…ci farei qualcosa che non snaturasse la struttura…

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IDEE

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L´editoriale di Claudio Stella e l´articolo di Federico Berti “30 anni di incuria e di degrado” hanno richiamato subito alla mia mente la fornace Hoffmann, una struttura pregevole di architettura industriale, ridotta anch´essa a rudere. Ma anche nel centro urbano non mancano certamente situazioni di degrado come la parziale demolizione delle mura urbiche, dei vecchi edifici di Via Oberdan e delle fontane pubbliche negli anni ´50, che occupavano lo spazio delle attuali costruzioni, cioè l´hotel Umbria, il Monte dei Paschi e i nuovi palazzi, così pure i sottopassi di Porta Ancona e delle Condotte che potevano essere evitati spostando la stazione dal centro, come è avvenuto in paesi d´oltralpe nell´immediato dopoguerra.Trovo poco convincenti le motivazioni, esposte dall´Assessore all´Urbanistica del Territorio Joseph Flagiello, relative alla situazione dell´Ex- Zuccherificio. Pur comprendendo la complessità dell´iter burocratico, penso che 30 anni siano troppi per trovare delle soluzioni. Mi sorprende, però, che la burocrazia si sia snellita, ogni volta che si è trattato di rilasciare concessioni edilizie e commerciali di vario tipo, producendo una massiccia e selvaggia cementificazione, che ha modificato inesorabilmente la campagna circostante e, di conseguenza, il suo ecosistema.Purtroppo ci troviamo in una via di non ritorno, dove si vedono continuamente nuove costruzioni, come quelle che stanno venendo su a ridosso del parco fluviale Hoffmann e in altre zone periferiche della città.Nei progetti, attuati dal Comune, per lo zuccherificio e le fornaci Hoffmann si parla ancora di edifici residenziali pubblici e privati e di centri commerciali, che danneggiano l´economia e la vita sociale del centro storico.Contro questa politica speculativa, anticulturale, si sono levate solo voci isolate, che volevano sensibilizzare la cittadinanza alla difesa dell´ambiente, ma la loro lotta non è stata appoggiata dalla maggior parte di noi, che abbiamo assistito indifferenti allo scempio che si andava perpetrando sotto i nostri occhi. Ci siamo

fatti male, soprattutto abbiamo fatto molto male alle nuove generazioni, privandole di una memoria storica e di un ambiente naturale in maggiore sintonia con il centro urbano. Il mio disappunto non vuole essere un atteggiamento ostile al nuovo, ma la constatazione di una politica che non ha voluto creare uno sviluppo proiettato verso un equilibrio armonioso del nuovo con l´ambiente e con la storia.

Nostraculpa

di Candida Pepponi

Foto di Mirko Vegliò

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SIDEE

chiaroscuro

Leggendo nel numero estivo di chiaroscu-ro l’editoriale di Guglielmo Castellano, senza dubbio molto interessante e propositivo, mi sono soffermato sull’appello rivolto a tutti coloro che non “sentono” più la Quintana, quindi anche a me, perché, sì, anche io sono uno di coloro che da tempo non seguono questa importante nostra manifestazione cittadina, semplice-mente perché essa non mi interessa più: per questo non sento il “diritto-dovere di proporre un mio modo di ela-borare la Quintana”. Del resto non mi sembra che non ci sia partecipazione: vedo giovani (anche miei stretti parenti) che si appassionano alla gara, che frequenta-no le taverne e che sostengono in ogni modo i propri rioni con grande abnega-zione; certo non cono-sco le “tare mentali”, di cui parla Castellano e che contribuirebbero a “raffreddare i rapporti con la città”, ma, da os-servatore ormai esterno, non mi pare comunque che il clima generale che accompagna la Quintana si sia molto raffredda-to: semplicemente penso che nel tempo il pubblico si vada rinnovando e si comporti quindi in modi diversi. Io ho amato molto questo evento cittadino, ma poi con l‘avanzare dell’età l’interesse è via via scemato. A dire il vero, ci sono due ulteriori aspetti che han-no contribuito a fomentare il mio disinteresse. Innanzi tutto la doppia edizione di Giugno e di Settembre che, se da un punto di vista prettamente economico è da considerare come valido supporto per le entrate della città, da quello più strettamente sentimentale rappre-senta la perdita di una dimensione necessaria ad ogni grande evento, ovvero l’attesa, l’unicità della festa. L’altra questione, che più volte mi ha lasciato perples-so negli anni, è quella dell’invito di Vip alla sfilata: la Quintana è dei Folignati, perché dunque non scegliere i vari figuranti tra la nostra popolazione, certamente più motivata dall’amore per questa città e per il suo even-to più grande? Anche io, folignate orgoglioso di esserlo, ho amato tanto la mia Quintana, fin da piccolo: ero un

appassionato sostenitore del mio rione (il Badia), ho partecipato come paggetto a una delle edizioni degli anni Cinquanta e mi sono divertito molto. Anzi dirò di più: noi ragazzi della zona di Viale Anco-na preparavamo, sempre in Settembre, la nostra Quin-tanella, un’edizione tutta artigianale. Noi bambini ci vestivamo con pantaloni alla zuava, calzettoni lunghi, scarpe “buone” (quelle della festa), una camicia bian-ca e, per renderci personaggi più seicenteschi possibi-le, ci fasciavamo con un ampio mantello…la mantella di gomma impermeabile con cappuccio, lunga fino alle caviglie, che le nostre mamme ci facevano indossare quando, alunni delle Elementari, andavamo a scuola

sotto la pioggia. Nella Quintanella il mio ruolo era quello di trombettiere: la tromba era di plastica colorata, di quelle che si comperavano alla fiera e che emettevano un unico gracchiante suono. La nostra sfilata, che avve-niva in un campetto vicino casa, oggi mangiato da abitazioni, com-prendeva anche tamburini e natu-ralmente cavalieri e dame: i primi sul loro cavallo (la bicicletta) con

in mano una bella lancia, a cui essi lavoravano per lun-go tempo; le seconde vestite con abiti che confezio-navano solitamente le loro sorelle. Le nostre compa-gne erano molto carine, abbigliate com’erano non con costumi di stoffa, ma di carta (quella crespa e di vari colori), che venivano modellati su intelaiature costru-ite con filo di ferro sottile; il loro volto truccato era incorniciato da una pettinatura piena di perle e veniva fatto risaltare da un alto e rigido collo che avvolgeva la nuca con un ampio giro. Ah, dimenticavo: noi maschi avevamo tutti dei bei baf-foni disegnati con il carbone. E poi c’era la gara e chi vinceva veniva amichevolmente festeggiato.Sulla scia di questi colorati ricordi non mi rimane che associarmi al buon auspicio di Castellano: tornare a partecipare alla Quintana con allegria e divertimento.

Due o tre cosesulla Quintanadi Luciano Trabalza

L’altra questione, che più volte

mi ha lasciato perplesso negli anni,

è quella dell’invito di Vip alla sfilata

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Si aspettavadi Tania Raponi

Si aspettava settembre con quella trepidazione che oggi, noi ultraquarantenni, associamo a ogni mo-mento di “attesa” della nostra giovinezza: nello stesso modo in cui aspettavamo il Natale, il primo giorno di scuola, il giorno del compleanno, così aspettavamo la Fiera di Santo Manno, meglio conosciuta come la Fie-ra di settembre. Per me era emozionante partire dal-la (allora) periferia, in bicicletta, scortata da nonno e nonna, anche loro in bicicletta, per arrivare in centro e andare a “comperare la fiera”. Ci aspettavano sempre grossi acquisti, programmati da mesi: la scala in legno a pioli (che nonno poi appoggiava alla spalla destra, infilandoci dentro il braccio e portandola fino a casa, sempre in bici, nel traffico di allora) o l’occorrente per la vendemmia (perché a fine settembre iniziava la ven-demmia) e, immancabili, le trecce di cipolle e di agli e le ceste in vimini. Ri-cordo queste vie piene di gente e l’angoscia di sentirsi stretta fra tan-te persone enormi, di cui vedevo solo i vesti-ti o le scarpe: c’erano poi dei tratti più liberi, dove sembrava di tor-nare a respirare. Ogni tanto un capannello di persone si formava davanti all’ambulante che aveva portato un prodotto nuovo, mai visto prima, e lo mo-strava ai passanti. Era una festa rumorosa, disordinata, allegra, un’occasione per rivedere conoscenti persi di vista, ma soprattutto offriva l’opportunità di comperare quello che nei nego-zietti di allora non si trovava, o che si sarebbe trova-to, facendo chilometri. Invece, nel limitato spazio del centro, c’era di tutto e si poteva anche contrattare sul prezzo (come i nostri nonni erano abituati a fare). Io, a parte le file di scale di tutte le lunghezze, poggiate al muro dell’allora “Pambuffetti”, ho il netto ricordo di una via che per me era croce e delizia della fiera: Via Cesare Agostini. Era infatti un tratto meno transitato, di raccordo fra la confusione di Via Mazzini e di Piaz-za S.Francesco: si camminava scorrevolmente, ma che puzza di formaggio! C’erano infatti solo bancarelle di

formaggi, più o meno stagionati, pecora o mucca, ma l’odore era veramente nauseabondo: quella per me è rimasta, per anni, la via del formaggio. Mia madre, cittadina doc perché nata e cresciuta in Via Colomba Antonietti, ricorda che in via Mazzini si sistemavano i venditori di abbigliamento e biancheria per la casa, fino a Piazza San Domenico. Lì l’ampio spa-zio raccoglieva invece tutti gli ambulanti di attrezzi da lavoro, principalmente per lavorare la terra, con i re-lativi ricambi: il ricordo più nitido di mamma è quello però del ferracocchio e del facocchio. Piccola digressione: mi piace raccontare, su questo no-stro giornale, della nostra città di ieri, perché penso che tante immagini e sensazioni andate perse, possono essere tirate fuori dalla memoria e rivissute, condivi-dendole. Una volta il racconto era la principale moda-

lità di trasmissione del sapere fra le generazioni, oggi non ci raccontiamo più e la capacità di ascoltare è solo di pochi (spesso di chi lo fa per pro-fessione): non sarà che cominciamo a perdere i pezzi della nostra storia? Fine digressione.Ho così scoperto che il facocchio era colui che costruiva o riparava car-ri e carretti (appunto il “cocchio”) per quello che concerneva le parti in legno, mentre il ferracocchio si oc-cupava delle parti in ferro: si siste-mavano alla fine della piazza e co-minciavano a prestare la loro opera a tutte le persone, venute in città anche da lontano.

Dall’attuale Porta Todi giù, verso San Magno, c’erano invece i venditori di animali, in Via Be-nedetto Cairoli si potevano trovare pentole, piatti, e tutto l’occorrente per la cucina, mentre da Porta San Felicianetto fino a tutta Via Chiavellati c’erano vimini, sementi, piante, e le scale e le trecce di cipolle che anch’io ricordo. In Piazza dell’Orologio (l’attuale Piaz-za Matteotti) si radunavano le “signore”, interessate alla bigiotteria, mentre i bambini potevano trovare in ogni angolo giochi e dolci. Oggi che siamo circondati da supermegacentricommer-ciali pieni di ogni bene e che comperiamo quello che gli altri vogliono che noi comperiamo, ci ricordiamo che c’è la fiera quando sentiamo discutere se riportarla in

Settembre

Era una festa rumorosa,

disordinata, allegra, un’occasione per rivedere

conoscenti persi di vista, ma soprattutto

offriva l’opportunità di comperare quello che nei negozietti

di allora non si trovava

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Sprazzi di colore generati da bandiere penzolanti per le vie cittadine come a voler dimostrare il proprio dominio sulle vie e sulle piazze.Bandiere appese a distanze uguali tra loro, danzanti sulle note di un vento settembrino ormai non più caldo ma non ancora autunnale.Palazzi vestiti a festa, con sprazzi di colore appesi alle loro mura e drappi che campeggiano dai terrazzi.Tintinnio di città in movimento, di palcoscenici volanti in fase di montaggio, di transenne, di luci, di giocolieri e tamburini. Fervore di gente impegnata ad imbandire il tavolo della festa.Vetrine di negozi che raccolgono sprazzi di saldi estivi, occasioni dell’ultima ora, ultime occasioni per indossare abiti leggeri, insieme a primi frammenti della stagione invernale. E una bandiera appoggiata in terra.Preparativi di cibi e vestiti, tra jeans e preziosi broccati, tra fiaccole e suoni di musica barocca.Notti bianche, notti di bagordi, notti di festa e leggerezza.Luci, suoni, colori, profumi, atmosfera, rievocazioni di altri tempi e vita quotidiana che per qualche giorno si contendono il campo.

Turisti che si godono un po’ di relax, invidiati da chi li spia di sfuggita dalle finestre di un ufficio affacciato su una via del centro.Turisti inseriti in un’atmosfera che li incuriosisce, che li coinvolge. Turisti attratti da una sorta di “venite oh gente”, attratti da una città che visibilmente e rumorosamente indossa l’abito della festa.Settembre. Nella nostra città. Settembre, uguale dappertutto, inesorabile con il suo richiamo all’ordine, con il suo ritorno alla quotidianità, con le valigie riposte nell’armadio. Scuola, lavoro, danza, calcio, studio, musica, nuoto....E qualcosa in più nella nostra città, un sapore di festa, di musica, di attesa, di gara, di leggerezza e divertimento.

di Eleonora Doncecchi

centro o lasciarla nella zona di Santo Pietro, dove, con il passare degli anni, è lentamente migrata. Quanti pro-blemi però: chiudere al traffico il centro storico ? e la viabilità ? e la sicurezza ? Continuare con una tipologia di fiera come quella attuale, dove c’è di tutto e tutto insieme, o creare piazze dedicate a prodotti specifici ? Riportare in centro una parte dei circa 250 ambulanti attuali, o meglio tutti o nessuno? Lasciamo a chi di dovere il compito di trovare un com-promesso fra le tante diverse soluzioni possibili. In at-tesa di futuri sviluppi, creiamoci una strategia che ci riporti al passato: pensiamo intensamente a una cosa che ci piacerebbe comperare alla prossima fiera (più è inutile, meglio è) non ne parliamo con nessuno, altri-menti qualcuno si sentirà in dovere di consigliarci dove

possiamo facilmente trovarla (magari nel negozio sotto casa!) manteniamo il segreto e creiamoci la suspance ! Poi, il 14 o 15 settembre, facciamo i ragazzini; andiamo alla fiera, ovunque essa sia, passeggiamo fra le banca-relle, comperiamo quello che cercavamo, possibilmen-te contrattando sul prezzo (che però, promessa, non andremo mai a confrontare con quello del negozio di fiducia, per evitare una dannosa perdita di autostima), compriamoci lo zucchero filato o la mela avvelenata e chiudiamo gli occhi. La fiera ha sempre il suo fascino!

La cittàimbandierata

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La ruotante marziana che 36 anni fa ha deciso di stabilirsi su questa terra sotto il mio stesso tetto (…ho faticato per convincerla, ma questa, come sempre, è un’altra storia) si reca una volta all’anno in un centro specializzato per la verifica e la manutenzione dei complicati meccanismi che le assicurano la permanenza tra noi umani. In realtà il popolo marziano che vive tra di noi avrebbe bisogno di messe a punto periodiche molto più frequenti, ma il servizio nazionale di accoglienza marziani “Aliens Survival Laboratory”, in sigla ASL, ritiene che per i soggetti ormai stabilizzati sul nostro pianeta il loro (seppur) misterioso organismo necessiti solo raramente di ulteriori riabilitazioni.

ll centro è specializzato per i soggetti alieni ma mi sono sottoposto anche io ad alcuni controlli e tera-pie. Anche questa sarebbe un’altra storia ma i tecnici che hanno lavorato “alle mie spalle” si sono prodiga-ti non poco. Dopo un duro lavoro la terapista di turno ha dato i primi segnali di soddisfazione per aver in-dividuato e riattivato una considerevole quantità di articolazioni, tendini mu-scoli e quant’altro di ciò che comunemente in noi umani occupa lo spazio tra la superficie esterna e lo scheletro di sostegno.

A parte gli aspetti tecnici la permanenza nel Centro è stata l’occasione per vi-vere alcuni giorni in una comunità marziana.

Nonostante la familiarità con questi particolari es-seri e sebbene negli alieni vi siano tratti umani, che alcuni attribuiscono ad un processo di adattamento,

quantomeno le posture sono davvero curiose. Non meno però del vario assortimento di ruote, leve, strumentazioni, macchinari, spinte e controspinte di cui si avvalgono con assoluta naturalezza. Capitava così che conversando con Giangrilli questi, con abi-le manovra elettro-meccanica, da seduto (o quasi) passasse senza soluzione di continuità alla posizione semisdraiata, lasciandoti nel dubbio se avvicinarti di più per continuare il discorso o augurargli buona notte!

Ovviamente nella nostra atmosfera terrestre (e nem-meno più tanto) il problema della respirazione è per i marziani un fatto fondamentale. Per questo, ad ogni nuovo arrivo nel centro, Tricibea “la rossa”, organiz-zava un incontro/lezione per l’utilizzo del “super-soffio”. Un apparecchio alieno-medicale che rende possibile l’aspirazione e espirazione dell’aria ter-restre aiutando nel caso si siano insinuate nei corpi alieni sostanze estranee e dannose per la respirazio-ne. A seguire, dopo la lezione, puntuale tra i marziani e gli accompagnatori umani un gran discutere tra chi

ne fa uso e chi no, chi utilizza modelli “taroccati” e soprat-tutto sui centri locali dei ser-vizi Aliens Survival Laboratory che contraddistinti con numeri diversi, ASL 1, ASL2, ASL3, ecc. pare siano però accomunati dallo “scarso entusiasmo” nel concedere quella come altre indispensabili (ovviamente per i marziani) attrezzature. Sebbene appartenente ad

un’altra “marzianità” era ospite della struttura una figura simil-umana, bipede, alta, con andatura di-noccolata e strascinante. Si avvicinava indifferente-

Aliens Survival Laboratorydi Giorgio Raffaelli

(ASL)

A parte gli aspetti tecnici la permanenza nel Centro

è stata l’occasione per vivere alcuni giorni

in una comunità marziana.

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mente ad umani, marziani, e personale addetto al centro. Ai più incuteva un certo timore, ma in realtà, cortesemente e con gestualità misurata, la domanda era sempre di tipo matematico: “oggi ho mangiato una mela e due grissini, quanto fa?”. A chi rimaneva incerto nel ricordo scolastico che “non si sommano le mele con le pere”, ripeteva con calma cercando di scandire con più chiarezza: “oggi ho mangiato una

mela e due grissini. Quanto fa?”. Alla risposta “tre” ringraziava e abbassando lo sguardo riprendeva il suo interminabile camminare. Con il tempo le domande si sono fatte più complicate: “centoottantaquattro meno centodieci, quanto fa? E poi ancora: “totale?” Raramente il vero (a mio avviso) colpo di genio: “su-pertotale?”

E’ ripartito un giorno all’improvviso, con una busta di plastica con tutte le sue cose e un vecchio consuma-tissimo “eskimo”, che non è solo la canzone di Guc-

cini ma un “giaccone” che per alcuni anni, anni fa, fu utilizzato per contenere i corpi di altri marziani impegnati a cercare nel pianeta terrestre un mondo migliore. Forse era un sopravvissuto, si chiamava con curiosa qualificante omonimia “Silvio”.

Tra gli umani che come me usufruivano dei servizi dell’Aliens Survival Laboratory un’anziana e combat-tiva signora ogni giorno al fianco del marito colpito da

un ictus. Mi ha raccontato di quando il suo compagno era carpentiere, delle passioni politiche e sportive e della casa realizzata insieme, non nel senso del pagamento di un mutuo, ma fisicamente, nel senso di scavi, murature, intonaci e altro ancora. “Io impastavo la calce, passavo i mattoni, ero forte sa…” Ci abbiamo lavorato senza ac-corgerci degli anni che sono passati fino a quando ab-biamo deciso di realizzare un’ultima stanza. “Abbiamo comprato cemento, matto-ni, tutto per bene come le altre volte, poi quando sia-mo andati per tirar su i tra-vetti ci siamo accorti di non farcela più…”

Quella stanza è ancora li da finire, ha concluso la signo-ra.

Forse sarà un’idea “marzia-na” e non saprei come po-trebbe essere “contabilizza-

ta” da Silvio, ma ha l’aria di una buona cosa l’idea di invecchiare, perdere come è naturale forza e pre-stanza fisica, se si ha ancora in mente un progetto, l’idea di poter realizzare ancora una nuova stanza della nostra casa…

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Sulla pelledi Paola Nobili

Non avrei mai pensato che varcare il cancello di un carcere potesse regalare gioia. Non sembri un’ingiuria agli individui che vengono privati del bene più prezioso dopo la vita: la libertà. Eppure mi è accaduto, quando il 3 settembre sono tornata a Sollicciano per annuncia-re che un brandello della scuola carceraria era stato salvato, dopo che la ghigliottina era calata sopprimen-do tutti i corsi scolastici in carcere. Ho percorso quei corridoi felice e mi sono sentita di nuovo a casa. Come siamo arrivati a questo punto?Durante l’estate, i continui bollettini dalle varie carce-ri d’Italia ci hanno aggiornato sulla situazione sempre più insostenibile di sovraffollamento, sui suicidi (4 solo

ad agosto), sul ferragosto eroico a cui si è sottoposto un manipolo di volenterosi parlamentari e personaggi politici (perfino Dell’Utri, perfino Cosentino!) passando la giornata del 15 in carcere. Roba di scarso interesse.I cittadini hanno goduto del meritato riposo e chi li go-verna, come un padre amorevole che veglia sul sonno dei propri figli, ha avuto cura di metterli al riparo da preoccupazioni e ansie superflue. I mezzi di informazio-ne si sono generalmente dedicati a riferire delle ultime tendenze dell’estate in fatto di happy hour e pedicure, del volume di traffico lungo le arterie autostradali, di episodi di cronaca torbidi e cruenti, preferibilmente legati a rom o immigrati. Insomma, tutto tranquillo,

degli ultimiFoto di Eleonora Mancini

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SPERSONE

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almeno in superficie. Perché agosto, si sa, è anche un mese propizio ai colpi di mano: e infatti, proprio ad agosto è stato allestito il patibolo sul quale immolare quel che restava della scuola pubblica.Come un abile gioco di illusionismo riesce a far sparire interi monumenti, così, silenziosamente e di colpo, è stato possibile cancellare interi corsi scolastici, tra cui quelli serali e carcerari. Con la motivazione inoppugna-bile della mancanza di fondi. Ubi maior….Ma anche le scelte fatte con la calcolatrice in mano rispondono a logiche politiche. Non è un caso, infatti, che siano stati colpiti quegli ambiti (l’educazione degli adulti e l’istruzione in carcere) che riguardano le fasce sociali più deboli, marginali. In fondo, cos’è l’istruzione se non una merce? Al pari degli altri beni e servizi offerti sul mercato, deve es-sere accessibile a chi è in grado di pagare un prezzo. E allora, se un adulto ha bisogno di rientrare in formazio-ne, perché mai considerare questo bisogno un’esigenza della collettività cui rispondere con un servizio pubbli-co? Meglio affidarsi alle scuole private, che non negano un titolo di studio a chi possa permettersi di sborsare qualche migliaio di euro. E’ il mercato, bellezza! E’ il progresso!E poi ci sono i detenuti. I marginali per eccellenza, quelli che vengono gettati in una “discarica sociale”. Quelli che, secondo l’opinione corrente, sono ospitati in alberghi 5 stelle dotati perfino di televisore.Quelli che trascorrono la giornata in gabbia, stesi su un materasso sfondato imbrattato da tanti anni di onora-to servizio, rincoglioniti dalla televisione, storditi dagli psicofarmaci distribuiti generosamente per sedare la rabbia, per sbiadire una realtà insopportabile. Stare chiusi 24 ore su 24 è inumano, è letteralmente e radi-calmente alieno alla condizione umana. Per chiunque.In questo inferno, la scuola aiuta a sopravvivere. Fa respirare, fa sentire vivi, ricorda ai detenuti che sono persone e che possono sperare nel futuro.Sarei disonesta se non sentissi puzza di retorica e se non avessi, dopo 8 anni di insegnamento in carcere, il dubbio di svolgere la stessa ipocrita funzione dei cap-pellani militari. Sono anch’io uno strumento di control-lo e repressione? Ho anch’io un posto nella pervasiva microfisica del potere carcerario? Ogni tanto ci penso, ma in casi come questo, in periodi come questo ritrovo le forze per battermi e per dire a voce alta che esistono molte buone ragioni per difendere la scuola in carcere.La prima, quasi scontata, è che anche in carcere va garantito il diritto allo studio sancito dall’art. 34 del-la Costituzione Italiana, riconosciuto come diritto sog-gettivo di ciascun individuo, indipendentemente dalla condizione personale e sociale. E ancora....… Perché l’istruzione costituisce un passaggio insosti-tuibile del percorso rieducativo; la reclusione infatti non deve rispondere a una finalità meramente punitiva

ma deve tendere al reinserimento sociale e alla riedu-cazione dei detenuti, come previsto dall’art. 27 della Costituzione.…Perché la scuola in carcere è uno spazio di integrazio-ne multiculturale, nel quale si apprende la convivenza, il confronto e il rispetto.…Perché la scuola in carcere è l’essenza del cosiddetto “trattamento”, cioè di tutti gli interventi volti al recu-pero delle persone detenute; essa rappresenta talvolta l’unica opportunità di risocializzazione, l’unica possi-bilità di fare del carcere un momento di riflessione, di autocritica e di ricostruzione di un futuro diverso. … Perché è uno spazio di libertà, una palestra di cit-tadinanza, un investimento sul futuro; con la scuola in carcere la società può vincere una sfida: recuperare e reintegrare chi ha commesso un reato.… Perché Tommaso, che nella vita, a parte il carcere, ha conosciuto solo le mucche del suo allevamento, no-nostante abbia l’ergastolo, insieme al diploma ha tro-vato l’entusiasmo dello studio e delle scoperte della mente, e ora si è iscritto all’università.… Perché Lin proprio oggi mi ha scritto una lettera dal carcere dove è stato trasferito, chiedendomi di saluta-re tutti i professori e dicendo: “in Italia restano pochi parente, quindi per me voi come mia parente e fami-glia”. E se qualcuno, leggendo queste righe, commenta che la scuola serve per scrivere senza errori grammati-cali e sintattici, io non lo perdono, perché vuol dire che non ha capito niente.Ecco per quale motivo il 3 settembre ero contenta di entrare a Sollicciano, per dire a tutti (educatori, agen-ti, comandante) che una classe era stata concessa. Me-glio di niente. Avrei ritrovato i “miei” studenti, avrei continuato in un modo o nell’altro a lavorare in un po-sto schifoso ma dal quale, si sa, ogni tanto può nascere un fiore. Io so che ne vale la pena.

(Alcuni passaggi di questo testo sono tratti dal documento che i docenti della sezione carceraria hanno presentato al Collegio dei docenti dell’Istituto “B. Russell-I. Newton” di Scandicci il 1° settembre 2010, ndr)

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L’angolo delladi Rita Barbetti e Carla Oliva

È ricominciata la scuola: 3.700 classi in più, 20.000 insegnanti in meno.Ritorniamo alla barbarie! In certi licei laziali (Roma, Viterbo..) classi di 37 alunni, come tanti decenni fa!NON CI SONO SOLDICi sono soldi per migliaia di auto blu, per sedi faraoni-che di incontri poi inutilizzate, per missioni presunte “di pace”, per finanziamenti a scuole private di èli-te, per trasferte di politici con famiglie al seguito, per consulenze pagate a peso d’oro e non ci sono soldi per la cultura! MI VERGOGNOMa mi vergogno ancor più per l’indifferenza di noi inse-gnanti, per la nostra insensibilità, per la nostra apatia. Siamo conniventi!Le donne iraniane scendono in piazza a costo della loro vita, noi, anche se vengono indetti scioperi, aderiamo in percentuali minime, non possiamo mettere a repen-taglio i nostri miseri, luridi 50 euro giornalieri. E i ge-nitori? Basta solo che i propri figli vengano promossi o prendano i loro inflazionati 8 o 9? Che acquisiscano una cultura ampia, una propria capacità critica e di giudizio, che non siano solo dei cognomi scritti su un registro non sta a cuore a nessuno?(r.b.) Settembre 1990, collegio docenti, Liceo Classico Frezzi, Foligno Arrivo troppo presto, mi sento impacciata e nervosa; mi guardo intorno, ci sono pochi colleghi. Decido di sedermi vicino ad una suora, piccola e, mi sembra, a disagio come me. Si chiama Gloria. Diventeremo amiche. Via via la sala si riempie. Provo invidia per i colleghi che si salutano tra loro, contenti di rivedersi dopo le vacanze; si baciano, si raccontano le loro espe-rienze. Mi sembrano tutti allegri e mi domando come si possa essere così spensierati. Io sono preoccupatis-sima, sono in una nuova scuola, alle spalle ho solo tre anni in un Istituto d’Arte; come saranno i programmi? E gli alunni? E i colleghi? E il Preside? Sono giovane, sono entrata in ruolo a 28 anni (mi sembrava tardi, dirlo ora è una bestemmia), credo nella Scuola, amo l’Arte, so di avere un futuro. Il futuro che mi darà il Frezzi sarà un marito, amici meravigliosi, un Preside con cui confrontarmi libera-mente, alunni con i quali, sempre di più, ci scambiere-

mo la passione per l’arte, l’affetto, il piacere di stare insieme al di là delle incombenze scolastiche. Non è poco. Sono stata fortunata.

Settembre 2010. La riforma Gelmini ha tolto l’inse-gnamento della Storia dell’Arte dai bienni di quasi tutti gli istituti superiori e io ho perso la cattedra.Non credo più nella Scuola, amo l’Arte, non so se ho un futuro come insegnante. Sono fortunata: non posso essere licenziata, come lo saranno, invece, solamente quest’anno, 78.000 miei colleghi. I precari sono 246 mila. Si parla di noi in termini di numeri, cifre, cattedre, ore. Da poter distribuire, di-videre, tagliare, accorpare, assegnare ad altri numeri (gli alunni), accalcati in aule troppo piccole e in edifici non a norma. Ora ho capito che cosa intendeva il Mi-nistro quando parlava di riforma epocale: trasformare le persone che sono nella scuola in numeri per il bene dell’economia del Paese. E infatti il rapporto OCSE ha rilevato che l’ Italia è al penultimo posto in Europa per gli investimenti economici nella scuola: il 4,5% del PIL. E se non siamo più persone, ovviamente, non abbiamo niente da dire. Niente da proporre. Niente da conte-stare. Nessuna esigenza culturale. Niente da insegna-re. Niente da imparare.Ma io, me ne vergogno profondamente.(c.o.)

vergogna

Niente da proporre. Niente da contestare.

Nessuna esigenza culturale. Niente da insegnare.

Niente da imparare.

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Ci si può emozionare guardando gli occhi sfavillanti di ragazze e ragazzi che esprimono partecipazione emotiva, fervore, commozione? A me è capitato.Ci siamo quasi dimenticati che i nostri giovani possano anche essere interessati a qualcosa di diverso rispetto ai tanti reality, ai pantaloni a vita più o meno bassa, all’ultimo modello di scarpe da ginnastica.Ma tutte le volte che diciamo “I giovani di oggi sono abulici, apatici, ciondolano, sono menefreghisti, cinici” pensiamo mai a quali modelli, quali stimoli forniscono loro la maggior parte degli adulti?Se non hanno la fortuna di imbattersi in genitori, insegnanti, educatori, dotati di rigore morale, di senso critico, consapevoli di appartenere ad una collettività civile, come possono districarsi tra tanti messaggi ingannevoli e trovare da soli valori, ideali per cui impegnarsi e lottare?E’ compito di noi adulti aiutarli a capire la realtà e a sviluppare il senso critico; è una lotta impegnativa, dura, ma vale la pena combatterla.Vorrei raccontare ciò che è capitato a me alla fine dell’anno scolastico appena trascorso.Ho proposto a studenti del quarto anno di scuola superiore di partecipare alla commemorazione dei giudici Falcone e Borsellino a Palermo il 23 maggio, a 18 anni dalle stragi.Qualche adesione entusiastica, tante obiezioni, resistenze, sollevazione di scudi, riunioni di genitori allarmati, preoccupati per l’incolumità dei loro figli. Tra mille ostacoli, la proposta è passata, si va!Ed ecco la cronaca di una giornata speciale, di giovani di Foligno che partono per Palermo, giovani che, fatalità del caso, sono nati proprio nel ’92, l’anno in cui Falcone e Borsellino sono morti, insieme ai loro giovani agenti di scorta, per fare fino in fondo il loro dovere di difensori dello stato.Prima di partire hanno ascoltato attentamente le notizie riguardanti la mafia in generale e i due giudici in particolare ed hanno preparato un grande striscione con la scritta:

“GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO. RESTANO LE LORO TENSIONI MORALI E CONTINUERANNO A CAMMINARE SULLE GAMBE DI ALTRI UOMINI”

Quando la nostra nave è approdata nel porto di Palermo, stavano approdando le due “navi della legalità” provenienti da Civitavecchia e Napoli, cariche di giovani che venivano da varie parti d’Italia per la manifestazione.Ad attenderli c’erano Maria Falcone, Don Ciotti, Pietro Grassi, Ayala, una imponente banda cittadina e infiniti grappoli di palloncini bianchi, rossi e verdi che sono

volati tutti insieme verso il cielo.Sulle due navi c’erano le gigantografie di Falcone e Borsellino sorridenti, che sembravano proprio ammiccare con complicità e apprezzamento a tutti i giovani presenti.Nel pomeriggio sono partiti due cortei, noi abbiamo partecipato a quello che iniziava da via d’Amelio, dove abitava la mamma di Borsellino e dove egli è morto; il corteo ha toccato tanti punti di Palermo, dove sono morti tanti altri servitori dello stato, Rocco Chinnici, Pino Puglisi…., si è poi congiunto con il corteo proveniente dall’aula bunker e insieme sono confluiti sotto l’albero di Falcone, in via Notarbartolo.Tutti i miei studenti, dal

primo all’ultimo, hanno gridato slogan, cantato, ballato, gioito, alcuni hanno pianto, tutti si sono emozionati, si sono sentiti importanti, membri attivi di una comunità che crede in certi valori e soprattutto sa che cosa è la memoria.E tutti insieme cantavano “Uno, due, tre, quattro, cinque, dieci, cento passi…!” ed io con loro, è stato travolgente; e quando la sera molti mi hanno ringraziato di aver dato loro l’opportunità di fare questa esperienza, ho capito che avevo fatto bene a tener duro, anche contro le riserve di alcuni adulti.Il nostro striscione ora è sotto l’albero di Falcone, i ragazzi hanno deciso di lasciarlo lì. Ma hanno portato con sé, per sempre, un pezzetto di quel sorriso di due persone speciali, che hanno vissuto una vita breve, ma degna di essere vissuta.

Quelli deldi Rita Barbetti ‘92

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PERSONE

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Estate 2009. Ancora Zambia, ex Rhodesia del Nord, Africa nera, territorio due volte e mezzo l’Italia, lin-gua ufficiale inglese, tanti dialetti con nomi da fiaba (Bemba, Nyanja, Tonga, etc.), economia agricola, cal-cio terzomondista. Un luogo speciale che ancora una volta mi permette di guardare il mondo da un altro punto di vista. Tra i tanti problemi che affliggono questo paese, uno dei più poveri al mondo, straziato da un’epidemia di Aids che lascia orfani milioni di bambini e dove amma-larsi di malaria è una consuetudine, se ne presenta uno che sembra relativamente marginale: non si trova più il cemento, bisogna ricorrere al mercato nero con costi altissimi. Quindi tutti i lavori di costruzione si fermano, compresi quelli dei nostri missionari: scuole e cliniche in mezzo alla foresta non possono essere portate a ter-

mine, costerebbero il triplo rispetto a quanto previsto, ma qui i lavori vanno fatti in economia soltanto con gli aiuti che arrivano dall’Italia. Eppure queste strutture sono di fondamentale impor-tanza per la popolazione locale, che soprattutto nelle zone rurali è completamente abbandonata a se stessa, senza servizi né assistenza di alcun genere. Migliaia di persone possono contare solo sul sostegno della Missio-ne, che non fa opera di assistenzialismo ma cerca di fornire gli strumenti per un lento, lentissimo processo di sviluppo che per essere tale deve venire dall’inter-no.Ma cosa sta accadendo? In Zambia ci sono due grandi cementifici che continuano la loro regolare produzio-ne. Allora perché il cemento è praticamente sparito dal mercato?

Altrimondialidi Carla Tacchi

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SPERSONE

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Estate 2010. Come per magia, all’improvviso, tutto torna come prima e insieme al cemento a prezzi ra-gionevoli arrivano anche le risposte: i nuovi stadi per i mondiali di calcio in Sudafrica sono stati terminati così come tutte le strutture collaterali, necessarie per la realizzazione di un evento straordinario. Per la pri-ma volta un “paese africano” ospita la più importan-te competizione calcistica del mondo, tutti gli stati dell’Africa subsahariana sono orgogliosi per questo, esiste una remota speranza anche per loro.E quando noi bianchi poniamo la domanda se poteva essere risparmiato o usato diversamente tanto denaro speso per la costruzione di opere che rischiano di di-ventare cattedrali nel deserto, ci sentiamo rispondere che proprio quelle cattedrali nel deserto rappresenta-no per i paesi dell’Africa nera un modo per essere al passo con il mondo sviluppato, sono la prova tangibile che anche loro ce la possono fare. In queste risposte sembra mancare completamente la consapevolezza dell’abissale differenza fra la situazione del Sudafrica e quella dei paesi limitrofi, e questo spaventa e preoc-cupa. Adesso anche a Ndola, una delle città più grandi dello Zambia, si sta costruendo un enorme stadio, che potrà ospitare migliaia di spettatori. I lavori sono stati dati in appalto a ditte cinesi: centinaia e centinaia di operai lavorano come formiche operose su impalcature altis-sime e in apparenza molto precarie e instabili, ma una gigantesca conchiglia di cemento giorno dopo giorno prende forma e consistenza. Il progetto prevede l’uti-lizzo di questa struttura per partite anche internazio-nali. Staremo a vedere.Intanto la gente si ferma a guardare e spera, coltiva l’illusione che avere uno stadio così possa destare l’at-tenzione di coloro che governano il sistema mondo. Ma in realtà tutto ciò che sta intorno sembra sulla via di un inesorabile declino: le strade restano piste imper-corribili piene di buche, comprese quelle che circonda-no e talvolta attraversano importanti centri urbani; le scuole sono edifici fatiscenti e il numero degli alunni per classe va da un minimo di 40 fino a 60 e oltre; le medicine negli ultimi tempi non si trovano più se non a pagamento, neanche quelle indispensabili che noi chiamiamo salvavita. È anche vero però che a tutto ciò corrisponde, quasi in maniera inversamente propor-zionale, l’impegno della gente comune a migliorare, una volontà, determinata forse dall’istinto di soprav-vivenza, di creare un futuro diverso per i propri figli, innanzi tutto ad esempio mandandoli a scuola ad ogni costo, anche con grandi sacrifici e talvolta rinunciando perfino al necessario per vivere. Ma proprio dove manca veramente tutto si sente più forte il bisogno di sognare e per tanti bambini, che vi-vono questa condizione, rincorrere una palla di plasti-ca e stracci è l’unico modo per divertirsi e sorridere, per dare un senso diverso a giornate sempre identiche. La felicità, poi, diventa smisurata quando arriva una

“signora bianca” che porta un pallone di cuoio che rim-balza sul campo. Leggere quella meraviglia e quell’eu-foria in tanti occhi che si illuminano è un’esperienza che non si può raccontare, e si impara ancora una volta a non dare niente per scontato.Nel vasto territorio intorno alla Missione San Giuseppe, che si trova nel Copperbelt, vicino a ogni scuola, in ogni piccola comunità c’è un campo di calcio: un pezzo di terra rubato alla foresta con porte fatte di pali di legno. Ogni giorno tanti piccoli giocatori, a piedi nudi, corrono avanti e indietro su questi campi, polverosi e pieni di arbusti pungenti durante la stagione secca, in-zuppati d’acqua durante le piogge. Il sogno è per tutti lo stesso: diventare un giorno un grande campione.In realtà lo Zambia una squadra di campioni ce l’ha avuta davvero, una squadra che ha battuto l’Italia 4 a 0 alle Olimpiadi di Seul del 1988. La notte della vitto-ria la capitale, Lusaka, è stata invasa da una folla in delirio, una festa con canti e balli da far impallidire le celebrazioni per l’indipendenza di ventiquattro anni prima. Ma presto anche questo sogno si è infranto, il destino ha fischiato in anticipo. Il 28 aprile 1993 un ae-reo militare zambiano precipita in mare dopo il decollo da Libreville (Gabon), dove aveva fatto scalo tecnico, destinazione Dakar, in Senegal, a bordo 21 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio, nessun sopravvissuto. È così che viene sterminata la squadra di calcio dello Zambia, le vittime sono i 18 giovani calciatori della nazionale, i tecnici e i responsabili del team, diretti ad una gara di qualificazione per i Mondiali USA ’94. Soltanto Bwalya, ex minatore nato in una capanna, autore della tripletta all’Italia nel 1988, scampa al disastro perché, essendo impegnato con il PSV Eindhoven, avrebbe raggiunto i suoi compagni dall’Europa. Questa tragedia è rimasta fortemente presente nella mente della gente e con i Mondiali appena trascorsi è tornata di grande attualità nei discorsi degli adulti. I bambini quindi, ancora di più, vogliono imitare i chi-polopolo, proiettili di rame, così vengono chiamati gli sfortunati eroi di Seul.Probabilmente anche i chipolopolo avevano cominciato la loro carriera rincorrendo una palla fatta di buste di plastica e stracci legati con uno spago, si erano fatti i muscoli correndo a piedi nudi su stadi di terra battuta e forse erano rimasti a bocca aperta per la meraviglia la prima volta che avevano visto un “pallone vero” rim-balzare.

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IDEE

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Na’guara (pronunciato: nàguara), è un’associa-zione di volontariato nata a Foligno da alcuni anni, che aiuta a diffondere la scolarizzazione in paesi poveri come Tanzania e Venezuela, oltre ad essere una delle associazioni che hanno contribuito alla nascita della Bi-bliomediateca multilingue di Foligno, pioniera dell’in-tegrazione culturale tra immigrati stranieri e cittadini folignati. Ho posto alcune domande a Federico Brunel-li, uno dei fondatori di questa piccola associazione, per capire nello specifico in che modo opera Na’guara e quali sono i suoi progetti per il futuro.

Quando è nata l’associazione Na’guara e quale è sta-ta l’idea iniziale che ha portato alla sua fondazione?La nostra associazione è nata formalmente nel 2005 anche se esiste in maniera “non ufficiale” già dal 1999. Na’guara è stata il frutto di un progetto di cooperazio-ne tra il GUS, un gruppo interparrocchiale di Foligno, e i padri dehoniani che operano in Venezuela. La forte amicizia che si è andata a creare tra di noi ha dato vita a questo progetto che ha reso possibile, dal punto di vista pratico, la continuazione di questo rapporto che si è andato a consolidare sempre di più nel tempo. I padri dehoniani allestiscono mense nei luoghi più po-veri del Venezuela, aperte a chiunque. Lì ci siamo scon-trati con la realtà dei bambini “fantasma”, cioè di quei tantissimi bambini non riconosciuti dai genitori, perché spesso anche i genitori sono soltanto degli adolescenti. I bambini nati da queste relazioni non vengono regi-strati all’anagrafe e sono del tutto invisibili allo stato e alle istituzioni, compresa la scuola. La nostra missio-ne è quella di finanziare delle borse di studio alle loro famiglie o alle madri che si impegnano a riconoscerli all’anagrafe, affinché questi bambini possano frequen-tare la scuola pubblica nel loro paese. Il mantenimento di un bambino per un anno scolastico costa circa 120 euro, in cui sono compresi, oltre alla quota d’iscrizione alla scuola statale, anche i libri, i quaderni e tutto ciò che concerne il materiale scolastico, due divise, una tuta, le scarpe per tutti i giorni e le scarpe da ginnasti-ca. I bambini mangiano anche nella mensa scolastica, perciò sappiamo che chi va a scuola ha sicuramente anche un pasto assicurato. Abbiamo inoltre finanziato un progetto in Tanzania

per acquistare un macchinario elettronico che serviva all’officina di una scuola tecnica locale. In questa scuo-la i ragazzi poveri imparano un mestiere e all’ultimo anno mettono in pratica le conoscenze teoriche che acquisiscono nel corso degli anni di studio, attraverso le riparazioni di automobili che effettuano nell’officina della scuola, guadagnando così un po’ di soldi destinati all’autofinanziamento della scuola stessa, così impa-rano anche cosa vuol dire “fare impresa” e acquisire questa conoscenza li renderà più autonomi e indipen-denti nel futuro.Quale è il significato del termine Na’guara e perché lo avete scelto come nome dell’associazione?Il termine è un’esclamazione tipica dello spagnolo ve-nezuelano che significa, in gergo, “che figata!”. Lo abbiamo scelto perché le nostre prime esperienze di volontariato in Venezuela consistevano sostanzialmen-te nell’animazione ai bambini che frequentavano le mense sociali dei padri dehoniani. Noi organizzavamo dei giochi da fare con i bambini, li facevamo divertire, e ogni volta che facevamo una cosa bella che li sor-prendeva loro esclamavano: “ na’guara! Na’guara!” manifestando il loro entusiasmo e la loro gioia. Questa parola ci è rimasta molto impressa e quindi abbiamo deciso di adottarla come nome dell’associazione.Quali sono gli obiettivi di Na’guara per il futuro e quale è il rapporto di Na’guara con i giovani?Il nostro obiettivo è senz’altro quello di continuare a sostenere queste relazioni-progetti ma anche di por-tare la nostra esperienza di cooperazione e di anima-zione nella realtà di Foligno. L’idea è di trasmettere ai “nostri” giovani quanto grande può essere la bellezza di relazionarsi con un popolo diverso dal nostro, con il quale può esserci uno scambio paritario e fortissimo di relazioni umane. Vogliamo suscitare nei giovani l’inte-resse per la ricchezza che rappresentano questi incon-tri con gente che è povera materialmente, ma è estre-mamente più ricca di noi nella capacità di comunicare, di relazionarsi con gli altri, di intessere relazioni uma-ne forti e di approcciarsi alla vita in modo positivo, pur avendo poco. Questo è ciò che invece manca nella no-stra società. Ormai noi non ci curiamo più dei rapporti umani, ce ne stiamo sempre chiusi nelle nostre case, ciascuno per conto proprio, schiavi del consumismo e

Na’guaradi Claudia Brandi

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SIDEE

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del materialismo. È importante invece riscoprire la bel-lezza delle relazioni umane di cui siamo estremamente poveri, diffondendo ai nostri giovani, soprattutto nelle scuole, la cultura della cooperazione, dell’integrazio-ne, cercando di creare in loro l’interesse verso gli al-tri popoli, cogliendone l’enorme ricchezza umana che sono in grado di regalarci.Passiamo alla Bibliomediateca multilingue di Foligno. Na’guara è una delle associazioni che hanno contri-buito alla sua nascita. Come è avvenuta e cosa vi ha accomunato alle altre associazioni nel realizzare questo progetto?La Bibliomediateca multilingue di Foligno è aperta dal 10 Gennaio 2009 e a Settembre si trasferirà da Via del-la Misericordia (una traversa di via Saffi) dove si trova attualmente, a piazza san Giacomo. L’idea, partita da una nostra associata, Daniela, è nata dalla volontà di creare un luogo dove gli stranieri potessero ritrovare libri nella propria lingua e contemporaneamente gli italiani potessero interessarsi alla cultura degli stra-nieri. Volevamo creare un luogo di integrazione. Il no-stro progetto, a cui hanno collaborato anche la Caritas Diocesana di Foligno, l’associazione Città viva, l’asso-ciazione Aurora, l’istituto san Carlo di Foligno e l’asso-ciazione Stella del mattino di Spello, è stato finanziato dal CESVOL che ci ha dato i finanziamenti per un anno. La peculiarità di questo progetto non è solo la rete di associazioni che ha dato vita alla bibliomediateca, ma anche la successiva rete di associazioni con le quali si collabora e che vantano maggiore esperienza nell’am-bito dell’integrazione, come l’Officina della Memoria, Un Ponte di mamme, la Casa dei Popoli, Amnesty In-

ternational. Si vuole cre-are uno scambio culturale e reciproco in cui vengano rispettate tutte le culture, anche quelle degli immi-grati, che troppo spesso sono considerate di serie B”. Noi tutti crediamo che non esistono posizioni di superiorità tra una cultura e l’altra: tutte meritano lo stesso rispetto e la stessa dignità.Come ha risposto la città di Foligno a questo pro-getto?Gli stranieri hanno risposto con maggiore entusiasmo, proprio perché la Biblio-mediateca è un luogo in-dirizzato principalmente a loro, ma anche a tutti coloro che desiderano co-noscere le altre culture. È un luogo di tutti e per tutti dove deve esserci

uno scambio culturale alla pari. Lì si trovano libri (per adulti e bambini) che compriamo noi in moltissime lin-gue, tra cui, oltre a inglese, francese, tedesco e spa-gnolo, anche libri in rumeno, polacco, albanese, arabo e ucraino. Ma chi ha testi in lingua straniera che vuole donarci, per il bene della comunità, è ben accolto! In una realtà cittadina modesta come quella di Foligno, la Bibliomediateca svolge un ruolo importante nel rende-re disponibili e fruibili, gratuitamente, numerosi testi in molte lingue straniere che purtroppo le biblioteche comunali non hanno, o hanno in quantità modesta e in poche lingue straniere. Vogliamo che la Bibliomedia-teca multilingue diventi sempre più un punto di riferi-mento culturale importante per l’intera città, e spe-riamo quindi che il Comune di Foligno sostenga questo progetto e ci aiuti a farlo conoscere, trattandosi di un servizio che è rivolto a tutta la popolazione folignate.

Per chi volesse avere maggiori informazioni sull’associazione Na’guara

visiti il sito: www.naguara.it.

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IDEE

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Notiziari, quotidiani e mezzi d’informazione dedi-cano pagine a una questione che credo non sia affat-to da sottovalutare. L’Iran sta attuando una pericolosa politica di massiccio sfruttamento dell’uranio come risorsa applicata a uno sviluppo industriale. Il primo lotto è stato arricchito al 20% con una produzione fra i 3 e i 5 chilogrammi ogni mese. Un passo indietro. L’uranio si arricchisce mediante l’utilizzo del laser. Una volta acquisi-ta la tecnologia per ar-ricchirlo al 20% arrivare al 90% è semplicissimo. Cosa significa arricchir-lo al 90%? E’ la percen-tuale necessaria per re-alizzare armi nucleari. Scusate, dimenticavo di dirvi che l’attuale Presi-dente della Repubblica islamica dell’Iran è un certo Mahmoud Ahma-dinejad. Lo stesso che qualche tempo fa ha affermato: “…grazie al sangue dei martiri una nuova rivoluzione islamica è sorta ed è la rivoluzione islamica del 1384 (l’anno in corso in Iran, secondo il calendario dell’Egira), che se Dio vor-rà, taglierà le radici dell’ingiustizia nel mondo” e che “presto l’onda della rivoluzione islamica raggiungerà il mondo intero”. Incoraggiante!Con superficiale ironia noto che parallelamente a questi fatti, che sono oggetto di attenzione da parte di tutta l’opinione pubblica, noi, a casa nostra, stiamo iniziando la politica del nucleare. Una leggera perplessità offusca la mia capacità di raziocinio. Se la memoria non mi gioca brutti scherzi l‘Italia fa parte del G20 e cioè di quell’organizzazione che costituisce il principale consiglio economico mondiale. Quindi non mi sbaglio poi così tanto se affermo che siamo uno dei 20 paesi più industrializzati. Eppure eccoci qua, accanto all’Iran a fare del nucleare una politica economica vincente per risolvere i problemi del paese. Uno dei soliti telegiornali ha mandato la notizia che le ditte interessate stanno cercando i siti più idonei dove installare nuove,

fiammanti e “ipertecnologiche” centrali nucleari. Io credo che a nessuno possa far piacere sapere che dietro casa ha un comignolo di circa centosessanta metri che costituisce la torre di raffreddamento della centrale. Ma questo è un problemino che il nostro governo sta bypassando. Infatti la politica vincente è quella di ridurre le tasse ai comuni interessati. Accidenti che

bravi! Ma non avevamo fatto un referendum per quanto riguarda il ricorso al nucleare come fonte di approvvigionamento energetico? Mi sembra di sì, era l’8 novembre 1987, e il risultato fu che circa l’80% degli italiani non era molto d’accordo ad avere questi funghi velenosi sparsi per il nostro paese. Mi piacerebbe pensare che il nostro governo fosse cosi democratico da chiederci nuovamente se

abbiamo cambiato idea o siamo della stessa opinione. Forse mi sopravvaluto o forse mi illudo semplicemente di sapere quale sia la risposta della gente….quella che possiede qualche neurone funzionante.Facendo un giro in Europa, dai nostri vicini di casa, si scopre ad esempio che la Spagna già dal 2006 sta lavorando per abolire il nucleare passando all’energia “pulita”. José Luis Rodríguez Zapatero ha affermato che questo avverrà entro il 2014. La notizia mi ha provocato inizialmente un lieve dolore al costato e poi con un senso di nausea ho partorito la consapevolezza che il giorno che la Spagna festeggerà l’eliminazione del nucleare, noi brinderemo, con un tipico spumante italiano, all’arrivo della nostra prima centrale! Un po’ di tempo fa ho fatto un brutto sogno: era fine maggio e io stavo andando sull’altopiano di Castelluccio per l’evento della fioritura. A un certo punto vedo del fumo bianco. Mi avvicino e…….Castelluccio era nascosto dal comignolo più grande che avessi mai visto.

di Federico BertiIl comignolo

di Castelluccio

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SIDEE

chiaroscuro

Ci siamo. L’estate volge al termine e, citando il sommo recanatese, “al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno” se non lo ha già fatto da tempo. Soprattutto per chi va a scuola, si tratta di rimboccarsi le maniche e cominciare a studiare. Per prepararsi.“Prepararsi” a cosa?Ecco, credo che molti di noi, me compreso, siano vissuti e vivano in una fantastica illusione: quella di essere preparati. Sin da quando si è bambini, si vive in un contesto per cui si pensa che la scuola, il sapere, lo sport e le esperienze in genere ci diano una “preparazione”. Ripeto: a cosa? In realtà siamo preparati – e neanche tanto – a eventi di scarsa importanza. Sono preparato

al fatto che, se do 10 euro per comprare una rivista che ne costa 5, poi il gentile giornalaio mi da un resto di 5. Non sono granché preparato ad un resto di 100 euro. Che farei? Probabilmente glielo farei notare, ma ammetto che una piccola crepa si aprirebbe nel mio animo e da lì una vocina chioccia mi inviterebbe all’appropriazione indebita, mettendomi in mezzo ad un bivio morale.Sono preparato al fatto che se metto zucchero nel caffè questo diventa più dolce e se ci metto il sale questo diventa probabilmente una schifezza. Sono preparato all’ovvio, al logico. Bella forza.L’imprevisto genera inquietudine e quindi costruiamo attorno a noi per difenderci da esso mura rese solide da cultura, interessi, viaggi, lavoro, amici, famiglia, pezzi di carta bollata e sane (?) abitudini. Ma non sempre funziona.

Se ci si riflette un attimo, ci accorgiamo che non siamo mai preparati di fronte a ciò che conta sul serio.Si è preparati veramente davanti ad una scelta di vita? Si è preparati sul serio al grande passo del matrimonio? Ci si sveglia un mattino e si dice: “Sono pronto: mi sposo?” Si è preparati alla nascita di un figlio? Non parlo tanto del momento in sé, ma di ciò che il ruolo di genitore poi implica. Si è preparati alla morte di una persona cara? Quando se ne va un giovane è atroce e doloroso, eppure anche quando se ne va un anziano, un vecchio, anche dopo lunga malattia, non credo che la situazione sia poi coronata da ascetica rassegnazione: “Papà se n’è andato. Aveva 95 anni. Ormai ci pensavo da circa 10 anni, quindi un po’ me l’aspettavo. Anzi, mi ero quasi stufato di aspettare...” Si è preparati all’innamoramento? Si è preparati all’improvviso irrompere nella nostra vita di un lampo di luce che tutto illumina e confonde? Si è preparati ad un amico che ci tradisce? Siamo preparati ad incontrare chi non vedevamo più da anni? Siamo preparati alla perdita del posto di lavoro?La preparazione nel lavoro conta. Soprattutto è questione di ridurre al minimo la possibilità di errore. Ma quando nel lavoro si ha a che fare con materiale umano e come tale imprevedibile, ecco che tutto il nostro bagaglio di conoscenze ed esperienze può andare a farsi benedire. Ne sanno qualcosa medici, insegnanti, psicologi, sportivi, ma anche operai o impiegati che hanno a che fare con un superiore umorale. E a quel punto, che facciamo?Improvvisiamo. Guitti, macchiette, commedianti, mimi, comparse, prime donne: una tragicommedia in cui finiamo spesso con il ridere di noi stessi per non piangere.

Mia moglie vuole portarmi a fare un giro a cavallo. Una cosa tranquilla: bestie mansuete, natura e percorso prestabilito.“Non mi fido tanto...”“E’ ammaestrato”.“Ma mica è una macchina: è un essere vivente, ha un cervello per conto suo”.“E allora?”“E se quello decide di saltare qua e là e di buttarmi a terra?”Mia moglie si mette a ridere. Rido anche io, ma meno convinto.

Impreparato di Giovanni Manuali

a settembre

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STORIE

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Ho dei bei ricordi sui miei primi anni da musicista. Ri-cordo le mie prime lezioni di violino, quando varcavo la soglia della Scuola di Musica e salivo i gradini un po’ consumati dal tempo con in mano la custodia nera del mio adorato strumento. Ricordo gli esercizi di sol-feggio, il tempo passato sugli esercizi cantati, sui det-tati, che ancora oggi costituiscono lo spauracchio del giovane musicista. Ricordo la paura poco prima dei saggi finali, il cuore in gola ed il gelo nelle vene mentre, con mani tremanti, eseguivo il pezzo davanti ai sorrisi tesi dei miei geni-tori in sala. E poi, ovviamente, ricor-do anche la piacevolissima scarica di adrenalina alla fine di ogni esibizio-ne, il sospiro di sollievo e l’inchi-no ingessato di un ex condannato a morte.Sono passati quattordici anni dalle mie prime note sul violino. Anni bel-lissimi.La Musica è passione, è bellezza, è sogno, è sorriso. E’ un po’ come la vita, carica di momenti belli e co-stellata di momenti difficili, ricordo le insicurezze, gli insuccessi, i mo-menti di difficoltà.Uno degli aspetti più meravigliosi della Musica è come questa sia lo specchio di noi stessi: la Musica non mente mai, non ci dà immagini illu-sorie, non finge. Viviamo in un’epo-ca un po’ triste, in cui vige la filoso-fia dell’apparire. E così non importa quanto fragili ed inconsistenti noi possiamo essere, l’importante è che la nostra facciata sia sempre pittu-rata di fresco e tirata a lucido. Il cellulare all’ultima moda ed il SUV sempre più ingombrante, l’importante è sembrare splendidi. Con la Musica non è mai così. Non si finge mai in mu-sica, non esistono finzioni. Esisti solo tu, lo strumento e chi ti vuole ascoltare. Al pubblico in sala non impor-terà mai quanto bella e magra tu sia, quanti milioni di contatti su Facebook tu possa avere. La Musica è tutto, basta a creare un equilibrio armonico per cui ogni ag-

Lo specchiogiunta risulta stonatura.Una cosa che ho imparato in questi anni è che senza sforzo e passione non si ottiene nulla che valga la pena di avere. La nostra società attuale invece basa gran parte delle sue fondamenta sulla filosofia dell’avere e saper fare tutto e subito, ragionamento che forse può andar bene (ma neanche tanto) per aumentare le ven-

dite di una catena di supermercati. Non per l’arte, tra-scinata in un vortice, anzi in un carosello di talent show e ricerca continua di assoluti talenti. Il talento è una componente indispensabile per un’artista, ma dalla mia piccola postazione ho avuto modo di osservare che il talento non basta. È come la prima stesura di colore su tela, ha in sé il germe della bellezza, ma ha bisogno di tempo ed energie per dare i frutti più buoni. Anche i più grandi faticano e sudano per affrontare Brahms ed

della musicadi Giulia Capacci

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SSTORIE

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Ysaÿe, ed è proprio questo il bello: vivere il percorso. La Musica è cammino, crescita continua, è Vita giorno per giorno. É l’aver raggiunto qualcosa dopo averla co-nosciuta da ogni angolazione, smontata e ricostruita in solitudine, o spesso con l’aiuto del confronto con altri.Eseguire bene un pezzo non vuol dire solo suonarlo in-tonato, senza fare errori di ritmo, usare il giusto punto d’arco ed avere una buona padronanza tecnica, che tradotto in poche parole vuol dire saper parlare. Biso-gna anche voler comunicare qualcosa. Che tradotto in poche parole vuol dire voler parlare con qualcuno. La Musica non esiste senza dialogo. Si può ammirare benissimo un quadro in completa solitudine, così come si possono gustare le pagine di un libro con il vento tra i capelli come solo compagno. Per la Musica biso-gna essere necessariamente almeno in due. La Musica è dialogo, è convivenza, è rispetto per gli altri. Mi tornano in mente le pagine di un bellissimo libro scritto dal grande musicista Daniel Barenboim, “La Mu-sica sveglia il tempo”, che in un capitolo si prefigge lo scopo di spiegare come la musica possa essere esempio di vita e modello di costruzione per un mondo di pace, in particolare riferendosi all’annosa e triste questio-ne medio-orientale. La società ideale per lui è come suonare in un’orchestra: in orchestra ognuno suona la sua parte ma insieme agli altri. Sebbene dovere di ogni bravo orchestrale sia quello di studiare e conoscere

bene la sua parte, non c’è spazio per i divismi: tutto è “sacrificato” al bene comune. Suono bene la mia parte perché così anche gli altri, ascoltandomi, possano suo-nare bene la loro. É un mio dovere, nel rispetto degli altri e della musica. Questo vale sia per gli strumenti che eseguono il tema principale e che quindi trarranno aiuto se sentiranno che c’è un valido sostegno armoni-co sul quale inserirsi, sia per chi esegue una parte di accompagnamento, il quale non sarà sterile esecuzione ritmica, ma terreno ed arricchimento della melodia. Fare al meglio la propria parte ascoltando e dialogando con gli altri: la Musica è Pace.Lo scorso 8 Luglio mi sono diplomata in violino. Un per-corso durato molti anni, in cui ho avuto la fortuna di scegliere uno degli strumenti più affascinanti e miste-riosi mai costruiti, di fare tante esperienze e conoscen-ze fantastiche e incontrare un maestro fantastico, che negli ultimi sette anni mi ha dato veramente tanto, la passione, l’amore per la musica e lo studio. Se ripenso all’ultimo anno mi rivengono alla mente tante cose, in un caleidoscopio di emozioni contrastanti: la fati-ca di portare avanti anche l’Università, i momenti di sconforto, i sorrisi, le prove di Quartetto, i concerti, le cene del dopo concerto, le ore passate dietro a Pagani-ni e Bach e poi una lunga giornata di sole in cui mi sono sentita davvero tanto felice.

DIALOGO DI NEOCONVIVENTITrascrizione fedele di sms

Lei - Amore, per favore, oggi puoi lessare le patate?Lui - Sì, ma come devo fare?Lei – Le sciacqui bene, le metti nell’acqua fredda e quando sono cotte le scoli.Lui - Ma come faccio a capire quando sono cotte?Lei – Ci infili una forchetta e senti se sono morbide.

Più tardi.Lui – Amore, ho messo due patate a bollire. Quando con la forchetta sento che sono morbide, che devo fare? Le devo togliere dall’acqua e dove devo metterle?Lei – Le scoli con lo scolapasta e le lasci lì, poi ci penso io.Lui – La forchetta deve entrare come nel burro?Lei – Sì tesoro, proprio come nel burro :):):)

L’angolo dellatenerezza

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In tempi normali, i giorni dal 14 al 16 settembre erano i giorni della grande fiera di Santa Croce o di San Magno, istituita (1572) per creare un canale di stretto, straordinario collegamento commerciale tra Foligno e le zone economiche che da sud e da occidente gravita-vano sulla città (si pensi a Trevi, Montefalco, Bevagna, Cannara, altri centri limitrofi, fino a Gualdo Cattaneo, Giano e, in genere, la Tiberina centrale). Anche nel settembre del 1860 fu dato corso all’importante ce-lebrazione: nonostante le truppe del re di Sardegna fossero entrate in Umbria – l’11 settembre – e avesse-ro posto l’assedio a Perugia fino ad espugnarla (il 14); anzi, l’evento fieristico vide il concorso di un gran nu-mero di operatori commerciali: tuttavia gli acquirenti furono molto scarsi, gli stessi Folignati parteciparono meno numerosi del solito. Tant’è che il mattino del 15, quando l’ultimo gen-darme papalino aveva abbandonato le postazioni e or-mai Manfredo Fanti con i suoi distaccamenti si poteva considerare alle porte della città, fu del tutto agevole abbattere gli stemmi di Pio IX e innalzare il tricolore ovunque fosse possibile. Una delegazione municipale si era fatta incontro al generale, e allorché le avan-guardie piemontesi oltrepassarono porta Firenze era-no precedute dalla banda musicale cittadina e furono accolte da una folla plaudente che inneggiava all’Ita-lia e a Vittorio Emanuele, con il contorno festoso di coperte appese alle finestre e di bandiere tricolori. La banda musicale, le coperte, le bandiere, gli evviva, l’illuminazione straordinaria, il globo areosta-tico ai Canapé non potevano nascondere l’evidenza: la città era «in istato di guerra», come annotava nel proprio diario un Folignate rimasto anonimo (nono-stante lo si sia identificato con un tale Giovanni Rossi): accampamenti ai bordi delle mura, soldati in assetto di guerra e di sorveglianza, divisioni e reggimenti in transito, cannoni sul colle dei Cappuccini, chiusura delle porte urbiche al passaggio dei carri e dei legni; tuttavia, i Folignati, che da più di un secolo a questa parte avevano dovuto subire gli assai gravosi oneri de-rivanti dai ricorrenti passaggi di truppe, ebbero a me-ravigliarsi moltissimo di un fatto singolare, al punto che lo stesso cronista appena menzionato, un nostal-gico del governo papale, osservò: «Non si è vista mai

un’armata che porti con sé ogni genere di vettovaglie e zuccaro, caffè, sale, pasta, carni, mandre di bovi, e per cui non prendono che le sole razioni di pane». Pur nelle particolari condizioni in cui versava l’Um-bria a sud di Foligno (i papalini asserragliati nella rocca di Spoleto avrebbero opposto resistenza fino al 18, con il risultato che circa 300 piemontesi sarebbero morti in combattimento, molti di essi restando feriti, men-tre 600 uomini dell’esercito pontificio sarebbero stati catturati), la città non rimase in balìa dei militari. Il 16 settembre, infatti, fu «sciolto il Municipio», ovve-ro l’Amministrazione comunale in carica fu soppres-sa e sostituita da una nuova, dichiarata Commissione municipale provvisoria. Così, deposti il gonfaloniere Benedetto Berardi e gli anziani (gli assessori odierni) Paolo Lattanzi, Feliciano Maneschi Polinori, Vincenzo Mancini, Severino Elmi, Giovan Battista Frenfanelli Cibo, Filippo Salari; subentrarono Francesco Mascioli, che assumeva la presidenza della Commissione, Se-verino Elmi, Paolano Frenfanelli Cibo, Carlo Bartocci, Filippo Salari, Alessandro Spezi, Giovanni Ciancaleoni Ricci. L’avvicendamento non implicò una cancellazione totale: Benedetto Berardi e Paolo Lattanzi erano trop-po esposti con il passato regime per rimanere a galla: tuttavia il primo, nella qualità di vice presidente della Cassa di Risparmio, restava al suo posto nell’istitu-to cittadino appena nato (1857-1858), come Mancini, consigliere della Cassa sin dal suo sorgere; pur defila-to, Maneschi Polinori apparteneva ad un casato di ceto civile che avrebbe dato alla città esponenti pubblici di un certo rilievo fin dentro al Novecento; se Berardi era al momento il più facoltoso esponente della no-biltà folignate, Elmi ne rappresentava la stirpe di più antica origine anche se i Frenfanelli Cibo – Paolano era il giovane rampollo di Giovan Battista – erano stati appena insigniti del blasone comitale dal rimosso papa (talché Paolano, il quale dal 1861 al 1863 sarebbe sta-to il primo sindaco di nomina règia di Foligno, avrebbe firmato gli atti pubblici con un più modesto “cav.”); il quale Giovan Battista, per altro, rimosso dal Comune, manteneva il proprio posto di consigliere alla Cassa di Risparmio. Salari non poteva che rimanere: era l’industriale

Il quindici settembredi Fabio Bettoni

del 1860

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più importante di Foligno: impegnato nel ramo serico, aveva ottenuto alti riconoscimenti alle esposizioni uni-versali di Londra (1850) e di Parigi (1853) e nelle (più modeste) esposizioni generali di Roma (1856; 1857). La nuova compagine amministrativa, annoverava un altro industriale, Bartocci, attivo nel settore dei pel-lami con risultati di tutto rispetto. A sua volta, il mon-do delle professioni esprimeva: il farmacista Ciancale-oni Ricci, noto anche al di fuori dello Stato pontificio per aver prodotto un surrogato al vino durante la gra-ve crisi della viticultura attanagliata (anni Cinquanta) dalla crittogama; l’ingegnere Spezi, diplomato alla Sapienza di Roma, figlio del «reputatissimo» Domeni-co, industriale confettiere tra i fondatori della Cassa di Risparmio, e fratello di Francesco, prete, canonico della cattedrale, teologo dai raffinati studi, pugnace combattente contro la modernità (e ancor più contro la «filosofaglia» impersonata da quanti, anche in Foli-gno, «mentre si tengono per liberi pensatori, son pur troppo l’eco servile di ciò che appresero o al caffè, o alla brigata, leggendo o il giornale o il romanzo»: con il che, comunque, dava testimonianza involontaria di quanto fossero presenti e vivaci nella città le istanze modernizzatrici); da ultimo, ma tutt’altro che ultimo, il medico Mascioli, anch’egli uscito con i gradi accade-mici dalla romana Sapienza. Tra costoro figurava un solo corifeo del Risorgimen-to “caldo” (per usare una recente, efficace espres-sione di Giorgio Ruffolo), ovvero Ciancaleoni che nel “fatale” 1848 (anno nel quale il concittadino Luigi Marini era morto combattendo a Vicenza) era partito volontario appena diciannovenne; di altri combattenti non essendovi traccia alcuna - penso a Francesco Ma-ria Vitelleschi, ad Ettore Sesti, a Teotecno Trabalza, a Luigi Petri, a Raffaele Solani, giusto per fare qualcuno dei nomi più significativi -, e tanto Ciancaleoni quanto Mascioli erano gli unici rappresentanti di quella che era stata l’opposizione politica folignate al potere temporale dei papi. Mascioli sarebbe stato ricorda-to come medico «ingegnosissimo e prudentissimo», cittadino dagli «spiriti saggi e irreprensibili», «della straniera, della teocratica tirannide saldo ed aperto oppositore» fino a «sostenere il carcere con indomita fermezza». Con Mascioli, anche Ciancaleoni aveva sentito i rigori di una «tirannide tanto più dura quanto più co-perta d’ipocrisia». Nato nel 1829, Ciancaleoni sarebbe morto nel 1904; sindaco negli anni penultimi della sua vita (1899-1902), sarebbe stato votato da una mag-gioranza consiliare di destra; appoggiata dai clericali, la destra monarchico-costituzionale riconquistava il Comune avvicendandosi alle coalizioni di repubblica-ni, radicali e monarchici progressisti - sostenute dai socialisti appena nati nel 1895 - che avevano ammi-

nistrato Foligno per un decennio a datare dal 1889. Mascioli, venuto al mondo nel 1805, di “umili natali” come si diceva allora, sarebbe morto nel 1871; una volta superata la breve fase in cui aveva operato con la giunta provvisoria di governo e lasciata la guida am-ministrativa di Foligno al giovane Frenfanelli Cibo, gli sarebbe poi succeduto dal 1864 al 1869 ottenendo lar-ghi consensi. L’opposizione politica di Mascioli e Ciancaleoni al potere temporale dei papi, pur conseguente e netta, non era stata assimilabile all’opposizione delle cor-renti repubblicane, radicali, massoniche, insurrezio-naliste o protosocialiste, tant’è che entrambi se ne andarono da questo mondo in sintonia con la Chiesa, sempre che ai funerali religiosi si possano attribuire significati diversi da quelli riconducibili ad una solen-nità ostentata. Sta di fatto che entrambi, insieme ai loro colleghi della Commissione municipale provviso-ria, firmarono un manifesto rivolto ai Fulignati, che recitava così: Ancora voi, mercè la Provvidenza e le armi gloriose del magnanimo Re Vittorio Emanuele II, fate parte finalmente della gran famiglia italia-na! Questo era il vostro voto, e doveva realizzarsi; ché è vana pretensione il resistere al sentimento di Nazionalità, che infiamma tutti i petti forti e genero-si. Liete sorti vi attendono, godrete di quelle forme politiche, di quei sapienti istituti che l’esigenza dei tempi e la progredita civiltà richiedono. Lungi da ogni rancore di parte; il sacro amore di Patria faccia tace-re ogni mala passione. La Religione Nostra, vero saldo fondamento d’ogni progresso, informi i vostri pensie-ri. Carità verso tutti, rispetto ai legittimi diritti, con-cordia, abnegazione. Con questi principî s’inizierà la grande opera della Italica Rigenerazione; e con questi deve compiersi. La Provvidenza? Quella del Dio dei cri-stiani; la Religione? Quella cattolica. Era il 21 settem-bre del 1860; erano passati appena sei giorni da quel 15 settembre che aveva visto trionfare i Piemontesi; fuori un papa, dentro un re: non fu una rivoluzione.

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Una vecchiafotodi Ernestina Spuntarelli

Questa foto è stata scattata il 27 maggio del 1933; era un sabato, come scopro consultando il calendario per-petuo, e doveva essere un giorno di fe-sta, a giudicare da come i bimbi sono vestiti. La bambina si chiama Maria, ha un viso dolcissimo e pensoso, ap-pare più grande della sua età (ha solo otto anni) e mi domando cosa pensi di quella testa di volpe che le sta appog-giata sotto la spalla. Magari si sente importante, vestita così da donnina, chissà se prova un po’ di compassio-ne per lo sfortunato animale con cui è stata agghindata. Il ragazzo si chiama Lino, ha undici anni ed è suo fratello. Lui ha un’aria un po’ impacciata, l’im-pressione è che voglia essere altrove, a giocare, a correre e che si sottopon-ga alla foto come a una tortura neces-saria. Sono vivi, in un giorno di prima-vera che già preannuncia l’estate; i loro pensieri danzano impazienti verso il futuro. La strada è appena comincia-ta, chissà quali amori giochi avventu-re sbocceranno lungo il cammino. Un vecchio poeta ha scritto che non esiste un destino già scritto, che il destino è la nostra vita dopo che l’abbiamo vis-suta. Il tragico destino di Lino lo leggerete nell’articolo che segue. In quanto a Maria, è stata sicuramente molto più fortunata: ha conosciuto l’amore, la gioia e la fatica di una famiglia, ha avu-to due figli e un marito a cui ha dato e da cui ha ricevuto un affetto profondo. Ma se ne è andata comunque troppo presto, a soli 55 anni, quando la sua voglia di vivere era intatta. Molte volte

mi sono chiesta come sarebbe stata la mia vita se fossero vissuti più a lungo. Lino e Maria erano i miei fratelli. Mi mancano tantissimo.

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Io non c’ero. Semplicemente, non potevo esserci. Non ero nato e non si erano neppure prodotti i necessari incroci biologici che avrebbero reso possibile la mia nascita. Ma c’erano molti di quelli che avrebbero costituito – e in parte minima ancora costituiscono – la mia famiglia. Questa storia potrebbe cominciare una sera di febbraio del 1944. Una casa nella campagna folignate. Una famiglia riunita intorno al fuoco che recita il rosario. Una bambina di sette anni, annoiata, sbircia dalla finestra e subito i suoi occhi si spalancano in un incanto stupito:- Venite a vedere! - grida eccitata.Fuori una luce potente e azzurrognola inonda i campi deserti, strappandoli al quieto abbraccio dell’oscurità. Ma ciò che per la bimba è un meraviglioso prodigio, per gli adulti diviene motivo di angoscia e di paura: è il sole malvagio della guerra, che neppure di notte cessa di tormentare le creature innocenti e spaventate. La bambina sente parlare di bengala, sente levarsi mormorii e preghiere più accorate, imprecazioni. Lei resta incollata ai vetri e non capisce cos’abbia di sbagliato quella luce. E intanto i grandi decidono che bisogna partire, che neppure la campagna è un luogo sicuro e dunque bisogna fuggire più lontano, cercare un anfratto, una nicchia dove il mostro non possa scovarli.La mattina dopo, il 2 febbraio 1944, un carretto arranca per la strada polverosa che da Foligno porta a Rasiglia. Su quel carretto ci sono sei persone. Una famiglia. C’è Maria, una graziosa fanciulla diciannovenne che quattordici anni dopo sarebbe diventata mia madre. Ci sono i suoi genitori, c’è lo zio prete, che nel dopoguerra, con la fondazione della Casa del Ragazzo, avrebbe avuto un ruolo non marginale nella difficile opera di ricostruzione morale e materiale di tutta una generazione devastata dalla guerra. E ci sono i due fratelli di mia madre, la piccola Ernestina e Lino, 22 anni. Una famiglia normale, gente tranquilla e laboriosa che cerca un rifugio, uno scampo. E non sa che per uno di loro questo lungo tragitto, in una mattina limpida e fredda d’inverno, condurrà nel peggiore degli inferni, quello che neppure gli dei del

male avrebbero potuto inventare e costruire.Io non c’ero, su quel carretto; ma tante volte mi è sembrato di vederli, mentre oltrepassano i vari paesi che si trovano lungo la strada: Pale, Ponte S. Lucia, Scopoli, Leggiana, Casenove, Serrone. Accanto a loro, nel carretto, poche cose: qualche vestito, preso da un guardaroba piuttosto povero; pochi oggetti indispensabili per la quotidianità, per un soggiorno che tutti avranno sperato breve. Gli uomini avranno portato l’occorrente per radersi, mia nonna avrà scelto biancheria e asciugamani e forse pentole e vasellame (la famiglia che li avrebbe ospitati non era certo ricca). Tra questi oggetti, tutti scelti secondo un rigoroso criterio di funzionalità ed utilità, ce n’è però uno che costituisce un’eccezione: è un vecchio archibugio. È arrugginito, assolutamente inutilizzabile: mio nonno ha deciso di portarlo con sé perché rappresenta un caro ricordo di suo padre che faceva il guardaboschi ed era morto pochi anni prima. E’un’arma ottocentesca, che evoca guerre lontane, avventurose, quasi mitiche. E’ un arma ridicola, rispetto a quelle devastanti usate nella guerra in corso. Eccola dunque, la mia famiglia, che procede lentamente: mia nonna e mio zio prete che recitano preghiere; mia madre e mio zio Lino che canticchiano le canzoni della loro giovinezza e giocano con la sorellina. Eccola che arriva a Rasiglia, in tarda mattinata, e viene accolta con affetto dai parenti che la ospiteranno. Immagino un pomeriggio tranquillo e indaffarato, una serata di chiacchiere davanti al fuoco, il sonno che sopraggiunge presto dopo una giornata così faticosa. La mattina successiva mio nonno si alza all’alba: deve tornare a Foligno per motivi di lavoro. Lo vedo che si muove silenzioso nella casa ancora addormentata; c’è forse il tempo di prepararsi una tazza di caffè d’orzo e mandar giù qualcosa; lo vedo che apre la porta scrutando la compatta nuvolaglia che ha già cominciato a schiarire; lo vedo rabbrividire per il freddo intenso e calarsi il cappuccio fino alle orecchie. Lo vedo richiudere la porta dietro di sé ed avviarsi con la sua bicicletta nera, imboccando la discesa che conduce verso la città, fino a che non sparisce dietro la grande

L’archibugiodi Claudio Stella

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curva. Ed ora vedo la casa che pian piano si risveglia: forse il primo ad alzarsi è mio zio prete, per recitare il suo ufficio mattutino; o forse le donne di casa, per accendere il fuoco e svolgere le prime faccende. Di sicuro i giovani ancora dormono: la casa è ancora intrisa del gelo della notte e non è facile lasciare il tepore del letto. Ma ecco delle grida, dei rumori scomposti si diffondono per il paese: voci cattive e straniere che urlano parole incomprensibili, suoni sordi di porte che vengono battute, voci trepidanti di donne, suppliche, preghiere, pianti. Vedo il tramestio impaurito che ora agita la casa, sento le domande disperate che vengono rivolte senza trovare una risposta, ma sento anche le parole di conforto e di speranza: “ che cosa ci possono fare, noi non abbiamo fatto niente di male!”. Da sempre l’innocente è convinto, in base ad una sorta di diritto naturale innato nell’uomo, che la propria innocenza possa bastare a preservarlo dal male; da sempre la storia irride tale illusione, calpestando con più ferocia i più innocenti. Ed ecco, ora dei colpi forti scuotono la porta della casa. Sono arrivati. Viene loro aperto. Entrano. Gridano (che bisogno c’è di gridare, visto che tanto nessuno li capisce?). Sembrano divinità malvagie e onnipotenti. In realtà sono solo dei miserabili che il tribunale della storia sta per precipitare nel pozzo più profondo dell’ignominia. Ordinano agli uomini di scendere di sotto. Mettono furiosamente a soqquadro la casa cercando chissà cosa: rompono poveri oggetti, aprono armadi cassetti ripostigli; finalmente trovano qualcosa di interessante, qualcosa di determinante, qualcosa che giustifica il frastuono devastante della loro perquisizione: è un’arma, segno indubitabile che in questa casa abitano pericolosi sovversivi. E’ un’arma: è vietato tenere armi in casa. E’ un’arma, il vecchio archibugio di nonno Lisandro, il guardaboschi, che si vantava di non averlo mai dovuto usare, in tanti anni di servizio. Ora le grida si fanno più concitate e rabbiose; l’arma viene requisita; i tedeschi se ne vanno, portandosi via gli uomini di casa. Tutti gli abitanti maschi di Rasiglia vengono radunati in uno spiazzo in fondo al paese; vengono trattenuti per alcune ore, interrogati, alcuni vengono picchiati. Ma a mezzogiorno, finalmente, vengono rimandati nelle loro case. Tutti meno tre di loro: Luigi e Colombo Olivieri, membri della famiglia che ospitava i miei parenti, e mio zio Lino Spuntarelli. Mio zio prete viene rilasciato, per rispetto del suo abito talare. Gli altri vengono imprigionati, in quanto possessori abusivi di arma da fuoco. Vengono dapprima portati a Foligno, al comando tedesco, che si trovava in quella bella palazzina liberty cha fa angolo tra viale Firenze e via Mameli. Il giorno dopo vengono trasferiti a Perugia, dove rimarranno fino al 9 maggio; da qui un’altra tappa intermedia, a Fossoli, in Emilia; infine, il 21 giugno, la partenza per il campo di concentramento di

Mauthausen, in Austria. E qui, dove ha inizio per mio zio l’esperienza dell’inferno, cessano anche le notizie su di lui. Sappiamo solo, se è giusta l’informativa della Croce Rossa pervenuta nell’immediato dopoguerra, che Lino è morto di polmonite il 31 marzo 1945. Nove mesi di fame, di freddo, di violenza inimmaginabile. Se il suo corpo giovane e sano avesse potuto resistere ancora un poco si sarebbe salvato: il 5 maggio, alle ore 17.05, un carro armato americano faceva ingresso nel campo, liberandolo: le bestie umane che lo avevano costruito erano state definitivamente schiacciate. Ma Lino non c’era più: il fumo della sua giovinezza si era disperso nel cielo, insieme a quello di altri milioni di innocenti.Noi non sappiamo cosa lui abbia provato, in quei mesi terribili; se tentiamo di immaginarlo ci assale il morso di un’angoscia incredula e sconvolgente. E sono poche le cose che so di lui, perché nella mia famiglia questa tragedia è stata vissuta con un dolore arcigno e silenzioso: mia nonna, per il resto della sua lunghissima vita (è morta a 101 anni), ha sempre vestito di nero, ha sempre tenuto acceso un lumino, sul comò in camera sua, accanto alla foto del figlio; ma io non l’ho mai vista piangere, non l’ho mai sentita parlare di lui, neppure pronunciare il suo nome. E se in TV c’era una trasmissione sul nazismo o sui campi di sterminio, semplicemente, la televisione veniva spenta.Ciò che so di lui, è che era un ragazzo allegro e vitale. A 13 anni fu mandato a svolgere i suoi studi in seminario, ma quella vita austera e penitenziale non era fatta per lui, nonostante le insistenze e le aspettative dello zio sacerdote. Non amava in modo particolare neppure lo studio, non aveva le tempra del letterato o dell’uomo di scienze. Adorava la musica, tutta la musica: suonava l’organo – pare fosse bravissimo – ma godeva nel suonare la fisarmonica, gli piaceva ballare e cantare.Non aveva interessi politici. Era mosso da una solare irrequietezza, da un’amabile impertinenza che lo rendeva incline al gioco e al riso. Era nato per concedersi alla terra e alle sue gioie, che certamente non sarebbero mancate. Aveva una ragazza, di cui era molto innamorato. Si chiamava Luisa. Mi auguro che il pensiero di lei, la speranza di rivederla gli abbiano concesso qualche attimo di conforto. E’ morto a causa di un vecchio archibugio arrugginito; è morto a causa della ferocia stupida di uomini che hanno tentato di negare e distruggere l’umanità. Che siano maledetti nei secoli dei secoli.Che sia benedetta Luisa, il suo sorriso felice di ragazza e il suono della fisarmonica e il suo corpo che volteggia leggero nella danza e i suoi baci e il profumo delle notti d’estate.

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Oggi raccontiamo, per la sezione ‘antichi mestieri’, la storia di Mario Botti e di quando lavorava per il ‘Grande Stabilimento Militare di Scanzano per la produzione di viveri di riserva per l’Esercito’, in breve il carnifico militare. Mario, classe 1925, ad appena 14 anni viene colpito dalla polio che gli porta via un occhio ed una gamba, per 22 volte entra in ospedale e per 14 volte è sottoposto a intervento chirurgico, ma inutilmente, anzi, a sentire la sorella Caterina, era meglio che non lo toccavano…Inabile per la leva e per la guerra, viene sin da piccolo impiegato, con tutta la sua numerosa famiglia, presso il carnifico militare dove diventa grande prima dei suoi coetanei e se il buon Dio gli ha tolto parte della vista e della deambulazione, gli ha però lasciato neuroni funzionanti nel cervello.Ricorda benissimo i suoi turni di notte e le 400 mucche che arrivavano ogni giorno da tutta l’Italia per uscire sotto forma di 250.000 scatolette destinate agli eserciti dislocati in Africa Orientale e Libia. Lo stabilimento era nato nel 1912, aveva già fatto in tempo a rifornire l’esercito della Grande Guerra e contava a pieno regime su più di trecento dipendenti fra militari e civili.Negli anni di cui parliamo vi era la presenza dei militari tedeschi che controllavano il buon funzionamento dello stabilimento. I tedeschi con Mario si sono sempre comportati bene, anzi lo esortavano ad ‘approfittare’ della sua posizione per qualche razione di carne in più. Se voi vedeste la sua esile figura, un Indro Montanelli alto la metà, capireste dove lui rispediva quelle esortazioni. Il riferimento a Montanelli non è casuale perché Mario lo conobbe a Perugia negli anni ’50 in quanto il nostro fu, dal 1947 al 1977, corrispondente per Il Messaggero, giornalista dalla penna fumina come il Maestro di Fucecchio. Tra gli aneddoti più interessanti di questa convivenza con il comando tedesco ne voglio ricordare uno. Erano iniziati i bombardamenti alleati, i tedeschi stavano preparandosi a fuggire: un drappello di militari tedeschi stava trasportando decine di sacchi di grano e riso e chiese ad un gruppo di operai del carnificio di aiutarli. Vennero fatti salire su un camion, poi arrivati

all’altezza di Porta Ancona, i militari chiesero ai civili di scendere e ordinarono loro di scavare una buca nei pressi del ponte. Immaginiamo l’animo di quei lavoratori, la paura che si insinua nei loro pensieri di diventare vittime di una rappresaglia, soprattutto perché di recente due soldati tedeschi erano stati uccisi dai partigiani a Colle. Invece, a lavoro ultimato, i tedeschi regalarono i sacchi di grano e riso agli operai che se ne andarono sollevati: fatte poche centinaia di metri sentirono un tremendo boato e videro il fumo che si alzava dal ponte distrutto. Fra quei fortunati operai c’era anche il papà di Mario e con quei sacchi venti famiglie si sfamarono per tre mesi.Il carnifico era suddiviso in reparti: macellazione dei bovini, taglio delle parti commestibili, realizzazione delle scatolette metalliche, saldatura delle stesse (con macchinari acquistati in Ungheria), confezionamento delle scatolette con la gelatina, stoccaggio nel magazzino e spedizione. Con la lingua delle mucche, che era una specialità, si realizzavano scatolette speciali per i reparti sanità dell’esercito, per i soldati malati e feriti. Non si sprecava nulla: le ossa venivano date alle mense scolastiche o si distribuivano fra gli operai per il brodo della sera e per cuocere il riso. Ci si sfamavano migliaia di persone.Mario lavorava a stretto contatto con il Comandante Colonnello Filippo Galeotti, un gigante di due metri che sembrava ancora più alto di fronte a lui, gracile e piccolo di statura ma con una voce già allora altisonante e decisa. Lavorò presso il carnifico in amministrazione fino al 1945, quando venne chiuso a seguito dei bombardamenti degli alleati.Poi, con la ritirata dei tedeschi, che bruciarono tutto, tutto finì.A 85 anni e 4 mesi, anzi, a 1024 mesi come tiene a dire Mario, dopo tutto quello che ha visto, vissuto, letto, ha perso la speranza per il futuro (il nostro futuro) e cita in conclusione una famosa frase di Montanelli: ‘tutti parlano dell’aldilà ma tutti vogliono stare bene nell’aldiquà’.

Il carnificiomilitaredi Rocco Zichella

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Vivere in una città né troppo piccola né troppo grande ha molti “contro” e qualche piacevole “pro”. Tra questi ultimi entra a pieno titolo la padronanza che si finisce per avere delle strade e l’irresistibile tentazione di praticarle a piedi, saggiando i ciottoli, prendendo le distanze dalle mura, evitando di sostare troppo a lungo sui due piedi e diventare così facile oggetto d’attenzione per piccioni pasciuti e grondaie eccessivamente tempestive persino durante la bella stagione.Navigando con mezzi impropri tra le strade di una cit-tà né troppo grande né troppo piccola, si cade nell’il-lusione sensoriale di essere noi a camminare e non il tempo, l’illusione di essere più rapidi a ogni passo, mentre case e strade diventano sempre più immobili, antichi approdi dimenticati, lì, alla nostra completa mercè. Di tanto in tanto le vecchie architetture scom-paiono per riapparire defilate nei dettagli, di tanto in tanto l’età friabile delle pietre, o la saggezza degli ar-chitetti, permette che ferite generose si aprano e che da esse giunga acqua, utile sia per mandare giù i pro-pri pensieri dopo una lunga camminata e magari per lenire qualcuna delle ferite altrui, sia per decidere, a tappe, i nostri arrivi. Per lo più a tali ferite attingono pietose cannelle che danno la giusta portata al getto e il giusto tono al rumore, che misurano la potenza d’impatto sulla pelle e non concedono spazio ai rifles-si. Sono solo le fontane più grandi che, a volte, danno la possibilità a chi vi attinge di specchiarvici dentro, e magari di vedere il proprio volto, sconosciuto, sovrap-posto a un paesaggio capovolto ma più familiare.Il bello delle città non troppo grandi e non troppo pic-cole è che tutti, da generazioni, hanno bevuto la stes-sa acqua e respirato la stessa aria, e girato in lungo e in largo gli stessi luoghi; eppure ci si stupisce ancora, mentre si attraversa di corsa un antico vicolo divenu-to moderna scorciatoia, d’incontrare sguardi scono-sciuti nel loro complesso ma i cui dettagli ci attirano irresistibilmente, come se li si conoscesse già, sguardi che ricambiano un eventuale, istintivo, saluto e che ci

si convince essere benevoli, come dovrebbero essere tutti gli sguardi rimandati indietro dagli specchi diver-si in una stessa casa. Ci sono forme della bocca che ricorrono anche tra chi non è in alcun modo imparen-tato, tagli degli occhi che si ripetono come se un uni-co sceneggiatore li avesse stampigliati da una matrice altrettanto unica, sorrisi che si riflettono nell’aria e nell’acqua delle fontane, identici, come se fossero tutti lo stesso sorriso. Magari si tratta del parente di un amico, forse alla lontana, o magari esistono dav-vero tanti tratti caratteristici all’interno di una singo-la comunità… Comunque sia, nessun altro posto dona l’incanto di saper riconoscere le espressioni nascoste tra le strade, dietro vecchie mura, o in bilico sulla superficie delle fontane, come familiari, “proprie“, se non la città, né troppo grande né troppo piccola, dove si ha avuto la ventura di nascere.

Chissà perché quando si guardano visi o case, monu-menti o palazzi rispecchiarsi sulle morbide superfici delle fontane, ci si sente come se si stesse spiando qualcosa che non riusciamo ancora a vedere, come se si stesse rubando un’immagine. Sarà perché, come si dice, nell’acqua delle fontane pubbliche scorrono le anime dei morti lì nei pressi, intente, immaginiamo, a ripetere la loro storia come una scrosciante litania; oppure sarà perché, molto, molto tempo fa, si era so-liti, per poter usufruire di quello specchio per anime

Fontane neldi Maria Sara Mirti

tempo

Il bello delle città non troppo grandi e non troppo piccole

è che tutti, da generazioni, hanno bevuto

la stessa acqua e respirato la stessa aria

e girato in lungo e in largo gli stessi luoghi

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che sono le fonti, ripagare il genio guardiano con una moneta, un piccolo obolo che ci è rimasto sulla co-scienza come un debito scaramantico; o forse perché l’acqua, con la sua eterna neutralità e la sua libertà incostringibile, è da sempre stata ritenuta portatrice di una magia che ha a che fare con la vita stessa. A par-tire dai “medici dall’acqua” di origine medievale (che curavano le ferite con meticolose pulizie e repentini sbalzi di temperatura), passando per i vulnerali rea-lizzati con acque aromatizzate, fino ad arrivare alla moderna farmacologia omeopatica, l’acqua è sempre stata il liquido principale da cui, più diffusamente ri-spetto al sangue e al latte, filtrano i prodigi. Attraver-so l’acqua delle fonti, cittadine e non, possono pas-sare, con il loro sembiante invisibile, orazioni, cure e follie. Come il sangue giunge al cuore e poi da esso riparte, senza lasciare nulla e senza nulla portare via, così l’acqua che sgorga per esempio da una fontanella assolve sempre alle stesse funzioni: non cambia gusto e proprietà al mutare delle forme architettoniche che la contengono; fin da quando gli uomini ne utilizzano le risorse va ripetendo le stesse formule di eterna spe-ranza, gli stessi pensieri, deterge come può sempre lo stesso tipo di traumi. Il suo girare intorno a uno stesso tracciato è il nostro girare intorno a noi stessi, il suo lavare ferite, macchie e colpe è un’azione mec-canica e vagamente ipnotica che non potrebbe avere successo senza il concorso della nostra volontà. Non si guarisce mai da se stessi, semplicemente, diceva Joe Bousquet, non si guarisce mai da nulla. I sorrisi, i palazzi, persino le lacrime d’acqua non sono dove li si vede. Il pianto straziante che non è dato sentire,

perché non è pronunciato da nessuna voce umana, si perde nelle tante bocche, ora aperte ora seccate, del-le fontane sparse nei centri abitati; il loro fluire, a cui siamo completamente assuefatti, è, parafrasando an-cora Bousquet, quel che non si riesce a dire, il silenzio impossibile. Quell’acqua che è vita e che più volte ci ha restituito le nostre immagini di bambini e di adulti, forse ci vedrà anche invecchiare, e infine terrà per sé i nostri sguardi. E altri sguardi, ignari, incroceranno i nostri nascosti nei riflessi, e pagheranno una moneta per stare in nostra compagnia, oppure berranno dai nostri stessi sorsi e se ne andranno somigliandoci più di quanto credano. Le inscrizioni sulle vasche monu-mentali rimarranno mute, eternamente incomplete.

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STORIE

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Vecchi caffèdi Fausto Scassellati

Con molto piacere ho incontrato Bruno Salvatori, che mi ha raccontato le vicende di tre antichi caffè di Foli-gno. C’è dentro un piccolo pezzo di vita cittadina che, come spesso succede, si incrocia con gli eventi della vita nazionale.“La storia di questi tre Caffè è strettamente legata a quella della mia famiglia. Mio nonno materno Feliciano Antinori faceva il barbiere in un locale all’inizio del Corso Cavour, vicino al Trivio, a fianco della farmacia Ciancaleoni-Ricci. Successe che il farmacista licenziò un inserviente: questi, per vendicarsi, si rifugiò nel sotterraneo della farmacia e si mise a rompere ed in-cendiare il materiale che vi si trovava. Il proprietario aveva timore di affrontarlo: intervenne mio nonno che si apprestò a scendere le scale. L’inserviente prese un contenitore di acido e glielo tirò. Mio nonno riuscì ad immobilizzarlo però riportò delle ustioni e perse la vi-sta in un occhio. Fu premiato con medaglia al valor civile, e fu aiutato anche finanziariamente; ma dovette cambiare lavoro e fu costretto a vendere la bottega.Nel 1886 riuscì ad aprire un Caffè in un locale posto prima del Teatro Piermarini e di Via Rinaldi, al Corso, il Caffè del Teatro, appunto. Nella parte posteriore c’era uno spiazzo con un pozzo, e lì collocammo il deposito del carbone e delle fascine che via via ci pervenivano, caricate sopra un somaro, da Sostino. C’era anche una cucina economica per preparare il caffè. Questo veniva tostato mediante un grosso brustolino girato a mano sulla brace. Poi il caffè, una volta tostato, veniva rove-sciato sopra una larga teglia, indorato con un poco di olio e ricoperto con un panno. Poi veniva conservato in dei barattoli e man mano veniva macinato.

Mio padre Giovanni, subentrato a Feliciano, acquistava il caffè, lo zucchero ed altro dalla Ditta Mercantile di Firenze; la merce ci arrivava con il treno. L’arredamen-to del locale era meraviglioso: appena dentro, a sini-stra, c’era un banco circolare con sopra un grosso globo metallico, sovrastato da un’aquila, sempre di metallo, opera di un artigiano, un certo Facchinetti di Firenze, che era un lontano parente di mio nonno. Questo globo poggiava sul banco mediante tre appoggi a forma di tritone. In basso, tre rubinetti per la mescita di ac-qua, seltz e birra. Le tre tubazioni che vi erano col-legate attraversavano con una serpentina il globo che funzionava da ghiacciaia. Il ghiaccio ci perveniva in un primo tempo da Casale, dove veniva creato in apposi-te buche abbastanza profonde. Il bancone, formato da pannelli in noce e di lamiera di stagno, occupava i tre lati del locale: su di esso, dopo qualche anno, venne degnamente collocata la “Pavoni”, la prima macchina-espresso giunta a Foligno.Le zuccheriere e i portacucchiaini avevano anche loro gli appoggi a forma di tritone, come la ghiacciaia. C’era anche una vetrinetta abbastanza alta che conteneva i tramezzini: questa aveva in basso un piccolo fornellino a carbone per mantenerli caldi. All’interno l’arreda-mento era completato da bei tendaggi alle porte e alla vetrina, da i tavolinetti in ghisa con pietra di marino, da belle sedie imbottite. All’esterno tre globi luminosi sorretti ognuno da due bracci metallici a mo’ di arco.La clientela era numerosa ed abbastanza qualificata: assidui frequentatori erano molti professionisti, bene-stanti, ufficiali del 1° Reggimento Artiglieria. C’erano altri Caffè, ma con una clientela diversa. Decidemmo pertanto di ampliare il nostro esercizio acquisendo il locale situato sulla parte destra, a confine con la via Rinaldi. Durante l’esecuzione dei lavori, abbattendo la parete divisoria, venne alla luce una antica colonna; da allora il Caffè prese il nome di Caffè Colonna. Nel nuo-vo locale fu collocato un biliardo, l’unico, allora, della Città. Nonostante ciò e l’aiuto dato dal collocamento di alcuni tavolinetti all’esterno, non riuscivamo più a soddisfare la clientela, in continuo aumento.Per questo motivo ci trasferimmo nel Palazzo di Mas-senzi, sempre al Corso, davanti alle Logge, nei locali dove prima c’era il negozio di ferramenta di Leonardi-

di Foligno

Durante l’esecuzione dei lavori, abbattendo la parete divisoria,

venne alla luce una antica colonna; da allora il Caffè prese il nome di

Caffè Colonna

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Mattoli. Il Caffè Colonna chiuse i battenti e sorse così il Gran Caffè Sassovivo.Appena si entrava ci si trovava nell’ampia sala del bar, poi a destra c’era la sala da tè con un pianoforte, spes-so suonato da alcuni clienti. Sotto l’arco tra questi due locali avevamo piazzato il piano-bar. C’erano tre salet-te da gioco e in fondo il magazzino. Tre biliardi erano stati messi al piano superiore, proprio sopra al bar. In seguito prendemmo il locale a sinistra dello stesso e allora i biliardi furono trasportati a pianoterra.Le volte del locale principale erano tutte pitturate a mano, le vetrate, le vetrine erano multicolori, unite a piombo; per il bancone furono riutilizzati i pannelli di noce del vecchio Caffè Colonna, i tavolinetti e le sedie erano di vimini, diversi arredi me-tallici furono eseguiti dall’artigia-no folignate Carlino Rampioni che aveva il laboratorio in via Santa Ca-terina. Le appliques interne e i bei lampadari esterni furono eseguiti da un altro bravo artigiano di Foli-gno, un certo Menotti.Il personale, oltre a me e a i miei genitori, era costituito da tre ca-merieri: Antonio Ruffini, Cirillo Du-ranti e Gino, detto il “Toscano”; poi c’era l’addetto ai biliardi: “Ciu-lìno”, detto anche “Ciuccioletta”.A proposito di Ciulìno, ogni tanto dovevamo farne a meno: essendo di fede comunista, quando c’era qualche manifestazione o altro, veniva arrestato a scopo precau-zionale. La stessa cosa accadeva a Menotti, fervente garibaldino, so-cialista. Menotti, in occasione del 1° maggio usciva di casa sempre con il garofano rosso all’occhiello: le guardie, sapendolo, lo aspetta-vano in via Garibaldi e lo fermava-no.Ritornando a parlare del Caffè Sassovivo, quando ormai era tutto pronto per l’apertura, questa non potè av-venire perché qualcuno della concorrenza fece osser-vare alle Autorità comunali che, secondo una vecchia disposizione, non potevano essere aperti locali pubbli-ci come i Caffè davanti agli ingressi delle scuole. Mio padre si diede da fare: dopo alcuni mesi finalmente il Questore di Perugia diede disposizione che l’accesso alle Scuole elementari (all’epoca era sotto le cosiddet-te Logge) fosse spostato nella piazzetta a sinistra dello stesso palazzo.L’inaugurazione del Caffè Sassovivo avvenne finalmen-te il 4 giugno 1930, con la partecipazione del Vice Po-destà, del Vescovo, di Mons. Faloci, che benedisse i

locali. La banda comunale diede un concerto davanti al Caffè, al Corso. Nel 1933 venne inaugurata la pista da ballo, la cosiddetta “Montagnola”. Vi suonavano di-verse orchestre di Foligno, Spoleto, Perugia. Si ballava la domenica sera, dietro inviti: i tavolini erano scrupo-losamente prenotati.Venivano a ballare anche dalle città vicine: le automo-bili venivano parcheggiate a Porta Romana e al Corso. Si cercava, nei primi tempi, di selezionare la clientela, nel Caffè non era permesso entrare senza giacca e cra-vatta.Quando venne Mussolini a Foligno, entrò per pochi mi-nuti al Caffè Sassovivo e bevve un’aranciata. Appena uscito, venne il Podestà a cercare il bicchiere dove

aveva bevuto: siccome erano diversi, mio padre gli in-dicò uno a caso tra quelli posti sul bancone. Venne fat-ta fare una mensola per tenere in mostra il bicchiere in questione: ai lati due fasci e sotto una targa-ricordo. Questo lavoro fu affidato - ironia della sorte - proprio all’artigiano socialista Menotti.Nel 1942 cedemmo la gestione del Caffè per 280.000 lire ad altri; molta gioventù (compreso mio fratello, poi disperso in Russia) era partita per la guerra, la clientela era diminuita; inoltre iniziavano a scarseg-giare dolciumi, zucchero, caffè; c’era l’oscuramento e alla sera la gente non usciva più da casa. Erano ormai tramontati un’epoca, un modo di vivere, uno stile che non tornò più.

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PERSONE

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A proposito dellaGli abitanti di Foligno non sono dei fanatici della purezza dialettale, ma si possono considerare dei buoni conservatori se non del dialetto almeno della cadenza folignate. Quella parlata un po’ strascicata, fluida, sanamente impura e vigorosamente rozza, prodotto alchemico di latinismi, influenze romanesche e toscane. Vecchi e bambini, giovani e immigrati, prima o poi tutti a Foligno assumono quell’intonazione canterina e vagamente canzonatoria che comprende in un lungo abbraccio anche altre località (Trevi, Montefalco, Bevagna, Spello, Valtopina, Annifo, Nocera Umbra) che come corolle circondano lu centro de lu munnu. Personalmente mi è capitato di essere sgridata dai miei concittadini per aver perso la mia cadenza, così come sono stata elogiata da persone fuori regione che, una volta dichiarata la mia provenienza, mi ricordavano quanto fosse brutto e cacofonico il dialetto “dell’altra parte del Tevere”. Eppure, nonostante io abbia “corretto” attivamente la mia pronuncia negli anni per avvicinarmi alla dizione italiana standard, in cuor mio trovo sempre affascinanti i miei nonni che ancora conservano un buon bagaglio dialettale, anche se ormai ripulito e affinato da anni di assorbimento di linguaggio televisivo. Loro non hanno solo una cadenza, ma conoscono parole che per me risultano completamente sconosciute e cariche di mistero. Un codice antico che sta morendo perché ci stiamo lentamente uniformando ad una lingua unica. Tempo fa mi capitò per le mani un vocabolario del territorio di Foligno, per l’esattezza un monolingua, che presentava i termini dialettali con relativa traduzione italiana (Vocabolario del dialetto di Foligno, a cura di Renzo Bruschi, anno 1980, edito dall’Università di Perugia). Il volume, già dalla sua mole (più di 500 pagine), prometteva benissimo e sfogliandolo difatti mi si aprì un mondo. Una volta riuscita a decifrare correttamente tutti i segni dei fonemi ricchissimi di virgolette, cappellini, puntini e accenti, potei leggere le parole nella giusta pronuncia a voce alta riuscendo ad essere convincente. La soddisfazione che ne ebbi fu immensa perché riconoscevo che quella lingua era come un ritorno all’infanzia, una lallazione, un ritorno alle radici, qualcosa che si era sedimentato nei miei ricordi e che con la scolarizzazione e l’assorbimento

di anni di cultura di massa avevo accantonato come un difetto di forma dal quale dovevo liberarmi in fretta. Il dizionario si rivelò pian piano non solo lo strumento tecnico di una lingua, ma diventò soprattutto una chiave di lettura della realtà contadina preindustriale, pretelevisiva, quella realtà in cui solo il dialetto dominava il linguaggio e la conoscenza dell’italiano era riservata a pochi eletti come gli insegnanti, i dottori, gli avvocati, gli ingegneri e i preti. Moltissimi termini del dizionario facevano riferimento a oggetti, a gesti e a situazioni della quotidianità di un passato che risale a prima degli anni ’60 e che non ci appartiene più. Queste parole infatti non sono solo dimenticate

a causa della diffusione capillare dell’italiano, ma perché non utilizziamo più certi oggetti, non facciamo più certe azioni e non ci troviamo più in certi contesti. Le parole cadute nell’oblio ci raccontano di quando per passare il tempo libero e stare in compagnia ci si riuniva sotto un portico o si andava in un’osteria con una foḭḭẹtta (mezzo litro) di vino e si giocava a carte. Škrivi! Era l’espressione per invitare il compagno a giocare una briscola. Arimǫese significava avere in mano due briscole. E per decidere chi giocava per primo? Si puntava al faććeĝĝǫbbo, il classico testa o croce. Tutta la vita e l’economia della maggior parte delle famiglie girava intorno al lavoro agricolo, alla coltivazione del grano, della vite e dell’oliva. A ogni stagione c’erano lavori da eseguire: in primavera

di Marta Angelini lengua

Moltissimi termini del dizionario

facevano riferimento a oggetti,

a gesti e a situazioni della quotidianità

di un passato che risale a prima degli anni ’60

e che non ci appartiene più

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SPERSONE

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ad esempio si faceva la monnaręlla, cioè la ripulitura di tutte le erbacce che nuocevano alle messi, tra le quali le krẹšte de ĝallu; a settembre dopo la vendemmia, si andava a ĝrašpulà cioè a raccogliere l’uva rimasta sulle viti; a novembre ci si perdeva tra gli ulivi con lu kutḭọlu, un sacco cucito dalle donne di casa in cui si riponevano le olive raccolte. Per rinfrescarsi durante i lavori in campagna i contadini si portavano la fḭaškẹtta che conteneva raramente dell’acqua e molto più spesso del buon vino, per rendere sopportabile la gran fatica. Una fonte di ricchezza erano anche gli animali da cortile come le galline (pulle), i tacchini (billi), i conigli (kunilli) che venivano tenuti in piccoli recinti o gli animali da fattoria come i maiali (pọrki), le pecore, le vacche, i buoi che si nutrivano con lu pirzu o la fǫḭḭa, tipi di erba foraggera. I buoi in particolare erano il vero motore delle macchine agricole, venivano accoppiati con la funẹtta, corda che allacciava loro le teste. La paglia nelle stalle veniva portata col krinu, uno spazioso cesto di vimini e il letame veniva prelevato e posto all’interno del bḭunzu recipiente per trasportarlo. Chi non lavorava nei campi faceva l’artigiano e produceva oggetti del quotidiano, c’erano i piññattari, che vendevano e riparavano pentole di coccio, i fruštari che vendevano fruste per battere la lana dei materassi, i fusarọli che fabbricavano e vendevano fusi per filare.Le donne che rimanevano in casa lavavano montagne di panni sporchi nel laatuḭḭu, e le fanciulle dovevano applicarsi presto e produrre delle pi(e)zzǫle, piccoli lavoretti di cucito, di ricamo e di maglia indispensabile conoscenza per una donna che voleva trovare marito. Le grandi cucine contadine avevano pentole di rame appese alle pareti (pikkarame) e le padrone di casa rimestavano per ore le zuppe di legumi con lu kuḳḳḭarọne. La kùkkuma posta all’interno del camino assicurava l’acqua calda sempre disponibile in cucina, le kukkumęlle di coccio ribollivano sulle stufe.I bambini giocavano all’aperto sulle strade in grandi gruppi e si divertivano scivolando su una superficie sdrucciolevole facendo la šĝṷillaręlla o tenendo in

equilibrio un cerchio e correndo con la furćina. Gli uomini adulti gareggiavano al tiru de lu gallu, gara di fucili per cercare di centrare un povero gallo appeso penzoloni a un albero. Il tempo lento e circolare delle stagioni era scandito dalle feste religiose come quella della rink(ĝ)inata di Spello o di Cannara, una processione fatta il pomeriggio della domenica di Pasqua nella quale si facevano incontrare le statue del Cristo risorto e della Vergine Maria portate da due cortei differenti. Una volta che le statue erano una di fronte all’altra venivano inclinate come se si facessero un profondo inchino, in un sottofondo di gioia popolare, applausi, musica di bande paesane e scoppi di mortaretti. I miei nonni vissero questa vita contadina quando erano giovani, e nonostante non sia rimasto più nulla perché hanno lasciato la campagna da molti anni, non hanno più animali da cortile, usano pentole d’acciaio, la lavatrice e non vanno più alle feste religiose, tuttavia è rimasto loro il linguaggio e le espressioni per descrivere quella realtà che non c’è più o si è modificata tanto da risultare irriconoscibile. Una lingua non muore solo perché ne subentra un’altra, ma anche perché muore il mondo di cui questa lingua era la vera espressione.

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STORIE

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Una volta la panificazione era un’attività destinata a soddisfare le esigenze della famiglia ed era d’esclusivo appannaggio della donna.Ricordo tale attività con dovizia di particolari in quanto ‘assistevo’ spesso la nonna mentre faceva il pane. Il modo di lavorare e preparare il pane è un po’ cambiato nel corso degli anni. Oggi si panifica a livello industriale;

i cambiamenti apportati dalla tecnologia riguardano, però, le modalità e non la sostanza. Fino agli anni settanta, la sera antecedente la ‘lavorazione’ si ‘metteva il lievito’, già sciolto in acqua tiepida, nel cassettone grande della ‘mattora’ (madia), al centro di una grossa quantità di farina (circa 10 Kg). Si cospargeva ancora con una manciata di farina; poi, sulla stessa, per tradizione con il dito indice destro si

disegnava una Croce. D’ inverno si riscaldava la cucina e, durante la notte, si alimentava il fuoco con ‘li pizzoli’ (pezzi di legna grandi) per mantenere alta e costante la temperatura. Al mattino presto si impastavano a mano la farina ed il lievito con l’aggiunta di acqua tiepida. Infine, sulla ‘spianatora’ (piano di lavoro della madia) si confezionavano le ‘pagnotte’. Unendo le pagnotte,

due a due, si ottenevano le ‘filaie’ (o filoni). Si ponevano le filaie a lievitare sopra ‘la tavola de lo pane’ coperta da ‘lu mantile’ (telo bianco di cotone, stretto e lungo). Quando i filoni erano ‘lèviti’ cioè erano aumentati di volume, si accendeva il forno o meglio si accendevano le fascine di potatura ed i grossi mazzi di rovi secchi precedentemente introdotti nel forno con il forcone. Si alimentava la fiamma con pezzi di legna di maggior calibro fino a quando la volta del forno assumeva una colorazione chiara. Il forno a questo punto aveva raggiunto la temperatura giusta per la cottura. Si puliva, quindi, il piano cottura prima con la ‘pertica’ di ferro (lungo bastone di metallo) poi con la ‘nettaccia’ (scopettone di legno recante al vertice un mazzo di ginestre o di vitalbe). In sintesi con i due ‘arnesi’ si ammassavano su un solo lato del forno i carboni accesi e la cenere. Si procedeva ad infornare le ‘filaie’, una dopo l’altra, con l’‘infornatora’ (pala piatta fornita di un lungo manico). Si chiudeva con cura la ‘vocchetta’ (l’apertura) del forno con ‘lu sportellu’ di latta. Dopo un’ora il pane era cotto, si ‘cacciava’ con la solita infornatora - previo controllo visivo - e si riponeva fragrante e profumato sulla ‘tavola’ oppure su ‘lu capistìu’ (tavola di legno, stretta, lunga un metro circa, con bordi laterali alti 5/6 centimetri) dove si lasciava raffreddare. Infine, si riponeva nella madia. La provvista durava una settimana circa.

Ricordo che qualche vicina di casa sfornava un numero superiore di filoni rispetto a mia nonna, tale da coprire il fabbisogno di dieci giorni.Quasi tutte le famiglie del paese possedevano un forno a legna, ubicato in cucina o all’esterno dell’ abitazione. Chi non aveva il forno di proprietà ‘prendeva in affitto’ quello di un vicino o di un parente al modico prezzo di ‘una pagnotta di pane’.

Lo pane fattodi Annamaria Guidi in casa

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SSTORIE

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La sera, dopo la doccia, devo mettere i calzini: non è più caldo come qualche giorno fa. L’estate ormai è agli sgoccioli. E’ passato molto tempo da quando dentro ad una mi-metica, assieme a fratelli di sangue, sudavo all’ombra del filo spinato, cercando una strada tra i molteplici crocevia che la vita è pronta ad offrirti.Il corpo di guardia per un allievo ufficiale è sempre stato tosto, soprattutto dopo i trionfi universitari e le sue notti brave: dalla garitta osservavo la mia via che in quei giorni non era sempre chiara, al contrario di ciò che si respirava intorno. Era primavera sulla mia giovane pelle ed i contorni delle cose erano ancora ben definiti, i segnali mandati dal cuore chiari e potenzial-mente inossidabili.Promesse negli anni ne ho fatte, ai miei amori, ai miei amici, a me stesso.La più grande, forse, è sempre stata quella di fare in modo nella vita di non tradire mai ciò che sono stato, ciò che avevo sperato di me stesso, le mie emozioni, le mie speranze, le mie idee di ragazzo. Non parlo solo di cose tangibili, del lavoro, la carriera, le relazioni. Parlo soprattutto di quel fuoco che si sente dentro in primavera e che si teme di perdere per strada, magari sul finire dell’estate.Gli amici, il legame, le promesse.Sono passati 15 anni e tra qualche giorno una promessa dovrà essere mantenuta.Tutti davanti al portone della vecchia caserma, lonta-no dalle nostre case, giù nel Meridione, in una landa perduta, scomoda, ma che è stata la nostra casa per lunghi mesi.Non mancherà nessuno, immagino, del resto non sono stati mesi qualunque: i corsi AUC erano noti per essere non per “signorine”, capaci di lasciarti dentro segni in-delebili, nel bene e nel male.Io ci sarò: un giro nel cortile della vecchia caserma assieme ai vecchi fratelli non potrei proprio negarme-lo, sarebbe tradire me stesso. Passeggiare poi per le stradine del paese, alla ricerca delle vecchie tratto-rie e delle cabine telefoniche dalle quali cercavamo un appiglio col mondo, con la famiglia, dovrà essere un’emozione unica, un viaggio a ritroso nel tempo, nel mio tempo.Non mancherà nessuno, anche se ne sono passate di stagioni, anche se sulla nostra pelle l’aria della pri-

mavera non si sente più; c’è piuttosto il sole caldo di un’altra estate, bello per carità, ma a volte pesante, stordente, capace di rallentare il tuo spirito, non pro-prio avvezzo alla sua pesantezza.Non mancherà nessuno: eravamo fratelli di sangue, le nostre promesse erano vere, come siamo veri noi oggi; è solo cambiato il vento che soffia su di noi, ma il tes-suto è sempre lo stesso.Mi dicono invece che mancherà qualcuno: sì, immagi-no, c’è chi ha avuto da poco un bambino e che non potrà fare un viaggio di 700 km solo per vedere vecchi amici per qualche ora.Sì, del resto è comprensibile, la vita ti porta lontano, ognuno per la sua strada e qualcuno mancherà, pazien-za.Mi dicono però che sarà più di uno che non potrà venire: l’America è lontana, c’è chi ha fatto carriera ed oggi

vive oltre oceano, il paesino con la caserma ed il filo spinato dovrà aspettare. Magari in un’altra occasione.Pazienza, andremo lo stesso, anche se non saremo tut-ti.Mi dicono però che saranno davvero molti quelli che non verranno, la maggior parte, molti fratelli di sangue che ora hanno le loro vite, i loro impegni lavorativi, le loro famiglie, e che tutto sommato dell’antica fratel-lanza ne possono fare a meno.

Chiudo la finestra mentre un vento freddo soffia al di fuori, staccando le prime foglie dalle piante nel mio balcone, spargendole ovunque in un caos indefinito. E’

Passeggiare poi per le stradine del paese, alla ricerca delle vecchie

trattorie e delle cabine telefoniche

dalle quali cercavamo un appiglio col mondo, con la famiglia, dovrà essere un’emozione unica,

un viaggio a ritroso nel tempo,

nel mio tempo

Un po’ d’autunnodi Andrea Sansoneper tutti

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STORIE

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sera, ho fatto da poco la doccia e sento freddo ai piedi: metterò i calzini, forse è ora.

Le stagioni passano è scontato: tutto cambia, come di-ceva un mio vecchio amico, nulla è per sempre.E se vecchie promesse tra commilitoni, o anche quelle fatte tra i banchi di scuola o di qualsiasi altro pezzo di vita condivisa, dovessero scomparire nel vento, caoti-camente, non sarà la fine del mondo, è comprensibile.Già, ma non cogliere la profondità di quegli antichi giuramenti, abbandonare per sempre ciò che si era, soffocare il meglio della nostra primavera per una sta-gione frenetica che solo all’autunno potrà portarci, mi rattrista davvero.Tradire i vecchi sentimenti, non coglierne l’importanza ci fa meritare di essere in autunno: farlo poi per ren-dere i nostri servigi ad una vita vorace, fatta di piccoli egoismi e rapidi successi individuali, rende il tutto an-cora più grigio.Un po’ di autunno per tutti allora, ce lo meritiamo.Anche sulla mia pelle non soffia più l’aria buona di aprile, è vero, ed anche io certamente sacrifico quo-tidianamente me stesso per un Dio insaziabile che mi

porta ogni giorno lontano dal meglio che potrei dare, al lavoro, in famiglia, nella vita con gli altri.Ma la voce di quello che ero la sento troppo bene, den-tro me stesso. Il mio udito per queste cose è ancora finissimo e quando la vita tenta di confondermi non devo far altro che socchiudere gli occhi, concentrarmi ed ascoltarmi ancora più attentamente.Io davanti al portone ormai arrugginito della vecchia caserma ci sarò.Anche solo per abbracciare un vecchio collega AUC or-mai irriconoscibile, anche solo per abbracciare il lavan-dino della mia camera, o sorridere davanti alla turca che mi ha fatto dannare l’anima ogni mattina alle 6,30 in punto.Lo farò per me stesso, per sentire ancora l’aria della primavera tra i miei capelli.Per dire di non aver tradito i miei desideri ed affronta-re la fine dell’estate e tutto ciò che verrà davanti con il sorriso di allora.

Spengo la luce, mi avvio in camera da letto dove Anna dorme già: fa freddo con il pigiama a maniche corte, ma fortunatamente i calzini hanno fatto il loro dovere.

di Annunziata PetriniI ricordi di

TinaI folignati si difendevano dalla paura dei bombar-damenti pensando che le tre dita di San Feliciano fos-sero sufficienti a proteggerli. E invece il 22 novembre del ’43 iniziò la lunga serie dei bombardamenti. L’al-larme suonava spesso, ma la mia famiglia preferiva non lasciare la casa, finché, il 7 gennaio del ’44, una giornata fredda ma soleggiata, la Sora Peppa, proprie-taria della trattoria di Via Colomba Antonietti, pro-pone di andare in campagna dove, sicuramente, sa-remmo stati più sicuri. Preparato un po’ da mangiare, si parte; lungo la strada incontriamo tanta gente che come noi ha pensato di fare la stessa cosa. Usciamo da Porta Firenze e costeggiamo piante di more e campi appena lavorati che già ci davano l’illusione di essere fuori tiro. E invece ecco che suona l’allarme, gli aerei sono sopra di noi. Corriamo saltando tra un solco e l’altro, ma non per tutti è cosa semplice: la Sora Pep-pa stramazza con il grosso seno su un cumulo di terra,

suscitando, nonostante tutto, le nostre risate, perché cerchiamo di tirarla su, ma ricade dall’altra parte come una bilancia. Nel frattempo gli aerei sganciano bombe per ben tre volte finché nel tardo pomeriggio, pensando che ormai non tornino più, decidiamo di tor-nare a casa. Ma appena arrivati in piazza del Comune, ecco il quarto bombardamento; ci infiliamo sotto il ponte dell’orologio, ammucchiandoci l’uno sull’altro. Le bombe colpiscono il lato sinistro del Palazzo e la chiesa di San Feliciano: su di noi cade di tutto, pietre, sassi, fili della corrente, sembra la fine del mondo. Ci salviamo ma non c’è nessuno che non abbia almeno un graffio o un livido. In seguito decidemmo di rifugiarci nelle montagne in-torno alla Città, come molti altri folignati.

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SSTORIE

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Ricordo il fascino che ho subìto quando, per la prima volta dopo l’ingresso di un computer nella mia vita, ho riscoperto la polverosa macchina da scrivere di mio padre. Ho iniziato a sentire una morbosa attra-zione nei confronti di quell’oggetto che rendeva così tangibili le mie emozioni trasponendole, attraverso un processo assolutamente fisico, in qualcosa di altret-tanto fisico e reale. La stessa sensazione si è accesa in me quando mi sono imbattuta nelle lomocamere. Le immagini che vedevo fuoriuscire da quelle strane macchinette di plastica colorata, simili più a giocat-toli che a veri e propri strumenti fotografici, mi hanno affascinata sin dal primo momento. Sembravano non le copie di una realtà accesa e riprodotta con toni sbiaditi su carta fotografica, ma surreali visioni, tra-sposizioni di un qualche stravagante sogno.In un quotidiano dove l’imperativo è digitale, abbiamo permesso che ci fosse portato via, a poco a poco e senza protestare, lo spazio occupato dalle sbavature umane. Le nostre macchine fotografiche registrano al-meno centinaia di immagini ogni giorno e fanno tutto al nostro posto. Il nostro compito è solo quello di pre-mere un pulsante e immortalare il tutto, rinchiuden-dolo in una prigione binaria. L’anima di quei mo(vi)menti viene strappata via, scatto dopo scatto, per poi esserci restituita in maniera posticcia attraverso qual-che esperimento di natura cyber-chirurgica nelle sale operatorie di Photoshop. Ma cos’è di preciso la lomografia? Il marchio LOMO nasce nel 1914, a San Pietroburgo ed è, in lingua rus-sa, un acronimo per Consorzio Ottico - Meccanico di Leningrado. L’azienda russa era specializzata nella creazione di strumenti ottici avanzati, strumenti me-dici, lenti, macchine fotografiche e video camere. La maggior parte di questi, prodotti per essere utilizzati durante la prima guerra mondiale, seppe farsi veloce-mente strada anche all’interno del mercato consumer, considerati gli abbordabili prezzi allo scaffale, deri-vanti dai bassissimi costi di materiali e produzione.Passarono gli anni, il mercato fotografico si è evoluto e le compatte LOMO non furono più in grado di atti-rare l’attenzione di un pubblico alla ricerca di beni di consumo sempre più sofisticati e tecnologici. Così le “economiche russe” finirono la loro epoca di gloria,

alcune nella spazzatura, altre – le più fortunate – in soffitta e proprio una di queste sopravvissute raggiun-gerà, dopo chissà quali strane peripezie, la bancarel-la di un mercatino delle pulci a Praga. Siamo nel pieno degli anni ’90, circa due decenni dopo la nascita dei primi prototipi di fotocamere digitali; uno studente austriaco vaga tra le tante polverose reliquie esposte e finisce per incrociare accidentalmente lo sguardo accattivante della vecchia LOMO. Se la scena fosse stata descritta attraverso un film, ora ascolteremmo una colonna sonora composta da Danny Elfman che scorre sopra immagini sobbalzanti in bianco e nero: è amore a prima vista. Il ragazzo rimane ammaliato dalla resa particolare di questa bizzarra scatoletta in plastica e decide di portarla con sé a Vienna, dove diventerà oggetto di culto per tutti i suoi amici, subi-to affascinati – anche loro – dall’unicità dell’obiettivo che, molto simile ad un grandangolare medio, regala immagini dall’estrema luminosità e saturazione. Dal-la passione di un gruppo di studenti a fenomeno di nicchia il passo è breve ed ecco ben presto nascere il movimento lomografico che, come ogni movimento che si rispetti, stila il proprio decalogo etico la cui filosofia dal sapore Dada, è incarnata nella decima re-gola: “non ti preoccupare di queste regole”.L’ultima “vera” LOMO è uscita dalla fabbrica nel 2005, prodotta per conto della Società Lomografica Austria-ca, ma molti modelli di “nuove” LOMO, ognuno con particolari funzioni e caratteristiche, vengono fabbri-cati e rivenduti attraverso l’e-store del sito ufficia-le www.lomography.it. I prezzi delle macchine sono contenutissimi e ce n’è davvero per tutti i gusti, per plasmare su pellicola non semplici immagini, ma sto-rie di vita.Ad oggi il movimento lomografico è presente in quasi tutti i paesi del mondo, avendo colpito quella parte crescente di popolazione che sa ancora lasciarsi affa-scinare dalla plasticità d’uso e di resa dei film 120 e 35mm, perché in lomografia non ci sono né principian-ti né professionisti, è un mondo di soli amatori.

LOMOgrafiadi Eva Ballarani

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STORIE

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Lo spirito di contemplazione e la vicinanza spi-rituale con Dio ha sempre attratto molti cristiani che si sono ritirati in luoghi solitari, anche inarrivabili, per realizzare il loro anelito al misticismo e alla pace in-teriore. Ilario da Parigi (1888), nella sua opera sul Terzo Ordine Francescano, dedica un paragrafo agli eremiti, distin-guendo tra eremiti regolari, eremiti religiosi di obbe-dienza vescovile ed eremiti secolari che non avevano voti ed erano al servizio di un eremo di campagna o di montagna o di un piccolo oratorio situato in città. Un’ ulteriore distinzione va fatta fra eremiti anacoreti che vivono in solitudine, eremiti cenobiti che vivono in comunità ed eremiti girovaghi che si spostano da un posto ad un altro. Lo stesso autore presenta alcuni in-terventi del papa per impedire che gli eremiti secolari assumessero l’abito del terz’ordine o quello dei frati minori, in particolare quello dei cappuccini e cita al-cune disposizioni sinodali o della legislazione canonica che non riconoscevano più i terziari eremiti anacoreti come religiosi, ma soltanto come uomini pii a cui il parroco del luogo affidava la custodia di una chiesa o di un oratorio, dopo un’indagine del vescovo per esami-nare se il candidato avesse requisiti religiosi e morali per vivere in solitudine e per l’affidamento.Nel basso Medioevo una grande parte di santi locali è costituita da eremiti o da reclusi, asceti che appar-tengono allo stato laicale. Per citarne alcuni, beati e santi anacoreti che appartengono alla nostra regione sono Marzio da Gualdo Tadino, morto nel 1301, Giolo da Sellano, morto nel 1315 circa, Ugolino di Michele da Bevagna, Tommasuccio da Nocera, detto anche da Gualdo. L’Umbria diventa la patria di beati e santi ap-partenenti alla categoria degli eremiti anche nei secoli successivi; ne sono esempio il beato Antonio Ungaro, terziario francescano che svolgeva il suo eremitaggio in un ospitale della città e il venerabile Felice Angelico Testa da Bevagna, eremita presso una chiesa rurale. Non sono mancate donne eremite, nonostante i peri-coli a cui potevano andare incontro: la stessa santa Chiara d’Assisi, dopo l’esperienza monastica presso San Paolo delle Badesse di Assisi, si ritirò nel santua-rio di Sant’Angelo di Panzo sul monte Subasio, presso un cenobio femminile. La figura dell’eremita, custo-de dei santuari, si afferma durante la seconda ondata dell’eremitismo occidentale; gli eremiti terziari fran-

cescani, durante il Medioevo, erano addetti alla custo-dia non di santuari, ma di sorgenti, confini, torri, mura,

ospitali. L’eremitismo trasse nuova linfa con la Con-troriforma che indicò il modello dei padri del deserto come esempio da seguire, conciliando gli ideali della contemplazione con quelli della povertà. Gli eremiti vivevano praticando aspre penitenze, il digiuno prolungato, indossavano il cilicio e andavano scalzi sia d’estate che d’inverno e, con il loro zelo re-ligioso e la vita di povertà quasi assoluta, colpivano l’immaginazione del popolo che si recava all’eremo per essere liberato dalle malattie. Bastava l’imposizio-ne delle mani da parte dell’eremita o lavarsi nella sorgente dove aveva bevuto o toccare la sua tomba, per sentire di nuovo il corpo sano e l’anima libera dal peccato.

Eremitidi Michela Ottaviani

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“Così spietato! Ma era pur sempre un cardinale!” Radi passanti intreccia-vano rare parole nell’ora di canicola. “Un’ecatombe, ti dico. Strangolati nella rocca di Soriano, Corrado, Nicolò e Ugo-lino.” “Strangolati?” “ Sì, strangolati, stroz-zati, così finirono i Trinci e a Foligno, a furor di popolo furono uccisi altri tre figli di Corrado, Ugone, Cesare e France-sco.” “Mi piace come racconti la storia, una tragedia.” Colombi, cauti, tubavano lenti su una cimasa dissestata. La via aveva lastre sbriciolate ai perimetri sghembi. Geo-metrici panni a fil di finestra asciugava-no al sole i loro tersi lini. Mi piaceva il silenzio che impigriva il racconto, quasi a dire che il tempo scalfisce i muri an-che con il suo implacabile alito muto. “Ma perché tanta ferocia?” “Il cardinal Giovanni Vitelleschi ebbe l’incarico di abbattere i Trinci, che erano diventati pericolosi per la Chiesa, catturò Corra-do, il figlio Nicolò, la figlia e il genero e li imprigionò nell’abbazia di Santa Maria in Campis, nominò vice governatore di Foligno Pietro Vitelleschi e gli assegnò beni e posse-dimenti dei Trinci, rimosse il podestà e lo sostituì con Cristoforo Crespida da Corneto, depredò palazzo Trin-ci.” Un colombo volò sul filo dei lini, artigliandolo con equilibrio di acrobata. La forza con cui ferrava l’appi-glio pareva più di falco che di placido volatile. Aveva occhi rossi, fieri e guardava con lampi di sfida.“Non solo, ma cacciò nelle galere di Civita Castellana prima e in quelle orride di Tor di Nona anche l’abate di Sassovivo, Giacomo Trinci. Erano giorni di settem-bre del 1439 e sulle mura di Foligno batteva un’arcana tramontana e volavano i tori, come voleva un’antica profezia che poneva fine al potere dei Trinci.” Il co-lombo sgranava occhi cerchiati di rosso ancora, ma do-cili, quasi di trepida preda. Il sole prigioniero di muri disegnava arabeschi d’ombre e arazzi di fuoco e una lucertola incerta stentava a fuggire al nostro passo in-discreto. “Morì anche lui, di veleno, il cardinal Giovan-ni Vitelleschi, che aveva sottomesso alla Chiesa signori

illustri come i Varano, i Savelli, i Cae-tani, i Vico, i Colonna ed altri. Fu cat-turato e imprigionato a Castel Sant’An-gelo il 19 marzo del 1441 e avvelenato il 2 aprile dello stesso anno.” “Troppo potente, forse?” “Non si seppe mai da chi gli fu fatto il regalo del veleno, forse da un oscuro carceriere ignaro, dentro una saporita vivanda, a premio di tanta fedele militanza.” Crollava le piume il colombo sul filo dei lini, forse punto da qualche ispido insetto e con rapido volo conquistò un pennone più alto e l’occhio dilagava verso concavi tetti. “Ma una via per lui?” “Era pur sempre un cardinale e un invincibile uomo d’arme d’altri tem-pi, ma forse la dedica è per il casato, per il palazzo, bellissimo, rinascimen-tale, guardalo è lì, testimone di storie ancipiti. I Vitelleschi nel XIV secolo era-no una famiglia di ghibellini e Puccia-rello di Giacobuccio Vitelleschi ne era il capo, ma fu cacciato da Foligno con tutta la sua famiglia da Trincia VII, per-ché accusato di aver congiurato contro di lui. Si stabilirono a Corneto, l’odierna Tarquinia. Ma non fu solo il cardinal Gio-vanni l’esponente più noto: dolce, gen-

tile, di eletta moralità e di alte doti intellettuali, Maria Battista, nata nel 1696 da padre Vitelleschi e da madre Barnabò, fu una colta poetessa, molto stimata al suo tempo tanto è vero che alcuni suoi delicati sonetti sono presenti in varie raccolte, edite fra il 1720 e il 1726 a Ferrara, intitolate “Componimenti poetici delle più illustri rimatrici di ogni secolo”. Ebbe per maestro Battista Boccolini, professore di lettere umane e segre-tario perpetuo dell’Accademia dei Rinvigoriti. La mor-te, purtroppo, la strappò giovanissima ad una gloria più duratura, poiché morì a ventinove anni, nel 1725”. La lucertola era scappata in un’ombra quasi fredda del muro rasposo e il colombo sull’alto pennone ammaina-va la testa tra le piume del petto. Lontani cavalli zoc-colavano al tempo il loro incontenibile impeto, mentre un fine dicitore infiorava la via di aerei endecasillabi.

Le note storiche sono tratte da: M. Tabarrini, “L’Umbria si racconta”, Assisi, 1982

Via Vitelleschidi Stelvio Sbardella

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STORIE

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Nel primo anno di incarico quale dirigente scolastico a Cerreto di Spoleto in Valnerina, parlo dell’anno scolastico 2001/2002, tante furono le novità, tante furono le esperienze, tanti i problemi e le apprensioni, ma tante furono anche le conquiste e le soddisfazioni personali. Passare dall’attività di insegnante di matematica e fisica nei licei a dirigente di

un istituto comprensivo di montagna fu veramente una esperienza inimmaginabile: passare dall’insegnamento a ragazzi con una logica di lavoro per lo più acquisita e dalla personalità ben delineata all’organizzare ed indirizzare le attività didattiche per bambini della scuola materna e per ragazzini delle elementari e delle scuole medie non è cosa facile; per lo meno per me non lo fu affatto.Dovevo restare in Valnerina per poco tempo; è, questo corrente, invece, il decimo anno che la frequento.

L’istituto copriva e copre tuttora il territorio di quattro piccoli comuni montani, ognuno con le proprie tradizioni da rispettare e tutti in competizione fra loro: Scheggino, Sant’Anatolia di Narco, Vallo di Nera e Cerreto di Spoleto.Si può immaginare la quantità di episodi, aneddoti, situazioni particolari, conoscenze, fatti positivi e

no che in questi anni si sono accumulati. Uno in particolare, avvenuto proprio nel primo anno della mia presenza in Valnerina, mi torna spesso in mente e mi capita sovente di raccontarlo.In un giorno prossimo al Natale del 2001 nel mio solito giro per i vari plessi scolastici, decisi di fermarmi alla scuola elementare di Sant’Anatolia di Narco e vi arrivai proprio durante la ricreazione. Nel marasma generale che si può facilmente immaginare mi venne incontro una insegnante che con l’espressione di chi dice … era ora, mi supplicò di riprendere un ragazzino della classe III° perché “mozzicava”(!) tutti, ma proprio tutti.Non sono molto adatto a fare rimbrotti, feci, comunque, quello che potei; il ragazzino mi ascoltava con malcelata insofferenza. Finita la paternale rituale, visto l’avvicinarsi delle festività natalizie, in un improvviso impeto pedagogico

ebbi inconsciamente l’ardire di aggiungere: se d’ora in avanti ti comporterai bene a Natale ti farò un regalo. A questo punto il ragazzino scomparve nel trambusto generale, con un risolino sulle labbra.Passarono pochi secondi e mi si ripresenta lo stesso ragazzino accompagnato da un suo compagno di classe, anche questo dall’aria vispa e impertinente e con i capelli dritti per il gel. Quest’ultimo con un’aria da impunito mi si avvicina e mi fa : preside, però qualche volta “mozzico” anch’io.

di Mario Barbetti

Qualche voltamozzico anch’io

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SSTORIE

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Liberos p a z i o

I racconti di Libero Pizzoni

GIALLO - Le scarpe di papàUn altro centesimo. Ne mancavano pochi, poi la sca-tolina ne avrebbe ospitati quanti bastavano per quel superbo paio di scarpe che sognava da sempre. Ogni viaggio un centesimo. Qualche mattina, prima di anda-re a scuola, riusciva anche a farne due, sempre che il mulo non sudasse troppo e che il caricamento del car-retto con la rena umida fosse stato abbastanza veloce. Non gli dispiaceva alzarsi presto la mattina, e poi con il mulo andava d’ accordo, era il buio che lo spaventava, specialmente quando doveva fare la strada del cimite-ro. Ma i soldi servivano a casa, e la parte che spettava a lui, quel centesimo, avrebbe fatto la differenza tra un bambino scalzo e un ragazzo con eleganti scarpe ai piedi. Aveva fatto bene i conti, ancora pochi dialoghi con il mulo lungo quei solitari tragitti e per la fiera di settembre.... Per la fiera di settembre trovò il salva-danaio vuoto e i piedi di Peppe, il fratello maggiore, fasciati da un bel paio di scarpe nere. La madre, nonna Italia, aveva deciso che i figli andavano rivestiti e cal-zati in ordine di nascita, non importava con i soldi di chi. Evidentemente la convivenza con il mulo a qualco-sa era servita perché fece due cose : si fissò in mente un’altra data, aprile del prossimo anno, e ricominciò a contare i centesimi. E così, finalmente, ad aprile, alla cresima, in fila con gli altri, camiciola bianca e giacca blu - sbocciata magicamente da una usata dello zio Checco - lui solo indossava un allucinante paio di scarpe gialle, un cazzotto in un occhio tra le altre tut-te rigorosamente nere. Loro avevano cercato in tutti i modi di convincerlo che era il nero il colore giusto per una cresima, ma loro non sapevano che erano quelle scarpe, quelle gialle che da sempre lui e il mulo aveva-no deciso di comprare.

BIANCO - LeandroAl saluto : Ehi vecchio come va ? - rispondeva sempre: - Vecchio a chi? -. Infatti aveva un animo giovane, era un giovane dai capelli bianchi, e soprattutto era un gio-vane buono. Alzi la mano chi ricorda un suo litigio, non una incazzatura come è normale che avvenga, ma un vero e proprio scontro finito a parole grosse o magari a botte. Alcune cose le aveva portate a termine tardi, lui era del ‘21, come se i suoi capelli, candidi fin da giovane, gli avessero detto che il tempo non ha impor-tanza. La patente l’ha presa, credo, nel ‘69 e doveva far pratica di guida, ma o per gioco o sul serio erano pochi quelli che si fidavano di sedergli accanto ve-dendolo emozionato e impulsivo come un diciottenne. Sono stato una dei pochi che si è sacrificato e so che nel suo intimo mi ha sempre ringraziato e apprezzato per questo. Anche il matrimonio è venuto tardi, e così per guadagnare il tempo perduto si è trovato sposo, pa-dre di tre figli e ben presto nonno, assolvendo in modo egregio tutte e tre le funzioni. Aveva le mani d’oro, quando ti massaggiava i muscoli indolenziti o ricuciva un pallone, quando aggiustava il tubo dell’idrante con un pezzo di fil di ferro o spargeva il cloro nella vasca grande; poi, a sottolineare l’impresa compiuta, guar-dava, sorrideva e se le baciava, una per volta. La sua casa era la piscina, il suo giardino il campo, è vissuto lì, all’aperto insieme a centinaia di ragazzi, penso proprio che abbia avuto un gran culo.

Racconti tratti dalla raccolta “Colori 6.6.1944 - 6.6.2004”

Soltanto se non siete mai stati al Supercinema potete non ricordare Peppino: piccolo, magro, sempre affa-bile, garbato, riservato. Gentilissimo. Ecco. Peppino non c’è più. Non aveva neanche cinquant’anni, ma non c’è più. Quest’estate è andato in ferie, ha salutato i suoi colleghi, “buone vacanze a tutti”. Non è tornato. E’ uscito di scena con la stessa riservatezza che lo aveva sempre contraddistinto. Anche noi vogliamo ricor-darlo con discrezione, perché così avrebbe voluto.Ma vogliamo ricordarlo. c.o.

Ciao, Peppino

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STORIE

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00di Valentina Silvestrini

Al mercato di Foligno, quello autentico di Piazza del Grano, gli ambulanti che incontri hanno una bella carnagione colorita già ad aprile. Al mattino presto partono da Sterpete, Borroni e da altri paesi limitrofi e trasportano sui piccoli rimorchi dei loro Ape Piaggio insalata, carciofi, fagioli e fiori di produzione propria. Da qualche tempo, al loro arrivo nel centro città, c’è una nuova scenografia ad accoglierli: al rassicurante ed apprezzato fondale di sempre, si affiancano tensostrutture modulari ed una pavimentazione bicroma. Sono socievoli e sorridenti, proprio come ti aspetti da chi sta al pubblico ed ognuno di loro, sotto la porzione di ombra assegnatagli dal regolamento comunale, sistema quanto coltivato in orti e serre di proprietà. E poi attendono. La madre di famiglia, la nonnina, la signora con il velo, attendono prevalentemente donne di una certa età che li preferiscono agli eccedenti centri commerciali locali, anche in nome della tipica garanzia di genuinità. Gli ambulanti di Piazza del Grano sono accomunati da una particolare devozione verso l’idea di “fare il mercato lì”, esattamente lì, in quella zona di Foligno che molti di loro frequentano da quasi cinquanta anni. Nei loro racconti svelano l’attaccamento e il rispetto per quella area di città che gli appartiene in maniera

esclusiva solamente nell’arco limitato di un mattino. L’essere un agricoltore e poter vendere la propria merce qui, per molti ha coinciso con la possibilità reale di vendere e mantenersi.

Dopo un breve giro tra loro, sono gli occhi chiarissimi di un pensionato di Assisi a permanere nella mia memoria. E’ lui a farmi immaginare una dimensione che non è quella attuale per questo mercato, un passato recente in cui ciascuno portava da casa un parasole colorato e si faceva la propria ombra in autonomia. Era il tempo in cui i compratori era più numerosi e le vendite andavano meglio: per lui erano soprattutto gli anni in cui a fare il mercato c’era sua madre. Ora lui ha preso il suo posto, con la soddisfazione di chi porta avanti una storia di famiglia:“Non mi sento un commerciante, sebbene venga qui per vendere, come tutti gli altri. Io amo produrre, occuparmi delle piante, faticare dentro la mia serra e, giorno per giorno, vederle tutte insieme come stanno, come crescono. E poi, alla fine sceglierle per la gente, perché possano abbellire i loro giardini, le case. Per fare questo ho bisogno della piazza ed infatti ho continuato ad essere presente anche quando erano in corso i lavori e stavamo tutti vicinissimi, quasi accampati!”

Vorrei concludere questa breve trattazione con una speranza ed una rassicurazione.La speranza è che gli interventi condotti a Piazza del Grano possano dare il proprio contributo all’annosa causa della rivitalizzazione del centro storico. Anche se ci si ricorda di quanto sia piacevole girare tra i banchi di mercati temporanei prevalentemente in occasione delle rievocazioni storiche, sarebbe una grande risorsa non solo economica, ma anche di immagine incrementandone il nostro mercato per eccellenza, potenziandone le presenze, come avviene a Lucca, come avviene a Bolzano.Ed infine, nonostante la pressoché totale assenza di pollice verde, il geranio rosso che mi è stato regalato il giorno della visita al mercato sopravvive ancora in terrazzo, facendo bella mostra di sé. Grazie!

Valentina da Foligno, Perugia, Italia

39ed Elisa Brandi

Sono socievoli e sorridenti, proprio come ti aspetti da chi sta al pubblico

ed ognuno di loro,

sotto la porzione di ombra assegnatagli dal regolamento comunale,

sistema quanto coltivato in orti e serre di proprietà.

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SSTORIE

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Quando mi chiedo a cosa è servito questo inutile e solitario soggiorno a Misiones, oscura regione argentina ricoperta da inestricabile selva e senza quasi nessuna attrattiva turistica, situata al confine tra Argentina, Brasile e Paraguay, mi rispondo senza esitazione: a visitare le maestose cascate del fiume Iguazù, e a incontrare Carlos. Carlos, 58 anni, dentatura esuberante, in apparenza è “verdulero de calle” (fruttivendolo ambulante) e maratoneta, ma nella realtà, è un filosofo antico sotto mentite spoglie, un Seneca travestito da contadino, il sacerdote in incognito di un’antica civiltà mesopotamica. Tutti giorni, andando e tornando dalla biblioteca, passo davanti all’angolo che Carlos ha “colonizzato” con le sue cassette di frutta e verdura: tra il “Banco de la Naciòn Argentina” e la stazione di servizio. Immancabile giacchetta azzurra, pantaloncini corti e sandali, imperturbabile serenità, sia con quaranta gradi all’ombra, nei giorni di sole, che sotto le furiose tempeste subtropicali (in questo caso, all’abbigliamento abituale aggiunge un cappellino giallo). Non potevo non intervistarlo Elisa: “Cominciamo da una domanda difficile. Chi ruba perché ha fame è un peccatore?” Carlos: “Questa non è una domanda difficile. Io sono cristiano cattolico praticante e so che cosa è il peccato! Chi ruba per mangiare non è, assolutamente, un ladro. È un peccatore colui che ruba per avidità, per possedere più di ciò di cui ha bisogno. Dovresti leggere un libro, “I Miserabili” di Victor Hugo: è la storia di un uomo che viene imprigionato per aver rubato del pane.”Elisa (un po’ umiliata, dovendo ammettere di non aver mai letto “I miserabili”): “E allora, che cos’è che bisogna fare per essere buoni cristiani?” Carlos: “Dormire bene.”Elisa (incredula): “Dormire bene?”Carlos: “Si, dormire bene. La morale è come l’orto. Bisogna lavorarci, ogni giorno un po’, tutto l’anno. E, come l’orto, più ci lavori, più produce. Quello che bisogna fare è facile: adempiere i propri doveri di cittadino, studiare quando si è giovani, essere laboriosi quando si è adulti, occuparsi della famiglia, aver cura degli amici e non mentire. E fare fatica, fatica fisica. Niente di più: allora si dorme tranquilli e non ci si sveglia di notte. Chi dorme bene, vuol dire che di giorno ha lavorato. Quindi, per verificare se sei stato o no un buon cristiano, pensa a come dormi di notte”.Elisa: “E il diavolo esiste? Dove sta? Come si riconosce?”Carlos: “Si, il diavolo esiste e abita in alcune persone. Fare la guerra ad un paese per ottenere le risorse minerarie o il petrolio, come è successo in Iraq, è opera di governanti dal cuore dominato dal diavolo. Promuovere guerre per vendere armi ai paesi in conflitto, armi che io produco, per arricchirmi, è opera del diavolo”.

Elisa: “Passiamo alla politica, allora. Cosa conosci della politica italiana?”Carlos: “Berlusconi, è ovvio. Dell’Italia, non si conosce quasi nient’altro: la geografia, l’economia, le città d’arte… non se ne sa nulla. C’è solo Berlusconi, che occupa tutto lo schermo con un enorme sorriso, e dell’Italia, che gli sta dietro, non inquadrano mai niente! Incasso il colpo. Ma voglio vendicarmi: “Parliamo di politica argentina! Spiega ai nostri lettori che cos’è il peronismo”.Carlos: “Negli anni ’70, il presidente Peròn mise in atto una grande rivoluzione sociale a favore della classe dei lavoratori, dei più poveri. Fu istituita la previdenza sociale, fu fissata la giornata lavorativa di otto ore: prima si lavorava dal sorgere del sole fino al tramonto. Inoltre diede finalmente il diritto di voto alle donne. Ma con gli anni, il peronismo diventò demagogia. I politici iniziarono a “regalare cose” agli elettori: per guadagnare voti, promettevano sempre più programmi di assistenza sociale, sempre più finanziamenti e fondi sociali. Ed ancora oggi, uno dei maggiori problemi dell’Argentina è che i politici, per essere eletti, promettono aiuti sociali, non riforme strutturali. E gli argentini si comportano come bambini a cui uno sconosciuto regala caramelle: finite le caramelle, il bambino va via.”Elisa: “Tu lavori tanto però! Sei sempre qui, dall’alba alle nove di sera, con le tue cassette di verdura”.Carlos: “Lavoro tanto perché sono povero! Devo mangiare e mantenere la mia famiglia! Però per fortuna ho la possibilità di lavorare. Ci sono persone che sono povere e che non possono lavorare, perché sono malate o anziane. Quelli sì che sono sfortunati e vanno aiutati. Io no, sono povero ma posso lavorare: questa è una grande ricchezza. Sono un maratoneta, guarda che fisico!”.Rido. In effetti, è proprio un maratoneta: piccolo, magro e cocciuto. Uno che corre 42 chilometri con questo caldo afoso micidiale non può che essere il grande erede degli Stoici. Parliamo ancora per un po’, poi cominciano ad arrivare dei clienti, e io ringrazio Carlos e lo saluto, e lui: “Hasta manana, hija”. Carlos vi manda un messaggio ed io ve lo riporto fedelmente: “No dejes que tu corazòn anide el odio o el rancor”. Elisa da Eldorado, provincia di Misiones, Argentina

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Questo numero di Chiaroscuro è distribuito nei seguenti esercizi commerciali della città: Libreria Salvalibro, via Gentile da Foligno 80Libreria Carnevali – 3 libretti sul comò, via Mazzini 47Libreria Luna, via Gramsci 41Cartolibreria – edicola di Maggi Marzia, Corso Cavour 94Giocartoleria, via Sportella Marini 1Cartolibreria La Nave, via Monte Cervino 8/aEdicola Fantasia 92 di Capelli Riccardo, via Raffaello Sanzio 4/8 (Sportella Marini)

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Comitato di redazioneClaudio Stella, Giorgio Raffaelli, Carla Oliva, Rita Barbetti, Eleonora Doncecchi,

Marta Pacini, Gabriele Contilli, Riccardo Caprai, Alessio Vissani

RedazioneLuigi Adriani, Marta Angelini, Serena Angelucci, Mario Barbetti, Federico Berti, Claudia Brandi,

Elisa Brandi, Anna Cappelletti, Daniela Cerasale, Katia Cola, Adalgisa Crisanti, Paola Favilli, Maria Paola Giuli, Giovanni Manuali, Maria Sara Mirti, Paola Nobili, Michela Ottaviani, Alessandro Perugini, Libero Pizzoni, Tania Raponi, Serena Rondoni, Andrea Sansone,

Stelvio Sbardella, Valentina Silvestrini, Ernestina Spuntarelli, Carla Tacchi, Cinzia Tomassini, Dario Tomassini, Luciano Trabalza, Rocco Zichella

Hanno collaborato a questo numeroFabio Bettoni, Mirko Vegliò, Fausto Scassellati, Giulia Capacci, Candida Pepponi,

AnnaMaria Guidi, Annunziata Petrini, Eva Ballarani

Realizzazione della copertina a cura di Semiserie, laboratorio tipografico di fantasia di Francesca De Mai e Micaela Mariani - ww.semiserie.com; e mail: [email protected]

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