chiaroscuro numero 3

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Pag.1 chiaro chiaros scuro curo S 3 Maggio 2010 chiaro chiaros scuro curo NUMERO S Sommario Zuccherificio 2004-2010 Intervista a Giorgio Raggi 30 anni di incuria e di degrado Cominciava a Settembre Intervista a Joseph Flagiello La privatizzazione dell’acqua For big mistakes 0039 In tutti i respiri che ti ho preso Io volontario a Paganica Lu saponaru Dream’s museum Un grande scultore umbro Via Bechelli Un’anima di ferro Anita Cerquetti Sguardi Incrociati: Eros Impronte Quando i bianchi rubano il cuore ai bambini MIVERGOGNO Libero spazio Come foglie di quercia Quella donna all’angolo del tavolo Il blog di zia Nerina La primavera non c’è più Penelope a Rasiglia La santità è dappertutto L’abisso di Bevagna Il museo di Valtopina Cosa succede in città 3 4 6 7 8 10 12 14 16 18 19 20 22 23 24 26 28 31 32 34 35 36 38 40 41 42 44 45 46 47 IDEE 10 La privatizzazione dell’acqua 19 Lu saponaru STORIE 4 PERSONE Intervista a Giorgio Raggi /Slow Press

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ChiaroScuro numero 3

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Pag.1chiarochiarosscurocuro

S

3Maggio 2010

chiaro

chiarosscuro

curo

NU

MER

O SSommario

Zuccherifi cio 2004-2010Intervista a Giorgio Raggi

30 anni di incuria e di degradoCominciava a Settembre

Intervista a Joseph FlagielloLa privatizzazione dell’acqua

For big mistakes0039

In tutti i respiri che ti ho presoIo volontario a Paganica

Lu saponaruDream’s museum

Un grande scultore umbroVia Bechelli

Un’anima di ferroAnita Cerquetti

Sguardi Incrociati: ErosImpronte

Quando i bianchi rubano il cuore ai bambiniMIVERGOGNOLibero spazio

Come foglie di querciaQuella donna all’angolo del tavolo

Il blog di zia NerinaLa primavera non c’è più

Penelope a RasigliaLa santità è dappertutto

L’abisso di BevagnaIl museo di ValtopinaCosa succede in città

3467810121416181920222324262831323435363840414244454647 IDEE

10La privatizzazione dell’acqua

19Lu saponaruSTORIE

4PERSONEIntervista a Giorgio Raggi/S

low Press

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Claudio Stella[Editoriale]

Autorizzazione Trib. Perugia N. 35/2009

Direttore responsabile: Guglielmo CastellanoDirettore editoriale: Claudio StellaImpaginazione e grafi ca: Riccardo Caprai, Gabriele Contilli Stampa: La Tipografi ca, via Flaminia 40, Bevagna

Bimestrale dell’Associazione Chiaroscurole immagini che salvano il mondo

Copertina a cura di “Semiserie” laboratorio tipografi co di fantasia

Stacca e conserva la sovracoperta:una piccola edizione artigianaleda rilegare seguendo semplici istruzioni.

In questo terzo numero di ChiaroScuro diamo ampio spazio al tema dello zuccherifi cio. Ospitiamo infatti ben sei articoli e lo facciamo ben consapevoli che l’argomento è di grande inte-resse e di grande delicatezza. Sono passati trent’anni dalla chiusura dello stabilimento, siamo co-scienti che l’operazione sia molto complessa perché investe tanti ambiti che vanno a intersecarsi tra di loro, da quello urbanistico a quello architettonico, da quello fi nanziario a quello commer-ciale, passando per quelli altrettanto cruciali della viabilità e della armonizzazione con il centro storico a cui, non lo dimentichiamo, l’area dello zuccherifi cio risulta di fatto inglobata. Tale complessità spiega ma non giustifi ca l’enorme lentezza. Diciamocelo francamente: quelle rovine sempre più degradate costituiscono un “vulnus” estetico e civico per la nostra comunità, offrono un pessimo biglietto da visita ai visitatori che entrano a Foligno e trasmettono alla cittadinanza un senso frustrante di stasi e di inerzia. C’è anche la percezione diffusa che nella gestione della vicenda sia mancata la giusta trasparenza o, quantomeno, un’adeguata effi cacia comunicativa. Nell’intervista al Presidente del Consiglio di Sorveglianza di Coop Centro Italia, Giorgio Raggi, si nota una forte volontà operativa, non disgiunta da una certa propensione polemica nei confronti dell’amministrazione comunale. Dal canto suo, l’assessore Flagiello mostra la convinzione che gli scogli più diffi cili siano stati superati e che in tempi brevi il Grande Progetto possa diventare ese-cutivo. Ci auguriamo vivamente che sia così: Foligno è stata valorizzata dalla ricostruzione post-sismica e meriterebbe che l’area dell’ex zuccherifi cio diventasse il suo fi ore all’occhiello. Giorgio Raggi ci ricorda (ma non ne avevamo il minimo dubbio) che la Coop è “un’impresa, non un ente di benefi cenza”; però confi diamo che quello del profi tto non sia l’unico criterio a improntare di sé lo spirito dell’operazione. Federico Berti, nel suo articolo, ci enumera le tante testimonianze di brillanti interventi di riqualifi cazione avvenuti nel settore degli ex opifi ci: centrali elettriche o stazioni che diventano musei, grandi mulini che diventano bellissimi complessi residenziali. Sa-rebbe molto deludente se il nostro zuccherifi cio diventasse “solo” un nuovo centro commerciale.

Virando bruscamente, voglio concludere questo editoriale con un omaggio a una persona straordinaria, che purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere personalmente. Il dieci aprile, a Villa Fabri di Trevi c’è stata la presentazione del libro “Impronte”, che raccoglie gli scritti di Corinna Angelucci (a pagina 33 c’è un bell’articolo di Serena Angelucci su di lei). Corinna se ne è andata lo scorso anno, dopo un’esistenza dominata dalla sua lotta tenace contro la malattia: una lotta dolorosa ma piena di sole e di poesia. Il suo libro è una storia di amore per la vita, una passione struggente e inesauribile per i colori, i profumi del mondo. Due suoi bellissimi versi re-citano così: “Che possa la terra/ ereditare la mia anima”. La nostra anima di creature pensanti è sempre più ricca e complessa delle parole con cui proviamo a raccontarla, ma queste parole sono comunque una preziosa eredità, qualcosa che resta e che continua miracolosamente ad essere vita. Insieme ai mille ricordi di chi ha avuto il privilegio di amarla.

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SIDEE

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ANNO 2004La nostra storia comincia in un’afosa giornata di ini-zio luglio del 2004. Nella sede principale dell’allora Circoscrizione cittadina numero 3 “Viale Firenze-Su-basio-Agorà”, presso il prefabbricato di Via Mameli, è in programma un’assemblea nella quale la nuova Am-ministrazione Comunale (appena insediata, le elezioni si sono tenute poche settimane prima) illustra il pro-getto di riqualifi cazione dell’area dell’ex Zuccherifi cio. Sono molti i “big” presenti: ci sono il vicesindaco, il capogruppo al Consiglio Comunale del primo partito cittadino con molti suoi compagni di partito e colleghi di scranno, praticamente l’intero consiglio della circo-scrizione interessata eccetera eccetera. Ma, sorpresa delle sorprese, ci sono anche molti “semplici” citta-dini, persone che vivono e lavorano nelle vicinanze e sono quindi molto interessate a capire cosa propone la nuova amministrazione. L’argomento è molto delicato, dal momento che da quando lo Zuccherifi cio ha chiuso i battenti su quell’area si è discusso ininterrottamen-te, ed ora sembra che fi nalmente ci siano idee valide su come riqualifi care quell’area. A condurre le danze sono l’appena insediato Assessore all’Urbanistica Jose-ph Flagiello e l’architetto Luciano Piermarini, che ha coordinato tecnicamente il progetto detto “Il Campus” e di cui si sono occupati, come soggetti principali, il Comune di Foligno e la Coop Centro Italia (proprietaria di quell’area), con la collaborazione anche dell’Uni-versità di Perugia. Non appena l’assemblea inizia, si nota subito una cosa chiara: Flagiello e Piermarini si prodigano a illustrare il progetto nei dettagli, i pregi e i possibili difetti, le migliorie che si possono ancora fare e i punti fermi, e tra i cittadini presenti gli sguardi si fanno prima perplessi poi infuriati, e scatta quello che in gergo tecnico folignate si defi nisce “pullaru” (in “aulico”, pollaio).Il risultato è che pochi riescono a capire cosa preveda veramente il progetto. L’impressione che un po’ tutti i presenti hanno è quella di un’idea un po’ troppo ambi-ziosa per la città: si prevede una grande area residen-ziale, un centro commerciale ovviamente marchiato Coop, qualche alberello piantato, come si dice in “au-lico” folignate, a là cianfraciò, uffi ci e una non meglio identifi cata sede universitaria. Il progetto non piace alla cittadinanza, che però critica tutto a prescinde-re. Addirittura c’è chi, non si fanno nomi per carità

di patria, arriva fi no a minacciare una crisi di giunta a meno di un mese dalle elezioni se i rilievi in quella sede effettuati non fossero accolti da “chi comanda ai piani alti”. Ma il risultato concreto è un altro: il progetto dopo pochissimo tempo sparisce dalla circolazione e sullo Zuccherifi cio si ricomincia a tacere.

ANNO 2010Sono trascorsi 6 anni dall’assemblea in cui si è discusso dei destini dello zuccherifi cio.Per certi aspetti pare che siano trascorsi 100 anni, i cento anni della favola “la bella addormentata nel bo-sco”. Ricordate? Oltre all’addensarsi di una fi tta fo-resta, intorno al castello si addensa anche la nebbia dell’oblio. Così il principe, che chiede alla gente cosa accade all’interno del bosco, riceve molte risposte confuse e difformi dal vero, e dovrà vagare a lungo, prima di trovare una persona molto vecchia, che aveva custodito il ricordo tramandatogli dal padre: nel ca-stello giaceva una bellissima principessa addormentata da cento anni.Il paragone sembra ardito? Forse lo è, ma mi è venuto in mente perché in questi anni ho verifi cato che moltis-simi cittadini con i quali mi sono trovata a parlare dello zuccherifi cio, hanno pochissime informazioni sui pro-getti riguardanti quell’area, che tali informazioni sono talvolta molto confuse e spesso assolutamente errate.I più giovani, poi, conoscono davvero poco della storia passata dello zuccherifi cio, sia delle vicende remote, sia di quelle recenti, ma sanno ancor meno di ciò che si prevede per il futuro.Tutti comunque sembrano convinti che ancora le deci-sioni siano lontane, anche perché non sembra possibile che si attui un cambiamento tanto consistente all’in-terno della città, senza che ci sia una reale partecipa-zione e diffusione degli obiettivi e delle modalità di realizzazione.Pertanto ho ritenuto opportuno ampliare ulteriormen-te questa sorta di campione di persone interpellate, sistematizzando domande e risposte e applicando un metodo e un rigore che dia a queste voci il diritto a una reale considerazione. Le interviste che sto raccoglien-do coinvolgono molte persone di ogni professione, età e posizione politica. Il numero di settembre di Chiaro-scuro conterrà i risultati di questa indagine.

Zuccherificiodi Alessandro Perugini e Anna Cappelletti 2004-2010

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IDEE

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Presidente perché da anni ormai si sta fermi in una delle aree più strategiche della città?La storia è illuminante per capire la stasi di questi ul-timi 5 anni. Ripercorriamola sinteticamente: nel 1997 il Consiglio Comunale di Foligno adotta il nuovo P.R.G. Nell’area dello zuccherifi cio sono previste superfi ci commerciali e per pubblici esercizi pari a mq 13.033, superfi ci direzionali pari a mq 8.408, superfi ci per l’at-tività di formazione pari a mq 4.204 e superfi ci abita-tive pari a mq 16.397. È altresì previsto che un mar-chio commerciale – con nome e cognome – si trasferisca nell’area.Coop fa osservazioni avverso le previsioni di piano: troppe le cubature previste per stare nel centro storico e troppo forte la forzatura di creare una posizione di rendita a un competitor. Nessun altro soggetto intervie-ne. Le osservazioni non vengono accolte: al momento dell’approvazione del Piano Regolatore si ripara però all’evidenza di avere descritto il marchio del concor-rente e, senza nominarlo, si lascia – inserendola nello stesso comparto – una posizione di rendita allo stesso favorevole. Coop Centro Italia ricorre al TAR avverso la previsione di Piano Regolatore: nessuno a Foligno con-testa a quel momento le volumetrie previste nell’ex zuccherifi cio né le destinazioni delle superfi ci. Coop perde il ricorso al TAR: nel frattempo l’area – acqui-sita dalla società Foligno 2000 di cui sono proprietari in parti uguali quattro imprenditori locali – è oggetto di trattativa con diversi interlocutori extraregionali. I destini dell’ex zuccherifi cio sono nelle mani del merca-to: il tentativo – magari pio nelle intenzioni ma vacuo sul piano della realizzabilità concreta – di pianifi care a tavolino l’evoluzione del territorio si trasforma nel suo esatto contrario. È a questo punto che Coop decide di acquistare: se è il mercato che deve decidere, decida il mercato. Diventata proprietaria dell’area Coop pre-senta nel 2004 un piano attuativo nel puntuale rispetto delle previsioni e superfi ci del PRG: il piano viene pri-ma adottato e poi approvato nel marzo 2005.

Oggi a che punto siamo?Siamo sostanzialmente ancora a quel punto: fi rmata la relativa convenzione nel novembre 2005 ci è stata ri-lasciata solo l’autorizzazione a demolire a settembre 2009. Ad oggi stiamo ancora aspettando l’autorizzazio-ne per procedere a realizzare le opere di urbanizza-

zione. Null’altro: il resto è storia di 5 anni di carte infi nite che hanno fatto migliaia di chilometri da un uffi cio all’altro della Pubblica Amministrazione toccan-do decine e decine di uffi ci, controlli, pareri, verifi che, all’interno dello stesso Comune e poi in Provincia e poi alle Ferrovie, poi all’Ente di bonifi ca, poi all’ASL, poi all’ARPA, poi all’ENEL, poi alla VUS, poi alla Soprinten-denza.

Qual è l’approccio di Coop Centro Italia nel rapporto con la città?Si badi bene: Coop, già nel 2004, si era fatta carico di ridurre le volumetrie previste nel PRG – in coeren-za con l’assunto iniziale delle osservazioni all’adottato PRG – e di avviare con la città un dibattito e una parte-cipazione sul progetto che potesse coinvolgere le forze culturali, le scuole, le professioni. Ci siamo resi conto e ci rendiamo conto che un’impresa cooperativa non può ragionare solo in termini di mercato ma anche di sostenibilità dello sviluppo e di vivibilità civile di una comunità.Si tratta di valorizzare Foligno in uno dei suoi bisogni a oggi più vitali: ridare forza, slancio e identità a un cen-tro storico che va concepito come un tutt’uno. Sono necessari momenti di svago, aggregazione, di consumo consapevole, di cultura e di incontro. C’era ieri e c’è oggi la possibilità di fare diventare l’ex zuccherifi cio uno dei traini della rinascita del centro storico: c’è sin-tonia con la Confcommercio e con altre associazioni per fare in modo che il tutto avvenga valorizzando i commercianti e gli artigiani di Foligno. C’è un proto-collo d’intesa fi rmato: Coop si impegna ad affi ttare i locali al costo di realizzazione – ovvero a una remune-razione del capitale investito pari agli ammortamenti fi scalmente previsti.

Ex Zuccherificio:il perché dell’empasse

di Serena Rondoni

Intervista al Presidente del Consiglio di Sorveglianza di Coop Centro Italia Giorgio Raggi

e le prospettive del domani

Ci siamo resi conto e ci rendiamo conto

che un’impresa cooperativa non può ragionare

solo in termini di mercato ma anche di sostenibilità dello sviluppo

e di vivibilità civile di una comunità.

Foto di Mirko Vegliò

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SIDEE

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Nessun intento speculativo dunque, non vogliamo “gua-dagnarci” sopra. Nonostante questo approccio siamo fermi.

Come intendereste dunque procedere?Abbiamo proposto: permetteteci di avviare le demo-lizioni e contestualmente le opere di urbanizzazione. Preciso ancora: stiamo parlando solo della possibilità di realizzare le opere di urbanizzazione. Ancora non abbiamo iniziato neanche a progettare l’ipotesi archi-tettonica e pluri-funzionale dell’area! Per realizzare le opere di urbanizzazione ci vogliono 18 mesi: nel frat-tempo si può aprire l’iter partecipativo di dibattito all’interno della città. Tempo altri 18 mesi e ce la fac-ciamo a fare il tutto. Sono 5 anni che diciamo queste cose: nell’ultimo anno un infi nito scambio di corrispon-denza fra Comune e Soprintendenza fa stare ancora ferma la pratica. Da quando è iniziata la storia ad oggi sono passati più di 10 anni: intanto abbiamo sostenuto costi rilevanti e intanto è cambiato il mondo. La crisi

incide profondamente sugli stili di vita e i redditi del-le famiglie sono diminuiti, il consumismo vecchio stile è tramontato. Aggiungo: era ora. Ora anche noi dob-biamo cambiare. Il mercato immobiliare è fermo e il commercio può essere trainante se rigetta i lasciti di questa crisi e se promuove un consumo più consape-vole e rispettoso. Torna ad essere centrale la persona e il vivere civile nel tessuto urbano: l’ex zuccherifi cio può essere volano per una nuova fase della vita della città. Stiamo costruendo sinergie imprenditoriali con le forze locali per realizzare il progetto: perché con funzioni e compiti diversi, ciascuno rispettando la pro-pria missione imprenditoriale, contribuisca a creare la miglior Foligno possibile del domani. Rimangono fer-mi per noi: una buona qualità del progetto, l’accordo fatto con Confcommercio e la necessità di un profi cuo

dibattito fra le forze vive della città. C’è una sola con-dizione che poniamo: l’essere una cooperativa ci impo-ne un modo aperto di confrontarci con la comunità in cui siamo inseriti ma non ci fa venir meno dal dovere di compiere un’opera imprenditoriale che abbia il suo break-even economico. In altre parole: ciò che si vuo-le realizzare nell’area è stato già deciso dal Consiglio Comunale oltre 10 anni fa. Si tratta ora di decidere come farlo sapendo coniugare qualità dell’investimen-to e ritorno economico. Del resto senza il realizzarsi di queste due condizioni nessuno metterà mai mano alla soluzione del problema. In altre parole ancora: siamo un’impresa, non un Ente di benefi cenza.

Molti credono in realtà che fra voi e Comune si faccia a scaricabarile sulle responsabilità del fermo di que-sti 5 anni.Credo che le imprese oggi paghino sempre di più il prezzo della crisi della politica: quando la politica è debole e le decisioni sono messe in capo a un diffuso

funzionariato della Pubblica Amministrazione signifi ca che non è l’eletto del popolo ma il vincitore di un con-corso che decide le sorti di una città e i tempi degli investimenti. Noi vorremmo che la politica fosse più forte e autorevole: il sistema e il mercato sarebbero più effi cienti. In ogni caso rispondo nel merito: si faccia come a poker e si dica “vedo”. Ci si rilasci l’agogna-ta autorizzazione amministrativa per l’inizio dei lavori almeno delle urbanizzazioni: entro sessanta giorni si vedranno i cantieri aperti. È facile: quando si vuole mettere alla prova l’affi dabilità dell’interlocutore i modi non mancano. Noi siamo pronti ad essere messi alla prova. Per la verità non aspettiamo altro.

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IDEE

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Nel PRG (Piano Regolatore Generale) troviamo la dicitura UT/SUAD, che signifi ca: “strutturazione urbana aree dismesse”. Al catasto l’indicazione è molto più semplice: “foglio 117 particella 265”. Due modi diversi di dire la stessa cosa: “ex zuccherifi cio”.Nel 1980 l’attività produttiva della fabbrica cessa e circa tre ettari di area si trasformano in un luogo di abbandono e di degrado. Tutto questo all’interno della città, a due passi dal centro storico. Un gran bel biglietto da visita! Sono passati trent’anni, e ad oggi l’unica certezza è che l’aspetto economico è di gran lunga l’argomento più dibattuto a riguardo, sia dal pubblico che dal privato. Quello storico/culturale, legato alla consapevolezza di avere un esempio di archeologia industriale, con la fortunata possibilità di poterlo recuperare, mantenendo intatto il suo fascino, è una speranza che ad oggi considererei più tristemente un’utopia.Cosa rende una chimera la possibilità che questa ex fabbrica continui a non subire più un degrado fi sico e culturale? Forse la risposta ce la può dare l’incuria e l’ignoranza di chi vede, come ritorno economico, solo un cigolante carrello della spesa strabordante di codici a barre che viene spinto con fatica.Mi chiedo se solo fuori dall’Italia, ci sia ancora quella sensibilità che riesce a mettere in secondo piano gli interessi di pochi, per consolidare una memoria storica che ha bisogno di essere salvaguardata in ogni occasione. La risposta è fortunatamente no. Certo, c’è Londra con la sua Tate Modern, un edifi cio neoclassico dove un’ex-centrale elettrica ospita ora la più importante galleria d’arte moderna del paese. C’è Parigi con le Musée D’Orsay, una ex-stazione ferroviaria costruita alla fi ne dell’ottocento, oggi sede della più famosa collezione di opere impressioniste. Molto interessante è l’esperienza di Simmering, un distretto viennese di carattere prettamente industriale, caratterizzato da

antiche fabbriche e stabilimenti, che è stato oggetto, a partire dalla fi ne degli anni Novanta, di un esperimento architettonico. Quattro gasometri, che hanno più di un secolo di vita, sono stati trasformati da equipe di celebri architetti in un quartiere praticamente nuovo. Interventi che raccontano come si può qualifi care e dare lustro ad una città, semplicemente difendendone i suoi connotati storico-architettonici. Ma anche in Italia c’è grande fermento da questo punto di vista.

La Centrale Montemartini di Roma, una ex-centrale elettrica, ospita oggi un’esposizione permanente di sculture provenienti dalla collezione dei Musei Capitolini. Il molino Stuchy di Venezia è un esempio strabiliante di architettura neogotica applicata ad un edifi cio industriale. Oggi quest’area è stata trasformata in complesso immobiliare dotato di residence, centro congressi e sede alberghiera capace di 380 stanze, ristorante e piscina panoramici, una sala convegni da duemila posti. In questa breve carrellata, la parola che si ripete più volte è “ex”, qualcosa che è stato, che ha avuto una sua importante funzione economica poi perduta con il passare del tempo: ma l’intelligenza e la sensibilità degli uomini hanno fatto sì che la struttura architettonica di questi antichi opifi ci venisse salvaguardata e riconvertita,

reinventando per loro una nuova funzione sociale, riportando in loro i suoni e il calore della vita senza tradire la loro anima. Anche l’ex zuccherifi cio meriterebbe un destino altrettanto vitale: lo meriterebbe per la bellezza e l’imponenza della sua forma architettonica, lo meriterebbe per il rispetto dovuto alla sua storia e a quella delle migliaia di persone che ci hanno lavorato. Ma credo che dovrebbe cambiare la mentalità della gente che comanda, decide e paga, di coloro cioè che, come diceva Le Corbusier, con la loro insensibilità non solo provocano spesso il degrado dell’architettura, ma umiliano anche la memoria di una comunità.

30 anni didi Federico Bertiincuria e di degrado

Foto di Mirko Vegliò

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Cominciava a settembre. I camion si allineavano, l’uno appiccicato all’altro in una lunga fi la ininterrotta, lungo tutta la via XVI Giugno, allora aperta ai due sensi di marcia, con il muso rivolto verso Porta Firenze pronti ad imboccare la strada che li avrebbe condotti allo Zuccherifi cio.

Dai cassoni sporgeva la punta aguzza delle barbabietole e l’aria si riempiva dell’odore acre e dolciastro dei residui della lavorazione, sputati fuori in una nube densa e bianca dalla grande ciminiera visibile a distanza, evidente segno di un’intensa attività produttiva, altrimenti inosservata.

Così appariva alla cittadinanza, ma in realtà lo Zuccherifi cio fi n dalla fi ne degli anni ’70 risentiva di una serie di fattori che determinarono una progressiva decadenza, fi no alla crisi che portò alla defi nitiva chiusura nel 1980.

Da “Lo Zuccherifi cio di Foligno” – Catalogo regionale dei beni culturali dell’Umbria – a cura di Fazio Bartocci, Renato Covino, Maria Grazia Fioriti, apprendiamo che fi no alla seconda guerra mondiale l’impianto produceva zucchero e alcool per carburante e dal Forno Porion si ricavava salino potassico greggio, poi macinato con apposite mole e ridotto in polvere per il suo utilizzo come concime. Ma, dopo la guerra, la produzione di alcool e la conseguente attività di distilleria ebbe termine ed anche la produzione di zucchero risultò sfavorita a causa dell’inesistenza di un’area bieticola ampia, tale da consentire un’adeguata fornitura di materia prima, con conseguenti maggiori costi di approvvigionamento.

Lo stesso testo sopra citato riporta che la capacità produttiva di quegli anni fi ne settanta era di 22.000 quintali di bietole, mentre quelle effettivamente lavorate durante la campagna saccarifera di quaranta anni prima raggiungevano 800.000/900.000 quintali; gli occupati in periodo di campagna non superavano le 270 unità e il personale stabilmente impiegato era pari a 60/70 rispetto

ai 700/800 addetti, di cui 120 operai fi ssi e molti impiegati avventizi, nella fi ne degli anni ’30.

I dati snocciolati mal si conciliano con i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza circoscritti tra il ’65 ed il fatidico anno di chiusura. Per noi giovanissimi quei camion marcavano un periodo di vita personale e della città, in cui si mescolavano le

ultime frenetiche attività di gioco, di svago, di piacere prima della ripresa della scuola, che allora era al 1° di ottobre, e gli altrettanto frenetici preparativi al futuro impegno scolastico, affrontando d’un colpo tutti i compiti sistematicamente rinviati nel corso dell’estate. A questa frenesia, si aggiungeva la confusione allegra ed intensa della Quintana ed i camion in sosta sulla strada lungo il fi ume Topino contribuivano a contrassegnare un mese di grande vitalità.

Così ci racconta Mario Diosonni, classe 1930, che aggiunge: “Per noi ragazzi il lavoro allo zuccherifi cio era ambito, perché per tre mesi di attività avventizia ti assicuravi sei mesi di mutua.”

Su tutto aleggiava quell’odore, a lungo andare nauseabondo, che però sarebbe rimasto lì, nella nostra memoria di adulti, come ricordo incancellabile di una storia che non c’è più.

Se questa è la percezione da meri osservatori, è immaginabile il

sentimento di chi nello Zuccherifi cio ha speso anni della sua giovinezza per un lavoro duro, ma comunque svolto, se non con passione, con un forte senso del dovere, di appartenenza ad un processo produttivo importante per la propria famiglia e per la collettività.

Sentiamo di doverci unire, per dare forza ad una voce comune e sollecitare il recupero dell’area ex Zuccherifi cio a benefi cio dell’intera città, alle considerazioni di Matteo Calvani riportate nell’articolo di Zichella dell’ultimo numero di Chiaroscuro “…così distrutto, così abbandonato. Non mi sembra giusto per tutte le persone che ci hanno lavorato”.

SSTORIE

di Maria Paola Giuli e Tania Raponi

Cominciavaa settembre

Lu Zucchirifi ciu (di Anna Daniele, tratto da “3^ Rassegna territoriale della Poesia dialettale” – FNP CISL, settembre 2009)

Nui che vivemo a le Puelle

sopre lu fi ume che cce tocca,

d’estate ‘n quelle jornate vèlle

doppo lu gran calore che t’abbiòcca

ce mettemo de notte, accostu le mura.

Da sotto l’acqua manna su ‘n po’ de friscùra.

Se sente lo gracchja’ de le granocchje,

lo parla’ llentu de le vecchje,

strilli de vardascitti.

Quarghe minutu…stemo tutti zitti.

Dall’andra riva ‘n cuntinnu rumore

è lu Zucchirifi ciu che llavora.

Co’ lo fume su ppe’ la ciminiera,

co’ le fi nestre tutte ‘lluminate.

Le varbavietole mannono ‘n odore

che ‘n ze po’ di’ proprio…prufumatu.

Però mme piace, cià ‘n signifi catu.

Accompagna le vèlle jornate.

Pe’ mme…è ll’odore dell’estate.

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All’assessore Joseph Flagiello rivolgo alcune domande in merito alle scelte dell’Amministrazione Comunale riguardanti l’area ex Zuccherifi cio ed alle ragioni dei mancati interventi di recupero della zona. Molto gentilmente l’assessore mi descrive le motivazio-ni politiche, logistiche, urbanistiche che hanno portato l’Amministrazione Comunale, nel corso delle passate gestioni, ad adottare un piano regolatore che ridise-gnava un’area così vasta e così vicina al centro storico.L’assessore tiene a sottolineare che la natura dell’in-tervento non è di normale amministrazione poiché si sono presentati nel tempo tre fondamentali nodi da sciogliere. Prima di tutto è stato necessario decidere come riqua-lifi care un’area che, dovendo comportare insediamenti commerciali, abitativi e pubblici direttamente a ridos-so del fi ume e delle mura medioevali, potesse essere collegata organicamente al cuore storico della città senza stravolgere la natura urbanistica preesistente, dando al tempo stesso un’impronta di funzionalità e vivibilità.A tal proposito una scelta diffi cile e delicata è stata la ridefi nizione della viabilità di tutta la zona che trasfor-ma non poco l’ingresso futuro alla cittàLa seconda questione riguardava il modo in cui i cit-tadini del centro storico, le loro attività commerciali e produttive avrebbero recepito questo nuovo assetto e per questo il lavoro partecipativo di questi anni ha contribuito a rendere accettabilmente compatibili le differenti esigenze.La terza questione è stata la scelta di riqualifi care ad area verde lo spazio urbano attualmente occupato dal supermercato Tigre, spostando il Tigre ad altra zona, per ridare migliore qualità paesaggistico - urbanistica ad un pezzo storico della città. Schematicamente l’iter burocratico amministrativo è stato scandito da queste date: 1997 adozione piano regolatore, 2001 approvazione piano regolatore, 2004 adozione del piano attuativo, 2005 approvazione del piano attuativo e successiva stipula della convenzione. E’ seguita quindi la presentazione delle opere di urba-nizzazione, il passaggio successivo sarà la presentazio-ne del progetto architettonico. Un intervento di queste dimensioni, di questa impor-

tanza e rilevanza per la città, con questi necessari pas-saggi, è di per sé molto più complesso che in altri casi.La Soprintendenza ai beni ambientali dell’Umbria ha rilasciato il nullaosta per le opere di demolizione che al momento sono fattibili e cantierabili. L’amministrazio-ne e la proprietà sono in attesa che la Soprintendenza autorizzi le opere di urbanizzazione. L’assessore Flagiello dichiara a completamento di quanto sin qui riassunto:Puntualizzo che chi pensa che questi procedimenti sia-no farraginosi per cattiva volontà non sa che la So-printendenza è chiamata ad esprimersi quando il piano attuativo è già approvato e addirittura ha la facoltà di annullare le previsioni già prese in sede di consi-glio comunale e purtroppo questo è un limite perché a fronte di interventi così coraggiosi potrebbe succedere che la Soprintendenza, a fi ne corsa, possa addirittura mettere in discussione atti approvati magari dieci anni prima. Del resto però l’intervento è davvero importan-te, diffi cile e complesso. L’Amministrazione Comunale avrebbe preferito non soltanto veder avviare i lavori di questo comparto, ma probabilmente goderne anche i frutti perché vedere l’ex Zuccherifi cio in quelle con-dizioni per tutti questi anni è una tristezza per tutti. Se però c’è da una parte una proprietà seriamente im-pegnata, se c’è soprattutto un’equipe di tecnici capaci e preparati ad assumersi l’onere di queste sfi de e una pubblica amministrazione che non ha mai negato le previsioni del piano regolatore, ma anzi le ha anche difese di fronte a ricorsi, credo che ci siano da que-sto punto di vista tutte le condizioni per attuare una previsione anche così ambiziosa, con i tempi e i modi adeguati.Che cosa c’è ancora da fare perché inizino i lavori?Si potrebbero intanto avviare le demolizioni che già po-tevano essere iniziate. Il piano per le opere di urbaniz-zazione è fermo presso la Soprintendenza. Dall’appro-vazione di questo piano, prevediamo che occorrano 18 mesi per la realizzazione dei lavori di urbanizzazione. Tengo a precisare che per un intervento di quella gran-dezza le opere di urbanizzazione non sono una parte marginale: infatti, se è complicato costruire un palaz-zo, non meno rilevante è tutta la risistemazione viaria della zona. Non siamo perciò all’anno zero.

di Serena RondoniIntervista a

Joseph FlagielloFoto di Mirko Vegliò

Intervista a Joseph Flagiello assessore all’Urbanistica e Sviluppo del Territorio del Comune di Foligno

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SIDEE

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I progetti quindi ci sono già!Si certo, sono progetti già pattuiti, approvati dall’Am-ministrazione Comunale. Tengo a sottolineare che tut-to questo lavoro è stato diffi cile e lungo, perché l’Am-ministrazione aveva delle necessità che la proprietà ha condiviso e che hanno richiesto una soluzione tecnica di attuazione. Se l’Amministrazione chiede che non si creino fi le lunghe chilometri in viale Firenze è legitti-

mo. Del resto anche la proprietà è interessata a non complicare il traffi co perché sarebbe controproducen-te anche per i suoi interessi. La soluzione tecnica ade-guata ha bisogno di studi di fattibilità, di competenze tecniche all’altezza. Se si leggono le carte delle ope-re di urbanizzazione qualsiasi cittadino sbalordirebbe perché il progetto, frutto di una complessa rielabora-zione, è di una complessità notevole. Sono convinto co-munque che è il risultato migliore che siamo riusciti ad

ottenere in tutti questi anni di sforzi, studi, rilevazioni dei fl ussi di traffi co, consultando esperti del settore ecc. Per quanto riguarda l’intervento di edifi cazione stiamo aspettando che ci vengano presentati i progetti da parte della proprietà.Verranno salvaguardati gli edifi ci esteticamente rile-vanti dell’area?Sì, certamente, è già previsto dal piano regolatore, ci

tengo a sottolineare che ormai siamo arrivati davvero alla fi ne di un lungo cammino, quello che manca è, se vogliamo, la parte più semplice poiché tutte le scelte sono state fatte, tutti i vincoli sono stati messi e questa è stata la cosa più diffi cile. Oggi abbiamo una situazione in cui sappiamo quanta superfi cie dovrà essere edifi cata in quell’area, con quali modalità e per quali destinazioni: commercio, edilizia residenziale, attività di formazione, pubblici esercizi, attività direzionale. Sappiamo dove tutto questo verrà costruito, cosa bisogna conservare e che cosa bisogna demolire, dove bisogna fare le strade e anche che tipo di lampioni bisogna mettere, che alberi piantare, dove mettere le panchine. Questi insomma sono i progetti di urbanizzazione attualmente al vaglio della Soprintendenza. A tutt’oggi manca la progettazione dell’edifi cato, ossia che stile architettonico dare agli edifi ci. L’Amministrazione Comunale aspetta la presentazione di questi progetti. L’intenzione, espressa dalla stessa proprietà, è quella di offrire qualcosa che sia funzionale non solo a interessi economici ma sia anche un dono per la città, qualcosa di bello da consegnare alla propria comunità. A tale scopo la proprietà dovrebbe favorire una partecipazione della città all’elaborazione delle idee guida per le future realizzazioni. Questo poteva essere fatto, oggi può essere ancora fatto. Occorre riconoscere che la proprietà non ha ancora commissionato un progetto architettonico di questo comparto perché, in assenza di certezze sui tempi, avere la giacenza di una progettazione o di un incarico verso un progettista per anni comporta una perdita di carattere economico e fi nanziario notevole. Ma ora ci sono tutte le condizioni per compie-re l’accelerazione decisiva, consapevoli che

ciò che andremo a realizzare cambierà il volto della nostra città almeno per i prossimi cinquanta anni.

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La privatizzazionedi Guglielmo Castellano

La destra, o il “centro destra” (chissà perché, defi nirsi più semplicemente di destra o di sinistra con-tinua a rappresentare, in questo Paese, un problema), a livello di politica economica, fa il suo mestiere.Nulla da eccepire: “meno Stato, più mercato”. È con questo input, tra gli altri, che i suoi elettori le han-no legittimamente conferito il mandato di governare il paese. Il “centro sinistra”, come da manuale, avrebbe dovuto enunciare, in tutti questi anni, principi che se non proprio diametralmente opposti a quelli della de-

stra (il ventesimo secolo, seppur passato in giudicato da un decennio, appare lontano anni luce con tutte le sue aberrazioni e deformazioni), almeno più o meno in linea con la sua tradizione storico-riformista. In realtà, dal 1996 in avanti, gli avvenimenti hanno di-mostrato il contrario. La sinistra, negli anni in cui è stata forza di governo, ha proceduto su una strada che, forse, in materia di politica economica, non le era pro-pria. Poi è arrivata, novembre 2009, la vicenda della priva-tizzazione dell’acqua che, come d’incanto, è riuscita, come una sorta, per l’appunto, di “spartiacque”, a ri-

defi nire ruoli e storie, costringendo “chi di competen-za” a riconsiderare un bel pezzo del proprio recente passato. Ed è con questa provocazione che “Chiaroscuro” ha voluto aprire la consueta tavola rotonda sui temi del-la politica, insieme a Giovanni Patriarchi, capogruppo consiliare del PD e Massimo Maggiolini, coordinatore comunale del Popolo delle Libertà. Un incontro al qua-le ha partecipato la sociologa Anna Cappelletti che, proprio dalle colonne del nostro periodico, sul tema

della privatizzazione dell’acqua ha prodotto contributi decisamente inte-ressanti. “Forse, per tutto l’arco degli anni ’90 – esordisce Giovanni Patriarchi ri-spondendo alla nostra provocazione di apertura – la sinistra ha battuto, in materia di politiche economiche, percorsi e sentieri che non le appar-tenevano. Anche noi abbiamo subito e cavalcato l’onda del liberismo a tutti i costi e confermo che all’interno del partito democratico, proprio intorno a questi argomenti, è in atto un appro-fondito dibattito. Tuttavia, all’epoca del primo governo Prodi – prosegue Pa-triarchi – non abbiamo proceduto a una privatizzazione selvaggia di tutto ciò che apparteneva al pubblico. Ci siamo mossi in direzione di alcune graduali liberalizzazioni (vedere i vari decreti Bersani) che, almeno nelle nostre in-tenzioni, si prefi ggevano di liberare energie e risorse, favorendo una ge-

stione manageriale di comparti tradizionalmente am-ministrati con criteri appartenenti al passato. Questa è stata la logica, effi cientismo e razionalizzazione, che ci ha ispirato anche per la gestione delle acque. Riguardo poi alla realtà, defi nita dall’approvazione del decre-to Ronchi, posso solo osservare che anche all’interno della stessa maggioranza, vedi ad esempio la Lega, le posizioni non sono così granitiche, anche perché tutte le precedenti esperienze di privatizzazione della ge-stione delle acque, hanno dato riscontri tutt’altro che positivi”. “Il governo Berlusconi – secondo il pensiero di Massimo

dell’acqua

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

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Maggiolini del PdL – si è limitato, attraverso l’approva-zione del decreto Ronchi, a portare a compimento un processo che, come rilevato da Patriarchi, partiva da molto lontano. Più precisamente dai primissimi anni ’90, quando il centro destra, così come confi gurato at-tualmente, ancora non esisteva. Voglio ricordare, in-fatti, la famosa legge Galli, promossa da un deputato della DC, tra il 1992 ed il ’93. Quella norma ipotizza-va, in piena recessione economica e con le casse dello Stato non propriamente fl oride, una razionalizzazio-ne del sistema della gestione delle acque cercando, attraverso la compartecipazione di soggetti privati all’erogazione del servizio, gli strumenti più idonei per procedere all’ammodernamento della rete che, già da allora, come adesso, perdeva e perde per stra-da, in presenza di impianti fatiscenti, una percentuale di liquido considerevole… Ma non solo. La nuova legge – puntualizza Maggiolini – non ha inventato nulla di nuo-vo, ma si è limitata a ripro-porre modelli che in passato hanno funzionato. Pensiamo alla gestione delle acque a Foligno. Prima dell’avvento delle municipalizzate, deter-minato dalla nascita dell’Ente regionale, il servizio idrico, i più anziani forse lo ricorderanno, era garantito dalla Società CREA che lo svolgeva con razionalità e compe-tenza. La VUS – incalza il rappresentante del PdL – è si una SpA, ma essa risponde solo alla maggioranza di centro sinistra, escludendo dal suo consiglio di ammi-nistrazione gli esponenti dell’opposizione….Questa sì che è vera e propria amministrazione “privata”. Pur se garbato e privo di spunti di polemica gratuita, il contradditorio promosso da Chiaroscuro, si fa deci-samente intrigante. “Per quanto ci riguarda – rispon-de Giovanni Patriarchi – non possiamo che sottolineare positivamente alcuni aspetti della legge Galli, qui ri-chiamata dal collega Maggiolini. Essa ha consentito, attraverso l’istituzione degli ATO, una razionalizzazio-ne amministrativa della gestione del servizio. La VUS ha pienamente risposto a questa esigenza. L’indirizzo pubblico della sua missione non è mai venuto meno, c’è di mezzo un bene primario per la collettività, ma i criteri di gestione sono improntati alla massima com-petenza e professionalità. Tornando sulla più stretta attualità – continua il capogruppo del PD in Consiglio comunale – la maggioranza si è recentemente espres-sa, attraverso uno specifi co ordine del giorno approva-to in Consiglio, contro la privatizzazione del servizio idrico e ha formalizzato nel documento di programma-zione economica allegato al bilancio, l’iniziativa che intenderà intraprendere verso l’Autorità competente: chiedere a quest’ultima il passaggio della amministra-zione in AUS della stessa Valle Umbra Servizi, al fi ne di

garantirne in toto una gestione prettamente pubblica. Se questa nostra richiesta non venisse accolta, allora saremo costretti ad aprire al privato per il 40% del ca-pitale sociale della VUS. Il pubblico manterrebbe solo nominalmente la maggioranza del pacchetto azionario però, in quanto il decreto Ronchi prevede una specie di Golden Share in mano all’azionista privato che questo, ovviamente, farà pesare. Voglio sottolineare, infi ne, come questa importantissima materia sia stata rego-lamentata attraverso un decreto, senza un impianto legislativo organico e senza consultare, cosa ancor più grave, le realtà locali, con il rischio di passare da oli-gopoli pubblici ad analoghe realtà private”“E’ bene precisare – riprende Massimo Maggiolini – che il decreto Ronchi non privatizza nulla. L’acqua, e non potrebbe essere altrimenti, resta un bene pubblico.

Quella che cambia è la ge-stione del servizio, che viene affi data, per una certa ali-quota, all’iniziativa del pri-vato. Non si sta parlando di un’assurdità, visto che anche l’Antitrust ha espresso pare-re favorevole alla legge. Una legge che intende attribuire al bene “acqua” un suo va-lore; e in quanto tale, deve essere trattato da tutti, con

criterio e raziocinio, evitando i tanti sperperi e sprechi che ancora oggi ne contraddistinguono l’utilizzo. Del resto – puntualizza Maggiolini rivolto al suo interlocu-tore – ditemi dove si andranno a trovare i soldi per am-modernare la rete idrica. Senza la compartecipazione del privato le casse pubbliche, da sole, non possono far nulla. Certo, è possibile che certe situazioni (ed il riferimento va alle realtà di Arezzo ed Aprilia n.d.r) non siano state affrontate al meglio, ma la sinergia tra pubblico e privato non potrà che migliorare il servizio reso alla collettività”. Anche questo contraddittorio, come nel nostro stile, scivola via, pur nella diversità delle posizioni (certa-mente meno conciliabili rispetto ad altri appuntamen-ti, visto che c’erano di mezzo scelte politiche di rile-vanza nazionale), nel rispetto reciproco e senza i toni esasperati ed irritanti di molte arene della politica attuale.

L’acqua, e non potrebbe essere altrimenti,

resta un bene pubblico. Quella che cambia

è la gestione del servizio, che viene affi data,

per una certa aliquota, all’iniziativa del privato

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Aurelio Ceccarelli, un pittore con cui ho avuto la straordinaria opportunità di condividere qualche breve avventura e una importante amicizia, mi raccontò un giorno un piccolo episodio di un grande maestro che a sua volta aveva avuto la fortuna di frequentare da ra-gazzo. L’artista era De Chirico, ma non rispondo della mia memoria, al tavolo di una qualche trattoria chiac-chierando stava tracciando uno schizzo per qualcuno dei presenti. Osservando il disegno ad un tratto estrae dalla tasca una gomma e cancella un qualche segno di matita. Orrore, mormorii, stupefazioni: un artista non usa mai la gomma! Ma il maestro, tranquillo e non distratto, spiega che quel gesto verrà dimenticato ma il disegno rimarrà per sempre. Forse essere artisti è la segreta ambizione che i nostri appunti, schizzi i dise-gni, parole, grafi ti e colori, abbiano un qualche valore che li faccia vivere per sempre.Nel dubbio conservo un gran quantità di fogli e correg-go puntualmente gli errori che faccio in abbondanza, indifferentemente con matita, penna e computer dove ogni fi le arriva alla versione 15 come niente: ad ogni revisone una manciata di errori corretti, nuovi da cor-reggere e lavoro per i posteri.Sbagliare è un’arte diffusa e forse hanno ragione gli artisti a pensare che ciò che conta è ciò che resta. Piero Fabbri salutando “Al Quadrivio” la governatrice dell’Umbria aggiunge l’idea che “quel che resta” non è solo ciò che è stato fatto ma anche o forse principal-mente, le vie solo scovate, appena tracciate, abbozza-te. Non il futuro, ma piuttosto la “speranza di futuro” che ciascuno riesce a seminare per chi resta.Io che nel futuro ci sono stato (procurarsi il n. 2 e leg-gere “Istantanee di istanti sconosciuti”) immagino che nel futuro di una Foligno “città accessibile” potrebbe condurci il fi lo invisibile che parte negli anni 60’ con l’impegno di Massimo Catarinucci, si rinnova nelle in-dignazioni di Ciriello con l’associazione “volare… insie-me” (che ci ha lasciato tenacemente aggrappato a quel

fi lo), fa sponda in un incontro mai avvenuto con Fla-giello (e non solo) all’apertura del cantiere del Corso per un corso senza barriere, arriva alle ricerche e agli articoli dl Francesca, laureanda del Corso in Fisiotera-pia e di Pierangelo De Dominicis, coordinatore di quello stesso corso (ancora Al Quadrivio), ai nostri interven-ti, oltre quello già citato i precedenti “Rottamiamo le barriere” e “Sarebbe coraggio” e approda (per ora) nel contributo, sempre sul giornale diretto da Fabbri, di Gianfranco Anzideo.Forse legata a quel fi lo c’è una gomma “for big mista-kes” (per grandi errori, me ne regalò una, che conservo, mio fi glio: chissà che voleva dirmi?) capace eventual-mente di cancellarli, ma provo a “traguardare” quel fi lo con le spalle al passato cercando di indovinare cosa c’è in quel puntino in cu il fi lo scompare all’orizzonte.Ma proprio nel titolo nella prima pagina di “Al Quadri-vio” quel puntino diventa un netto punto interrogativo: “o l’auto o l’uomo”. E a seguire un amore per questa città espresso dal presidente di Legambiente con ab-bondanti e precisi dati, studi epidemiologici, norma-tive e statistiche. Ma se quei numeri fossero effi caci davvero il domani dovrebbe essere già qui.Io dopo quella lettura mi sono scoperto ad osservare un numero in particolare, anzi due. Uno ben evidente in alcune vie di Foligno, un limite di velocità, un bel 30 in un tondo rosso; l’altro quello indicato dagli strumenti sul cruscotto della mia auto-vettura. Non avendo pos-sibilità né interesse a correggere i cartelli ai lati della strada ho provato a mantenere al di sotto di quel nu-mero massimo l’indicazione del mio tachimetro. Subito l’impressione di essere diverso, diverso e inadeguato. Inadeguatezza sonoramente segnalata dai piloti dietro di me che, vista l’inutilità delle loro “clamorose” pro-teste, schizzavano a destra e a manca facendomi man-giare la giusta polvere.In verità quei cartelli li ho visti la prima volta in Ger-mania, era giugno del 1995 e qui da noi quel limite era al massimo da lavori in corso. Con la mia marziana compagna ci avevano invitati per una mostra di nostre maschere e burattini presso la Volksbank Galerie e per un seminario sulle tecniche di realizzazione organizza-to dalla Volksschule in Biberach. Detto ciò sfacciata-mente per darmi importanza, maschero astutamente con la scusa che ciò serva a giustifi care ed illustrare la nostra intensa attività automobilistica in quella citta-dina.Sorvolo sulla gioia di trovare contenitori dei rifi uti di-visi per generi ma uguali in una unica, pratica forma che non costringe il vetro ad essere bottiglia (e una per volta) la carta ad essere gestita con tre mani e la

For bigdi Giorgio Raffaelli

mistakes

Calming traffi c, ovvero abolire l’obsoleto principio di far

scorrere, facilitare le automobili;

si dovrà piuttosto ostacolarle, rendere loro la vita

diffi cile

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spazzatura comune a pedale, questa al solito è un’altra storia, e vado dritto all’incontro con il tondo divieto. Gli allora sconosciuti limiti a “30”, piuttosto che su vie strepitosamente auto-carreggiabili con pedo-ominidi emarginati ai lati, soprassedevano vistose strutture di arredo urbano tipo quella a Porta Romana, di fronte all’uffi cio turistico. Panchine, fi oriere e cartelli segna-lavano e limitavano l’accesso in un articolato e colora-to insieme convinto e convincente. Nella composizione varie e diverse comunicazione grafi che, bambini che giocano, adulti con passeggini, anziani a tre gambe, messaggi e scritte a lettere più o meno grandi e altro ancora. Chiedemmo informazioni. Le scritte dicevano in sostanza “procedere a passo d’uomo”. Nessuna iso-la, solo oltre quel segnale chiunque e qualunque cosa rispetto all’auto aveva la precedenza, anzi la priorità. Un bambino che gioca, una famiglia con marmocchi alla mano, un artista intento a colorare l’asfalto. Mi chiari-rono defi nitivamente il concetto tagliando corto: “puoi passare con l’auto, vai tranquillo, ma devi andare pia-nissimo e se c’è sia pure una lumaca che attraversa, lei ha la precedenza e tu devi aspettare che arrivi all’altro capo della via”.

Ho dovuto passare quelle bar-riere ripetute volte, ma nei territori degli umani (e delle lumache), a girare con l’au-to mi sentivo ogni volta fuori luogo e procedere davvero a passo d’uomo era quasi te-rapeutico per la mia palese scoppio-mobile diversità. Il mio mezzo auto-meccanico calpestava, con la coscienza di essere ospite a casa altrui, lastricati con motivi colora-ti, disegni e percorsi, sfi orava panchine e chiostri, lambiva giochi di pallone e insegui-menti di piccole biciclette.Sembra che tutto questo si chiami “calming traffi c” ed è a leggerlo che mi è torna-ta in mente questa esperien-za. “Calming traffi c, ovvero abolire l’obsoleto principio di far scorrere, facilitare le automobili; si dovrà piutto-sto ostacolarle, rendere loro la vita diffi cile…”. Queste le

parole e le teorie che vengono insieme a cifre e numeri importanti. Ma da automobilista per necessità, la mia compagna, ruotante di suo, spesso ha bisogno di altre ruote e motori di supporto, non ricordo di avere avu-to nella mia nordica esperienza di “moderazione del traffi co” la vita particolarmente diffi cile, tutt’al più “diversa”. Forse è un po’ di invidia e mi piacerebbe possedere numeri importanti da citare, statistiche, studi epide-miologici, normative e mobility manager. Sarà che or-mai sono marziano anche io ma se numeri, statistiche e dati servissero davvero, per quanto sono usati, citati scritti e declamati, dovremmo già essere dove il nostro fi lo sparisce all’orizzonte.Preferisco pensare come Don Milani che è il cuore a comandare al cervello e temo che non siano le cifre e le maggioranze a portarci lontano ma solo un cuore nuovo, o almeno qualcosa di nuovo dentro al cuore.

puoi passare con l’auto, vai tranquillo,

ma devi andare pianissimo e se c’è sia pure una lumaca

che attraversa, lei ha la precedenza

e tu devi aspettare che arrivi all’altro

capo della via

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00di Valentina Silvestrini

Il 23 aprile. Il 3 marzo. Il 7 maggio.Tre date si-gnifi cative nel mio primo biennio da laureata: ciascuna indica il giorno di scadenza dei contratti di lavoro che ho fi rmato. Conoscere fi no a quale giorno si conserverà lo status di “assunti”, è un’esperienza di cui non ho l’esclusiva, trattandosi infatti di una condizione che molti oggi dichiarano di possedere. Per questo, come esercizio di auto conforto e con la volontà di alleviare il peso che il passaggio all’ inoccupazione comporta, cercherò di seguito di segnalare alcuni aspetti che il lavoratore temporaneo, interinale, a progetto (solo per citare alcune declinazioni della stessa condizione) deve sempre tenere a mente. Innanzitutto una premes-sa: ogni esperienza professionale è per sua stessa natu-ra temporanea. Non si hanno ancora notizie di individui che abbiano conservato il proprio lavoro nel trapasso extraterreno: infatti c’è sempre il pensionamento a porre comunque un termine. Per cui, anche voi che adesso credete di essere per sempre salvaguardati, ar-rendetevi: prima o poi, in qualche modo, abbandone-rete posizioni dirigenziali, catene di montaggio, catte-dre universitarie. Nell’arco della sua esperienza umana, il lavoratore temporaneo vive, in più occasioni, 3 fasi successive:L’ ANTE OPERAM, ovvero l’epica fase della ricerca, du-rante la quale, attraverso progressive limature ed ag-giustamenti del proprio CV, la sua formazione assume connotazioni sempre un po’ diverse da quella origina-ria, ma perfettamente in linea con i profi li disponibili sul mercato.LO STATO ATTUALE (L’OPERA), ovvero l’esaltante in-tervallo occupazionale che prevede istanti di autoce-lebrazione (tra questi si annoverano l’ottenimento del badge con foto e nome, ma soprattutto il primo accre-dito dello stipendio, seguito da brindisi celebrativo in famiglia e con gli amici più fedeli), dubbi e perplessità (“Avrò fatto bene a dire che il mio inglese è ottimo?”) ed una crescente soddisfazione di poter dare, fi nal-mente, il proprio contributo nel mondo.IL POST OPERAM che si delinea quando il capo del per-sonale o un qualsiasi altro dirigente ti informa della impossibilità di rinnovo. Generalmente più che l’umore o il conto in banca, il primo ad accettare malamente questo passaggio è il bioritmo. Per le prime 2 setti-mane si registrano, specie al mattino, fenomeni di ir-ritazione (ad esempio quando ci si sveglia e prepara

proprio come si era soliti fare nella fase precedente) a cui pone fi ne, solitamente, l’intervento di un parente stretto che ti riporta sulla retta via da percorrere (ri-torno alla fase dell’ante operam).La ciclicità di questi fenomeni rende il lavoratore in questione un modello a cui le società contemporanee dovrebbero rifarsi. E’ ricco di contenuti (ha conosciu-to realtà diverse), è curioso (cerca, domanda, si infor-ma), sa adattarsi a contesti mutevoli (dai protocolli mi-nisteriali della Pubblica Amministrazione, alla bonaria organizzazione della piccolissima impresa di famiglia), assegna un grande valore di insegnamento ad ogni sin-golo giorno “lavorato”. Invece, l’occupare uno stesso posto di lavoro, diciamo indeterminatamente, può por-tare, alla lunga, alla formazione di rapporti di fi ducia tra lavoratori che appiattiscono le capacità di giudizio critico verso il prossimo. Il rischio più frequente resta però l’abbassamento degli stimoli a migliorarsi. Essendo ormai prossima alla fase 3 e non avendo anco-ra all’orizzonte colloqui di lavoro, ritengo rincuorante concludere questa trattazione, parafrasando uno slo-gan pubblicitario che un paio di estati fa promuoveva una scuola di lingue nel centro storico di Firenze. L’ori-ginario “Chi conosce più lingue, vive più vite” che leg-gevo tornando a casa dall’uffi cio che per alcuni mesi ho occupato, diventa ora “Chi fa più lavori, vive più vite”. E con questa convinzione, auguro avvincenti giornate di ricerca a tutti quelli come me.

39Cercare lavoro è lavoro

Nell’arco della suaesperienza umana,

il lavoratore temporaneo vive, in più occasioni,

3 fasi successive:l’ante operam,

lo stato attuale e il post operam

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SPERSONE

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Quello che i comuni mortali vedono è un ano-nimo foglio di carta bianca, solcato da fi tti e minuti caratteri neri, con due fi rme scarabocchiate in fondo e un timbro blu in alto a destra. In realtà, si tratta di una pergamena incantata, ricom-pensa per le eroiche imprese condotte durante lunghi anni di peregrinazioni. Il testo è elaborato in una lingua arcana e suggestiva, a tratti incomprensibile; nell’in-chiostro con cui è stato vergato, un benevolo esercito di elfi , conosciuto con il nome in codice di ”sindacato”, ha infuso poteri magici di protezione; l’incantesimo entra in funzione grazie ad un oscuro amministratore delegato ed un potente ministro, che dal loro scranno, in un castello lontano, hanno apposto la propria fi rma manoscritta.Quello che i comuni mortali vedono è uno stipendio ta-bellare accompagnato da oscure formule per il calcolo delle indennità aggiuntive; un elenco di anonime fun-zioni da svolgere, di monte ore settimanali, di sterili elenchi di diritti e doveri. In realtà, il signifi cato di que-sto scialbo plico con graffetta di metallo sul lato, è che sono libera. Libera dal bisogno economico e dall’immo-bilità forzata, libera di sprigionare il mio intelletto, le mie energie e la mia fantasia, di impazzire d’avventure e sfi de, come un puledro rinchiuso per troppo tempo in una minuscola scuderia ed improvvisamente scaraven-tato nell’immensità della prateria. Questo contratto mi libera dall’incertezza e dal timore del futuro, due spettri a fronte dei quali anche i giganti si ammansi-scono. Questo contratto non stipula un banale rapporto di impiego dipendente a tempo indeterminato, questo contratto è una profezia, un’antica lista di sogni che da domani diventeranno reali. Eccone alcuni.

- Pagherò fi nalmente da sola l’affi tto e le bollette del mio microscopico appartamento romano. Non solo: po-trò permettermi anche il lusso di ospitare, nello stes-so microscopico appartamento, mia sorella, per i suoi prossimi due anni di università.- L’annullamento dell’onere degli affi tti delle fi glie permetterà ai miei genitori di godere di piccoli lussi mensili a cui hanno sempre rinunciato: un abbonamen-to al cinema, piccoli viaggi di coppia, come quando erano appena sposati, la libertà per mio padre di rifi u-tare uno studente che chiede ripetizioni e trascorrere i pomeriggi di sole a passeggiare in montagna invece che

nel suo studiolo, soffocato di libri.- Per il compleanno delle mie migliori amiche Valenti-na e Lucia, regalerò loro qualcosa di veramente utile, invece del solito cd scaricato da internet con la coper-tina fotocopiata a colori che sembra quasi originale.- Visiterò gli amici con cui tanto passato ho condiviso, sparpagliati ai quattro angoli del mondo dal vento teso della globalizzazione. Potrò ritrovarmi di fronte al co-lore dei loro occhi, mangiare con loro, respirare le loro confi denze, invece che vederne il nome lampeggian-te apparire sullo schermo del pc: Ayse ad Amsterdam, Pawel a Cracovia, Amparo a Madrid, Nicola a Berlino, Christian a Basilea, Sahil a Londra, e con la tredicesima forse anche Marcia in Cile o Emmanuel in Cameroon.- Tornerò a capire che giorno della settimana è, se sia-mo di domenica o in un giorno lavorativo.- Vivrò in una città, in un’unica città, ben defi nita, fi n-ché non sarò io stessa a decidere di andarmene, in-vece di errare inseguendo impieghi bimestrali da un confi ne all’altro dell’Europa. Ciò vuol dire che potrò permettermi di prendermi degli impegni a medio ter-mine, come: iscrivermi ad un corso di lingua, far parte di una squadra di pallavolo, abbonarmi ad una stagione teatrale.- Pagherò le tasse, il che mi rende estremamente fi era. Grazie al mio lavoro, mio padre avrà la sua pensione, mio cugino la sua insegnante d’asilo speciale per impa-rare a leggere nonostante non possa vedere. Grazie a me, le mie amiche, che decidano di iniziare la grande avventura delle donne, riceveranno uno stipendio du-rante la maternità. Grazie a me, resteranno accesi i lampioni di una piccola strada di periferia, il che per-metterà a dei ragazzini sconosciuti di restare fuori a giocare a pallone sull’asfalto fi no a tardi. - Uno studente stanco, in procinto di laurearsi, verrà a trovarmi per chiedermi consiglio. Gli preparerò un caf-fè, ci metteremo seduti in terrazza e potrò dirgli, con tutta franchezza, che non c’è nulla temere.

00di Elisa Brandi 39

Ho firmato il contratto stamattina

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In tutti i respiridi Marta Pacini

Quella di Alessio Biagi è una storia di talento, volon-tà e profondo amore per la letteratura, e non è ambien-tata a Foligno. Il primo piccolo grande traguardo di que-sto scrittore di 29 anni di Massa ha il sapore della gioia di scrivere, di raccontare, ha il profumo delle campagne della Normandia e ha il suono del blues di New Orleans. Non è facile descrivere in poche parole quello che c’è

dietro a un romanzo e alla voglia di farlo conoscere, ma con questa intervista proviamo a vivere la magia con cui Alessio ha cullato la sua passione e il suo libro. Non sa o non vuole ammettere di essere un dolce esempio di crea-tività e bravura, di quelli che vanno protetti dalle banali intemperie di questi tempi, quelli capaci di far vibrare i sentimenti di chi ancora ama perdersi in un buon libro…Scrittore a tempo pieno o per passione?La scrittura come tutte le passioni non ha orari dentro le quali essere coltivata. La scrittura, per quanto mi riguar-

da, nasce dal desiderio di esprimere se stessi attraverso storie più o meno complicate, di uomini e donne più o meno complicati. La differenza tra chi ha urgenza di scri-vere e chi si diletta nella scrittura è appunto l’approccio con il quale si affronta questa vera e propria necessità. La scrittura è una predatrice in agguato nella boscaglia…e comunque, per esperienza personale, non conosco nessu-

no “scrittore per hobby”, ma soltanto scrittori. Quando e perché hai iniziato a scrivere? Ho iniziato a scrivere all’incirca a sei anni (ride). A par-te le battute, non esiste in realtà un momento in cui lo scrivere è diventato un mestiere. Più probabilmente è cresciuta in me una consapevolezza che ha liberato l’ani-male che si agitava nella gabbia. Il perché è da ricercarsi esclusivamente nella necessità di esprimersi, nell’indivi-duare qualcosa di estremamente segreto dentro di me, per poi portarlo alla luce. Inoltre ti assicuro che scrivere

che ti ho preso

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è un’avventura di gran lunga più affascinante per chi la storia la scrive prima ancora di chi la andrà a leggere.Cosa ti affascina dell’essere scrittore?Dell’essere scrittore assolutamente niente. La vera fasci-nazione è nella produzione, nel creare qualcosa che hai inglobato ed hai nutrito con le esperienze più disparate, dalle più comuni alle più signifi cative, e che dentro di te si sono mescolate e sono maturate fi no a diventare un racconto, o un romanzo. In tutti i respiri che ti ho preso: qual è la storia del ti-tolo del libro?Il titolo è preso da una mia vecchia poesia del 2003, che è stata riportata esattamente nel libro nella sua parte fi nale.Di cosa ami parlare e raccontare maggiormente nelle pagine che scrivi?Della irresistibile, incoerente, inesplicabile natura uma-na e i vari aspetti che distinguono un essere umano da un altro. Trovo estremamente affascinante raccontare vite, emozioni, reazioni, comportamenti di uomini e donne co-muni, che amano, odiano, si tormentano e vivono le loro vite seguendo le proprie pulsioni ed emozioni. Che vivono storie straordinarie anche nella loro normalità, nei loro dispiaceri o piccole o grandi disavventure.Quanto e come ti sei preparato per rendere cosi reale la seconda guerra mondiale e l’atmosfera blues di New Orleans?Molto più complicata è stata la ricerca e la contestualiz-zazione storica del romanzo. Ambientando il romanzo al centro di un avvenimento così importante, mi si impone-va una precisione dei tempi, dei luoghi e dei fatti accadu-ti nonostante non stessi scrivendo un romanzo storico. Il blues invece, è una vecchia fi danzata che mi accompagna da molto tempo e con la quale ho iniziato questa avven-tura conoscendone già dal principio pregi e difetti. Perché hai scelto proprio quel periodo storico?In realtà è avvenuto esattamente il contrario. Le vicende che scrivo, i personaggi, gli accadimenti, nascono da soli e in assoluta autonomia decidono cosa vogliono racconta-re. Il mio approccio alla scrittura è molto paritario. Scrivo sentendone principalmente la necessità e di conseguen-za non mi impongo limitazioni di spazio e tempo. Ho la convinzione che In tutti i respiri che ti ho preso fosse già scritto nella mia mente, e dovevo soltanto tirarlo fuori, riportarlo appunto alla luce.Quanta realtà e quanta fantasia ispirano le storie che scrivi?Direi entrambe in eguale misura. L’ispirazione maggio-re per uno scrittore che racconta storie di uomini e di donne è semplicemente vivere come un uomo nel mondo che non pone limiti al proprio apprendimento, alla pro-pria conoscenza e alla propria curiosità. Curiosità che è fondamentale mantenere vivace, sempre. Un viso, una canzone, una voce, un difetto di pronuncia, un caratte-re, una situazione paradossale o comune, un luogo, sono tutti elementi essenziali per il fi ne narrativo, e il metodo che si impara ad avere in scrittura aiuta ad incanalare il tutto nella direzione migliore.

E’ stato diffi cile far pubblicare il tuo libro?Si e no, molto più diffi cile è credere in se stessi e non lasciarsi scoraggiare. Alimentare la propria passione quo-tidianamente e sostenerla nonostante tutto. La diffi coltà maggiore è quella di trovare un editore che investa sul tuo talento senza chiederti denaro (prassi consolidata nel panorama editoriale), e che soprattutto ami il tuo roman-zo forse più di te stesso.Che consigli daresti a chi scrive e vuole far sentire la sua voce?Consiglio di leggere, moltissimo, partecipare a corsi di scrittura creativa, alimentare il proprio cervello mante-nendolo attivo in svariati modi, e soprattutto di scrivere, scrivere e scrivere. Non importa cosa o con quale pro-posito, l’importante è esercitare la mente e la scrittura creando un proprio stile. Un volta fatto questo, consiglio di continuare a leggere e poi di nuovo a scrivere. Ti dedichi anche alla poesia? Preferisci scrivere roman-zi o poesie? Non esiste una vera e propria preferenza. La poesia è il primo amore, e come tale è permeato di un’estrema dol-cezza. Il romanzo invece è la donna che ho sposato in età adulta. Il tentativo è quello di far convivere questi due aspetti della mia creatività. Ma purtroppo, nonostante ci sia bisogno di molta più poesia, non è un prodotto che si pubblica e si vende facilmente. Come si arriva al cuore della gente, dei lettori in que-sto caso, scrivendo romanzi?Non credo esista una formula o una ricetta e se esistesse vorrei tanto conoscerla. Sicuramente la scrittura è meno “comoda” rispetto alle altre arti in genere, in quanto, a parer mio, le emozioni nascono principalmente dal let-tore, dal suo personalissimo coinvolgimento nel roman-zo. La bravura dello scrittore sta nel riuscire a pungolare l’immaginazione del lettore con una storia avvincente. Quali letture ti hanno segnato e ispirato nella vita di tutti i giorni e nel tuo modo di scrivere?Le più disparate. Fondamentale è avere curiosità. È ne-cessario però apprendere dai migliori scrittori di tutti i tempi come per esempio Hemingway. Personalmente, lo stile di scrittura di John Fante ha da sempre suscitato in me fortissime emozioni e la consapevolezza che certe vette di letteratura siano per me comunque inarrivabili.La prima o le prime persone che ti vengono in mente alle quali devi dire grazie per essere riuscito a pubbli-care il tuo libro?Innanzitutto Giuseppe Meligrana della Meligrana Editore, senza il quale non avremmo avuto nemmeno questa pia-cevole intervista. In secondo luogo tutti coloro che hanno creduto nel mio romanzo e tutt’ora si adoperano per farlo conoscere, fosse anche consigliarlo ad un amico.Alessio Biagi fra 10 anni: chi sei, dove sei, cosa fai e… hai una penna in mano?Posso dire con assoluta certezza che tra dieci anni sarò un toscano quarantenne con meno capelli ma con le me-desime intenzioni. Non riesco a immaginare con quanto successo, ma di sicuro con la penna…o più probabilmente a battere ossessivamente sulla tastiera di un computer.

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Sei aprile 2009, ore 3.32 am. A più di un anno da quel terribile momento il mondo globale di cui fac-ciamo parte ci ha letteralmente bombardato di servizi, approfondimenti, talk-show, trasmissioni e immagini a più non posso. Ore e ore di diretta unite a migliaia di megabyte di foto sparse per il web e, mentre osservavo costernato ciò che la terra era capace di fare in pochi secondi, meditavo e rifl ettevo, da umbro ex-terremo-tato, su cosa si potesse fare per dare un aiuto concre-

to. Più passavano le ore e più il senso di impotenza mi attanagliava, il voler fare qualcosa, ma qualcosa di giusto e non di azzardato, era la mia priorità di quei giorni. Così, pochi giorni dopo, chiamai il presidente dell’Avis Emanuele Frasconi, per sapere se aveva delle notizie, se c’era la possibilità di andare giù. I miei amici e conoscenti mi spingevano a partire seguendo la mia vocazione (e lavoro) di fotografo ma nel mio cuore non ce la facevo ad andare giù “armato” solo di macchina fotografi ca. Dopo due settimane, ecco la situazione giusta al momento giusto: l’associazione alla quale allora ero iscritto, la Croce Verde di Spoleto, aveva bisogno per la terza settimana di nuovi volontari da mandare a Paganica. E’ fatta, si parte. Il lunedì suc-cessivo, un po’ spaesato ma con mille motivazioni, mi ritrovo a Terni insieme agli altri volontari, tutti riuniti per partire insieme in colonna mobile. Due ore e mez-

zo di viaggio e arriviamo a Paganica. Il tempo di capi-re com’ è organizzato il campo ed eccomi catapultato nei doveri da svolgere. Cristina, anch’ella della Croce Verde, mi spiega cosa devo fare (nel gergo “mi dà le consegne”), tante cose da tenere a mente e per giunta mi nomina capo-responsabile del mio settore. Il settore igiene è senza dubbio, per la mole e la continuità del lavoro, uno dei più duri ma ripeto, se ci si trova là a dare una mano, è a prescindere da cosa si deve fare.

Durante la giornata il lavoro è gravoso, non lo metto in dubbio, ma il contatto con la po-polazione rende tutto più leggero: non c’è persona che non ti saluti, che non si fermi a chiacchierare, mi invitano nelle loro tende anche per un semplice “come va?” “da quan-to sei qui a Paganica?”. Gli occhi innocenti dei bambini, che si divertono anche sotto il diluvio, saltando tra una pozzanghera e l’al-tra, ci aiutano a sopportare il freddo pun-gente, la pioggia incessante, le scosse che continuano a tormentarci. Quando sei lì la tua attività ti assorbe completamente: conta solo l’organizzazione del campo, quello che c’è da fare, ti dimentichi persino chi eri nel-la vita normale, prima di venire qui. Il cam-po è duro, durissimo, trovi problemi di una grande città in pochi ettari di terreno, hai davanti persone che nel giro di pochi secondi

si sono visti “crollare” i sacrifi ci di una vita, ma anche in questo buio spunta una luce che squarcia le nuvole con violenza, un caldo sole che riscalda il cuore: Daniel che gioca con la sua bici; Angelo che ogni volta che pas-si davanti alla sua tenda ti sorride e si nasconde dietro la sua dolce mamma; Michael che ha solo pochi mesi e ci sorride, in braccio alla madre, inconsapevole di tut-to. Questo è l’Abruzzo che ho vissuto. Dopo la terza settimana ci sono andato altre quattro volte, la mia estate l’ho passata con loro ma con la massima sereni-tà, perché esperienze dirette come queste insegnano ad amare il prossimo e la vita come nessun manuale di sociologia o pedagogia in commercio. Rafforzi i tuoi rapporti con la realtà che lasci a casa (se sono rapporti veri), impari a confrontarti con situazioni diffi cili come quelle di un campo emergenza e cresci…cresci come non l’hai mai fatto prima!

Io volontarioa Paganicadi Alessio Vissani

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Lu sapunarudi Rocco Zichella

In questa ideale e romantica Spoon River nostrana mi sono imbattuto in un altro estinto mestiere, quello del saponaro. Dopo aver raccontato del ciabattino, del mate-rassaio, dell’operaio dell’ex zuccherifi cio, in un bel pome-riggio di Aprile incontro Mauro Menghini, classe ’58, nipote dell’ultimo ‘saponaru’ di Foligno.Mi improvviso giornalista e con tutta l’ingenuità possibile rivolgo alcune domande di rito a Mauro che, in realtà, è molto riservato o forse timido, ma non nasconde nulla dei suoi ricordi del nonno. Io per la verità qualche nozione l’ave-vo reperita in alcuni siti dedicati, in un libro di un mio amico sui vecchi mestieri e rimembrando un’aneddoti-ca cittadina sullo ‘stracciaro’, di cui ancora si parlava quando ero piccolo.Mauro dopo pochi minuti tira fuori una scatola impolverata ed usata dal tem-po, ritrovata nel vecchio magazzino del nonno: dentro vi sono gli stampi dell’epoca da imprimere come fi rma e come marchio sul sapone fi nito (SAPO-NE SOLE di F.M.), un’agenda dell’anno di nascita del nonno datata 1902 ed un libro del 1946 recante come titolo ‘L’industria dei saponi’. In via del Liceo, un vicolo vicino a Piazza Spada, c’è ancora il magazzino che fu la fucina del saponaro Francesco Menghini, classe 1902, che dagli anni Venti ai Settanta girò per le strade di Foligno con il suo triciclo con il cestone davanti, dove metteva gli ingredien-ti per la saponifi cazione artigianale. Il locale oggi è in ri-strutturazione ma si può accedere per gettare uno sguar-do. Ed ecco che i ricordi del nipote individuano appena entrati sulla sinistra la cassaforte, che altro non era se non una cassetta di legno con un chiavistello metallico, poi in fondo al laboratorio la grande caldaia ed infi ne un locale per lo stoccaggio dei materiali.Francesco Menghini, in arte lu saponaru, iniziò la sua atti-vità da ragazzo, alle dipendenze della ditta Ballarani, poi nel 1927 aprì il suo magazzino e l’insegna che campeg-giò fi no al 1970 recava la scritta ‘SAPONIFICIO MENGHINI FRANCESCO’.Nel libro che il nipote ha custodito per tanti anni ci sono

ancora le dosi e le direttive per la saponifi cazione: kg 11 di grasso animale, kg 2 di soda caustica, litri 33 di acqua, grammi 500 di pece greca, mezza bustina di borotalco da 250 gr, una scatola di detersivo liquido. Una volta mischia-ti gli ingredienti si facevano bollire nella grande caldaia dove si addensavano, andando a formare il panetto di sa-pone. Quindi si tagliava a misura per la vendita e infi ne si poteva aggiungere il colore verde o giallo oppure qualche essenza profumata. Una volta essiccato si imprimeva sopra lo stampo con la sigla SAPONE SOLE di Francesco Menghini.

Mauro racconta che ancora prima di suo nonno e in altri posti (nel sud so-prattutto, Napoli per esempio ndr), il sapone si fabbricava con le fecce e le morchie, rispettivamente i residui della spremitura dell’uva e dell’olio, cui era aggiunta poi la soda caustica e il tutto veniva portato ad ebollizione nella beuta, sorta di calderone per la cottura dei grassi. In altri libri si rac-conta che lo ‘stracciaro’ girava per le strade e scambiava scodelle per strac-ci e grassi vegetali o animali.Insomma un mestiere di due secoli fa, un personaggio che solo i nostri padri e nonni hanno ben presente, una vita diversa e solcata dal sudore e dai mia-

smi dell’idrolisi di trigliceridi (la saponifi cazione), oggi ri-valutata nella sua funzione sociale, contenuta nei progetti ministeriali della Pubblica Istruzione per la formazione e orientamento per gli insegnanti dell’area chimica.Oggi ci sembra un’azione quasi meccanica il lavarsi le mani detergendole con del sapone liquido, profumato, con note di gelsomino, o all’essenza profumata di aloe, ma pensate solo alla raccolta che Francesco Menghini, lu saponaru de Foligno, faceva presso i mattatoi dopo la macellazione dei maiali, al sego ovino o alla lisciva con cui si preparava il composto da bollire: un mestieraccio che lo ha impegnato per quarant’anni, che lo ha consegnato alle cronache della città come unico saponaro, fi nché la saponifi cazione indu-striale non ha preso il sopravvento.

Si ringrazia il Sig. Mauro Menghini per la gentile collabo-razione.

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Tiziano Sesto Benedetti è un giovane scultore di San Terenziano (Gualdo Cattaneo) che ha già al suo at-tivo diverse mostre e collaborazioni artistiche. Vive e scolpisce la sua anima tra San Terenziano e il mondo. L’essere e il divenire, la morte e la rinascita, la sal-vezza attraverso una riconciliazione ancestrale tra ma-schile e femminile. Queste sono le dimensioni con le quali si confronta. In questa intervista ci racconta di sé, della sua scultura e del suo Dream’s Museum.

Buon pomeriggio Tiziano Sesto, per cominciare mi racconti il tuo percorso artistico? Come è nata la tua travolgente passione per l’arte?Penso che il primo contatto che ho avuto con qualcosa che assomigli all’arte sia stato d’estate durante gli anni del liceo, quando acquistavo il diario scolastico e mi di-vertivo a decorarlo. Conclusi gli studi liceali, è stato il contatto con il fascino di un pittore “particolare”, Van

Gogh ( la mia prima passione, artisticamente parlan-do), che mi ha suggerito quale direzione dare al mio futuro, così mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti di Perugia. Precocemente (già dal primo anno) mi sono reso conto che la pittura non era il mio forte, no-tavo che con le mani preferivo impastare la materia, plasmare le cose e così dal secondo anno d’Accademia mi sono dedicato alla scultura. Nel corso dei quattro anni d’Accademia la mia crescente passione per la sto-

ria dell’arte mi ha fatto cambiare idea sul mio futuro: non volevo più diventare un’artista bensì un critico d’arte ed è per questo motivo che gli esami che pre-diligevo erano tutti prettamente teori-ci, escluse le materie fondamentali ine-renti alla pratica. Terminato il percorso di studi accademici, c’è stata la svolta: non c’era più la fi gura del professore che mi guidava secondo le mie attitudini e inclinazioni, mi sono trovato di fronte alla libertà di sbagliare, di sperimentare nuove tecniche, tutto ciò mi ha permes-so di esprimermi più liberamente e di creare il mio museo.Qual’è per Tiziano Sesto la defi nizio-ne di arte e di artista? E quale scopo ha l’arte nella vita del singolo e della collettività?L’arte è uno strumento di conoscenza che ci permette di usare le più sottili facoltà del nostro corpo utilizzando i segreti della materia. L’artista come un monaco, o come un druido, si spinge alla ricerca di una traccia che testimonia la non mortalità della vita, una traccia di eternità. Per questo motivo ritengo che

lo scopo fondamentale dell’arte sia quello di dare sere-nità alla gente, dimostrando che la morte non darà fi ne alla loro vita. Un’opera d’arte, ma anche l’arte in ge-nerale, hanno l’estrinseca capacità di condurre l’eter-nità di fronte agli occhi del pubblico, dimostrando che non si deve avere paura della morte ma solo curiosità.Nella tua poesia “Uso e manutenzione dell’anima” al 2° verso scrivi: “ Pronto per l’arte. Alcune volte

Dream’smuseumdi Katia Cola

Intervista ad un giovane poeta-scultore dei giorni nostri

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SIDEE

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riesco ad essere l’arte, persino!” Quando secondo te si è pronti per l’arte? In quali circostanze riesci ad “essere” l’arte?Io credo che se tutti ascoltassimo bene la nostra gior-nata, come essa scorre sulla nostra pelle e le emozioni che ci porta, ci renderemmo conto di quanta arte sia presente in noi e intorno a noi. L’essere umano è per sua natura fatto di arte ed eternità, è predisposto e sempre pronto all’arte. Coloro che non si accorgono di questa profonda essenza evidentemente nella vita scelgono valori dettati dalla società e non dalla vera natura dell’essere umano. Le circostanze in cui riesco a “essere” l’arte? Quando sono “avvolto” dalla giusta dose di energia e da un alto grado di concentrazione. Come e quando è nata l’idea di creare il tuo Dream’s Museum? Quanto tempo è stato necessario per alle-stirlo?L’idea del Dream’s Museum è affi orata clandestina-mente nella mia mente un anno fa, nel 2009. Avevo questo spazio, una specie di soffi tta, che durante gli anni dell’Accademia si era trasformata in un labora-torio artistico, una sorta di “locus amoenus” dove mi chiudevo per intere giornate, respiravo arte, davo vita a opere d’arte. Conclusa l’Accademia mi sono reso conto che questo spazio era giunto ad avere una sua organizzazione e struttura solida a tal punto da intra-vedere la possibilità di chiamarlo MUSEO. Mi sono reso conto che era giusto trovare una scusa e un pretesto per mostrarlo a più persone possibili così, dopo aver imbiancato le pareti del mio futuro Dream’s Museum, ho collocato le mie sculture ovunque, su tutti gli angoli della stanza, creando persino dei nuovi spazi. Quindi, alla domanda: quanto tempo è stato necessario per al-lestire il mio museo, rispondo: cinque anni di pratica per realizzare sculture e spazi e trentuno anni di vita effettiva. Sai perché? Perché l’arte è stata la mia più fedele compagna di vita.Che genere di opere e sculture sono presenti?Non parlerei né di opere né tanto meno di sculture, sono più propenso a defi nire il museo come un unico grande spazio- scultura.Per quale motivo nel tuo museo cromaticamente do-mina solo il bianco?La scelta del bianco è legata a un esplicito desiderio di evocare visivamente nel visitatore l’idea della neve; infatti mi sono accorto che quando nevica la gente

esprime la sua fanciullezza, il tran tran quotidiano ma-gicamente si rallenta e tutt’intorno domina un profon-do senso di calma e tranquillità.Nel tuo museo sono presenti numerosi oggetti di uso ordinario nella vita quotidiana (stivali, cappelli, li-bri, palloni…) qual è il signifi cato che con questi vuoi trasmettere al tuo pubblico?Non posso dirti di ognuno qualcosa né tanto meno farti una descrizione dettagliata, ma posso svelarti che ogni oggetto che ti ha incuriosito è stato sottratto da un particolare momento della mia vita e portato laddove la mia esistenza si assottiglia a tal punto da perdere i connotati di spazio e tempo; dove la mia vita di Tiziano Sesto diviene la vita di ogni uomo. Per mia natura io non realizzo mai progetti né tanto meno schizzi del-le mie opere, credo nell’ascolto costante delle qua-lità sottili del mio corpo e nell’improvvisazione. Ogni scultura presente nel Dream’s Museum nasce dal fasci-no che percepisco verso un oggetto che ha una forma particolare, oppure da un angolo o da un luogo le cui dimensioni, luci ed ombre risvegliano in me un forte senso d’Arte. Come è strutturato il tuo museo?È come un fl usso di pensieri senza signifi cato trasfor-mati in scultura.Come artista in cerca di affermazione perché hai scelto San Terenziano come luogo per il tuo museo? Qualche anno fa sono stato in Spagna e ho visitato la città natale di Dalì, e qui al centro di questa città è stato inaugurato il Museo Dalì, che ha dato grande visi-bilità a questo piccolo centro della Catalogna; così non vedo perché lo stesso non possa succedere con un po’ di fortuna anche a San Terenziano.Oltre ad essere un eccellente scultore sei pure un raffi nato poeta. Un artista a 360°. Secondo la tua esperienza quali sono i limiti, le somiglianze e le dif-ferenze tra modellare un pezzo di gesso e un testo poetico? Quali delle due può essere considerata il miglior mezzo di comunicazione?C’è un antico maestro cinese di grande importanza nel-la cultura orientale che alla stessa domanda ha rispo-sto: “ Uso una stessa energia che assume semplicemen-te forme diverse”Possiamo vedere il tuo museo e leggere le tue poesie su un sito internet?Certamente basta digitare www.dreamsmuseum.comBene Tiziano Sesto credo che questo sia più che suf-fi ciente per invogliare i nostri lettori a visitare il tuo museo. Ti ringrazio moltissimo per la disponibilità e la cortesia.Grazie a voi. È stato un piacere rilasciare la mia prima intervista a un giornale “intelligente” come il vostro. Un saluto a tutti i lettori di ChiaroScuro.

L’artista come un monaco,

o come un druido, si spinge alla ricerca di

una traccia che testimonia la non mortalità

della vita

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IDEE

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Artista completo della prima metà del Novecento (morì nel 1966), scultore, effi cace disegnatore, Siro Storelli ebbe grande predisposizione nel ritrarre, con forte capacità di analisi visiva, personaggi illustri, non solo della sua amata Gualdo, come notiamo nei quattro busti onorari bronzei degli anni Sessanta, oggi nei giardini pubblici, ma anche nel busto marmoreo di Dandolo Gramellini, eretto nel Campo Sportivo di Foligno (1941) e nei tanti busti che gli vennero commissionati per istituti e cappelle cimiteriali. Eseguì per Gualdo importanti interventi di restauro per interni ed esterni di chiese monumentali, si dedicò a opere cimiteriali, alla ceramica, eseguendo, tra l’al-tro, una Via Crucis alla robbiana, di cui due esemplari sono stati donati dal fi glio Enzo al Museo Civico locale; eseguì numerose opere per Spoleto, città nella qua-le non possiamo non citare la targa a Giordano Bruno, commissionata dai Liberi Pensatori di Spoleto, quella alle Vittime del lavoro e quella agli Studenti caduti; sono suoi i monumenti ai caduti di Sigillo, Fossato di Vico, Belfi ore. Operò per il cimitero di Spello. La vasta attività di questo artista varca i confi ni dell’Umbria per arrivare fi no alle Marche, dove ricordiamo lo splendido Monumento ai caduti di Collamato di Fabriano, di gran-de equilibrio formale, e quello di Santa Maria Nuova (Ancona).Siro Storelli si formò nella bottega del padre, Michele, maestro muratore e provetto scalpellino di ornato e fi gura, costruttore di noti edifi ci gualdesi. Dal 1907 al 1912 frequentò l’Accademia di Belle Arti di Perugia; dal 1913 al 1915 si formò presso lo studio romano del grande scultore Arturo Dazzi.L’attività di Siro per Foligno inizia nel no-vembre del 1923 con l’esecuzione di lavo-ri in cemento armato (importante novità per la scultura del tempo): decorazione del fabbricato viaggiatori della stazione ferroviaria. Oltre ad aver contribuito alla facciata della Cassa di Risparmio, in Cor-so Cavour, con ornamenti decorativi delle fi nestre e del portale, eseguì nella nostra città molte opere cimiteriali: sculture per le cappelle Proietti, Monacchi, Belar-dinelli, Bechelli, Tardioli, Milesi, Tacchi,

Borboni, di intensa spiritualità e alta qualità formale.Nel 1939 fu nominato Accademico di Merito e nel 1961 fu insignito della Croce di Cavaliere al merito della Repubblica.La nostra attenzione, in questa sede, è rivolta a quattro fi gure allegoriche di offerenti, incise su lastre di marmo, commissionate dal comune di Foligno nel 1959, alte due metri circa, come risulta dai disegni preparatori dello scultore. Attraverso un lavoro di ricerca eseguito prima con l’aiuto di disegni mostratimi dal fi glio dello scultore, Enzo, e attraverso l’aiuto del signor Marco Borgongino, siamo riusciti a individuare la suddetta opera, di notevoli dimensioni, sita proprio all’entrata del cimitero. Le quattro fi gure rappresentano tre donne, rispettivamente, la prima con una corona di fi ori, la seconda con mani giunte in preghiera, la terza con una lampada votiva e un uomo affranto dal dolore. Notiamo in esse forme che ricordano l’arte classica unite a un gusto fl oreale; ritmi lineari, fl uidi, permeati di ispirazione all’antico e di romantico simbolismo. Intenso il raccoglimento delle quattro immagini nella poesia del dolore che esprimono. Il braciere ardente su tripode, al centro, è simbolo di culto perenne per i defunti.

Improntata ad un’analoga visione artisti-ca osserviamo la monumentale cappella Landrini - Maiolica nel cimitero di Assisi (1937), opera di intonazione neoclassica. È in virtù di opere come quelle descritte che i cimiteri divengono, anche essi, de-positari del patrimonio culturale di una nazione.L’artista gualdese ebbe molti estimato-ri, tra cui Mario Salmi, che era, all’epoca della sua scomparsa, Presidente del Con-siglio Superiore delle Antichità e Belle Arti.Recentemente l’attività di Siro Storelli è stata ricordata dal fi glio Enzo Storelli (1993), dal nipote Marco Storelli (2003), da Stefania Petrillo (2006), da Franco Ivan Nucciarelli (2010). Un doveroso ringraziamento al prof. Enzo Storelli, per il materiale prezioso e

per la sua grande disponibilità.

Un grande scultore umbro:Siro Storellidi Michela Ottaviani

Foto di Elio Lini

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SIDEE

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Pensavo a te, forse, che eri così lontana e presente, nella sera che aveva occhi di chimera e, chiara e scura, scendeva lenta come nelle penombre di primavera. Eri un’ostica micella che non riuscivo a rubare, eppure sapevi di seme di gioia appassita quel tanto che resta una fragile voglia di lieto ritorno. T’inseguivo fra vicoli, dove occhieggiava un crepuscolo avaro il raro passante, irato di venti che l’ampio berretto carpivano di capo e gettavano a selci, quasi intermezzo di comica arte improvvisa. Scomparsa. Eppure, invano, ti avevo cercato, e tu ogni volta fuggivi come quell’ampio berretto che era rimasto impigliato all’unico fi ore di

rosa rimasto su muro graffi ato. Non eri che un’ignota presenza che mi turlupinava ogni volta che un soffi o di vento ti faceva volare fi no al comignolo nero, dove un rigo di fumo alitava fi no a dissolversi in cielo. Ma, forse, eri anche tu amica di resurrezioni e non riuscivi a scalare quel ripido pozzo dove si accalca, inconclusa, l’orda insalubre della memoria. Ti sentivo sbattere ali come il cardellino nella gabbia stretta che l’impiglia e freme di canti strani la voglia immensa di libertà. Camminavo a buio quasi di una via stretta e mi sentivo anch’io quasi tarpato al piacere sottile che si ha quando, inaspettato, il sipario si alza su un esile

frammento di vita, che pareva addormentata per sempre e si sveglia improvvisa come un bagliore di lampo notturno. Alzai gli occhi ad uno sguardo indiscreto, che da vetri offuscati osservava il mio incerto passeggio e mi parve di paura per quei miei passi che andavano come uno zoppo destriero che, invano, corre dietro inarrivabile meta. Su abrasa targa di muro, a stento lessi via Benedetto Bechelli; era un giovane folignate, morto durante la prima guerra mondiale, mentre con altri ragazzi sfi dava il fuoco nemico per liberare Gorizia. Era il 1916. Era laureato ed era stato assessore comunale. Il 7 marzo del 1924 lo scultore gualdese Siro Storelli consegnò alla famiglia una lapide con medaglione di Benedetto Bechelli, da collocare nel cimitero di Foligno. L’intitolazione della via fu proposta da Vincenzo Biagini in una riunione del comitato di Liberazione Nazionale del 1943. Precedentemente il vicolo era denominato via Borgni. Non eri tu, giovane eroe, che forse cercavo nei meandri di mente confusa ma il tuo canto libero alla vita perduta d’ideali, non mi ha fatto più sentire il brivido d’inverno che andava a morire fra le braccia aperte della primavera e riuscii ad abbracciare nella notte che, ormai, si era fatta un pulviscolo di stelle, la mia ostica ed amata micella: erano due occhi di sole che incontrai un giorno in riva al mare mentre il vento, lieve, increspava l’azzurro e mi disse: “L’amore vince tutto, anche il solco profondo del dolore”. E mi acquietai nella notte, pensoso.

ViaBenedetto Bechelli

di Stelvio Sbardella

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STORIE

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Intorno al 1860, artigiani, operai, apprendisti, gar-zoni e mille-mestieri formavano in Foligno un popolo effervescente: almeno in alcune sue componenti. Am-massati nei vicoli oscuri ed insalubri, in case fatiscenti, frequentavano bettole fumose, assai diverse dalla lin-da osteria al ponte di Cortella, vicino a San Domenico, immortalata da Feliciano Ferranti nell’edifi cante rac-conto La fi glia dell’organajo (1862). Erano percepiti, in genere, come la schiuma della città. Per il parroco di San Giovanni dell’Acqua, ad esempio, erano (1868) veri scandali pubblici, trattandosi di bestemmiatori, donne perdute, assenteisti dalla pratica religiosa, re-frattari (recidivi) al precetto pasquale, “scomunicati”, specialmente quelli che erano “andati con Garibal-di”. In effetti, la recente impresa di Mentana (1867), conclusasi male come sappiamo, aveva suscitato in un buon numero di folignati (167) l’entusiasta adesione al richiamo del Generale; e l’organizzatore della spedi-zione, Ettore Sesti, combattente del 1848, cospiratore, incarcerato ed esiliato nel ’59, primo animatore del

garibaldinismo folignate, non avrebbe realizzato tanta mobilitazione senza il contributo del giovane Domenico Roncalli Benedetti, propugnatore effi cace dell’ideale repubblicano (mazziniano e garibaldino insieme). Già nel 1866, Domenico era corso a Bezzecca, per combat-tere con Garibaldi nella terza guerra d’indipendenza; quindi, con Sesti e Luigi Petri, aveva organizzato i foli-gnati per la campagna di Mentana, mantenendo “vivo fra il popolo - così avrebbe scritto Ferdinando Inna-morati - il fuoco sacro di quella italianità” necessario preludio alla “primavera sacra” di Porta Pia (1870).

Un’anima di

Un popolo reattivo, quello dei lavoratori folignati. Da tempo aveva dato vita (1830) a società operaie, sia pure con fi nalità solidaristiche più che di lotta; in parte era sensibile alle suggestioni degli Internazionalisti di Bakunin; pronto, come nel 1873, alle clamorose prote-ste contro il costo della vita che la dissennata politica economica della destra “storica” aveva fatto salire alle stelle; pronto a subire una dura repressione, in qualche caso restando alle prese con la giustizia per un bel po’ di anni. V’era anche un popolo rifl essivo, vicino alla Società promotrice dell’Educazione popolare (1867), alla Biblioteca popolare circolante (1869), al Circolo “Giovane Repubblica” (1873); alla Società Filantropica (1873), permeata di radicali istanze solidariste. Questa era la parte di popolo su cui s’irradiava la luce di Ron-calli Benedetti. Infi ammato dalle parole di Teotecno Trabalza, suo zio materno, ardente repubblicano col-pito dalla repressione papalina, Domenico avrebbe il-luminato a sua volta i primi passi di repubblicani come Francesco Fazi e, più tardi, di socialisti come Innamo-rati. V’era infi ne un popolo, in parte non secondaria, sensibile all’egemonia ideologica e politica delle de-stre liberali-monarchiche, del clero intransigente, dei cattolici integralisti, grazie anche a personaggi come il prete Michele Faloci Pulignani, il quale negli anni Ot-tanta dell’Ottocento intraprendeva una durissima, lun-ghissima guerra contro il progresso.

Anni, gli Ottanta, nei quali la città pullulava di circoli politici, culturali, ricreativi d’ispirazione massonica, repubblicana, internazionalista e proto-socialista tutti saldamente anticlericali e popolari; tutti, in diversa misura, riconducibili o collegabili all’iniziativa politica di Roncalli Benedetti: il Circolo “Antonio Liverani” (1880), la Società rionale “Montecavallo” poi Circolo “Garibaldi”, il Circolo Anticlericale di Piazza Spada, il Circolo “Mazzini”, il Circolo “3 Novembre”, l’Associazione “Educando Spera!” (1883), il Circolo di Propaganda democratica (1883), il Circolo “Sante Costantini” (1883), il Circolo “Risveglio Giovanile” (1888), il Circolo “Lodovico Marini” (1889), il Circolo “Pietro Barsanti” (1889), la Società rionale “Puelle-Campana”, la Società del Corpo corale o Coristi del Teatro (1889), l’Associazione nazionale Emancipatrice dal prete (1889), la Società Gastronomica poi (1891) Circolo Ricreativo. Sul versante delle idealità laiche e

ferrodi Fabio Bettoni

Negli anni ‘80la città pullulava di

circoli politici, culturali,

ricreativi d’ispirazione massonica, repubblicana,internazionalista

e proto-socialista

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SSTORIE

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del radicalismo progressista, civile e risorgimentale, si dovevano a Roncalli Benedetti la fondazione del Comitato folignate per la Cremazione (1886) e del Comitato folignate per il Divorzio (1891); l’istituzione della Società “Dante Alighieri” (1891); l’agitazione per il suffragio universale, in particolare negli anni tra il 1880 e il 1887; l’iniziativa anticolonialista (1887-1896); la promozione del movimento per la pace e l’arbitrato internazionale (1888-1908); la propaganda d e l l ’ i r r e d e n t i s m o democratico nel nome di Guglielmo Oberdan (1889).

Nel mentre la proliferazione associativa nella città e nei dintorni proseguiva, talché nel decennio 1890 prende-vano corpo la Società di Villa Glori, per il culto civile dei fratelli Cairoli, e il Circolo del Progresso (nonché l’Unio-ne Velocipedista Italiana “Veloce-Club Foligno”, 1891; la Società Orchestrale o del Concerto, 1897), l’organiz-zazione operaia si profi lava all’orizzonte con prometten-ti sviluppi. Così nascevano la sezione folignate dell’Asso-ciazione fra gli Operai Tipo-grafi Italiani (1884), l’Uni-versità dei Cappellai (1885), l’Università dei Calzolai (1889), la sezione folignate del Fascio ferroviario (1890-’91), poi Unione (1892) quin-di Lega dei ferrovieri italiani (1894) primi nuclei, a fi anco del tradizionale mutualismo, di un tessuto organizza-tivo a carattere strettamente proletario che diventava via via più robusto con il progredire dell’industrializ-zazione. Anche queste realtà organizzative facevano i conti in misura maggiore o minore con Roncalli Bene-detti. Il quale, benché animato da un pensiero demo-cratico e interclassista, aveva a cuore e sosteneva con forza l’agitazione operaia e la lotta di classe dei lavora-tori salariati: da ricordare, in tal senso, la celebrazione del 1° Maggio nel 1891 e il comizio di Domenico; la di-fesa operaia: con l’istituzione del fondo anti-infortuni e del fondo per l’assistenza ai lavoratori malati poveri (1891), la fondazione (1892) di una Camera del Lavo-ro, che però avrebbe preso effettiva consistenza solo negli anni tra il 1903 e il 1907; il lodo arbitrale da lui mediato nel 1907 con il quale si chiudeva il durissimo scontro di classe tra i metallurgici di Terni e la Società degli Altiforni e Acciaierie.

Con lui fecero i conti coloro che intraprendevano i pri-mi passi sulla strada del Socialismo. Domenico infatti animò (1887-’88) con l’appoggio del giovane repubbli-cano Fazi la Confederazione Repubblicana-Socialista dell’Umbria, un interessante punto di incontro tra i repubblicani più intransigenti e quanti, tra gli Inter-nazionalisti in via di separazione dall’anarchismo,

avrebbero fondato in Foligno il Partito Socialista Italiano. Era la primavera del 1895. Appena costituiti, i socialisti parteciparono alle elezioni amministrative del 28 luglio presenti nella lista “popola-re” di maggioranza con re-pubblicani, radicali e monar-chici progressisti. Artefi ce di questa soluzione unitaria era stato Roncalli Benedetti, il quale, all’unità politica delle forze popolari aveva lavorato con successo sin dalla tornata elettorale del 1889, che ave-va permesso a Fazi di diven-tare il primo sindaco progres-sista di Foligno; né sarebbe stata l’ultima volta, giacché Roncalli Benedetti avrebbe sempre operato con ottica unitaria, volta a rendere in-distruttibile la convergenza repubblicano-socialista. “Per noi i socialisti - affermò un giorno - non solo sono allea-ti, compagni leali dell’oggi e commilitoni del domani, ma formano una sola, solidale famiglia. Abbiamo perfetta-

mente compreso che soltanto dall’unione delle forze attendiamo la prevalenza di un sistema organico che sopprima il privilegio politico, religioso, economico stretti in tenace e necessaria alleanza”.

Domenico era nato il 16 aprile 1843; moriva il 29 marzo 1910. Aveva sposato la maestra Aleandra Bartolomei, era stato insegnante nella Scuola d’Arti e Mestieri, con-sigliere comunale, assessore all’Istruzione, consigliere e presidente della Congregazione di Carità e della So-cietà di Mutuo Soccorso. In quegli anni, si potevano avere posizioni politiche e orientamenti sociali anche molto progressisti e professarsi “liberi muratori”: così, nel 1869, aveva fondato in Foligno la Loggia “La Con-ciliazione”. Il socialista Ferdinando Innamorati, libero muratore, sindaco di Foligno, deputato al Parlamen-to, perseguitato dal fascismo, defi nì Roncalli Benedetti un’“anima di ferro”.

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PERSONE

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Il nome di Anita Cerquetti non è conosciuto oggi al grande pubblico. Ma se provate a chiedere di lei a un qualunque appassionato melomane, vedrete i suoi occhi illuminarsi, sentirete parole di apprezzamen-to unanime per quella che viene ritenuta la più gran-de soprano drammatica che l’Italia abbia mai avuto. Ma la storia di Anita non segue la parabola consueta dell’ascesa, del successo, dell’inevitabile, graduale declino. Anita è stata una stella dalla vita (artistica) breve, intensa, dolorosa e avvolta da una nebbia di mi-stero che a distanza di tanti anni non si è forse del tut-to dissolta. Sono trascorsi ormai cinquant’anni esatti da quando Anita Cerquetti ha lasciato il mondo della lirica e quanto segue vuole essere un doveroso omaggio a una soprano meravigliosa, a una donna piena di forza e di dignità. Foligno, tra le tante città da lei conosciute, merita una menzione particolare, perché tante volte Anita è stata ospite dei suoi parenti folignati e qui spesso veniva a trovare ristoro dalle sue fatiche canore.Nata a Montecosaro, nelle Marche, il 13 Aprile 1931, aveva appena un anno quando con la sua famiglia si trasferì a Città di Castello. Il padre Elso, marchigiano, era fattore agricolo e poi ispettore della Singer, mentre la madre Zaira Fidati, nata a Volperino, era maestra elementare ed era fi glia di Filippo Fidati, uomo di ide-ali socialisti che ebbe ruolo attivo nella vita politica folignate dei primi del ‘900. Anita trascorse la sua infanzia e la sua adolescenza a Città di Castello: si dedicava allo studio del violino, frequentava il ginnasio, poi un giorno ci fu l’evento, casuale e imprevedibile, che avrebbe impresso una svolta defi nitiva alla sua vita. A sedici anni (era il 1947) fu invitata al matrimonio di una sua amica e le ven-ne chiesto di cantare, durante la cerimonia, l’Ave Ma-ria di Schubert e quella di Gounod. Doveva essere una semplice esibizione senza seguito, ma il caso volle che tra gli invitati ci fosse anche un maestro di fagotto, profondo conoscitore di opere liriche, il quale intuì immediatamente le potenzialità di quella voce e con-vinse Anita a frequentare il Liceo Musicale a Perugia. Fu così che ebbe inizio la sua folgorante carriera. Nel 1950 partecipò a numerosi concorsi, risultando sempre vincitrice assoluta e nel 1951 avvenne il suo debutto

trionfale al Teatro Nuovo di Spoleto, con l’Aida di Ver-di. Nel frattempo a Foligno Don Guglielmo Spuntarelli, zio in secondo grado di Anita, aveva dato vita e forma alla Casa del Ragazzo, tra mille diffi coltà e sacrifi ci. Anita si offrì di partecipare a un concerto i cui proventi avrebbero dato un po’ di respiro al nuovo edifi cio non del tutto completato. Il concerto si tenne a Foligno, al Supercinema, dove Anita cantò i suoi brani più belli e dove gli applausi risvegliarono la nostra Città, ancora un po’ stordita dalle conseguenze della guerra. L’evol-versi della sua carriera la portò a trasferirsi a Firenze, dove iniziò un importante sodalizio artistico con il ma-estro Mario Rossini, che divenne sua inseparabile gui-da. Proprio a Firenze, nell’ambito del Maggio Fiorenti-no, si consacrò come grande interprete verdiana. Le si spalancarono i teatri di tutto il mondo: dall’Arena di Verona alla Scala di Milano al San Carlo di Napoli, il suo viaggio artistico toccò poi tutte le più importanti città europee, per condurla, nel 1957, a una lunga e trion-fale tournee americana (Chicago, Philadelphia, New

York, Città del Messico). Sembrava che la sua ascesa non conoscesse fi ne e il suo repertorio si ampliava a dismisura, dal “Ballo in maschera” a “Norma”, “Gio-conda”, “Ernani” e altre ancora.Sempre nel 1957 sposò il baritono Edo Ferretti: mai unione fu più riuscita e tale rimase fi no alla morte di Edo, avvenuta quasi dieci anni fa. Ma l’episodio più clamoroso e dunque più conosciuto della sua carriera ci fu nel gennaio del 1958. Mentre Anita si trovava al San Carlo di Napoli per interpretare la Norma di Bel-lini, negli stessi giorni, al Teatro dell’Opera di Roma, si cimentava nella stessa opera quello che era, senza

Anita Cerquettidi Ernestina Spuntarelli

A sedici anni fu invitata al matrimonio di una sua amica

e le venne chiesto di cantare, durante la cerimonia,

l’Ave Maria di Schubert e quella di Gounod.

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SPERSONE

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ombra di dubbio, il personaggio più popolare e apprez-zato della lirica mondiale: Maria Callas. Erano previste quattro esibizioni della diva, la prima si tenne giovedì 2 gennaio. L’atmosfera era quella dei grandi eventi ar-tistici e mondani ma, al termine del primo atto, ci fu il colpo di scena: la Callas si rifi utò di proseguire l’ope-ra, adducendo un’indisposizione. Riportiamo le parole del cronista Savonuzzi, dal suo articolo uscito il giorno dopo su La Nazione:“Ritiratasi nel camerino alla fi ne del primo atto, la celebre e nevraste-nica soprano ha rifi utato di uscire allo scadere del tempo. Il sovrinten-dente Latini, il direttore dell’orche-stra Santini, il cantante Giulio Neri, il giovane e acclamatissimo Franco Corelli si sono affannati, uno per volta e tutti insieme a pregarla di tornare sul palcoscenico per il se-condo atto […] ma invano”.Alla notizia dell’interruzione dello spettacolo si scatenò un putiferio in sala e lo scandalo fu tale che il gior-no dopo ci fu persino un’interpel-lanza parlamentare sull’argomento. Fu a questo punto che i dirigenti del Teatro dell’Opera decisero di chiedere ad Anita Cerquetti di sosti-tuire la Callas nelle tre successive repliche previste dal programma. Seguirono trattative convulse, Ani-ta aveva comprensibili riserve e ti-tubanze nell’accettare l’offerta, si dovevano inoltre rispettare gli impegni già presi con il teatro di Napoli, ma alla fi ne tutto venne sistemato. E così, sabato 4 gennaio, emozionata ma molto deter-minata, salì sul palcoscenico: c’era un clima elettrico, di grande attesa, di morbosa curiosità. Ricevette sin

dall’inizio un’accoglienza piena di calore e simpatia, ma ciò che accadde quando terminò di recitare la diffi -cilissima (e bellissima) aria “Casta diva” è uno di quegli eventi destinati a rimanere per sempre nella memo-

ria di chi li ha vissuti: tutto il teatro fu travolto da un’onda incontenibile di emozione e di entusiasmo che generò un’ovazione spettacolare, infi nita. In quei mi-nuti perfetti Anita sentiva le lacrime premere sui suoi occhi, sentiva che per attimi come quello, ogni uomo di palcoscenico affronta sacrifi ci, rinunce, tutti i rischi di una vita tanto diversa da quella delle altre persone. La gente chiedeva il bis, il direttore d’orchestra fu co-

stretto ad abbassare la sua bacchetta, inutilmente so-spesa in aria nell’attesa di ricominciare. Il bis non ven-ne concesso ma l’opera fu un trionfo totale e alla fi ne Anita potè abbandonarsi al pianto liberatorio, mentre si inchinava a ringraziare il pubblico che la osannava. Non aveva ancora compiuto 27 anni, era già la più gran-de soprano italiana. Il 1958 fu il suo anno trionfale, che si concluse con la recita del Trovatore all’Opera House di Philadelphia. Ma la favo-la splendida già si avvia alla sua non lieta conclusione. Nel 1959 Anita non canta, nel 1960 solo poche cose, un paio di concerti alla Scala, la recita ne “Un bal-lo in maschera” al teatro di Lucca, la registrazione del

Nabucco presso una radio olandese. E poi il silenzio: totale, irrimediabile, defi nitivo. Perché? Un mistero mai del tutto svelato. Si scatenarono le ipotesi e i pet-tegolezzi più fantasiosi: che aveva perduto la voce, che era impazzita. Solo Anita forse conosce la causa del suo repentino addio alla lirica. Lei sostiene che è stato lo stress degli impegni e del successo a toglierle la voglia di cantare, ha sempre negato che la sua voce avesse subito un indebolimento. Lo stress e un tic, una con-trazione muscolare facciale che le piegava l’occhio e la parte sinistra delle labbra, che la rendeva meno sicura sulla scena perché incrinava per un attimo la sua voce. Forse è veramente solo questa la causa. Forse Anita non ha retto alla fatica della perfezione e del successo. Si è eclissata, è sparita dalla scena. Ha avuto, dal 1960 in poi, una lunga vita trascorsa nell’ombra serena degli affetti. Una vita che dura tuttora, rattristata dalla per-dita dell’amato marito. Ma forse, in certe sere, l’eco fragorosa di quella antica ovazione risuona ancora e accende un sorriso nel silenzio della sua tristezza.

Tutto il teatro fu travolto

da un’onda incontenibile di emozione e di entusiasmo

che generò un’ovazione spettacolare,

infi nita

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Eros è vita che spumeggia, è la radice dionisiaca del nostro essere, è il canto ebbro delle rondini nelle sere di maggio, è la vita che si ostina, che si perpetua contro ogni logica, contro ogni speranza, è energia pro-rompente che spinge le ruote del mondo. Freud sostie-ne che l’eros è anche la sorgente psichica da cui nasce l’arte, attraverso uno straordinario lavoro di “devia-zione” di pulsioni che si chiama sublimazione. So che Freud è piuttosto in disuso (confesso che però a me continua a piacermi un sacco), ma trovo molto sugge-stiva e anche plausibile l’idea che il processo creativo abbia origine nello stesso luogo sotterraneo – Ungaretti lo chiamerebbe il porto sepolto – dove nascono i nostri amori.

Eros è la forza tumultuosa che trasforma il bambino in un uomo. Ricordo molto bene l’irruzione violen-ta dell’amore nella mia vita: avevo quattordici anni ed eros mi si presentò in una estate luminosa sotto le forme precocemente sviluppate di una tredicenne dall’esotico nome di Jutta: era di padre tedesco ed era decisamente più smaliziata di me. Non ho mai capito perché scelse proprio me. Io ero allora uno sbarbatello molto ingenuo, i cui unici amori erano la mamma (colti-vavo in modo inconsapevole ma scrupoloso un comples-so edipico di cui Freud sarebbe stato molto orgoglioso), l’eroe dei fumetti Zagor e soprattutto la Juventus, in-sana passione che ancora sopravvive. Ricordo l’emozio-ne del primo bacio, in una notte esageratamente stel-lata: non sapevo bene cosa fare della mia lingua, visto che in nessuna scuola mi avevano insegnato ad usarla, ma Jutta fu un’ottima maestra, paziente e comprensi-va. I nostri approcci fi sici non andarono molto al di là di qualche bacio furtivo, in quel tempo remoto le ragaz-ze erano piuttosto restie a concedere il proprio corpo (una canzone di Roberto Vecchioni recita: “giovane fui nel tempo in cui le donne non la davan mai” e anche se lui ha una quindicina d’anni più di me la situazione era rimasta inalterata). Conobbi però tutta la ricca sinto-matologia della condizione amorosa: inappetenza, in-sonnia notturna, spasmodica gelosia, tachicardia molto marcata prima di ogni incontro. Fu per lei che scrissi i primi versi, ma questo accadde dopo, quando la fi ne

dell’estate mi portò via la mia amante, che abitava a Sondrio. Fu un settembre luttuoso, soverchiato dalla nostalgia, da un incolmabile senso di vuoto: la mamma era un po’ meno importante, Zagor meno interessante e il campionato non era ancora cominciato. Così mi misi a scrivere poesie. Con lei è fi nita la mia infanzia ed è cominciato il mio viaggio nel regno favoloso dell’eros, un viaggio pieno di felicità, emozione, passione, in cui capita anche di ricevere vigorose bastonate.

Io trovo per tante parti condivisibile il modello dell’eros cristiano: mi piace l’idea che un amore duri per sem-pre, l’indissolubilità del matrimonio è una sfi da corag-giosa lanciata contro la precarietà e la caducità del nostro essere uomini; è molto bella, oserei dire ro-mantica, l’idea di trascorrere tutta la vita insieme a una persona, condividere sentimenti, progetti, dolori o anche solo le piccole beghe e i piccoli piaceri della quotidianità. Ma l’amore, per sua stessa natura, può vivere solo nella libertà. E dunque, pensare di imporre per legge l’indissolubilità del matrimonio non è solo un crimine contro la libertà dell’individuo, ma anche contro l’amore stesso. Inoltre, da laico, ci sono diverse cose della concezione amorosa cristiana che non capi-sco, che mi risultano persino bizzarre e irragionevoli. Proverò a elencarne alcune, procedendo senza grande ordine logico. Intanto la rigidità delle regole circa la pratica sessuale. Un dio che viene a spiarmi in camera

Eros

Un dio che viene a spiarmi in camera da letto,

che mi dice quando come e perché

devo fare l’amore mi sembra un dio piccolo,

angusto

La prospettiva laica

La giraffa Innamorata di Claudio Stella

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

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SPERSONE

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da letto, che mi dice quando come e perché devo fare l’amore mi sembra un dio piccolo, angusto, che tra-sforma l’eros in una sorta di cagnolino ammaestrato da

tenere al guinzaglio. Andare in Africa, in un continente martoriato dall’aids, e dire che non si deve usare il pro-fi lattico mi sembra immorale oltre che poco intelligen-te. Colpevolizzare gli ormoni adolescenziali sostenendo che la masturbazione è un peccato mi sembra, questo sì, un grande e un po’ ridicolo peccato contro natura, come anche demonizzare i rapporti sessuali prematri-moniali. E visto che abbiamo introdotto il concetto di natura, che dire della questione dell’omosessualità? Domandina semplice semplice di un lai-co: per quale motivo io, eterosessuale convinto e praticante, dovrei sentirmi minacciato se due individui adulti dello stesso sesso, capaci di intendere e di volere, decidono di dare una qualche forma di struttura giuridica alla loro relazione affettiva? E per quale moti-vo uno stato liberale (?) non dovrebbe consentirlo? Ci si rifugia dietro la moti-vazione che si tratta di amore perverso e contrario alle leggi di natura. Ma il concetto di natura è molto scivoloso e andrebbe maneggiato con prudenza.Tempo fa mi è capitato di leggere un articolo in cui si parlava di un tema ve-ramente molto scandaloso: l’omoses-sualità nel mondo animale. Si faceva riferimento a un testo di Giorgio Celli, un noto scienziato che insegna all’Uni-versità di Bologna. Si faceva riferimento anche a studi più vasti e più recenti che hanno confermato e ampliato la sua ri-cerca. Ebbene, il responso, assolutamente inaccettabi-le per chiunque abbia sani principi etici, è che in alme-no cinquecento (500!) specie animali è stata accertata la presenza di diffusi comportamenti omosessuali. Tra di essi si distinguono per la pervicacia nel peccare: le oche grigie (sarà forse per via del colore, che le rende meno candide delle normali oche bianche), i pinguini di Humboldt (così chiamati dal nome del loro scoprito-

re, un naturalista tedesco dell’800, che sarà stato cer-tamente un pervertito), gli elefanti (sarà a causa della proboscide?), i trichechi (la loro dentatura è sempre stata un po’ sospetta), i bisonti (già dal loro nome si intuisce una scarsa propensione alla rettitudine mora-le), cervi (a ben pensarci, Bambi ha sempre avuto negli occhi un ambiguo languore); persino insetti piccoli e squallidi come gli scarafaggi pare che pratichino l’im-mondo vizio (un motivo in più per schiacciarli, la pros-sima volta che oseranno entrare nelle nostre case). Ma in assoluto l’animale più perverso sembra che sia la giraffa: addirittura il 50% dei membri (ops) di questa specie è dedito all’omosessualità e pare che tra di loro si formino delle coppie stabili, la cui “convivenza” può durare persino quindici anni. Non è dato di sapere se tale convivenza sia regolata da forme di riconoscimen-to giuridico: di certo sarebbe molto sconvolgente se si scoprisse che le giraffe hanno approvato una legge sui Dico o sui Pacs prima dello stato italiano. Direi che ci sono gli estremi per pensare a una modifi ca della geo-grafi a dell’inferno dantesco: nel cerchio dei sodomiti, che come è noto sono condannati a ricevere dei dardi infuocati che piovono loro dall’alto, si potrebbe aggiun-gere un apposito recinto, una specie di oltretombale giardino zoologico che conterrà gli animali peccatori.L’amore è gioia, è allegria, è il territorio più lontano

dalla morte nel quale possiamo abitare. L’amore odia i recinti, le corde, il bavaglio, l’amore vuole ridere, gridare. L’amore, qualunque amore, merita rispetto e libertà. E ogni uomo che ama di amore vero, giustifi ca la nascita dell’universo più di qualunque fi losofi a, più di qualunque religione.

Conobbi tutta la ricca sintomatologia

della condizione amorosa: inappetenza,

insonnia notturna, spasmodica gelosia,

tachicardia molto marcata prima di ogni incontro.

Illustrazione di Mordillo rielaborata da Ludovico Stella

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STORIE

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E’ nella relazione che comprendiamo l’altro e capiamo meglio noi stessi. Mi sembra interessante metterci in gioco su un argomento, in questi giorni vivo e problematico, quale è l’Eros in una rifl essione cri-stiana, per instaurare una fruttuosa relazione anche tra persone di diversa cultura e credo religioso. In una società muticulturale non ci si può accontentare del-la sola conoscenza e della tolleranza, ma bisogna cer-care l’interazione e il confronto. Bisogna dare spazio all’educazione interculturale che ci porta a conoscere, riconoscere, accogliere e gestire le differenze che sono prima di tutto dentro ciascuno di noi, negli altri e nel contesto sociale.Tutti noi sperimentiamo nella nostra vita impulsi con-trastanti, provenienti da parti diverse della nostra inte-riorità, che possono entrare in antagonismo: ragione e sentimento, desideri e bisogni, intelligenza ed emozio-ne. In un adolescente queste tensioni sono ancora più accentuate, perché la persona sta appena cominciando a confrontarsi con la propria libertà e il progresso di crescita nella capacità di gestire la propria interiorità. La ricerca di questo delicato equilibrio tra gli impulsi delle emozioni e i consigli della ragione si applica a tutti gli aspetti della vita e per un adolescente soprat-tutto quando ci sono di mezzo “questioni d’amore”.Allora l’interrogativo che si pone è: «Andare contro il proprio istinto predatorio per proteggere la vita della persona che si ama o andare contro il buon senso e ri-schiare la vita per seguire la propria passione?»All’amore tra uomo e donna, che non nasce dal pensare e dal volere, ma in un certo qual modo s’impone all’es-sere umano, l’antica Grecia ha dato il nome di eros.Con l’eros diventiamo “ciascuno - dio” della propria vita. Ciascuno, nell’insuperabile individualismo, stabi-lisce per sé il bene e il male. L’eros nella sua concezio-ne antropologica tende a tirare verso il basso l’uomo.Nietzsche accusa il cristianesimo di avvelenare l’eros. Ma l’evento Cristo si rivela come possibilità offerta all’uomo di trasformare ogni forma di amore, anche l’eros, come amore da persona a persona, da soggetto a soggetto.L’uomo allora non è trascinato verso il basso, perché la divinità chiama la creatura umana verso l’alto. L’uomo deve essere uomo in tutto. Nell’eros egli non si abbassa al rango di animale, conserva la sua umanità. L’ele-mento religioso lo porta alla sua maturazione.

Nell’eros l’uomo non è libero, trova diffi coltà nel rela-zionarsi con i fratelli e sorelle. Non può dire la verità per paura di perdere l’amore delle persone, si costru-isce delle amicizie, relazioni d’amore, domina altre persone, perché non ha conosciuto un amore gratuito.Il passaggio per l’uomo dall’Eros all’Amore è nel cono-scere l’amore di Cristo, che non cerca il suo interes-se, non cerca se stesso, non pensa a se stesso, è tutto “per” l’altro. Amare è dare la propria vita affi nché gli altri la ricevano. L’amore tra un uomo e una donna non è più quello tra due metà separate, come nel Simposio di Platone, ma tra due persone, ognuna “immagine di Dio”, sessual-mente differenti e orientate a diventare, nella comu-

nione di anima e corpo, sempre più persone, realizzan-do il piano di Dio per la coppia. In Deus caritas est, il Papa ribadisce che non c’è frat-tura tra eros e agape (amore totale e gratuito), ma una sorta di integrazione. Perciò si viene a contrapporre alla concezione dell’eros classico, anche violento degli antichi Greci, ripreso da Nietzsche, l’eros cristiano del Cantico dei cantici.Nel cristianesimo c’è una perfezione dell’eros. Conce-pito come un’attrazione, uno slancio, un desiderio ed infi ne un amore ascendente che si realizza nell’amo-re coniugale, che è il sacramento, cioè segno effi ca-ce e reciproco dell’amore di Cristo alla Chiesa, di Dio all’umanità.

Ma l’evento Cristo si rivela come possibilità offerta

all’uomo di trasformare ogni forma di amore,

anche l’eros, come amore da persona a persona, da soggetto a soggetto.

La prospettiva cristiana

Dall’Eros all’Amore di Don Luigi Filipucci

Sguardi incrociati(ovvero come dialogare, pur pensandola in modo assai

diverso, senza gridare, sbraitare e insultarsi)

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SSTORIE

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di Serena Angelucci

Cara sorella, in ogni momento libero la mia men-te, il mio cuore, vola da te. Ti cerca, e non ti trova. Eccomi qui, all’origine del mondo, dove ritrovo le vie del silenzio e del caos. Esse mi dicono: “Senti le forze della natura, senti il suo respiro. Senti le tue corde vi-brare”. Ascolto. Sono le fi bre più potenti del mio cuore che avverto e mi rendono felice, poiché esse parlano di te. Ed è con sorprendente meraviglia che ti scopro lì, soave e pacata, che ondeggi fi nalmente libera e serena nell’ argento puntato delle tue fo-glie, cullata da un dolce vento e da un dolce tepore. L’ulivo più bello è il loco del tuo riposo: l’ulivo di Ate-na. Come ero appesantita dal tuo silenzio insopportabile rudemente scandito dalle illusioni della mia quotidianità, dal tempo che tra-scorre; il tempo, questo tempio del nulla da cui tutto trae origine, dove tutto fa ritorno. Ed ecco che questo silenzio ora si fa nenia, ora canto, ora danza, ora vento. Germoglia e schiude in me il tuo immenso segre-to. Tramutato in raggio di sole mi parla ( o dolce corrispondenza d’ amorosi sensi!) illuminando la mia estasi con l’allegria faticosamente conquistata da te. Solletica in me il ricordo di momenti magici, quan-do si è radicato in me l’amore per la vita. Il raggio mi pervade, sei tu che continui a crearmi, a scoprirti fi duciosa. Mi hai insegnato l’impor-tanza del passato e del ricordo, del pensiero e dello scrivere, ritmo dell’anima tua. Tu che hai distrutto con rinascimentale risata le mie illusioni e i miei moti inte-riori. Tu che hai sfi dato ogni giorno il caso e la morte, riaffermandoti ogni volta più vigorosa e più salda di prima. Hai provato sulla tua pelle il valore immenso della vita, l’irripetibilità di ogni momento di un viag-gio che è sempre troppo breve. Mi hai fatto sentire la fi nitezza e l’immensità del nostro io, che rimarrà solido sempre nei nostri compagni, come un’onda che si ripercuote infi nita. Mi hai fatto danzare con l’anima del mondo. E così mi hai sussurrato all’orecchio che proprio per questo bisogna sempre essere aperti e feli-

ci di poter dire: “ piacere”. Poiché il bello dell’essere uomini è che ci si crea a vicenda! La felice consapevo-lezza di poter rendere più libera una persona e di non sottovalutare nessuno (poiché tutti hanno la loro su-blime musica da suonare), di renderla partecipe della tua libertà…omologhia! Mi hai raccomandato di essere criticamente aperta a tutte le esperienze poiché è di queste che è intessuta la stoffa della vita, e perché la gioia risiede in ogni angolo, anche il più angusto. Da

te ho appreso a desiderare la volon-tà di seguire la mia natura e i miei pensieri, dovunque essi conducano. Tu che hai capito tutto questo, hai appreso l’estrema necessità, la giu-sta rabbia, la terribile forza per di-fendere quel poco di libertà, digni-tà e giustizia, che questo inumano sistema ci toglie ogni giorno di più. È giusto lottare per una vita che sia senza compromessi, che possa esse-re libera e degna di essere vissuta. Preferire ogni volta i propri dubbi, le proprie angosce e verità, le pro-prie scelte e il proprio vuoto piut-tosto che le loro illusioni, la loro prigionia, la loro non vita. Sei sta-ta una guerriera della vita, pronta a conquistarsi ogni giorno. A lottare per un giorno di sole. Le mie parole sono ancora acerbe, il mio pensiero troppo caotico. È ancora troppo pre-sto per scrivere di te. Però sono co-sciente della mia felicità e ricchezza

per avere il cuore solcato dalla tua impronta luminosa. Queste sono le gocce sublimate del mio dolore, ma non chiedetemi cosa penso io; io, che ancora non sono ri-uscita a dire la parola fi ne, né mai riuscirò. Spero solo che un giorno saprò aggiungere il mio verso alla tua vita, sorella. Ma voi, leggete e ascoltate ciò che Corinna ha da dirvi, cose vere e degne poiché vissute; perché ogni persona che scrive di sé, che scrive degli altri, ha qualcosa di grande da tramandare: il proprio fresco segreto di vita.

“Visse sugli alberi. Amò sempre la terra. Salì in cielo.” Italo Calvino, Il barone rampante.

Impronte

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STORIE

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di Carla Tacchi

Essere soli al mondo, con una terribile malattia laten-te, è la condizione di tanti bimbi africani che ho in-contrato, che sono rimasti nei miei pensieri e che mi hanno permesso di conoscere sempre più in profondità il mistero della vita. Un’esperienza che dura ormai da sei anni, da quel lontano luglio 2004 quando, per una scelta del caso, mi sono trovata nella Missione S. Giu-seppe, in Zambia: da quel momento è cominciato un lungo viaggio, che dura ancora, sulle strade di questo paese fatto di estrema vitalità, di laceranti sofferenze, di straordinarie contraddizioni.Percorrendo le impossibili “strade” zambiane, incon-trando le persone nei loro sperduti villaggi, giocando con i bambini, osservando il duro lavoro delle donne, sono nate tante idee che man mano hanno preso forma di progetti, realizzati in collaborazione con i missiona-ri francescani, che propongono un modello di sviluppo che nasce dalle esigenze della popolazione ed ha come primo obiettivo il rispetto delle identità culturali loca-li.Lo Zambia è uno dei paesi più poveri al mondo, dei circa nove milioni di abitanti un milione sono bambini orfani di entrambi i genitori, vittime di un’inarrestabi-le epidemia di AIDS.Quando si attraversa la savana, rigogliosa e verdissi-ma nella stagione umida, bruciata e impolverata nella stagione secca, si ha la sensazione che per chilometri e chilometri non ci sia anima viva, ma basta fermarsi e come per incanto, dai tanti sentieri nascosti dalla ve-getazione, sbucano persone curiose, soprattutto bam-bini. Il più delle volte ci riconoscono e si avvicinano gridando: «Father Max, father Max!», il nome del mis-sionario italiano che ormai da quarant’anni vive nella regione del Copperbelt, e che per questa popolazione è diventato un punto di riferimento, una angelo custode, sempre con il sorriso sulle labbra e le tasche piene di caramelle.Un giorno eravamo nella casa di un uomo malato e si è presentata una bambina con un neonato sulla schiena, secondo l’uso africano. Ci parlava in bemba, uno dei tanti dialetti dello Zambia, e padre Max ha capito che chiedeva soldi per comprare latte in polvere. Il piccolo che portava con sé non era suo, ma lei aveva deciso di occuparsene perché era rimasto solo al mondo: entram-bi i genitori erano morti di AIDS. Junior aveva solo tre settimane, era orfano e il suo destino era nel cuore e

nelle mani di una ragazzina di dodici anni che, in ginoc-chio, mi guardava con due grandi occhi, gli occhi della speranza, e mi chiedeva di aiutarla a salvare quella piccola vita. A quel punto le ho chiesto di prendere tra le mie braccia il bambino, forse solo così avrei potuto credere che quello che stava accadendo fosse reale. Per un “bianco” è infatti impossibile comprendere le dimensioni di una tragedia di tale portata se non viene vissuta in prima persona, toccata con mano, respirata: solo quando si prende tra le braccia un esserino di tre settimane senza più né mamma né papà, si capisce fi no in fondo l’entità di un problema che nessuna statistica potrà mai rappresentare nella sua drammatica e dolo-rosa complessità.Soltanto un paio di volte ci è capitato di arrivare in zone molto lontane dalla missione, dove i bambini invece di venirci incontro scappavano terrorizzati. Alcuni anziani ci hanno detto che nei villaggi più isolati la paura dei bianchi è così forte perché ci sono uomini, provenienti dal “mondo civilizzato”, che rapiscono i bambini per rubare loro il cuore. Si perpetua anche qui la barbarie del commercio di organi.In realtà non esistono statistiche uffi ciali sul traffi co di minori per quanto riguarda lo Zambia e più in generale gli Stati dell’Africa subsahariana, ma negli ultimi anni si sta alzando un coro di voci allarmanti (Save the Chil-dren, Unicef, Terres des Hommes), a testimonianza del fatto che non si tratta di una leggenda ma di una dura realtà. In Mozambico, ad esempio, sono stati proprio alcuni missionari a denunciare la continua scomparsa di piccoli mendicanti di strada, ma l’inchiesta in corso non ha ancora prodotto risultati chiari. Troppo alti in-teressi e volume d’affari in proposito.Per fortuna, però, esiste anche un altro modo di incon-trare gli altri e quando con le auto sgangherate del-la missione ci spostiamo, siamo sempre circondati da questi cuccioli d’uomo, come mi piace chiamarli, scal-zi, sporchi, sempre sorridenti e con grandi occhi che mostrano tutto il dolore ma anche tutta la loro voglia di vivere. Sono sguardi che inevitabilmente si attacca-no all’anima come gli odori, i colori, i suoni di questa terra straordinaria. In Africa si sperimentano allo stes-so tempo inferno e paradiso, entità non scindibili, che rappresentano il fascino e le ferite di un continente che è specchio delle diffi coltà della contemporaneità.E allora per chi, come me, pensa che conoscere l’Africa

Quando i “bianchi” rubanoil cuore ai bambini

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SSTORIE

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signifi chi conoscere se stessi, il peso dei tanti perché di un’infanzia negata e violata diventa insostenibile, so-prattutto quando si è costretti a scegliere chi aiutare. Solo dopo anni ho imparato che esiste una gerarchia dei poveri che va rispettata con coerenza; ho imparato che si devono alleviare le sofferenze di tutti, ma che va privilegiato chi ha più possibilità di farcela, in una sorta di cinico ma indispensabile triage; ho imparato che la povertà non annienta la dignità e l’amore per la vita, anzi rende più forti e capaci di lottare.Con queste premesse, quando arriva il momento di par-tire per le out-stations in mezzo alla foresta si decide cosa portare e a chi, in base a quello che c’è a dispo-sizione in missione, giunto dall’Italia con i containers. La scorsa estate, tra gli altri aiuti (latte in polvere, pasta, legumi in scatola, coperte), avevamo da distri-buire circa mille piccoli panettoni al cioccolato. Una mattina, partendo, ne abbiamo presi un centinaio per i bambini della comunità di Kamakanga. Alla fi ne della messa tutti i piccoli sono in fi la davanti alla “signora bianca” e prendono il prezioso panettone. Rapidamen-te la scatola si svuota e tiro un sospiro di sollievo per-

ché mi sembra che tutti siano stati accontentati, ma un istante dopo vedo avvicinarsi, barcollando, un bambi-netto, che avrà avuto poco più di tre anni, sorridente e con la manina tesa per ricevere quello che gli spettava. La scatola era vuota e io, con profonda vergogna, ho dovuto dire di no davanti a quella manina tremante e a quegli occhietti che, come i miei, si sono riempiti di lacrime. E probabilmente anche perché credo profondamente che “un’ingiustizia commessa da qualche parte è una minaccia per la giustizia del mondo intero”, per citare Martin Luther King, quell’immagine tante volte torna con prepotenza alla mia mente e suscita rabbia, per-ché racchiude l’essenza di quell’ingiustizia che governa un mondo fatto ancora di “noi” e di “loro”, di uomini che si sentono migliori di altri uomini e che, in virtù di questa pretesa superiorità, possono anche permettersi di rubare il cuore ai bambini, restando impuniti.

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STORIE

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M I V E R G O G N Odi Rita Barbetti

Tante volte vorrei dire “Mi vergogno io per te”.Il sentimento della vergogna è spa-rito, volatilizzato, non se ne sente più parlare; sostituito addirittura dall’ostentazione, dalla sfrontatez-za, dalla maleducazione, dall’imbro-glio, dal cattivo gusto, dalla menzo-gna.Provo a fare atto di riparazione io per chi non si vergogna.Mi vergogno per chi sgambetta nuda, in mezzo ad un pubblico rigorosa-mente vestito, credendo chestia facendo arte.Mi vergogno per chi usa il privilegio di una casta per scroccare, come il più abietto parassita, quei servizi che alla gente comune costano pe-santi sacrifi ci.Mi vergogno per chi dice cose turpi in telefonate intercettate e reagisce non rinnegando i suoi loschi interessi ma chiedendo di vietare le intercettazioni.Mi vergogno per chi condanna l’aborto, omicidio di un bambino mai nato, e non condanna o comunque non cerca di contrastare in tutti i modi la morte di giovani persone, in un barcone abbandonato in mezzo al mare, rifi utato da Malta e dall’Italia.Mi vergogno per chi condanna la libertà di morire con-cessa ad Eluana dopo 17 anni e non cerca con tutti i mezzi di salvare dalla morte per denutrizione tanti bambini affamati.Mi vergogno per chi non sa aspettare il suo turno per parlare e fa violenza all’altro.Mi vergogno per chi vuol far credere che ai giovani in-teressino solo programmi spazzatura e voyeuristici, e dissimulano la loro volontà di appiattire e annientare la rifl essione.Mi vergogno che in un paese dall’economia così malri-dotta, come il nostro, ci siano le indennità più alte al mondo per i politici e un numero indicibile di auto blu.Mi vergogno per chi dice “Io mi batto per la famiglia!”ma quale? Ne ha due ed anche tre.Mi vergogno ancora per più di chi fi nge di credergli.

Mi vergogno di pensare che il silicone sia ormai un in-grediente fi sso nel corpo di molte donne, che lo ostentano come fos-se di grande sex appeal agli occhi vogliosi di uomini, che non credevo gradissero tanto questo tipo di ma-teriale.Mi vergogno per chi dice: “A me la politica non interessa, non la seguo, non voto”. Forse non sa che non sta parlando di una squadra di calcio, ma di scelte che condizionano tutta la nostra vita, fi n nei risvolti più capil-lari: poter amare, guarire, partorire, viaggiare, parlare, studiare, manife-stare…Mi vergogno ancor più per quelle per-sone che inseriscono fi gli e parenti-capre (con tutto il rispetto per questi innocui animali) in posti di prestigio e delicati, lasciando fuori giovani

brillanti e meritevoli, che o sono costretti a espatriare o a fare la fame.Mi vergogno per chi vuole far credere che strisciare sia come camminare, che sembrare sia più importante che essere, che avere sia più importante che pensare.Io auspico con tutto il cuore che ritorni una ventata di buon senso, che si possa di nuovo diffondere sulle guance di chi l’ha fatta grossa quel salutare rossore che denotava un altrettanto salutare sentimento: LA VERGOGNA.

Mi vergogno per chi condanna la libertà di morire

concessa ad Eluana dopo 17 anni

e non cerca con tutti i mezzi di salvare dalla morte

per denutrizione tanti bambini affamati.

L’angolo della vergogna

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SSTORIE

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Liberodi Libero Pizzoni

Marta sposa picchiata sposa fortunata

Vescia 1932

Era bella con l´abito bianco, vergine sposa felice. Quando ci si sposava nei paesi, tutti erano invitati e in giorni come quello le quattro o cinque camicie nere che di solito passeggiavano impettite non si sarebbero fatte vedere. Zio Pippo era conosciuto, era comunista, ma soprattut-to era uno dal cazzotto pesante, quindi che si godesse il suo tanto desiderato sposalizio. Al termine della cerimonia, all’uscita dalla chiesa, non c’era dunque la milizia locale, che poi erano le stesse persone con le quali fi no a poco tempo prima avevi gio-cato a briscola alla bettola, ma gente foresta, che era venuta a dare una lezione a quel fanfarone rosso. Appena sgamata la situazione zio Pippo attivò la mi-glior difesa, cioè l´attacco: “Venite a salutarmi uno per volta se ve la sentite”. Il capo del manipolo, un po’ per orgoglio un po’ per dovere, si fece avanti e si ritrovò subito lungo tra la polvere. Al grido di “sporco comunista” tutti gli altri cinque o sei gli furono addosso menando a tutta for-za. Marta, terrorizzata, innamorata, appena sposata, si gettò sopra lo zio Pippo, per difendere il suo uomo, per onorarlo, per amarlo anche in quel momento. Rapporto fi nale: • capo manipolo: dal quel giorno ha vissuto con una

mandibola d’argento • gruppo camicie nere: contusioni varie, tre denti

spezzati, due occhi neri come le camicie • zio Pippo: labbro spaccato, lievi altre ferite lacero

contuse• Marta: ecchimosi varie dal collo alle cosce su fondo

viola • conseguenze immediate: la luna di miele è stata

consumata con un ritardo di più di una settimana • conseguenze a lungo termine: Marta e Pippo si sono

sempre voluti bene anche grazie a quell’episodio e Marta ha sempre capito il suo uomo e sempre lo ha incoraggiato, come quando andò a combattere in Spagna nel ´36 o sulle montagne nel ´44.

s p a z i oLa farfalla

Belfi ore

A carnevale tutto il paese si mascherava. Piccoli e grandi Arlecchini spuntavano dai vicoli, fatine e baffuti “cauboi” correvano nella piazza. A scuola, dal prete e nei locali della sezione del P.C.I. si organizzavano sem-plici ma popolose feste per i bambini e per i grandi. Il piccolo Sestilio non si era ancora mai mascherato e aveva tanta voglia di farlo ma non aveva nessun co-stume e la mamma non aveva né tempo né denaro per sopperire a tale mancanza. “Ma’- continuava a chiedere - voglio mascherarmi da farfalla”Sestilio amava le farfalle ed era felice quando poteva correre dietro a loro allargando le braccia ad imitarne il volo. Gli piacevano molto quelle poco colorate, pre-feriva quelle bianche o al massimo a due toni di colore, tipo bianco e nero o marrone. “Certo che sono sicura”- disse la mamma mentre gli infi lava il pigiamino a strisce, proprio quello con cui andava a dormire tutte le sere– “sono proprio i colori di una farfalla che si sveglia una volta all’anno per 15 giorni e poi torna a dormire, e adesso vai a giocare con gli altri bambini”. La farfalla-Sestilio, ad ali spiegate, cominciò a volare e a chiedere in lingua farfallesca che lui conosceva così bene: “Frr, frr chi so, chi so?” ma ogni volta si sentiva rispon-dere “Ciao Sistì, ciao Sist씓A ma’, me riconoscono tutti! Perché?”“E certo core mio, non te sei messo la mascherina!” “Ma io credevo d’esse ‘na farfalla e le farfalle mica portano la mascherina”

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PERSONE

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Come foglie di

Per una curiosa legge del contrappasso, i cespugli di viburno, che in questa stagione si riempiono di fi ori di un bianco quasi abbagliante, costeggiano due strade di Firenze molto diverse tra loro. Li vedo lungo il viale dei colli, a celebrare il tripudio della sistemazione urbanistica della Firenze tardo-ottocentesca e borghese, vicino al belvedere di piazzale Michelangelo, in mezzo a villini fi ntogotici e bow-window che occhieggiano tra i rami. E poi li ritrovo anche lungo lo stradone che porta a Sollicciano. Tanta bellezza insultata dal carcere. Come nella canzone di Francesco Guccini, lì questa pianta diventa “triste, come i fi ori o l’erba di scarpata ferroviaria”. Ma nonostante tutto, per un breve tratto questi fi ori riescono a dare l’illusione della primavera che avanza. Almeno fi no a che non si supera il cancello di ingresso e non si viene inghiottiti dal carcere.All’interno del carcere non ci sono stagioni. A parte l’estate con il suo caldo feroce. Dalle fi nestre piccole e strette, chiuse da sbarre che lasciano a malapena passare un braccio, fi ltra poca luce e non si ha la percezione del mondo che sta “fuori”. I colori, le luci, gli odori si spengono in un universo grigio di ferro e cemento, si perdono tra i muri con gli intonaci scrostati e i soffi tti ammuffi ti che trasudano umidità anche d’agosto.Il carcere cancella tutto. Chi vi è rinchiuso non vede intorno a sé altro che recinti, muri, sbarre, cancelli. Non c’è panorama. Solo chi ha l’ergastolo ha il “privilegio” di avere una cella ai piani più alti: così, se guarda fuori, potrà vedere più lontano. E’ diffi cile spiegare la sensazione fi sica di segregazione che ti assale quando sei là dentro, anche solo per poche ore, come accade a me. Dopo, ti accorgi di quanto siano belli la pioggia, la nebbia, lo smog, il traffi co. Una volta sono andata a prendere Samir, un detenuto che usciva per un permesso di ventiquattro ore. Eravamo in macchina e a un certo punto lui ha esclamato: “Che voglia avevo di vedere un semaforo!”. Ecco, per lui stare in coda in attesa del verde era un’esperienza emozionante. Anche in carcere è comunque possibile trovare “isole di vita”, che si fanno strada con la stessa forza e ostinazione di certi fi li d’erba che bucano l’asfalto: la

scuola è una di queste. E’ uno strano posto, la scuola in galera. Come altrove ci sono banchi, cattedre, lavagne, registri, programmi di studio, compiti in classe. Insomma, il repertorio ormai collaudato. Ma lì, in quella che i detenuti hanno chiamato l’aula “di ferro”, si respira un’aria diversa. Proprio in quell’aula passa un confi ne, invisibile agli occhi ma chiaramente percepibile con tutti gli altri sensi, tra il “dentro” e il “fuori”. Lì avviene il contatto con tutto ciò che in carcere è precluso, l’apertura sul mondo. “A scuola è stato un po’ rinascere, ascoltare e dialogare ha ripreso senso: un cuore che, grazie ad impulsi esterni, ha ripreso a battere in sintonia col mondo che vive”, ha scritto una volta Beppe, ora diplomato e libero.

A cos’altro dovrebbe servire la scuola se non a questo? A ridare voce e respiro a chi non ce l’ha, a dare una risposta a un prepotente bisogno di esprimersi e di comunicare, a mettere in moto una metamorfosi. Tutti, insegnanti e studenti, si trasformano e diventano altro. Gli insegnanti non si possono nascondere dietro le consuetudini, sono costretti alla sincerità. Devono essere disposti a mettersi in gioco. Non c’è niente a fare da schermo. Se fossimo a teatro, dovremmo eliminare la scenografi a, i costumi, le luci per ridurre lo spettacolo all’essenziale, al rapporto tra attore e spettatore. A scuola, non c’è altro che il rapporto,

di Paola Nobiliquercia

E’ uno strano posto, la scuola in galera.

Come altrove ci sono banchi, cattedre, lavagne,

registri, programmi di studio, compiti in classe.

Ma lì, in quella che i detenuti hanno chiamato

l’aula “di ferro”, si respira un’aria

diversa

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SPERSONE

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intenso ed emozionante, tra due esseri umani. Flavio ha scritto: “Un osservatore che provasse per un solo istante l’intensità dell’emozione che un’aula così eterogenea emana resterebbe impietrito”; in curiosa assonanza con Edoardo Albinati che in Maggio selvaggio affermava: “Se provassi per un solo istante l’intensità del dolore emanato dal luogo, ne sarei incenerito, distrutto”. Ogni volta che vado a scuola a Sollicciano – cosa che accade da otto anni - resta impressa nella mia mente l’immagine di tante mani che stringono le mie mani.

E quel gesto che in altri contesti è routinario, in carcere è denso di signifi cati. In quel mondo fuori dal mondo proprio gli sguardi e i gesti apparentemente irrilevanti cominciano ad avere un senso preciso. Tutto ciò che avviene possiede un’intensità speciale perché rappresenta un’occasione non scontata per comunicare; e allora bisogna far parlare anche gli occhi e le mani. Prima delle vacanze di Natale, quando a scuola ci

salutiamo con la tristezza e la consapevolezza che sta per cominciare un periodo in cui in carcere il dolore si fa più aspro e la solitudine più pungente, Francesco ha scritto una poesia dedicata agli insegnanti:Forse noi ragazzi delle scuole/vi gridiamo dietro parole aspre,/chiacchiere senza speranza,/sogni e tristezza./Già, la tristez-za/la conosciamo bene,/sta a sinistra e a destra dei cancelli,/tra le mura, nei corridoi,/ogni anfrat-to ne è colmo./Ma c’è una speranza/le vostre parole, i vostri gesti/ci riempiono dentro/ci narrano storie con un’eco incredibile./E’

vero/non possiamo saltare fi no ai frutti,/arrampi-carci sugli alberi,/scuotere i rami,/abbracciare un tronco/o alla sua ombra farci cullare dal vento./Ma la vostra presenza è come foglie di quercia/che la-sciano fi ltrare i raggi del sole./I profumi che qua si perdono,/si confondono/e riacquistano i sapori di so-gni perduti./La vostra presenza è un arcobaleno tra due mondi/come un ponte valicabile,/non più buia rampa o labirinto oscuro./Ma come l’ora delle ulti-me stelle/quando la luce solleva le palpebre degli occhi/e un nuovo giorno sorge.

In autunno, il giardino davanti alla mia casa si riempie di foglie secche. Una volta mi venne in mente di raccoglierle e portarle in carcere. Scoprii di aver fatto ai miei studenti un regalo meraviglioso. Alcuni di loro non vedevano una foglia da molti anni. Qualcuno tra i più giovani mi chiese se poteva prenderne due, o tre. Hamza, un educato signore turco di una certa età, mi spiegò che le avrebbero messe dentro le lettere per le loro fi danzate lontane.

Ogni volta che vado

a scuola a Sollicciano – cosa che accade da otto anni -

resta impressa nella mia mente

l’immagine di tante mani che stringono

le mie mani

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STORIE

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Non appena la primavera comincia a fare capolino nelle nostre giornate, il profumo dei fi ori e il tiepido sole iniziano a farci compagnia durante i pomeriggi, e la sera si comincia ad andare in giro senza più cap-potti e cappelli, ecco che immediatamente i nostri vicini di casa, al chiarore dei lampioni che riversano la loro fi oca luce arancione sulla strada e sui marcia-piedi, la sera, decidono di inaugurare la nuova, bella stagione, organizzando una festosa cena dove viene invitato tutto il vicinato. Ognuno porta qualcosa, chi il dolce, chi la carne alla brace, chi un contorno, chi la polenta, chi la porchetta. Questa è certo un’oc-casione per gustare insieme il buon cibo tipico della nostra regione fatto in casa, ma anche per fare due chiacchiere, ridere, stare in compagnia. Ed ecco che proprio durante una di queste cene scorgo, all’angolo più re-moto della lunga tavolata im-bandita, una signora sui qua-rant’anni dall’aria malinconica e la carnagione olivastra, con un fazzoletto in testa, che im-bocca silenziosamente l’an-ziana signora che accudisce. È Amina, la badante della ultra-novantenne che sta al suo fi an-co, parente di uno dei gioiosi commensali, che poco sembra-no curarsi di quelle due om-bre silenziose a fondo tavola. Nello sguardo di quella miste-riosa donna dalla carnagione olivastra e dal fazzoletto scuro in testa, intravedo un’espres-sione complessa da descrivere: da una parte, è come se la sua mente si librasse in un mon-do completamente estraneo a quello presente, dall’altra, i suoi vispi occhi color nocciola saltano da un volto all’altro, quasi per chiedere disperatamente attenzio-

ne o per cercare di comprendere le parole, a lei sco-nosciute, che guizzano così velocemente dalle bocche degli altri. Dopo averla osservata per un po’, mi alzo in piedi quasi di scatto, e vado verso di lei. Ho deci-

so, voglio farle un po’ di com-pagnia. Voglio farla sorridere, dimostrarle che qualcuno si è accorto di lei, parlarle un po’. Non appena vede che la mia attenzione è rivolta a lei, su-bito Amina mi porge un largo sorriso. Mi conosce di vista, mi ha già visto lungo la via dove abitiamo, qualche volta, men-tre lei portava a fare una pas-seggiata l’anziana signora e io uscivo o rientravo in casa, e ci siamo sempre salutate cor-dialmente, ma nulla di più. In realtà non ci conosciamo dav-vero, non ci siamo mai fermate a fare una chiacchierata, ed è questo che ora voglio fare. E mentre mi dirigo verso di lei, decido anche di farle una sor-presa, che senz’altro la farà sorridere ancora di più. Mi sie-do e la saluto, prima nella mia lingua e poi nella sua. I suoi

occhi prendono vita come mai avrei creduto, mi guar-

Quella donna di Claudia Brandi

all’angolo del tavoloscorgo,

all’angolo più remoto della lunga tavolata imbandita,

una signora sui quarant’anni dall’aria malinconica

e la carnagione olivastra, con un fazzoletto in testa,

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SSTORIE

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dano e mi sorridono con una gioia profonda dal cuore. Esclama: “ma tu parli arabo!?”, e io rispondo di sì, le spiego che lo studio all’università, e che seppur sia una lingua che per me, italiana, è diffi cile da impa-rare, mi piace molto e sono felice di parlarla con lei. È a quel punto che immediatamente conquisto tutta la sua fi ducia e lei è così felice che inizia a ridere, mi benedice, mi abbraccia, mi bacia persino, quasi non crede alle sue orecchie, che fi nalmente ascoltano di nuovo suoni a lei familiari e comprendono le paro-le senza fatica. Dalla donna silenziosa e malinconica che era fi no a un attimo prima, immediatamente si trasforma in una simpatica chiacchierona, inizia ad attaccare un lungo discorso, un po’ in arabo e un po’ in italiano, e mi tratta come la sua più vecchia e cara amica. Iniziamo a parlare di tante cose, ma è soprat-tutto lei che mi spalanca il suo cuore e riversa su di me i suoi pensieri negativi, quei pensieri che io avevo già intuito dai suoi occhi guizzanti, ma che lei prima nascondeva nella sua anima. Mi racconta che ha 48 anni, viene da Casablanca, in Marocco, e mi spiega il motivo per cui è venuta in Italia. Dice che, poiché da bambina non ha potuto studiare, in quanto nel suo paese l’istruzione costa cara e la sua è una famiglia molto modesta, vorrebbe dare ai suoi fi gli ciò che i suoi genitori non hanno potuto dare a lei: un’istruzio-ne. Ma per questo servono soldi, soldi che si possono guadagnare in Italia, perché se una moneta qui vale 1 in Marocco vale 10, e questo, al suo paese, come da noi, fa la differenza. Le chiedo se dove sta adesso le piace e lei mi risponde di sì, dice che Foligno è una bella città, tranquilla, laboriosa, ci si vive bene ma le manca molto la sua famiglia, soprattutto i suoi due piccoli fi gli che ora stanno col padre e la sorella di lui. Da loro, mi dice, il concetto di famiglia è diverso dal nostro. Se qui da noi famiglia è uguale a padre, madre e fi gli, da loro la famiglia, in senso stretto, compren-de anche tutti i nonni, gli zii e i cugini. Ogni sera ci si ritrova assieme, si chiacchiera e si mangia il cous cous, si beve il the alla menta, ci si aiuta sempre. Da noi molto spesso invece, se tutto va bene, ci si fa una telefonata per Natale e Pasqua. La grande no-stalgia che proviene dalla sua bocca e dai suoi occhi per i suoi fi gli lontani, rimasti in Marocco, mi rattrista molto e tento di consolarla, dicendo che “inshallah”, se Dio vuole, tutto si sistemerà. Di lì, non so come, parte una conversazione che verte sul tema di Dio, il grande Allah, colui che tutto muove, vede e coman-da, dal cielo alla terra. Quel Dio che ebrei, cristiani e musulmani pregano, seppur in maniera diversa, ma che è unico ed uno solo per tutti. Ed è quando inizia

il discorso su Dio che sperimento la bellezza di par-lare con una persona di religione diversa dalla mia e di trovarmi totalmente d’accordo con lei senza avere paura di questo argomento così delicato. Lei mi dice che Dio è il più grande (“Allah akbar”), è lui il più po-tente di tutti, e con il suo aiuto lei riuscirà a farcela. E mentre lei dice questo, mi accorgo che l’empatia tra noi due è sempre più forte, e poi qualcosa di me-raviglioso accade nel momento in cui lei chiede a me, che sono cristiana, di leggerle il Corano in arabo, per-ché lei non lo sa leggere. E io accetto. Alla fi ne della cena, ci salutiamo e ridiamo di una risata che non conosce traduzione, che è una e unica e che ci lega, come l’unico Dio in cui entrambe crediamo.

Questo è un breve sprazzo di vita. La vita di un’anima. L’anima di una donna che proviene da un’altra nazione con una storia, tradizioni, usi e costumi molto diversi dai nostri, che parla una lingua molto diversa dalla nostra, che professa un’altra religione. Ma una donna che come qualsiasi mamma di questo mondo lotta per dare un’istruzione ai suoi fi gli, per dare loro ciò che lei non ha potuto ricevere. Una donna dalla grande umanità, dal grande coraggio, dalla grande volontà e anche dalla grande fede. Io spero che possa farcela e con lei tutte quelle mamme venute da altri paesi per lavorare, segnate ogni giorno dalla responsabilità di dover mandare avanti una famiglia e dalla paura di non farcela, ma pronte a rischiare tutto questo per amore dei loro fi gli. Sono loro, quelle donne, che a parer mio rappresentano il vero lato buono dell’im-migrazione.

e poi qualcosa di meraviglioso accade nel momento in cui lei chiede a me,

che sono cristiana, di leggerle il Corano in arabo,

perché lei non lo sa leggere

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STORIE

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Zia Nerina, nata nel 1915 a Padova, iniziò a scrivere il suo diario nel 1940. A dire il vero quel librone con la copertina rigida mar-rone e le pagine a righe era stato comperato per più concreti usi: trascrivere, mese dopo mese, le entrate e le uscite della sua famiglia. Una cosa certamente in-dispensabile per una famiglia con otto fi gli, anche se benestante, tanto che Nerina, per suggellare il ruolo assegnatole di amministratrice, aveva scritto in coper-tina, con inchiostro nero oggi sbiadito, “Contabilità do-mestica”. Effettivamente le prime pagine non lasciano dubbi: con una bella grafi a sono annotate, mese dopo mese, le spese e gli incassi della famiglia.

Mese di Maggio 1940

Pagine e pagine tutte uguali, tremendamente noiose, se non fosse per certi “acquisti” che oggi ci fanno sor-ridere e per altri che ci ricordano l’infanzia. Però, ad un certo punto, zia Nerina mette là un appunto a fon-do pagina: Il 10 giugno è scoppiata la guerra. Italia contro In-ghilterra e Francia. La contabilità domestica lascia spazio alla cronaca.Lo stesso succede qualche pagina oltre : Mese di Aprile 1941 Fattura materassi 65, Due prosciutti 250, Rimodernatura cap-pello 20 … e poi Martedì 22 aprile le truppe greche della Macedonia e dell’Epiro hanno deposto le armi e chiesto la cessazione del fuoco.Beccata ! Zia Nerina si è fatta prendere la mano ed ecco che il librone-diario diventa molto più interessan-te: cambiano i contenuti ed i toni.Mese di Maggio 1943Comprati calzoni Claudio a debito Due pagine tagliate e poi una intera pagina di storia22-11-43 Foligno è stata bombardata per la 1° volta. Molti i danni. La via maggiormente colpita è stata la nostra (via Piave). Tutti abbiamo corso uun serio pericolo. Mamma,

Angela e Claudio sono rimasti feriti. Si contano 150 morti e molti feriti.19-12-43 Alle ore 14 Foligno ha subito un altro bombarda-mento29-12-43 Oggi alle ore 13.30 Foligno è stata ribombardata. La nostra casa è rimasta un po’ lesionata. Nessun morto.7-1-44 Oggi alle ore 12 Foligno ha subito il 4° bombarda-mento.15-1-44 La nostra città è stata bombardata per la 5° volta in 4 ondate. La prima volta alle 12, poi alle 14,30 e le al-tre a poco tempo di distanza. Questa volta anche il centro della città è rimasto colpito. Si lamentano parecchi danni e qualche morto. Abbiamo avuto tanto spavento.21-1-44 C’era tanta nebbia ma Foligno è stata bombardata ugualmente.28-1-44 Questa sera alle 19.30 Foligno è stata bombarda-ta. 1° bombardamento notturno.16-2-44 Ancora un altro bombardamento. 3 ondate.22-2-44 Un altro bombardamento18-3-44 Un altro bombardamento ha colpito tutto il cuore della città.2-4-44 Un altro bombardamento. Ha preso la stazione.24-4-44 Un altro bombardamento. Presa la stazione.3-5-44 Bombardamento ad opera di caccia bombardieri. Obiettivo ponte della ferrovia. 2 ondate.16-5-44 Un altro bombardamento12-6-44 Un altro bombardamento. Colpita in modo grave Porta Firenze e zuccherifi cio spaccato a metà. 2 ondate.13-6-44 Bombardamento a Uppello, 5 o 6 bombe sul campo di Dusolina.14-6-44 Un altro bombardamento notturno.17-6-44 Occupazione di Foligno da parte degli inglesi.

Il libro di contabilità domestica era diventato il “blog” di Nerina. Aveva raccontato così la storia dei bom-bardamenti aerei che provocarono a Foligno, fra no-vembre del ’43 e giugno del ’44, oltre cento morti e che distrussero più della metà del centro storico. Per questo, nel 1961, il Presidente della Repubblica con-ferì alla nostra città la Medaglia d’Argento al Valore Civile, con la seguente motivazione: “Sopportava con fi ero comportamento ripetuti bombardamenti che ar-recavano gravi distruzioni agli impianti ed ai fabbrica-ti e numerose perdite di vite umane. Partecipava con intrepido coraggio alla lotta per la liberazione, offren-do alla resurrezione della patria un largo tributo di sangue dei suoi fi gli migliori”.Cosa resterà, fra qualche decennio, dei blog dei nostri fi gli ?

Il blog didi Tania Raponi Zia Nerina

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SSTORIE

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Muovendomi nel traffi co sempre più caotico della nostra città, passando per via Oberdan, ho notato che sono stati tagliati quasi tutti i suoi alberi, che in estate offrivano ombra e refrigerio. Con tristezza ho pensato che, come recita una poesia di Brecht, in città “la pri-mavera non c’è più” e che, a ben guardare, neppure in periferia è tanto facile ravvisarne i segni. Se oggi, infatti, ci allontaniamo al di fuori delle “mura” cittadi-ne, percorsi i lunghi viali ancora alberati (Viale Firen-ze e Via Roma), non ci immettiamo più in una verdeggiante campagna, ma in tanti agglomerati costituiti da abitazioni e immensi capannoni, nei quali si spera (ma non sempre avviene) vengano installate attività produttive. Per carità, tutto legitti-mo, bisogna lavorare! Ma la salute dell’individuo e della comunità non conta nulla? Io temo che le futu-re generazioni, come profetizza Brecht, conosceranno lo spettacolo della stagione primaverile soltanto attraverso il ricordo degli scritto-ri. Non sono un pessimista, non lo sono per carattere, tuttavia devo dire che al riguardo nutro una certa preoccupazione. Infatti, per quanto concerne la mia esperienza, pos-so tranquillamente affermare che enorme è la distanza tra la Foligno in cui ho vissuto nella mia fanciul-lezza e quella in cui siamo attualmente. Io sono nato in Via Adige, una delle tante traverse di Viale Ancona, in piena periferia (allora), dove i giardini nella bella stagione profumavano di rose, gli orti erano pieni di freschi prodotti e noi ragazzi, durante le vacanze esti-ve, uscivamo di sera, dopo aver cenato, per perderci in giochi in quelle vie, dove passava solo qualche raro ci-clista e i nostri genitori non dovevano temere per la no-stra incolumità. La stessa palazzina in cui sono nato era circondata dal verde: un maestoso cedro del Libano, che offriva un grande ramo a cui appendere un’ altale-na; una splendida magnolia che s’innalzava fi n davanti alla fi nestra della cucina, quasi a volerci mostrare vani-tosa i suoi calici profumati; un bel visciolo (abbattuto), la cui fi oritura ammiravo dalla mia camera da letto;

due alti e ampi fi chi (anch’essi abbattuti), che faceva-no ombra a due enormi vasche (eliminate) con acqua sempre limpidissima, alimentate dalla cosiddetta “for-mella”, un piccolo ramo del fi ume Topino, che scorreva a destra (per chi procede verso Vescia) di Viale Ancona e che oggi è stato coperto per far posto ad un ampio marciapiede. Ricordo, inoltre, che la parte sud di Via Tagliamento (altra traversa di Viale Ancona, sulla quale si immette Via Adige, ora entrambe piene di traffi co e

di auto in sosta) si restringeva in un viottolo, con ai lati folte e spinose siepi, che noi ragazzini percorreva-mo per andare al fi ume. Mi sembra di avvertire ancora tutto l’entusia-smo che provavamo nel raggiungere la ripa del Topino, dove il manto ver-de ci accoglieva per farci distendere e scaldare al sole e da cui ci calava-mo per immergerci nell’acqua, che allora scorreva chiara e pura. Tutto intorno dominava il verde: al di là del fi ume, nella zona di Prato Sme-raldo, c’erano pochissime abitazioni e i campi, che in estate diventavano d’oro di spighe di grano, si esten-devano ampi e tranquilli. Anche il territorio che da Porta Ancona ar-rivava fi no alle cosiddette “case operaie” era allora tutta campagna: immense distese di coltivazioni oggi completamente fagocitate da case

e palazzi. Mi raccontava mia nonna che, da sposa gio-vanissima, abitava in uno degli appartamenti di quel lungo edifi cio: intorno c’era solo verde, dove mio non-no portava la sua papera, che aveva al collo un bel fi occo rosso e lo seguiva passo passo. Ecco, mi sono lasciato prendere dai ricordi, i quali rendono più acuta la consapevolezza di andare verso la distruzione della natura. È tornata la primavera, ma per vederla nella sua pienezza e in tranquillità, mi devo spingere fuori della città e, come mi succede già da qualche anno, alla vista di un ciliegio o di un pesco in fi ore provo uno strano sentimento, una gioia per così dire doloro-sa, proprio perché suscitata da immagini perdute di un mondo che non abbiamo saputo conservare per il bene dei nostri fi gli.

La primaveranon c’è piùdi Luciano Trabalza

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STORIE

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Il 24 ed il 25 Aprile, nell’ambito della Settimana del-la cultura promossa dal Ministero per i Beni e le Atti-vità culturali, si è svolta a Rasiglia la manifestazione “Penelope a Rasiglia”. Già al secondo anno, grazie alle iniziative dell’Associazione Rasiglia e le sue sorgenti, il paese rivive la sua tradizione manifatturiera. Alle fi -nestre, colorate coperte tessute a mano ci accolgono come bandiere. Le case si aprono e mostrano telai ed altri antichi strumenti di tessitura; in una di queste un video ci mostra tutta la lavorazione, dalla prepara-zione alla tessitura vera e propria. La tessitrice si chiama Arderia. Ha imparato la tecnica quando aveva poco più di vent’anni, da una anziana signora di Volperino. Ora, che di anni ne ha qualcuno in più, è ugualmente rapida e sicura; il video la mostra mentre prende i fi li, li lega insieme, ne prende altri, li

lega anche questi, secondo una sequenza di movimenti simili ad una danza. I suoi gesti sono leggeri. I fi li ven-gono separati, tirati, allineati. Arderia, che oltre che nel video è lì con noi, nota l’espressione, forse poco intelligente, con cui sto guardando il video e mi dice: “Dì la verità, tu che hai studiato, saresti capace di fare tutto questo?” Mi vengono in mente alcuni dipinti di Van Gogh, un Courbet, raffi guranti telai e tessitori… Tutto qui. Troppo poco. Ha ragione Arderia: questa è un’arte che non conosco. Ma che mi affascina profon-damente.Continuo a guardare i fi li che si muovono secondo uno schema stabilito secoli fa. E penso che tutta Rasiglia sia come un tessuto, un ordito, un intreccio di perso-ne, di fatti, di storie, ricordi, racconti, emozioni. In qualche modo lo è anche per me, che sono, a tutti gli

Penelope adi Carla Oliva Rasiglia

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SSTORIE

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effetti, una “straniera”.Rasiglia l’ho scoperta, infatti, solamente nei primi anni novanta, come passaggio obbligato per la casa delle vacanze a Morro. Per me era il paese dove poter tele-fonare (non c’erano ancora i cellulari), fare un po’ di spesa. E, naturalmente, fare scorta di acqua fresca e buonissima. Prima ancora il suo nome è stato lo scenario dei racconti della tragedia dei deportati a Mathau-sen che colpì, tra le tante, anche la famiglia di mio marito; attraverso le parole dei suoi parenti ho spesso provato ad immaginare la brutalità del sopruso ed il dolore lacerante, ma so di non es-serci mai riuscita. E, ovviamente, Rasiglia è an-che il Santuario della Madonna delle Grazie.Il terremoto del ’97 ha interrotto poi per anni le mie visite estive al paese, fi no ad un paio di esta-ti fa quando un’amica di Roma, anche lei, come me, villeggiante in agosto nella vicina Morro, mi porta con lei a Rasiglia, per farmi vedere una casa di cui si è innamorata! E’ una casa su due piani, lungo una delle stradine interne del Paese; bisogna salire, voltare un angolo, salire ancora, e fi nalmente eccola: non è stata ristrutturata, ma questo la rende affascinante ed anche un po’ misteriosa. Scavalchiamo una recinzione e sco-priamo che sul retro c’é un giardino pensile... é bellissimo. Da qui si sente ancora meglio lo scorre-re dell’acqua; di fi anco, invece, c’è un ponticello che porta ad un altro cortile. La casa è circondata dai mor-morii dei canali che passano in tutto il paese, sotto le case, dentro le case, di fi anco alle case. E la mia amica sogna di comprare la casa, farne una Locanda, descrive l’insegna di legno e ferro battuto, immagina il giardino fi orito, l’arredo, semplice ed accogliente per ospiti in ogni stagione. Con il suo sogno negli occhi, ci avviamo su per le altre strade; molte case sono state ristruttu-rate, attraversiamo ancora ponti e cortili e seguendo il rumore dell’acqua arriviamo in un punto nel qua-le non si odono più voci e rumori, perché il gorgoglio dell’acqua copre ogni altro suono. Mi viene in mente un episodio del fi lm Sogni di Akira Kurosawa, Il villaggio dei mulini, in cui appunto un villaggio attraversato da torrenti, non conosce altro “rumore” che quello dello scorrere dell’acqua.

Rasiglia, invece, non é un sogno, ma la sua realizza-zione: recuperare il passato per dar vita al presente e costruire il futuro. Questo lo scopo dell’Associazione Rasiglia e le sue sorgenti. Ho incontrato il suo pre-sidente, Umberto Tonti, che mi ha illustrato ciò che fi nora è stato fatto, le possibilità, le prospettive. Nata nell’estate del 2008, dall’entusiasmo di tutto il paese ed alla quale chiunque abbia a cuore il piccolo cen-

tro può aderire, è diventata un’associazione di promo-zione sociale con un suo ordinamento giuridico che le consente di interloquire con le istituzioni allo scopo di valorizzare il paese e farlo tornare ad essere un centro nevralgico del turismo e dell’economia della montagna folignate.

Il “Presepe vivente” e “Penelope a Rasiglia”, sono inol-tre due delle manifestazioni ideate dall’Associazione per recuperare ma soprattutto diffondere le tradi-zioni del paese. Alla loro realizzazione partecipano veramente tutti, dai bambini ai più anziani, facendo ciò che si sa e si può. Ognuno di loro è come se fosse uno dei fi li dell’antico telaio: stanno tessendo la stoffa più preziosa che Rasiglia abbia mai avuto. Quella della solidarietà, dell’amicizia, dell’interesse comune. Una signora mi dice di sentire “la gioia nel cuore”ogni volta che arriva qui ed incontra i suoi amici; non è pos-sibile dubitare neanche per un attimo delle sue parole: si vede benissimo, guardandola negli occhi, che è pro-prio così come dice. Lo ammetto, sono un po’ invidiosa di questo entusia-smo collettivo. Ma spero di aver trovato nuovi amici, ai quali offro volentieri la mia disponibilità.Torno a guardare le agili dita di Arderia… peccato, que-sto è veramente qualcosa che non riuscirò ad imparare mai!

Per avere maggiori informazioni sull’As-sociazione, potete consultare il sito

www.rasigliaelesuesorgenti.com

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STORIE

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La santità è dapertutto

Quella domenica di gennaio del 1984, come ero solito fare tutte le domeniche dopo che mi ero trasferito a Foligno, ero tornato con tutta la famiglia a Villamagina, dove risiedevano i genitori di mia moglie, con il solito programma; ascoltare la messa delle 11.00, fare una partita a briscola al bar per l’aperitivo, pranzare con i suoceri e poi, la sera, di nuovo a casa con il pensiero a lunedì. Il sacerdote che quella domenica celebrava la messa e che mi sembrava di vedere per la prima volta, aveva in realtà qualcosa di familiare, legato sicuramente alla mia attività di insegnante; mi ricordava qualcuno. Negli anni scolastici 1973/74 e 1974/75 insegnavo matematica e fi sica al Liceo Classico “Properzio” di Assisi, frequentato anche dai seminaristi del Seminario Regionale; uno di questi allievi era appunto Andrea Bonifazi, il parroco di Villamagina, che nel 1975 si diplomò con il massimo dei voti.Erano due i seminaristi che frequentavano il Liceo Classico “Properzio”, ambedue inseriti nella stessa classe, una classe piena di ragazzi e ragazze intelligentissimi dove, nel clima post-sessantottino di quegli anni, si lavorava veramente bene: le ragazze, poi, oltre che brave erano tutte veramente spigliate, coinvolgenti e qualche volta anche…. provocanti e frequenti erano i battibecchi e le dispute su tutto, soprattutto sui problemi dei giovani di sempre. Andrea Bonifazi era uno dei più attivi e puntigliosi.Ricordo che spesso mi chiedevo: ma si farà prete? Andrea si fece prete, e che prete!Nacque, ovviamente, un rapporto privilegiato e ogni volta che tornavo a Villamagina o durante l’estate, periodo durante il quale lì restavo, frequenti erano le occasioni di incontro e di scambi di idee con don Andrea.Rimanemmo in contatto pressoché continuo anche perché don Andrea iniziava ad interessarsi di informatica e si era dotato di un PC Olivetti M20, ovviamente rimediato di seconda mano, indispensabile per i suoi lavori, le sue ricerche ed i suoi molteplici interessi. Insieme realizzammo, tra l’altro, una procedura informatica per il censimento delle chiese e delle edicole votive del territorio, richiesto dalla curia di Spoleto.Era, don Andrea, di una tenacia impressionante, di

una metodica e razionalità innata, ma era anche e soprattutto di una genuinità sconcertante; capace di trattare qualsiasi problematica con naturalezza, anche con le persone più semplici, come i suoi parrocchiani della montagna.La vita paesana lo vedeva sempre presente in tutte le sue sfaccettature e lo coinvolgeva.Ricordo la vigilia dell’Epifania di uno di quegli anni; nel sellanese, nella notte dell’Epifania, era tradizione, e lo è tuttora, di andare per i paesi a cantare la “pasquetta”; don Andrea si unì al gruppo degli stornellatori. Questi, però, anziché dedicarsi subito al tema della natività, al fi ne di scaldare la voce, debuttarono con stornelli di ben altro genere. Don Andrea non si arrabbiò e non recriminò; solo si allontanò con la massima discrezione.Rigoroso, austero, essenziale; insegnante stimatissimo di Sacre Scritture all’Istituto Teologico di Assisi; era, fra l’altro, uno dei maggiori conoscitori di lingua Ebraica e lingua Greco-Biblica ma, contemporaneamente, sempre pronto ad ascoltare le sue vecchiette per concordare con loro l’orario di una messa di suffragio.Il 1° aprile del 1993 fu nominato parroco di Verchiano e a quel punto ci perdemmo un po’ di vista, ci si vedeva un po’ più di rado.Passarono gli anni e un giorno giunse, terribile, la notizia della grave malattia che aveva colpito don Andrea: leucemia.Continuò indefesso le sue molteplici attività con spirito veramente “eroico”.Morì al policlinico di Perugia la mattina del giorno di Natale del 1998, aveva 42 anni. Un mattino di giugno del 2009, inaspettata ma non troppo, giunse la notizia: la Chiesa avvierà il processo di beatifi cazione e canonizzazione di don Andrea Bonifazi, per “LE SUE VIRTU’ EROICHE”.E questo è avvenuto a Spoleto l’11 giugno 2009 in un duomo stracolmo di gente, alla presenza di 5 vescovi offi cianti. Il minuto sacerdote di mia conoscenza, il mio allievo liceale, salirà agli onori degli altari.

di Mario Barbetti

basta cercarla!

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SSTORIE

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Nelle vicinanze di Bevagna, tra il verde dei campi, occhieggia l’Aiso, un piccolo lago di forma circolare che ha suscitato interesse e suggestioni fi n dall’antichità, comparendo nelle carte topografi che e nei documenti uffi ciali riguardanti il territorio anche come Abisso, a indicare il mistero di una realtà nasco-sta, sfuggente e l’imperscrutabilità delle sue acque profonde. Si tratta più precisamente di una risorgiva di grande valenza idrografi ca e naturalistica, per que-sto inserita di recente tra i siti di rilevante interesse comunitario (SIC).Dal punto di vista geologico rientra nel complesso allu-vionale della Valle Umbra, sede di un esteso acquifero artesiano che occupa la zona compresa tra Bevagna, Cannara e Bastia Umbra e che alimenta l’Aiso e tutto il sistema di risorgive, originate molto probabilmente dall’antico conoide del Topino.Il fascino e la bellezza del posto hanno attirato l’at-tenzione dell’uomo fi n dal periodo preromano: presso le sponde del lago, infatti, nel Settecento, fu rinve-nuto un bronzetto votivo d’epoca umbra fi gurante un guerriero, successivamente disperso, come è accadu-to per molte opere antiche del nostro territorio, che testimonierebbe, insieme al complesso archeologico riportato alla luce in località Aisillo, l’esistenza di un antico luogo di culto, simile alle più note Fonti del Clitunno.La peculiarità del paesaggio e la compattezza d’as-sieme creano l’impressione che questo luogo sia un mondo a sé e nel contempo il centro del mondo, un onfalos fl uido che guarda verso l’alto, il cui genius loci si alimenta di una leggenda intramontabile.Da qui, lontano dalle principali vie di comunicazione e al centro di un territorio ancora intatto, la vista può spaziare senza ostacoli sui rilievi collinari e sui monti che circondano la Valle Umbra, con la mole azzurrina del Subasio ad est e la catena dei monti Martani ad ovest, offrendo quasi l’illusione che la natura si man-tenga ovunque incontaminata.Vado spesso all’Aiso e specialmente in estate non sono la sola a frequentarlo. Vi si possono incontrare turisti di ogni nazionalità che passando, a piedi o in biciclet-ta, incantati dalla sua sfuggente bellezza si fermano ad ascoltare, nel silenzio della campagna, le rane, gli

uccelli, il vento che accarezza i pioppi di varie specie. Se il sole lo illumina ha i colori del verde e del blu in-tenso ma sotto le nuvole è grigio, nell’oscurità nero, al sorgere e al tramontare del sole dorato, qualche volta, sul far della sera, roseo e perfi no rosso; nelle intemperie è plumbeo, dov’è poco profondo diventa verde cangiante, in alcuni giorni trasparente, in altri cupo. L’Aiso deve la sua particolarità e la fama anche a una leggenda locale, già nota nel Seicento, dove si rac-conta che la sua origine è dovuta allo sprofondamento della casa di un ricco ed empio contadino di nome Chiarò, che, sprezzante della religione, aveva voluto “battere” il grano il 26 di luglio, giorno dedicato a Sant’Anna. Tale santa è protettrice del parto, ma è conosciuta soprattutto, nella cultura agraria umbra, come “signora delle acque”, siano esse lacustri, plu-viali, sorgive o amniotiche.Quant’acqua già vecchia ci sia in ogni istante, e quan-ta di quella nuova, viva, la sostituisca, nessuno può saperlo. L’Aiso appare comunque eterno, benché le sue sponde ogni tanto sprofondino su se stesse, come è accaduto di recente, a dimostrazione che nulla è fermo e defi nitivo, in natura. Vale la pena andarci, l’ultima domenica di agosto, per la festa dei pomodori che Salvatore Denaro, il “Bac-co felice” di Foligno, organizza da qualche anno sulle sue sponde. Un pranzo semplice, un’allegra scampa-gnata, una festa, alla fi ne dell’estate, che sa di risa-te, di fotografi e, di gesti leggeri e tempi passati. Gli abitanti del posto sono forse ormai assuefatti alla bellezza del lago, che si arricchisce di valori ambien-tali, archeologici, poetici, antropologici ed evocativi, legati alla terra e all’acqua. Ma credo che la dignità e l’avvenire del paesaggio siano minacciati oltre che da una scriteriata urbanizzazione periferica e dagli inopportuni sfruttamenti naturali anche e soprattutto dalle insuffi cienti difese e dall’indifferenza dell’uo-mo, inconsapevole della fragile e delicata ricchezza della natura.

L’abisso didi Adalgisa Crisanti Bevagna

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STORIE

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Nel 2007 è stato realizzato a Valtopina, su ini-ziativa della Pro loco e del presidente Maria Mancini, con il contributo del Comune e della Regione, il Museo del Ricamo e del Tessile.Occupa gli spazi sottostanti il Palazzo Comunale e vi si accede dal retro.Un portone di legno schiude uno scrigno di preziose tri-ne e merletti, ricami realizzati ad arte, abiti da sogno.Il museo è diviso in tre sezioni: la biancheria personale, la bianche-ria per la casa e l’abbigliamento. I pezzi di biancheria sono sistemati in bacheche che hanno la forma di cassettiere e, aprendo i cassetti, si ha la sensazione di aprire i vec-chi comò delle nonne e di scoprire i loro tesori e i loro segreti. Abiti, busti, camicette, cuffi e fanno in-vece bella mostra di sé in teche trasparenti e catturano con la loro raffi natezza il visitatore.I manufatti in esposizione sono da-tati tra la fi ne del XIX sec. e l’ini-zio del XX e sono stati donati da privati che hanno voluto che parte della loro storia personale fosse uno stralcio di una storia collet-tiva. Provengono dall’Umbria ma anche da fuori regione.Molti capi, prima di diventare pez-zi da museo, sono stati indossati nel défi lé che si tiene ogni anno a settembre in occasione della Mostra del Ricamo e del Tessuto: hanno così avuto la possibilità di rivivere e soprattutto di riportare indietro nel tempo e di incantare un pubblico sbalordito e trasognato.Il museo rappresenta quindi un’importante testimo-nianza di storia del costume e fornisce uno spaccato non solo di moda ma anche di cultura. Offre l’oppor-tunità di conoscere e di riappropriarsi delle origini e delle tradizioni che, in un mondo globale, costituisco-no i valori più autentici e contribuiscono a costruire l’identità di un individuo. L’anticamera del museo dà spazio a un laboratorio in cui si insegna l’arte del ricamo. Il laboratorio è il nu-cleo generativo del museo e rappresenta il fi l rouge che collega il passato e il presente.

Il museo ha accolto importanti iniziative: nel 2008 una mostra di ricami dedicata al Pinturicchio e nel 2009 un’altra intitolata “Modulare - Piermarini architettura e fi lo”, realizzata in concomitanza con le manifesta-zioni piermariniane, in cui i moduli architettonici del Piermarini sono stai realizzati a ricamo e a merletto.Le mostre hanno prodotto interessanti cataloghi, che si sono avvalsi di contributi di esperti del settore ed

hanno ricevuto un grande consenso. Gli eventi al museo sono un signifi cativo mezzo di pro-mozione e valorizzazione e diventano una via di rac-cordo con il territorio, che consente di realizzare una rete, per usare una metafora legata al fi lo, di rapporti e conoscenze.Tutto questo, in un piccolo paese, è stato possibile e continua ad esistere grazie alla passione di volontari e alla competenza di un team interdisciplinare di profes-sionisti che si integra e collabora ad un progetto spe-cifi co.

Il Museo del Ricamo e del Tessile è aper-to il mercoledì e il sabato con il seguen-te orario: 15.30-18.00, orario invernale,

16.00-18.30, orario estivo.

Il museo didi Cinzia TomassiniValtopina

Foto di Luca Petrucci

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SSTORIE

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“Cosa succede, cosa succede in città…”Rubiamo a Vasco Rossi le parole di una vecchia canzone per usarle come incipit di una pagina di notizie riguardo, appunto, a ciò che accade in città e dintorni.Non parleremo, però, di “qualcosa che non va”, ma di alcune delle iniziative di valore presenti sul territorio, legate ai temi cari alla rivista: la memoria, la pace, i diritti di cittadinanza, la partecipazione, le narrazioni, l’arte, il confronto.Comitato dell’acqua.Nel mese di aprile è tornato a riunirsi il comitato citta-dino che si è costituito anche a Foligno, come in moltis-sime città italiane, a salvaguardia dell’acqua pubblica. L’impegno del Comitato nasce dalla considerazione che l’acqua è un preziosissimo bene comune e tale deve rima-nere, che la fruizione dell’acqua è un diritto inalienabile di tutti i cittadini e che il gestore della distribuzione ed erogazione deve essere un soggetto al quale sta a cuore il bene della comunità e non i propri interessi economici.Pertanto l’attività del Comitato si focalizza sull’obietti-vo della ”ripubblicizzazione dell’acqua” in contrasto con la privatizzazione dei servizi idrici prevista dal Decreto Ronchi (cfr. articolo Sorella acqua, n. 1 di Chiaroscuro).Alla fi ne di aprile è iniziata la campagna referendaria, fi nalizzata a raccogliere le fi rme per abrogare tutte le norme che in questi anni hanno spinto verso la priva-tizzazione dell’acqua. Per contatti: la sede è in Via IV novembre 19/a. Iniziative per la pace in Palestina e IsraeleNel mese di aprile e nella prima metà di maggio, la Casa dei Popoli, con la Tavola della Pace, e con l’Assessorato alla pace e alla memoria del Comune di Foligno, ha orga-nizzato alcune importanti iniziative tese a riportare l’at-tenzione su quanto avviene in Israele e Palestina. Il 20 aprile si è tenuta un’assemblea pubblica per rifl ettere sull’irrisolta questione del confl itto e per interrogarsi su quanto ognuno di noi può fare per questa terra bisognosa di pace. I primi di maggio sono inoltre arrivate nella nostra cit-tà Khitam Y.S Eddik e Molly Maleker, l’una palestinese e l’altra israeliana, unite nell’associazione Jerusalem Link, che hanno incontrato diversi soggetti, soprattutto scuole e giovani, per dimostrare che il dialogo tra per-sone palestinesi e israeliane è possibile, nonostante da entrambe le parti si viva nella paura e nel lutto. Lo scopo delle iniziative è sviluppare in noi la consapevolezza che la questione medio-orientale ci riguarda, che non possia-mo pensare che spetti ai potenti della terra risolvere il

confl itto. La proposta è quella di impegnarsi a coltivare occasioni di confronto per far maturare le condizioni per il dialogo e la pace. La visita delle due donne si conclude con un incontro pubblico a Palazzo Trinci e con la par-tecipazione alla Marcia della Pace Perugia-Assisi, il 16 Maggio. Donne, fare memoria per il presente: Re-inventare l’età maturaIn queste settimane si è conclusa la tranche umbra del-la ricerca “Re-inventare l’età matura”, promossa dalla Libera Università dell’Autobiografi a e fi nanziata in tutta Italia da Enti pubblici, sezioni dello Spi-Cgil e, in Umbria, dal Comune di Foligno.Si tratta di una ricerca qualitativa condotta con il me-todo autobiografi co, il cui presupposto è che le nostre storie di vita possono essere fonte di ricerca e di cono-scenza e, al contempo, scrivendole in prima persona e rifl ettendoci all’interno di un gruppo, possono divenire occasione di trasformazione del presente.Le fonti di questa ricerca sono state le storie di coloro che negli anni Sessanta e Settanta furono protagoniste di una vera “rivoluzione di genere”; in quegli anni queste donne si impegnarono in esperienze che le portarono a ripensarsi al di fuori dei copioni sociali esistenti all’epo-ca. Per tale generazione nulla è più stato come prima e oggi le stesse donne si trovano a inventare nuovi modelli anche per la propria età matura. Il percorso che è stato proposto aveva al centro proprio questa domanda: “come viviamo, come stiamo costruendo questa nostra età ma-tura?” A Foligno, ha cercato di rispondere un gruppo di 13 donne, che hanno rifl ettuto, soprattutto attraverso la scrittura di sé, intorno a diversi temi cruciali come la maternità, il corpo, il lavoro, la politica. Dopo aver molto scritto e fatto memoria, adesso ciò che interessa questo gruppo è capire se la loro esperienza, i modelli re-inventati, le loro conquiste e anche le con-traddizioni, possono essere utili alle loro fi glie, alle don-ne più giovani. Per questo racconteranno l’esperienza del gruppo di ri-cerca il 20 maggio alla Sala Conferenze di Palazzo Trin-ci, alle 17.Sarà presente Rita Zampolini, Assessora alle politiche di genere e alle pari opportunità, la quale, con lungimiran-za ha sostenuto l’idea che la ricerca, oltre a fornire dati sulla storia delle donne, potesse re-innescare traiettorie trasformative del presente, intorno ai temi della diffe-renza di genere.

Cosa succedein città

di Anna Cappelletti

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Libreria Luna, via Gramsci 41

Cartolibreria di Mastrangelo Enrichetta, via Monte Soratte 45/c

Cartolibreria – edicola di Maggi Marzia, Corso Cavour 94

Giocartoleria, via Sportella Marini 1

Emporio – Edicola dell’Ospedale, presso il Nuovo Ospedale “San Giovanni Battista”

Cartolibreria La Nave, via Monte Cervino 8/a

Bar Edicola Orfini, via Umberto I 5

Edicola Fantasia 92 di Capelli Riccardo, via Raffaello Sanzio 4/8 (Sportella Marini)

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Comitato di redazioneClaudio Stella, Giorgio Raffaelli, Carla Oliva, Rita Barbetti,

Eleonora Doncecchi, Marta Pacini, Gabriele Contilli, Riccardo Caprai

RedazioneLuigi Adriani, Serena Angelucci, Mario Barbetti, Federico Berti, Claudia Brandi, Elisa Brandi,

Anna Cappelletti, Daniela Cerasale, Katia Cola, Adalgisa Crisanti, Eleonora Doncecchi, Paola Favilli, Maria Paola Giuli, Giovanni Manuali, Leonardo Martellini, Irina Mattioli, Caterina Natalucci,

Michela Ottaviani, Marta Pacini, Alessandro Perugini, Tania Raponi, Serena Rondoni, Andrea Sansone, Stelvio Sbardella, Valentina Silvestrini, Ernestina Spuntarelli, Carla Tacchi, Cinzia Tomassini,

Dario Tomassini, Luciano Trabalza, Luciano Vissani, Rocco Zichella

Hanno collaborato a questo numeroFabio Bettoni, don Luigi Filippucci, Paola Nobili, Libero Pizzoni. Si ringrazia inoltre Mirko Vegliò per le

foto sullo zuccherifi cio.

Realizzazione della copertina a cura di Semiserie, laboratorio tipografi co di fantasia di Micaela Mariani e Francesca De Maiwww.semiserie.com; e mail: [email protected]

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