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Brand Care magazine • ISSN: 2036-6213 • Anno II numero 007 • dicembre 2010-febbraio 2011 - N°007 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma

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Brand Care magazineDICEMBRE 2010-FEBBRAIO 2011 - N°007

EditoreQueimada di Bernabei & Colucci snc

via V. Veneto, 169 - 00187 RomaP. IVA e CF 02249990595

[T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype[W] www.brandcareonline.com [@] [email protected]

Direttore responsabileSergio Brancato

Contributors n° 007Alfonso Amendola, Tonia Basco, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Massimo Caiati, Alessandra Colucci, Giacomo De Biase, Elena Franco, Luigi Granato, Andrea Molinaro,

Pasquale Napolitano, Oroscopino, Adriano Parracciani, Giovanni Scrofani, Tania Valentini, Samad Zarmandili.

Brand Care magazine addictsAlberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Ciriaco Campus,

Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco Fogliani, Carlo Forcolini, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Ilaria Legato, Zaira Maranelli,

Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Gianfranco Pecchinenda, Luca Peroni, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta.

Art Direction, grafica e impaginazioneNiko Demasi

StampaGrafica Metelliana

Via Gaudio Maiori - Zona industriale - 84013 Cava de’ Tirreni

PubblicitàQueimada snc

PolicyI contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono neces-sariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive

aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons).

Registrazionepresso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09

Iscrizionepresso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728

ISSN2036-6213

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editoriale

di Sergio Brancato

Quante volte abbiamo ascoltato un discorso cominciare con la premessa (o promessa ) fatidica: “ti racconto una storia”? Sempre di più, il nostro modo di comunicare si fonda sulla costruzione di plot organizzati, che sintetizzano informazione ed emozione all’interno di precise strategie narrative. Perfino la scienza, a partire dal mito dell’origine dell’universo, si enuncia in grandi narrazioni votate alla produzione del senso. Cos’altro è la teoria del big bang di Stephen Hawking se non una storia che racconta come tutto abbia avuto origine in un attimo?

D’altra parte, il mondo degli uomini coincide con il racconto che se ne fa. È questo il significato ultimo di quelle teorie sociologiche che identificano la categoria di “realtà” con le dinamiche incessanti della comunicazione che la costruisce, giorno per giorno, attraverso le pratiche della vita quotidiana e le leggi dell’immaginario collettivo.

L’argomento trattato in Brand Care magazine 007 (numero che, a proposito di immaginario e dei suoi simboli, risulta inevitabilmente evocativo) è quello dello storytelling, vale a dire l’insieme delle modalità di rappresentazione e, nella fattispecie, di narrazione che attiviamo nel momento in cui, qualunque sia l’ambito di riferimento, noi comunichiamo. E, dunque, esistiamo.È vero, l’arte di raccontare storie è una antichissima costante della specie, e in definitiva possiamo inquadrarla come uno dei dispositivi antropologici che ne hanno permesso la sopravvivenza attraverso la condivisione dei saperi tecnici e dei valori sociali.Secondo nostalgici estremisti delle teorie apocalittiche, come il saggista Christian Salmon, da circa vent’anni la vocazione narrativa dell’uomo è stata trasformata dai meccanismi industriali dei media e dal capitale globalizzato nelle strategie di storytelling : cioè in una nuova (o forse no?) quanto potente arma di persuasione di massa usata dai guru della comunicazione pubblicitaria per manipolare subdolamente le opinioni di consumatori e cittadini occidentali (Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi 2008).

TI RACCONTOUNA STORIA

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Per Salmon, lo storytelling ridurrebbe oggi la produzione del consenso a mera strategia narrativa, arrivando a spiegare i Bush, i Sarkozy ed i Berlusconi. Un bell’alibi per le sconfitte (ormai rigorosamente cicliche) delle opposizioni, così come per i fallimenti (ormai rigorosamente sistematici) delle politiche di governo nei paesi industrializzati avanzati. Forse perfino troppo bello, visto che depaupera i suddetti consumatori e cittadini del loro “inevitabile” protagonismo, tornando a proporre l’ideologia aberrante della massa amorfa in un’epoca in cui parlare di “masse” risulta sempre più problematico.

Potremmo dirla, dunque, in un altro modo. Nel mondo contem-poraneo tutto, anche la pubblicità, diviene compiuta-mente narrazione. Le azioni di visibilità e di marketing dei brand e dei cosiddetti lovemarks, in particolare, manifestano la tendenza degli attori di mercato a organizzare in storie i propri valori e le proprie identità, proponendosi come soggetti in grado di instau-rare un rapporto empatico con i consumatori. Intorno ai protocolli del digitale e delle reti, insomma, fioriscono social network e social media attraverso cui gli individui si costituiscono in comu-nità virtuali, aggregandosi in modo collaborativo attorno a marchi, mode, stili e tendenze in continuo mutamento. Intrecciano, così, il proprio vissuto e le proprie traiettorie personali e professionali al fine di affermare, ancora una volta, il loro protagonismo.Tra unconventional marketing, arte narrativa, esperimenti digitali sull’impatto di Twitter, dispiegamenti di plot visti sotto l’aspetto della produzione audiovisiva, datamining, sostenibilità d’impresa e storie di guru messe alla prova dal mercato culturale, anche in questa uscita di Brand Care magazine viene a delinearsi una proposta editoriale stimolante, che speriamo risulti utile agli addetti ai lavori così come a chi vive di ricerca intellettuale. Ma, perché no?, anche a tutti gli altri.

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profiliSERGIOBRANCATO Ins egna S oc io logia della Comunica zione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria

Culturale (“Federico II” di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubbli-cato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).

GIOVANNISCROFANIGiurista d’impresa presso un primario Gruppo produttivo, si occupa di aspetti normativo/conta-

bili legati al mondo degli investimenti. Dedica il proprio tempo libero alla sua grande passione per le nuove tecnologie. Ha collaborato con pubblicazioni per il CAFI e master per Terotec. Fondatore del Progetto DaDaista Gilda35, ne cura il nonBLOG: http://jovanz74.splinder.com/

LUIGIGRANATOLaureato in Comuni-cazione (La Sapienza, Roma) con una tesi sulla serialità televisiva ameri-

cana, collabora presso l’Osservatorio sulla Fiction italiana. Appassionato di Cinema e Tv series, scrive soggetti e sceneggiature. In attesa di diventare il J. J. Abrams de noantri fa il custode di un oratorio: ragazzini-rincoglioniti, padri-bambini e madri-isteriche sono per lui preziosa fonte d’ispirazione.

ELENAFRANCOMeglio not a come DelyMyth, da sempre appassionata di informa-tica e tecnologia, approda

su Internet nel 1997 ed apre il blog nel 2003. Attualmente svolge attività di consulenza in ambito Internet e Web 2.0 ma non dimentica mai il suo blog: http://www.delymyth.net/

ALFONSOAMENDOLAAutore di vari libri, insegna all ’Università di Salerno, di Firenze e all ’Accademia della

Comunicazione di Milano. Vice-presidente del Centro Studi Rappresentazioni Linguistiche dell’Ateneo di Salerno. Opinionista del Corriere del mezzogiorno. Direttore scientifico del BOX di Roma. Cura la rubrica “video-performance” su NIM. Si occupa dei rapporti tra culture d’avanguardia e culture di massa.

ALESSANDRACOLUCCILaureata in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) con una tesi sul

Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www.alessandracolucci.com.

MASSIMOCAIATICopywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi

Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.

ANDREAMOLINAROLaurea in Economia Aziendale (Univ. Roma3), Master in Economia e Gestione dello Spor t

(Univ. Tor Vergata), esperto di marketing non convenzionale per eventi cultrali. Ha colla-borato con varie Agenzie pubblicitarie come Account Excutive (tra i clienti Nike Italia), ora è strategic planner e formatore free lance per il settore sportivo. Blogger di guerrillasport.it. Ha praticato tutti gli sport possibili.

GIACOMODE BIASERegista, Avid editor. Dal 2002 è responsabile della postproduzione in DBvideo. Ama viaggiare,

ultimi reportage in Corea del Sud e Mongolia. Vive e lavora a Pietralata (Roma) in una casa di pasoliniana memoria.

PASQUALENAPOLITANOCultore in Comunicazione Visiva e dottorando in Scienze della Comuni-cazione all’Università di

Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).

CLAUDIOBIONDIEntra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e

serie TV; per oltre 20 titoli ricopre il ruolo di produttore esecutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di diversi saggi, tra cui Come si produce un film (4 volumi, Dino Audino Editore), è ora docente di tematiche legate alla produzione audiovisiva in numerosi master universitari. http://hstrial-cbiondi.homestead.com/

SAMADZARMANDILIRegista e giornalista pubblicista. Laureato in Storia e Critica del Cin e m a ( S a p ie n z a ,

Roma), entra nel mondo del cinema come aiuto regista e collabora alla realizzazione di programmi TV. Scrive e dirige diversi corti, video, documentari e backstage, partecipa a molti festival. Nel 2009 Sole Rosso, il suo primo lungometraggio, è selezionato per la Fabbrica dei Progetti al Festival Internazionale del film di Roma.

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TANIAVALENTINILaureata in Sociologia (Sapienza Universi t à di Roma) ed esperta di marketing e comunica-

zione. La passione per il cibo è sempre stata presente nella sua vita, nella sua cucina e nell’organizzazione di eventi sino a diventare oggi una blogger professionista con un blog enogastronomico: da un anno è la curatrice di a bagnomaria del network di Blogosfere.

ADRIANOPARRACCIANIat tività ventennale da ingegnere di reti infor-matiche e telecomu-nicazioni in società

multinazionali. Esperienza imprenditoriale nel mondo della formazione/eLearning. Oggi consulente, facilitatore ed integratore di idee persone e tecnologie, blogger, formatore, animatore e navigatore del web; appassio-nato di storia, numismatica, libri, astronomia. http://www.adrianoparracciani.it

TONIABASCOMi laureo in Scienze della Comunica zione con una tesi in Sistemi Organizzativi Complessi

che porta alla realizzazione di un sito dedi-cato al telelavoro. Mentre sogno di diventare “cittadina romana”, vivo in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandomi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ho un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.

DAVIDEBENNATOIns egna S oc io logia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei

rapporti tra innovazione e tecnologia, è consu-lente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: “Internet Magazine”, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

NIKODEMASILo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny inseguendolo nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia

più limpidi. Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma), esperto di progettazione multimediale, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada – Brand Care.

OROSCOPINOL’Oroscopino c r ede nell’oroscopo soltanto perché lo fa. E spesso non segue nemmeno il suo, che è Ariete, ascen-

dente Cancro. È convinto che ogni persona sia speciale per il momento astrologico in cui è venuta al mondo, ma soprattutto per la sua storia, le sue esperienze, e la volontà di realizzare i propri sogni. Ricorda con affetto gli oroscopi mattutini di Linda Wolf.twitter.com/oroscopino

VINCENZOBERNABEILaureato in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) pubblica la sua tesi dal

titolo Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dotto-rando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali.

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indice

OGNI COSA HA UNA STORIA,LASCIAMOGLIELA RACCONTARECome la gente comune può darci valore aggiunto raccontando le proprie esperienzedi Elena Franco

LO STORYTELLING NELL’UNCONVENTIONAL MARKETINGdi Andrea Molinaro

STORYTELLERS DI CEMENTOLa dimensione narrativa dello spaziodi Tonia Basco

ECONOMIA DI PRODUZIONE E STORYTELLINGdi Claudio Biondi

COME VORREMMO STARE?La malattia e la cura come forme di narrazionedi Vincenzo Bernabei

IDEA NON È UNA PAROLA PALINDROMAdi Massimo Caiati

EPPUR SI MUOVECampari, il racconto attraverso un istante cristallizzatodi Giacomo De Biase

CINEMA , LETTERATURA E CANDELEdi Samad Zarmandili

#GILDA35La fase beta del progettodi Giovanni Scrofani

GEOFILM ROMAStorie di cinema e locationdi Adriano Parracciani

DITELO CON I DATIQuando lo storytelling incontra il dataminingdi Davide Bennato

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GURU STORIESPer conquistare qualcuno non c’è niente di megliodi una buona storiadi Luigi Granato

BRAND 2.0 (2a puntata)Storytelling per ottenere una solida brand reputation online (e offline)di Alessandra Colucci

UN MESTIERE PER DIVULGARE STORIEIntervista a Zaira Maranelli e il caso Deinotera editricea cura di BCm

WWF E LE IMPRESE PER LA SOSTENIBILITÀHIGHLIGHT

DANDY!La singolarità come auto-narrazionedi Alfonso Amendola

SOPHIE CALLE E L’ARTE NARRATIVARaccontare storie attraverso i linguaggi dell’artedi Pasquale Napolitano

NASCITA DI UNA NAZIONE A TAVOLAFOCUS ON: Cappelletti in brodo di Romagnadi Tania Valentini

RACCONTI ASTRALIL’oroscopo 2011di Oroscopino

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Per conquistare qualcuno non c’è niente di meglio di una buona storia

di Luigi Granato

bISOGNI NARRATIVIFin dai tempi di Omero gli esseri umani hanno sentito il bisogno di raccontare (e sentirsi raccontare) storie. Un’esigenza che non va confusa, come spesso ed erroneamente accade, con il semplice svago e il puro intrattenimento. Bisogna prender sul serio le storie, senza le quali – come ammonisce lo psicologo cognitivista Bruner – probabilmente non saremmo neanche sopravvissuti come specie. Lungi quindi dall’essere una mera forma di evasione dal reale, il racconto soddisfa bisogni d’importanza vitale (specie nella

nostra società) che possono essere ricondotti a una duplice funzione. Da una parte si registra un bisogno di semplificazione della realtà: la forma narrativa, attraverso la sua funzione ordinatrice, non fa altro che selezionare dei fatti e metterli in sequenza secondo una logica causale rendendo intellegibile e interpretabile un sistema altrimenti caotico e complesso. Altrettanto importante è il bisogno di accrescimento di realtà, ossia la ricerca di emozioni forti che vengono vissute indirettamente attraverso il racconto e che assolvono in ultima istanza alla funzione catartica di matrice aristotelica. In questo senso le storie costituiscono, per dirla con le parole di Walter Benjamin, “l’ardente immaginario alla cui fiamma si riscalda la propria vita grama e freddolosa”. Entrambe queste funzioni della narrativa produ-cono a loro volta nel pubblico effetti apparentemente contraddittori: eccitazione, provocata dal fatto di venire a conoscenza ogni volta di una nuova storia e dal conseguente trascinamento emotivo; e allo stesso tempo un effetto di rassicura-zione, dato dalla struttura prevedibile e dalla forma mediata del racconto.

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STORYTELLING E GURUNon può quindi destare meraviglia se anche discipline a prima vista lontane anni luce dalla narrativa letteraria come l’economia e la politica abbiano riscoperto e messo a frutto secondo i propri scopi le enormi potenzialità dello Storytelling. L’arte del narrare è entrata così prepotente-mente nelle aziende, nei consigli d’amministrazione, nelle campagne politiche e perfino sul fronte di guerra scandendo a voce alta la parola d’ordine motivare. Motivare i dipendenti nel lavoro all’interno dell’azienda; motivare i consumatori ad aderire ai valori veicolati da un dato brand; motivare gli elettori a votare per quel candidato carismatico; motivare i soldati a combattere per una giusta causa. Per far questo, come afferma Robert McKee, autore del manuale di sceneg-giatura più famoso a Hollywood, il discorso razionale non era più sufficiente, bisognava mobilitare le emozioni. E la chiave per il cuore è una buona storia.

Ma il successo dello storytelling nelle aziende è impre-scindibile dal fenomeno dei “guru del management”.

Con questa espressione vengono definiti, a partire dalla metà degli anni Ottanta, i consulenti in management. Guru nella religione induista significa “maestro”. La sua etimo-logia infatti deriva dalle radici gu (oscurità) e ru (svanire), ovvero “colui che disperde l’oscurità”. Ma il potere di illu-minazione di un guru non proviene da un sapere tecnico, quanto da una conoscenza antica che si rifà alla saggezza popolare e all’esperienza. Nella tradizione africana, il “guru” è una persona carismatica che si occupa di problemi a cui i saperi ufficiali, come la medicina, non hanno saputo dare risposta. Nel Mali i guru hanno il compito di riconciliare i clan in conflitto attraverso il racconto di storie vere o roman-zate mediante le quali si ripercorre la genealogia dei clan per dimostrare la discendenza da un unico antenato.Analogamente, il forte ascendente che i guru eserci-tano sui manager dipende in gran parte dalla forma narrativa delle loro performance in pubblico. I guru del management fanno largo uso di storie all’interno dei propri discorsi. Storie che vanno dai pochi secondi a qualche minuto; storie che calmano le tensioni psicologiche dei

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creativitàmanager immersi in un ambiente che appare sempre più caotico e incerto; storie che parlano di fatti quotidiani attra-verso cui ciascuno può immedesimarsi; storie che susci-tano emozioni e conquistano. Più che sull’efficacia delle idee proposte, l’affermazione dei guru del management si affida quindi a una sorta di potere profetico e abilità taumaturgiche (non a caso vengono associati per le loro capacità oratorie ai predicatori evangelici) che sostituiscono al culto per l’effi-cienza e il pragmatismo, il fascino magico per le fiabe. I guru del management non devono convincere o fornire garanzie empiriche. Il loro compito è quello di illuminare elar-gendo una saggezza misteriosa.

Andrzej Huczynski, specialista del management, ha classi-ficato tre tipi differenti di guru: gli accademici, che fanno capo alle business school di fama mondiale come Harvard o Stanford; i consulenti, perlopiù analisti del settore e commentatori indipendenti; infine gli eroi, che derivano il proprio status di guru dal successo ottenuto nei propri affari. È questa terza categoria che risulta più interes-sante e che rispecchia maggiormente il significato originario del termine. Il loro potere, piuttosto che da una legittimazione accademica o dall’enunciazione di teorie o pareri eruditi, deriva dalla vita vissuta. È la loro esperienza che si offre come meritevole di fede. E la fede ha bisogno di una buona storia che la sostenga, che sia credibile e che ispiri fiducia in chi ascolta. Eccone un fulgido esempio.

“JUST THREE STORIES” Nel giugno del 2005, Steve Jobs viene invitato all’univer-sità di Stanford per presiedere alla cerimonia di consegna dei

diplomi di laurea. Di fronte a lui si estende una moltitudine di giovani che non aspetta altro che ascoltare le parole del guru della Apple. Dopo aver ammesso di non essersi mai laureato, Jobs annuncia la sua intenzione di non voler fare grandi discorsi, ma di voler raccontare “just three stories”.La prima storia parla di unire i puntini. Jobs inizia a raccon-tare la storia della propria vita, di quando decise di mollare l’università, convinto che le sue passioni lo avrebbero portato da qualche parte. Steve iniziò a frequentare infatti un corso di calligrafia che lo affascinava particolarmente. Non vedeva però in che modo un corso del genere potesse trovare un’applicazione pratica nella sua vita. Dieci anni dopo quando si trovò a progettare il primo Macintosh, il corso di calligrafia si rivelò di valore inestimabile. Il Mac fu il primo computer dotato di una meravigliosa capacità tipografica e questo solo grazie alla sua scelta di aver lasciato l’univer-sità e di aver frequentato quel corso. Jobs conclude la storia rivelando, come in ogni favola che si rispetti, l’immancabile morale: “non è possibile unire i puntini guardando avanti, potete unirli solo guardandovi all’indietro. Così dovete avere fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Dovete credere in qualcosa – il vostro intuito, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa”.La seconda storia parla di amore e perdita. Jobs prosegue il racconto della sua vita, narrando di quando all’età di trent’anni, dopo aver portato la Apple a essere un’azienda da due miliardi di dollari e quattromila dipendenti, fu licenziato dall’azienda che lui stesso aveva fondato. Steve, dopo un comprensibile periodo di sconforto, ricominciò da zero con l’entusiasmo di un debuttante e fondò altre due società, la NeXT e la Pixar. In quel periodo inoltre si innamorò di quella

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che poi sarebbe divenuta sua moglie. Dopo pochi anni NeXT fu inglobata dalla Apple sancendo il ritorno di Steve e la Pixar divenne lo studio di animazione più famoso al mondo. L’unica cosa che trattenne Steve dal mollare tutto fu l’amore verso le cose che faceva: “dovete trovare quello che amate. Il lavoro riempie una buona parte della vita e l’unico modo per essere soddisfatti è fare quello che ritenete un buon lavoro. E l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che fate. Se ancora non l’avete trovato, continuate a cercare. Non accontentatevi”.

La terza storia parla di morte. Jobs racconta che circa un anno prima gli era stato diagnosticato un cancro incurabile al pancreas. Quella mattina i medici gli dissero che gli sareb-bero rimasti solo sei mesi. Tornato a casa, Steve non riusciva a pensare ad altro: doveva cominciare a pensare come dire ai suo cari “addio per sempre”. Inaspettatamente, quando la sera ritirò i risultati della biopsia, i dottori accertarono che si trattava di un raro caso di cancro operabile chirurgica-mente. Steve fece l’operazione e tutto andò bene. Da quella storia Steve imparò che la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. Poi, rivolgendosi ancora ai neolaureati: “il vostro tempo è limitato, per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro. Non fatevi intrappolare dai dogmi. E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare. Tutto il resto è secondario”.

Dopo una breve pausa e un sorso d’acqua Jobs si avvia alla conclusione del suo intervento. Per farlo prende in prestito un’immagine riportata sull’ultima pagina dell’ultimo numero di una rivista che comprava quando era ragazzo: la fotografia di una strada di campagna di prima mattina. Sulla foto era riportata una scritta: “Siate affamati, siate folli”. Una frase che Jobs lascia come augurio finale ai giovani neolau-reati che lo hanno ascoltato rapiti fino a quel momento. Applausi.

Se si analizza il memorabile intervento di Steve Jobs passato alla storia con il titolo dell’augurio finale (Stay hungry, stay foolish) si scorge quanto sia accurata la struttura narrativa che lo sostiene. Vi è un prologo in cui si prepara il terreno sottolineando indirettamente lo status di guru del tipo eroe. Seguono tre atti nei quali viene suddiviso il racconto unico della vita del protagonista che affronta un vero e proprio viaggio dell’eroe. Infine un epilogo in cui si offre in maniera esemplare la saggezza misteriosa del guru. Chi ascolta il racconto non può non immedesimarsi. Esempio perfetto di come una storia possa toccare il cuore e conquistare.

Per approfondire » C. Salmon, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi, Roma, 2008

» J. Bruner, La ricerca del significato, Bollati Boringhieri, Torino, 1992

» R. McKee, Story. Contenuti, struttura, stile, principi della sceneggiatura per il cinema e la fiction Tv, International forum, Roma, 2000

» P. Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino, 2004

» C. Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma, 2005 » http://www.YouTube.com/watch?v=nFKY8CVwOaU

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culture

di Alfonso Amendola

Luogo comune dice che Dandy è “magister elegantiarum” e, in una distorta accezione wildiana, superficialità mista a vizio, forma che sopravanza la sostanza o confusa pratica di snobismo (ma snob è cosa ben diversa, come c’insegnerà un prezioso manuale scritto da Stefano Lanuzza). Luogo comune vuole che il Dandy sia vuota apparenza e nevrosi narcisistica. Luogo comune vuole che Dandy sia forma di perversione e decadenza fine a se stessa. E invece no! Queste banalità lasciamole a coloro che vivono l’impianto delle

parole (e dei concetti) come mutilazioni di visioni prospettiche e come assenza di radice. Lasciamole ai profeti delle ideologie e ai distruttori delle forme del bello. E ridoniamo forza e sostanza al credo libertario che nel segno visivo della propria auto-rappresentazione, dell’estremo “narrare se stessi” tra corpo/vestito/provo-cazione e dell’uso di un linguaggio di fatale raffinatezza scopre densità d’esistenza (e che trova nel suo albeggiare differenti padri: dai Preraffaelliti, a Lord Brummell a Oscar Wilde a Charles Baudelaire a D’Annunzio. Senza dimenticare che studiosi del fenomeno del dandylife, come Marco Amendolara, fanno risalire la nascita del Dandy ancor prima del XVIII secolo che sembra trovare “atteggiamenti” in Giulio Cesare e Adriano).

Il Dandy è figura ritornante, che giunge fino al nostro tempo contemporaneo dall’over sessuale new-wave David Bowie al dinamismo eclettico di David Byrne, dal wildiano-pop Morrisey al disincantato Dylan Dog. E soprattutto l’istrionico e “Dandy postmoderno” Joker. Per Alberto Abruzzese “Joker vuole mostrare tutta la sua ricchezza interiore al cospetto della quale non vi è Forma [...] né dell’Antico né del Moderno [...]. Il consumo è per Joker una pulsione insaziabile e sfrenata verso

la singolarità come auto-narrazione

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tutto ciò che gli resiste, che gli si oppone, che gli manifesta la sua ‘oggettività’. Joker costruisce la propria identità che è vocazione ad essere ovunque ‘presente’, a segnare di sé il tempo e lo spazio [...] sulla totale consumazione del mondo esterno [...]. Joker non ha il senso della misura: sempre riduce a giocattolo la vita e sempre la distrugge per scoprire il segreto meccanismo, proprio come il bambino di Baudelaire. Joker è un dandy postmoderno in cui la filosofia dell’arte per l’arte si è trasformata in quella del consumo per il consumo. Consumo che [...] assolu-tamente ‘gratuito’ [...] si è spinto oltre ogni naturale bisogno e non ammette resistenze e resti, producendo invece voragini del senso, buchi neri dell’esperienza, sublimi assenze. Una risata che non può mai rimarginarsi”.

Ecco l’estrema auto-narrazione del Dandy è scolpirsi in vita in sorridente impero! Dandy è senso d’ebbrezza, di “amour fou”, di concretezza immaginativa e di visionarietà. È insolenza aristocratica dell’esistente, è frantumazione delle imbalsamate, “supponenti” ed “edulco-rate” riflessioni di una visione del mondo ancorata a uno stretto universo possibile. Quel possibile dove la dimensione utopica è “inammissibile”: per un grande chansonnier anar-chico a vocazione dandy di nome Leo Ferré “l’utopia non è l’irrealizzabile, è il non realizzato ancora”. Dandy è parola maga che incanta e infastidisce, ma colpisce sempre nel profondo. Certo, molti (fedeli alle letture ideologiche)

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culturecontinueranno a ritenere il dandysmo un orpello o un gioco vuoto. Invece dirsi Dandy, oggi più che mai, è “categoria d’esistenza”, è inatteso atto di sincerità, estremo sentire, lacerazione, fuoco di passioni e tentazione indifferente. Eppure narrazione di profonda biografia.

Esser Dandy è capacità di stare “ovunque” e “comunque” anche nei posti più “istituzionali”, qualsiasi cosa possano mai urlare i dittatori (o gli schiavi) della norma o vociare i portatori insani di ruoli prestabiliti; qualsiasi cosa possano mai pensare capi, dirigenti e coor-dinatori che vorranno sempre inquadrare, contestualizzare o fingere “d’aver capito” (con un bel ghigno di contorno) il rigore e la severità del pensiero-azione del Dandy che spinge a vivere con entusiasmo la propria dolente quotidianità. Dandy è leggerezza e complessità, è uno spazio mentale e operativo dove la tensione libertaria è il viatico per mostrare le profondità del sogno, della sensibilità d’essere al mondo, della volontà di potenza, della passione, dell’estremo come modo d’essere progettuali.

Insomma, Dandy è esser visionari e incendiari d’im-maginari senza sognare a “occhi aperti” ma prati-candolo davvero il sogno. Il Dandy con le sue cravatte in verde o in viola, ben sa che il “dato reale” è un’opinione parziale in quanto a determinare il mondo e le cose è unica-mente il desiderio (tutto il resto è routine professionale). Il desiderio dandystico è pratica di vita, è sovrimpressione sulle altrui esistenze come continuo atto d’amore, è tutta l’autobiografia di Huysman, è inquietudine che invoca “burla e baccano”, è atto per riconoscersi, ritrovarsi e non affogare mai nelle illusioni/delusioni del nostro “io”. Dandy è vivere tra lucidità e anomalie, tra meraviglioso onirico e slancio realizzativo, tra ansia creativa e ostinata armonia, è dato d’os-sessiva biografia. Dandy è fermo volere che toglie le ombre al destino e cancella le immagini del “reale imposto” per spingerci verso un imponente e irridente cammino (denso di poesia, dolore e sorrisi). Dandy è un misto d’euforia e malinconia che vengono celebrate nella sontuosa dinamica dell’eleganza. Verso un differente equilibrio della gioia e dell’affettività, della durata e dell’auto-rappresentazione. Verso una continua auto-narrazione perfetta.

Incontrare un Dandy significa conoscere geografie d’esistenza, orientamenti di mondo, gioiosi dispiegamenti dell’essere. Dandy è anche un procedere, fatto di delirio e resistenza, esplosivi imperativi e ossessione utopica, incon-dizionato amore e “saggezza tragica”: consapevoli — come di recente ha scritto il grande Dandy-anarca Michel Onfray — che “la propria singolarità si costruisce solo sugli abissi, tra blocchi di miseria scagliati a grande velocità nel nulla”.

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la fase beta del Progetto

di Giovanni Scrofani ovvero @Jovanz74ONTRO”Descrivere un’esperienza di giocoso DaDaismo illogico, e metarazionale come il Progetto #Gilda35 su una rivista

scientifica è di per sé un piccolo coccoloso atto di sabotaggio al buonsenso. Non posso quindi che accogliere con entusiasmo la proposta di Alessandra Colucci, uno dei membri del Comitato Tecnico Scientifico del Progetto. Mi accosto al mondo delle cose serie con tutta l’irriverenza, la falsa modestia e la più totale spensieratezza di cui sarò capace. #Gilda35 è una case history di come si possa fare un uso eterodosso di un Social Network, per finalità non solo non previste dai designer che l’hanno realizzato, ma addirittura opposte. Dimostra come un gruppo di utenti qualunque, privi di mezzi, può rapidamente diventare una sorta di piccola e agguerrita élite di un Social Network, intervenendo in modo attivo sulle sue dinamiche. #Gilda35 nasce come un atto d’amore di un gruppo di ormai 175 “Ricercatori” verso il proprio Social Network preferito: Twitter. È un “rigoroso progetto collettivo scientifico dadaista”, che si sta svolgendo da settembre soprattutto su un tema di tendenza di Twitter (c.d. trend topic o hashtag), #Gilda35 appunto (http://twitter.com/#search?q=%23Gilda35) e sul suo nonBLOG (http://jovanz74.splinder.com/), che in realtà ne è il DaDaista romanzo a puntate. Scopo del Progetto è combattere, con una serie di “sabotaggi dadaisti”, le forme di socialads (marketing e advertising specializzato per Social Network), che invece di andare verso la creazione di una rete dialogante tra consumatore e produttore, utilizzano stantie forme di pubblicità occulta. Il casus belli da cui è propagato il Progetto è stata l’introduzione dei c.d. Toptweets (una sorta di vetrina dei contenuti più in voga su Twitter). A mio avviso questo nuovo strumento

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stava creando i presupposti per una svolta in senso più smaccatamente commerciale di quello che finora era stato il Social Network più etico nell’utilizzo dei socialads. Così sono corso ai ripari, ideando una sorta di supereroina creata ad hoc, #Gilda35.Gilda come la dark lady impersonata da Rita Haywort, come la prima bomba atomica, come le asso-ciazioni medioevali di autotutela dal basso; 35 come i primi Ricercatori che hanno dato vita al Progetto (peraltro nella smorfia napoletana il 35 è “l’uccellino” il simbolo di Twitter).#Gilda35 è una sorta di avatar collettivo all’interno del quale si muovono tutti gli appartenenti al Progetto. Per darle vita ho attinto a piene mani dalle mie grandi passioni: le avanguardie culturali del secolo scorso (dadaismo, futurismo e surrealismo), il cyberpunk, la fantascienza di Philip K. Dick e Kurt Vonnegut, il postmoderno di Thomas Pynchon, i fumetti di Alan Moore. In pratica il fritto misto di cultura mainstream che anima il mio avatar Jovanz74. Come ho detto altrove #Gilda35 è un ibrido tra Luther Blissett, Valis e Catwoman. L’idea di partenza è stata quella di una performance collettiva di teatro situazionista all’insegna dell’esperimento “scientifico dadaista”. Insieme ad un’ilare équipe di quelli che sono poi diventati i 175 Ricercatori/Sabotatori, abbiamo dato il via ad una guerra al marketing con il marketing, all’intrattenimento con l’intrattenimento. Così in poche settimane abbiamo spazzato via le pubblicità occulte della Disney dall’homepage di Twitter. L’arma è stata quella di una campagna di “micro sabotaggi” leciti, carini e coccolosi, che in sostanza ha fatto implodere l’algoritmo dei toptweet. Addirittura ridefinendone i contenuti.Di seguito riporterò le fasi iniziali relative alla nascita del progetto e le basi concettuali che l’hanno generato. I testi ivi riportati sono alcuni estratti, debitamente resi più comprensibili, del romanzo dadaista a puntate sviluppato sul nonBLOG. Quella che segue è la mia personalissima esperienza con tutti i limiti che ciò comporta. Spero che vi diverta e che vi induca qualche riflessione. Oppure no.

RESONANTESono membro di una generazione, per cui l’informatica costi-tuisce una fondante esperienza infantile, sono legato a Pong come Proust alle sue madeleine. Tra i nuovi media offerti dal Web 2.0, quelli che mi hanno sempre tragicamente più incuriosito e deluso sono stati i “social network”. Un mondo con cui ho avuto sempre contatti fugaci, perché ai miei occhi riducono la condivisione dei contenuti a mero chiac-chiericcio su quanto di più futile e vacuo la mente umana possa partorire. Dopo anni di nauseabonde interazioni venni a conoscenza di Twitter, tramite articoli che favoleggiano dello strumento di comunicazione definitivo, in cui entrare in contatto dialogante con la crema dell’intellighenzia del Web 2.0. Affascinato cercai la home di Twitter e fui io per primo a subire uno shock culturale. Sotto la dicitura

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tecnologie e webTopTweets rinvenni le faccine di Hanna Montana e dei Jonas Brothers (popstar della Disney), che sparavano assurdità in quell’odioso gergo dei giovani internettari conosciuto come bimbominkiese (bimbominkia è un epiteto atto a definire i giovani utenti del web privi di netiquette, per intenderci quelli che scrivono illuminanti haiku tipo “Ki@r@ L0vv@ i J0n@S Br0th€r$ <3” ). Superai lo sbigottimento iniziale, creai il mio account di Twitter: @Jovanz74. Però, nonostante una home-page decisamente disincentivante, mi si aprì un mondo di relazioni interessanti, di persone vere, di contenuti genuini. Per la prima volta in anni di peregrinazioni mi divertii con un Social Network e quasi mi dimenticai della sconcertante esperienza iniziale. Il Progetto #Gilda35 vero e proprio è nato perché, una sera di fine luglio, mi venne in mente un tweet stupidello: @Jovanz74: #twitter: 140 caratteri per dire qualcosa. #fb: caratteri infiniti per non dire niente.Una frase insulsa gettata tra le onde del Web, per dichiarare il mio smodato amore per Twitter e la nausea per Facebook. All’epoca non raggiungevo i 100 followers (amici di Twitter), che per la maggior parte del tempo m’ignoravano, come è il destino di ogni niubbi (nuovo utente) di un social network.Tuttavia… Dopo mezz’ora controllai i miei tweet e rinvenni una menzione del sito Resonancers, che mi informava che ero diventato un toptweeter. Sulla relativa pagina web scoprii di essere uno dei trenta autori di tweet in italiano

più retwittato. Il retwit è l’equivalente del pulsante “mi piace” di Facebook, in pratica un utente tramite questa funzione si appropria di un messaggio interessante di un altro user e lo propone ai propri amici. Mi chiesi come avessi fatto a finire in Toptweet, così rapidamente. Su Twitter scrivono popstar, politici, giornalisti, intellettuali, scrittori, opinion maker. Tra tutti gli utenti italici quello col contenuto più interessante ero proprio io. Controllando nella homepage tra i Toptweet, scorsi il mio faccione incastonato tra quelli di Hanna Montana e i Jonas Brothers. Sbigottito mi interrogai: i casi erano due o avevo sbagliato lavoro e dovevo guadagnarmi da vivere come copywriter di piccoli slogan, o qualcosa non andava nell’algoritmo che selezionava i toptweet.

FENOMENOLOGIA DEI TOPTWEETERSIncuriosito iniziai a prestare attenzione crescente al feno-meno. Riassumo di seguito alcune caratteristiche singo-lari, che rinvenni in quei messaggi: i toptweet di fine luglio 2010, contenevano quasi tutti riferimenti a Twitter;erano stati emessi da giovani utenti che adottavano il volto di una popstar di Disney Channel come avatar, con nickname che riecheggiavano i nomi dei propri idoli;erano stati retwittati in un range compreso tra un minimo di 19 volte e un massimo di 87 volte (il mio, sic!); tutti

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i retweet erano stati effettuati in orario pomeridiano o serale (erano assenti i tweet mattinieri).La parola Twitter in questi toptweet era associata al volto di bei giovani (ovviamente escluso il mio), con messaggi accattivanti, che trasudavano l’idea di un Social Network con una bassa età media, utilizzato da adolescenti goderecci, che amano frequentarsi anche nella vita reale e che possono entrare in contatto con le proprie star. Il mio faccione in giacca e cravatta, che pubblicizzava Twitter, in quel contesto pareva quello di un trentenne affetto dalla sindrome di Peter Pan. C’erano addirittura una citazione letteraria (Bukowski) e una “alternativa” (Sud Sound System), giuste per soddisfare gli appetiti meno convenzionali. Era una pagina talmente perfetta da rasentare il trascendente. Una réclame ideale di Twitter, con un retro-gusto alla Disney Channel. L’effetto, se uno degnava la home-page di un’occhiata disattenta, era bello e ammiccante, ma ad un’analisi più attenta era spiacevolmente furba. Peccato, perché era stato proprio Evan Williams (uno dei co-fondatori di Twitter), che nel 2008 aveva dichiarato: “Non voglio fare soldi, voglio solo che la gente usi il mio servizio”. Erano queste le cose che mi avevano attratto di Twitter lo spirito libero, indipendente, social, pulito. Invece mi trovavo davanti a una homepage, che pareva costruita da un webdesigner con dei copywriter scafatissimi, che pubblicizzava al contempo

Twitter e Disney Channel. Il tutto all’apparenza generato casualmente da un algoritmo. Non c’era alcuna traccia dei contenuti da microblog sensibili, intelligenti, sferzanti, che tanto mi avevano colpito, incontrati per caso, scorrazzando proprio su Twitter. Nessuna traccia di quei contenuti che avevano veramente risuonato nella mia mente.Le mie incursioni tra i toptweeters mi lascia-rono questa spiacevole sensazione (su internet è impossibile arrivare a conclusioni): da un lato un gruppo di adolescenti, o presunti tali, che diffondevano in modo virale la propria passione per i Jonas e Twitter;dall’altro un nugolo di BOT (software che simulano le azioni di un utente umano), che retwittavano random qualunque fesseria avesse riferimenti alla parola Jonas o Twitter; in cima alla piramide un ottuso algoritmo, che assemblava il tutto in una danzante ghirlanda di contenuti pop.Sottolineo che pensai, e penso tuttora, che né Twitter né la Disney c’entrino molto in questa storia, ci vedo di più le prove generali di Terze Parti indipendenti, che sviluppavano nuovi socialads, sfruttando le falle logiche della progettazione dell’algoritmo dei toptweet. Tutto ciò che riguarda internet è oggetto di un livello così alto di sofisticazione, che ogni veri-fica è impossibile. Qualsiasi conclusione può essere confu-tata a posteriori. Ma il toro andava affrontato per le corna, finché si era in tempo e l’unico modo di vincere

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questa battaglia era un attacco DaDaista alle inaf-ferrabili entità, che si muovono dietro le quinte della Rete, che ho affettuosamente ribattezzato il Tecnonucleo. Leggendo nella bio di @toptweets_it si può infatti leggere questo messaggio: Bio: Top Tweets seleziona e ritwitta attraverso un algoritmo i più interessanti tweet attual-mente presenti su Twitter. Buon divertimento! L’algoritmo è una Macchina e come tale segue la ferrea logica dei propri programmatori, l’unico modo di vincerlo era ucciderne la logica “belletto degli impotenti della creazione” (Tzara). Il seme di #Gilda35 era piantato.

QUESTO NON È UN TWEETDecisi di sviluppare il Progetto #Gilda35 in una serie di step simili a quelli dello sviluppo di un videogioco:Fase Beta: si sarebbe concentrata sull’Esperimento Fine di Mondo, ossia provare a far retwittare a un gruppo di amici un messaggio nonsense, per vedere se l’algoritmo lo spediva comunque in toptweet; Fase Gold: compreso il funzionamento dell’algoritmo sabotare leci-tamente la pagina dei toptweet con inserimento ripetuto di messaggi nonsense.La fase beta di studio dei toptweet si sarebbe conclusa con un piccolo esperimento surrealista: mandare in toptweet un messaggio stile Ceci n’est pas une pipe. Volevo mandare

in toptweet un messaggio chiaro: “Questo non è un toptweet”. Puntando sulla piena buona fede degli ammi-nistratori di Twitter, volevo semplicemente chiarire che un meccanismo, il quale faceva salire in Top contenuti sulla base della mera frequenza di retweet, non fosse idoneo a selezionare contenuti interessanti. Ciò in quanto facilmente eludibile con l’impiego massivo dei BOT da parte di società di marketing. Così dopo un’ilare campagna virale deno-minata #faketoptweet (in pratica lo stravolgimento in chiave satirica dei toptweets), che mi aveva procurato una discreta visibilità tra menti aperte al sano e lucido sber-leffo, elaborai il tweet dell’Esperimento Fine di Mondo: @Jovanz74: “Facciamo un esperimento, per verificare se i #toptweet sono scelti da un algoritmo, senza intervento umano. Retwittate tutti questo tweet!” postato alle 22:45 del 19 Agosto 2010 via Twitter for iPhone e Ritwittato da 145 persone. In meno di mezz’ora il messaggio fu retwittato da 35 persone e salì in toptweet (anche da qui #Gilda35). In seguito raggiunse la mitica soglia di 145 retweet. Le mie teorie erano confermate, l’algoritmo era legato a meri criteri di frequenza basati sul rapporto retweet/tempo. Non c’era nulla che qualificasse come interessante il contenuto. Avendo verificato le mie teorie sull’algoritmo, capii che con un gruppo di 35 buontemponi potevo mandare tra i toptweet

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qualunque genere di contenuto. Si apriva per me e i miei neoreclutati Ricercatori l’autostrada del sabotaggio “lecito e coccoloso”. Dovevamo proseguire con un’azione di shock culturale. Iniziai a preparare il terreno con una serie di post contenenti lo hastag #Gilda35, che fingevano contenuti da haters dei c.d. bimbiminkia. Lo scopo era solo quello di creare hype (attenzione mediatica) sull’iniziativa. Bombardai la time line con tweet che crea-vano un clima sempre più irrazionale e bellicoso, una sorta di surreale chiamata alle armi. In seguito insieme ai Ricercatori iniziammo ad andare regolarmente in toptweet con messaggi che andavano dall’insurrezione contro i fake (gli utenti che si fingono topmodel o personaggi famosi per gabbare il pros-simo), a più seri messaggi contro la lapidazione delle adul-tere in Iran. Per salire in top bastava semplicemente darsi appuntamento ad una certa ora e retwittare tutti il messaggio designato. La campagna fu così insi-stita pesante e surreale che alla fine l’Algoritmo implose. In pratica dopo ogni sabotaggio veniva “spento”, senza aggiornarsi per parecchi giorni. Quello che notammo, man mano che procedevamo con gli esperimenti fu che sebbene i nostri sabotaggi ormai venissero filtrati e non finissero più in toptweet, gli stessi avevano una rilevanza fortissima tra gli altri utenti (uno fu involontariamente citato addirittura dalla Stampa di Torino in un articolo sul Nuovo Twitter). Se oggi guardate i toptweets sono radical-mente differenti da quelli di un mese e mezzo addietro. Per carità non saranno perfetti, ma riportano contenuti di topblogger e di utenti comuni, con un crollo verticale dei riferimenti impliciti a prodotti o spettacoli di Disney Channel. Una coincidenza? Ci piace pensare di no.

HAPPY ENDParlando di numeri oggi #Gilda35 è diventato uno dei trend più in voga di Twitter; fonte Google: circa 10.000 risultati per #Gilda35 ; fonte Tweetreach: #Gilda35 può arrivare a contattare tra le 4.500 a 30.000 persone con 50 tweet; fonte Twirus: #Gilda35 è saldamente nella topten dei “trend topic” italiani; il Progetto conta ormai 175 Ricercatori (simpatizzanti), di cui circa 70 Sabotatori (attivi nelle operazioni di Retwittaggio), nonché un Comitato Tecnico Scientifico di cinque membri: @alebrandcare (strategie), @Alcheringia (antropologia), @Alexias74 (comunicazione), @Jovanz74 (creatività), @La_Splendia (creatività), @TheN0ise (informatica).Il tutto a poco più di un mese dalla sua nascita. Devo rivolgere i più sentiti complimenti allo staff di Twitter, perché hanno accettato di buon grado le nostre provocazioni artistiche, senza mai lasciarsi andare ad atteggiamenti censori o ostili. E perché, a modo suo, ha saputo cogliere lo spunto lanciato da noi Ricercatori di #Gilda35, sforzandosi di migliorare il proprio prodotto. Ma ancor di più ringrazio tutti i folli Ricercatori cyberDaDa, che mi accompagnano in questa pazza avventura.

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marketing

come la gente comune Può darci valore aggiunto

raccontando le ProPrie esPerienze

di Elena FrancoL’altro giorno ero triste, avevo litigato con la mia migliore amica e per questa ragione mi sentivo quasi “vuota”. Avevo bisogno di qualcosa che mi distraesse e quindi sono andata al centro commerciale a guar-

dare le vetrine di Zara. È uno dei miei negozi preferiti, e sono rimasta davanti alla vetrina per mezz’ora a guardare i vestiti e immaginare come mi sarebbero stati una volta acquistati e indos-sati. Alla fine, non ho potuto resistere alla tentazione, e sono entrata in negozio per acquistare una maglia; ho subito pensato che avrei potuto prenderne una uguale per riappacificarmi con la mia amica, e in effetti ieri, quando l’ho vista e le ho consegnato il regalo è stata molto felice, e il nostro litigio è stato presto dimenticato”.

Questa storiella, per quanto semplice possa sembrare, è un esempio (inventato di sana pianta, in questo caso) di ciò che possiamo trovare su blog, Facebook e altri strumenti di condivisione in questo periodo.Al giorno d’oggi infatti raccontare pubblicamente fatti della propria vita è alla portata di tutti.Per aprire un blog non sono necessarie competenze tecniche, per scrivere su Facebook è sufficiente avere un indirizzo di posta elettronica, e la pubblicazione di contenuti è semplice e immediata.

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Per questa ragione sono sempre di più le persone che condi-vidono parti della propria quotidianità su Internet, sotto forma di storie e racconti, che parlano non solo della propria vita, ma anche degli oggetti che utilizzano più di frequente, di ciò che acquistano e delle motivazioni che le hanno spinte all’acquisto.

Nel breve raccontino che ho inventato prima, si parla di Zara, una catena di negozi di moda, molto apprezzata. È vero che si tratta dell’esperienza personale di una ragazza che ha passato qualche tempo davanti alla vetrina pensando sostanzialmente ai fatti suoi, ma alla fine si riesce a capire come in quel caso comprare una maglia da Zara abbia permesso alla ragazza di riappacificarsi con la sua migliore amica. L’associazione di idee viene abbastanza semplice: comprare una maglia da Zara quando si litiga con un’amica può aiutare a fare la pace. È un messaggio che Zara potrebbe utilizzare per rafforzare la sua immagine, e se trovare racconti di questo tipo su Internet ed utilizzarli senza chiedere il consenso agli autori non sempre è possibile, resta possibile aprire siti dedi-cati dove le persone possano raccontare le proprie storie collegate ai nostri brand.

Qualunque cosa produciamo è “raccontabile”.Qualunque oggetto può essere legato a una storia come quella che ho inventato in questa occasione, e sicura-mente narrazioni di questo tipo possono restare più

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marketingfacilmente impresse nella memoria dei nostri futuri clienti, più facilmente rispetto a uno spot televisivo di trenta secondi. A dire il vero, una storia di questo genere potrebbe anche diventare uno spot che potrebbe essere memoriz-zato dalle ragazze molto più di una semplice carrellata dei nostri prodotti, mostrando loro scenari che probabilmente hanno già vissuto, e proponendo una soluzione ai problemi (in questo caso il litigio con un’amica) focalizzata sui nostri prodotti (la nostra maglia è quella che aiuta a far pace!).

Gli strumenti sono disponibili gratuitamente (o quasi) su Internet. Se non vogliamo investire subito in un sito dedicato ai nostri clienti, possiamo iniziare con una pagina o un gruppo Facebook, dove permettere ai nostri utenti di pubblicare foto e brevi racconti delle loro espe-rienze con il nostro brand, in modo che siano visibili non solo ai loro amici, ma anche a persone che possono essere interessate ai nostri prodotti, ma non riescono ancora a trovare motivazioni valide per procedere all’acquisto.Cambiando l’esempio da una maglia di Zara a un sopram-mobile, pensate alla differenza che può fare il vedere una normale foto del soprammobile in un espositore (come può essere nel nostro catalogo online), piuttosto che mostrare il nostro soprammobile posizionato su una libreria con veri libri e altri suppellettili, nella casa (vera) di un cliente che l’ha acquistato e posizionato in modo da rispecchiare la sua personalità. Vedere una foto di quel genere, che appare più “reale” per il semplice fatto che reale lo è davvero, fa un effetto molto diverso, e può spingere all’acquisto molto più facilmente, mostrando un’applicazione pratica invece di uno scenario “ideale” e “costruito”.

Se vogliamo di nuovo cambiare esempio e scenario, pensiamo alle borse. Molto spesso borse e zaini vengono comprati per il loro aspetto esteriore e/o perché riconducibili a una specifica marca, ma molte persone cercano borse e zaini resistenti, che possano durare per anni nonostante il “carico” a cui sono sottoposti. Sui nostri siti possiamo anche scrivere che i nostri prodotti sono molto resistenti, ma noi appariremo sempre come “di parte”. Se invece a scrivere che un nostro zaino ha resistito a forti maltrattamenti per anni è un normale utente, una persona che lo zaino lo utilizza tutti i giorni, l’effetto è diverso.Il rapporto di fiducia che possiamo instaurare diret-tamente con i nostri clienti è sempre limitato, dal momento che noi non parleremo mai spontanea-mente male dei nostri prodotti, ma lasciare spazio a tutti, a critiche come a elogi, fa sì che i nostri punti di forza emergano di più e, anche se talvolta qualcuno si lamenterà, se il nostro prodotto è veramente valido, la critica sarà circondata da elogi, naturali e “volontari” anche questi, e quindi molto più efficaci. Permettere alle persone di raccontare l’uso che fanno dei nostri prodotti non solo ne fa emergere le proprietà (resistenza, bellezza, etc…), ma consente ai visitatori dello spazio web di immedesimarsi, crea empatia. Passando davanti alle vetrine dei negozi, ricor-deranno quella storiella che hanno letto su Internet, dove una ragazza, dopo aver litigato con un’amica, decide di comprarle una maglia di Zara per provare a fare pace: se ha funzionato per quella ragazza, perché non dovrebbe funzionare per loro?

Ogni volta che leggiamo un libro o un racconto tendiamo a immedesimarci nei personaggi, e se dedicare un libro a

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un prodotto può rivelarsi a volte poco funzionale, aprire una community per lasciare i nostri utenti liberi di esprimere le loro emozioni collegate al nostro brand diventa, grazie a Internet e ai Social Network, alla protata di tutti.

Come ho scritto, si può partire da Facebook, con un gruppo o una pagina dedicata al prodotto, promuoverla nei negozi che lo vendono e chiedere (mi raccomando, senza insi-stere troppo, per non rischiare di sembrare “soffocanti”) di raccontare la propria esperienza sul gruppo o sulla pagina che abbiamo creato. La “partenza” potrà essere lenta (molto probabilmente lo sarà), ma pian piano il traffico aumenterà, saranno sempre in numero maggiore gli utenti che pubblicheranno le loro foto con i nostri prodotti, che racconteranno come ci hanno cono-sciuti e condivideranno le loro esperienze con altri utenti. Con il tempo sarà possibile magari aprire un sito dedicato alle migliori foto, ai migliori video, ed alle migliori storie che ruotano intorno ai nostri prodotti. Potremmo quindi mostrare, contestualmente al catalogo, scenari di utilizzo comune degli stessi, ovviamente dando i dovuti “crediti” agli autori delle storie, delle foto e dei video, e permettere che i visitatori del sito si immedesimino in altri che hanno potuto utilizzare i nostri oggetti nella vita reale. La breve storiella della ragazza che passa mezz’ora davanti alla vetrina di Zara, entra per comprarsi una maglia per tirarsi su di morale e ne regala una uguale alla sua amica per dimenticare un diverbio, potrebbe trovare posto nel nostro sito. La persona che ha fotografato la sua libreria, con il nostro soprammobile in bella mostra, potrebbe trovare uno spazio per le sue foto nel

nostro catalogo, e in questo modo essere anche invogliata a fare più scatti di altri nostri soprammobili, che mostrino ai visitatori del sito come sia possibile accostarli in modo più creativo di quanto da noi immaginato.

Per concludere, quello che dobbiamo cercare sempre di ricordare, è che le persone tendono a memorizzare più facilmente delle storie, cercando di riconoscersi nei perso-naggi. La nostra pubblicità può mostrare un catalogo, può far scorrere le immagini dei nostri prodotti, ma sarà molto più efficace se potrà creare emozioni. Stimolare ricordi, permettere a chi guarda un video o legge una storia di sentirsene protagonista, permette di creare legami affettivi anche con prodotti che non utilizziamo, che ci torneranno in mente quando ci troveremo in situazioni analoghe. E se non abbiamo mai pensato di regalare una maglia ad un’amica in occasione di un diverbio, probabilmente penseremo positivamente a Zara quando litigheremo con lei, o penseremo alle amiche con cui abbiamo avuto discussioni passando davanti alle vetrine del negozio.

Possiamo anche cercare di inventare autonomamente delle storie, ma se consideriamo che gli strumenti messi a dispo-sizione dal web sono ormai alla portata di tutti, e chiunque può pubblicare foto, video e brevi racconti, perché non provare a stimolare i nostri utenti a condividere le proprie storie anche su un nostro spazio? Sarà più “reale”, sarà più reale, e soprattutto potrà dare sia a noi che ad altri ispira-zione per utilizzare quelli che possono sembrare semplici “prodotti” in modo più creativo e personalizzato.

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storytelling Per ottenereuna solida brand rePutation online (e offline)

di Alessandra Colucci

Nella prima puntata di Brand 2.0 [http://tiny.cc/9iakb] ho scritto dell’importanza della definizione di strategie di marketing relazionale al fine di creare, per sé o per un’azienda, una solida e positiva reputazione, dando alcune indicazioni di base su come attuare tali strategie nella comunicazione online e fornendo una panoramica dei social media più utilizzati e delle loro principali caratteristiche (nel FOCUS ON).In questa seconda parte vorrei chiarire il perché diviene oggi così importante costruire la propria reputation

e come scegliere i contenuti da veicolare, quali “storie” narrare, quali pratiche far diventare abitudini e quali invece evitare.

REPUTATION = TRUST (FIDUCIA)I rapporti di carattere professionale non si differenziano moltissimo dalle interazioni personali, se non fosse che i primi presuppongono inte-ressi più o meno condivisi di natura economica e tempi di sviluppo iniziali che si vorrebbe rendere il più possibile brevi per iniziare subito a “fare affari”. La fase di “analisi e studio” del proprio interlocutore in ambito business, per stabilire “di chi ci si può fidare” e quindi con chi sarà possibile intraprendere rapporti proficui (per entrambe le parti) e duraturi, spesso non può durare più di pochi minuti. Proprio dal bisogno di comprimere la durata di tale fase, nasce la necessità di comunicarsi

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correttamente – soprattutto in Rete, visto che Internet viene sempre più usato per reperire informazioni preliminari su aziende e persone – in modo da farsi precedere da informa-zioni corrette e utili su di sé e sulla propria attività o azienda, sulle proprie competenze e sulle proprie caratteristiche in generale.

Le informazioni preliminari di cui l’interlocutore viene a conoscenza relativamente a una persona o a un’azienda contribuiscono sicuramente a predisporlo, positivamente o negativamente, a un atteggiamento di fiducia. Naturalmente l’interlocutore sarà maggiormente predisposto a dare fiducia a soggetti il cui brand (personal o corporate che sia) gode di una buona quanto solida reputazione.

FIDUCIA = ONESTÀ E COERENZASo per certo che ci sono aziende che mentono sul numero delle proprie risorse umane o che si presentano come “green” ma non fanno altro che “green washing” [cfr. Comunicare “green” e il “green wahing” http://tiny.cc/xnrfv], case editrici che gonfiano i numeri delle copie in distribuzione o dei punti vendita, società che mentono sul numero dei visitatori del proprio sito/blog; conosco professionisti che si dichiarano esperti in materie sulle quali hanno poca o nessuna compe-tenza, che promettono risultati impossibili da documentare

o addirittura inverosimili; ho avuto a che fare con venditori che sui contratti inseriscono clausole a caratteri microsco-pici, che presentano offerte indicandone parzialmente le caratteristiche... Tutto questo non fa bene al mercato: né ai gabbati (ovvio) che sicuramente a un certo punto scopri-ranno l’amara verità, né ai bugiardi (quantomeno nel medio periodo) perché il loro “gioco” non potrà funzionare a lungo.Per ottenere fiducia (e di conseguenza una repu-tazione positiva), sia online che offline, occorre essere onesti e “sempre uguali a se stessi”, coerenti anche nelle proprie contraddizioni: in sintesi, inutile fingere poiché tutto quel che non è vero prima o poi verrà alla luce.

Il proprio modo di vestire, di mangiare, di parlare, così come l’avatar dei propri social media e social network, il layout scelto per blog e siti, la composizione di slides, i contenuti che si creano o che si decide di condividere, la propria offerta di prodotti/servizi... sono tutti elementi che raccontano qual-cosa di sé, aspetti che offrono un quadro più o meno chiaro di una persona e/o di un’organizzazione, senza dimenticare che anche l’assenza di uno o più di questi elementi porterà al costituirsi di tale quadro complessivo, di un’opinione presso chi cerca di capire qualcosa di quella persona o azienda. Esporre onestamente quel che si è diviene dunque il primo passo per costruire una reputazione

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che nessuno potrà mai smentire o rovinare, dato che corrisponderà semplicemente al vero. Farlo mettendo a punto una buona strategia eviterà ancor di più incoerenze o “mancanze” e farà chia-rezza sugli strumenti più adatti a raccontarsi, a spiegare il più possibile di sé, delle proprie scelte e del loro perché.

COERENZA = PIANO STRATEGICONel raccontarsi, partire dalla definizione delle strategie non deve assolutamente essere confuso con l’essere “falsi e costruiti”, predisporre dei piani per comunicarsi non significa “mettere a punto delle tattiche”, bensì avere chiari gli obiettivi da perseguire, essere consapevoli delle proprie competenze, risorse e capacità, conoscere le proprie specificità e comprendere come rendere tutti questi elementi facilmente percepibili per i propri interlocutori. Ideare delle strategie efficaci ed efficienti da cui possa derivare un brand che ne sintetizzi i valori e veicoli l’identità della persona o dell’organizzazione che rappresenta, corrisponde all’aver ben chiaro cosa si vuol dire prima di iniziare a parlare e raccontare, scegliere il tono e gli stru-menti più adatti al contesto in cui si agisce.

Per arrivare a comporre un buon piano d’azione occorre innanzitutto dotarsi di un buon metodo progettuale [cfr. BCm n° 005 Strategic Planning http://tiny.cc/de44t], ovvero richiedere l’aiuto di chi può più facil-mente applicarne uno: occorrerà per prima cosa analizzare la situazione di partenza, compreso il proprio vantaggio competitivo (comunque la prima cosa da fare è “Googlearsi”, ovvero cercarsi su Google per vedere cosa esiste già su di sé che può essere conosciuto dagli altri), poi fissare degli obiettivi, trovare i mezzi e gli strumenti più adatti a raggiun-gerli, studiarne le modalità di funzionamento (anche impli-cite), scegliere quelli più rappresentativi del proprio modo di essere, darsi delle regole sul loro utilizzo e solo dopo mettere in pratica quel che ne frattempo è diventato un piano strate-gico. Non basta l’intuizione.

PIANO STRATEGCO = STORYTELLINGAttraverso l’implementazione delle strategie si arriva (final-mente) al momento della narrazione. Ma cosa raccontare e – soprattutto – come?Per quanto riguarda i contenuti del proprio storytel-ling, andranno predilette tutte le informazioni che sembrano utili nel momento in cui ci si trova a valutare una persona o un’organizzazione, dunque di cosa si occupa, come se ne occupa, qual è il suo metodo di produzione, quali i suoi valori, come si pone nei confronti del proprio mercato e dei propri competitors... e sarà utile scovare curiosità, aneddoti, case histories e simili che possono trasmettere qualcosa in più sulle caratteristiche e sui valori sottesi alla persona, all’azienda o all’attività svolta. Prima di creare contenuti testuali, immagini, schemi e

quant’altro può occorrere, è bene fare un elenco il più possi-bile esaustivo delle necessità che si hanno in modo da non dimenticare nulla, per poi provvedere alla creazione dei materiali seguendo un ordine di priorità dato dai tempi di implementazione delle varie parti che compongono il piano strategico.

Per quanto riguarda le modalità, tengo in parti-colar modo a sottolineare che è importantissimo conoscere approfonditamente gli strumenti utili alla narrazione, soprattutto quelli che si decide di utiliz-zare per veicolare il proprio brand e costruire la propria reputazione: tali strumenti, oltre a dover risultare congrui rispetto ai messaggi che si vogliono comunicare e agli

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businessinterlocutori da raggiungere, nonché coerenti con valori da trasmettere e obiettivi da perseguire, dovranno poter essere utilizzati secondo le specificità e le caratteristiche a loro intrinseche, secondo le regole d’uso e di “etichetta” riconosciute dagli altri utilizzatori.

Rispetto alle caratteristiche dei mezzi che è possibile utiliz-zare per il proprio storytelling vi rimando al mio articolo su BCm n° 004, Business Fiction, [http://tiny.cc/l751l] e, per i social network, alla prima puntata di Brand 2.0 pubblicata su BCm n° 005 [http://tiny.cc/9iakb], così vi rimarrà solo da capire quali siano quelli più appropriati di caso in caso. Riguardo invece alle regole e all’”etichetta”, vi rimandando, a titolo esemplificativo, all’articolo di Davide Bennato La buona educazione digitale come etica dei social network apparso [BCm n° 003 http://tiny.cc/5zulimngwp]: ovvia-mente ogni mezzo di comunicazione ha le sue regole e il suo bon ton da rispettare.

STORYTELLING = BRAND = “GARANZIA”In conclusione, la reputazione dipenderà da come ci si comunica, dal proprio grado di coerenza in ciò che si esprime e si condivide attraverso i vari e varie-gati strumenti a disposizione, da quanto dunque si viene percepiti come “onesti” ed effettivamente “capaci”: ogni persona, come ogni azienda, costruisce, volente o nolente, più o meno consapevolmente, un proprio brand, personal o corporate. In entrambi i casi un brand corrisponde sempre a una promessa [cfr. Il Brand è una promessa http://tiny.cc/ithxr], un contratto che si stipula con i propri interlocutori in base alla propria offerta e ai propri valori: a seconda di quanto si è in grado di dare visibilità al proprio brand e a quanto si riesce a far percepire la promessa fatta come mantenuta, la propria reputazione risulterà solida e potrà operare come “garanzia” nella costruzione del rapporto di fiducia con l’interlocutore.

Il mio personal brand, come la mia identità, è formato da molteplici fattori – quali, ad esempio, i miei studi, le mie varie attività professionali (titolare di Queimada, editrice e contributor di Brand Care magazine, consulente e strategic planner, docente, coor-dinatrice di un master), i miei interessi, i miei hobby... – che veicolo attraverso strumenti di comunicazione di diverso tipo.

Da quando esiste (quasi 4 anni), su Brand Care by Queimada [http://tiny.cc/hdxbq] esprimo e condivido idee, opinioni e analisi sul marketing, la comunicazione e la pubbli-

cità. Ad un certo punto mi sono però resa conto che la mia identità professionale è più sfaccettata e multidimensionale di quanto sia possibile esprimere in quel contesto e ho deciso di dotarmi di un personal blog [http://www.ales-sandracolucci.com] dove poter raccontare anche le altre esperienze che completano la mia attività in azienda, dove posso sperimentare senza correre il rischio di tradire la linea editoriale istituzionale della mia società, dove posso espormi maggiormente e narrare anche riflessioni più personali. Il mio blog è diventato nel tempo la location virtuale in cui tener traccia di tutto quel che capita, dei miei progetti didattici, delle mie riflessioni sulla comunicazione e il marketing, ma anche dei viaggi che faccio e dei luoghi che visito, dei film che vedo e dei libri che leggo, delle persone che incontro o con cui entro in contatto... in piena libertà.

Da qualche mese ho creato anche una serie di account sui principali social network, inizialmente con lo

scopo di dare maggiore visibilità ai siti su cui scrivo. Successivamente, però, anche questi ultimi sono diventati strumenti autonomi di narrazione: con Facebook [http://tiny.cc/4uj7h] mi tengo aggiornata sulla mia rete di conoscenze più o meno dirette e mantengo più facilmente aperto il dialogo con persone che comune-mente frequento nella vita; con Twitter [http://tiny.cc/sfed5], il social network che utilizzo maggiormente, creo connessioni con persone che hanno in comune con me uno o più interessi e amplio la mia rete di conoscenze dirette, oltre a fare ricerca riguardo i trend del marketing e della comunicazione, grazie al continuo scambio di risorse; su LinkedIn [http://tiny.cc/7yici] traccio le mie attività e mi informo sulle novità professionali della mia rete di contatti lavorativi; con Google Reader [http://tiny.cc/y8ivg] aggrego e condi-vido alcune delle informazioni interessanti che reperisco in rete;il profilo Google [http://tiny.cc/uuruk] mi permette di tenere insieme tutti questi account, di dar loro maggiore visibilità e di usufruire di altri importanti servizi aggiuntivi per la loro gestione; con FriendFeed [http://tiny.cc/6erd1] aggrego tutti i contenuti che pubblico o condivido in modo che possano essere rintracciabili anche in un sol luogo; attraverso Whohub [http://tiny.cc/lb842] rendo reperibile qualche curiosità in più rispetto al lavoro che faccio e a come lo intendo; con Delicious [http://tiny.cc/kg55k] ordino e conservo le news e i siti che possono tornarmi utili per piacere o per lavoro.Tutto questo riflettere, appuntare e condividere online fa

DOVE PUBBLICO LE MIE STORIE – OVVERO – COME CREO IL MIO PERSONAL BRAND

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Tale garanzia ha come conseguenza il fatto di poter ridurre il tempo dedicato a “spiegare” e “dimostrare” le proprie capa-cità e competenze, la propria “onestà” professionale. Il tempo risparmiato potrà dunque essere utilizzato per approfondire i rapporti, ascoltare l’interlocutore e creare empatia [cfr. La civiltà dell’empatia: dagli esperimenti sulle scimmie al bran-ding http://tiny.cc/19nao].Ascoltare e saper predisporre dinamiche di empatia, condividere le proprie quanto le altrui esperienze, interagire in maniera attiva nei luoghi d’incontro, siano questi reali o virtuali, risulta essenziale se si persegue l’obiettivo di creare un rapporto di fiducia basato sulla propria reputazione, ovvero quando si deve portare a termine un lavoro accurato e in linea con le aspettative del proprio interlocutore: l’era del marketing push è finita da un pezzo, la narrazione come la comunica-zione consiste sempre in uno scambio bidirezionale o multidirezionale.

maturare ogni tanto pensieri troppo complessi per essere espressi in un post o in una news di poche righe: queste narrazioni più “evolute” sono quelle che pubblico qui, su Brand Care magazine, storie che riflettono soprattutto il mio modo di intendere la mia professione, racconti attra-verso i quali esprimo il mio modo di concepire il mio lavoro e il mio settore, che si collegano di volta in volta a quelli degli altri contributors, inserendosi in un panorama più ampio fatto di competenze e conoscenze non solo mie.

A mio avviso, comunque, i mezzi che la Rete mette a disposizione (o che permette di creare) devono essere considerate come delle opportunità, opportunità che

per essere colte e trasformarsi in relazioni hanno necessità di essere curate e condivise. Di conse-guenza, ogni volta che si rivela possibile, opto per un mix tra utilizzo di strumenti web, magari per raggiungere e succes-sivamente mantenere un contatto, che integro attraverso la presenza nella realtà quotidiana, in cui fisso incontri e partecipo a eventi, fiere, festival, interviste...

Tutti strumenti fondamentali per approfondire e rafforzare le proprie relazioni e dar forma ai propri racconti. Collezionare contatti online in sé serve a ben poco: occorre connetterli in modo da produrre innovazione e perseguire il miglioramento (kaizen) nella realtà offline.

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creatività

di Massimo Caiati

A noi creativi piace pensare che la pubblicità sia un pezzo d’arte, né più né meno nobile del cinema. E dal cinema spesso prendiamo spunto e ispirazione per dare vita alle nostre idee. (Un giorno, chissà che non avvenga il contrario, con Woody Allen che copia o prende spunto da una pubblicità per pannolini, o con Tarantino che si rifà a una campagna per Lego).Comunque, per questa volta ci acconteteremo di dare un’occhiata ad alcune campagne che hanno chiaramente tratto forza da una delle fasi più interessanti, anche se

meno conosciute, della produzione cinematografica: il montaggio. Come sempre attingiamo dal Festival della Pubblicità di Cannes, la più importante kermesse pubblicitaria del mondo. Nelle campagne che vedremo, un po’ come in Memento di Christopher Nolan, il montaggio diventa non solo una dispositivo narrativo, ma parte integrante e anima dell’idea stessa.

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Prima di iniziare, è bene vedere qual è la struttura stan-dard di una pubblicità televisiva. Di solito il discorso è semplice: si apre con una parte che dovrebbe attrarre l’attenzione, mostrando qualcosa di divertente o particolar-mente interessante; poi si introduce il link (spesso chiamato insight) tra la cosa che ha attratto la nostra attenzione e le qualità del prodotto in questione, che diventa quindi il nostro “eroe”.Attenzione, questa è una struttura estremamente semplici-stica, il bello della pubblicità è che le regole esistono soprattutto per essere conosciute e stravolte, in modo da creare qualcosa di davvero eccezionale.Comunque, seppur così restrittiva, questa struttura basata su due fasi è una delle più utilizzate:1. momento per attrarre l’attenzione (in modo che chi vede la pubblicità si svegli da quello stato di torpore perenne che si ha quando si vede la televisione nel momento del break pubblicitario;2. fase che spiega la connessione tra quello che ti ha attratto e il prodotto. Di fatto, una volta che ho attratto la tua atten-zione, è venuto il momento di comunicarti il messaggio.

Un esempio semplice da capire che possa spiegare meglio questa struttura più essere dato dall’unica campagna televisiva italiana che abbia preso un premio a Cannes

quest’anno. Si tratta di una pubblicità piuttosto intelligente fatta per Conto Arancio, a opera dell’agenzia Leo Burnett. In questa campagna si vede un uomo attaccato alla pubbli-cità di un autobus. È un uomo in carne ed ossa e non una foto, che parla alle macchine e ai motorini che vengono di volta in volta affiancati dal autobus, dichiarando quanto sia contento del suo nuovo Conto Arancio. In questo caso possiamo individuare facilmente i due momenti:1. uomo strano attaccato a una pubblicità su un autobus (A, attirare l’attenzione);2. questo tizio mi parla dei benefici del Conto Arancio (B, veicolare il messaggio che voglio).Questa struttura estremamente semplice diventa interes-sante grazie all’insight, in questo caso proposto in forma scritta: “La nostra migliore pubblicità sono i nostri clienti”. Senza questa trovata, il tizio attaccato al bus che ci parla di Conto Arancio sarebbe stato semplicemente un pazzo, e la pubblicità non avrebbe avuto alcun senso logico. Dicendo invece che “I nostri clienti sono la pubblicità migliore che possiamo avere”, si è spiegato il motivo per cui il cretino era immerso nel manifesto, rendendo lo spot più “credibile” (e divertente).

È interessante notare che il messaggio“I nostri clienti sono la nostra migliore pubblicità.”, non sia di per sé nuovo nel

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creativitàmondo dell’advertising, ma è stato reso suggestivo da un’esecuzione creativa innovativa (nessuno ha mai visto un uomo attaccato a un manifesto prima). Questo è un perfetto esempio di strategia giusta (anche se non particolarmente nuova), resa vincente da una buona creatività. Tornando al discorso del montaggio, prenderei in conside-razione un altro spot.La campagna per Pizza Pop ha vinto Cannes l’anno scorso con 3 serie di soggetti da 15” l’uno, che prendevano la loro forza da un’alternanza di immagini invertite. I 3 soggetti, sono visibili su YouTube a questi link:http://www.YouTube.com/watch?v=BxaxELlSSsA,http://www.YouTube.com/watch?v=gg1LS_CwgK4,http://www.YouTube.com/watch?v=NG7AH8CkqL4.In questo caso la struttura è la stessa che ho appena descritto, formata da una prima fase che cattura l’attenzione e una seconda che spiega come mai è successo quello che abbiamo appena visto, collegando lo spot alle caratteristiche del prodotto.

L’elemento interessante in questo caso è la gestione del tempo all’interno della prima parte (quella creativa).In uno dei soggetti, ad esempio, lo spot apre con un ragazzo e un nano vestito con un’uniforme da karate che cadono dal cielo sul pavimento. Entrambi sono stupiti di quello che sta suce-dendo. Le immagini sono seguite da un super che dice “5 secondi prima”, che introduce la scena seguente. In questa sequenza si vedono i due protagonisti poco prima di essere lanciati in cielo: stavano semplicemente codividendo un Pizza Pop, quando il nano vestito da Karate ha deciso di provare a dividerlo a metà con un solo colpo. Mentre sentiamo il rumore del Pizza Pop che esplode (lanciando in aria i protagonisti), capiamo il perchè di questa esplosione attraverso il messaggio (insight): “Attenzione, Pizza Pop è davvero stracolmo di ripieno”.

Come appena detto, la struttura della campagna è sempre la stessa, ma il montaggio che ci ha fatto vedere prima la fine della storia e poi l’inizio ha reso la prima parte ancor più interessante e diver-tente. Immaginate ad esempio se il montaggio avesse seguito una struttura temporale classica, in cui la scena inizia con il nano che prova a tagliare il Pizza Pop con un colpo di Karate e viene lanciato in aria dall’esplosione. Il tutto avrebbe perso un po’ del suo appeal.

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Un’altra campagna vincitrice di Cannes che ha fatto un uso assolutamente innovativo del montaggio è quella realizzata per MTV EXIT FOUNDATION (che si occupa di denunciare i commercianti di sesso) ad opera dell’agenzia Colman Rasyc Sidney (la campagna può essere vista al link http://www.YouTube.com/watch?v=arSgBcAW6ao).Questa pubblicità è un video clip della durata di circa 4 minuti, in cui si racconta la stessa storia più volte fino alla fine, ma partendo da un po’ prima ogni volta che si ricomincia. La scena apre con un uomo e una donna che si baciano appassionatamente in un albergo di lusso. Entrambi sono ben vestiti e apparente-mente ricchi. Poi la storia ricomincia, questa volta partendo dal momento in cui la donna è in macchina verso l’albergo, mentre si sta rifacendo il trucco. La scena ricomincia una terza volta, iniziando da prima che la donna si rifacesse il trucco, mostrando la donna piangere in macchina. Con questo sistema a ritroso, la narrazione assume di volta in volta un significato completamente diverso. Alla fine vediamo l’intera vicenda, compreso quello che c’è dietro: una vicenda di sfruttamento sessuale di una povera ragazza. In questo caso la struttura generale della campagna è estremamente complessa, in quanto sembra dare di volta in volta un messaggio diverso. Questo aspetto la rende estremamente interessante e quindi apre chi la guarda al messaggio finale in maniera impattante.”Some things cost more than you realise”.

La terza e ultima campagna che gioca in maniera creativa con il concetto di tempo e di montaggio, è stata creata dall’agenzia Ogilvy per “The Topsy Foundation”, che si occupa di trovare fondi per acquistare medi-cinali contro l’AIDS in Africa. Anche in questo caso vi invito ad andare a vedere la campagna direttamente al link http://www.YouTube.com/watch?v=tdolrSzXj4A , non vorrei rovinare la sorpresa, parlando della fine troppo in anticipo.

Del resto, “idea” non è una parola palin-droma che può essere letta nei due sensi, è neanche la parola “oro” lo è, quando si tratta di vincere a Cannes.

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marketing

di Andrea Molinaro

Concedetemi una doverosa premessa…Il mondo della comunicazione vive oggi una fase di profonda trasformazione. Gli investimenti nei media tradizionali, stanziati dalle aziende per pubblicizzare i propri prodotti/servizi, non garantiscano un pari ritorno in termini di vendite e brand awereness. La crisi economica ha indotto le imprese a ridurre drasticamente i budget destinati alla comu-nicazione esterna e il consumatore, sempre più formato, infor-mato e partecipativo, è esigente ed infedele.Un quadro così pessimistico consiglierebbe all’uomo di

marketing di cercare fortuna altrove, oppure di guardare al di là del proprio naso alla ricerca di forme di comunicazione nuove, possibilmente low cost ed in grado di catturare l’attenzione di quello che il Professor Fabbris definisce “consum-attore”… E cosa c’è di più nuovo, a basso costo e coinvolgente dell’Unconven-tional Marketing?

Diamo un senso a questa mia affermazione. Il marketing non convenzionale viaggia in rete diffondendosi come un virus tra gli utenti grazie al passaparola e all’imperativo, tipicamente web 2.0, della condivisione.

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Ma non solo: nelle sue forme più arcaiche, il non convenzio-nale può insinuarsi nelle strade e tra la gente grazie alla sua arma più subdola, “l’esperienza diretta” che connette il brand con il cliente. Guerrilla, viral, ambient, flash mob, social marketing sono solo alcuni dei roboanti termini utilizzati per definire le diverse tecniche di unconventional marketing oggi catalogate degli studiosi del settore e che rappresentano solo un piccolo campione delle infinite possi-bilità comunicative che il non convenzionale offre e il cui limite è dettato prettamente dalla creatività e dalla fantasia.

Premesso ciò e prima ancora di descrivere le diverse tecniche di unconventional (argomento di futuro sviluppo) vorrei soffermarmi su un fattore di primaria importanza nella comunicazione non convenzionale: l’aspetto narrativo.L’efficacia di un’azione unconventional è determinata da due fattori:• l’originalità del messaggio • la sua forza di diffusione (sia attraverso i media tradi-

zionali, sia con il passaparola tra i clienti)Ogni azione sul territorio, ogni evento online e offline, oltre a incuriosire, deve contenere un invito implicito alla viralizza-zione, un reward in termini di gratificazione sociale, in grado di incentivare alla trasmissione del virus tutti i fruitori. In tale ottica il concept narrativo della campagna assume un ruolo cruciale, l’azione di unconven-tional vuole diffondere in modo furtivo i brand values (ciò che l’azienda vuole far percepito al cliente con il proprio messaggio pubblicitario); per questo, oltre a non essere fine a sé stessa ma in linea con l’immagine aziendale, è bene creare la finta notizia (ma anche l’intera campagna) intorno ad una vera e propria storia facilmente ricordabile e tramandabile.

La dimensione narrativa garantisce la presenza della marca in tutti i successivi sviluppi comu-nicativi e l’aspetto innovativo, curioso o estremo della campagna si lega in modo indissolubile all’esperienza vissuta dal cliente. Il brand assume il ruolo di protagonista nella storia da raccontare mentre i consumatori divengono degli attori che partecipano attivamente all’interpretazione del messaggio e alla loro diffusione. Più la storia sarà interessante più, insieme alla sua fruizione, sarà viralizzabile.“Non convenzionale” non è quindi sinonimo di “strano” a tutti i costi. Non è sufficiente essere creativi se non si colloca l’azione in una strategia comunicativa ben definita, e il mio consiglio è quello di non avventurarsi in campagne di uncon-ventional marketing in “solitario” ma di affidarsi alle sapienti idee di agenzie pubblicitarie esperte del settore.

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creatività

camPari, il racconto attraverso un istante cristallizzato

di Giacomo De Biase

Ssshh… Inizia così l’ultima campagna di spot Campari in onda sulle principali reti tv. Campagna centrata sui cocktails, al momento Americano e Campari Orange Passion.L’originale bottiglia del Campari Soda disegnata da Depero negli anni ’30 e lo spot girato da Fellini nel 1984 sono forse gli esempi più celebri della storica attenzione che l’azienda rivolge alla comunicazione, distinguendosi (nel vero senso della parola) da sempre, ieri come oggi.Oggi appunto.Ci troviamo a un party in un ampio ed elegante

loft, presumibilmente al tramonto vista la luce che entra dalle finestre e scalda l’ambiente. Al centro un bel bancone a 360° dove sensualissimi barman e bargirl preparano cocktails per i presenti, tutti sulla trentina, tutti belli ed eleganti, tutti stanno passando un piacevole TEMPO, bevendo allegramente…Le due versioni dello spot differiscono solo perché una volta si prepara e si beve Americano, l’altra si prepara e si beve Orange Passion; sì cambiano gli attori ma situazione e stile dello spot rimangono gli stessi.

In continuità con le campagne degli ultimi anni l’universo simbolico asso-ciato al brand è fatto di: rosso, eleganza, glamour. In questo caso si sostituisce il termine “passion” (che pure è nel pay-off delle diverse campagne)

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con “glamour” che sembra qui sembra avere un campo semantico più ampio, tanto da riuscire a “contenere” tutta l’atmosfera creata negli spot.

Il rosso è Campari e nel mercato beverage assume lo stesso significato del rosso Ferrari in quello automobilistico o del rosso Valentino nella moda. Fin dai manifesti di Dudovich degli inizi del ‘900, si è sempre puntato sull’accattivante colore della bevanda per la sua promozione. Eleganza e glamour si accordano perfetta-mente a tale colore, come nei recenti spot che vedono prota-goniste Salma Hayek e Jessica Alba. Anzi la loro presenza viene ostentata, esposta, esibita specificando e distinguendo ancora di più il brand. Tutto è dominato dalla seduzione e da un pizzico neanche piccolo di ambiguità che rende ancora più attraente bere Campari.In continuità con il passato di questi ultimi spot sono anche l’ambientazione “festaiola” e l’atmosfera che coinvolge lo spettatore, lo fa sentire personaggio, lo invita al godimento di questo oggetto del desiderio, lo fa sentire il soggetto dello spettacolo allestito per lui.

Ma c’è di più… Infatti il tempo nello spot non scorre, un istante cristallizzato è quello che si vede per 30 secondi, una macchina da presa virtuale porta lo spettatore all’in-terno di un frame che magicamente si dilata nello spazio. Poche inquadrature in lento ma continuo movimento

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creativitàdescrivono l’intera situazione: due ragazze si guardano intorno incuriosite, lungo il bancone i baristi preparano cocktails, un gruppo di amici si sta facendo una foto, una coppia discute animatamente, un cocktail Campari è sul punto di “liberarsi dal bicchiere” e volare via… Tutto fa parte del medesimo istante, perché?

In effetti il “giochino” - che si chiama freeze frame e che, malgrado la tecnologia che avanza, stupisce per l’effetto di apparente naturalezza e trasparenza - va ad intaccare il comune sentire del tempo nel suo scorrere, nel raccon-tare una storia. Se la tecnologia 3D lavora sullo spazio, aggiungendo di fatto una terza dimensione alla ricezione, al contrario qui si lavora di sottrazione. Ma si sottrae solo e soltanto lo scorrere del tempo, però, perché dal punto di vista narrativo la situazione evolve, viene raccontata una storia, una trama che si svolge tutta nel medesimo istante…

Lo “ssshh” che viene sibilato all’inizio dello spot parla allo spettatore in modo diretto, lo invita ad altro (dal solito spot…). Questo lavorare sul tempo sembra far riferimento a quella che è stata per secoli la forma di comunicazione principale e spesso unica per immagini: la pittura.

La fruizione dell’opera (in questo caso dello spot) ha parados-salmente una forma più vicina a quella della Scuola di Atene di Raffaello o del Giardino delle Delizie di Bosch rispetto a un qualsiasi prodotto audiovisivo “in movimento”… appartiene a quelle rappresentazioni, dunque, che vengono lette anche nel tempo. Dopo il primo impatto, lo sguardo viene guidato all’interno dello svolgersi dei vari aspetti del “drama”.Facendo un accostamento un po’ ardito, nello spot Campari questa staticità attraversata e condivisa dall’occhio dello spettatore somiglia alla modalità di mess in scena del quadro, dove la immagini si susse-guono a seconda di come e quanto sanno attirare l’atten-zione di chi le guarda, costituendo la storia rappresentata nel quadro in un tempo sincronico, contemporaneo a quello dell’esistenza del quadro nel suo complesso.

È una questione di ritmo. E l’uso estremo del (non) tempo, realizzato nella visione di un attimo caratterizza lo spot e soprattutto lo differenzia da ciò che lo precede e ciò che lo segue nel flusso pubblicitario. Anche e soprattutto da un punto di vista percettivo. In fondo la ragione è solo percettiva e certe diversità e distinzioni vengono colte dagli spettatori. E la campagna funziona.

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Brand Care on line Il marketing e la comunicazione che non scadono.

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raccontare storieattraverso i linguaggi dell’arte

di Pasquale Napolitano

l’arte può raccontare una storia? La questione è ampiamente dibat-tuta e rimanda a quella diarchia “mostrare vs. dimostrare” che è alla base di molti dei manifesti artistici della avanguardie del Novecento, in opposizione alla pittura figurativa, così come di buona parte del cinema d’arte e della video-arte che si oppone-vano al cinema classico e alla sua blindata impostazione narrativa. Negli ultimi trent’anni queste barriere sono certamente saltate e i generi ibridatisi, vedendo crescere negli interstizi forme istallative e performative che si pongono in maniera non critica rispetto alla narrazione, intravedendo le potenzialità del connubio apparente-

mente paradossale con le forme proprie delle “arti dello spazio” (scomodando la categoria di Gotthold Lessing, propugnatore della “pluralità” dell’arte). L’esponente di spicco di questa tendenza è per molti aspetti la francese Sophie Calle.

La Calle non è solo una fotografa, ma un’artista che ha saputo reinterpretare il medium mescolando i linguaggi dell’arte contemporanea alla sua stessa vita, facendone stimolo e linfa per lo sviluppo di istallazioni che di vita sono intrise. Ogni progetto realizzato durante il suo percorso artistico, dalla fine degli anni

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Settanta, fino ad oggi, prende spunto dalla quotidianità, e contiene a mio avviso questa sfida: narrare eventi intimi con il linguaggio istallativo, che per le sue caratte-ristiche di spazialità e multimodalità, per la poten-ziale ellissi delle sue soluzioni, si presenta come medium anti-narrativo per eccellenza.

L’artista francese sperimenta all’interno di questo percorso diverse soluzioni: dalla curiosità di inseguire un uomo, incontrato per caso a una festa, nasce nel 1980 Suite Vénitienne, progetto artistico che si sviluppa in un’osses-siva descrizione fotografica e testuale del pedinamento dello sconosciuto tra le calli veneziane. In Les Dormeurs del 1979 (prima opera “narrativa” della Calle) l’artista invita a dormire nel suo letto per otto ore consecutive ventinove persone, delle quali alcune sconosciute, le riprende nel sonno e realizza un video. Per La Filature del 1981 assume un detective dal quale si fa pedinare e fotografare, contemporaneamente tiene un diario e scatta foto in modo da confrontare la sua vita, i suoi gesti, le sue azioni e coazioni, viste dall’esterno, e da sé stessa. Nell’opera Le Carnet d’Adresses (1983) trova un’agenda per strada, chiama i numeri di telefono in essa contenuti e intervista sul proprietario tutti quelli che rispondono: le interviste vengono pubblicate ogni giorno sul giornale Libération, creando in questo modo l’identikit di uno sconosciuto. Lo stesso anno si fa assumere come cameriera in un hotel di Venezia, per fotografare le tracce di vita dei clienti. Impossibile immortalare la morte è il titolo della toccante installazione del 2006 composta, da video e testi. Si tratta della cronaca dei desideri e delle azioni più semplici, ma per questo più struggenti, svolte dalla madre nell’ultimo mese e mezzo di vita, registrate e riproposte con un fare documentativo lieve e pure sconcertante per la sua franchezza, per il suo renderci partecipi di una sfera così estremamente intima da essere oscena. Con un estremo atto d’amore Sophie immortala non la morte della madre (aporia già testata da Bill Viola con l’epocale video The Passing del 1991), ma i passaggi minimi che portano lentamente verso la morte.

D’altronde la protagonista di tutta l’opera di Sophie Calle è la propria intimità, la stessa alterità è sempre servita per scavare in se stessa in un procedere basato sulla raccolta e la classificazione delle informazioni finalizzate alla narrazione. In tutti questi lavori la vita e l’opera sono indi-stinguibili, e francamente non è chiaro quanto gli episodi di vita siano il punto centrale delle opere o soltanto un pretesto per l’iperfetazione interpretativa che sta alla base di questi. Altra caratteristiche essenziale dell’estetica della Calle è quel particolare approccio all’interazione con lo spetta-tore, nel rintracciare percorsi identitari ed intimi, calcando spesse volte sull’aleatorietà delle relazioni, dei transiti

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culturee dei legami, contaminando il classico impianto concet-tuale delle sue istallazioni col repertorio relazionale caro a Rirkrit Tiravanija e ai suoi seguaci, ma con una sobrietà stilistica che l’avvicina maggiormente a Cristian Boltansky: sta allo spettatore, infatti, complice di un vertiginoso gioco di rimandi, ricostruire legami ed identità.

Lo stile di Sophie Calle, consiste sempre nel legare immagini e testi. Nel 1994 chiama in aiuto Jean Baudrillard, che le consegna un saggio di analisi rispetto alle immagini a circuito chiuso di una grande banca ameri-cana, in cui paragona il bancomat a un vespasiano e a un confessionale, così com’è nota la collaborazione con Paul Auster per la costruzione di uno dei personaggi principali del “Leviatano”, romanzo cult del 1992.

Probabilmente la sua opera più nota e riuscita è la grande riflessione sulla fine di un amore che porta il titolo di Take Carefull of Yourself : Abbi Cura di te, opera multimediale presentata alla Biennale di Venezia del 2007 per il padiglione francese, allestito dall’ottimo Daniel Burin. Sophie Calle racconta: “Ho ricevuto una mail di mattina. Non ho saputo rispondere. Come se non fosse indirizzata a me. Terminava con le parole: Abbi cura di te. Ho preso la raccomandazione alla lettera. Ho chiesto a 107 donne, scelte in base al loro mestiere di interpretare questa lettera da un’angolazione professionale. Analizzarla, commentarla, recitarla, danzarla, cantarla. Esaurirla. Capire al posto mio. Rispondere per me.

Un modo di prendere tempo per rompere. Prendermi cura di me.” 107 figure femminili, che esprimono con video e foto, con i loro volti e le loro parole, reazioni diverse a questo addio. Come il video della cantante dei Feist, che dalla cucina di un appartamento parigino reinterpreta in musica il testo della lettera, o Jean Moureau, che la legge con disgusto fumando una sigaretta. L’avvocato Caroline Mécary descrive, sulla carta intestata dello studio, il carattere narcisista ed egocentrico di X, a cui sentenzia due anni di prigione e 37.500 euro di danni morali. O ancora la foto di una triste composizione floreale: l’inse-gnante d’ikebana ha trasformato il testo in ortensie essiccate. La filosofa Catherine Macabou va ancora oltre teorizzando: “L’uomo che le scrive soffre del fatto di non essere abbastanza uomo”. La lettera viene così de-costruita, scandita, svisce-rata, diviene spunto e pretesto per costruire una koinè su un argomento sensibile. Sulle fotografie e sugli schermi passano i volti di Laurie Anderson, Victoria Abril, la dj Miss Kittin e anche di Luciana Littizzetto mentre legge con sarcasmo, pelando delle cipolle in cucina. Sono esposti anche i tarocchi della veggente che profetizza: “Non sono le parole di un uomo sincero”. Più schiettamente un’adolescente francese, Anna, risponde a Sophie via SMS: “Se la tira”, una scrittrice di parole crociate, una campionessa di tiro con la carabina, una esegeta di

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Per approfondire » Sophie Calle, “Appointment”, Thames & Hudson, Londra, 2005

» Sophie Calle, “Double Game”, Violette Editions, Londra, 2007

» Sophie Calle, “Take Care of Yourself”, Actes Sud, Parigi, 2007

» Visionaire Magazine No 55: Surprise - Visionaire Publishing, New York, 2008

talmud, una giocatrice di scacchi. La e-mail è tradotta in codice morse, in linguaggio esade-cimale, in braille, in stenografico e in codice a barre, in trascrizione fonetica, in sms. La sessuologa risponde con una ricetta su carta intestata dell’ospedale: “No, non posso prescriverle antidepressivi. Lei è solo triste”, la psicanalista si sofferma sulla “brutalità della vacuità della frase omicida finale”, la criminologa analizza il soggetto mittente: “Un uomo intelligente, colto, di buon livello socioculturale, elegante, seducente, orgoglioso narci-sista ed egoista”.Marie Dasplechine, scrittrice, ne fa una novella per bambini.La maestra elementare la propone come compito agli alunni, Ambra, nove anni e mezzo, lo svolge: “Sembra che lui l’ami. Se l’ama non capisco perché la lascia. È una storia triste”. La paroliera la trasforma nel testo di una canzone, la compo-sitrice classica in un brano per pianoforte, l’esperta di bon ton la boccia categoricamente e propone un nuovo testo di sette righe scritte con penna stilografica su carta velina. Un’agente dei servizi segreti la cripta usando la parola chiave “rottura”. Si avvicendano l’esperta di letteratura e la sociologa (che ne fa un saggio: L’esacerbarsi dell’amore eterosessuale in Occidente ).L’architetto di interni ne fa mille copie da distribuire agli ospiti in visita, la contabile la trasforma in un bilancio economico del dare e dell’avere in amore, la madre in una lettera alla figlia: “Amore mio, si lascia e si è lasciati, è

questo il nome del gioco. Sono sicura che anche questo sarà per te fonte d’ispirazione artistica. Mi sbaglio?”. Un’attrice giapponese con la maschera di gesso, una balle-rina indiana che danza, una cantante di tango. Alla fine Brenda, pappagallo bianco con cresta dorata (femmina): col becco fa a pezzi la lettera, la assaggia, non gli piace, la butta.

“Je suis une artiste narrative” ha detto una volta Sophie Calle e infatti tutta la sua opera è un tenta-tivo di sintesi di generi letterari con i quali esplora la sua vita e quella degli altri, invertendo ruoli e identità.La fase più stimolante in termini di comunicazione relativa a una sperimentazione artistica è quello della democratizza-zione delle soluzioni sperimentali e la loro diffusione su larga scala. È quanto sta avvenendo in questi anni con le speri-mentazioni dell’arte narrativa. Citiamo un esempio su tutti, il recentissimo progetto collettivo Io sono testimonianza, che mette in fila i ritratti di alcuni testimoni rimasti feriti nella strage fascista del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. A ogni ritratto si accompagna la fotografia di un oggetto, un documento, un’impronta, una traccia di quel giorno perché l’oggetto stesso contribuisce a dare spessore al fatto che lo scoppio della bomba ha cambiato per sempre il corso della loro vita. Per raccontare con i linguaggi dell’arte come sia vivo quel dolore a trent’anni di distanza, di quanto i segni siano ancora scolpiti su cose e persone.

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comunicazione

di Claudio Biondi

La narrazione – intesa come esposizione ordinata in funzione di determinate istanze di ordine scientifico, storico, sociale, giuridico, religioso, politico, ecc. – è la pratica comunicativa che tende a soddisfare l’esigenza primaria della conoscenza della “realtà”.Le virgolette sono d’obbligo perché questa “realtà” si forma attra-verso quel complesso meccanismo discorsivo di cui, di volta in volta, la narrazione si serve e che è sottoposto a valutazioni soggettive secondo i criteri popperiani del vero o falso e della vali-dità o non-validità del narrato. Vuoi che riguardi una tesi scienti-fica o filosofica, vuoi che abbia luogo in un teatro o in un’aula di

tribunale, vuoi che si serva del linguaggio orale, scritto o iconico, vuoi – infine – che narri fatti accaduti o soltanto immaginati, la “realtà” narrata è sottoposta sempre al vaglio percettivo-interpretativo di colui al quale viene proposta. Ciò unisce indissolubilmente i due soggetti protagonisti (narratore e ascoltatore) e, a seconda del mezzo e della sede scelti, comporta un problema centrale attorno

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al quale ruotano tutti i condizionamenti che ne derivano: il gradimento del pubblico.I condizionamenti che qui ci interessano si producono quando la narrazione diventa oggetto di attività econo-mica. Tale attività, per essere riconosciuta come tale, deve presentare una precisa dinamica di scambio con cui un bene o un servizio – in grado di soddisfare uno specifico bisogno – passi dalla disponibilità del produttore a quella del consumatore mediante la cessione di un controvalore che, a sua volta, deve risultare scambiabile.Tale dinamica non è sempre riscontrabile nell’uso della narrazione. Ad esempio, se racconto una storia a mia nipote e sono remunerato dal suo sorriso (o dal suo addormentarsi) e questo specifico “controvalore” non potendo, a sua volta, essere oggetto di scambio, fa sì che la mia narrazione non assuma carattere economico. Così come, in un’aula di tribu-nale, la narrazione giudiziale resta avulsa da un momento effettivo di scambio: le parti avverse (accusa e difesa) sono remunerate per svolgere la loro funzione indipendentemente dalle forme e dai contenuti (e dai risultati) della loro narra-zione. Viceversa, in un cinema, in un teatro o in una libreria sono proprio tali forme e tali contenuti (e tali risultati) a essere oggetto diretto di scambio economico.

Lo storytelling, come attività economica, va dunque ristretto alla narrativa professionale, quella cioè che si è sviluppata (dagli aedi greci al cinema d’oggi passando

per i cantastorie siciliani che, fino a qualche tempo fa, era ancora possibile vedere all’opera) a seguito di tutte le evolu-zioni tecnologiche che ne hanno permesso nuove forme. A quanto è concesso di sapere, lo storytelling ha accompa-gnato l’umanità fin dai primordi ed è presente in tutte le sue culture, da quella africana all’indiana, dall’europea all’asiatica e, nella maggior parte dei casi, si deve presumere che abbia assunto i connotati di attività economica se si tiene presente che, in Grecia, esistevano scuole per preparare gli aedi al “mestiere”.

In quelle prime forme di storytelling i tre momenti primari di ogni attività economica si mostravano contemporanei: il cantastorie racconta, il pubblico ascolta e poi lascia un obolo. La sequenza dinamica è, dunque, Rappresentazione-produzione (P), Consumo (C), Remunerazione-scambio (S). Ossia P-C-S.Il cantastorie, in tal modo, assume su di sé due tipi di rischio: (estetico-qualitativo) che il pubblico non gradisca la sua storia; (economico-quantitativo) che il volume degli oboli (ricavi) non sia sufficiente a soddisfare i suoi bisogni (costi). Il che significa che il cantastorie subisce già un certo condizionamento dovendo scegliere tra qualità della storia e quantità degli oboli. Ma egli ha a disposizione quella sensibilità speciale che chiunque parli in pubblico acquisisce quasi per incanto, cioè intuire quale sia il gradimento del pubblico nei confronti di ciò che sta dicendo. Pertanto

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comunicazionepuò adattare su tale sensibilità la rappresentazione aggiun-gendo o togliendo particolari, cambiando un’intonazione o un gesto, operando sul ritmo del racconto e così via, allo scopo di aumentare l’indice di gradimento sperando in un conseguente aumento degli oboli. Spinto dal suo interesse (economico), può conciliare con questo il suo scopo (este-tico). Resta, dunque, nella piena facoltà del cantastorie trovare una via di conciliazione proprio in virtù della contem-poraneità delle fasi di realizzazione e di fruizione. Tutto ciò è rilevabile fin quando la forma orale dello storytelling non viene soppiantata dalla sua forma scritta.La scrittura, in quanto prima tecnica di registrazione, anti-cipando gli effetti che avrebbero avuto tutti le altre che si sarebbero susseguite dopo, rivoluziona completamente lo storytelling. La scrittura, infatti, differisce il tempo della fruizione dal tempo della realizzazione, con la conseguenza di togliere al cantastorie (diventato scrittore) il contatto diretto con il suo pubblico (diventato lettore). La scrittura, in tal modo, cambia la sequenza da cui siamo partiti (P-C-S) in P-S-C (Produzione, Scambio, Consumo). La scrittura, cioè, reifica la narrazione e, attraverso il supporto, fa diventare “materia” il contenuto imma-teriale della storia. Lo storytelling diventa merce. Si può cedere, trasferire, scambiare.

Il controvalore deve allora essere anticipato da un commit-tente che - per qualsiasi ragione lo sia - non è però un “nuovo soggetto”, ma soltanto una sorta di “doppio” del lettore che, in forza del suo potere economico, “mima”

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per lo scrittore il gradimento del pubblico. È lui in effetti a scegliere lo scrittore e lo fa prevedendo che i contenuti e la forma della storia che quegli scriverà saranno di suo gradimento. Il condizionamento dello scrittore resta, in tal modo, quasi invariato. È solo anticipato, nel senso che sa (o intuisce) ancora prima di scrivere che cosa piacerà o meno al committente. L’invenzione dei caratteri a stampa mobili (dinastia Goryeo, 1234 d.C. in Asia e poi Gutemberg, 1455 in Europa), rivoluziona ancora di più lo storytelling perché se da un lato, ne aumenta in modo smisurato la possibilità di diffusione (in soli 50 anni furono stampati 30.000 titoli con una tiratura generale di oltre 12 milioni), dall’altro, ne muta la natura (fin lì assolutamente artigianale) e inizia a dargli una parvenza industriale che consiste soprattutto nella parcellizzazione e organizzazione delle attività e del lavoro introducendo nella sua dinamica un nuovo soggetto: l’editore. In verità, nemmeno in questo caso si può parlare di “nuovo” soggetto. Come precedentemente il committente, così l’editore appare come una specializzazione funzionale dello scrittore. Una specializzazione resa necessaria dagli alti costi che il processo di stampa a quei tempi presenta. Il possessore del mezzo tecnico (stampatore) si allea con l’autore al fine della massima diffusione del testo diventandone così l’editore, ma resta pur sempre dalla parte di chi propone la storia. Il doppio rischio che l’antico cantastorie assumeva in prima persona è in tal modo diviso lasciando quello estetico all’autore, mentre l’editore si accolla quello economico. Il fatto è che, editore e autore — pur restando due entità

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comunicazioneseparate — sono obbligati dalle rispettive responsabilità a scambiarsi anche una parte di quelle prerogative che l’an-tico cantastorie assumeva sinergicamente in sé. L’editore (responsabile delle quantità necessarie al processo produt-tivo – copie, ore di lavoro, numero degli addetti, ecc.) diventa titolare del diritto di percepire direttamente dagli acquirenti il prezzo stabilito per la pubblicazione e, allo stesso tempo, l’autore (responsabile della qualità della storia – argomento, lunghezza, ritmo, ecc.) diventa meno libero di scegliere forma e contenuto, a meno di non partecipare all’investi-mento economico. Se la storia non piace all’editore, il libro non è pubblicato. Si fa così più ampia ed inquietante quella divaricazione tra capitale e talento che ancora oggi insiste su tutta l’economia della creatività.

L’apparizione della stampa conferma dunque la validità del teorema: ogni maggiore complessità di un processo produttivo è foriera di un aumento delle specializ-zazioni funzionali necessarie al processo stesso. Teorema che ha un doppio corollario: • la proliferazione di specializzazioni tende ad aumentare la

conflittualità esistente tra scopi ed interessi del processo produttivo;

• il grado di conflittualità tende ad aumentare in maniera inversamente proporzionale al grado di prevedibilità dell’equilibrio tra costi e ricavi.

Ecco, allora, apparire una sorta di paradosso: l’autore è completamente libero di concepire la propria opera solo se rinuncia alla pubblicazione, soltanto cioè se privilegia il suo scopo estetico rispetto al suo interesse economico o se resta nell’ambito del dilettantismo. Nel momento, invece, in cui comincia a prevedere la pubblicazione, o decide di trovare in questa i suoi mezzi di sostentamento, cioè di esercitare una professione, l’autore è costretto a tener conto della critica dell’editore. Ciò accade perché, per effetto dell’imprevedibi-lità dei risultati connessa a questo tipo di attività economica, le quantità di costi e ricavi debbono preventiva-mente coincidere nella fase di progettazione quali-tativa dell’artefatto narrativo che si vuole realizzare.

Possiamo allora affrontare con maggiore consapevolezza che cosa accade nella produzione dell’artefatto-narra-tivo-film, il più complesso di tutti, frutto di tutte le tecniche e linguaggi creativi che l’evoluzione dei mezzi di comunica-zione ci ha consegnato.La difficoltà maggiore che si è costretti ad affrontare è che il risultato quantitativo della fase di scambio (il reale volume dei ricavi) non è solo dipendente dal risultato qualitativo dell’opera, ma anche – se non soprattutto – dal reale gradi-mento da parte del pubblico. Se il passaparola tra quanti hanno visto il film e quanti ancora non hanno deciso di vederlo è negativo, la quantità dei ricavi tenderà a diminuire drasticamente. Il che, come dimostra una recente ricerca statistica, riafferma quella legge del nobody knows

(nessuno può sapere) che descrive definitivamente il grado del rischio economico (ma anche estetico) dell’attività produttiva cinematografica.Avendo carattere completamente aleatorio, tale rischio può essere fronteggiato solo con una massima

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Quello che indichiamo come “diritto d’autore” è nato in Inghilterra nel XVI secolo come “diritto dello stampatore”. Risalgono a quel tempo le prime normative sul diritto di copia (copyright) alle quali non fu estranea la volontà della Corona di controllare ed eventualmente censurare le opere che la meccanizzazione dei mezzi di stampa cominciava a diffondere in maniera indiscriminata. Il che avviene con la fondazione, nel 1559, della London Company of Stationers (Corporazione dei Librai di Londra) alla quale sono concessi i diritti di copyright, appunto. A distanza di un secolo e mezzo, però, sotto la spinta delle idee liberali (che proprio grazie alla stampa avevano avuto modo di diffondersi) la funzione prettamente censoria della LCS è sostituita da quella prettamente economica consentita dalla prima norma sui diritti d’autore, lo Statute of Anna del 1709, che in qualche modo tenta una riconciliazione della materia distinguendo i diritti morali dell’autore (estetico-qualitativi) dai diritti patrimoniali (economico-quantitativi) degli editori. In sostanza, l’edi-tore non potrà più pubblicare senza il consenso dell’au-tore, salvaguardando quest’ultimo da cambiamenti non voluti nella forma e nel contenuto della storia (il che accadeva molto di frequente precedentemente).

parcellizzazione dell’investimento produttivo, che “simulando” il gradimento del pubblico sia in grado di assicurare preven-tivamente il volume di ricavi necessario alla produzione. Ecco quindi che il distributore, (già presente fin dall’apparire dell’editoria e che – come già per il committente e l’editore – altro non è che una successiva specializzazione del vecchio canta-storie) acquista maggiore importanza e maggior peso funzionale. A tale soggetto è infatti deman-dato il giudizio finale sulla capacità di gradimento dell’opera finita. Con due conseguenze:• uno spostamento di parte dell’investimento diret-

tamente alla fase precedente lo scambio; • un aumento del grado e del tipo di conflittualità

connaturato all’attività produttiva.

La prima conseguenza impone che una parte molto consistente dell’intero budget (circa un terzo) sia indi-rizzata proprio alla fase di scambio, cioè ai costi di stampa copie e pubblicità. La decisione del volume di tale investimento – presa dal distributore quando il film ha già la sua forma finale – consente di limitare i danni nel caso che l’opera sia giudicata di scarso gradimento per il pubblico. In tal modo, il rischio appare ridotto, ma – al tempo stesso – risulta anche ridotta la sua possibi-lità di diffusione.La seconda conseguenza ha a che fare direttamente con la dinamica di produzione che, nella fattispecie del film, presenta due tipi di conflittualità: esterna all’opera (tra volontà estetica dell’autore e disponibilità economica del produttore); interna all’opera (tra i diversi scopi estetici di quanti partecipano alla realizzazione dell’opera). La parcel-lizzazione del rischio introduce però un secondo tipo di conflittualità interna che deriva dai differenti interessi che spingono i vari investitori a partecipare.Ciò può accadere sia durante la fase di progettazione, sia a film finito. Ad esempio, durante la progettazione, un investi-tore che sia produttore di aerei difficilmente troverà conve-niente investire in una storia che racconti un disastro aereo e i suoi interessi si troveranno in conflitto rispetto a quelli di un diverso investitore che costruisca treni o navi. Il che, nel caso che entrambi i tipi d’investitore partecipino al finanziamento del film, si tradurrà in una lotta con gli autori indirizzata: per il primo, a smorzare i contenuti drammatici del disastro e per gli altri, a sottolineare invece come proprio una nave o un treno siano riusciti a scongiurarne gli effetti più tragici. Naturalmente questa conflittualità potrà rivelarsi molto più sottile e sotterranea di quanto non sia nell’esempio fatto. Potrà coinvolgere aspetti psicologici dei personaggi, conte-nuti narrativi e perfino le forme di cui sono rivestiti. Per un altro verso, può insorgere conflittualità anche tra il produt-tore e il distributore quando il film è ormai finito. Se il distri-butore decide di ridurre il suo investimento promozionale,

con conseguente diminuzione della diffusione, il produttore avrà minori opportunità

di rientrare del proprio investimento.

Come si vede, il complesso dei problemi e dei condi-zionamenti che insistono sull’attività economica dello storytelling partono tutti da quel rapporto indissolubile che lega chi propone la narrazione a colui che ne dispone. E tale rapporto assume la fisionomia e le modalità che l’evoluzione tecnologica, culturale e sociale consente nel corso della storia. Da una parte, la libertà d’espressione subisce un condizionamento che può appa-rire negativo; dall’altra, la capacità di diffusione consente una circolazione straordinaria che può apparire positiva se si tiene presente il sempre maggior numero di lettori e spet-tatori che hanno visto liberate le proprie capacità percettive ed affinato il senso critico. Il punto di equilibrio tra condizionamenti negativi e positivi non sta, dunque, nei due fenomeni della narrazione e dell’at-tività economica, né nella loro combinazione – per alcuni maledetta, per altri benedetta – ma in come la divaricazione tra capitale e talento che accompagna tale combinazione è vissuta, analizzata e compensata da metodi che, salvaguar-dando le rispettive (e ugualmente irrinunciabili) istanze, siano in grado di ridurne la portata.

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creatività

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di Samad Zarmandili

Le arti narrative sono diventate una delle fonti primarie di ispirazione dell’uomo e alcuni capolavori del cinema sono entrati prepotentemente nell’immaginario collettivo, così come alcuni personaggi inventati dal cinema possono essere considerati patrimonio storico alla stregua di grandi personaggi realmente esistiti.Il valore evocativo del cinema è talmente potente che ha la capacità di creare mondi paralleli perfettamente sovrapponibili a quello reale. Il cinema è giovane, mentre la letteratura, la pittura e il teatro sono antiche quanto la storia.

Come un bambino si ispira al mondo degli adulti che lo circondano, l’evoluzione della narrazione cinematografica è stata necessariamente influenzata dall’esempio delle altre arti consacrate. In poco più di cento anni di vita però, il cinema si è costantemente trasformato e ha evoluto e affinato il suo linguaggio, a tal punto da essersi imposto come arte popolare per eccellenza, con la capacità di raccontare storie per immagini così vicine al mondo in cui viviamo, da confondersi quasi con esso.

Il cinema trasforma ciò che un romanzo, un quadro, un testo possono solo evocare nella fantasia del lettore o dello spettatore in immagine in movimento; quindi muta quella fantasia e il suo mondo in qualcosa di quasi tangibile. L’influenza reciproca delle arti e il confronto fra i vari mezzi espressivi è uno dei fenomeni che hanno sempre dominato l’evolversi del linguaggio cinematografico, e in particolare il ricorso al patrimonio letterario domina da sempre la sua breve storia. Molti grandi registi, anche i più sperimentali e innovatori si sono confron-tati, prima o poi, con la trasposizione cinematografica di un testo letterario. Il cinema ha perso in fretta la sua unicità di mezzo espressivo autonomo; il sonoro prima, il colore poi, per arrivare agli odierni effetti speciali lo hanno trasformato nel principale mezzo di comunicazione di massa per raccontare una storia. Ogni romanzo di grande successo possiede una sua trasposizione cinematografia e

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non esiste libro che superi le 50.000 copie vendute che non si trasformi in un film. Negli ultimi anni molti nuovi scrittori di successo hanno scritto i loro romanzi come fossero delle sceneggiature.

Il “pericolo” dell’adattamento cine-matografico, specialmente dei grandi romanzi, è quello della volgarizza-zione e della banalizzazione. Voler seguire pedissequamente l’evolversi dram-maturgico e l’approfondimento descrittivo del romanzo può essere fatale per un film. La durata e la possibilità di approfondire del film rispetto al romanzo sono minime e si rischia di ottenere nel migliore dei casi un piatto riassunto che scontenterà sia i fedeli lettori che cercavano di ritrovare nel buio della sala quello che avevano fantasticato nel chiuso della loro stanza, sia gli spettatori poco inclini alla lettura, che troveranno una cronistoria di accadimenti poco incisiva.Più che parlare di adattamento quindi, l’in-tento che ci si può prefiggere è quello di una traduzione per lo schermo. L’utilizzo delle specificità filmiche potranno allora esal-tare lo spirito del romanzo. Più le qualità letterarie dell’opera sono importanti, più ci sarà la necessità di sconvol-gerne l’equilibrio e di mettere in uso con talento le tecniche specifiche del linguaggio cinematogra-fico per ricostruire la storia secondo un equilibrio nuovo, non identico ma equivalente al vecchio.

Esempio di grande maestria nel trasformare un’opera lette-raria in un grande film è Barry Lyndon di Stanley Kubrick del 1975. Il romanzo di W.M. Thackeray è della metà dell’ Ottocento e la storia è ambientata nel diciottesimo secolo. Il criterio scelto da Kubrick per portare il libro sullo schermo fu di usare il testo del romanzo come filo conduttore del film, per poi sviluppare l’equivalente cinematografico di ogni scena; la sceneggiatura era solo una traccia. Dal punto di vista della messa in scena uno degli elementi fondamen-tali di questa trasposizione cinematografica era trovare la possibilità di ricreare un’atmosfera settecentesca attraverso la luce naturale anche negli interni, visto che nel settecento l’elettricità ancora non esisteva. Negli anni settanta la sensi-bilità della pellicola era ancora bassa così da non poter girare in ambienti poco illuminati. Il regista riuscì a montare un sensibilissimo obiettivo fotografico su una macchina da presa 35mm e a girare tutti gli interni del suo film con la sola luce delle candele e restituire un’atmosfera e una luce mai vista prima di allora in un film in costume. La luce delle candele, combinate con le architetture autentiche dell’epoca,

creava una tale purezza dell’immagine che gli ha permesso di ritrarre il diciottesimo secolo con il realismo pittorico di un documentario. Altra tecnica utilizzata da Kubrick in Barry Lyndon fu quella dello zoom. Spesso la macchina da presa esplora un’immagine partendo da un dettaglio e poi zoomando indietro fino a raggiungere il totale. L’uso dello zoom diventa in questo film un elemento estetico che costru-isce inquadrature accuratamente composte da sembrare incorniciate in un quadro. L’effetto ottenuto è quello di un dipinto d’epoca che a poco a poco prende vita.

Nel caso del film di Stanley Kubrick l’uso della tecnologia a servizio della creatività e delle specificità del linguaggio cinematografico hanno permesso all’o-pera di rendersi unica e autonoma rispetto all’o-pera letteraria, non tradendo però il testo e anzi ricreando in modo quasi maniacale l’atmosfera del periodo storico.La potenza evocativa nel romanzo è amplificata dalla perce-zione che il lettore ha nell’immaginare ciò che viene descritto dallo scrittore. In un film le immagini in movimento che vengono proposte allo spettatore sono già filtrate attraverso la fantasia del regista e rappresentano un mondo parallelo a quello reale, dove il processo empatico di identificazione con un personaggio ci può far immaginare che lo sguardo di un grande attore per un momento sia il nostro.

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business

a cura di

Brand Care magazine: Come nasce l’idea di fondare una casa editrice?Zaira Maranelli: La Deinotera editrice nasce nel 2006 con l’obiettivo di dare voce a quegli scrittori che, pur non avendo un personale valore di mercato o una fama mediatica, hanno scritto un’opera meri-tevole. Abbiamo deciso di fondare una casa editrice con queste caratteristiche dopo aver lavorato alcuni anni come mediatori editoriali, essendoci resi conto che spesso opere di valore non vengono prese in considerazione

perché i loro autori sono privi di notorietà e quindi di difficile promozione. È molto più facile promuovere un autore già noto al pubblico che un esordiente.La Deinotera viene fondata per andare contro corrente e valutare l’opera sulla base di criteri letterari e non “industriali”. Abbiamo scelto tale politica editoriale poiché crediamo nel liberalismo culturale e nella sua diffusione; il monopolio della cultura creerebbe asfissia e mancanza di evoluzione. La cultura è un insieme di saperi che si incontrano, si scontrano e suggeriscono nuovi stimoli: in quest’ottica abbiamo scelto di essere una casa editrice open minded e di non specializzarci in alcun genere letterario, desiderando che la selezione delle opere si fondi sul loro valore intrinseco, sulla novità di cui esse sono portatrici, sulla bellezza stilistica e così via.

BCm: Perché avete chiamato Deinotera la vostra casa editrice?ZM: Abbiamo scelto il nome Deinotera di derivazione greca in quanto ha un signi-ficato ambivalente: indica qualcosa di meraviglioso e allo stesso tempo di terribile, proprio come il tornado che rappresenta il nostro logo,

intervista a zaira maranellie il caso deinotera editrice

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ZAIRA MARANELLI

Laureata in Lettere e Filosofia presso l’università “La Sapienza di Roma”. Dopo aver conseguito un Master in Editoria, Comunicazione e Giornalismo, vince un corso in Imprenditoria e gestione di azienda presso la Regione Lazio. Dopo aver lavorato alcuni anni come agente letterario, nel 2006 fonda la Deinotera Editrice, di cui è direttore editoriale.

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business

un meraviglioso fenomeno di natura e al tempo stesso una terribile calamità.

BCm: Cosa fa esattamente un editore?ZM: Prima di ogni cosa, fare l’editore significa curiosare nel cuore e nell’anima della gente; signi-fica non smettere mai di imparare, di conoscere, di leggere; significa venire a contatto con le storie, le vite, le passioni, le delusioni e i sogni che ogni autore decide di condividere. Significa scoprire in ognuna di quelle storie qualcosa di unico e decidere di condividerla con gli altri.Alla base del nostro lavoro è il proporre storie di qualità che riescano a coinvolgere chi le legge.Una volta selezionata l’opera, iniziano le fasi di editing, di correzione di bozze, di selezione del target, di scelta del titolo e della copertina. Tutte queste operazioni sono fondamentali per stabilire cosa comunicare al pubblico e come comuni-carlo. Seguono la preparazione della presentazione, l’invio dei libri per le recensioni e la presenza alle fiere.La pubblicazione è solo una fase intermedia della vita del libro. Segue il lavoro di redazione e apre a quello della promozione e della diffusione.

BCm: cosa fate per rendervi visibili ai vostri lettori? ZM: Far conoscere un autore e il suo libro significa creare con il lettore un rapporto di fiducia reciproca e non disatten-dere mai le sue aspettative; solo in questo modo quel lettore tornerà informandosi sulle altre pubblicazioni, parlerà del vostro marchio e vi creerà quell’insieme di referenze fonda-mentali in ogni tipo di lavoro.Cerchiamo inoltre di stare al passo con i tempi e sfruttare Internet al meglio comunicando in modo diretto con chi è interessato e creando diverse vetrine di rappresentanza affinché gli utenti possano conoscerci e possano acquistare i nostri libri. Sarebbe da sciocchi infatti non sfruttare il mezzo che ha rivoluzionato il commercio

reale rendendolo virtuale.Dare agli acquirenti l’opportunità di comprare da casa è un grande passo in avanti. Certamente le librerie reali non perderanno mai la loro impor-tanza nell’acquisto del libro, ma l’e-commerce ha in tutti i campi creato delle grandi opportunità e un’alterna-tiva agli abituali canali di diffusione.

BCm: Quanto è stato complesso perseguire il vostro obiettivo?ZM: Sapevamo bene che scegliere di fondare una casa editrice non sarebbe stato facile.Inserirsi in un mercato in cui sono presenti concorrenti già consolidati

poteva essere molto rischioso; avremmo dovuto scegliere oculatamente cosa presentare e come farlo al fine di conqui-stare pian piano la nostra sezione di utenza.Allo stesso tempo eravamo a conoscenza del fatto che, in un momento di crisi globale, il primo settore di mercato che ne avrebbe subìto i contraccolpi sarebbe stato proprio quello della cultura; d’altronde nella nostra società è più facile vendere un prodotto che abbia come finalità un uso pratico, una fruizione immediata, veloce e semplice che vendere qualcosa che richiede un suo tempo e una sua attenzione; il nutrimento dell’anima non è attuale e sul mercato di oggi ha poco valore.Eppure, a quattro anni di distanza, possiamo dire di essere soddisfatti della nostra scelta, degli obiettivi raggiunti e delle soddisfazioni ricevuteMalgrado le difficoltà pratiche di ogni giorno quali la diffu-sione del libro, la sua promozione, la comunicazione, il progetto grafico e tanto altro, possiamo dire di non esserci stancati di questo lavoro e di avere ancora quella sana curio-sità che ci porta a leggere numerosi manoscritti alla ricerca di quello giusto.

BCm: Ultimamente sta prendendo piede anche un nuovo strumento, l’e-book. Qual è la tua opinione a riguardo?ZM: Per coloro che vendono libri l’e-book rappresenta una rivoluzione nell’ambito delle fasi di produzione e distribu-zione del testo; basti pensare all’abbattimento dei costi di stampa e di distribuzione, nonché al cambiamento epocale che tale strumento può portare nell’ambito della diffusione del testo stesso: basta una connessione Internet e il testo può essere facilmente scaricato dal web e, una volta giunto in nostro possesso, abbiamo solo bisogno di un e-reader (il supporto che ci permette di portare con noi centinaia di e-book) e il gioco è fatto.I vantaggi del libro elettronico sono evidenti anche per quel che riguarda l’acquirente, il lettore. In primo

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luogo all’interno dell’e-reader si possono scaricare centinaia di testi diversi attraverso una semplice connessione internet. Centinaia di testi occupano uno spazio davvero ridotto: circa una quindicina di centimetri per dieci per un peso di 150 grammi. Inoltre, ove il lettore fosse in auto e volesse ascol-tare il suo testo, l’e-reader potrebbe trasformare con pochi passaggi l’e-book in audiobook.La maneggevolezza e la facilità di trasporto lo rende utile per chi viaggia, per chi ha necessità – sia egli uno studioso, uno studente o un semplice lettore – di portare con sé un elevato numero di libri. Gli stessi vantaggi potrebbero derivare a chi lavora in ambito scientifico ove venissero trasformate in e-book enciclopedie, strumenti bibliografici e quant’altro.Un discorso diverso va fatto per i libri di intrattenimento: la narrativa richiede – a mio parere – un libro costi-tuito da un suo corpo, composto da carta e pagine, un libro con un’anima materiale, non virtuale. Ogni libro ha un odore che lo contraddistingue e ci dà una diversa sensa-zione tattile. Ogni storia è come un viaggio e come tale deve essere affrontata; sfogliare le pagine significa avere una misura per cadenzare il proprio cammino. Il libro cartaceo può essere piegato, maltrattato, vissuto a seconda di quel che sentiamo.Del resto sarebbe strano, con il consolidarsi dell’e-book, non avere più in una casa una bella libreria o vederla tristemente vuota. La libreria non è un mobile muto, ma comunica con chi la guarda, racconta anch’essa delle storie, ricorda a chi la possiede quanti libri ha letto e al tempo stesso racconta la storia del suo proprietario che, nella scelta di quei libri, ha creato il suo mondo, unico e diverso da quello di ogni altro.Guardando ognuno dei libri riposti nelle nostre librerie, rivi-viamo la nostra storia, il momento in cui acquistammo quel determinato libro, il motivo che ci ha portato a sceglierlo, a innamorarci – proprio in quel momento – di quella copertina.Non avere più l’opportunità di possedere dei libri sarebbe, un po’, come perdere una parte della nostra storia, della nostra vita.Credo, per concludere, che l’e-book sia una grande conquista e un’evoluzione importante, ma sono convinta che resterà sempre un compagno del libro cartaceo. L’e-book costituisce una nuova forma di utility che troverà i suoi campi di sfruttamento, forse nella saggi-stica e nei libri di testo, ma che non sostituirà mai il libro tradizionale.

BCm: La Deinotera editrice si aprirà a tale mercato?ZM: Molti editori, attualmente, si stanno aprendo all’e-book maturando grandi speranze e non è detto che, prima o poi, non lo faremo anche noi. Per ora preferiamo aspettare il momento giusto; quando l’e-book acquisterà una maggiore identità e una maggiore fruibilità, quando l’e-reader sarà alla portata di tutti, allora anche noi entre-remo nella rivoluzione. Per ora aspettiamo e continuiamo a raccontare.

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culture

di Tania Valentini

C’era una volta la cucina di famiglia, fatta di tradizioni e consuetudini familiari. Le ricette venivano tramandate di madre in figlia, nulla era scritto ma tutto era trasmesso grazie ai racconti delle donne anziane, magari intorno a un focolare oppure al tavolo della cucina. Le donne imparavano a cucinare guardando e aiutando nella preparazione dei piatti le nonne e le loro mamme, non esisteva un libro di ricette ma i ricordi dell’infanzia.

La cucina era il luogo sacro dove tutto prendeva forma, dal pane alla pietanza della festa. Era il luogo più importante della casa, era lì che si compievano i gesti quotidiani che rendevano piacevole la vita di tutti i giorni e che, osservan-doli, permettevano di capire la posizione sociale di una famiglia.

Poi venne il 1891 e per la prima volta nella storia della letteratura un libro raccolse le ricette casalinghe di un intero Paese: La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. L’autore nato a Forlimpopoli il 4 agosto del 1820 non iniziò come esperto culinario: in principio si dedicò agli affari paterni e alle attività commerciali. Si trasferì dall’amata Forlimpopoli a Firenze, dove passò il resto della sua vita, fuga spinta dal trauma causato da un doloroso episodio familiare, ovvero il saccheggio delle proprietà da parte del Passatore, famigerato brigante romagnolo protagonista delle cronache giudiziarie dell’epoca. Pellegrino Artusi, ritiratosi a vita privata, iniziò la stesura dell’opera che lo avrebbe poi incoronato come uno dei più importanti gastronomi italiani, grazie alla sua capacità e stile con cui trasformò un mosaico di consuetudini regionali in

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una tradizione gastronomica, valorizzandone l’es-senza in un quadro unitario.Un libro che è molto di più di un semplice ricettario ma un volume unico nel suo genere: se oggi siamo abituati ad associare un piatto, un ingrediente a una zona precisa d’Italia lo dobbiamo in parte proprio a quest’opera che ha avuto il merito di creare l’Italia gastronomica così come siamo abituati a pensarla oggi.

Ben 790 ricette condite da aneddoti, citazioni poetiche e riflessioni personali dell’autore che hanno mostrato il volto dell’Italia da un punto di vista fondamentale, come dice lo stesso autore nella sua introduzione al volume l’Autore a chi legge : “Due sono le funzioni princi-pali della vita: la nutrizione e la propagazione della specie”.Un libro che è stato possibile grazie al grande lavoro di raccolta di documenti e scrittura da parte di Pellegrino Artusi, frutto dei suoi viaggi in tutto il Paese, e delle sperimentazioni dei suoi cuochi e servitori Francesco Ruffilli e Marietta Sabatini.Il racconto della ricetta si mischia al racconto di tradizioni e consuetudini in un insieme di elementi che diven-tano una storia da leggere e raccontare, magari preparando il piatto con tanta dovizia descritto.La scelta dell’ingrediente, la lunghezza della pasta, la sele-zione degli aromi non sono casuali ma parte integrante di una storia: “Conti corti e tagliatelle lunghe dicono i bolognesi” così scriveva nelle pagine del suo libro l’Artusi e spiega che “i conti lunghi spaventano i poveri mariti e l tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece”...La ricetta è inserita nel testo, con tutti gli altri elementi della storia, in un tutt’uno creando così un racconto davvero difficile da pensare separato. Immancabili poi commenti e consigli sulla preparazione ma anche il racconto del viaggio che lo aveva portato a capire il senso di quella ricetta, a gustarne il sapore.Il fatto di essere il primo caso nella letteratura italiana, ha contribuito a creare uno stile della cucina nostrana proprio negli anni in cui si stavano gettando le basi della creazione dell’identità culturale italiana. L’Edizione Einaudi del 1970 curata da Camporesi inserisce definitivamente quest’opera nella letteratura tout court arri-vando a riconoscere al libro e ad Artusi di aver fatto per l’unificazione nazionale più di quanto siano riusciti a fare I Promessi Sposi. Camporesi infatti sostenne che “i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani”.L’opera conta al suo attivo circa 111 edizioni, e tradotta in diverse lingue straniere tra le quali il tedesco, francese e inglese, ad oggi vanta ancora il primato del libro di cucina italiana più letto.

Tra le sue tante edizioni, di cui l’ultima curata dall’autore stesso risale a quella del 1910, ne esiste una da considerare la meno fortunata di tutte quelle pubblicate.L’opera edita da Mursia nel 1968 pubblicato con il titolo Nuovo Artusi si presentava come una edizione ridotta e aggiornata del più celebre libro. La curatrice di questa edizione, Irene Bosco, per modernizzare il testo decise di modificarne l’essenza stessa eliminando alcune ricette considerate dalla stessa obsolete e tagliando le riflessioni personali dell’autore, gli aneddoti e le citazioni.Il libro così come si era conosciuto fino a quell’anno non esisteva più, La Scienza in Cucina era stato ridotto ad un classico ricettario da aprire solo per riprodurre un piatto, uno dei tanti che si trovano sugli scaffali delle librerie.Una scelta scellerata che non aveva colto peculiarità e carat-teristiche del libro: il successo avuto sino a quel momento era legato proprio a quegli aneddoti tagliati che rendevano lo scritto una raccolta di storie.

Non si può pensare di eliminare da un racconto i suoi elementi principali pensando che la storia continui poi ad avere senso.Pellegrino Artusi, e chi dopo di lui ha continuato e continua il suo lavoro, non ci hanno lasciato semplicemente un ricettario da tenere e consultare per scegliere una ricetta. Ci hanno raccontato una storia lunga 301.336 km² fatta di tradizioni familiari e locali, la storia di un popolo che ancora oggi è molto attuale, perché come nel 1891 non esiste famiglia romagnola che non abbia lo strumento per fare i passatelli.

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di Tania Valentini

Ingredienti per il compenso200 grammi ricotta

200 grammi di petto di cappone 100 grammi parmigiano reggiano

1 uovo interoodori

noce moscata quanto bastascorza di limonesale quanto bastauna noce di burro

Ingredienti per la pasta3 uovafarina 0

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PREPAREAZIONERidurre il petto di cappone a pezzettini. Far rosolare nel burro gli odori, aggiungere il sale e una punta di pepe. Quando la carne sarà ben cotta tritare aiutandosi con una mezza luna.Per facilitarvi il compito potete anche chiedere al macellaio di ridurvi il cappone in tritato e procedere solo alla cottura.

In una terrina mettere la carne e la restante parte degli ingre-dienti: parmigiano reggiano, ricotta, uova, noce moscata, scorza limone e sale.Mescolare bene sino a ottenere un composto omogeneo, coprire e lasciare riposare in frigorifero.

Iniziare a preparare la pasta. La proporzione della farina rispetto alle uova è di circa 100 grammi a uovo, ma molto dipende dalla dimensione dell’uovo stesso.Mettere su un tagliere in legno la farina a fontana con al centro le uova e un pizzico di sale. Con l’aiuto di una forchetta sbattere le uova e poi una volta che queste sono bene sbattute iniziare piano piano a incor-porare la farina. Continuare con la forchetta sino a quando è possibile. Una volta che farina e uova sono diventate un tutt’uno con le mani iniziare ad impastare. Se l’impasto risulta troppo morbido aiutarsi con dell’altra farina, ma attenzione a non esagerare.

Quando la nostra palla di pasta sarà bella liscia e omogenea è arrivato il grande momento: stendere la sfoglia.Prendere un “mattarello” in legno e iniziare a stendere la

pasta partendo dal centro per arrivare ai lati, girando di tanto intanto la sfoglia.Con un impasto di tre uova una brava azdora - la regina del focolare romagnola - otterrebbe un sfoglia dal diametro di circa un metro.

Dalla sfoglia ottenere tanti piccoli cerchi dal diametro di circa 6-7 cm. Per fare questo esistono degli strumenti appositi che tagliano la nostra pasta creando la base per i cappelletti, ma potete anche aiutarvi con dei bicchierini di grappa oppure tazzine da caffè, purché siano della dimensione corretta e non troppo piccoli.Ognuno di questi dischi sarà riempito con il compenso precedentemente preparato. Aiutatevi con un cucchiaino e mettete al centro il compenso. Richiudete a metà il disco, ottenendo così una mezza luna, a questo punto unite le due estremità ed otterrete il cappelletto.

Non rimane a questo punto che cuocere il tutto rigorosa-mente in un brodo di carne, che da tradizione romagnola è fatto anch’esso con il cappone.Quanti cappelletti vanno serviti a persona? Mia nonna diceva circa 20 e non si discostava molto da quanto affermato da Pellegrino Artusi:“Cuocete i cappelletti nel suo brodo come usa in Romagna ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine”.

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tecnologie e web

storie di cinema e location

di Adriano Parracciani

Un libro può essere un esperimento? Un laboratorio? Un’innovazione? Io credo di si, e penso che GeoFilm Roma sia un’alchimia di questo più altro. Ad esempio a me piace dire che questo libro è “un tunnel”, oppure che è “un libro aumentato”. Per fare una sintesi ho deciso di chiamarlo book-e, una strana definizione che vi spiegherò tra qualche riga.Prima parliamo del tema portante; nel titolo c’è già tutto.Il libro infatti parla di Cinema, di Roma e di Location, laddove Geo sta appunto per posizione geografica, geolocalizzazione e georeferenziazione. Possiamo ulteriormente definirlo come una

guida alla scoperta della città di Roma attraverso i film che l’hanno vista utilizzata come teatro di posa. Una lista di 53 titoli, dal 1945 al 2003, con i quali viaggiare tra strade, piazze, ponti, quartieri, e scorci urbani trasformati in 56 location cine-matografiche dai 24 registi citati.

Di solito il cinema segue la letteratura nel senso che molti film si ispirano o sono la trasposizione cinematografico di un libro. Nel caso di GeoFilm Roma, invece, il libro segue il social network. Infatti, nasce dopo aver creato su Facebook il gruppo Geofilm – le location dei film (http://tinyurl.com/geofilm) dove chiunque in forma collaborativa può partecipare a costruire un grande database di location, con la possibilità di inserire i link a Google map per la geofererenziazione della location e a YouTube per vedere il relativo spezzone di film. Inseguendo una mia idea fissa di creare tunnel tra la nostra vita digitale e quella analogica, una volta fatto il gruppo mi sono chiesto come portare quei contenuti fuori dal web. La risposta è stata appunto il libro, ma non uno qualunque, un nuovo tipo di libro.

Bene, è arrivato il momento di spiegare la definizione delle prime righe. Il termine book-e spostando la e alla fine, sposta anche il concetto di elettronico (e quindi digitale ) dopo il concetto di cartaceo.

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si integra a contenuti digitali multimediali.Sì, direte voi, ma come si accede a questi contenuti digitali da un libro cartaceo? Pensate a quella cosa onnipresente nella nostra quotidianità, a cui nessuno rinuncerebbe per niente al mondo: capito? Esatto, sto parlando del telefono cellulare. E siamo arrivati alla sostanza del book-e, alla sua portata inno-vativa. Nel book-e una parte dei contenuti sono multimediali e residenti sul web, accessibili per mezzo di codici grafici noti come codici QR, attraverso l’occhio digitale della foto-camera di un cellulare. Si inquadra, si scatta, si accede ad internet e si visiona il contenuto multimediale. Dal cartaceo al digitale e ritorno, senza passare per il via: ecco il tunnel.Il motore di tutto sono i codici QR, uno schema di quadratini neri disposti secondo un codice a matrice. QR sta per quick response, risposta veloce, ed è un sistema che permette di memorizzare informazioni da leggere velocemente attraverso un telefono cellulare. Avete presente il codice a barre dei prodotti che acquistate al supermercato? Si passa su un lettore ed appare il prezzo. Ebbene, qui è la stessa cosa: i quadratini sono il codice ed il cellulare è il lettore.

COME SI LEGGE GEO FILM ROMA: SCATTA IL TAGIl libro è essenzialmente diviso in due:le pagine a sinistra, quelle pari, contengono il classico testo in chiaro. Sotto al titolo del film in questione si trovano

book = libro cartaceoe-book = libro digitalebook-e = libro cartaceo-digitale

Io, come tanti, amo i libri cartacei, come tanti li compro anche con il naso, li conservo gelosamente nella mia libreria di legno, li guardo, li tocco, li annuso. Tutto questo mio/nostro amore, però, non cambierà le cose: nel medio periodo, il libro di carta scomparirà. Rimarranno le biblioteche, futuri musei dei testi cartacei. Questo non sarà né un bene né un male: sarà l’immortale cambiamento, il tutto scorre come un fiume (grazie Eraclito). I primi vagiti di ebook al momento disponibili saranno probabilmente sostituiti da un foglio pieghevole di un millimetro che costituirà l’interfaccia di accesso al tutto. E allora, quando la tecnologia si coniugherà meglio con i nostri sensi, i vecchi libri saranno solo un caro ricordo e saremo felici di tutto quello che potremmo fare con i nipoti degli attuali ebook.Però, anche se l’evoluzione sembra andare verso i libri digitali i cui contenuti sono fruibili solo attraverso sistemi computerizzzati, non è detto che non ci sia spazio anche per soluzioni diverse, complementari, aggiuntive.

È proprio la ricerca di una strada diversa, di un percorso late-rale, che mi ha partato al book-e, ossia ad un libro dove il cartaceo e il digitale convivono, dove il classico testo

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tecnologie e web

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la descrizione della SCENA specifica a cui ci si sta riferendo ed il dettaglio della LOCATION, ossia del luogo della città di Roma dov’è stata girata la scena.Le pagine a destra, quelle dispari, contengono due codici QR: il primo, FILM, contiene il puntatore (link) alla scena del film in questione, ossia a un video residente sulla piattaforma YouTube; il secondo codice QR, GEO, contiene il puntatore alla mappa della location georeferenziata sulla piattaforma Google map.Si inquadra, si scatta, si accede ad internet e si visiona il contenuto multimediale ossia lo spezzone di film o la mappa della location.

Per fruire del contenuto digitale bisogna scaricare un lettore di codici QR per il vostro cellulare/smartphone. In rete lo potete trovare con facilità e scaricarlo liberamente senza alcun costo; basta cercare in un motore di ricerca “lettore codice QR” seguito dalla sigla del vostro apparato. Anche se penso vi sia chiaro è meglio puntualizzare un paio di cose. La prima è i contenuti multimediali si trovano su internet, quindi il cellulare dovrà essere abilitato alla navigazione. La seconda è che l’accesso a questi conte-nuti dipende sia dal gestore del servizio di telefonia mobile sia dalle piattaforme di terze parti quali YouTube e Google.Sento già la domanda: “ma chi non vuole o non può usare il cellulare?” Chi volesse accedere ai contenuti multimediali da un computer può utilizzare gli indirizzi web che ho inse-rito nelle sezioni SCENA e LOCATION di ogni titolo (http://tinyurl.com/.... ). Problema risolto.

COME SI REALIZZA GEOFILM ROMAMi è stato chiesto: “ma come hai fatto a trovare tutti questi luoghi?” È stato un grande lavoro di ricerca soprattutto con Google map, e Google earth. Ovviamente una discreta conoscenza della città in cui sono nato e dove vivo è stata fondamentale, ma ho dovuto comunque percorrere chilo-metri e chilometri, memorizzare visivamente le zone, cattu-rare i dettagli, prendere foto, e parlare con i tassisti.Devo anche dire che di grande aiuto sono state le puntate de La valigia dei sogni il programma di cinema in onda su La7; e poi anche i tantissimi siti web per i riscontri incrociati e la raccolta delle informazioni: siti di cinema, siti biografici di attori e registi, forum di appassionati, gruppi di discus-sione, e blog. Uno tra i tanti è davinotti.com

DA DOVE NASCE L’IDEA DEL BOOK-ETutto ebbe inizio circa cinque anni fa. Mia figlia Flavia passava il tempo con dei libri di fiabe sonore, che oltre al testo conte-nevano dell’audio. Lei li apriva, guardava il contenuto, poi schiacciava un pulsante ed una voce gentile usciva dal libro recitando il testo scritto. Fu una sorta d’illuminazione. Mi venne l’idea di creare un libro che pur rimanendo cartaceo includesse contenuti digitali multimediali. A quel tempo pensai a delle apposite aree sulle pagine in cui inserire delle

label contenenti l’informazione digitale, potevano essere dei tag RFID o altro da inventare. Il problema era la lettura di quei contenuti. Pensai ad una sorta di evidenziatore digitale, una specie di puntale che posto sull’area del libro avrebbe permesso in qualche modo l’accesso al contenuto. Era tutto troppo complesso, servivano degli oggetti aggiuntivi ancora non identificati, e sarebbe costato troppo. L’idea di quello che chiamai “libronico” (libro elettronico) finì nel cassetto fino a quando una nuova illuminazione mi permise di metterla in relazione con i codici QR. Avevo trovato la soluzione a costo zero: niente hardware aggiuntivo da realizzare e niente particolari software da implementare. Il telefono cellulare e i codici QR erano tutto quello che serviva per realizzare il libronico, che adesso è diventato un book-e.

SARÀ QUEL CHE SARÀGeoFilm Roma sarà ricordato come il primo book-e della storia? Avrà successo questo nuovo modello di editoria cartaceo-digitale? Chissà, lo vedremo presto. Nel frattempo leggetelo, scattatelo e alla fine, quando vi sentirete pronti, andate all’appendice e giocate al GeoFilm Enigmistico.Quasi dimenticavo: GeoFilm Roma è un libro autoprodotto e lo trovate online sulla piattaforma ilmiolibro.it a questo indi-rizzo http://tinyurl.com/geofilmroma.

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la dimensione narrativa dello sPazio

di Tonia Basco

Abbiamo bisogno delle storie per dare un senso a noi stessi, per comprendere la realtà, per conservare la memoria. Il racconto, come dice Barthes, “comincia con la storia stessa dell’umanità”: non è mai esistito un popolo che ne abbia fatto a meno. Abbiamo narrato storie sin dai tempi delle caverne, le abbiamo affidato il compito di tramandare il sapere di generazione in generazione, le usiamo per aprire le porte verso mondi fantastici. Possiamo iniziare dicendo “c’era una volta”, possiamo scriverlo, possiamo seguire una trama attraverso le immagini che la mettono in scena o possiamo

semplicemente passeggiare. Lo stesso ambiente in cui viviamo, infatti, assume le vesti di un “cantastorie”, perché costituisce un complesso sistema semiotico capace di parlare di qualcosa di diverso da sé .

Lo spazio, cioè, rappresenta la forma di un linguaggio con cui “la società significa sé stessa, opponendosi a ciò che non è ed incidendo con un marchio potente l’impronta della propria visione del mondo. La costruzione spaziale, quindi, esprime un linguaggio e articola un racconto; possiamo considerarla un testo” (Aureli). In altri termini, il modo in cui allestiamo e organizziamo l’ambiente che ci circonda costituisce il piano espressivo di un vero e proprio linguaggio che parla non solo dei luoghi ma anche della cultura di chi ci vive: ne svela i valori, le dina-miche interpersonali, l’atteggiamento verso l’interno e l’esterno, il peso attribuito alla memoria e al futuro.

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Le nostre città, che Lotman definisce “complessi mecca-nismi semiotici”, sono contenitori di testi e codici eterogenei che convivono e “comunicano” tutti insieme. Una sorta di coro a più voci, in cui si alternano autori inintenzionali (la natura) e intenzionali (l’uomo e i suoi artefatti), in cui la storia dell’Umanità si mescola alle tante storie individuali creando un bricolage mutevole, sempre nuovo, perché nuovo è lo sguardo di chi ne completa il senso. Ogni spazio architettonico, infatti, pur essendo frutto di una progettualità, subisce un processo di risemantiz-zazione da parte di coloro che lo abitano o lo percorrono, contribuendo così a creare un testo nuovo. Di conseguenza, la città assume le sembianze di un reticolo inter-testuale che lascia al lettore una molteplicità di scelte interpretative e di assemblaggio dei testi.

Con l’avvento delle nuove tecnologie, la città contempo-ranea ha ampliato le proprie potenzialità comunicative e ha moltiplicato i segni che “parlano” agli occhi e alle orecchie degli spettatori: dai tradizionali manifesti pubblicitari ai più moderni led, gli edifici indossano “abiti mediali” che raccontano la storia e i progetti della società. La tecnologia, inoltre, ci permette di vivere questa città polifo-nica in maniera inedita e di condividerne racconti alterna-tivi. Basti pensare alle Yellow Arrow, un’idea dell’agenzia newyorkese Couts Media: si tratta di adesivi a forma di freccia gialla che, applicati in determinanti luoghi che

rappresentano qualcosa di speciale per il soggetto, dise-gnano e selezionano un percorso tra le tante possibilità di fruizione della città. In questo modo è possibile tracciare una mappa personale che racconti una determinata storia solo a chi deciderà di condividerla e di vivere la città in maniera non convenzionale: basterà inviare ad un sistema un messaggio con il cellulare contenente il codice stampato sulla freccia per conoscere la direzione da percorrere e provare “a new way of walking”. A Washington DC, ad esempio, le Yellow Arrow hanno raccontato la storia delle più importanti realtà musicali punk degli anni ’80 accompagnando i visitatori tra i luoghi in cui le band sono nate o si sono esibite.Il Washington Post ha definito il fenomeno una sorta di “blogging geografico”, un sistema che consente di connettere luoghi ed emozioni personali, di creare signifi-cati urbani alternativi e condividerli con il resto del mondo.

Su scala ridotta, possiamo ritrovare una dimensione narra-tiva anche negli spazi più piccoli, quelli che fanno da scena al nostro agire quotidiano. La nostra casa, ad esempio, racconta una storia speciale: la nostra. Potremmo descrivere noi stessi ad uno sconosciuto semplicemente facendolo entrare in casa: gli oggetti che collezioniamo, il modo in cui separiamo gli spazi, l’ordine che abbiamo scelto nel disporre i mobili sveleranno molte più informazioni di quante ne saremo disposti a dare a voce. Un discorso analogo vale per i punti vendita: in

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questo caso il protagonista è la marca e i valori di cui si fa portavoce. Attraverso il linguaggio spaziale è infatti possibile mettere in scena l’identità di una marca coinvolgendo il consumatore in una operazione di coope-razione testuale. La marca, cioè, diventa protagonista della trama di un racconto che esprime i suoi valori e attribuisce un ruolo attivo al consumatore, che si immerge in un “gioco di ruolo” che ne valorizza le competenze interpretative. È come se il punto vendita fosse un libro di testo: i componenti d’arredo (mensole, scaffali, lampadari, fari, tavoli e cassetti) ne compongono la grammatica; pareti, scale, corridoi e tutto ciò che serve a mettere in relazione gli elementi del piano grammaticale ne esprimono la sintassi, mentre luci e colori ne scrivono capitoli e paragrafi. Le modalità di disposizione degli oggetti e l’organizzazione dei percorsi nel punto vendita rappresentano quindi la manifestazione spaziale di quella storia che concretizza e rende credibile i valori associati alla marca. Il senso ultimo che acquista il messaggio aziendale sarà poi frutto di una nego-ziazione continua, di interazione dialogica tra le forme dell’architettura e dell’allestimento che lo veicolano da un lato, e le interpretazioni che ne daranno i visitatori dall’altro.

Anche gli stabilimenti produttivi delle aziende vengono sempre più spesso organizzati e allestiti per raccontare storia e qualità della propria identità. Un esempio eloquente è il Museo Birra Peroni, esposizione aziendale creata all’in-terno di uno dei padiglioni della fabbrica. È qui che il racconto della storia dell’azienda si integra a quella della produzione e distribuzione della famosa “Bionda tutta italiana” e si alterna a quello della sua comunicazione pubblicitaria. Il percorso del visitatore assume l’andatura ritmica generata dalle soste, rallentamenti e accelerazioni dettate dal tempo della narra-zione stessa. Suoni, colori, materiali raccontano una storia che alterna presente e passato dell’azienda e della cultura del nostro paese; architettura e allestimenti traducono in un discorso complesso i valori di base del nodo invariante dell’identità aziendale. La narrazione della storia aziendale attraverso l’evolversi delle tappe socio-culturali della società italiana conferma l’immagine che la Peroni ha sempre voluto dare di sé stessa: quella di un prodotto tipico nazio-nale, non solo alimentare ma anche e soprattutto culturale.

L’arte di raccontare storie utilizzando tutto ciò che può incorporare in sé un elemento narrativo sta diventando una tecnica sempre più usata dalle imprese che vogliono rendere la propria comunicazione più coinvolgente e accattivante. E così uno spazio fisico può essere organizzato in maniera tale da distaccarsi dalla dimensione pura-mente funzionale e diventare uno “spazio poetico in cui la fantasia prevale sulla realtà”.

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el corso degli anni il WWF ha stabilito un rapporto privile-giato con il mondo delle imprese, svilupfpando partnership su progetti specifici e collaborazioni di lungo periodo, nella convinzione che il coinvolgimento delle imprese rappresenti un tassello fondamentale per la propria mission: costruire un futuro in cui l’uomo viva in armonia con la natura.Le imprese diventano così protagoniste con il WWF di partner-ship innovative, che hanno come obiettivo sia il sostegno dei progetti di conservazione della Natura che il coinvolgimento in percorsi di orientamento e miglioramento delle politiche e

performance ambientali.“WWF è convinto che il mondo delle imprese svolga un ruolo chiave per trovare soluzioni sostenibili e praticabili alle attuali sfide ambientali” - dichiara Irma Biseo, Responsabile Relazioni e Partenariati con le Imprese WWF Italia - “In quest’ottica, sono stati sviluppati programmi su diversi temi: dalla riduzione delle emissioni di CO2, all’approvvigionamento sostenibile delle risorse naturali (acqua, prodotti

con i suoi 5 milioni di sostenitori, la Presenza in 96 Paesi nel mondo e oltre 2.000 Progetti attivati, WWf è la Più grande organizzazione mondiale Per la conservazione della natura.

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forestali, prodotti ittici), al supporto alle comunità per la gestione sostenibile del territorio”.

Un esempio concreto è dato dal programma inter-nazionale Climate Savers. Dal 2000 il WWF propone alle aziende l’adozione di piani di riduzione delle emissioni di gas serra, attraverso strategie e tecnologie innovative che consentono di assumere il ruolo di leader nella riduzione delle emissioni di CO2 in un determinato settore.

Ad oggi, sono Climate Savers 21 grandi aziende internazionali, tra cui HP, IBM, Johnson & Johnson, Nokia, Sony e il Gruppo cartario italiano Sofidel (noto per il marchio Regina).Entro il 2010 le aziende appartenenti al Programma WWF avranno collettivamente ridotto le proprie emissioni di 50 milioni di tonnellate. Oltre ai bene-fici ottenuti in termini ambientali, Climate Savers ha avuto il merito di dimostrare come le imprese che agiscono a favore del clima riescano a cogliere anche opportunità di sviluppo: efficienza ed efficacia dei processi, innovazione e competitività.

Sono d’altronde già disponibili numerose tecnologie e soluzioni che possono ridurre sensibilmente l’im-patto ambientale e consentono di raggiungere obiet-tivi di efficientamento.

Sony Europe, in collaborazione con WWF ha lanciato lo scorso settembre “Open Planet Ideas”, una comunità virtuale e un “laboratorio” per l’elabo-razione di soluzioni tecnologiche applicabili ai temi ambientali più delicati, come i cambiamenti clima-tici, la biodiversita e la conservazione delle risorse idriche.I membri della community sono stati incoraggiati a lasciarsi ispirare da una serie di tecnologie, come unita GPS, console portatili, celle solari e sensori di presenza per proporre innovazioni radicali, da impie-gare individualmente o in combinazioni inesplorate.

A gennaio i progetti di “Open Planet Ideas” con maggiore applicabilità – selezionati dalla commu-nity e da una commissione di esperti Sony e WWF – saranno esaminati per determinarne la fattibilità tecnica e ambientale. In seguito, gli autori delle proposte selezionate lavoreranno con un team di designer e ingegneri Sony per sviluppare ulterior-mente le idee. Obiettivo è dimostrare come la tecnologia possa avere un impatto positivo sul pianeta.

Tutte le informazioni su www.openplanetideas.com

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di Davide Bennato

Quello di raccontare storie è sempre stata un’arte profon-damente umana finalizzata non solo alla conservazione della memoria storica, ma anche alla socialità e alla condi-visione delle esperienze. La cultura greca con la figura degli aedi, responsabili in parte della diffusione di poemi epici come l’Iliade e l’Odissea, la cultura folkloristica con il ruolo dei cantastorie e dei loro apologhi moraleggianti, sono esempi classici di come l’arte del raccontare storie intrecci in maniera splendida conoscenza, socialità, performance e tecnica.

Di solito termini come raccontare o narrare portano con sé un universo fatto di parole pronunciate o scritte, ma sappiamo che anche le imma-gini sono in grado di raccontare, anche perché raccontare una storia vuol dire far immaginare e immaginare è pensare di vedere. Possiamo considerare il racconto di una storia anche le pitture rupestri lasciate in epoche preistoriche dai nostri antenati nelle grotte di Lascaux oppure gli affreschi di Giotto della Cappella degli Scrovegni: tutte rappresentazioni che non solo esprimono un avvenimento

quando lo storytelling incontra il datamining

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quotidiano – la fauna preistorica nel caso delle grotte – oppure un avvenimento straordinario – come la vita di Gesù nel caso della Cappella – ma danno anche informazioni sul periodo in cui sono state composte: gli animali scomparsi rappresentati sulle pareti delle grotte o gli abiti trecenteschi delle scene di Giotto su Maria e Gesù. In pratica le immagini – al di là del loro contenuto simbolico – sono espressione della società che le ha prodotte rivelando molte cose sull’au-tore e il suo tempo. Lo stesso discorso lo potremmo fare per le immagini usate nella scienza, anche se in questo caso lo scopo è sia infor-mativo che conoscitivo, ovvero le immagini della scienza devono essere un modo per sintetizzare un pensiero, un’idea, una teoria, un risultato. Basti pensare alla tavola periodica di Mendeleev, vero e proprio capolavoro della rappresentazione della conoscenza, non solo per il suo potere sintetico – la capacità di condensare diverse variabili in una mappa degli elementi chimici – ma anche per il suo potere predittivo. Infatti pochi sanno che Mendeleev lasciò delle caselle vuote in attesa che venissero riempite dalla scoperta di futuri nuovi elementi, e così fu. Oppure alla famosa doppia elica del DNA di Watson e Crick, che oltre ad essere una rappresentazione visiva è un vero e proprio modello dell’acido che contiene

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il nostro patrimonio genetico e sulla cui base è stata svilup-pata la tecnologia dell’ingegneria genetica. Tutte le scienze per progredire hanno bisogno di modelli che possono essere espressi o in forma verbale – attraverso le metafore – o in forma visiva – attraverso le immagini. Non è un caso se nei convegni scientifici è possibile presentare i propri risultati attraverso paper (articoli scientifici) oppure poster, cioè rappresentazioni della propria ricerca in forma grafica.

Fra tutte le discipline scientifiche, chi ha fatto della rappre-sentazione grafica una tecnica sofisticata spesso ai confini con l’arte è senza dubbio la statistica. Con la sua necessità di elaborare rappresentazioni grafiche in grado di condensare lunghe sequenze di dati numerici altrimenti difficilmente trat-tabili, la statistica ha sviluppato una serie di tecniche molto creative e molto affascinanti per facilitare l’analisi e la ricerca. Per esempio la tabella, rappresen-tazione grafica in grado non solo di organizzare i dati (nella classica forma righe per colonne) ma anche di essere usata per le analisi (e notare così come due variabili si influen-zano reciprocamente). Oppure le forme di rappresentazione grafica come istogrammi, torte, curve e tutto quanto serve per capire l’andamento dei dati, ovvero come si “comportano” i numeri rilevati. Producendo alcune volte oggetti visivi di rara bellezza: si pensi alla curva a campana (o gaussiana) e alla sua straordinaria proprietà di essere presente in quasi tutte le distribuzione casuali indipendentemente dalla variabile

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rilevata. La tavola periodica degli elementi, la doppia elica del DNA sono rappresentazioni visive diverse dalla curva di Gauss. Infatti la tavola di Mendeleev e il modello di Watson e Crick sono immagini statiche, ovvero non comprendono la variabile tempo, mentre la curva di Gauss presuppone il fluire di un processo. In pratica incorpora in sé il tempo così come fanno tutti i meccanismi narrativi.

Se può sembrare strano che un’informazione statistica possa essere considerata un racconto, è necessario considerare due cose. In primo luogo la statistica – e l’analisi dei dati in genere – è un modo con cui la matematica scende a patti con la realtà circostante, in secondo luogo la statistica si occupa di processi sociali in divenire e pertanto la dicotomia dimen-sione diacronica/sincronica è alla base di tutti i fenomeni studiati da questa disciplina. Mondo, variabili, tempo: sono queste le componenti che rendono la statistica un meccanismo narrativo. Esistono tantissimi esempi classici in questo senso. Per esempio la famosissima mappa di Charles Minard (1861) sulla campagna di Russia di Napoleone, in cui egli è riuscito a condensare ben quattro diverse variabili in una singola imma-gine bidimensionale che rendono questa mappa una vera e propria “Guerra e pace” della rappresentazione delle infor-mazioni. Oppure la celebre “rosa” di Florence Nightingale, fondatrice della moderna scienza infermieristica, in grado di rendere in forma visivamente d’effetto le principale cause di morte dei soldati della guerra di Crimea (1855).

Come si può immaginare, sulla statistica e sulle discipline ad essa connessa per la rappresentazione delle informa-zioni numeriche – come la data visualization, l’information visualization e per certi versi anche l’infografica – ha avuto un enorme impatto l’uso dei computer e negli ultimi tempi di internet, che hanno trasformato la rappre-sentazione dei dati in uno strumento tanto utile quanto esteticamente affascinante con l’ingresso di nuove forme di trattamento che spesso usano le opportunità consentite dall’interattività. Il principale riferimento in questo senso è sicuramente Hans Rosling, docente all’Università svedese di Uppsala, cofonda-tore e responsabile della Fondazione Gapminder (http://www.gapminder.org/) il cui scopo è quello di promuovere l’analisi dei problemi mondiali basati su dati liberamente disponibili su siti governativi e manipolabili dal software da lui sviluppato: Trendalyzer, recentemente acquistato da Google. Rosling è famosissimo per le sue presentazioni al TED, dove non solo dà prova della bellezza del suo software, ma anche riesce a far comprendere le caratteristiche dei problemi globali in maniera assolutamente divertente.Altri designer della rappresentazione delle informazioni che hanno contribuito a sviluppare strumenti per lo storytelling dei dati e democratizzare le forme della visualizzazione sono Martin Wattenberg e Fernanda Viegas. Entrambi membri del

Visual Communicaiton Lab dell’IBM (http://www.research.ibm.com/visual/), hanno sviluppato Many Eyes (http://manyeyes.alphaworks.ibm.com/manyeyes/), un celebre servizio che in puro stile Web 2.0 rende possibile a chiunque la visualizzazione dei dati, siano essi numerici o testuali. Molteplici e interessanti anche gli esperimenti di data visualization sviluppata da una nuova genera-zione di designer. Un caso recente che rende possibile il racconto interattivo sulla privacy dei social network è The Evolution of Privacy in Facebook (http://mattmckeon.com/Facebook-privacy/) del designer Matt McKeon, il quale riesce a rendere in maniera dinamica non solo come sono cambiati termini di servizio di Facebook relativi alla privacy, ma soprattutto come è aumentata la nostra visibilità verso diverse tipologie di pubblico.Anche le istituzioni sembrano aver capito l’importanza di un approccio ai dati di tipo narrativo che sfrutti le potenzialità dell’interatttività, come nel caso del World Economic Forum Risk interconnection Map 2010 (http://www.weforum.org/documents/riskbrowser2010/risks/), attraverso il quale è possibile comprendere a colpo d’occhio la connessione fra diverse tipologie di rischi – sociali, economici, ambientali, finanziari – a livello globale.

La cultura del dato ha sempre dovuto scontare un pregiu-dizio tuttora difficile da smantellare: che l’uso scientifico dei numeri sia qualcosa di noioso e di difficile comprensione. In realtà usare i numeri per raccontare degli avve-nimenti è solo un modo fra gli altri per raccontare una storia. Lo sanno i manager, sempre a caccia di stati-stiche con cui rendere interessanti le proprie presentazioni aziendali, lo sta – lentamente – comprendendo la stampa quotidiana online, che cercando nuovi format diversi dalla stampa cartacea sta adottando infografiche e analisi dei dati prima appannaggio della stampa economica, ma che adesso stanno invadendo altri generi giornalistici dalla cronaca allo sport.Se è vero che un’immagine vale più di 1.000 parole, la data visualization può essere uno strumento con cui raccontare storie sempre più affascinanti, figlie del mondo complesso in cui viviamo.

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la malattia e la cura come forme di narrazione

di Vincenzo Bernabei

Secondo Farmindustria la cifra destinata (convenzionata e non) all’acquisto di medicinali presenti in farmacia nel 2009 è stata complessivamente pari a 25 miliardi di euro, con un incremento dello 0,8% sull’anno precedente. Rispetto al totale della spesa sanitaria, inoltre, la componente pubblica rappresenta il 79% (poco meno di 20 miliardi) e quella privata il 21%.Solo per i prodotti farmaceutici (non considerando quindi i medicinali direttamente erogati dagli enti sanitari, né i costi di degenza) ogni cittadino spende mediamente più di 319 euro ogni anno. Se vi sembrano cifre di rilievo consolatevi pensando che negli

altri paesi europei (eccezion fatta per l’Olanda) si spende anche di più. Rispetto al PIL, infatti, la spesa farmaceutica totale in Italia rappresenta l’1,26%, mentre in Francia tocca l’1,85%, in Germania l’1,70%, in Spagna l’1,55% e nel Regno Unito l’1,38% (dati Istat, IMS).

In un contesto generale di ristrettezze economiche verrebbe da chiedersi in che misura tali cifre scaturiscano dal soddisfacimento di bisogni primari, cioè risultino finalizzate alla cura di patologie più o meno gravi, e viceversa, qual è la quantità di risorse che potrebbero essere utilizzate diversamente. Eppure, forse, la vera domanda che dovremmo porci è un’altra: chi o cosa definisce la gravità delle malattie nel nostro sistema socioculturale?

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LE NUOVE MALATTIEQualche tempo fa è apparso su Repubblica un interessante articolo di Michele Bocci sul “business delle false malattie” che ha incuriosito molti lettori e utenti dei social network, i quali come di consueto hanno ri-proposto e ri-condiviso il contenuto tra le maglie del web attraverso un turbinio di post, status, thread di discussione e #hashtag. Al di là del titolo a effetto, concepito probabilmente per far leva sull’indignazione legittima dei “veri” malati, a volte gravati da impegni economici tutt’altro che sostenibili per curare le proprie patologie, il pezzo aveva il merito di indirizzare l’attenzione su un fenomeno (culturale prima che clinico) in atto nelle realtà industrializzate: quello della medica-lizzazione generalizzata delle peculiarità, delle diversità o di disagi fisici e mentali che fino a oggi avremmo etichettato come lievi o inconsistenti. Sul modello dell’ormai celeberrimo Telethon le giornate, i mesi e le gare di solidarietà dedicati alle singole patologie si sono negli anni moltiplicati, e con essi l’istituzione, accanto alle iniziative sui temi dell’AIDS, dei tumori, della sclerosi multipla o della malattie rare, di eventi ritagliati intorno a stati cui fino a qualche tempo fa non avremmo affatto concesso la dignità di vera e propria malattia o disfunzione. Anche la gravidanza, la stipsi, la tristezza, la calvizie, l’insoddisfazione o la menopausa, per intenderci, hanno trovato gradualmente, improvvisamente, o finalmente (a seconda dei punti di vista) il proprio spazio espositivo nella sinistra fiera delle piaghe sociali.In un certo qual modo sembriamo indirizzati verso una “spettacolarizzazione” della sofferenza e del rimedio, perseguita dalle aziende farmaceutiche, dalle associazioni di settore e dai loro partner commerciali attra-verso il varo di sponsorship, allestimenti, eventi e strategie di co-branding. Il dato scientifico, la prevenzione e la soli-darietà incontrano più compiutamente il commercio, dando vita a una sorta di marketing clinico. Certo, se è vero che ogni contesto elabora la sua idea di bellezza, di sessualità, di rappresentabilità o di oscenità, di accoglienza o di xenofobia, è altrettanto evidente che lo stesso si può affermare a propo-sito del disagio, in special modo di fronte a manifestazioni di tipo inorganico. Perciò il cosiddetto fenomeno del “disease awareness”, cioè della creazione “a tavolino” del malanno non dovrebbe stupire in un contesto di consumo dinamico e altamente sofisticato.

LA MALATTIA COME RAPPRESENTAZIONELa società moderna, tra l’altro, ha spesso utilizzato le tecniche di cura, di prevenzione e di ospedalizza-zione al fine di esercitare un più puntuale controllo sociale sulle soggettività a essa afferenti, fossero queste molto, poco o per nulla “devianti” rispetto al modello di riferimento. Basterebbe pensare a come il concetto di pazzia si sia variamente trasformato nel tempo, producendo degli atteggiamenti dominanti di volta in volta orientati all’inclusione piuttosto che all’esclusione dei

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comunicazionesoggetti interessati rispetto all’alveo dei tipi comportamen-tali “sani” e desiderabili.

A ciò si aggiunga un altro aspetto. Sin dal loro esordio nel panorama culturale le “scienze esatte” ci hanno abituati a un’architettura semantica eretta intorno all’idea di certezza, che al suo interno ospita forme espressive in qualche modo sempre connesse alla parametrazione, all’or-dine procedurale, alla precisione, e quindi all’incontestabilità. Sicuramente oggi tale bisogno di rigore persiste e, al di là delle “buone abitudini” legate al monitoring periodico del proprio stato di salute, affiora ad esempio con la schedatura esasperata dei generi alimentari (a partire dal loro apporto calorico, s’intende) o con la diffusione di pratiche, test e apparecchiature di scansione analitica del corpo (si pensi ai vari contapassi o cardiofrequenzimetri di ultima genera-zione, ormai alla portata dei tanti corridori della domenica). Dall’altro lato, però, sempre di più i soggetti contemporanei si sentono stretti all’interno degli schemi dicotomici (sono/non sono malato) e manifestano il desiderio di essere ascoltati, di descriversi, e di intavolare un vero e proprio discorso sul sé dinnanzi al curante, talvolta spingendosi per tale motivo fino all’abbandono dei principi medici tradizionali. Anche per questo è sempre più frequente il ricorso alla cosiddetta “medicina alternativa” o a quella complementare, comprendente un ampio numero di approcci (riconosciuti peraltro dalla Comunità Europea) che spaziano dall’omeopatia alla medicina tradizionale cinese, dall’ayurvedica ai principi quantistici od ortomolecolari: un insieme eterogeneo di linee di pensiero ormai spesso tollerate, e persino consigliate anche dal classico curante “allopata”.

In un certo senso, dunque sia la diagnosi che lo stato di malattia sono delle vere e proprie rappresenta-zioni, tracciate il più delle volte da un dottore con il concorso del degente. Come sta avvenendo in molti altri campi di sapere, tra l’altro, in questa fase il modello di trasmissione verticale della conoscenza in campo medico è seriamente posto in discussione, poiché sempre di più i pazienti pretendono di partecipare attivamente alla defini-zione del problema che li affligge, riservandosi di agire su se stessi tramite un bouquet di approcci differenti (tra cui i media, e soprattutto internet), utili a preservare o miglio-rare il proprio stato di salute. La voglia di curarsi insomma è anche volontà di affermazione, di spinta verso l’adeguamento o la riottosità rispetto alle regole non scritte della conformità sociale, e se tali aspirazioni possono essere soddisfatte indifferentemente attraverso l’assunzione di una comune aspirina, il ricorso alla chirurgia estetica, l’uso di creme “non certificate” che levigano le proprie zone adipose durante il sonno, l’assunzione in età precoce di antidepressivi, l’uti-lizzo massiccio di antibiotici al primo raffreddore o di rimedi non riconosciuti dalla scienza ufficiale, si può dire che è

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ancora attuale l’ancestrale e polivalente idea di farmaco (pharmakon) inteso come cura, come droga o come veleno, e insomma come mezzo di alterazione di uno stato che non si accetta.

LA NARRAZIONE COME TRATTAMENTOUno dei primi a formalizzare un impianto in cui la narrazione funge da strumento utile non solo alla formulazione della diagnosi, ma anche all’indagine sulla condizione del malato è stato il neurologo Oliver Sacks. Tra le sue opere più famose spiccano L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, del 1985, e Risvegli (1973), libro da cui nel 1990 fu tratto l’omonimo film interpretato da Robin Williams. Sacks attri-buiva al cervello umano la capacità di modificare se stesso e gli altri organi del corpo di fronte a un evento patologico. La sua visione olistica gli ha permesso di sviluppare una teoria che nei fatti riscrive il profilo del degente, trasformandolo da vittima della propria disgrazia a persona abilitata a intervenire sulla propria condizione attra-verso la messa in forma di storie, di opinioni e di racconti. In questa ottica, dunque, il punto di vista del malato coincide con una percezione peculiare del mondo, costruita attraverso lo storytelling della propria condizione e del contesto. Se ancora esiste una defini-zione di diversamente abile del tutto avulsa dalle ipocrisie e dal politically correct, questa si deve senz’altro a personaggi

come Sacks. O come l’italiano Franco Basaglia, il famoso psichiatra che contribuì a ridelineare i contorni della malattia mentale escludendo dall’orizzonte dei trattamenti quello del manicomio, vale a dire di una struttura chiusa concepita unicamente con finalità di contenimento fisico del paziente. Grazie soprattutto a Basaglia il concetto di disagio mentale ha assunto nel nostro tempo una valenza nuova, innanzi-tutto perché egli ha dimostrato che se l’isolamento (in special modo quello coatto) è definibile come uno dei più grandi affronti alla condizione umana, allora esso deve essere sosti-tuito attraverso il suo esatto contrario, cioè da un insieme di pratiche cliniche che privilegino l’aspetto relazionale.

Se è vero che siamo alla continua ricerca di costrutti e mezzi che ci aiutino a caratterizzarci e a definirci di fronte all’Altro, e quindi a delineare in modo fluido la nostra conformazione identitaria, e se è vero che le strategie che poniamo in essere per perseguire tale obiettivo sono soprattutto di natura comunicativa, allora per indagare l’assetto sociale dei nostri giorni non possiamo sottovalutare l’esperienza della malattia. In essa infatti si cela una delle nostre compo-nenti performative più importanti: quella che ci permette di proiettarci in un mondo immaginario che non contiene la sofferenza e il disagio. Rispondendo alla domanda: “come vorremmo stare?” di fatto ci raccontiamo come vorremmo essere.

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formazione

di Oroscopino

Una previsione in anteprima: il 2011 non sarà il penultimo anno dell’umanità. Meglio metterlo subito in chiaro. Non fatevi prendere dalla frenesia e provare a realizzare tutti i vostri desideri durante il prossimo anno: alla fine ne seguirà subito un altro. E sarà forse più decisivo del prossimo. Il 2011 sarà un anno propedeutico ad una serie di grandi cambia-menti da consolidare l’anno successivo. Dovremo darci dentro con olio di gomito e tanto entusiasmo, lasciare che i libri sull’apocalisse maya scompaiano dagli scaffali delle librerie e preparare il terreno per mettere a segno nel 2012 qualcosa di

davvero importante e reale.

Il segreto è la scelta. Ci troviamo ogni giorno di fronte a scelte da compiere, su noi stessi, sulle relazioni con i nostri simili, sui conflitti con i nostri dissimili. La posizione di un pianeta può dirci se oggi è un momento in linea con il periodo della nostra nascita e le rivoluzioni astrali di allora, favorevoli o meno a benes-sere, amore, successo. Perché ogni cosa, nell’universo, ha sempre un effetto su qualcos’altro. Ma siamo sempre noi a scegliere, e decidere se farci consigliare o influenzare (e da cosa o chi) nelle nostre scelte. Ogni conseguenza è sempre a seguito di una scelta, non di un pianeta o di una data sul calendario.Ho alcuni amici che fanno l’esatto contrario di ciò che consiglio loro. E a volte gli va pure bene.

l’oroscoPo 2011

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formazioneARIETESarà un anno inquieto. Ma voi lo siete sempre, no? Datevi da fare: le premesse ci sono tutte. Potete affermarvi come leader o – se non state attenti – come dittatori. Con Giove e Marte è facile fare a pugni. E l’aziendina che avete in mente di metter su? Iniziate, ma di brutto. Cercate le risorse, persone giuste, il luogo. Il settore lo sapete già: dev’essere qualcosa che vi appassiona. Grazie a Giove vi esprimerete al meglio e avrete il seguito che meritate.

TOROPratici, metodici e combattivi... ecco l’anno per darsi una calmata. Giove e Venere vi daranno creatività e pace, potrete usarli per riflettere e fare qualche bilancio. Ma lascia-tevi trasportare dalle emozioni, a partire dalla primavera. Usate questo anno un po’ movi-mentato per esplorare nuove possibilità, nuovi mercati, approcci originali al lavoro e alla vita. Potrebbe esservi utile per concentrarvi sulla famiglia, verso la fine dell’anno.

GEMELLIArrivano Mercurio e Marte a mettere le cose in chiaro. Ma faranno anche un po’ di casino. Per un paio di mesi stringete i denti e fate buon viso a cattivo gioco. Siete esperti, in questo. Poi finalmente sarete voi a tracciare la rotta, e sarà una rotta di conquista. Prudenza: non togliete il vento a chi è arrivato prima di voi. Superatelo con calma prendendo il largo, e poi avvicina-tevi al traguardo per tagliargli la strada.

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CANCROSe nel 2010 vi siete ammazzati di lavoro e avete tirato il carro anche con i denti, nel 2011 potrete vivere un po’ di rendita. Avete bisogno di più leggerezza per godere dei vostri stessi sentimenti e farvi apprezzare nelle relazioni, amorose e sociali. Tenete però sempre un occhio rivolto al conto corrente (vi aiuterà Venere, in questo). Quando arriveranno brutti pensieri e cattivo umore, ignorateli. È solo Mercurio.

LEONECambiamento, cambiamento. Studiate, chie-dete aiuto, fatevi consigliare da chi ammirate. Nettuno vi permetterà di ascoltare voi stessi e assecondare maggiormente le vostre passioni. Fregatevene della malinconia di Saturno, non ne avete bisogno: ne riparleremo il prossimo anno. Raccogliete le forze e instaurate nuove relazioni all’inizio dell’anno, e dopo l’estate mettete tutto in pratica. Non fatevi distrarre troppo dall’amore. Anche se non sarà facile.

VERGINEAl solito: la vita è piena di cose interessanti, ma per voi sono troppe e troppo veloci. Fate uno sforzo: non accontentatevi. Tra tutti gli eventi che vi scivoleranno addosso ci sono alcune opportunità che sarebbe meglio afferrare con denti e unghie. Non da soli, però. Lavorate in squadra, fatevi piacere la compagnia. Ad un certo punto Marte e la sua irruenza se ne andranno. Anticipatelo, fategli vedere chi comanda.

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formazioneBILANCIAFate come al solito: non siate precipitosi. Chiede a consulenti e professionisti quali sono le mosse giuste da fare per mandare avanti i progetti che avete pensato, approntato o già iniziato nel 2010. È il vostro anno per crescere e farlo con la maggiore prudenza possibile. Verso fine anno Saturno vi lascerà ragionare e forse Mercurio vi porterà qualche idea brillante. Il resto è la solita farina del vostro sacco, quello che vi portate dietro da un sacco di tempo.

SCORPIONESarà come essere sulle montagne russe. Periodi di lavoro intenso e soddisfacente alternati a momenti di rilassamento e nuove opportunità e conoscenze. Non abituatevi, è tutto passeggero. Venere prima o poi metterà il dito nelle vostre relazioni. Concentratevi sulla professione da subito, poi rallentate con giudizio, per tenere d’occhio cosa succede con i sentimenti. Le cose cambiano. Le vostre, quest’anno, un po’ di più.

SAGITTARIOUn grande anno a partire dalle prime settimane. Dateci dentro e avrete soddisfazione e piacere nella professione e nel realizzazione personale. Occhio alle relazioni, però. Ci sarà chi vi seguirà con affetto e stima... e chi con un pugnale dietro la schiena. Fate attenzione ai vostri punti deboli e, se non riuscite a eliminarli, teneteli ben nascosti. Scegliete con cura i vostri partner. Non mollate, non cedete alla stanchezza, fate piuttosto un bel viaggio e ricaricatevi.

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CAPRICORNOStrano a dirsi, ma diventerete sentimentali. Un pochino. Quanto basterà a Marte e Venere, complici in questo vostro nuovo punto di vista meno pragmatico del solito. Ma non fatevi illusioni (e non illudete gli altri): c’è molto da fare e dovreste provare a farlo in gruppo. Non dimenticate che i progetti personali devono comunque rimanere il vostro motore principale. Il resto potete affrontarlo con la solita maestria.

ACQUARIOEcco a voi il palcoscenico dove mettere in scena ciò che avete scritto fino ad ora. Tutto si comple-terà e darà inizio ad altri imprevisti movimenti che porteranno nuove opportunità, relazioni e successi. Ma sarà il caso di tirare qualche somma, serenamente, con la soddisfazione di avere finalmente realizzato molti dei vostri desi-deri. E quando farete ciao ciao con la manina al simpatico Marte, con l’intraprendenza che vi contraddistingue inizierete a realizzare tutti gli altri.

PESCIDividete in due parti il 2011. La prima parte dedicatela a voi stessi, a raccogliere informa-zioni e suggestioni dall’ambiente. Non strafate. Cercate di capire se siete sulla strada giusta o se dovete iniziare una ricerca. Metteteci tutto l’impegno, però. Perché nella seconda parte dell’anno le scelte si avvicenderanno e dovrete essere pronti a scartare quelle che non vi inte-ressano. E salire sul treno giusto, insieme alle persone che amate, verso quella fermata che aspettate da tempo.

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