brand care magazine 008

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Brand Care magazine • ISSN: 2036-6213 • Anno III numero 008 • marzo-febbraio 2011 - N°008 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma

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McDonald's, Chinotto Neri, Mazinga Z, il vintage, Castel del Monte, il super8, Benoit Mandelbrot e i frattali, la Guinea, Jorge Luis Borges, il SEO e il SEM... Tutti elementi collegati da una trama sottilissima: il numero otto. Una cifra"magica", simbolo dell'infinito e della spiritualità, che in mille modi incide quotidianamente sulla nostra vita di consumatori, e che in questa uscita abbiamo voluto eleggere a cifra di lettura dei fenomeni sociali.

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Brand Care magazineMARZO-MAGGIO 2011 - N°008

EditoreQueimada di Bernabei & Colucci snc

via V. Veneto, 169 - 00187 RomaP. IVA e CF 02249990595

[T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype[W] www.brandcareonline.com [@] [email protected]

Direttore responsabileSergio Brancato

Contributors n° 008Tonia Basco, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Massimo Caiati,

Anna Maria Carbone, Alessandra Colucci, Giacomo De Biase, Patrizio Di Nicola, Elena Franco, Emi Guarda, Pasquale Napolitano, Francesca Pellegrini, Nadia Riccio, Giovanni Scrofani, Alessandro Vitale,

Emanuela Zaccone.

Brand Care magazine addictsAlberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Ciriaco Campus,

Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco Fogliani, Carlo Forcolini, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Ilaria Legato, Zaira Maranelli,

Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Gianfranco Pecchinenda, Luca Peroni, Marco Pietrosante, Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta.

Cover“8”, un omaggio a BCm da parte di Ciriaco Campus

Art Direction, grafica e impaginazioneNiko Demasi

StampaGrafica Metelliana

Via Gaudio Maiori - Zona industriale - 84013 Cava de’ Tirreni

PubblicitàQueimada snc

PolicyI contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono neces-sariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive

aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata, distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es: Creative Commons).

Registrazionepresso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09

Iscrizionepresso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728

ISSN2036-6213

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editoriale

di Sergio Brancato

Cos’hanno in comune il sistema organizzativo della catena di ristorazione più famosa al mondo, una zona montuosa della Guinea, il matematico dei frattali Benoit Mandelbrot e la caméra-stylo di Alexandre Astruc? Sono tutti elementi di una trama sottile, diradata, a tratti solo ipotizzata, che in filigrana lascia trasparire un numero. Una semplice cifra, l’otto, che è anche un nome proprio, una prospettiva archi-tettonica, un’idea regolativa intorno alla quale si raccol-gono persino performances meditative e percorsi spirituali. Parliamo insomma di una suggestione, un elemento che ha

ispirato correnti di pensiero, intellettuali e strategie economiche di importanti attori di mercato in grado di incidere quotidianamente sui nostri consumi.

Uno degli argomenti trattati nel numero 008 di Brand Care magazine riguarda la cosiddetta “macdonaldizzazione” dei contesti di produzione e delle relazioni sociali tout court. Aziende che assumono una rigida proce-dura volta a controllare in modo capillare la produttività dei propri dipen-denti, franchising che distribuiscono esattamente gli stessi prodotti e servizi in tutto il Globo, tanto da spingere la prestigiosa rivista The Economist a sviluppare un indice di prezzi basato sul costo del famoso Big Mac nelle diverse aree geografiche, così da calcolarne i tassi di inflazione.

Si parla inoltre del tempo, sia in quanto concetto fondativo della nostra civiltà, sia come rara e preziosa risorsa alla cui costante ricerca si dedi-cano i lavoratori contemporanei, tanto i dipendenti (spesso vincolati alle classiche otto ore lavorative) quanto i liberi professionisti, in uno spazio di privatezza che risulta sempre più difficile da progettare e organizzare. Si analizza

UN TEMAPER NUMERO,

UN NUMEROPER TEMA

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Il primo nome del chinotto

Oggi come ieriè sempre Chin8Neri.

newpack

l’architettura di una affascinante e misteriosa costruzione ottago-nale del Mezzogiorno: Castel del Monte, eretto da Federico II di Svevia, e si prosegue affrontando i temi del ritorno e della citazione, che in questo periodo storico assumono spesso le sembianze del vintage (declinato in vari accessori, film, gadget o format audiovisivi) e risvegliano lo spirito di appartenenza di una generazione, quella nata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, bramosa di riconoscersi in prodotti culturali cult come gli arcade games. Un fenomeno del tutto simile, del resto, a quello che emerge nel momento in cui un gruppo di imprenditori campani decide di rilevare e rivalorizzare un marchio storico dell’industria beverage italiana: il Chin8Neri, riportandone alla luce i fasti conosciuti a partire dagli anni Cinquanta del Novecento.

Naturalmente non poteva mancare un contributo su quel mera-viglioso codice espressivo che ha a lungo caratterizzato l’im-maginario privato di tante famiglie, influenzando al contempo la poetica di cineasti sognatori e l’iniziativa di pragmatici produt-tori: il Super8. Certi che apprezzerete le peculiarità di uno dei “numeri magici” per eccellenza, in questa uscita abbiamo insomma deciso di promuovere l’otto a vera e propria cifra di lettura dei fenomeni che ci circondano, con la speranza di ridurne (o esaltarne, a seconda dei punti di vista: parliamo pur sempre del simbolo dell’infinito e dell’eterno ritorno sul punto di partenza) la complessità.

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profiliSERGIOBRANCATO Ins egna S oc io logia della Comunica zione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Industria

Culturale (“Federico II” di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubbli-cato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie dell’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).

GIOVANNISCROFANIGiurista d’impresa presso un primario Gruppo produttivo, si occupa di aspetti normativo/conta-

bili legati al mondo degli investimenti. Dedica il proprio tempo libero alla sua grande passione per le nuove tecnologie. Ha collaborato con pubblicazioni per il CAFI e master per Terotec. Fondatore del Progetto DaDaista Gilda35, ne cura il nonBLOG: http://jovanz74.splinder.com/

NADIARICCIODottore di ricerca in Scienze della Comunicazione. Borsista post-doc all’U-niversità di Salerno si

occupa dell’evoluzione dei sistemi televisivi nella convergenza digitale, di forme narrative televisive, di cultura e letteratura di massa.

ELENAFRANCOMeglio not a come DelyMyth, da sempre appassionata di informa-tica e tecnologia, approda

su Internet nel 1997 ed apre il blog nel 2003. Attualmente svolge attività di consulenza in ambito Internet e Web 2.0 ma non dimentica mai il suo blog: http://www.delymyth.net/

ALESSANDRACOLUCCILaureata in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) con una tesi sul

Product Placement. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovisiva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www.alessandracolucci.com.

GIACOMODE BIASERegista, Avid editor. Dal 2002 è responsabile della postproduzione in DBvideo. Ama viaggiare,

ultimi reportage in Corea del Sud e Mongolia. Vive e lavora a Pietralata (Roma) in una casa di pasoliniana memoria.

PASQUALENAPOLITANOCultore in Comunicazione Visiva e dottorando in Scienze della Comuni-cazione all’Università di

Salerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Didattici di Comunicazione Visiva. Artista multimediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multimediale (Università Orientale - Napoli).

FRANCESCAPELLEGRINI33 anni, laurea in Scienze della Comunicazione, è responsabile marketing e comunicazione della new

media agency MEDITA. Si occupa, tra l’altro, di social media e web marketing, pr online, eventi. È assistente del Prof. Pittéri alla LUISS di Roma. È web editor e blogger free lance. Ha collaborato a “La grande sorella due” di C. Sartori (2009) e “L’intensità e la distrazione” di D. Pittéri (2006)..

TONIABASCOMi laureo in Scienze della Comunica zione con una tesi in Sistemi Organizzativi Complessi

che porta alla realizzazione di un sito dedi-cato al telelavoro. Mentre sogno di diventare “cittadina romana”, vivo in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandomi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ho un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.

DAVIDEBENNATOIns egna S oc io logia dei processi culturali e comunicativi (Università di Catania). Studioso dei

rapporti tra innovazione e tecnologia, è consu-lente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricercatore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: “Internet Magazine”, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

VINCENZOBERNABEILaureato in Scienze della Comunica zione (La Sapienza, Roma) pubblica la sua tesi dal

titolo Cinema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dotto-rando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali.

PATRIZIODI NICOLAIns egna S oc io logia dell’Organizzazione a La Sapienza e si diverte a coordinare progetti inter-

nazionali. Esperto di mercato del lavoro, nuove tecnologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiettivo di produrre idee pazze e tentare di realizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.

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MASSIMOCAIATICopywriter dal 2002, prima per DDB Milano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi

Ginevra. Rappresentante italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.

EMANUELAZACCONELa sua specialità sono i social media, l’user engagement e gli UGC. Lavora come community

manager e social media strategist, oltre ad essere blogger ed editor della sezione Social Media per NinjaMarketing. Al momento sta terminando un Dottorato di Ricerca con un progetto su audiovisivi e social network marketing. Come borsista Working Capital, si occupa di ricerca anche per Telecom Italia Lab.

CLAUDIOBIONDIEntra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e

serie TV; per oltre 20 titoli ricopre il ruolo di produttore esecutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di diversi saggi, tra cui Come si produce un film (4 volumi, Dino Audino Editore), è ora docente di tematiche legate alla produzione audiovisiva in numerosi master universitari. http://hstrial-cbiondi.homestead.com/

ANNA MARIACARBONEEx Marketing & Commu-nication Manager alla Yves Saint Laurent P a r f ums SpA , d a

vent’anni è consulente e formatrice in marke-ting e comunicazione strategica, comunica-zione interpersonale, gestione dei conflitti e negoziato, creazione d’impresa e business planning. Per arricchire il suo bagaglio perso-nale e professionale quando non lavora studia le tradizioni spirituali e le medicine alternative.

EMIGUARDALaureata in storia dell’arte contemporanea con tesi in semiologia culturale su Iconicità e Ferita prima

e Riviste Italiane d’Avanguardia degli anni ‘60 dopo, ha lavorato come assistente all’orga-nizzazione eventi alla Fondazione Baruchello e fatto una breve tappa al Castello di Rivoli a Torino. Scrive di eventi/spettacoli e di arte su Teknemedia.com. Si sostenta lavorando con l’energia (elettrica…).

NIKODEMASILo sguardo schizzato di Jack che chiama Danny inseguendolo nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia

più limpidi. Laureato in Comunicazione (Sapienza, Roma), esperto di progettazione multimediale, la voglia di “cucinare” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada – Brand Care.

ALESSANDROVITALETitolare di DBATrade di Bologna, si occupa da più di un decennio dello

sviluppo e della realizzazione di programma-zione applicata al web marketing per il posi-zionamento nei motori di ricerca. Esperto di SEM, di SEO e DAO, è stato tra i primi a credere agli standard Web, applica strutture XHTML logiche e semantiche per l’applicazione digitale dei contenuti in internet

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indice

NON È CHINOTTO, SE NON C’È L’8di Alessandra Colucci

8 TECNICHE DI WEB MARKETINGPER I PROFESSIONISTI DEL SETTOREdi Alessandro Vitale

80 NOSTALGIAOggetti e umori dal passato, tra vintage ed evergreendi Vincenzo Bernabei

DAL TEMPO AGLI INFINITI TEMPIOvvero come si è giunti a declinare il tempo al pluraledi Giacomo De Biase

WWF: “L’ORA DELLA TERRA… E OLTRE”Il più grande spegnimento globaleHIGHLIGHT

VIDEO SESSANT8Appunti sull’espressione all’ombra del grande numerodi Pasquale Napolitano

OTTO. TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTOdi Francesca Pellegrini

CHI SA FARE 8XMILLE?FOCUS ON: Un creativo ha sempre bisogno di un bookdi Massimo Caiati

8°8’8’’N – 8°8’8’’Wdi Nadia Riccio

LA BIBLIOTECA DI BABELE 2.0Un’altra avventura di #Gilda35di Giovanni Scrofani

IL CINEMA A OTTOConsiderazioni semi-autobiografiche di un cinefilo dilettantedi Claudio Biondi

“INTEROTTIVITÀ” PER UN VIAGGIONELL’USER ENGAGEMENTdi Emanuela Zaccone

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L’OTTO DEL FAST FOOD GLOBALEFOCUS ON: Estratto dal Regolamento di McDonald’sdi Patrizio Di Nicola

3X8… 24 (ORE) Elena Franco

BREVI CENNI DI INFINITOdi Davide Bennato

OTTO, UN NOME DA GUERRIGLIEROdi Tonia Basco

IL NUMERO OTTO NELL’ENIGMATICA SACRALITÀDI CASTEL DEL MONTEdi Emi Guarda

L’OTTAVA SEPHIRA DELL’ALBERO DELLA VITAIl valore dell’empatia nell’evoluzione dell’uomo(e nella crescita delle aziende)FOCUS ON: Kabbalah: il sentiero dello spirito - L’albero della vita - Il Sephirot - Hod: splendore, intelligenza assoluta e perfettadi Anna Maria Carbone

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comunicazione

Oggetti e umOri dal passatO,tra vintage ed evergreen

di Vincenzo Bernabei

Intrattenere raccontando di altre epoche è da sempre una delle attività retoriche più efficaci, talvolta per motivi di credibilità, dato che le storie impregnate di esperienze condivise tendono a risultare più fondate (proprio in quanto circostanziate ), in altri casi grazie al particolare senso di fascina-zione che la ripetizione del noto suscita in chi assiste.La citazione, ad esempio, è un artificio coinvolgente perché parla inevitabil-mente di noi: stimola il nostro ricordo e ci accompagna in un percorso a ritroso in cui ci ritroviamo e ci riconosciamo, anche solo per confutarla o rifiutarla.

Vintage o evergreen?Agli oggetti che richiamano il passato spesso attribuiamo un aggettivo, vintage, che trae origine dal gergo enogastronomico (lat.”vindemia”, vendemmia) e sotto-linea la natura sensoriale di questo viaggio all’indietro. Vintage è il vino d’annata, reso più prezioso proprio dal suo processo di invecchiamento, e per estensione è l’elemento suggestivo in quanto “millesimato”, collocato in un orizzonte temporale specifico e tanto remoto da non poter essere più nemmeno scaduto, démodé.

Dire che un accessorio, un capo d’abbigliamento o un segno sono vintage corri-sponde a riaccoglierli nell’alveo dell’usabilità, dell’indossabilità, dell’attualità, riconoscendogli un attributo “magico”. In questo il vintage è diverso anche dall’evergreen : nel primo campo collochiamo oggetti retro che a lungo abbiamo relegato nel purgatorio del desueto, nel secondo inseriamo arti-coli buoni per tutte le stagioni, funzionali, inossidabili ed eterni (e per questo spesso meno preziosi, perché meno ricercati ). Un Piaggio Boxer degli anni ‘70 è senza dubbio vintage, mentre le polacchine Clarks sono un evergreen; la Polaroid 35mm, l’Olivetti Lettera 32 progettata da Marcello Nizzoli, l’insegna di

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latta litografata del gelato Mottarello e il Chin8 Neri (cfr. più avanti l’articolo dedicato) sono vintage; il Campari, la Coca Cola, l’agenda Moleskine, i blue-jeans e l’Aluminum Chair di Charles Ray Eames sono decisamente degli evergreen. (Chi scrive nutre qualche dubbio sulle All-Star Converse di Ritorno al futuro, per la cui esatta collocazione servirebbe la consulenza di un esperto: sono mai “passate di moda” prima di comparire ai piedi dei “nostri” teen-agers?).

Certo, c’è vintage e vintage, evergreen ed evergreen. Il romanzo storico, i film-peplum o i grandi classici della musica e del teatro sono riferimenti di tipo universale, “ontogenetico”, perché parlano di Storia, di sfondi fissati, immutabili; mentre la minigonna, le spalline, i remake come La cosa di John Carpenter e La guerra dei mondi di Steven Spielberg, ma anche i recenti spot della Barilla musicati con i grandi successi italiani reinterpretati da Mina si riferiscono a storie di consumo, a trame “filogenetiche”, generazionali, vissute e riportate consapevolmente alla luce per una comunità di fruitori.

Vent’anni dopoSe i classici sono per definizione senza tempo, qual è il “tempo medio” in cui i fenomeni citazionistici vengono elaborati rispetto ai loro referenti originari? Naturalmente non c’è una regola, ma in accordo con Dumas padre e con il suo Vent’anni dopo, in cui si riprende il filo del discorso sulle vite di D’Artagnan, Athos, Porthos e Aramis dopo la morte del Cardinale Richelieu e l’ascesa al trono del Re Sole, potremmo sbilanciarci affermando che nella cultura moderna occorrono almeno un paio di decenni affinché le storie, i temi e le simbologie si sedimentino dive-nendo “vintage”. In altri termini, occorre un intervallo compatibile con un passaggio di stato, in cui ragionevol-mente un bimbo ha il tempo di diventare ragazzo, un ragazzo

adulto e un adulto anziano (fino a tutto il Medioevo e alla prima Modernità l’infanzia e la senescenza spettavano soli-tamente a pochi fortunati).

Tralasciando ulteriori considerazioni sull’accelerazione dei transiti generazionali, fenomeno tipico de nostro tempo, non occorrono particolari esercizi di metodo per richiamare alla memoria un baffuto Gianni Minà che, nella pienezza del mood colorato e cotonato degli anni Ottanta rievocava i fasti dei “Favolosi Anni Sessanta”; né per ricordare un giovane Fabio Fazio che, insieme a Claudio Baglioni e a quegli instancabili simulacri viventi che erano – e sono – i Cugini di Campagna, ripercorreva entusiasta la sua adolescenza “seventy” in Anima mia (1997).

Seguendo questa logica dovrebbe essere il momento di celebrare in un grande, catartico (quanto meno perché serve ad anestetizzare gli effetti indesiderati del tempo che passa) rito collettivo il Decennio 1980, e difatti da ormai qualche anno l’industria culturale non smette di sfornare riferimenti, citazioni, remake, gadget, format, speciali, blog, forum e tanto altro sull’epoca in cui milioni di bambini, di fatto, scoprirono il pop, soprattutto attraverso l’esordio e l’affermazione delle tv commerciali. Stilare un elenco soddisfacente di esempi sarebbe impossibile, ma la rievo-cazione di alcuni prodotti dell’epoca [http://bit.ly/exXO6S] fa letteralmente eccitare i trentenni di oggi. Memorabili le serie tv come Supercar, Hazzard, A-Team, Arnold, I Robinson, Saranno famosi, Charlie’s angels, Miami Vice e Magnum P.I.; gli oggetti e i giocattoli (ora) di culto come il Super Santos, le Micro Machines, Forza 4, i timbri di Poochie, il Crystal Ball, l’orologio Casio con calcolatrice incorporata; la sterminata offerta di cartoni animati, dai “robottoni” con capostipite Mazinga Z (Daitarn, Vultus V, Jeeg Robot d’acciaio, Goldrake ) agli altri giapponesi, quali Calendar Men, Candy Candy,

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comunicazione

Capitan Harlock, Forza Sugar, Gigi la trottola, Holly e Benji, Lamù...[http://bit.ly/h2EyNq].

Insert coinQualche considerazione a parte meritano quei fenomenali prodotti tecnologici che esordirono nei luoghi pubblici alla fine degli anni Settanta, e che presero il nome di arcade games, perché senza dubbio in termini di linguaggio essi rappresentarono la vera svolta per i giovani e i giovanissimi di allora. Sotto il profilo culturale gli arcade costituirono il vero e proprio spartiacque tra l’epoca analogica e quella digitale. Infatti da un lato si inserirono nel solco di un consumo di massa già collaudato, fatto di dispositivi meccanici o elettromeccanici – il calcio balilla, il biliardo, il flipper stesso, il juke-box – che popola-vano da tempo bar e sale ricreative; dall’altro introdussero una pratica ludica inedita e gettarono le basi per quella estrema individualizzazione del divertimento che in seguito ritroveremo coi pc, le console e gli smartphone. Tra le carat-teristiche dei media digitali, insomma, siamo giustamente abituati a inserire la tendenza alla fruizione personalizzata e, conseguentemente, della virtualizzazione dei rapporti tra gli utenti. Nel caso degli arcade non fu propriamente così.

Le sale giochi degli anni Ottanta erano ancora dei luoghi di socializzazione diretta, face to face, in cui i giocatori intrattenevano relazioni e scambi immediati. Le sfide erano in presenza (a turno o in modalità multiplayer) e talvolta per conquistarsi il diritto a una partita ai giochi più – è il caso di dirlo – gettonati bisognava attendere ore affrontando file chilometriche o, ahimè, dando la precedenza ai più grandi. Le prime forme di competizione in remoto rese possibili dagli arcade games consistevano al più nel lasciare le propria sigla (di solito di tre caratteri) alla fine di una partita nel caso si totalizzasse un punteggio rilevante: in questo modo gli avventori successivi sapevano esattamente

quale fosse la top ten dei giocatori virtuosi e indirettamente potevano misurarsi con loro.

I videogiochi da sala iniziarono a diventare “uffi-cialmente” vintage nel 2001, quando fu rilasciata la prima versione del MAME (Multiple Arcade Machine Emulator) Windows-based. Il MAME permette ai pc (e ora anche ai tablet) di emulare le vecchie tecnologie arcade, che consistevano in una scheda a circuiti elettronici su cui erano memorizzate tutte le informazioni riguardanti un game. Tale scheda veniva montata nel tipico chassi ad arco, che era dotato di comandi solitamente molto resistenti e spartani (quasi sempre due o tre pulsanti e un joystick per postazione). Tramite la trasposizione in files ottenuta attra-verso il MAME da circa dieci anni è possibile ri-giocare i prodotti degli anni Ottanta, simulando con un semplice tasto l’inserimento delle monete (il fastidiosissimo “Insert coin”) e conferendo alle comuni tastiere o al touch screen la funzione di controller.

Visto che negli ultimi anni l’estetica vintage è particolar-mente diffusa (come a dire che è di moda “tornare di moda”) al MAME si sono aggiunte varie altre tipologie di rivisita-zione dei giochi arcade: gadgettistica, fandom legate a singoli titoli o a stili di gioco e communities tema-tiche sono all’ordine del giorno sul web. Da segnalare persino un progetto di arte contemporanea concepito sull’idea del modernariato digitale, coordinato dal franco-svizzero Guillaume Reymond. Reymond ha curato delle performance riprese in stop-motion in cui degli individui in carne e ossa danno vita al remake di famosissimi games come Pac-Man, Tetris, Pole Position, Space Invaders e Pong. Non sempre si emula il linguaggio digitale arcaico attraverso tecnologie digitali più complesse. In certi casi per ottenere l’effetto pixelato è sufficiente un apparato analogico: il corpo umano [http://bit.ly/fuqhp2].

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di Patrizio Di Nicola

1.Qualche anno fa, vicino Los Angeles, entrai in un locale di una famosa catena di fast food, e la mia attenzione fu colpita da un ragazzo – in perfetta uniforme – che puliva in terra. Armato di scopettone e strofinaccio bagnato, cercava di sistemare una zona del ristorante reduce di una animata festa di compleanno di bambini. Per farlo si muoveva tra i tavolini disegnando in terra degli ampi otto, facendo oscillare il bastone a destra e sinistra con un movimento aggraziato e veloce. Sembrava, più che pulire, che stesse danzando con una partner immaginaria.

In una pausa del lavoro chiesi al giovane dove avesse imparato a usare lo scopet-tone in quel modo. La risposta fu semplice: nel “ manuale operativo” destinato ai dipendenti della catena di fast food. In quel locale (e in tutti gli altri esistenti nel mondo) le pulizie si facevano soltanto in quel modo, in quanto così si mascherava la fatica del lavoro: doveva sembrare che le persone si divertissero a passar lo straccio in terra, impegnati in una sorta di balletto. Indeciso se chi avesse avuto tale pensata fosse un genio o un diavolo, decisi di approfondire la questione, studiando meglio i sistemi organizzativi della ristorazione veloce.

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2. Ogni giorno un americano su quattro mangia in un fast food, consumando tre hamburger e quattro porzioni di patatine fritte la settimana. La McDonald’s Corporation è diventata un simbolo dell’economia americana dei servizi, dove sono stati creati il 90% dei nuovi posti di lavoro dell’ultimo decennio. L’azienda dell’Arco Dorato nel 1968 aveva un migliaio di ristoranti; oggi ne ha trentamila e ne apriva, prima della crisi, duemila nuovi ogni anno. È il brand più conosciuto al mondo, anche più della Coca Cola: il 96% degli adulti e dei bambini lo conosce.

L’eccezionale successo dell’industria del fast food ha inco-raggiato altre industrie ad adottare metodi produttivi simili; ne è derivata la “macdonaldizzazione della vita degli individui”, la distruzione di milioni di piccole aziende, l’azzeramento delle differenze locali nei gusti e nei consumi. Negozi, ristoranti e bar sempre identici si sono sparsi per il mondo come un virus. I franchising puntano a offrire esattamente gli stessi prodotti e servizi in luoghi diversi, tanto che sul costo di un hamburger si può facil-mente calcolare il costo della vita e anche l’inflazione, come

fa la prestigiosa rivista The Economist, che ha sviluppato l’in-dice Big Mac: la comparazione tra i prezzi del famoso panino in varie nazioni può essere usata per calcolare perfettamente le differenze di potere d’acquisto.

Per ironia della sorte, un’industria così conformista è stata fondata da iconoclasti self-made man, imprenditori decisi a sfidare il pensiero convenzionale. Pochi tra coloro che hanno costruito gli imperi del fast food hanno studiato all’università o hanno ottenuto un Master. Hanno invece lavorato sodo, seguendo la propria strada in maniera spesso anarchica. Per molti aspetti, l’industria del fast food incarna il meglio e il peggio del capitalismo americano: da una parte, il flusso creativo e costante di nuovi prodotti e innovazioni, e dall’altra, la standardiz-zazione di un mondo da rappresentare e costruire a propria misura, con un crescente divario tra ricchi manager e lavoratori poveri. L’industrializzazione della cucina ha infatti consentito a catene di ristoranti come McDonald’s di utilizzare forza lavoro a basso costo e non specializzata, occupando la maggioranza dei lavoratori con contratti a termine e a tempo parziale, senza benefit ed

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esercitando uno scarso controllo sul luogo di lavoro. Chi lavora in queste aziende se ne va dopo qualche mese e passa da un impiego all’altro. L’industria della ristorazione attual-mente è il maggior datore di lavoro privato in America e i salari che paga sono tra i più bassi.

3.Richard “Dick” e Maurice “Mac” McDonald’s si erano trasferiti nella California del sud all’i-nizio della grande depressione nella speranza di trovare lavoro. Avevano dapprima aperto un chiosco di hot dog; poi nel maggio del 1940, inaugurarono a San Bernardino il McDonald’s Brothers Burger Bar Drive-in, ove vendevano, per soli 15 centesimi, delle polpette cotte ai ferri. Gli affari crescevano velocemente, ma alla fine degli anni ’40 i McDonald decidono di ristruttu-rare completamente l’azienda: bisognava infatti risolvere il problema dell’alto turn-over del personale; cuochi e camerieri, non appena diventavano esperti, se ne andavano alla ricerca di ristoranti che pagassero di più. E il numero di piatti e bicchieri che i giovani inservienti (e anche i giovani clienti) rompevano aumentava in continuazione.

Così i due fratelli decisero di apportare profonde modifiche al loro business.

Anzitutto licenziarono tutti i dipendenti e chiusero il ristorante per tre mesi, introducendo un modo radi-calmente nuovo di preparare il cibo, progettato per aumentare la velocità, ridurre i prezzi e aumentare le vendite. I due terzi dei piatti del vecchio menu venne eliminato mettendo al bando tutto ciò che doveva essere mangiato con le posate e che richiedesse un piatto. La prepa-razione del cibo fu suddiviso, sull’esempio della catena di montaggio adottata nelle industrie automobilistiche, in molte mansioni eseguite da lavoratori diversi. In base a questa nuova organizzazione del lavoro, ogni dipendente doveva imparare soltanto un’operazione, e non erano più necessari costosi cuochi specializzati nella cottura rapida dei cibi. Tutti gli hamburger (che erano ormai il piatto quasi unico) veni-vano serviti con i medesimi condimenti.

Anche l’estetica del ristorante dei fratelli McDonald era rivoluzionaria. Richard progettò un nuovo edificio che doveva rendere il ristorante ben visibile dalla strada:

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businesssui lati del tetto posizionò due archi dorati illuminati al neon, che visti da lontano formavano la lettera M. Nel giro di qualche mese, man mano che si diffondeva la voce dei prezzi convenienti e dei buoni hamburger, il nuovo ristorante divenne un successo. A questo punto bisognava allargare la clientela e aprire nuovi punti vendita, utilizzando un sistema di franchising ideato da Ray Kroc, un venditore di frullatori professionali che nel 1955 entrò in società con i due fratelli McDonald’s.

4.L’introduzione della divisione del lavoro nella ristorazione si deve ai McDonald’s, ma fu il dirigente aziendale Fred Turner a creare il sistema di produzione mac-taylor-fordista. Nel 1958 scrisse per la compagnia un manuale di settantacinque pagine dove si spiegava come svolgere qualsiasi mansione. Gli hamburger dovevano essere messi sul grill sempre in sei file precise; le patatine dovevano avere sempre uno spessore di sei millimetri. Oggi il manuale operativo ha moltiplicato il numero delle pagine e pesa quasi due chili, contiene istruzioni precise su come vanno usate le varie apparecchiature, sull’aspetto che deve avere ogni prodotto del menu, su come i dipendenti debbano accogliere i clienti e come abbiamo visto anche su come si passa lo strofinaccio in terra.

La cucina di McDonald’s è sempre piena di cica-lini e luci lampeggianti che dicono ai dipendenti cosa bisogna fare, in una sorta di script da operatore di call center. Al banco i registratori di cassa computerizzati comandano l’operatore. Ricevuta l’ordinazione si accendono alcuni pulsanti che suggeriscono quali altre voci del menu potrebbero essere aggiunte. Chi lavora al banco deve cercare di aumentare le vendite consigliando le offerte speciali, invi-tando a prendere il dessert, suggerendo che è più conve-niente acquistare una bevanda di grande dimensione. Mentre fa ciò il dipendente deve essere allegro e cordiale. “Salutate con un sorriso e date una prima impressione positiva” suggerisce un manuale di addestramento di un fast food. “Mostrate che siete felici di vederli; mentre salutate affabil-mente il cliente, guardatelo negli occhi”. Il rigido inquadra-mento crea prodotti standardizzati, aumenta il rendimento e dà alle aziende un enorme potere sui propri dipendenti. Ogni lavoratore può essere sostituito con estrema facilità, e da anni il grosso della forza lavoro è composta di teenager e studenti.

5.Ester Reiter, dell’università canadese di York, sostiene che nei lavoratori dei fast food la qualità più apprezzata è l’obbedienza. A differenza che in altre industrie della produzione di massa governate dalla catena di montaggio, dove i sindacati hanno ottenuto salari più alti e migliori condizioni di lavoro, nei fast food l’organizzazione sindacale

è quasi sconosciuta. Di ciò è complice sia il continuo ricambio di manodopera, l’impiego part time e lo status sociale marginale dei dipendenti, ma anche l’impegno con cui le catene di fast food hanno combattuto i sindacati.

La McDonald’s Corporation insiste affinché i suoi affiliati seguano direttive centralizzate in materia di preparazione degli alimenti, acquisti, design del locale, e innumerevoli altri dettagli (vedi box). Le specifiche aziendali riguardano qualsiasi cosa, dalle dimensioni delle fette di cetriolo alla circonferenza dei bicchieri di carta. In materia di salari, invece, l’azienda è notevolmente deregolata, e consente ai gestori dei singoli ristoranti sparsi nel mondo di fissare gli stipendi a seconda del mercato locale del lavoro, spesso senza contratta-zione con il sindacato. Tra gli anni ’60 e ’70 i lavoratori dei McDonald’s negli Stati Uniti tentarono di sindacalizzarsi, ma con poco successo: l’azienda fece di tutto per tenere fuori i sindacati dai suoi ristoranti, sia con premi e adulazioni, sia con minacce e licenziamenti. Nel 1973 a San Francisco, nel mezzo di una vertenza sindacale, un gruppo di giovani dipendenti di un fast food affermò di essere stato costretto dai manager a sottoporsi al test della verità e a diversi inter-rogatori a proposito delle loro attività sindacali. Negli anni più recenti le cosa sono un po’ cambiate, ma non sempre in meglio: nel 2007 ad esempio la Filcams di Roma proclamò uno sciopero per protestare contro il licenziamento di un suo delegato; il quell’occasione il sindacato lamentò il pessimo “clima dei rapporti tra direzione e rappresentanti sindacali e in generale con tutti i lavoratori che pongono delle questioni”.

Il Big Mac, quindi, rischia di rimanere un piatto indigesto per chi ci lavora.

Per approfondire » E.Schlosser, Fast Food Nation,il lato oscuro del cheeseburger globale, il Saggiatore, Milano 2008.

» George Ritzer, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, Il Mulino, 1997.

» E. Reiter, Out of the Frying Pan and Into the Fryer: A study of the organization of work in the fast food industry, Montreal, McGill- Queen’s University Press, 1991

» FILCAMS-Cgil - Federazione lavoratori commercio turismo servizi, Ufficio Stampa, Comunicato del 28/6/2007.

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Estratto dal Regolamento di McDonald’s (dal sito http://www.filcams.cgil.it)[...] L’uniforme dovrà essere indossata solo in servizio e dovrà essere pulita e in ordine. La pulizia delle uniformi sarà cura e spese del dipendente. Fa parte dell’uniforme la targhetta indicante il nome del dipendente. La mancanza di tale accessorio fa incorrere il dipendente in una contestazione disciplinare. In caso di cessa-zione del rapporto di lavoro tutti i capi che compongono l’uniforme dovranno essere restituiti alla Direzione e nel caso di smarrimento, sarà addebitato al dipendente il costo dei capi mancanti. I dipendenti dovranno usare scarpe fornite da loro stessi. Esse dovranno essere di colore scuro, lucidabili, a tacco basso e munite di suola antisdrucciolo. È vietato l’uso di scarpe da tennis. L’inosservanza di tali disposizioni comporta una contestazione disciplinare.

Al fine di garantire la sicurezza di tutti i dipendenti, ed in ottemperanza alle norme sull’igiene, durante la propria attività lavorativa il personale in servizio non potrà portare anelli, orecchini pendenti, collane vistose o di grandezza inusuale. La Direzione non accetterà la prestazione da parte di quei lavoratori che si presen-tassero al lavoro con il viso non rasato, la divisa sporca, scarpe non regolamentari, aspetto trasandato e, comunque, non conforme al decoro e all’immagine degli esercizi McDonald’s. Le infrazioni alle disposizioni del presente articolo saranno oggetto di contestazione disciplinare.

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tecnologie e web

di Nadia Riccio

8°8’8’’N – 8°8’8’’WQuesta stringa di cifre (oltre ad essere un pretesto edito-riale) è un luogo. È un’area montuosa e disabitata, senza traccia apparente d’attività umana, in Guinea, verso il confine con la Costa d’Avorio. Un luogo che solo trent’anni fa non avremmo esitato a definire “sperduto”, per raggiungere il quale avremmo dovuto avanzare dotati di bussola e carta geogra-fica, col rischio di perdersi in agguato… Oggi chiunque sia dotato di un terminale connesso può ottenere facilmente varie vedute di questo luogo,

a distanze diverse, finanche dallo spazio. Eppure questo tipo di immagini, con cui interagiamo familiarmente, è il frutto di una incredibile sedimentazione tecnologica che, dall’invenzione della fotografia a quella degli aeroplani, passando poi per veicoli spaziali, satelliti e reti digitali, rende oggi possibile una forma di esplo-razione degli spazi fisici radicalmente nuova. La novità tecnologica porta con sé mutamenti decisivi a livello sociale, cognitivo, antropologico.

La nostra nozione di spazio, e l’esplorazione di esso, in precedenza erano fortemente segnate dal dato della presenza fisica. I luoghi erano primariamente attraversati, percorsi da uno sguardo “in soggettiva”, nella durata di un tempo proporzionalmente lungo.La prima straordinaria possibilità di tele-presenza (presenza nella distanza) offerta dalla riproduzione fotografica non eliminava la priorità del punto di vista, non prescindeva dalla specificità di un occhio che, attraverso l’apparecchiatura tecnica, guardava. Anche più tardi, nel caso della fotografia aerea dei luoghi, non andava perso il carattere umano dell’esperienza del vedere, del sorvolare. In buona misura potremmo considerare queste forme di visione intrinsecamente analogiche,

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ben aldilà degli aspetti tecnologici della loro realizzazione: la corrispondenza tra i luoghi e le loro immagini era infatti garantita dallo sguardo osservante.

Oggi le straordinarie navigazioni degli strumenti digi-tali intervengono ad alterare la nostra cognizione dello spazio. Sempre più spesso alla rappresentazione frontale della visione in prossimità si sostituisce l’orizzontalità della mappa. Alle rappresentazioni spaziali definite route (ovvero “entro il percorso”) si sostituiscono rappresentazioni survey (“dall’alto”) e numerosi studi di psicologia mettono in evidenza le relazioni che sussistono tra le forme di rappresentazione spaziale e le strategie d’azione che gli individui realizzano . Conosciamo i luoghi per mezzo di apparecchiature che ci offrono punti di vista “impossibili”, movimenti dello sguardo illimitati. Gli spazi restituiti dalle nuove tecnologie sono in genere degli spazi aumentati, poiché la mappa (in realtà qualsiasi mappa) è sempre carica di informazioni che vanno a sovrapporsi e a modificare il territorio descritto; la bidi-mensionalità grafica cela la multidimensionalità semantica.

Le applicazioni che intervengono a modificare le nostre percezioni spaziali sono innumerevoli. Un servizio accessi-bile e intuitivo come Google maps consente di far comba-ciare foto satellitari e indicazioni stradali, aggiungendo eventualmente riferimenti commerciali, per poi precipitarsi all’interno di una zoomata fin sui marciapiedi delle città per una passeggiata virtuale…Negli ormai diffusissimi navigatori satellitari invece la prospettiva di visualizzazione del percorso presenta un’an-golazione di circa 45° rispetto al fondo stradale, punto di

vista difficilmente realizzabile per qualsiasi automobilista.Le apparecchiature satellitari svolgono un ruolo fondamen-tale nella nostra percezione dello spazio. Se, da un lato, è possibile osservare che alla posizione dell’osser-vante si sostituisce la funzione della telepresenza, dall’altro è evidente che, a partire dalla diffusione dei tele-foni cellulari, la presenza è diventata sempre più una questione di reperibilità. Il nostro dislocarci è funzione della rete che ci individua. La divisione dello spazio in celle operata dalle comunicazioni satellitari ha un’altra importante implicazione: in base ad essa lo spazio non è più perce-pito come un continuum ma è soggetto a frammen-tazioni e a salti. Siamo davvero di fronte ad uno spazio digitalizzato, scomposto in unità minime, tecnologicamente codificato.

Volendo individuare un’origine dei processi in atto nella diffusione dei media elettrici potremmo sostenere che, in una prima fase, lo spazio fisico si è ripiegato su stesso: l’accorciamento delle distanze (ma anche il loro dilatarsi, in casi estremi) prodotto dalle tecnologie telema-tiche ha dato vita ad inattese topologie, portando a zero i tempi di attraversamento (condizione sulla quale ha ampia-mente riflettuto Virilio). Oggi la presenza, l’esserci nella sua complessità si configura come esperienza pienamente e inevitabilmente tecnologica.Non solo le bussole digitali orientano il nostro movimento, sia fisico che virtuale, ma noi stessi, oltre ad agire a distanza negli innumerevoli modi possibili, ci sentiamo spinti a ratificare tecnologicamente anche la nostra presenza fisica, la nostra azione nei luoghi (pensiamo al compulsivo aggiornamento degli status sulle piattaforme dei social network o alla dimensione solo apparentemente ludica di applicazioni come Foursquare o Places di Facebook ).

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di Alessandra Colucci

Impossibile dedicare un’uscita di Brand Care magazine al numero 8 senza parlare della marca che lo “incorona”, Chin8Neri: un marchio elegante nella sua semplicità che mette in risalto l’8 sin dall’inizio della sua storia ponendolo in rilievo sulle bottiglie in vetro da 20 cl. della famosa bevanda e dando vita a un brand storico del Made in Italy.Ma andiamo con ordine...

Cos’è il Chin8? Un agrumeSulle origini del chinotto non c’è una versione ufficiale: c’è chi dice che deve il suo nome alla Cina, sua terra “natale”, dalla quale venne importato tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 da un livornese o savonese; c’è chi

lo vede originario del Mar Mediterraneo a seguito di una mutazione gemmaria dell’arancio amaro, anche perché attualmente non v’è notizia di alcun “avvistamento” di chinotti nei Paesi asiatici, ma solo in Liguria, Toscana, Sicilia, Calabria e, in qualche raro punto della Costa Azzurra francese.Quel che è certo è che il Citrus Myrtifolia, per gli amici chinotto, ha l’aspetto di un alberello che può raggiungere al massimo i 2 o 3 metri di altezza, senza spine (contrariamente agli altri citrus), con pochi rami carichi di foglie piccole, folte e scure che ricordano quelle del mirto (da qui il nome latino myrtifolia).

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Quando la pianta fiorisce si riempie di candidi fiori molto profumati simili alle zagare del limone o ai fiori d’arancio.I frutti del chinotto sono simili a quelli del mandarino per forma, dimensioni e colore, crescono a grappolo e matu-rano intorno a metà giugno, ma pare che possano rima-nere attaccati al ramo anche per due anni. I chinotti sono famosi per il loro succo amaro e acido che fa ritenere ad alcuni che non siano commestibili.

Cosa si fa con il Chin8?Se pensiamo al chinotto solitamente pensiamo a una bevanda gassata, ma durante la mia ricerca ho scoperto che tutte le parti della pianta possono essere utilizzate in modi diversi: facendo bollire due grammi di fiori di chinotto essiccati in un litro d’acqua per 10 minuti e aggiungendo un po’ di miele per dolcificare il tutto pare si ottenga un ottimo rimedio per l’insonnia; versando dell’acqua calda sulle foglie essiccate e lasciando ripo-sare l’infuso per alcuni minuti sembra invece si possa creare, dopo averlo reso “bevibile” aggiungendo miele o zucchero, un buon digestivo da consumare appena dopo i pasti; lasciando macerare in cento grammi di vino bianco tre grammi di scorza di chinotto essiccata, filtrando e servendo il risultato fresco di frigo, qualcuno dice si possa assaporare un originale aperitivo per stimolare l’appetito dei commensali.

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marketingIl primo utilizzo del chinotto, però, pare sia stato come dolce: i frutti venivano messi in salamoia e venduti in mastelli di legno pronti per essere canditi. Con l ’af fermarsi di una vera e propria indu-stria per trattare tale agrume sulla riviera di ponente tra ‘800 e ‘900, dai fiori, dalle scorze e dalle foglie si iniziò a estrarre anche un olio usato in profumeria e, nel 1932 la San Pellegrino pare sia stata la prima azienda a trasformare l’agrume dal gusto amarognolo in bevanda.

Il brand storico del Chin8: NeriI fasti del chinotto in forma di bibita li dobbiamo però a Pietro Neri che, appena trentenne, nel 1949 decise di fondare un’azienda a Capranica (in provincia di Viterbo) per produrre una bevanda dissetante che somigliasse per colore alle bevande Made in USA (leggi Coca Cola)

presenti anche in Italia dal dopoguerra, ma scelse per il suo prodotto un sapore

originale, quello del particolare agrume per l’appunto.

Nacque così il Chin8Neri e venne commercia-lizzato in maniera del tutto innova-tiva incontrando sin da subito i favori del pubblico: distribuito in una bottiglietta

di vetro che non presentava etichetta

affinché mostrasse intera-mente il liquido scuro che conte-

neva, era contraddistinto dalla scritta “Chin” seguita da un grosso

“8” in rilievo sul vetro. Il lancio della nuova bevanda venne supportato da una campagna di pubblicità dinamica: bellissime automobili americane – Cadillac, Chrysler e Plymounth – sovrastate da enormi riproduzioni 3D in plastica delle bottiglie di Chin8Neri solcavano le strade delle città italiane. Il successo fu tale che al Chin8 seguirono immediatamente l’Aranciosa, la Gassosa e il Limoncedro.

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Quando non c’era ancora la televisione in Italia, il cinema, la radio, i manifesti e gli altoparlanti urlavano lo slogan che appoggiava tutti i prodotti dell’azienda “Se bevi Neri, Ne ribevi”, frase di grande effetto e suggestione che i consu-matori iniziarono a utilizzare e a scambiarsi l’un l’altro come un innovativo “cin-cin”. Con l’avvento della TV i quattro prodotti vennero presentati tutti insieme all’interno di Carosello, famigerato contenitore pubblicitario di quel periodo, con lo spot che lanciò un altro claim che ha fatto la storia (e anche il titolo di questo articolo) “Non è Chinotto, se non c’è l’8” [http://bit.ly/5v73k]. “Classiche” scene di italiani, adulti e bambini, ritratti durante i propri momenti di relax – in piscina, al mare, in feste danzanti, in campagna – mentre bevono le bibite Neri, il tutto condito dalla presenza di tre finti uomini di colore e da un’orecchiabile canzoncina.Fu così che il Chin8Neri conseguì, dal dopoguerra e per tutti gli anni ‘50 e ‘60, una grandiosa notorietà e diffusione lungo tutto lo Stivale, facendosi beffa del suo principale concor-rente – nonché precursore – San Pellegrino.

Successivamente la corona Neri perse la sua lucentezza, soprattutto per la mancanza di investimenti industriali, sino a quando, nel 2000, l’azienda, il marchio e lo stabili-mento di produzione vennero rilevati da un gruppo di imprenditori campani dotati di notevole know-how del

settore (già produttori in Italia di Pepsi Cola e altre bevande) che si ripromettevano, ricominciando ad investire, di riper-correre le glorie del passato, forti della tradizione di qualità che ancora persisteva (e persiste) nel vissuto dei consuma-tori e continuando a mantenere il Chin8Neri completamente Made in Italy, cioè prodotto esclusivamente con sostanze provenienti dal territorio nazionale.

La ricetta e la filiera produttiva di Chin8NeriA quanto pare i nuovi proprietari del marchio e dello stabi-limento di Capranica non hanno voluto variare la ricetta originaria dell’analcolico scuro, frizzante e amarognolo. “La ricetta è la stessa di allora – garantisce Vincenzo Franchini – con acqua, zucchero, anidride carbonica, estratto del frutto del chinotto, aromi. […] Non è una bevanda “colorata” densa di aromi ma un estratto di chinotto, frutto che appartiene alla famiglia degli agrumi originario della Cina ma ancora oggi coltivato anche in Italia, nella zona di Savona in Liguria – dove è Presidio Slow Food dal 2004 – e in Sicilia” [fonte nuovoconsumo.it]

Leggendo qui e là scopro su nuovoconsumo.it anche come viene prodotto il Chin8Neri. Cito:Tra tini, torchi e alambicchi si snoda il lungo processo di produzione del chinotto. A cominciare dall’estrazione per infusione in soluzione idroalcolica del frutto proveniente

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dalla riviera ligure (presidio di Savona) e delle erbe offici-nali rabarbaro, genziana, china, cannella, chiodi di garofano, arancio dolce e amaro, quassio, timo, tamarindo in appositi tini. Dopo lunga miscelazione si procede al recupero della parte liquida dai tini, mentre le erbe, sempre per recupe-rare il liquido, vengono pressate in torchi idraulici simili a quelli utilizzati per spremere l’uva o distillate a bassa pressione in veri e propri alambicchi.Si lascia poi decantare il liquido recuperato, si filtra e s’im-merge, con gli altri ingredienti, in una soluzione neutra di acqua e zucchero per ottenere lo sciroppo. “Lo zucchero è il tradizionale saccarosio, non utilizziamo dolcificanti sintetici, né conservanti”, puntualizza Enzo Fabbrizi, responsabile di produzione del Chinotto Neri. Lo sciroppo viene poi sotto-posto al trattamento termico della “flashpastorizzazione” tramite innalzamento della temperatura fino a 90° C per 45 secondi seguito da repentino raffreddamento fino a circa 20 gradi centigradi; una doccia scozzese che assicura il neces-sario abbattimento microbiologico. Il concentrato pastorizzato o sciroppo finito è, infine, stoccato in serbatoi provvisti di

agitazione ad elica che mantengono l’omogeneità del semi-preparato prima che venga miscelato ad acqua trattata e gassata e infine imbottigliato. Di certo non mancano i controlli di qualità, igiene e sicurezza. [...]Un processo produttivo completamente automa-tizzato che avviene ancora all’interno dello storico stabilimento di Capranica (VT) – dove il Chinotto Neri è nato nel 1949 – sotto la supervisione di una dozzina di dipendenti, se si escludono gli stagionali, che tengono costantemente sotto controllo la produzione di una delle bevande analcoliche di maggior seguito tra le giovani generazioni degli Anni Cinquanta-Sessanta.

Il brand Chin8NeriDopo aver tentato, per qualche anno, di rilanciare il Chin8Neri con un nuovo marchio che metteva in risalto, oltre all’8 anche il frutto a cui la bibita deve il suo sapore amaricante, nel 2010, anche Chin8Neri non ha saputo resistere al richiamo del vintage e del heritage marketing che già aveva colpito numerose aziende italiane,

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così la bevanda gassata preferita dai giovani degli anni ‘50 e ‘60, torna al suo marchio originario, ovviamente sapientemente reso più moderno e accattivante grazie a un restyling: “Abbiamo fatto un restyling del marchio nel rispetto di quello originario, un po’ come ha fatto Vespa – spiega Massimiliano Maione che si occupa dello sviluppo del brand. La ricetta del chinotto è quella di un tempo, l’immagine è rinnovata, per andare incontro a un pubblico giovane, sempre più attratto dallo stile vintage” [fonte gamberorosso.it] “Abbiamo affidato il restyling della linea a una nota agenzia di design che ha riproposto il nuovo marchio, sobrio e raffi-nato con la scritta giallo oro sullo sfondo scuro della bibita – spiega Vincenzo Franchini, direttore commerciale di IBG SpA – riappropriandosi dell’immagine storica con l’otto e la corona che identificava il prodotto negli anni Cinquanta-Sessanta” [fonte nuovoconsumo.it] A quanto pare se una cosa funziona è meglio non cambiarla: c’è l’8 bene in vista nel nuovo marchio, anche se riprodotto su un’etichetta, e riappare anche la scritta “Chinotto per davvero. Dal 1949”. Il recupero della storia di prodotto e dell’azienda, degli elementi di design che contribuivano a determinarne l’imma-gine e la percezione nella mente dei consumatori, sempre più spesso, infatti, vengono utilizzati per testimoniare ill mante-nimento della promessa fatta dal brand all’inizio: sinonimo di qualità, di trasparenza, di affidabilità, il passato viene riscoperto come uno dei valori aggiunti o addirittura come vantaggio competitivo di marca.

Peccato che il resto dell’impianto comunica-tivo non sembra sia stato curato quanto il restyling del marchio...Il sito chinottoneri.it è in linea con la nuova identità coordi-nata, ma presenta pochissimi contenuti rispetto a quelli che ci si aspetterebbe di trovare in relazione ad un prodotto che esiste da così tanto tempo.Per quanto riguarda le altre risorse online, la situazione appare ancora più trascurata: il Canale YouTube del brand ha un solo aggiornamento risalente ormai al lontano 2008; la pagina Facebook ufficiale (a cui non è stata neppure “ripulita” la url dopo il venticinquesimo contatto) presenta ancora il marchio precedente ed è ferma del 31 dicembre del 2009; nessuna presenza – per quanto ho potuto vedere – su altri social network. Eppure su Facebook sono molte le FanPage che sono state create spontaneamente dagli amanti del Chin8Neri e dai sostenitori della marca, un potenziale che andrebbe gratificato e supportato con delle azioni comunicative mirate.Di campagne pubblicitarie, eventi o simili per dare visibilità alla nuova veste grafica del brand, a parte qualche intervista e post, non ho trovato nulla e non ne ho neppure memoria, pur avendo seguito le vicende Chin8Neri negli ultimi anni (sono una consumatrice anch’io, seppur sporadica).

Un vero peccato perché si potrebbe veramente rendere la storia del brand elemento centrale della sua comunicazione traendone enormi vantaggi in termini di riconoscibilità, visibilità e fidelizza-zione. Per fare un piccolo esempio, si potrebbe costruire un archivio di materiale storico da cui gli appassionati del prodotto possano attingere immagini storiche, video e podcast dei vecchi jingle, basterebbe costruire e ricostruire in maniera coerente e strutturata la narrazione delle vicende di questo tanto amato prodotto e della sua casa produttrice.

Soprattutto in un periodo di crisi economica e valoriale come quello che molti soggetti di mercato stanno attual-mente attraversando, questo approccio al marketing pare stia avendo notevole successo dato che offre alle aziende come Chin8Neri la possibilità di: far riferimento a periodo storico più positivo per loro; “significare” forza, tenacia, abilità nel superare le difficoltà; garantire qualità e originalità per i propri prodotti; sottolineare la “crescita”, il progresso, l’utilizzo delle tecnologie; evidenziare il proprio modo di innovare e rinnovarsi senza perdere riconoscibilità; costruire sinergie con i propri consumatori utilizzando i mezzi che oggi offre il marketing relazionale.Le strategie di heritage marketing che si possono creare sono molteplici e il riesaminare il proprio trascorso storico può condurre alla creazione di un proprio percorso di storytelling e alla scoperta di nuove connessioni e contaminazioni, elementi quanto mai importanti nella riaffermazione o ridefinizione del proprio valore aggiunto.

Per approfondire

Chin8Neri » http://www.chin8neri.it/ » http://www.youtube.com/user/ChinottoNeri » http://www.facebook.com/pages/Chinotto-Neri/29707147608 » http://www.chin8neri.it/

Fonti: » http://www.chinotto.com/ » http://www.cpenti.it/chinotto/ » http://www.chinotto.net/ » http://it.wikipedia.org/wiki/Chinotto_Neri » http://www.nuovoconsumo.it/made-chinotto

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business

di Elena Franco

Le nostre giornate possono ritenersi spaccate in tre “tronconi” da 8 ore, lo dice la teoria: 8 ore dedicate al lavoro, 8 ore per dormire (la quantità di tempo necessaria al nostro corpo per rigene-rarsi completamente) e le restanti 8 ore per poter coltivare i nostri interessi e svagarci.Ma questa suddivisione della giornata funziona?Per capirlo, osserviamo una giornata tipo di una persona che lavora in città dal lunedì al venerdì.

LavoroIl tempo da dedicare al lavoro sarebbe un terzo della nostra giornata, infatti in ufficio il lavoratore full time deve rimanere 8 ore per contratto. A queste però va aggiunta mediamente almeno mezz’ora per arrivare in sede, altrettanto per tornare, e un’ora minimo da dedicare alla pausa pranzo.A conti fatti, dunque, anche considerando i tempi al minimo, le 8 ore da dedi-care al lavoro diventano improvvisamente 10 (nel migliore dei casi, ma molto più spesso 11 se non addirittura 12).

SvagoSvagarsi, staccare dal lavoro, è una cosa necessaria. Secondo lo schema di cui sopra, teoricamente allo svago si dovrebbe dedicare lo stesso tempo che al lavoro, ma in questo tempo rientra anche la colazione, la pulizia personale e la cena (come minimo).

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Facendo il solito conto spannometrico, per fare colazione in modo “decente” (quindi non limitandosi a un caffè-latte bevuto di corsa) dovremmo spendere una mezz’oretta (che comprende la preparazione della colazione stessa e il riordino della cucina subito dopo averla consumata) e un’altra ora (abbondate, direi) va via per la cena.Alla pulizia personale, invece, tra mattina e sera, si dedica almeno un’ora (o anche di più, dipende dai giorni e dalle persone) a cui dovremmo aggiungere anche le doverose “tappe” in bagno che, escludendo quelle in ufficio che rien-trano comunque nell’orario di lavoro, possiamo stimare in una media di mezz’ora al giorno (conto pessimistico ovviamente).Un’altra oretta quotidiana la possiamo inserire in questa categoria come “jolly”, comprendendo compere, telefo-nate di amici, e tutte quelle cose che non facciamo ogni giorno ma che comunque prendono prezioso tempo.

A questo punto, possiamo dire che 4 delle teoriche 8 ore da dedicare quotidianamente allo svago vengono spese per attività che svago proprio non sono. Ne resterebbero così ulteriori 4 in cui guardare un film, leggere un libro, o anche semplicemente rilassarci senza pensare a nulla.

SonnoIn uno scenario di questo genere, se ammettessimo di voler dedicare 8 ore al giorno al sonno, la nostra giornata sarebbe praticamente finita, e solo “tagliando” minuti – o più facilmente mezz’ore – al riposo quotidiano possiamo quindi riuscire a ritagliarci qualche momento extra per divertirci veramente (o per far fronte a qualche “emergenza”).

A conti fattiSe consideriamo giornate particolarmente stancanti, in cui usciamo di casa alle otto del mattino per tornarci solo alle otto di sera (situazione comune a molte persone), ci restano solo 12 ore per sonno e svago, quindi, seguendo la precedente schematizzazione, il tempo da dedicare a veri e propri passatempi risulta essere variabile da zero al numero di ore che decidiamo di togliere al prezioso sonno ristoratore.

La spesa e le commissioniI precedenti conteggi si riferiscono ovviamente a giornate infrasettimanali, e sembrano presupporre che difficil-mente si possa riuscire a trovare il tempo per “fare la spesa” nelle giornate lavorative: alle 19:00 i negozi sono pieni e alle 20:00 addirittura chiusi (se escludiamo i centri commerciali, che però difficilmente sono vicini a casa o al nostro ufficio), per non considerare il fatto che trovare la voglia di fare compere dopo una giornata di lavoro pare essere altrettanto arduo. Se quindi accettiamo di fare

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businessla spesa nel fine settimana ci troveremo a dedicare a questa attività del tempo che andrà ad erodere quelle 32 ore di “non-sonno” del week-end. Fare la spesa nel fine settimana, si sa, è un delirio. I centri commerciali sono pieni, e non sempre è sufficiente una visita al supermercato, dato che ci potrebbe essere bisogno di comprare anche altro.Se, per ottimizzare i tempi, decidiamo di andare al centro commerciale più vicino per comprare il necessario, difficil-mente ce la caveremo con meno di 4 ore, comprensive di carico/scarico, e di passeggiata per il centro commerciale per rilassarci.

Il Fine SettimanaAnche il sabato e la domenica, ovviamente, abbiamo neces-sità di dedicare tempo alle nostre necessità principali: spenderemo un paio d’ore al giorno nella stanza da bagno (un bagno più lungo nel fine settimana è rilassante), un’o-retta al giorno alla colazione, e il tempo dedicato a pranzi e cene spesso aumenterà, dato che usciremo con gli amici e, magari, andremo a pranzo dai parenti. Sempre per essere spannometrici e volendo generalizzare, il pranzo del sabato potrà prendere un’ora e mezza, la cena del sabato con amici comprenderà anche l’aperitivo e un dopocena (arrivando a 4 ore, forse anche di più), mentre il pranzo della domenica sarà dedicato ai parenti, togliendoci la bellezza di 3 ore (tra spostamenti, pranzo e debite chiac-chiere con i persone che si aspettano di essere aggiornate sulla nostra settimana lavorativa). Fortunatamente si torna quasi alla norma con un’ora circa per la cena.Totale: 15 ore e mezza.Restano quindi (per ora) 12 ore e mezza nel fine settimana, tutte per noi. Forse.

Panni sporchi e pulizie domesticheSiamo arrivati ad avere 16 ore, concentrate nel fine setti-mana, per fare quello che più ci piace, ma non abbiamo ancora pensato alla casa, che deve essere pulita, né ai panni da lavare, stendere e stirare, azioni che probabilmente releghiamo al week-end proprio perché durante la settimana lavorativa vogliamo rilassarci un po’ almeno la sera.Pulire i pavimenti e spolverare è qualcosa che dobbiamo cercare di fare con una certa regolarità e, per un apparta-mento “medio”, possiamo prevedere un minimo di 3 ore da dedicare nel week-end a rassettare, pulire il bagno e la cucina, e lavare i pavimenti.Il tempo necessario per una lavatrice si limita (fortuna-tamente) al tempo per caricarla e stendere i panni, dal momento che la lavatrice non ha bisogno della nostra assi-stenza per funzionare, ma stirare una lavatrice può prendere anche un’ora, e i minuti necessari per caricare la lavatrice, scaricarla, stendere e mettere via i panni dopo la stiratura si può “arrotondare”, diciamo, a mezz’ora.

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Siamo così arrivati ad avere solo 8 ore per noi, 8 ore da dedicare esclusivamente alla nostra persona.

8 Ore per Noi!Penso di aver inserito in questo schemino tutto quello che una persona che lavora in ufficio può fare nella sua settimana e, anche se i conti non sono perfetti (sono calcoli approssi-mativi, basati sulle attività che bene o male facciamo tutti) quello che sembra risultare è che di svago vero e proprio, in una settimana, restano solo 8 ore.8 ore come quelle che dedichiamo quotidianamente al lavoro…8 ore come quelle che dovremmo dedicare quotidianamente al sonno… Ma non bisogna disperare.

OttimizzazioneCome per andare al cinema possiamo approfittare del multisala del centro commerciale per risparmiare il tempo necessario ad arrivarci, possiamo ottimiz-zare varie altre attività della nostra giornata e della nostra settimana. Se ad esempio viviamo o lavoriamo vicino a un supermer-cato o a un centro commerciale, possiamo fare la spesa dopo l’ufficio, risparmiando parte del tempo necessario agli spostamenti e, magari, evitando la “folla” del fine settimana.Possiamo fare alcune commissioni anche durante la pausa pranzo dell’ufficio o utilizzarla per incontrare qualche amico che lavora dalle nostre parti o passa di là.E questi sono solo alcuni esempi.

MultitaskingUn’ultima cosa che può aiutarci a dedicare più tempo a noi stessi è il “Multitasking”, ovvero la possibilità di fare più cose nello stesso momento.

Se non tutto è fattibile, resta comunque possibile leggere un libro o fare telefonate quando ci troviamo sull’autobus per andare in ufficio o tornare a casa; possiamo guardare un film mentre stiriamo (cosa che fa pesare anche meno l’attività); possiamo ascoltare musica o cantare mentre facciamo le pulizie domestiche (oppure, perché no, assu-mere una donna delle pulizie per prenderci davvero tutto il nostro tempo). Oltretutto una buona quantità di commissioni e spese varie si può effettuare, risparmiando tempo, utiliz-zando internet per i nostri acquisti (grazie a Esselunga. o altri brand simili, è anche possibile farsi recapitare la spesa comodamente a casa).

Ma… e i Liberi Professionisti?Durante la stesura di questo articolo, ho ovviamente pensato anche a chi lavora in proprio, ma per loro è più difficile generalizzare. Queste persone spesso non hanno un vero e proprio ufficio, ma lavorano a casa o presso diversi clienti nell’arco della settimana. Il libero professio-nista, inoltre, non ha un orario lavorativo fisso e facilmente si troverà a lavorare più di otto ore nell’arco della singola giornata. In questi casi il problema non è solo ottimizzare, ma soprattutto cercare di non andare troppo oltre le normali 8 ore lavorative giornaliere, o quantomeno di non farlo per troppe giornate consecutive.Il vero vantaggio, però, lavorando a casa propria, è che è possibile utilizzare più spesso il multitasking e risparmiare, quantomeno in alcune giornate, sui tempi di spostamento.

E voi, che ne pensate? Riuscite a ricavare più di 8 ore di “vero svago” nella vostra “settimana tipo”? Se sì, come?

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comunicazione

di Giacomo De Biase

Il tempo è da sempre un concetto indagato e notevolmente considerato nelle diverse discipline scientifiche. Insieme allo spazio risulta essere una delle due variabili fondamentali per definire e determinare le dinamiche di fenomeni fisici, ambientali e sociali. Può essere interpretato, infatti, sia in chiave crono-logica (e quindi come successione di eventi), sia in una prospettiva ambientale (ossia come dimensione climatica e meteorologica). Da un punto di vista etimologico, il termine tempo deriva dal latino tempus, che taluni ravvicinano al sanscrito “tàpas”, che significa calore, attribuendo quindi al termine la nozione primitiva di atmosfera; altri però accostano il termine al lituano “tempti, tampyti”, ovvero al

significato di distendere, con un’evidente richiamo alla nozione di esten-sione o durata; ed altri ancora, infine, si riferiscono alla stessa radice del greco tem-no, che significa separo, divido e che di fatto conduce all’idea di sezione, periodo, epoca, stagione.

Al di là di ogni definizione, è senza dubbio vero che sono stati in molti a domandarsi quale ruolo abbia il tempo e come effettivamente si possa definire.Anche Sant’Agostino si interrogò senza indugi: “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”. A significare, quindi, che il tempo è una dimensione complessa e sfaccettata: leggibile da diverse prospettive, assume una dimensione individuale, ed anche sociale. Da una prospettiva sociale il tempo appare sin dal principio come una dimen-sione condivisa e vissuta nella pratica umana da un preciso gruppo storicamente e culturalmente determinato.La categoria tempo assume allora una funzione di coordinamento e di inte-grazione: è un vero e proprio accordo per determinare i rapporti stabiliti tra i

OvverO COme si È giunti a deClinare il tempO al plurale

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membri di un dato gruppo sociale. Ma la sua natura e le sue funzioni sociali mutano secondo il contesto di riferimento, con la conseguente necessità di una declinazione plurale, potenzialmente infinita di questo concetto.

Si deve alla filosofia un’importante primo contributo nella definizione della natura del tempo riconducibile a due posi-zioni polari e contrapposte.Da una parte una concezione oggettivistica che defi-nisce il tempo come un dato oggettivo, che si distingue dagli altri oggetti naturali solo per il fatto di non essere percepibile a livello sensibile. È Isaac Newton l’esponente di riferimento di questa corrente di pensiero. Dall’altra una visione soggettivistica che ha visto nel tempo una sorta di sguardo unitario sui fenomeni, dipen-dente dalla particolarità della coscienza umana, dello spirito umano, della Ragione. Hanno seguito questa direzione prima Cartesio e poi soprattutto Kant, al quale si deve la definizione di spazio e tempo come forme innate dell’esperienza e dati immutabili della natura umana.Norbert Elias, con il suo Saggio sul tempo, offre un punto di vista alternativo ai due paradigmi che hanno dominato

la scena filosofica fino in epoca moderna. La sua critica si rivolge alla caratteristica della filosofia della conoscenza di “dare per scontato che vi sia un universale punto di partenza che si ripete costantemente, che vi sia una specie di punto d’inizio della conoscenza. Ogni individuo si presenterebbe completamente solo al mondo, soggetto davanti all’oggetto, ed inizierebbe a conoscere”. Assunto questo che porterebbe le due teorie sopracitate a essere figlie della stessa visione che scinde uomo e natura come due realtà irriducibili: da una parte la soggettività dell’uomo e dall’altra l’oggettività della natura.La sua ricerca sul tempo invece fornisce un’immagine diversa: non più contrapposizione uomo/natura, soggettivo/oggettivo, bensì uomo nella natura, idea che ridefinisce la realtà come frutto della rela-zione umana e che non esiste in mancanza di essa.

A questo punto si potrebbe obiettare che il tempo esiste a prescindere dall’uomo e che a testimonianza di ciò egli attinge “al tempo” attraverso la sua misurazione.Se rispetto al singolo individuo questo è relativamente vero, così come, ad esempio, risultano relativamente vere le mede-sime considerazioni relative ai concetti di cultura e di

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comunicazionelinguaggio, diversa è la questione se le stesse considerazioni vengono fatte riguardo alla società in generale.Infatti tempo, cultura e linguaggio sono concetti che acquistano significato solo in quanto condi-visi, realizzati all’interno di una comunità di esseri umani. E se il linguaggio ha la funzione di far comunicare (condi-videre significati) gli uomini e la cultura quello di creare un immaginario collettivo condiviso, la funzione del tempo per la società è quella di sincronizzare tra loro gli uomini nello svolgimento delle loro attività. Il tempo diventa così “il quadro di riferimento che consente agli uomini di un certo gruppo, e poi da ultimo all’intera umanità, di erigere, all’interno di una serie continua di cambiamenti del gruppo di volta in volta preso a riferimento, delle riconosciute pietre miliari, oppure consente di confron-tare una certa fase di un tale flusso di avvenimenti con le fasi di un altro e molte altre cose ancora” (Elias). La sua determinazione riposa sulla capacità dell’uomo di collegare tra loro due o più sequenze di cambiamenti continui, di cui uno funge da unità di misura. E così oggi viene misurato dai comuni orologi come in passato veniva determinato dalle clessidre.

In questo senso il tempo è un mezzo di orientamento che viene appreso e che si è evoluto dalle origini dell’umanità ad oggi e quello che si è visto nelle società più industrializzate è stato che, crescendo complessità e varietà di relazioni tra uomini, è aumentata l’importanza della deter-minazione del tempo come funzione di sincronizzazione tra le diverse attività. Oggi il calendario appare come naturale, in realtà la sua storia (il primo a istituirlo fu Giulio Cesare) mostra come si sia ricorsa a questa forma di determinazione temporale per rispondere al bisogno di sincronia che cresce al crescere dalla complessità di una società.Così da una forma che a noi appare “grezza” come l’osser-vazione degli astri che dava il tempo ai nostri antenati di quando seminare un campo si è giunti ai giorni nostri all’orologio, cioè ad un tempo più parcellizzato e continuo, strumento fondamentale di orientamento e sincronizzazione. E come noi non ce ne facciamo nulla con la luna, in un passato remoto non avrebbe avuto senso l’esistenza dell’orologio.

Il non tenere conto di questo, afferma Franco Ferrarotti, è stato per esempio un fattore determinante nel fallimento del

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percorso di modernizzazione dei paesi emergenti, infatti spesso le società occidentali non hanno consi-derato la particolarità “temporale” dei contesti dove hanno promosso la diffusione di pratiche socio-economiche.È importante evidenziare come l’ambiente urbano-industriale e il mondo contadino siano due contesti profondamente diversi, che vivono tempi diversi. Nella nostra società il tempo è considerato una merce rara che l’uomo gestisce grazie a calendario e orologio. In mancanza di questi sarebbe impossibile compiere la maggior parte delle attività che facciamo nell’arco della giornata e della vita. La divisione del lavoro e l’interdipendenza delle varie attività svolte sono possibili grazie alla sincronizzazione che viene attuata dall’orologio. L’uomo della modernità fa un’opera di autocostrizione nel piegarsi alla “dittatura dell’orologio” al fine esistere/resistere nel suo contesto. Si è per esempio osservato che più una società è tecnicamente progredita, meno è contemplato il concetto di ritardo a un appunta-mento. Se a New York non esiste presentarsi con più di un quarto d’ora di ritardo, da noi in Italia se ci si tiene sotto l’ora spesso la cosa passa quasi come normale.

Nella cultura contadina le cose stanno ben diversamente. Diversi resoconti socio-antropologici hanno evidenziato che in quelle società non esiste il concetto di fretta, il tempo viene speso (o “buttato” secondo il nostro punto di vista) senza viverlo come una risorsa rara, da conservare. Non esiste alcuna autocostrizione a riguardo poiché è il tempo della natura, esterno all’uomo, che tutto regola e indirizza. L’individuo non deve sincronizzarsi né con i suoi simili, né con la natura perché fa parte di essa e con la quale è un tutt’uno. Come già accennato non ha bisogno dell’orologio e non ne capirebbe neanche il significato.

Nella modernità la diffusione capillare dell’orologio (inteso come strumento condiviso dalla comunità di misu-razione del tempo) nei luoghi pubblici come nel più intimo privato è insieme un vincolo e una risorsa. Vincolo perché la divisione del lavoro porta con sé l’interdipendenza della forza lavoro e quindi opera una pianificazione produt-tiva al fine di ottimizzare le risorse (forza coercitiva). Risorsa in quanto al singolo si aprono nuove possibilità. Emerge, quindi, il tempo privato. Questa dimensione fino all’avvento del mondo moderno è stata sostanzialmente negata

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comunicazioneall’uomo comune: il tempo privato era un’appendice del tempo che l’uomo dedicava alle attività per il sostentamento di sé e della sua famiglia, un tempo residuale, mai determi-nato, lacerato continuamente dalle diverse necessità/attività.La situazione cambia proprio nel momento in cui il tempo del lavoro (pubblico) viene a essere regolato rigidamente da calendario e orologio. Poiché se da una parte subisce la costrizione dell’orario di lavoro, dall’altra ha la possibilità di strutturare e organizzare il proprio tempo individuale per dedicarsi a se stesso, sincronizzarsi con gli altri, prevedere e programmare le proprie azioni, il proprio futuro.Il futuro appunto. Nella cultura arcaico-contadina praticamente non esiste, o meglio: non è cosa di cui si deve occupare l’uomo. Il tempo è dettato dalla natura e l’uomo è guidato nel suo agire dall’alter-narsi delle stagioni, del giorno e della notte, la pianificazione non è possibile, manca la continuità, non ci sono riferimenti.

Non bisogna però credere che la sincronizzazione degli individui e la “minuziosa” regolazione del tempo sia una prerogativa della società industriali moderne. Fa notare Ferrarotti, infatti, come siano diverse le circostanze nella storia che vanno in questa direzione: l’Im-pero Romano e la gestione del proprio territorio o la Regola benedettina, ad esempio.Nel primo caso l’espansione dell’Impero dovuta alle conquiste di terre straniere fu accompagnata dalla costru-zione di strade, acquedotti, infrastrutture e dalla diffusione del diritto romano tra i popoli sottomessi. Questa, che può

essere considerata un’opera di sincronizzazione in fieri, è una delle chiavi del successo degli Antichi Romani nel gestire terre spesso lontane e nel sottomettere popoli profonda-mente diversi.Nel secondo la regola benedettina “Hora et labora” anti-cipa le forme di organizzazione temporale delle moderni complessi industriali odierni. Grazie ad un preciso orario che fissa e dà ordine alle diverse attività giornaliere la vita dei monasteri si scinde da quello che si può chiamare “tempo naturale” rendendo possibile pianificazione e coordinamento produttivo, e attuando un marcato e nuovo (per i tempi) controllo sociale e personale.

Nelle società industriali la natura istituzionale del tempo conduce all’interiorizzazione nell’individuo di pratiche e consuetudini della temporalizzazione delle attività che, agendo nel profondo dell’io, relega alla marginalità il fatto che gli attori si rendano conto coscientemente della sincro-nizzazione che stanno attuando. La sincronizzazione risponde a una necessità funzionale, oltre che come fattore di orientamento e coordinamento, anche come elemento normativo. Eviatar Zerubavel si concentra proprio su questo, indagando in che misura le norme temporali determinano il comportamento umano. La durata prestabilita delle azioni sociali è necessaria non solo per motivi di carattere funzionale, ma in quanto quadro di significati socialmente condivisi in grado di permettere all’individuo di agire all’interno della realtà stessa. Centrale è la natura coercitiva della temporalizzazione che solo una

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volta introiettata assume per il singolo il significato di abitu-dine. Non c’è spazio per la contrattazione tra uomo e norma temporale e anche il senso comune non affronta criticamente i capisaldi della vita organizzata.

La realtà cambia nel passaggio dalla società industriale alla società post-industriale. Accanto alla sincronizzazione, infatti, sembrano emer-gere processi di de-strutturazione e de-sincronizzazione e si assiste così alla frantumazione della concezione monolitica di tempo a favore della comparsa di una pluralità infinita di tempi.Il fenomeno dipende innanzitutto dalla necessità di avvi-cendamento temporale dovuto alla crescente complessità e interdipendenza dei diversi aspetti delle attività umane. Si basa su una logica che intende il tempo come una succes-sione integrata dove lo svolgimento di un lavoro di una data struttura dipende dal lavoro svolto da un’altra. Il tempo del lavoro si svincola da tempi e ritmi biologici a favore di una maggiore integrazione produttiva. Nel mondo industriale la possibilità di far lavorare i macchinari a ciclo continuo dà la possibilità di articolare maggiormente gli orari di lavoro al fine di sfruttare più tempo possibile.Altro elemento di de-sincronizzazione è costituito dalle forme di contratto di lavoro che hanno cominciato a diffon-dersi dagli anni 70. Forme di lavoro flessibile nascono, oltre che per venir incontro alle esigenze produttive, anche a seguito della maggiore attenzione ai servizi per la persona, che ha incoraggiato il diffondersi di ritmi temporali di lavoro più variegati e sicuramente più frammentati. Riguardo la diffusione del lavoro flessibile è interessante accennare brevemente che la precarizzazione del mercato del lavoro alla quale si assiste oggi, in tempi di crisi economica mondiale, come risposta delle organizzazioni produttive alla riduzione dei profitti, rimanda alla centralità del tempo, “dei diversi tempi”, anche come terreno di contrattazione sociale.La de-sincronizzazione investe anche gli altri aspetti della vita degli uomini non legati all’attività produttiva. La diffe-renziazione sociale fa sì che l’individuo si trovi a ricoprire diversi ruoli contemporaneamente e questo presuppone la creazione di un’agenda di tempi personali atta a rispondere alle diverse esigenze di ogni specifico ruolo.

Sembra dunque emergere oggi una doppia tendenza. Il processo di globalizzazione, se per un verso tende ad abbattere la categoria tempo (come d’altronde lo spazio) grazie alla tecnologia “protesa all’istantaneità”, per un altro questo processo di compressione temporale ha come conseguenza la genesi di altri tempi che il singolo individuo - come cittadino globale - è chiamato a organizzare/sincronizzare sia nello spazio d’azione privato che in quello pubblico, avendo la possibi-lità di gestire potenzialmente in prima persona un’infinità di diversi tempi.

Per approfondire » Chiesi A., Sincronismi sociali, il Mulino, Bologna, 1989 » Elias N., Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna, 1986 » Ferrarotti F., Il ricordo e la temporalità, Laterza, Roma-Bari, 1987

» Giddens A., Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna, 2000

» Leccardi C., Sociologie del tempo. Soggetti e tempo nella società dell’accelerazione, Laterza, Roma-Bari, 2009

» Luhmann N., Il tempo scarso e il carattere vincolante della scadenza, in S. Tabboni (a cura di), Tempo e società, Franco-Angeli, Milano, 1986

» Schops M., Zeit und Gesellschaft, F. Enke, Stuttgart, 1980 » Zerubavel E., Ritmi nascosti. Orari e calendari nella vita sociale, il Mulino, Bologna, 1985

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culture

di Davide Bennato

Si prenda il numero otto e i suoi innumerevoli significati numerologici.È simbolo dell’equilibrio cosmico in Cina, tanto da aver fatto si che l’inaugurazione delle olimpiadi di Pechino fosse organizzata in modo tale che avesse luogo l’otto agosto del 2008, ovvero 08.08.08. Sempre per restare in Cina, le tradi-zione simbolica e filosofica vuole che le otto forze della natura siano frutto dell’interazione di Yin e Yang. Che due entità diano vita a otto forze non deve stupire: è un’idea facilmente traducibile nella cultura matematica occidentale.

Basti pensare che otto è il cubo di 2 (23). E sempre per motivi simbolici, astro-logici in questo caso, ottagonale è la forma di Castel del Monte, miste-riosa costruzione dei pressi di Andria – nonché effige rappresentata sulla moneta italiana da 1 centesimo di euro – fatta edificare da Federico II di Svevia, il re normanno amante della cultura e delle scienze. L’ipotesi più accreditata vuole che la forma ottagonale sia un tributo al passaggio dalla terra – simboleggiata dal quadrato – al cielo – rappresentato dal cerchio, poiché l’ottagono è una figura intermedia tra il quadrato e il cerchio.

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Ma il numero otto ha anche la proprietà di ricordare il simbolo dell’infinito se lo si immagina capovolto di 90°, infinito che nella visualizzazione grafica dà vita a diverse strane rappresentazioni. Gli oggetti matematici che più si avvicinano alle forme di rappresentazione dell’infinito sono sicuramente i frattali. Dotati della proprietà dell’autosimilarità, proprietà piuttosto rara fra gli oggetti geometrici, i frattali devono il loro nome al latino fractus – spezzato, rotto – attribuito loro da Benoit Mandelbrot, il matematico francese che nel suo libro del 1975 Gli oggetti frattali. Forma, caso e dimensione, li intro-dusse alla comunità scientifica e che li ha resi famosi anche presso il grande pubblico.La caratteristica dei frattali è quella di avere sempre la stessa forma qualunque sia la scala a cui si guarda: sia se vengono guardati nel loro complesso o se vengono osservati nella loro più piccola parte, avranno sempre la stessa forma (la cosiddetta autosimilarità, appunto). I frat-tali sono celebri in quanto capaci di rappresentare le forme della natura: una montagna o un albero sembrano ripetizioni ricorsive di uno stesso modello di base. Anche se l’oggetto biologico più frattale in assoluto (almeno secondo il sotto-scritto) è senza dubbio il cavolo romano: ortaggio che della sua struttura frattale ha fatto la base della propria eleganza. Infatti pochi organismi biologici rivelano la propria natura matematica in maniera così sfacciata.

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cultureGli oggetti frattali devono la loro notorietà anche al fatto che sono stati spesso citati congiuntamente alla teoria del caos, ovvero quella teoria che vuole che in un sistema stabile, piccole variazioni iniziali possono dar vita a profondissime conseguenze successive. Caratteristica spesso resa in maniera metaforica con la famosa immagine secondo cui un battito di ali di una farfalla può provocare un tornado negli Stati Uniti (il cosiddetto Effetto Farfalla). I frattali sono oggetti geometrici le cui dimensioni sono esprimibili attraverso frazioni. In pratica noi classifichiamo gli oggetti geometrici in monodimensionali, (ovvero dotati di dimensione 1), come il punto. Poi abbiamo oggetti bidimen-sionali (dimensione 2), come le figure geometriche piane, ed infine abbiamo gli oggetti tridimensionali (dimensione 3) come i solidi geometrici. I frattali consentono di descrivere matematicamente oggetti geometrici intermedi, ovvero con dimensione fra 1 e 2, oppure con dimensione fra 2 e 3.Per questo motivo i frattali sono in grado di descri-vere gli oggetti della natura, perché la natura è più complessa della semplicità formale di un punto, di un quadrato o di un cubo. I frattali sono una famiglia di oggetti molto diversi fra loro. Come la curva di Koch, ovvero una curva che nasce dalla ripetizione ricorsiva di un triangolo equilatero e che ha una lunghezza praticamente infinita. Un altro oggetto frattale è l’insieme di Mandelbrot, che si presenta come un otto disposto in orizzontale, forse un po’ sfrangiato per via della granularità delle figure frat-tali, quasi a ricordare la proprietà che lo rende tipico, ossia il suo stretto rapporto con l’infinito.

L’infinito però nella sua rappresentazione dà vita ad un altro oggetto, topologico questa volta, ovvero che fa riferimento a quella branca della matematica che studia le superfici e le relazioni fra superfici. Di solito per rendere comprensibile la topologia si usa l’espressione secondo cui questa disciplina studia le trasformazioni delle figure geometriche e delle forme come se fossero oggetti di gomma. L’oggetto topologico a cui si fa riferimento è il misteriosissimo anello (o nastro) di Möbius, misterioso per via delle sue proprietà arcane.L’anello di Möbius è piuttosto facile da costruire: basta semplicemente prendere un nastro di carta e incollarne le sue due estremità dopo aver fatto fare un giro di 180° ad una di esse. All’apparenza si ottiene un anello dalla forma a “otto” appunto, ma a ben vedere è un oggetto strano. Per esempio, pur stando nello spazio tridimensionale è dotato di una sola dimensione, ovvero ha una faccia sola. Per dimostrare questa sua proprietà, basta semplicemente tracciare una linea sulla sua superficie con un pennarello: se fosse un oggetto a due facce, per scrivere su entrambe bisognerebbe staccare il pennarello da una faccia e poi trac-ciare la linea sull’altra.Nell’anello di Möbius invece la punta del pennarello ritor-nerà al suo punto di partenza senza aver staccato per un momento la punta dal foglio. Non ha due facce, ne ha una sola, anche se all’apparenza non sembrerebbe. Un’altra proprietà dell’anello di Möbius la rivela quando viene ad essere tagliato lungo la sua linea mediana. Al primo taglio, si trasforma in un super anello di Möbius, ovvero

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diventa più grande, anche se più sottile. Se l’ope-razione viene ripetuta una seconda volta, si ottengono due anelli indissolubilmente legati fra di loro, come una sorta di anelli borromei (altro oggetto topologico che ha una lontana parentela con l’anello di Möbius). Queste sue proprietà gli hanno permesso un ruolo interes-sante nel mondo dell’arte. Famose le incisioni con prota-goniste enormi formiche che danzano su anelli di Möbius reticolari, ad opera di M. C. Escher, l’artista olandese celebre per le sue scale infinite ispirate alle carceri partorite dalla fantasia di Giambattista Piranesi e per le sue figure a metà tra la matematica e il sogno. Meno celebre, ma altrettanto interessante, è il film Möbius, del regista Gustavo Mosquera (Argentina 1996). La storia narra di un giovane matematico che viene incaricato dal direttore della metropolitana di Buenos Aires di indagare sulla scomparsa di un treno.La storia, che si sviluppa secondo le regole del racconto giallo, rivelerà che la scomparsa del treno è dovuta ad una tratta del percorso della metropolitana che si sviluppa come un anello di Möbius, facendo sì che la il tessuto dello spazio-tempo si alteri, spiegando così la scomparsa del convoglio. Per non dimenticare che è proprio l’anello di Möbius la meta-fora che serve per rappresentare l’avaria del di HAL 9001 in 2010 – L’anno del contatto (Peter Hyams, 1984), sequel di 2001 – Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968).Ma l’anello di Möbius è presente anche in alcuni marchi piuttosto celebri, per esempio è la forma che ispira il logo della pura lana vergine (opera del designer italiano Franco Grignani), oppure il simbolo del consorzio che si occupa di riciclaggio dei rifiuti, proprio a simboleggiare la possibilità di usare in maniera infinita le materie prime.

Che l’infinito sia qualcosa di visualizzabile è sicuramente un tema affascinante, soprattutto se si pensa che è un argo-mento che sfida l’intelligenza umana e per questo motivo intercetta competenze diverse: la filosofia, la matema-tica, l’arte. L’infinito è un esercizio di creatività, in cui l’immaginario – inteso sia come la proprietà di immaginare, sia l’appartenenza ad una speci-fica cultura dello sguardo – è chiamato a rendere concreto quello che, solo all’apparenza, è un concetto astratto. Per questo diventa improvvisamente affascinante che sia la stessa scienza, e per di più la geome-tria, scienza che studia le forme e le figure, deva confrontarsi con quello che potrebbe essere considerato un vero ossi-moro: rappresentare l’infinito con strumenti finiti.A questo punto però propongo un piccolo gioco così da stuzzicare i miei lettori. Pertanto chiedo: secondo voi – ad esclusione del titolo e della firma del sottoscritto – la vostra curiosità, che vi ha portato a proseguire nella lettura fino a questo punto, quante battute vi ha fatto leggere?Un piccolo aiuto a rispondere a questo non-indovi-nello: la soluzione alla domanda deve molto al tema di questo numero di BrandCare.

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tecnologie e web

di Giovanni Scrofani

Otto!Se cercate 8 su Google o Wikipedia verrete a cono-scenza di tante meravigliose proprietà relative a questo simpatico numeretto.Infatti 8 è uno di quei numeri importanti: è un numero composto, è il cubo di 2, è il sesto numero della succes-sione di Fibonacci (per la gioia di Illuminati, Rosacroce, Complottisti e Dan Brown), è un numero ottagonale (chi l’avrebbe mai detto!), è un numero di Friedman, per i Cinesi è il numero fortunato per eccellenza, è il “numero magico”

della fisica nucleare, è il numero dell’equilibrio cosmico, è il numero della trasfi-gurazione cristiana, è il numero dell’ossigeno, nell’I-Ching rappresenta le 8 forze risultanti dall’interazione di Yin e Yang, i Grandi della Terra sono 8 (G8), è uno dei Numerotti di Playohouse Disney, 8 è il passerotto dei Latte e i suoi Derivati, e poi si sa, vincere al superenal-8 può cambiare la vita…Insomma il numero 8 è un numero di quelli che rivestono un’importanza capitale sotto qualunque punto di vista lo si affronti.

Essendo per la contraddizione continua, il numero 8 tendo a immaginarmelo cori-cato, che dorme, pressappoco così: ∞.Me lo immagino felice che sogna spazio e tempo infinito, senza stres-sarsi con Fibonacci e soci.

un’altra avventura di #gilda35

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In verticale il numero 8 non ha mai suscitato molto il mio interesse, mentre coricato mi suscita infinite suggestioni. Quando penso a quel meraviglioso e sognante Nastro di Möbius, il mio cervello steampunk e un po’ DaDa subito mi rievoca quella fantastica allegoria che compose Jorge Louis Borges nel 1941 con La Biblioteca di Babele… Un’allegoria terribile, che ho rivissuto giocando con Twitter insieme ai folli Sabotatori Dadaisti di #Gilda35. Una terribile profezia su ciò che potrebbe divenire la produzione dei testi in un futuro neppure troppo lontano. Un’ipoteca sui testi che lasceremo alle future generazioni…

La Biblioteca di Babele di Jorge Louis BorgesBorges disegnò un universo costituto da una “Biblioteca illimitata e periodica”, strutturata come un immenso frattale composto da moduli esagonali tra loro identici. Ogni esagono contiene 5 scaffali contenenti ciascuno 2 libri, ciascun libro è di 410 pagine, ciascuna pagina è di 40 righe, ciascuna riga è di 40 caratteri. Il numero dei simboli ortografici è 25 (22 lettere, spazio, punto e virgola).I libri contengono ogni possibile combinazione dei venticinque caratteri, generando ogni possibile testo (per la maggior parte ovviamente non sense, ma in

alcuni casi sporadici generando anche frasi, pagine o testi interamente intellegibili).

In un forum su internet [http://bit.ly/ezO39U] un matematico ha calcolato che il numero dei testi della Biblioteca di Babele, generato secondo il meccanismo testé illustrato sarebbe pari a 25 elevato alla 656.000, ossia un numero con 917.049 cifre. Ma poiché la Biblioteca è “periodica” i testi si ripetono in modo apparentemente casuale andando ben oltre lo spaven-tevole numero da quasi un milione di cifre.Nulla si sa sul Creatore della Biblioteca, né sugli autori dei testi, né sul fine ultimo di questo universo.

Il racconto descrive anche la vita miserabile dei Bibliotecari, che si aggirano, preda di disperazione, fana-tismo e frustrazione, cercando tra gli innumerevoli testi privi di senso il “Libro ”, un testo che dia una svolta alla loro esistenza. Il racconto si conclude con l’immagine spaventosa della Biblioteca che continuerà ad esistere eterna e immutabile, dopo la fine del genere umano.Un curioso incidente accaduto durante i sabo-taggi di #Gilda35 ha riportato alla mia mente questa mostruosa biblioteca, cui diventano ogni giorno più simili le Nuvole Computazionali…

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tecnologie e webLo strano caso del tweet scomparsoTutto è nato, quando, per festeggiare la nascita del “Nuovo Twitter” (una versione più multime-diale del noto Social Network), elaborammo uno dei “Sabotaggi” di Gilda35 ai danni del povero Algoritmo dei TopTweet di Twitter [cfr. #Gilda35 – La fase beta del progetto su Brand Care magazine n° 007 [http://bit.ly/i0OKCl]. Uno dei Ricercatori del Progetto propagò in Rete un irriverente messaggio nonsense: “domani, 16 settembre Santa Innocenza vergine e martire, nasce il nuovo Twitter”. Il messaggio ricevette circa 75 retweet in una manciata di minuti, tuttavia l’Algoritmo dei Toptweet non lo fece salire in homepage.

Pareva che nel frattempo Twitter avesse aggiornato il proprio Algoritmo in modo da fornire un ranking più basso ai retweet di utenti che si seguivano a vicenda, sfavorendo sia gruppi come #Gilda35, sia agenzie di marketing virale, sia agguerriti gruppi di “bimbiminkia”, che approfittavano della tendenza al retweet compulsivo dei BOT delle Major dell’intrattenimento.Ovviamente polemizzammo in modo giocoso con Twitter, inscenando una farsa sulla “censura” che avevamo subito. Ciò sebbene in segreto apprezzassi la virata del nuovo Algoritmo dei Top Tweet verso un marketing più esplicito e sotto il profilo contenutistico decisamente più valido della precedente versione pseudogiovanilistica (ora Top Tweet era saldamente presidiato da account ufficiali di grosse realtà produttive, topblogger, giornalisti, ma anche qualche comune utente con una bella trovata virale e qualche fesseria ogni tanto).

Qualche giorno dopo il “sabotaggio coccoloso” venni però contattato dall’autore (Proponente nel nostro gergo) del tweet “censurato”. Il Proponente si lamentò di un fatto per lui sconcertante: il messaggio di sabotaggio non solo non era salito tra i TopTweet, ma era stato anche cancellato dal registro dello “storico” dei propri messaggi. Tra tutti solo quel tweet era stato cancellato dalla cronistoria dei pensieri del Proponente. Era come se non fosse mai stato emesso e di conseguenza come se noi non l’avessimo mai retwittato e fatto nostro.

Vi risparmio la narrazione della serie di dadaistiche provoca-zioni che inscenammo: accorate lettere aperte [http://bit.ly/boJ353], sottoscrizioni via retweet, sit-in virtuali contro @toptweets_it… Ovviamente il DADA che è in noi si scatenò furibondo e trasformammo la vicenda in una assurda farsa per dileggiare i continui appelli contro la censura, che circo-lavano in quei giorni su Twitter (“no al bavaglio” su tutti).

Dal Libro alla NuvolaQuesta surreale vicenda, comunque ascrivibile ad un banale “fail whale”, mi ha suscitato alcune riflessioni in merito a come le nuove tecnologie stanno cambiando il nostro

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CR48

Nei giorni scorsi Google ha presentato un nuovo tipo di portatile, il CR48.In pratica questo gioiellino della tecnologia delle Computing Cloud non sfrutta altro software che un internet browser.Il CR48 utilizza le Nuvole Computazionali per la totalità delle funzioni di un PC tradizionale: storage/archiviazione file, posta elettronica, pacchetto Office, visualizzare foto, film ecc…Il CR48 ha ovviamente il 3G incorporato perché necessita come l’aria di una connessione a internet potente e stabile.Il CR48 costituisce il primo passo per trasferire nelle Computing Cloud la totalità delle informazioni che produciamo. Perché il cloud computing è perfor-mante, gratuito (o a prezzi contenutissimi), affidabile, costantemente aggiornato…Immaginate un futuro in cui tutti siamo passati ai nipotini del CR48. Immaginate un futuro in cui abbiamo comple-tamente dematerializzato l’informazione, in cui è tutta insediata in server completamente sottratti ad ogni nostro potere di verifica e controllo.

rapporto con la produzione, la conservazione e la lettura dei testi.Una frase che piace spesso ai tecnologi è: “Il gior-nale dopo tre giorni è buono per incartare il pesce, mentre un testo su internet è permanente”.Onestamente non mi sembra una frase così vera. Anzi, a essere veramente onesti direi che “Il gior-nale dopo tre giorni è buono per incartare il pesce, ma magari anche finire in un’e-meroteca e fornire ai posteri una testimo-nianza documentale su un periodo storico, un testo su internet è assolutamente imper-manente, soggetto a cancellazione, riediting, confutazione, interpolazione, manipolazione, adulterazione”.Questo per la semplice ragione che un testo pubbli-cato su internet non viene ancorato a un supporto fisico “statico”, come ad esempio un foglio di carta, un papiro, una tavola assiro-babilonese. E neppure su un supporto “dinamico”, ma in possesso dell’autore, come un hard disk. Un testo su internet finisce dritto in una bella Computing Cloud (Nuvola Computazionale), mirabile definizione che sta a indicare in ultima analisi che il testo per finire su internet, il più delle volte (direi pure la quasi totalità delle volte per i comuni utenti), deve essere trascritto e registrato su server di proprietà di un soggetto diverso dall’autore.

Sto rincorrendo le suggestioni sul numero 8 coricato che dorme, così non mi avventuro in un’approfondita disamina sugli aspetti giuridici del rapporto testé descritto…Però due paroline le spendo lo stesso. Quando accet-tiamo i c.d. “Termini di Utilizzo” dell’erogatore dei servizi di Computing Cloud, sottoscriviamo un contratto nel 99% dei casi molto sbilanciato in favore dell’erogatore del servizio, piuttosto che verso l’autore dei testi.La quasi totalità dei fornitori di Social Network, siti internet, Blog, servizi di posta elettronica, archiviazione remota di documenti, ecc… hanno nei propri “Termini di Utilizzo”, anche quando il servizio offerto è a carattere oneroso, una serie di clausole che consentono di sospendere in ogni momento il servizio a loro insindacabile giudizio.Peraltro, a ben leggere i “Termini di Utilizzo” di molti fornitori di servizi connessi al Computing Cloud, la proprietà di testi e documenti in molti casi non è dell’autore, ma dell’erogatore del servizio, che pertanto può cancellarli a proprio piacimento per tutelare i propri interessi.

Un esempio lampante di quanto sopra è stato il caso Amazon/Wikileaks. Com’è noto Amazon ospitava il sito di Wikileks sui propri server, tuttavia, in assenza di qualsi-voglia denuncia da parte delle pubbliche autorità, ha potuto sospendere il servizio sulla base della violazione dei

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tecnologie e webtermini di utilizzo inerenti il c.d. “uso improprio” del servizio di web-hosting. Il resto è cronaca.Insomma a fronte dello strapotere di quelli che Jaron Lanier con una felice espressione chiama i “Signori delle Cloud”, gli autori dei testi, delle foto, dei video, dei mate-riali immessi nelle Computing Cloud ne escono sempre più depotenziati e sminuiti.

Come diciamo noi di #Gilda35: “Viva le polpette!”A questo va associata la tendenza sempre più insistita a trasferire nelle Nuvole Computazionali la totalità dello scibile umano. Esperienze come il Progetto Gutenberg, Google Libri e l’espansione del mercato degli ebooks tendono a una “dematerializzazione” dei testi scritti con una sempre più forte eliminazione di quel “limite fisico” costituito dai libri di analogica memoria.Se a ciò si collega il ricorso sempre più insistito nel web 2.0 al c.d. “mash-up”, ossia alla produzione di testi che in ultima analisi non sono che il “collage” di altri testi reperiti in rete, spesso a loro volta frutto di mash-up, il quadro diviene ancora più fosco.

Nel web 2.0 tutti sono scrittori, tutti sono autori, tutti sono SEO, tutti sono esperti di marketing. Il Cloud Computing ha aperto la possibilità a tutti di esprimersi con uno sforzo minimo. Si è passati dai siti personali del web anni ’90, che erano espressione di una vivace creatività, ai blog dei primi anni 2000, agli attuali microblog frutto del mash-up più furibondo e spesso insensato. Ne sono stato testimone involontario io stesso: Il Ragazzo che Giocava con gli UFO

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[http://bit.ly/9nGVxi], un mio post sul caso Gary McKinnon ebbe un inspiegabile successo in Gran Bretagna, nel periodo in cui alcuni attivisti si battevano per impedire l’estradizione a Guantanamo di questo hacker affetto da disabilità mentale.Il testo venne fatto proprio da parecchie centinaia di persone in Gran Bretagna che riproposero sui propri blog personali il mio testo in italiano. Produssi anche una versione del post in lingua inglese, ma non ebbe il successo della versione in italiano, che era del tutto incomprensibile per la quasi totalità dei blogger che l’avevano riproposta.

Non mi voglio avventurare sul tema Wikipedia, dove siamo davvero dalle parti della Biblioteca di Babele più pura.“Wikipedia è una aberrazione fondata sulla leggenda che il sapere collettivo sia inevitabilmente superiore alla conoscenza del singolo esperto e che la quan-tità di informazioni, superata una certa soglia, sia destinata a trasformarsi automaticamente in qualità” [Jaron Lanier,You Are Not a Gadget: a Manifesto, 2010].

Eppure Wikipedia, uno strumento basato sul folle assunto che a botte di riediting si giungerà alla “Verità”, ha sosti-tuito presso la totalità degli utenti di internet le enciclopedie tradizionali. Se dietro l’informazione che stiamo cercando c’è un serio Istituto Enciclopedico composto da esperti di ogni disciplina, o un simpatico “dilettante” (come il sottoscritto), che nel tempo libero mette a fattor comune le proprie compe-tenze, per noi ormai non fa alcuna differenza. L’importante è che la Nuvola Computazione ci spari l’informazione che cerchiamo in modo efficiente.

La Fine dei TempiIn effetti quello che vedo circolare nel web 2.0 odierno mi sembra un embrione della Biblioteca di Babele di Borges. Come le “stanze esagonali” della Biblioteca di Babele quella che una volta era una “Web/Rete” sta divenendo una “Grid” in cui tutto è connesso. Ogni singolo smartphone, PC, laptop, console è connesso alla Cloud fornendo e restituendo informazioni di continuo. La struttura è modulare come nella Biblioteca di Babele, che nel racconto si sviluppa come un infinito frattale di moduli tutti identici a sé stessi. E la Cloud/Biblioteca si espande di continuo con server capaci di generare ogni giorno maggiore memoria fisica, come un universo in continua espansione: dal byte, al kylobyte, al megabyte, al gigabyte, al terabyte…E come nella Biblioteca di Babele i testi ogni giorno di più paiono autogenerati da qualche misteriosa Entità (la Mente Alveare di Lanier, o come lo chiamiamo noi di #Gilda35 Tecnonucleo, riprendendo una felice definizione di Hyperion di Dan Simmons). Il ruolo dell’autore è depotenziato, si è smarrito nel passaggio dal Libro alla Nuvola.Mi chiedo, dopo 50 anni di mash-up, di riediting, di interpolazioni, di “quote”, di cancellazioni,

cosa circolerà nell’infinita Infosfera generata dal Computing Cloud. L’immagine che ho in mente è quella di un immenso, infinito ipertesto, privo di autore, generato quasi casualmente.E non mi avventuro a ragionare su cosa potrebbe accadere tra cento anni, in una società che ha completato il processo di dematerializzazione del sapere, laddove si arrivi ad una svolta totalitaria o oscurantista.Oggi i Signori delle Cloud guardano alla quotazione in borsa…Domani chi sarà proprietario della Cloud potrà riscrivere il passato. Tutto il passato. E come diceva Orwell: “Chi controlla il presente, controlla il passato. Chi controlla il passato controlla il futuro.”Oppure no.

GLOSSARIO

#Gilda35 - progetto collettivo sviluppato su Twitter, che promuove una riflessione critica sull’antropologia post-umana introdotta dalle nuove tecnologie. Spesso il progetto effettua delle performance dadaiste chiamate “sabotaggi carini e coccolosi”. Per maggiori informazioni: http://gilda35.com/ e http://jovanz74.splinder.com/

Bimbominkia - giovane utente di Social Network, sprov-visto della minima netiquette e spesso molesto (gergo degli internauti italiani).

Fail Whale - i server di Twitter talvolta vanno in “soffe-renza” quando il volume dei tweet mondiali per massa e frequenza è eccessivamente elevato. Ciò comporta blocchi temporanei, improvvise sparizioni di followers/following, cancellazione di tweet vecchi.

Cloud computing - un insieme di tecnologie infor-matiche che permettono l’utilizzo di risorse hardware (storage, CPU) o software distribuite in remoto” (Wikipedia). In pratica tutto quello che fate tramite posta elettronica, social network, Google, ecc… avviene tramite l’utilizzo delle nuvole computazionali.

Jaron Lanier (New York, 3 maggio 1960) è uno svilup-patore, artista e compositore statunitense. È considerato il padre della Realtà Virtuale. Autore tra l’altro del libro Tu non sei un Gadget, una riflessione critica sull’evoluzione del web 2.0.

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creatività

di Francesca Pellegrini

Il numero otto fa venire alla mente diverse suggestioni: innanzitutto è un numero esteticamente affascinante, un giro di curve ripiegate su se stesse, che creano un infinito ripetersi di movimento.Decisamente bello. Anche il suono non è niente male: “otto” è imme-diato, diretto, perentorio. Come nome proprio, poi, richiama atmosfere nordiche e personalità imponenti, dal politico tedesco Otto Von Bismarck all’architetto austriaco Otto Wagner.Poi c’è il fascino della simbologia legata al numero otto: in Cina è il numero degli immortali, per i buddisti è un numero sacro perché otto sono i petali del loto. Un elemento che colpisce solo a un secondo livello di analisi (pur essendo

evidentemente davanti ai nostri occhi!), e che poco ha a che fare con simboli e bellezza del suono, è la natura palindromica della parola otto.

Innanzitutto, cos’è un palindromo? Dicesi palindromo ogni “parola, frase, verso o cifra che possono essere letti da sinistra a destra e anche viceversa”. Ovvero, otto da qualunque verso lo si legga, rimane un otto. Anna è un nome palindromo, ossesso è una parola palindroma.

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Il 2002 è stato un anno palindromo, e ancora meglio, il 01/02/2010 è stato un giorno palindromo! Se iniziamo a ragionare su quanto ci sia di palindromico nel mondo che ci circonda, c’è da rimanere davvero sorpresi.È un esercizio divertente, ai limiti dello straniamento: se ci si immerge nella ricerca di parole, cifre o anche immagini perfettamente specchiabili e identiche a se stesse da qualunque punto di vista le si guardi, c’è da perdere giornate intere!Si comincia dal ricercare nelle targhe delle automobili in coda nel traffico elementi palindromi, poi si cerca di far cadere – casualmente o no – l’occhio sull’orologio per sorprendere un orario palindromo (le 12:21? Le 20:02?), poi ci si ritrova a scervellarsi per ideare la frase palindroma più lunga del mondo. Per la cronaca, pare che la parola palindroma più lunga del mondo sia finnica: Saippuakivikauppias, ovvero “venditore di sapone”.C’è anche un illustre neologismo palindromo che, come riporta lo stesso Oxford Dictionary, è stato ideato da James Joyce nell’Ulysse (1922): un “tattarrattat” che indica una sonora bussata alla porta. Quanto alle frasi più lunghe, la lista sembra essere assai più folta di quanto si possa immaginare. Tra i casi più estremi ci sono le creazioni di un tal Peter Norvig, autore di un paio di “non-sense sentences” composte rispettivamente da 15.139 e 17.259 parole, accostate tra di loro senza un senso compiuto ma assolutamente leggibili dall’inizio alla fine o dalla fine all’inizio (le frasi non vengono riportate per ovvi motivi di spazio!).

Al fascino di utilizzare – o far ritrovare più o meno casual-mente – termini, cifre o anche immagini palindrome nel mondo che ci circonda non poteva certo rimanere immune chi con le parole gioca costantemente, con l’obiettivo di destare l’attenzione del suo pubblico e di innescare mecca-nismi di memorizzazione sempre più potenti e originali.Si parla di pubblicitari: quei creativi che si divertono a manipolare il linguaggio per stupire, prima di tutto il cliente di turno e, conseguentemente, il target di riferimento. Gironzolando qua e là, sono venuti fuori dei casi di adver-tising palindromo davvero interessanti.Non sono, a dire il vero, molto numerosi: ma, del resto, se fossero quantitativamente rilevanti, forse perderebbero il loro fascino e desterebbero meno curiosità di quanto non riescano a fare. Vale, in un certo senso, il detto: pochi ma buoni.

C’è una campagna realizzata dall’agenzia Leo Burnett Brasil di San Paolo nel settembre 2009 per l’italiana Fiat. Il brand da lanciare era la Fiat Idea, nello specifico un modello della Idea dotato di sensori di parcheggio. L’headline della campagna stampa recitava (nella traduzione inglese): “Going forward or backward, it’s all the same”, a indicare l’estrema sicurezza del sistema di sensori

applicati all’automobile. Nei diversi soggetti realizzati per la campagna, troneggiava una stentorea frase palindroma al centro della pagina, apparentemente poco legata al settore automotive, ma logicamente ben connessa all’obiettivo della campagna. Ciò che va bene in un senso, va bene anche all’in-verso. La Fiat Idea offre le medesime prestazioni di sicurezza sia che la si guidi nel senso di marcia, che nel senso opposto. Missione compiuta.

Proprio perché i casi di advertising palindromo, puramente basati sul copy e sui giochi di parole, non siano numerosis-simi, ha destato non pochi dubbi il fatto che, praticamente nello stesso periodo, due creativi dell’agenzia svizzera Jung von Matt/Limmat, Zurich, abbiano partorito una campagna per Mercedes Benz assolutamente gemella della

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creatività

campagna di Leo Burnett per Fiat. Headline molto simile (“Backwards as well as forward”), significato altret-tanto affine. Il fascino del palindromo ha colpito ancora.

E per concludere questa mini-carrellata nel mondo della pubblicità, cambiando settore merceologico e allonta-nando, in questo caso, potenziali accuse di plagio, ecco una campagna realizzata nel 2008 dall’agenzia dentsuINDIO nelle Filippine per Western Union. Anche se in questo caso non viene realizzato un vero palindromo, ma è la resa grafica del

copy a essere strutturato in modo “specchiato”, è comunque interessante il legame tra il concetto di reversibilità testuale e l’obiettivo della campagna: la promozione di un servizio di trasferimento internazionale di denaro. Headline: “The fastest, most reliable way to receive money from abroad is now also the fastest, most reliable way to send money abroad”. Chiaro ed efficace.

Rimanendo nel settore dell’immagine e tornando all’uso più puro dei palindromi, ci sono nel mondo alcuni

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brand e marchi famosi che devono in un certo senso il successo del loro nome anche alla sua natura palindro-mica, che li rende di facile memorizzazione e armonici e musicali alla vista. Qualche esempio?

YamamaY, brand di biancheria intimaElle, rivista femminileHonda Civic, automotiveAxa e Aviva, settore assicurazioniTnt, express courierXanax, antidepressivo (settore medicale)

Insomma, a guardarci intorno sembra che il mondo che ci circonda sia popolato da elementi perfettamente specchiabili e replicabili da qualunque punto di vista li si osservi. Date, nomi di persona (chi non ha mai conosciuto una ragazza di nome Ada, non ha sentito nominare l’intellettuale Asor Rosa o ascoltato un disco di Bob Dylan?), marchi, orari, targhe automobilistiche, persino località dal nome palindromo. E sembra che il potere comunicativo di questo gioco realizzato con le parole sia estremamente interessante e ancora poco “stressato” in termini di advertising. In un momento come questo, poi, in cui ciò che è comunicativamente efficace è solo (o prevalentemente) ciò che più facilmente e velocemente passa di bocca in bocca, diventando virale, potrebbe risultare interessante un ritorno al potere della parola (scritta o parlata) sull’immagine. Se poi questa parola ha in sé un forte elemento di mistero e un alone criptico – enigmatico, l’effi-cacia potrebbe essere amplificata e amplificata e amplificata.

Tanto per rimanere in tema di palindromi e per dimostrare il forte potere virale che la parola può assumere sul web, ecco un piccolo ma esemplificativo racconto molto para-digmatico. L’enigmista e scrittore Stefano Bartezzaghi (maestro dei giochi di e con le parole), nella sua rubrica su La Repubblica dal titolo “Lessico e Nuvole”, racconta che inconsapevolmente è diventato, grazie alla rivista di enig-mistica Penombra, il progenitore di un neologismo solo perché, nel 2003, l’aveva citato in un suo articolo (su suggerimento, tra l’altro, di un lettore). Il termine, guarda caso, è aibofobia, ovvero la paura dei palindromi:

una parola che non esiste, nata per gioco (essendo essa stessa un palindromo) sul web dalla tastiera e dalla mente di qualche creativo. Bene, dopo 7 anni pare che il termine, ormai citato su autorevoli riviste di psicologia e entrato a pieno titolo nell’universo della conoscenza condivisa grazie a Wikipedia, sia in lizza per essere inserito nel dizio-nario Zingarelli. Più viral di così si muore! (Per approfon-dire la vicenda, http://bit.ly/hR1ju7)

Che i palindromi, dunque, proprio come il numero otto, siano ammalianti e pieni di fascino, non è in discussione. Forse la loro seduzione è insita nell’estremo equilibrio che rappresentano, quell’equilibrio di cui siamo alla continua ricerca. È la distinzione tra ciò che è reversibile e ciò che non lo è, proprio come il palindromo “I topi non avevano nipoti” che la piccola Claudia spiega al padre Pietro in una scena intensa del film “Caos Calmo”.

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WWF“L’ORA DELLA TERRA…

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Sabato 26 marzo torna l’Ora della Terra del WWF, la più grande mobi-litazione per il pianeta mai organiz-zata, che nel 2010 ha spento le luci di 1200 tra i monumenti più famosi del mondo, da Fontana di Trevi e Tour Eiffel, fino alle Piramidi egiziane e alla Città Proibita di Pechino, coinvol-gendo oltre un miliardo di persone, migliaia di imprese, istituzioni e

comunità in 4500 città e 128 Paesi, testimonial come Francesco Totti, Gisele Bundchen e il Nobel per la pace Desmond Tutu, e ricevendo il plauso del segretario generale delle Nazioni Unite Ban ki Moon.

Dopo aver spento praticamente il mondo intero, l’edizione 2011 vuole andare oltre, e sotto il segno del nuovo logo “60+” chiede a tutti non solo di spegnere simbolica-mente le luci per un’ora, ma di intraprendere azioni “verdi” che durino una vita intera, rendendo sempre più concreto il messaggio che la comunità globale dell’Ora della Terra lancia ogni anno con più forza: se vogliamo dare al mondo un futuro migliore, dobbiamo trasformare le nostre società, tagliare le emissioni inquinanti per vincere la sfida dei cambiamenti climatici, e perseguire un’economia nuova, rispettosa degli equilibri del pianeta e di gran lunga vantag-giosa anche per il benessere dell’uomo.

Ci sono scuole che installano pannelli solari, Comuni che rendono efficienti gli edifici pubblici e ripensano il sistema dei trasporti, famiglie che rinunciano all’auto o alla carne almeno un giorno a settimana e riducono i propri rifiuti a pochi sacchetti all’anno, imprese che cambiano filiera per ridurre le proprie emissioni. Ogni piccola o grande azione in più, moltiplicata per centinaia di milioni, ha il potere di cambiare il mondo e in molte realtà, anche italiane, questo cambiamento sta già avvenendo.

Per questo il WWF invita tutti, cittadini, istituzioni, imprese, scuole, a unirsi a questo grande movimento globale, aderendo sul sito www.wwf.it/oradellaterra,

scegliendo e “inventando” stili di vita che fanno bene al pianeta, e partecipando alle moltissime iniziative che la sera del 26 marzo saranno organizzate in tutta Italia: eventi di piazza nelle principali città, cene a lume di candela, visite notturne nelle Oasi WWF, osservazioni delle stelle, concerti, spettacoli e iniziative di ogni genere. Appuntamento quindi per il giro del mondo a luci spente il 26 marzo, dalle 20.30 alle 21.30, in tutta Italia. Se vivi su questo pianeta non può mancare!

All’Ora della Terra 2011 ha già aderito l’Associazione Nazionale Comuni Italia (ANCI), mentre Ikea rilancerà negli store e nelle piazze italiane la “bulb box”, speciale scatola promossa in collaborazione con il WWF Italia e il consorzio RAEE Ecolight, per raccogliere le lampadine a basso consumo usate e procedere al loro corretto smal-timento e recupero. All’iniziativa speciale per le imprese “Una candela per il pianeta” ha aderito anche Electrolux, Epson, Sofidel, Sony e Tetra Pak che distribuiranno ai propri dipendenti, partner e clienti delle candele con cui illuminare la propria “ora di buio”.

IDENTIKIT DELL’EVENTO

Quando: il 26 marzo dalle 20.30 alle 21.30 Dove: in tutto il mondo, in decine di piazze italiane, nelle case, negli uffici, nelle sedi istituzionali Chi: centinaia di milioni di persone Cosa: spengono le luci di monumenti e luoghi simbolo + si impegnano a “cambiare vita” per il pianetaPerchè: per dire a gran voce che il mondo vuole un futuro sostenibile ed è pronto a realizzarlo

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di Tonia Basco

Sebbene sia la Germania la nazione che conta il maggior numero di signor Otto, anche nel nostro bel paese può capitare di incontrarne uno. Popolo di “Giuseppe” e “Maria”, gli italiani amano prendere in prestito i nomi stranieri per il gusto di esibire “un’aria internazionale” e, tra le alternative, non poteva mancare quest’opzione tipicamente tedesca. Tuttavia, se è vero che ci piace portare il nome di un grande artista di Hollywood o del nostro fiore preferito, è probabile che siamo ancora restii a chiamarci con quello che da noi è pur sempre il numero compreso tra il sette e il nove. Le stime ne sono una

prova: secondo il portale nomix, i signor Otto, residenti soprattutto nel Nord e nel Centro, rappresentano solo lo 0,0014% della popolazione italiana (pari a circa 840 persone). Dovremmo aggiungere anche coloro che hanno preferito una variante e che pertanto si chiamano Oddo, Oddone, Odino o Ottone, ma la sostanza non cambia: ad apprezzare di più il nome resterebbero comunque gli olandesi, gli americani, i canadesi e i danesi.

Diverse tradizioni e motivazioni si celano dietro la diffusione dell’Otto e delle sue versioni. Oddo e Oddone devono la loro fama al culto di S. Oddone abate di Cluny, Ottone al prestigio di quattro Imperatori di Germania, Odino alla vene-razione dell’omonima divinità. Di origine tedesca, Otto deriva dall’antico sassone athad, che vuol dire “proprietario, colui che possiede”: signi-fica, pertanto, ricco, potente. Se volessimo stilarne un simpatico “identikit” scopriremo che il suo numero portafortuna è il 3 e che gli vengono associati il rosso, il rubino e il mercurio. Ma le interpretazioni dei nomi

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scavano più a fondo, fino a individuare i tratti distintivi della personalità di chi, certo non per scelta, si trova a portarne il fardello: una sorta di “dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei”. Se pensiamo al signor Otto possiamo allora immaginare un uomo “dolce ma anche arrogante, scaltro ma anche violento…un miscuglio intrigante”. Ho deciso di diver-tirmi a scoprire quanto ci sia di vero dietro questo “stereo-tipo”, a rintracciare nei personaggi del passato la sua radice.

Sfogliando i capitoli della storia, molte pagine vedono tra i protagonisti herrgott Otto che si sono fatti notare per le loro “performance belliche”. Questo nome sembra cioè accomunare veri e propri guerriglieri: pensiamo, ad esempio, al pluridecorato tenente tedesco Otto Carius, famoso per aver distrutto più di 150 carri armati nemici durante la Seconda Guerra Mondiale. Nato nel 1922, iniziò la sua brillante carriera militare come fante e nel ’43 fu alla guida dell’unità Panzer “Tigre”, prima a Leningrado e poi in Estonia. Il Tigre era il carro armato tedesco più famoso, simbolo della supremazia tecnologica raggiunta dalla Germania nel campo delle truppe corazzate. Riconoscibile per la sua potenza e la sua sagoma inconfondibile, è stato uno dei mezzi militari che ha terrorizzato di più gli Alleati, tanto da meritarsi il titolo di “Re del campo di battaglia”. E Otto Carius fu così abile nel “domare le tigri” da collocarsi in terza posizione nella classifica degli assi dei Panzer tedeschi. Il suo libro di memorie, “Tiger in schlamm” (Tigri nel fango), ha ispi-rato la realizzazione di un manga di Hayao Miyazaki, che, in sei episodi disegnati ad acquerello, ricostruisce minuzio-samente le imprese in Estonia della compagnia capitanata da Carius. Tuttavia non credo che sia possibile riproporre con altrettanta cura le sensazioni che agitavano l’animo di chi udiva arrivare il tenente e le sue tigri: “il rumore prodotto dal Tigre, dal suo motore e dai suoi cingoli, era qualcosa che ti gelava il sangue nelle vene. Quando sapevamo che nella nostra zona c’erano mezzi di questo tipo semplicemente ci ritenevamo già morti” (dal racconto di un carrista britannico).

Anche durante la Prima Guerra Mondiale ritroviamo le gesta di un herrgott Otto che ha fatto storia. E questa volta la storia ci riguarda molto da vicino, perché è quella che porta il titolo della “disfatta di Caporetto”. La sanguinosa ritirata oltre il Piave dei nostri soldati sotto l’attacco dell’esercito austro-ungarico rappresenta, infatti, il maggior successo militare del generale tedesco Otto von Below. Classe 1857, partecipò a diverse battaglie della prima grande guerra fino a diventare comandante supremo sul fronte italiano. Al comando della 14ª Armata, l’abile generale introdusse nuovi procedimenti tattici sconosciuti all’esercito italiano: sfruttando l’effetto sorpresa e la tattica dell’infiltrazione, guidò quell’offensiva che, denominata “Waffentreue” (“Fedeltà d’Armi”), rappre-sentò una vera catastrofe per gli uomini di Cadorna. Con un attacco “silenzioso” - basato su un ampio uso di gas venefici piuttosto che di armi da fuoco – i nostri nemici ottennero un

successo superiore alle loro stesse aspettative e costrinsero i nostri soldati a una ritirata che assunse l’aspetto di una fuga disordinata: dall’Isonzo fino al Tagliamento e poi al Piave, prigionieri, munizioni e viveri finirono nelle mani di von Below e dei suoi alleati. Tuttavia anche il successo ha il suo lato oscuro: quando la fama della sua impresa iniziò a precederlo, le sue tattiche non ebbero più l’esito sperato. Quando, infatti, al comando della 17ª Armata, fu incaricato di sconfiggere le truppe britanniche nella grande offensiva di primavera, ci si aspettava un nuovo Caporetto, ma l’eco della disfatta italiana servì a mettere in allarme i soldati britannici e a dare loro la possibilità di mettere a punto un adeguato piano difensivo.

Numerose sono state le onorificenze conquistate sia da Carius, sia da von Below a testimonianza della loro capacità nel dirigere i conflitti. Non è da meno Otto Gille, generale tedesco che si distinse per il suo coraggio durante la Prima Guerra Mondiale e che fu il membro più decorato del Waffen SS durante la Seconda. Ammirato dai suoi uomini e rispet-tato per le sue abilità tattiche, la sua carriera militare gli

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è valsa la consegna di importanti onorificenze, quali la Croce di Ferro, la Croce d’Onore, la Croce di Cavaliere. Anche Otto Skorzeny decorò la sua divisa con la Croce di Cavaliere: la ottenne per aver partecipato alla liberazione di Mussolini. Inviato dal comandante Himmler ad aiutare il generale Student nella cosiddetta Operazione Eiche, ne assicurò la riuscita sfruttando un’idea astuta: portò con sé il generale Soleti che, fattosi riconoscere dai carabinieri che presidia-vano la fortezza del Gran Sasso, garantì la liberazione del duce senza alcun ostacolo.

Tra i personaggi che ho incontrato in questo piccolo viaggio, c’è anche chi ha fatto “la guerra alla guerra”. È il caso di Otto Dix, che, spinto da una idea romantica del conflitto, partì con entusiasmo come volontario durante la Prima Guerra Mondiale. Si arruolò con l’esercito tedesco in qualità di sottoufficiale e combatté sia sul fronte occidentale, sia su quello orientale, ricevendo onorificenze; tuttavia l’esperienza bellica vissuta in prima persona si rivelò tutt’altro che un gioco, segnando a tal punto l’animo di Dix da farlo tornare da convinto pacifista. Ha iniziato così un’altra battaglia, questa volta ideologica, senza l’uso di fucili: una battaglia anti-militarista, combattuta con la forza delle immagini. Con un realismo crudo e impietoso, uno stile narrativo e carico di significati simbolici, ha usato l’arte per denun-ciare la crudeltà della guerra e la degenerazione di molti ambienti sociali. Una violenta critica che ha espresso raffigurando soldati sfigurati e mutilati nelle trincee e nei campi di battaglia, cinici cabaret e bordelli, volti cupi e perversi: “Otto Dix, ovvero quando l’ arte risponde con la violenza del segno e delle immagini alla violenza della guerra e della società”. La sua “tattica” gli è costata anni di prigionia durante il nazismo e il titolo di “artista degenerato”, con la conseguenza di non poter più esporre le sue opere, alcune delle quali furono addirittura bruciate.

Dunque: Otto, un nome da guerriglieri? Forse si, ma a questo punto possiamo considerare “armi” diverse. C’è chi lotta con i carri armati, chi usa il potere delle immagini. Ma la forza, la determinazione pare una costante: come spiegare altrimenti ben tre circumnavigazioni del globo effettuate dall’ufficiale russo Otto von Kotzebue? Un nome forte, in sostanza, per uomini altrettanto forti.

Astuti e belligeranti, questi signor Otto sono indubbiamente abili nei campi di battaglia, ma non dimentichiamo il “lato ricco” del nome. Si chiama Michael, ma di cognome fa Otto l’uomo che occupa la 23ª posizione nella classifica dei più ricchi del mondo: a capo della Otto Gmbh e con un patrimonio pari a circa 13,2 milioni di dollari, corrisponde senza dubbio all’im-magine di “colui che possiede”. Se fosse sufficiente anche solo il cognome, non ci penserei due volte: farei un salto all’anagrafe!

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di Pasquale Napolitano

Sul ‘68 in quanto temperie politico-culturale regna una insoppor-tabile retorica piccolo-borghese del genere “come eravamo”, esercitata senza scampo e in ogni sede dall’establishment piccola e grande del paese.Vedere la classe egemone, quella che ha deciso di non rispet-tare alcun patto sociale né generazionale, mitizzare i propri piccoli e talvolta grandi riti giovanili rende – agli occhi di un trentenne di formazione provinciale fuori dai salotti – questo un periodo elitario e odioso, una palestra di conservazione.Fortunatamente, il ‘68 invece è stato anche moltissimo

altro, un periodo davvero fertile, come spesso accade quando cova un reale senso di cambiamento. Mi limito, tra le “n” possibili, ad individuare tre categorie rela-tive alla sperimentazione audio-visiva sviluppatesi in quel mitico anno.

1. Concetti e ModuliProfetico il titolo della Triennale di Milano a cura di Giancarlo De Carlo: Il grande Numero, a voler testimoniare una rinnovata attenzione del mondo del progetto alle masse, intese nuovamente come soggetto sociale, a tal proposito una delle innovazioni più affascinanti scaturite dalla Triennale fu l’introduzione della modularità nella costruzione degli oggetti quoti-diani, per consentire un alto grado di personalizzazione e contemporaneamente un abbattimento dei costi, in particolare grazie all’opera di designer come il napole-tano Enzo Mari oppure Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro, autori della leggendaria poltrona Sacco.

L’importante, in questi progetti, risulta essere “la matrice”, l’insieme di regole che permettono di generare l’opera o più semplicemente di pensarla. Ne deriva che in tal modo il linguaggio, la descrizione, il documento possono sostitu-irsi all’oggetto, dissolvendo al tempo stesso la complessa e discussa nozione di “originale”. Aspetto questo di particolare interesse nell’ambito

appunti sull’espressiOneall’Ombra del grande numerO

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dell’arte. È il caso degli artisti del movimento concettuale come Sol Lewitt, Joseph Kosuth e Joseph Beuys per cui l’arte non può che essere concettuale, in quanto la sua vera natura sta proprio nella sua definizione.Ciò ha portato Kosuth all’atteggiamento radicale dell’elimi-nazione di ogni manifestazione sensibile dell’oggetto d’arte a vantaggio delle sole “proposizioni”.Tale atteggiamento è il culmine di un processo tendente alla dematerializzazione dell’oggetto. Scrive Kosuth: “Con l’unassisted ready-made di Duchamp, l’arte ha cambiato il suo obiettivo dalla forma del linguaggio a ciò che è detto. Ciò ha significato spostare la natura dell’arte da un problema di morfologia a un problema di funzione. Questo cambiamento, dall’apparenza al concetto, ha significato l’inizio dell’arte moderna e dell’arte concettuale. Il valore dei singoli artisti dopo Duchamp può essere stabilito in base a quanto essi si interrogarono intorno alla natura dell’arte; il che equivale a dire cosa essi aggiunsero al concetto di arte, o cosa mancava prima che essi iniziassero. Qual è la funzione dell’arte o la natura dell’arte? Se noi manteniamo la nostra analogia fra le forme che l’arte assume e il linguaggio si può comprendere come un’opera d’arte sia una specie di ‘proposizione’ presentata nel contesto dell’arte come un commento sull’arte” (Kosuth,1968).

2. Interazioni e documentazioniUna questione cruciale, che serpeggia non solo all’interno della temperie politica è quella relativa al coinvolgimento, alla condivisione, alla parteci-pazione e alle pratiche dal basso. Tutto questo chiara-mente invade le pratiche artistiche ed espressive.

“L’arte è per sua natura “interattiva” in quanto comporta sempre una relazione che si stabilisce tra artista opera e spet-tatore; l’opera è sempre un rapporto e crea rapporti” [Silvana Vassallo e Andreina Di Brino, 2003]

Situazioni, azioni, eventi, ricerche di nuove e diverse modalità della comunicazione estetica, passando per i mondi dell’hap-pening, della performance, della “body art”, l’installazione, impongono un’interazione di tipo nuovo che avviene in diretta e in tempo reale e che configura un’espe-rienza sinestetica sempre più complessa e totale.La molteplicità di rimandi tra il corpo dell’artista e quello dello spettatore, si propone nella videoarte, in molti modi diversi.Non a caso tra gli iniziali impieghi della telecamera emerge la registrazione di azioni e performance, sia tradizionalmente svolte di fronte al pubblico, che quelle pensate e condotte in un solipsistico rapporto con l’occhio artificiale della telecamera: “la ripresa di azioni concepite espressamente per essere registrate, mentre trasfonde l’evento performativo nel linguaggio fluido del videotape, realizza un processo di modificazione delle relazioni tra osservato e osservatore” (Vassallo, Di Brino, 2003).

La molteplicità di sollecitazioni sensoriali impostate sull’al-terazione della percezione del proprio essere nello spazio e del tempo si incontra inoltre nelle prime video-installa-zioni all’interno delle quali lo spettatore è coinvolto fisicamente, costretto a reagire e a modificare il proprio comportamento. Video Corridors di Bruce Nauman, è la prima video-installazione interattiva che la storia si ricorsi [siamo proprio nel 1968].

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comunicazioneIn essa lo spettatore entra all’interno di un corridoio e vede la sua immagine di schiena e rimpicciolita man mano che si avvicina alla telecamera, trovandosi catapultato in una situazione di spaesamento); basata su una dislocazione di tecnologie televisive varie nello spazio espositivo, la video-installazione mette in gioco come elemento fondamentale dell’opera il luogo fisico in cui essa si svolge.In virtù del potere illusionistico dell’immagine televisiva, le coordinate spazio temporali dell’ambiente subiscono profonde modificazioni, si trasformano cosi’ le regole tradi-zionali della rappresentazione, sovvertendole dall’interno.

Numerose altre opere hanno poi adottato una serie di varianti sul tema dello spiazzamento dell’osserva-tore tra un “dopo” o un “prima”, tra vicino e lontano, tra interno e esterno, tra presenza e assenza.Tra le più celebri gli ambienti di Les Levine, di Frank Gillette e Ira Schneider e di Peter Campus e numerose altre esal-tanti esperienze di pochi anni successive. Nel 1968 è anche presentata alla Biennale di Venezia Il Grande Vetro, ultima istallazione di Duchamp, composta da due enormi lastre di vetro (277 x 176 cm) che racchiudono lamine di metallo dipinto, polvere, e fili di piombo. Un work in progress enigmatico manifesto dell’opera aperta. “Il Grande Vetro è la più importante opera singola che abbia mai fatto” (Marcel Duchamp).BOX: Nam June Paik crea, nel 1974, la video-installazione “TV Garden”, all’interno della quale numerosi televisori con lo schermo rivolto verso l’alto diffondono immagini montate in modo da generare un mix disorientante di astratto e concreto.Lo spazio virtuale creato dai monitor funziona soltanto nel momento in cui lo spettatore ne varca la soglia, egli è quindi determinante per la riuscita di un’opera che si presenta “in fieri”. L’opera vera e propria consiste perciò nella situazione che si viene a configurare, via via differente a seconda delle reazioni dello spettatore, che viene perciò

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utilizzato dall’artista come “materiale” del proprio lavoro.L’inserimento del corpo dello spettatore all’interno delle video-installazioni, infine, offre la possibilità di un confronto tra il tempo reale e quello registrato. Sempre il fruitore dell’opera è il protagonista nella video-installazione “Present Continuous Past” (1974) di Dan Graham,qui si sperimenta lo smarrimento di vedersi attra-verso lo sguardo dell’altro tramite un gioco di monitor e specchi che determinano una sorta di sdoppiamento del corpo dello spettatore.

3. Ambienti: Land Art e EarthworkUn aspetto spesso ingiustamente relegato all’impronta “freak” del ‘68 è quello di una sorta di primitivismo che si traduce concretamente in una riscoperta del rapporto tra uomo e ambiente. Il 1968 in termini artistici è l’anno dell’arte ambientale.L’espressione, così come i sinonimi Earth Art o Earth Work, si afferma negli Usa alla fine del decennio 1960-1970 per desi-gnare le ricerche “operative” impegnate in diretti interventi sul paesaggio e sulla natura.La sua consacrazione ufficiale avviene nel 1968 in occasione della mostra alla Cornell University di Ithaca in cui vengono esposte le tracce di un’idea di intervento sul paesaggio dal carattere fortemente concettuale. È dal principio che l’esi-stenza di tale forma espressiva è strettamente collegata al video, in quanto quasi sempre gli interventi sono stati soggetti a forme di documentazione.

La Land Art, si propone di agire con intenzioni estetiche sul paesaggio per produrre un mutamento nella sua strut-tura, estetizzandone i risultati, assumendo come materiale di lavoro quei luoghi in cui instaurare una con-fusione tra naturale e artificiale. Al fondo delle motivazioni della Land Art si trovano spesso istanze ecologiste.Secondo Dorfles essa interviene sulla natura “non in modo edonistico e ornamentale ma per quello che potremmo definire una presa di coscienza dell’in-tervento dell’uomo su elementi che presentano un ordine naturale e che, da tale intervento, sono sconvolti ed incrinati” [Dorfles, 2001 p. 46].

Un altro aspetto rilevante, è rappresentato dal fatto che in questo periodo gli artisti iniziano a sentire il bisogno di divincolarsi dagli oppressivi limiti dettati dallo spazio urbano, ciò determina un diverso rapporto con il mercato dell’arte.Come fa notare Salvadori: l’avvento della Land Art porta un elemento nuovo nel sistema della distribuzione del prodotto artistico: in un mercato da sempre condizionato dall’ide-ologia borghese della tesaurizzazione, della ricchezza e dello spettacolo l’opera d’arte era considerata come bene di lusso, aveva come punto di riferimento l’oggettività e la mercificazione del pezzo unico, e, una volta incamerato nella

collezione privata, o nel museo, aveva una circolazione solo attraverso la riproduzione (Salvatori 1977).“Con le pratiche della Land Art e la visione “minima-lista” dell’arte di questo tempo questa visione di tesau-rizzazione dell’opera va in crisi. L’evento artistico deve sottostare a quello che Duchamp ha chiamato l’“effetto istantaneo”, l’incontro simultaneo tra l’artista e le condizioni oggettive del suo lavoro”.

Il movimento degli anni ’60 Earthwork, o Land art, portò questo interessamento alla terra su nuove strade. Placid Civic Monument (1967) di Claes Oldenburg, un buco nel terreno scavato in Central Park a New York, è considerata la prima opera di Earthwork; poi venne l’opera di Robert Smithson A Non-site nel 1968 in cui egli collocò della sabbia proveniente da un sito di Pine Barrens, nel New Jersey, in una galleria, e continuò la sua opera in serie, sistemando cumuli di suolo proveniente da vari luoghi all’aperto come installa-zioni in gallerie. Hans Haacke fece crescere dell’erba nella galleria di un museo in Grass Grows (1969) in Fog Flooding Erosion, inondò dell’erba con degli aspersori a voler replicare il processo d’erosione del suolo.Degna di nota anche l’opera dell’italiano De Maria Two Parallel lines (fatta di gesso, che correva per un miglio lungo il deserto del Nevada, realizzata fino nel 1968).Earthwork divenne la logica estensione della ricerca dell’arte oltre le mura delle gallerie e dei musei, e della ricerca di altri materiali oltre la tela. L’arte poteva essere “ambiente” piuttosto che oggetto.

Per approfondire » Dorfles, G. (2001), Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’in-formale al neo-oggettuale, Feltrinelli, Milano

» Kosuth, J., (1968), “Art after Philosophy”, in Studio International

» Vassallo, S., Di Brino A., (2003) in “Arte tra azione e contemplazione. L’interattività nelle ricerche artistiche”, ETS, Pisa

» Salvadori F., (a cura di) (1977), “Gli art/tapes dell’ASAC. Rassegna di videotapes d’arte su grande schermo, con una sezione di videointerventi di gruppi autonomi”, La Biennale di Venezia, Venezia

» Celant G., (2008) “Artmix. Flussi tra arte, architettura, cine-ma, design, moda, musica e televisione”, Feltrinelli, Milano

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tecnologie e web

di Claudio Biondi

A Napoli, per far fronte alla perenne crisi economica che – dall’unità d’Italia in poi – affligge quella splendida e dolente città, alcuni pizzaioli inventarono la “pizza a otto”.Si trattava di una semplice pizza fritta (la pizzella ) che costava molto meno di quella con mozzarella, olio e pomodoro cotta al forno e che si poteva pagare anche dopo otto giorni sperando, nel frattempo, di guadagnare di che onorare il debito.Ma che cosa hanno in comune la “pizza a otto” e il “cinema a otto” (a parte l’otto, tema fondamentale di questo numero di Brand Care )? Apparentemente nulla se

non fosse per le possibilità di facilitazioni economiche che entrambi consentivano e per un comune, paradossale destino di cui si dirà alla fine.

Con il termine “cinema a otto” ci si riferisce, infatti, al formato 8mm che fu introdotto sul mercato nel 1932 dalla Kodak, con lo scopo di proporre una pellicola più economica del 16mm o del “professionale” 35mm. In realtà si trattò, almeno nei primi tempi, di poco più di un espediente. La pellicola vergine era a passo 16mm ma, utilizzata in una cinepresa 8mm, consentiva di impressionarne prima una metà per poi - rivoltando la stessa bobina - impressionare l’altra. Il labo-ratorio di sviluppo e stampa provvedeva a tagliare il film per tutta la sua lunghezza così da ottenere un’unica bobina di 8mm. Insomma, una specie di doppio otto, come si chiamò allora.

Il fatto importante, e in un certo senso rivoluzionario, fu che grazie alla riduzione dei costi di approvvigionamento della pellicola e di sviluppo e stampa, il “fare cinema” diventò possibile anche per chi non possedeva ingenti

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risorse economiche, così come la pizza a otto napoletana consentiva di sfamarsi anche a chi non possedeva nemmeno il soldo per una pizza normale. Dal mondo della professione, l’attenzione si spostava al mondo dei consumatori inducendoli a diventare essi stessi “cineasti”.Divenne possibile un “fare cinema” casalingo. Nozze, nascite, primi passi e sorrisi, compleanni e scherzi, il gatto di casa o il criceto che ruota nel cerchio, furono i soggetti preferiti.Le vacanze, specialmente se fatte in posti esotici, divennero una sorta di soggetto must, cui non ci si poteva sottrarre senza perdere un po’ di prestigio sociale.Nacque così quel genere di film detto “a passo ridotto” che, per un verso ebbe importanza fondamentale per la formazione di tanti autori cinematografici (Monicelli, Moretti, Farina, Ragazzi, Ragona, per citarne solo alcuni e solo italiani) e per l’altro contribuì alla delusione di una marea di dilettanti allo sbaraglio che avevano sognato di raggiungere la gloria bypassando le pesanti corvée della professione.

Il passaggio dal filmino casalingo all’aspettativa di potersi “esprimere” (oggi, si direbbe “realizzarsi”) con il

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tecnologie e webnuovo dispositivo tecnologico fu poi facilitato e nobi-litato da un articolo di Alexandre Astruc pubblicato nel marzo del 1948 sull’Ecran Française e intitolato: Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo, che è coram populi considerato l’antesignano della “politique des auteurs ” di Truffaut che, a sua volta, diventò il grido teorico della Nouvelle Vague francese.L’idea-profezia di Astruc, riassumibile nella possi-bilità d’esprimere “uno stile flessibile e personale, in grado di rendere il mondo mentale del regista come la penna era in grado di rendere il mondo mentale dello scrittore o del poeta” (da qui l’espres-sione caméra-stylo cioè cinepresa-penna), affascinò il mondo eterogeneo – e a suo modo raffinato – delle centinaia di cinefili, di appassionati spettatori che avevano morso il freno e storto il naso durante tutti gli anni del fascismo e dei famosi “telefoni bianchi”. Che cosa si aspettavano i fautori della caméra-stylo? Corrado Farina, uno degli esempi del passaggio dal cinema amatoriale al professionale, lo confessa apertamente: “Come passare il tempo tra una sessione di esami e l’altra con un gruppo di amici, una Paillard a 8 millimetri e un proiettore Cirse Sound; e soprattutto con l’impudenza di rifare “in casa” Bergman e Antonioni, 007 e Trilussa, San Francesco e Mickey Spillane, Dracula e Garcia Lorca, le favole, la fantascienza e vent’anni di storia italiana”.Alcuni esempi illustri come l’esordio di Mario Monicelli che, assieme al cugino Alberto Mondadori, gira in 16mm il mediometraggio I ragazzi della via Paal (1935) premiato alla Mostra di Venezia dello stesso anno, sembrano aprire ancor di più il cuore alla speranza. Bisognerà, però, attendere altri trent’anni per ritrovare un evento di eguale forza e portata con Io sono un autarchico di Nanni Moretti (1976).

La realtà è che, a parte i pochi esempi citati – e non tutti dello stesso valore emblematico – il mondo dell’8mm resta confinato tra le mura domestiche, come “album” di ricordi in movimento. Allo sfogliare pesanti album con la copertina di cuoio finemente istoriata in basso rilievo in cui erano appiccicate le foto della figliolanza o del fidanzamento, si sostituì il rito della proiezione in casa corredato dal rumore tipico che facevano i “proiettorini” usati allora.Un rito che fu presto aborrito, perché non solo promet-teva la noia mortale di guardare per decine e decine di minuti i padroni di casa intenti a fotografarsi reciproca-mente sullo sfondo di monumenti di solito fuori fuoco, ma perché invariabilmente condito dall’invidia di quelli, tra gli astanti, che non potevano nemmeno sognare di andare a farsi fotografare di fronte a quei monumenti. Un rito, per dirla tutta, che assomigliava all’altro – non casalingo ma dopolavoristico –, quello di assistere a una proiezione de La corazzata Potëmkin di Sergej Mikhajlovic Ejzenštejn seguita dall’inevitabile quanto scontato dibattito che terrorizzava i vari Fracchia dei nostri ministeri.

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Siamo a metà del secolo scorso. L’Europa è uscita dalla Seconda Guerra Mondiale con le ossa rotte. Un vento nuovo agita gli animi e la forza della speranza diventa d’obbligo. Sperare significava anche saper superare ciò che rivestiva le parvenze dell’impossibile. Sperare significava anche osare, ribaltare le regole - qualunque esse fossero - visto e conside-rato che proprio ad alcune di quelle regole poteva imputarsi la catastrofe appena trascorsa.Gli anni ’50 hanno avuto – almeno nella mia memoria – un senso quasi magico, dove tutto sembrava possibile e a portata di mano. Anche fare un film. Bastava la fantasia, si diceva. E, soprattutto, bastava avere il coraggio di disfarsi delle regole. Di qualsiasi tipo: estetiche, grammaticali, economiche, commerciali. D’altra parte, anche il cinema-cinema tendeva a disfarsi delle regole: il neo-realismo, gli attori presi dalla strada, il fare a meno dei teatri di posa, il racconto della “realtà” erano elementi tutti che provavano la voglia e la necessità di sovvertire – o anche solo d’interpretare in altro modo – quelle “regole” che sembravano soffocare un desiderio di libertà pienamente giustificato dopo la prigionia ideologica sofferta nei decenni precedenti.

Ma il cinema fatto in casa (le film de famille, come lo chiama Roger Odin) ebbe presto voglia di una platea più vasta e socialmente più importante dei quattro amici della domenica o dei parenti stretti, spettatori obtorto collo della “genialità” di un loro congiunto. Nacquero da questa esigenza tutte quelle iniziative tese a dare visibilità a quanti s’ingegnavano a esprimersi con i pochi mezzi che avevano. Primo tra tutti quel Festival del cinema a passo ridotto organizzato a Salerno, mia città natale, nel 1946 da un medico salerni-tano, Ignazio Rossi, cinefilo di razza e di grande cultura, lui stesso con il pallino del “fare cinema”. Seguirono a ruota: la nascita (1947) della Parva Film (distaccamento delle Edizioni Paoline) che, oltre ai filmini amatoriali, iniziò a riciclare e distribuire film a 35mm riducendoli a 16mm con lo scopo di allungarne la vita commerciale e allargarne la base di frui-zione; il Festival del cinema d’amatore a Montecatini (1949); la FEDIC Federazione Italiana dei Cineclub (1949) sorta dalla fusione dell’Ente Italiano Cineamatori con la Federazione Italiana Cineamatori ; il Concorso nazionale di Cinematografia Alpina a passo ridotto a Trento (1952).

Ricordo ancora le discussioni che avevamo, negli anni che seguirono, con Ignazio Rossi e altri amici cinefili, quando io, ormai “romano” e “cinematografaro”, tornavo – sempre più di rado – a Salerno per rivedere mia madre e gli amici più cari che sentivo sempre più lontani. In genere, queste discussioni avevano inizio al Vicolo della Neve sotto gli occhi un po’ faustiani dei personaggi che Clemente Tafuri (1903-1971) aveva affrescato sulle pareti di quella gloriosa taverna per – tra noi si spettegolava – pagare i pasti consumati. Proseguivano poi sul Lungomare avendo come temi

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tecnologie e webprincipali il cinema “popolare” (Matarazzo e Totò) guardato con sdegno dai miei amici e difeso con inutile fervore da me, ormai additato come “avvelenato” dai miasmi della Capitale e l’8mm, con tutti i suoi addendi tecnici: super8 e 16mm e i suoi corollari ideologici quali il montaggio in macchina, il piano sequenza, la libertà dalle strut-ture e l’evitare le strettoie economiche e soprattutto i dettami del “mercato”.Parole d’ordine che – a ben vedere – ruotavano tutte attorno alla maniera di evitare le difficoltà intrinseche presen-tate dal cinema professionale e che spesso si rifacevano a soluzioni e novità di linguaggio introdotte da grandi autori come Orson Welles (Quarto potere, 1941) e Alfred Hitchcock (Nodo alla gola, 1948), soluzioni che con l’8mm avevano ben poco a che vedere.Montare il film normalmente in moviola costava troppo? Allora si monti il film in macchina ovvero si girino le inquadrature che compongono la scena non secondo le esigenze di luce o di opportunità, ma già organizzate secondo la successione logica del racconto, così come nasce abitualmente dopo il lavoro in sala di montaggio. E poco importa se per “montare in macchina” si era costretti a ritornare più volte nello stesso luogo o più volte filmare dallo stesso punto di vista.Il tempo, per questi cineasti improvvisati ma per nulla ignoranti delle tecniche e del linguaggio cinemato-grafico, aveva poco valore. Era la sola risorsa che possedevano in abbondanza.

Io, che intanto avevo cominciato i primi passi nel mondo della celluloide dal gradino più basso della scala gerarchica (aiuto macchinista) e che avevo avuto esperienza diretta del tanto lavoro che ci voleva per fare qualcosa di decente, restavo un po’ perplesso di fronte a quella che mi sembrava una pia

illusione, cioè che una larga applicazione della caméra-stylo di Astruc potesse affrancare in buona parte il cinema dalle regole economiche e organizzative che ne sorreggono la produzione. Per me restava un controsenso quello di voler costruire un grattacielo (così mi appariva la realizzazione di un film “vero”) con i fiammiferi svedesi usati per accendere il fuoco. E, a distanza di tanti anni, non sono poi tanto sicuro che proprio quell’idea di un facile cinema fai-da-te non abbia contribuito a creare tutte quelle condizioni – culturali, ma anche legislative – che in fin dei conti hanno condannato una cinematografia come quella italiana, geniale nelle idee ma priva di quei mezzi che soltanto un mercato ampio può dare, a un ruolo secondario.Tutto da rifare, come diceva il buon Gino Bartali? Certamente no. Il cinema a otto ha indubbiamente contribuito molto a diffondere la discussione sul linguaggio cinematografico e a renderla “terreno comune” non riservato ai pochi specialisti che scrivevano sulle riviste di allora: Bianco e Nero, Cineforum, Filmcritica, ecc. Oggi, a più di mezzo secolo di distanza, il cinema a otto è considerato giustamente come una riserva documen-taria inesauribile, preziosa per la ricostruzione storica del costume di un’epoca e strumento valido ai fini di una cronaca iconografica.

C’è però un altro aspetto, un altro effetto e non certamente secondario, che il cinema a otto ha avuto e che possiamo riscontrare proprio in questo nostro tempo denso di reality. A ben pensarci, tutti questi Grandi Fratelli, queste Isole e Fattorie, non sono altro che una sorta di prolunga-mento di quel cinema a otto fatto in casa dai nonni. Ne sono il prolungamento certo più sguaiato e volgare ma che, in fondo, prende vita dallo stesso tipo di materiale teorico un po’ guardone e un po’ invidioso dove si mischiano

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speranze e incapacità, ignoranza ed esibizionismo contri-buendo, a mio personale parere, alla stessa noia mortale di quelle proiezioni in casa di amici di ritorno dalle vacanze. Ma c’è di più, come ci fa osservare Roger Odin. Quello “stile” amatoriale ha, in fondo coniugato una sorta di paradigma percettivo per il quale ciò che è fatto male è veritiero. In altre parole, alla primitiva opposizione tra cinema professionale (la fiction) e cinema amatoriale (il reality) si è andata sostituendo una sorta di commistione che produce film professionali come se fossero amatoriali. Così, costosissime pubblicità di prodotti casalinghi sono sempre più spesso realizzate con il linguaggio povero (e per questo più immediatamente perce-pito come “vero”) del cinema amatoriale. Fenomeno che non si è fermato alla sola pubblicità. Film come Toro Scatenato, di Martin Scorsese (1980), JFK di Oliver Stone (1991) e Legge 627 di Bertrand Tavernier (1992), costituiscono un chiaro esempio degli effetti che la mescolanza tra stile amatoriale povero e contenuto diegetico profondo può provocare e di come tale mescolanza possa acuire la percezione dello spet-tatore di trovarsi di fronte ad una “realtà” rafforzando conte-nuti squisitamente fiction con materiale artatamente reality.È ovvio che tutti gli apparati comunicativi si prestino a commistioni e a imbastardimenti. Fa parte della natura stessa della comunicazione; dunque non c’è da scandaliz-zarsi troppo se il “cinema professionale” si sia servito e si serva sempre più di stilemi e moduli di linguaggio presi a prestito dal “cinema amatoriale”.Capita così di assistere a film che si rifanno allo stile amato-riale proprio per avallare la loro “veridicità”. Insomma, la fiction che – per essere più fiction possibile – diventa, tenta di diventare, reality. Cannibal Holocaust (1979), The Last Broadcast (1998), The Blair Witch Project (1999), Cloverfield (2007), Rec (2007) sono horror (e dunque fiction che più fiction non si può) che hanno usato le tecniche amatoriali

più svariate, impiegando metri e metri di pellicola d’immagini amatorialmente “sgrammaticate” nel tentativo (a dire il vero, spesso riuscito) di assomigliare quanto più possibile al film “involontario”, a quello che chiunque di noi sarebbe capace di registrare, con tutto il bagaglio di sfocature e traballa-menti, di tempi morti e dialoghi alla buona, di dettagli anato-mici e salti d’immagine.

Alcuni studi attuali s’ingegnano anche a dimo-strare come il cinema amatoriale sia, in verità, il vero cinema adducendo che esso fu inventato proprio come film de famille, citando quel Le repas de bèbè, di Louis Lumière che, nel 1895, costituì l’atto di nascita della Settima Arte. A me pare che dare a esperimenti scientifici (tali furono i primi filmini impressionati dai Lumière) una valenza “teorica” diversa sia una forzatura, oltretutto in ritardo di un secolo, ma la neces-sità di difendere un punto di vista teorico induce spesso a scambiare fischi per fiaschi.Resta comunque il fatto che sembra diventata una parola d’ordine paradossale il concetto: “Se quel film è fatto come se l’avessi fatto io, allora è vero”, utilizzato dall’industria cinematografica per richiamare a sé spettatori dal suo sen fuggiti. Ma per fare veramente bene questo cinema “povero” sono necessari molti più mezzi e risorse economiche di quanti non ne bastino a fare un buon film professionale stili-sticamente corretto: il film-reality forse è più “vero” del film-fiction, ma è certamente più caro.Così come la “pizza a otto”, nata per i poveri e ai poveri desti-nata, oggi, nelle botteghe dei Tribunali, diventa una specialità a volte addirittura più cara della normale pizza (soprattutto se si va consumarla nelle friggitorie che espongono le foto di Clinton o Maradona intenti a gustarle), altrettanto il “cinema a otto”, destinato ai dilettanti, diventa “stile” del più costoso cinema professionale hollywoodiano.

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di Massimo Caiati

Quando si inizia a fare il creativo si sogna di fare campagne per Nike e Apple, o si ha l’incubo di lavorare per una marca di sabbia per gatti o per aumentare l’awareness di prodotti contro l’incontinenza.Ma nessuno pensa che uno degli attori principali nel mondo della comunicazione in Italia sia la CEI, la Conferenza Episcopale Italiana.Non è rilevante sotto l’aspetto creativo conoscere perfetta-mente quali siano i sistemi di sostentamento della Chiesa Cattolica, ma è comunque bene sapere che la CEI ha

esigenza di promuovere sé stessa e le sue attività per ricevere più fondi sia con l’8xmille (il che significa più firme), sia con le offerte deducibili alla Chiesa Cattolica.

L’errore più comune quando si approccia un cliente della categoria social è quello di pensare che, trattandosi spesso di associazioni no profit, occorra affrontare il discorso sotto un profilo solo emotivo. La cosa più importante è invece scongiurare un approccio non profes-sionale e puntare diritto a una visione di advertising : ogni campagna deve incentrarsi su un prodotto, il quale a sua volta deve poter offrire qualcosa al target.

Secondo questa logica, il pubblico deve percepire i fondi dell’8xmille e le offerte deducibili non come un atto dovuto o di fede, bensì

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creativitàcome fondi necessari per poter offrire un servizio. Chiaramente non sempre si parla di beni materiali (come le mense per i poveri, ad esempio), ma anche di “servizi” spirituali, come potrebbe essere l’opera di un prete in zone disagiate o la semplice confessione. In entrambi i casi, il discorso non cambia: la maggior parte delle persone è disposta a devolvere parte del proprio denaro solo se è sicura che i suoi soldi vengano utilizzati per qualcosa di concreto.

Il ruolo del creativo, in questo caso, è principalemnte quello di trovare il modo migliore di mostrare queste atti-vità. È solo in questa fase che ci si deve ricordare che si ha a che fare con la Chiesa Cattolica, e quindi con i suoi valori e tradizioni. In quest’ottica, il valori e le tradizioni non saranno più il “prodotto”, ma il modo nel quale il prodotto viene proposto, cioè la brand identity.Spulciando tra le campagne CEI degli ultimi anni, è facilissimo notare questa impostanzione.

Ogni spot o pubblicità stampa racconta sempre le storie e le opere di uno dei sacerdoti sparsi per l’Italia, per poi dire che attraverso il proprio contributo, ognuno può aiutare e sentirsi partecipe di questa storia comune.Naturalmente il mood delle campagne è sempre emotivo e spirituale, ma l’argomento principale è la concretezza.

Questo approccio dovrebbe anche essere quello dei compe-titor della CEI: ognuno dovrebbe incentrare la propria comunicazione sulle opere offerte, seguendo uno stile di narrazione in linea con i propri valori, e questo può essere un esercizio estremamente stimolante per i creativi, anche per quelli meno coinvolti nelle attività delle onlus.

Quando si inizia a fare questo mestiere si sogna di lavorare per prodotti giovani e “cool”, ma quando si conosce davvero la creatività ci si accorge che ci si può divertire davvero con tutto.

UN CREATIVO HA SEMPRE BISOGNO DI UN BOOK

In pubblicità i titoli di studio contano come il colore dei calzini quando si va a pesca (questo discorso non vale per gli account, ma solo per copy e art). La cosa in assoluto più importante nel giudicare un giovane creativo è, come dice il nome stesso, la sua capacità di creare. Per avere un book competitivo è bene capire il prima possibile se si vuole diventare art o copy. Queste due figure professionali, seppur nate per lavorare in simbiosi, devono comunque avere peculia-rità tipiche e distinguibili. Di conseguenza anche il portfolio di un art sarà diverso dal

portfolio di un copy. Chiaramente quando ci si propone per un primo lavoro, nessun direttore creativo si aspetta di vedere campagne uscite realmente in tv o stampa; quindi buttate giù le vostre idee su prodotti esistenti, e fate venire la bile al vostro futuro capo per non aver avuto quell’idea prima di voi.Se vi proponete come copy, non importa che i layout siano ben fatti, quello sarà lavoro per il vostro art director. Concentratevi su headline brillanti e insight che vi permettano di creare l’idea più pazza ma allo stesso tempo in linea con i valori del prodotto. Viceversa, se volete fare l’art, il vostro book dovrà essere un pezzo d’arte di per sé. Ponete estrema cura nella selezione delle font, nell’esecuzione del layout ma sentitevi liberi di esprimere a 360° la vostra visione, anche a rischio di avere alcuni pezzi del vostro portfolio che non sono di advertising e che non comunicano nient’altro se non bellezza pura.

Questo discorso legato all’importanza di un book funziona perfettamente anche al contrario. Nessun direttore crea-tivo che si rispetti assumerà mai un junior senza vedere il suo portfolio, il che significa che nessun junior dovrebbe perdere il suo tempo con un’agenzia che non lo richiede. Se il vostro futuro capo è disposto ad assumervi non perché siete i più bravi o brillanti, ma perché siete i figli di un suo amico di infanzia o perché il cane di vostra cugina gioca al parco con il suo, beh… lasciate stare. Non ha nessun senso investire il proprio tempo lavorando gratis per un’agenzia che non investe in qualità. Un direttore creativo che lavora in questo modo non avrà mai niente di interessante da insegnarvi, e il vostro tempo è troppo più importante del suo cane.

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di Emi Guarda

Uscendo dal comune di Andria in direzione sud lungo la strada statale 170, inoltrandosi nella Murgia occi dentale, attraverso percorsi brulli e pietrosi in cui la scarsa vegetazione bruciata dal sole si alterna improv visamente a distese verdeggianti di ulivi e vigne, lungo quella che è conosciuta come la Strada dell’Olio, non si può non rimanere rapiti da tutto ciò che nell’immaginario collettivo è l’esaltazione della “pugliesità”. Uli veti sterminati a perdita d’occhio, vigneti, campi di grano accarezzati dal vento, muretti a secco fretto losamente abbozzati che delimitano stra-dine sterrate di campagna, masserie in pietra bianca che si

stagliano contro l’azzurro del cielo, e su tutto, maestoso e fiero, il troneggiare dall’alto di una collina appena accen nata, della tozza mole di un edificio del XIII secolo, passato alla storia con il nome di Castel del Monte, il più singolare, enigmatico, misterioso fra i castelli eretti dall’imperatore Federico II di Svevia.Un edificio che si compone di elementi architettonici dalle evidenti influenze arabo-normanne, ma anche classiche, romaniche e gotiche, la cui muratura è in semplice pietra calcarea, le cui modanature, i portali e i rari elementi decorativi sono in breccia corallina: spoglio di particolari orna-menti, ma dal fascino indiscuti bile e ricco di teorie, segreti, misteri, stranezze dal sapore esoterico.

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La posizione isolata del castello ha dato infatti adito a una serie di interrogativi tuttora irrisolti circa la fun zionalità dell’edificio. Da sempre è stato identificato come una fortezza difensiva medievale, ma quest’ipo-tesi stride fortemente con l’assenza di fossati, di aperture e di spazi adatti a possibili combatti menti, con la presenza di feritoie sparse in maniera asimmetrica e senza apparente disposizione logica, con la posizione stessa del castello, posto su una collina piuttosto bassa con il nulla attorno.

Col tempo ha preso piede l’idea che potesse trattarsi di una residenza estiva o un maniero per la caccia, ma la vastità dell’edifico e l’assenza di requisiti fonda-mentali come cucine, forni, stalle e cantine, hanno mi nato l’attendibilità di questa tesi.L’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di rappresen-tanza per l’imperatore non ha invece trovato terreno fertile, in quanto il castello è estremamente spartano, privo di spazi di accoglienza e di corti in terne.

Vista la mancanza di interpretazioni utilitaristiche sufficien-temente comprovate e la scarsa documentazione rinvenuta per spiegare la funzione dell’edificio, hanno inevitabilmente preso piede teorie di altro genere, che poggiano le proprie

basi sull’aspetto mistico, esoterico, simbolico del castello. Le ipotesi sono le più varie, la più intrigante vuole che l’edificio sia stato eretto per custodire il Sacro Graal. Federico II avrebbe infatti portato con sé il famoso calice, peraltro mai ritrovato, al ritorno dalla sesta cro ciata, e per nasconderlo avrebbe fatto ergere, in una spazio geomantico e secondo rigide regole architetto niche che richiamano un forte simbolismo religioso, l’imponente castello. Questa affascinante interpreta zione trova riscontro nelle fonti secondo cui l’edifico sarebbe stato sede di esperimenti di magia alchemica, da qui la presenza di numerosi piccoli camini inutili al riscaldamento ma ideali per portare ad ebollizione i grandi calderoni al cui interno i metalli si sarebbero dovuti trasformare in oro.

Lì dove la leggenda del Sacro Graal non ha trovato sosteni-tori, si sono via via affermate teorie astronomiche che vedono nel Castel del Monte un tempio solare. L’edificio è stato infatti costruito in modo che la luce del sole giocasse con le sue aperture, andando a formare le figure geometriche più stupefacenti, come avviene ad esempio nei solstizi, quando la luce solare crea rettangoli secondo progressioni geometriche tradizionali, le stesse che furono alla base della costruzione del Partenone di Atene. Sulle due colonne

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che fiancheggiano il portale d’ingresso sono inoltre accovac-ciati due leoni: quello di destra guarda verso sinistra, quello di sini stra guarda verso destra, entrambi sono rivolti verso i punti in cui il sole sorge nei due solstizi d’estate e d’inverno.

A fare da contraltare al tempio del Sole, è andata delinean-dosi la teoria secondo cui il Castello sia stato un tempio del Sapere e della Cultura, dimora di umanisti, insigni matematici e astrofisici, dediti allo studio e alla ricerca. Il castello è stato infatti edificato come un enorme congegno matematico ed è intriso di una forte simbologia astrologica. La struttura rispetta in ogni sua parte la legge dei numeri e in essa trovano ri scontro svariate sequenze numeriche, tra le quali quella dei numeri magici di Fibonacci, matematico forte mente attratto dalla cultura araba, a quel tempo alla corte dello stesso Federico II.

I numeri si rincorrono costantemente nell’archi-tettura dell’edificio, giocano fra loro, si scompon-gono e ri compongono andando a formarne di nuovi, ma fra tutti, quello che più di ogni altro ricorre in numerose forme – dal semplice dettaglio all’intera planimetria ottagonale – contribuendo a infittire il mistero del ca stello, è il numero otto. E certamente,

in una struttura dove nulla sembra essere stato lasciato al caso, non può essere una fatalità il suo continuo ripetersi. Otto sono le torri a loro volta di forma ottagonale, otto le sale al piano superiore e otto al piano inferiore, otto i lati dell’ormai scomparsa vasca del cortile, otto i fiori quadrifogli sulla cornice sinistra del portale d’ingresso, i fiori quadrifogli sulla cornice inferiore, le foglie di vite sulla chiave di volta della prima sala, le foglie di girasole sulla chiave di volta della seconda sala, le foglie e i petali sulla chiave di volta della quinta sala, le foglie di acanto nell’ottava sala del primo piano, le foglie di fico nell’ottava sala del piano superiore. Infine, il castello è costruito su due piani che richiamano i due anelli sovrap posti di un otto scomposto.

Come si evince, non è dunque possibile dare un’inter-pretazione della funzione del castello senza far ricorso alla numerologia, ai significati esoterici sia della simbo-logia cristiana-medievale che di quella orientale-isla-mica. E, a seconda della tradizione cui attingiamo, un numero dal profondo e antico significato simbolico qual è l’otto trova pieno riscontro. Universalmente riconosciuto come il numero dell’equilibrio cosmico ma anche del conflitto fra materia e spirito, l’otto identifica sia la Rosa dei

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Venti che l’Horologion ateniese, la famosa Torre dei Venti. Fu definito da Pitagora il numero “luce ed ombra” e, nel corso dei secoli, attraversando le varie culture, ha subìto di verse interpretazioni.Nella simbologia cristiana se il sette, il giorno del compi-mento della creazione, incarna la perfezione, l’ottavo giorno apre la via della Nuova Creazione, della vita dopo la vita, cioè della vita eterna. L’otto rap presenta la Trasfigurazione e il Nuovo testamento, è dunque il Simbolo della Resurrezione. Secondo il me desimo principio di collegamento tra finito e infinito, tra il terreno e l’ultraterreno, l’ottagono in quanto in tersecarsi di un quadrato, simbolo della terra, e di un cerchio, immagine del cielo, rappresenta l’incontro tra Dio e l’uomo.È il motivo per cui i battisteri, su proposta del vescovo di Milano Ambrogio, acquisirono da un certo momento in poi la tipica e nota forma ottagonale. L’otto appare dunque da sempre legato ai concetti di trascendenza e di trapasso. Legame riscontrabile an che nelle antiche religioni pagane in cui era chiamato a rappresentare l’infinito. Da qui l’utilizzo in matema tica di un otto coricato per indicare il medesimo concetto. Nella cultura esoterica l’otto, precedendo il nove, simbolo della nascita, raffigura la morte come passaggio e transizione. È dunque

la rappresentazione del riflesso del mondo creato, dell’inde-finito e della trascen denza. Infine, considerati i rapporti che Federico II ebbe con la cultura dell’Oriente, non si può prescindere dal ruolo centrale occupato dal numero otto nella cultura cinese ed indiana, il cui significato prende forma dall’in-treccio delle concezioni numerologiche, cosmologiche e divinatorie. Otto sono le forze della natura risultanti dall’interazione cosmica di Yin e Yang e che, combi-nate, danno origine ai sessantaquattro esa grammi dell’I-Ching, libro-oracolo della tradizione cinese.

Ovviamente, essendo tuttora ignote le finalità del castello, risulta difficile individuare la cultura numerolo gica e simbolistica cui fare riferimento per spiegare, anche solo parzialmente, il costante ripetersi del nu mero otto nella sua struttura. È l’ennesimo interrogativo che contribuisce a infit-tire l’alone di mistero e di enigmaticità di Castel del Monte. Eppure il fascino mistico che lo contraddistingue e gli ancor irrisolti mi steri che l’avvolgono, nulla tolgono alla sua l’innegabile sacralità. Una sacra-lità che, pur continuando a ri manere indefinita, pervade il luogo in ogni suo aspetto e alimenta il perseguire delle ricerche attraverso i secoli.

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di Anna Maria Carbone

In questi ultimi anni si parla sempre più spesso del valore delle buone rela-zioni tra aziende e clienti come risorsa immateriale in grado di fare la differenza sul mercato. Questa considerazione appare come l’esito di un processo di evoluzione, ma a ben guardare le relazioni umane sono al centro di tutte le tradizioni spirituali in ogni parte del mondo.È, quindi, più esatto parlare di una crescente consapevolezza del valore della “variabile uomo” in ambiti tradizionalmente governati da meccanismi spersonalizzati e spersonalizzanti. Sotto a qualsiasi teoria economica o modello di business si trova l’umanità che tutti condividiamo, fatta di emozioni, sentimenti e potenzialità spirituali che ci appartengono ma non

sempre riusciamo a esprimere bene. Nella tradizione esoterica occidentale, la Kabbalah, rappresentata nell’Albero della Vita, la Sephira n. 8, la Hod, corrisponde, per l’appunto, all’empatia.

La pratica di Hod: l’ascolto empaticoHod è una pratica che si basa più sul comportamento che sulle parole, più sull’at-teggiamento profondo che sulle azioni formali. Hod è la Sephira della buona comu-nicazione, dello scambio autentico e sincero basato sull’empatia.Praticare Hod significa non soltanto vedere l’altro, ma accoglierlo mettendoci nei suoi panni e condividendo i nostri sentimenti piuttosto che il nostro sapere. Hod richiama alla pratica dell’ascolto empatico come fulcro delle relazioni umane autentiche e utili per la crescita personale.Hod è lo spazio sicuro in cui l’altro può entrare perché è il benvenuto, il luogo del silenzio partecipe di chi ascolta con tutta l’attenzione, la partecipazione e il tempo del mondo. La qualità spirituale di Hod sottolinea gli attributi di umiltà

il valOre dell’empatianell’evOluziOne dell’uOmO

(e nella CresCita delle aziende)

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e riconoscimento, smantellando le maschere di facciata e promuovendo l’espressione autentica che porta in modo naturale all’empatia, cioè l’at-titudine a offrire la propria attenzione a un’altra persona mettendo da parte se stessi.La qualità della relazione si basa sull’ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell’altro. Sull’empatia si fonda il processo di

comunicazione non violenta secondo Marshall Rosembreg, allievo di Carl Rogers, che la assume come fondamento del costruire relazioni umane significative superando gli aspetti disfunzionali che preludono ai conflitti.La richiesta di ascolto è connaturata ad ogni essere umano: chiunque ha bisogno di essere riconosciuto dagli altri nella propria identità, nel proprio io e nelle proprie esigenze e difficoltà e aspirazioni.

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KABBALAH:IL SENTIERO DELLO SPIRITOLa Kabbalah è parte della tradizione esote-rica della mistica ebraica che spiega le leggi eterne secondo le quali l’energia spirituale si muove nel Cosmo. Fino a poco tempo fa l’insegnamento della Kabbalah era pressoché inaccessibile. Scritta in lingue antiche, ebraico e aramaico, era anche codificata, preclusa in modo categorico a chi non era seguito da una guida esperta.Oggi la forte spinta verso il recupero della spiritualità ha dato nuova linfa a questi inse-gnamenti che forniscono una chiave di “lettura con il cuore” delle umane vicende quotidiane.

L’ALBERO DELLA VITAL’Albero della Vita è la sintesi dei più noti e importanti insegnamenti della Kabbalah. È un diagramma, astratto e simbolico, costituito da dieci Sephirot, (entità) , disposte lungo tre pilastri verticali paralleli: tre a sinistra, tre a destra e quattro nel centro. È il programma secondo cui si è svolta la creazione dei mondi, la discesa lungo la quale le anime e le creature hanno raggiunto la loro forma attuale.È anche il sentiero di risalita, attraverso cui l’intero creato può ritornare all’unità del “grembo del Creatore”, secondo una famosa espressione cabalistica. L”’Albero della Vita” è la “scala di Giacobbe” (Genesi 28), la cui base è appoggiata sulla terra e la cui cima tocca il cielo.Lungo di essa gli angeli, cioè le molteplici forme di consa-pevolezza che animano la creazione, salgono e scendono in continuazione. Lungo di essa sale e scende anche la consa-pevolezza degli esseri umani.

LE SEPHIROTLe Sephirot corrispondono sia importanti concetti metafisici sia alle situazioni pratiche ed emotive della vita quotidiana. Sono dieci principi basilari, capaci di darle senso e pienezza alla disordinata e complessa vita umana.Sul piano psicologico, le dieci Sephirot sono dieci stati della psiche umana. Il più alto, la Corona, è la condizione di totale trasfigurazione nel trascendente.Vi sono poi due tipi diversi di conoscenza intellettuale, corri-spondenti ai due emisferi cerebrali: la prima più artistica e intuitiva, la seconda più logica e razionale.Sul piano spirituale le dieci Sephirot diventano le “Dieci Potenze dell’Anima” che aiutano costantemente la crescita di coloro che sanno connettersi con esse nel loro cammino di ritorno all’Albero della Vita.

HOD:SPLENDORE, INTELLIGENZA ASSOLUTA E PERFETTANell’Albero delle Sephirot la Sephira numero 8, la Hod, si trova nel quadrante inferiore, quello connesso alle funzioni

della vita materiale illuminata dallo Spirito che in essa discende e si incarna.La Sephira che precede la Hod, la n. 7 Netzach (Vittoria), è relativa all’impulso di aiutare gli altri oltrepassando la barriera dell’ego per aprirsi allo spazio di un’altra persona.Il superamento dell’ego e la percezione dell’altro di Netzach trova piena realizzazione in Hod, che concretizza questo impulso a partire dalla consapevolezza della scintilla divina presente nell’altro e nell’accoglienza incondizionata.Netzach è sul lato destro dell’albero, quello dell’energia attiva e maschile del dare misericordioso, mentre Hod si trova sul lato sinistro, connesso con l’energia passiva femminile, ricettiva e rigorosa.Insieme rappresentano rispettivamente la gamba destra e la gamba sinistra, ciò su cui poggia tutto il corpo. Mentre Netzach è connessa con il fare, Hod ha a che fare con l’essere.

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formazioneAscoltare empaticamente, in concreto, significa:• assumere il punto di vista dell’altro sia pure tempo-

raneamente e provvisoriamente prestando attenzione alle sue parole e cercando di comprendere i significati che hanno nella sua visione del mondo;

• sintonizzarsi profondamente con lo stato emotivo dell’altro e lasciarsi coinvolgere e interrogare da quello che ci proviene da lui;

• fare spazio dentro di sé per accogliere l’altro, ovvero accettare di farsi cambiare dal dialogo instaurato e far tacere se stessi per dare la precedenza all’altro.

L’arte di ascoltare può essere imparata a partire dal realizzare un’apertura profonda che permette di accettare l’altro com’è, semplicemente ascoltandolo, dimostrandogli che si va oltre l’ascolto e si punta alla comprensione.

La verbalizzazione di Hod è “grazie”È la parola che apre le porte dell’accoglienza e crea una zona di conforto per l’altro. “Grazie” contiene l’umiltà di chi riceve e il riconoscimento dell’assoluta preziosità dell’altro, visto e vissuto come essere unico e irri-petibile, con una funzione ed uno scopo altrettanto unici ed irripetibili. La figura di Aronne, nella Bibbia, è quella del grande mediatore per eccellenza ed è associata a Hod. Si dice che Mosè era balbuziente, cosa che gli rendeva difficile parlare con chiarezza. Per questo il Signore, quando gli ordinò di andare a parlare con il Faraone d’Egitto, gli raccomandò di farsi accompagnare da suo fratello Aronne che, invece, aveva grandi doti di eloquenza e la capa-cità di ascoltare con il cuore quello che dicevano gli altri. © Flickr-by erix!

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L’accogliere l’altro contiene anche l’accoglienza per se stessi, pratica tutt’altro che scontata. Spesso alla base delle relazioni difficili c’è proprio il mancato ricono-scimento della propria preziosa individualità, che impe-disce di riconoscerla negli altri. La pratica di Hod si realizza comprendendo che ognuno di noi è pienamente degno di vivere in questo momento e in questo luogo.

La pratica di Hod nella vita: tutto è un’occasioneLa scarsa consapevolezza del proprio valore è spesso alla base di tutti i tentativi di controllare gli eventi esterni indirizzandoli secondo la propria miope visione di “come dovrebbero andare le cose”. Molti insegnamenti spirituali, orientali ed occidentali, concordano invece sul conside-rare gli eventi della vita come occasioni attraverso cui sperimentare la nostra natura divina.In questo senso Hod è il modello dell’accettazione significativa delle avversità, che aiuta a rimanere curiosi ed aperti verso ciò che ci si para davanti e verso i successivi sviluppi. Accettare non significa essere passivi o rassegnati ma, al contrario, vivere totalmente ogni istante, mettersi in ascolto e seguire il flusso degli eventi con il cuore fiducioso e aperto di chi conosce il proprio valore e affronta le prove della vita con l’intima convinzione della sua unicità.

Questa storia ci può aiutare a capire il senso profondo della pratica di Hod: “C’era una volta in un lontano paesetto un povero conta-dino che traeva di che vivere da un campicello che lavorava assieme alla moglie e al figlio e con l’aiuto di un cavallo. Un giorno il recinto venne lasciato inavvertitamente aperto e il cavallo fuggì. I vicini, appresa la notizia, esclamarono: “Poveretto, che sfortuna, e adesso come farai a lavorare?”.Il contadino rispose: “Sfortuna, fortuna, e chi può dirlo!”.I vicini restarono perplessi nel sentire quella strana risposta. Dopo qualche settimana il cavallo che era scappato tornò portandosi dietro una mandria di cavalli selvaggi che furono rinchiusi nel recinto. I vicini, vedendo tutti quei cavalli, esclamarono: “Che fortuna!” E il contadino ancora una volta rispose: “Fortuna, sfortuna, e chi può dirlo!” I vicini resta-rono ancora più perplessi nel sentire quella risposta. Dopo qualche giorno, mentre il figlio stava domando uno dei cavalli, cadde a terra e si ruppe un piede. I vicini subito esclamarono: “Che sfortuna, e adesso come fai?!” E il contadino ancora una volta rispose: “Sfortuna, fortuna, e chi può dirlo!”. I vicini non sapevano più che cosa pensare del vecchio. “Forse è matto!”, pensarono. Dopo qualche settimana comparvero in paese alcuni soldati che reclutavano i giovani validi per la guerra. Quando entrarono nella capanna trovarono il giova-notto zoppicante e naturalmente lo scartarono, mentre tutti gli altri giovani furono reclutati. I vicini non ci videro più: “Che fortuna!” E il vecchio contadino ancora una volta rispose imperturbabile: “Fortuna, sfortuna, e chi può dirlo!”.

L’evoluzione di Hod: altruismo e compassioneLa Sephira successiva alla Hod è la n. 9 Yesod, in cui si concentrano tutte le emozioni, la base della propria persona-lità, le aspirazioni nascoste, gli ideali, le attrazioni emotive. Yesod governa anche il riuscire a fondere insieme tutto ciò che si ha da dare e l’indirizzarlo verso la persona giusta nel momento giusto. Il flusso d’amore di Yesod riguarda l’impegno verso il vero e proprio essere della persona amata, attraverso cui si realizza la nostra natura altruistica e compassionevole. Ci arriveremo.

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tecnologie e web

di Emanuela Zaccone

Nel febbraio 2010 la francese Quantic Dream ha rilasciato in esclusiva per Playstation 3 Heavy Rain, videogame basato su una forte trama narrativa, innovative modalità di interazione con il gioco e il ruolo centrale dell’utente nel determinare l’an-damento della storia. Per acquisire familiarità con il gameplay stavo seguendo le azioni quotidiane di uno dei personaggi principali e a un certo punto fa il suo ingresso un nuovo personaggio: la moglie di ritorno dalla spesa. È nel preciso momento in cui posa i pacchi sul tavolo della cucina che mi giunge – come un’epifania – la risposta al topic di questo

numero: 8 è il numero dell’interazione, anzi dell’”interottività”. I pacchi della spesa provengono dall’8 Shop.

Come, in realtà, gli utenti e le loro aggregazioni “volatili” in forme neo-tribali nell’online sono insiemi di singoli che operano secondo logiche di intelligenza collettiva in un contesto di economia partecipativa; allo stesso modo il numero 8 è la risultante di più numeri, di cui costituisce il multiplo e per i quali è divisibile/sommabile/sottraibile, in un intreccio di possibili operazioni e relazioni che, nell’insieme, ci portano a dire che 8 è il numero dell’interattività.

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Così ho individuato le otto dinamiche che, a mio parere, conducono a un effettivo coinvolgimento degli utenti, quattro coppie di elementi che individuano le quattro coordinate dell’interattività.

1 e 2. Co-creazione e crowdsourcing, il brand dentro la vita degli utenti A differenza del crowdsourcing, che tende a esternaliz-zare il processo creativo degli utenti, la co-creazione si basa su una maggiore presenza del brand, in una logica di peer production che, non distinguendo più tra produzioni top-down e bottom-up, mira al raggiungimento di un risultato che provenga da uno sforzo congiunto. In entrambi i casi, l’apporto degli user generated contents costituisce un aspetto fondamentale.

Ne sono esempio alcuni casi significativi legati al cibo e ai social networks: la catena americana Papa

John’s Pizza che ha lanciato un contest via Facebook per elaborare la ricetta di una nuova pizza; il “Create Your Pizza Challenge” promosso da Pizza Express in Gran Bretagna e che consentiva di votare i finalisti attraverso le piattaforma MePlease e Facebook; Dunkin’ Donuts che nel 2009 e nel 2010 ha lasciato che fossero gli utenti a proporre i nuovi tipi di ciambella da mandare in produzione (qualcosa di analogo al nostro Il Mulino che vorrei ).Cambiando settore, nel maggio 2010 ABC stessa ha delegato ai suoi utenti addirittura la creazione del promo per l’episodio finale dell’ultima stagione di Lost, riconoscendo loro un’expertise e un “possesso” della serie probabilmente più elevato (e più a basso costo) di quello dei suoi stessi realizzatori.

Negli ultimi tempi, inoltre, si è assistito sempre più spesso a casi di user generated ads: Peeperami, storico brand di Unilever, ha “delegato” ai fan il compito di costruire una

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tecnologie e webnuova pubblicità; nel 2008 la pubblicità Doritos fatta in casa da due giovani a costi davvero minimi grazie alla campagna dell’agenzia Abbott Mead Vickers BBDO “You make it, we play it!”; più di recente in Italia, UserFarm (piattaforma crowdsourcing, nata in seno a TheBlogTV) ha lanciato un contest per la user generated ad dell’acquavite Prime Uve di Bonaventura Maschio.Così sono nate iniziative come IdeaBounty (utilizzata anche nel caso Peeperami), una piattaforma collaborativa pensata proprio con l’intento di raccogliere i “problemi” dei brand che cercano nell’aiuto degli utenti la loro soluzione (un successo, dato che numerosi sono stati i marchi – tra cui Chevrolet, BMW, WWF e Red Bull – che si sono affidati alla piattaforma).

Per fare ancora un esempio, Twitter si è rivelato un efficace strumento di co-creazione, soprattutto in termini narrativi. Nell’agosto del 2009 è stato lanciato @YourOpera, un’iniziativa promossa dalla Royal Opera House di Londra per il festival Deloitte Ignite che mirava a costruire, insieme agli utenti, un libretto d’opera e a farne uno spettacolo da realizzare e mettere in scena tra il 4 e il 6 settembre: a partire da una frase iniziale i followers erano invitati a continuare la storia utilizzando Twitter ed effet-tuando la mention all’account. Tra il 24 novembre e il 6 dicembre 2010, invece, è stato possibile partecipare a Tim Burton - Cadavre Esquis in cui l’utente poteva contribuire a una storia, avviata sull’ac-count Twitter @BurtonStory, sperando che i propri tweets fossero tra quelli selezionati per diventare parte del racconto finale: lo scopo in questo caso era quello di generare buzz in vista del Toronto International Film Festival (TIFF), che avrebbe ospitato la rassegna del MoMA “Tim Burton”.

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3 e 4. Geotagging e user generated contentsAnche i social network che si basano sulla geolo-calizzazione stanno spingendo alla creazione di user generated contents al proprio interno: a un livello assolutamente basico, sappiamo tutti (o quasi) che è possibile aggiungere nuove venues e luoghi su FourSquare, Facebook Places e Gowalla, ma è anche vero che ci sono una serie di altre azioni che è possibile fare come inserire dei tips (suggerimenti per chi effettuerà il check in in quel luogo), taggare gli amici che sono con noi, sincronizzare i propri check in su tutti questi servizi (è quanto promette di fare Gowalla con la sua versione numero 3).Il vantaggio per le aziende è evidente in termini di segmentazione e di raccolta di dati socio-statistici, dall’altra parte è sfruttabile anche in termini di offerta di deal, sconti o altre facilities (vedi caso Coin Italia o Google HotPot) che vanno a beneficio dell’utente e giovano alla sua fidelizzazione.Quello che manca, forse, è un’apertura verso gli user gene-rated badges, una possibilità di re-design da parte degli utenti che darebbe ai brand un ulteriore motivo per stabilire un legame più forte con i propri fan.

5 e 6. Dinamiche ludiche (videogames) e interazioneSe da un lato va riconosciuto che PlayStation Network e i sevizi di rete di Xbox contribuiscono a creare una community che si traduce, non solo in possibilità di trovare un “compagno di gioco”, ma anche in possibilità di dialogo con i propri contatti (letteralmente di chat), è vero anche che in quest’ambito troviamo un esempio davvero virtuoso di user generated content e interazione: Little Big Planet [cfr. BCm n°004 pagg. 94-97], giunto

già al suo secondo capitolo. Il primo capitolo del platform game prodotto dall’inglese Media Molecule per PlayStation 3 fu lanciato nel 2008 e l’innovazione era evidente: accanto alla classica modalità di gioco era possibile creare anche degli user generated levels e il giocatore si trasformava così in game designer potendo, oltretutto, condividere la propria creazione, votare e giocare quelle altrui.Il successo è stato straordinario: a fine 2009 si conta-vano già 1,5 milioni di user generated levels, tanto che Media Molecule organizzò anche dei Sackies Awards (da Sackboy, protagonista del gioco) per premiare i migliori livelli creati dai modders.

7 e 8. Generated knowledge top-down e generated knowledge bottom-upAccanto a tutti i casi analizzati, emerge con evidenza un’ul-tima categoria, quella della user generated knowledge, riportabili ad una doppia origine: top-down (notizie riprese e rimaneggiate dagli utenti) e bottom-up (creazione dal basso che può trovare poi attenzione nei canali tradizionali).Da Wikipedia al citizen journalism e a Wikileaks, il potere della Rete e la centralità degli utenti nella creazione e condivisione della conoscenza non ha mai cono-sciuto eguali nella storia dei media.

Otto categorie, quattro coppie di elementi che ci consentono di riportare tutto a soli due termini: gli users con la loro capa-cità di creare contenuti e la Rete. Nell’interattività di questi due poli si gioca il futuro dei brand e la costante ridefinizione del nostro ruolo nel mercato.

© Flickr-by bastique

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di Alessandro Vitale

Internet, un mondo discusso, discutibile, che piace, che non piace che... è parte della nostra vita, utilmente o inutilmente. Ma la Rete può essere un veicolo utile alle aziende, alla Piccola e Media Impresa (PMI), al branding reputazionale aziendale? Ci sono, a mio avviso, molti buoni motivi per intraprendere un percorso di web marketing per la propria azienda, ditta o impresa familiare, ma occorre comprendere cos’è e quando usare il web marke-ting, nonché saperne identificare le figure professionali che possono ritenersi incluse in tale settore e che devono avere specifiche caratteri-stiche e professionalità finalizzate ad accrescere e trasferire il traffico di

utenti “interessati” a siti web, blog, portali, al core business di PMI, aziende, profili professionali, prodotti, blog personali ecc…Le attività di search engine marketing sono, ad esempio, incluse nel web marketing che studia anche i motori di ricerca sfruttandone alcune caratteristiche come la possibilità di rivolgersi ad un target che esplicita direttamente le proprie necessità attraverso un’interrogazione (query di ricerca) ai vari Bing, Yahoo!, Google ecc…

Non è facile indicare univocamente quali siano gli strumenti migliori da utilizzare in una strategia di web marketing e quando vadano usati poiché ogni progetto ha una sua particolarità, tradizione, storia, evoluzione... ma le 8 tecniche di seguito elencate possono essere ritenute, a mio parere, le più importanti in quanto più frequentemente applicate nel web marketing professionale:

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• Branding e Benchmarking Online, ovvero l’incre-mento della notorietà del marchio attraverso i risultati presenti negli indici dei motori di ricerca e lo studio dei competitors presenti sui motori di ricerca (sia in termini di saturazione del canale che in termini qualitativi dei messaggi/contenuti proposti);

• CopyWriting, cioè la scrittura di contenuti di qualità e originali al fine di determinare un buon posizionamento sui motori di ricerca;

• Microblogging che consiste nella pubblicazione costante di piccoli testi in Twitter, Google Buzz e simili;

• Brand Monitoring che si occupa del monito-raggio del sentiment nei risultati dei motori di ricerca e dei social network;

• Online customer support, nient’altro che l’assistenza clienti online (utilissimo può essere l’utilizzo di Facebook e Twitter nell’implementazione di questa tecnica);

• Pay per click o Search Engine Advertising (SEA) , cioè la modalità di acquisto e pagamento della pubblicità online che prevede la gestione di campagne di link a paga-mento su siti e portali che maggiormente consentono di raggiungere il target d’impresa;

• KeyWords Advertising, molto simili alle precedenti (vedi AdWords di Google o il Serch Advertising di Bing);

• Digital Asset Optimization (DAO) la quale assicura che i motori di ricerca raccolgano tutti i contenuti: video, animazione, podcast, bacheche, mappe, immagini e altri file non basati su testi scritti.

Quello che le aziende dovrebbero capire è che, se una sponsorizzazione tradizionale, una campagna basata su spot televisivi o delle inserzioni su editoria cartacea sono azioni limitate nel tempo, un sito web aziendale, studiato da professionisti del settore e che preveda azioni mirate di web marketing è uno strumento duraturo, che si arricchisce man mano con i commenti diretti degli utenti, che può divenire una fonte di ricchezza enorme per l’azienda stessa.Deriva anche da questo la necessità di far chiarezza e distinguere chi si occupa di web design da chi è specializzato in Search Engine Marketing o Search Engine Optimization: tali professionalità sono enormenmente differenti tra loro, pur se estrema-mente complementari in quanto occorre che lavorino in team al fine di poter raggiungere e utilizzare tutte le compe-tenze professionali necessarie ad analizzare il progetto da strutturare, l’azienda e i suoi prodotti, i punti di forza come quelli di carenza... per poi sviluppare un prodotto web in grado di conseguire obiettivi e risultati specifici, che possa essere misurato e corretto, che sia in grado di evolvere con il passare del tempo.

La figura professionale, ancora poco conosciuta, del SEM (Search Engine Marketer) fornisce supporto ai brand, ai copywriter, ai SEO, ai web designer

finalizzando l’azione di marketing e di advertising nella Rete. Il SEM è un professionista capace di immagi-nare la strategia necessaria per prodotti, servizi, brand da presentare all’utenza online e la loro diffusione e crescita nel tempo anche attraverso i social media.In Italia, questa figura professionale viene spesso confusa con quella di un consulente di marketing generico in quanto capita sovente di ricevere richieste di consulenza per affi-nare strategie e, qualche volta, anche tattiche di advertising offline. Tale pratica, in realtà, se non fosse basata sul puro misunderstanding, su un errore di definizione del ruolo professionale specifico, a mio modo di vedere potrebbe dive-nire anche un modello vincente in cui più realtà riescono ad interagire con il massimo profitto.

La funzione del SEO (Serch Engine Optimizator), invece, consiste nell’immaginare la tipologia di piattaforma web da impiegare, studiare la strategia pianificata dal SEM, guardare i contenuti fornita dal copywriter, nonché “ottimizzare” al meglio tutto il materiale a disposizione. Il SEM ha “analizzato” i competitors e le saturazioni degli indici dei motori, dei testi, delle valenze, le ridondanze, la densità ecc… il SEO rende “leggibile” e appetibile quei contenuti ai motori di ricerca al fine di ottenere il miglior posizionamento possibile per tutti i contenuti, prodotti e servizi, puntando al massimo dei risul-tati negli indici dei motori di ricerca. Monitora i risultati e

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i miglioramenti, apporta modifiche per accrescere o affinare l’efficacia delle strategie e cerca di aumentarne la pertinenza in base alle query di ricerca che tutti i giorni si ricevono.

Il web designer è colui che lavora a stretto contatto con il programmatore (che trasforma in linguaggio tecnico le idee per la Rete), il SEM, il SEO e il copywriter in modo da rendere un sito web, un blog, un portale o un negozio e-commerce gradevole e usabile, con l’obiettivo di creare interesse senza mai complicare la navigazione all’utente.

Il copywriter, colui che si occupa della stesura dei testi scritti, è probabilmente diventato il vero “core” del web marketing. Se un tempo il web e i risultati erano influenzati dalla popolarità dei link che puntavano a un determinato sito web o pagina, da keyword ridondanti ecc… oggi la differenza la fanno i contenuti: i motori di ricerca si sono evoluti e non bastano più i pacchetti di parole chiave inseriti nei testi, le valenze, la popolarità ecc. Tutti fattori che non possono essere più confusi con modelli di ottimiz-zazione standard (Pay Per Click o KeyWords Advertising).

Personalmente sono sempre più convinto che la seman-tica, la qualità e l’originalità dei contenuti, la pulizia di un progetto web, debbano essere considerati come una “risorsa” per l’utente e per l’azienda quanto per i motori

di ricerca. Si sta andando verso un web sempre più interattivo, che dia delle risposte, e sempre più influenzato dai contenuti, dalla rappresentazione e dall’ottimizzazione (a partire dal codice di scrit-tura). Dunque si dovrebbe abbandonare del tutto la pratica di costruire spazi online statici, che non prendono in consi-derazione questi fattori, che si reggono ancora sulla quan-tità di link pubblicati, sulla densità e ridondanza oscena di parole chiavi nei titoli ecc…È possibile immaginare che si arriverà alla creazione di un motore di ricerca che valuti la bontà tecnica, l’originalità e la corrispondenza dei link interni verso contenuti attinenti. Google Instant è forse la prova effettiva dell’affermazione della Digital Asset Optimization (DAO), dove tutti i contenuti sono ottimizzati per determinare dei risultati.Il web contemporaneo, il web marketing, i motori di ricerca, hanno bisogno di qualità, di professionisti che rendano i siti web delle risorse uniche. Devono essere “utili” agli internauti per determinarne l’esigenza di ricerca, l’acquisto, l’informa-zione. Se ciò si realizzasse tutti ne trarrebbero giovamento: i professionisti, i motori di ricerca, la Rete e le aziende.

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