brand care magazine 006

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b u s i n e s s t h i n k i n g Brand Care magazine • ISSN: 2036-6213 • Anno II numero 006 • settembre-novembre 2010 | Poste Italiane SpA - Spedizione in abb. post. 70% DCB Roma

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iDentity – consumi, media, lavoro, reputation, narrazioni. La "cover story" di Brand Care magazine 006 riguarda il tema dell'identità. I brand, i social network, le produzioni seriali televisive, il design e l’arte contemporanea, ma anche - perché no - la creatività enogastronomica, raccontando delle storie e trasmettendo dei valori danno vita a meccanismi aggregativi che coinvolgono i prosumer dei nostri giorni, i quali socializzando (in modo virtuale o fisico) plasmano il proprio profilo identitario.

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EditoreQueimada di Bernabei & Colucci snc

via V. Veneto, 169 - 00187 RomaP. IVA e CF 02249990595

[T] +39 06 4871504 [F] +39 06 62275519 [S] queimada_skype [W] www.brandcareonline.com [@] [email protected]

Direttore responsabile Sergio Brancato

Contributors n° 006Alfonso Amendola, Tonia Basco, Davide Bennato, Vincenzo Bernabei, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Mas-simo Caiati, Vanni Codeluppi, Alessandra Colucci, Piero Costantini, Paola Cutini, Patrizio Di Nicola, Gioia

Gabellieri, Luigi Granato, Giulia Grechi, Emi Guarda, Pasquale Napolitano, Gianfranco Pecchinenda, Daniele Pittèri, Erica Speranza, Tania Valentini, Samad Zarmandili.

Brand Care magazine addicts

Alberto Abruzzese, Alfonso Amendola, Davide Bennato, Claudio Biondi, Sergio Brancato, Ciriaco Campus, Gabriele Caramellino, Giulio Como, Fabrizio Contardi, Vanni Codeluppi, Patrizio Di Nicola, Francesco

Fogliani, Carlo Forcolini, Francesco Maria Gallo, Viviana Gravano, Paolo Iabichino, Ilaria Legato, Gabriele Moratti, Mario Morcellini, Vincenzo Moretti, Gianfranco Pecchinenda, Luca Peroni, Marco Pietrosante,

Daniele Pittèri, Alberto Prase, Roberto Provenzano, Guelfo Tozzi, Davide Vasta.

Art Direction, cover e titoliNiko Demasi

Grafica e impaginazioneMartina Finelli

StampaGrafica Metelliana

Via Gaudio Maiori - Zona industriale - 84013 Cava de’ Tirreni

PubblicitàQueimada snc

PolicyI contenuti e le opinioni espresse dagli autori dei singoli contributi e dagli intervistati non coincidono

necessariamente con quelle di Brand Care magazine. Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende. Nessuna parte del contenuto di questo magazine può essere pubblicata, fotocopiata,

distribuita e diffusa attraverso qualsiasi mezzo - online e offline - senza il consenso scritto di Queimada snc, fatta eccezione per i contenuti in cui vi è espressamente indicato un regime di diritto d’autore diverso (es:

Creative Commons).

Registrazionepresso il Tribunale di Roma n° 250/2009 del 21/07/09

Iscrizionepresso il Registro degli Operatori di Comunicazione n° 18728

ISSN2036-6213

SETTEMBRE-NOVEMBRE 2010 - N°006Brand Care magazine

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di Sergio Brancato

Chi o cosa siamo? Questa domanda è il big bang della filosofia. Fin dalle ancestrali narrazioni del Mito la questione riemerge instancabilmente, animata da una inesauribile energia, esigendo risposte sempre nuove e allineate allo spirito del tempo. L’Ottocento, per esempio, è stato il secolo dei conflitti e delle classi industriali, proponendo un’idea di società fondata sulle logiche della produzione. Allora ci si riconosceva in una identità collettiva fondata sul “noi” del lavoro, marciando con il quarto stato di

Pellizza da Volpedo sulle strade dell’immaginario e dei suoi simboli. Ma il quadro del pittore piemontese, portato a compimento nel 1901, ritrae una realtà che allora è già in parte mutata. Il “chi siamo?”, infatti, nel corso del 20° secolo e proprio a seguito degli effetti sociali del lavoro industriale, si lega sempre più a nuove dimensioni dell’identità: quelle definite da una pratica del tutto nuova, i consumi di massa.Da “sono quel che faccio” si passa al “sono quel che consumo”. Per molto tempo questo spostamento d’asse è stato stigmatizzato dalle ideologie anticonsumiste. In realtà, nelle dinamiche del consumo si depositano le scelte

editoriale

MARKETING,IDENTITÀ EBIG BANG

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che fanno di noi un noi. È nei consumi che emergono sia gli orien-tamenti alla conformità sociale (identificazione con una comunità di appartenenza), sia quelli all’individualismo. In questo scarto se-mantico si insedia la fortuna dell’ossimoro uomo-massa: sia-mo parte di un insieme e allo stesso tempo ci riteniamo unici e irripetibili. Siamo solo una particella infinitesimale del mondo, eppure ci pensiamo al centro di esso.

I modi in cui ci siamo raccontati la società di massa ruotano tutti intorno a questa apparente con-traddizione. La vicenda del sog-getto moderno, bilanciandosi tra le istanze della sociologia e quelle della psicanalisi freudia-na, ci restituisce l’irrisolvibile dilemma del conflitto tra Io e Noi. Eppure, proprio dentro questo dissidio si edificano le nuove condizioni d’esistenza nella società postindustriale. Perché il nostro habitat è mu-tato, soprattutto per quanto ri-guarda i media, ovvero gli apparati socio-tecnici che cartografano il territorio in cui si producono le nostre identità. Siamo quindi passati dall’ideologia della pubblicità come persuasione occulta a quella del marketing come rete dialogante tra soggettività mobili, nomadi, liquide. Un salto niente male.

In questo Brand Care magazine n° 006 tentiamo di riportare la domanda di partenza (chi o cosa siamo?) sul terreno ope-rativo della comunicazione. Ci si interroga sul nesso tra marca e identità, proba-bilmente l’argomento che go-verna i processi di transizione oggi in atto nel marketing. Si indagano gli effetti del mu-tamento identitario legati all’avvento del web sul piano delle strategie di comu-nicazione. Ci si chiede quali

siano i nuovi caratteri narrativi che stanno emergendo nel quadro dei processi di produzione delle identità. Per molti versi, ci poniamo la solita vecchia domanda. Consapevo-li, tuttavia, che la risposta non è mai la stessa.

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profili

MASSIMO CAIATICopywriter dal 2002, prima per DDB Mi-lano e Saatchi & Saatchi Roma, ora in Saatchi & Saatchi Gi-nevra. Rappresentante

italiano dei creativi under 28 a Cannes 2007, vincitore dell’Antenna d’Argento al Radiofestival nel 2008 e Bronzo all’Art Directors Club Italia nel 2008.

EMI GUARDALaureata in storia del-l’arte contemporanea con tesi in semiologia culturale su Iconicità e Ferita; prima e Riviste Italiane d’Avanguardia

degli anni ‘60 dopo, ha lavorato come as-sistente all’organizzazione eventi alla Fon-dazione Baruchello e fatto una breve tappa al Castello di Rivoli a Torino. Scrive di eventi/spettacoli e di arte su Teknemedia.com. Si sostenta lavorando con l’energia (elettrica).

VANNICODELUPPIDocente all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha insegnato negli atenei di Urbi-no, Palermo e IULM

(MI). Esperto di fenomeni comunicativi del mondo dei consumi e della cultura di massa tradotto in Francia, Spagna, Inghilterra e Giappone, ha tra l’altro pub-blicato: La vetrinizzazione sociale (Bollati Boringhieri), Il biocapitalismo (Bollati Boringhieri) e Tutti divi. Vivere in vetrina (Laterza).

TONIA BASCOSi laurea in Scienze della Comunicazio-ne con una tesi in Sistemi Organizzativi Complessi, che por-ta alla realizzazione

di un sito dedicato al telelavoro. Mentre sogna di diventare “cittadina romana”, vive in un paese grazioso ma piccino piccino, consolandosi con tanti bei libri, buona musica e cari amici. Ha un figlio bellissimo che colora ogni giornata con un pastello diverso.

PATRIZIO DI NICOLAInsegna Sociologia dell’Organizzazione a La Sapienza e si diverte a coordinare progetti internazionali.

Esperto di mercato del lavoro, nuove tec-nologie e, tra i primi in Italia, di telelavoro e Internet, fonda Futuribile srl con l’obiet-tivo di produrre idee pazze e tentare di rea-lizzarle. Ogni anno porta gruppi di studenti in America a frequentare corsi e summer school. Ha una moglie e tre figli.

PAOLA CUTINI Laureata in Scienze della Comunicazione con specializzazione in Editoria e Gior-nalismo. Ancora in cerca di una definitiva

identità professionale, si tiene impegnata collaborando con diverse testate giornali-stiche e con la cattedra di “Sistemi orga-nizzativi complessi” del Prof. Patrizio Di Nicola (La Sapienza). È una delle autrici di Professione giovani, in onda su Radio Articolo 1.

ALESSANDRA COLUCCI Laureata in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Univer-sità di Roma) con una tesi sul Product Place-

ment. Oltre a essere titolare di Queimada – Brand Care, insegna produzione audiovi-siva, comunicazione e marketing in diversi master universitari. Adora cinema, design e pubblicità in qualsiasi forma. Viaggiare, connettere e organizzare le sue passioni. Ha un blog che porta il suo nome: www.alessandracolucci.com.

GIANFRANCOPECCHINENDACresciuto in America Latina, si è laureato in Sociologia e in Filoso-fia per intraprendere poi la carriera accade-

mica. Attualmente Insegna Sociologia della Conoscenza alla Federico II di Napoli e, presso lo stesso Ateneo, è Preside della Fa-coltà di Sociologia. Tra le sue opere: Video-giochi e cultura della simulazione (Laterza), Homunculus (Liguori) e il libro di racconti L’ombra più lunga (Colonnese).

SERGIO BRANCATOInsegna Sociologia della Comunicazione (Università di Salerno) e Sociologia dell’Indu-stria Culturale (Federi-

co II di Napoli). Si occupa di media, società e cultura di massa. Ha pubblicato tra gli altri: Fumetti (Datanews); Sociologie del-l’immaginario (Carocci); Introduzione alla Sociologia del cinema (Sossella); La città delle luci (Carocci); Senza fine (Liguori), Il secolo del fumetto (Tunué).

DAVIDE BENNATO Insegna Sociologia dei processi culturali e co-municativi (Università di Catania). Studioso dei rapporti tra innova-

zione e tecnologia, è consulente aziendale di formazione, social media e strategie di ricerca sociale in ambiente web 2.0. Ricer-catore per la Fondazione Einaudi (Roma), co-fondatore e vicepresidente di STS Italia. Scrive su: Internet Magazine, tecnoetica.it, processiculturali.it, puntobeta.net.

DANIELEPITTÈRI

Esperto di comuni-cazione, si occupa di pubblicità, comu-nicazione strategica,

industria culturale e media events. Docen-te alla Luiss (RM) e alla Federico II (NA), presidente di Labcom srl, editorialista de La Repubblica, ha pubblicato tra gli altri: Fabbriche del desiderio (Sossella), La pubblicità in Italia (Laterza); L’intensità e la distrazione (Franco Angeli); Democrazia elettronica (Laterza).

ALFONSOAMENDOLA Insegna all’Universi-tà di Salerno dove è Vice-presidente del Centro Studi sulle Rappresentazioni Lin-

guistiche. Si occupa dei rapporti tra culture d’avanguardia e culture di massa. Tra i suoi libri: Frammenti d’immagine (2006); Per una poetica del molteplice (2007); L’im-maginazione audiovisiva (in corso di edi-zione); ha curato, con Emilio D’Agostino Il desiderio preso per la coda (2008) e L’altra lezione (2009).

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LUIGI GRANATOLaureato in Comu-nicazione (Sapienza Università di Roma) con una tesi sulla serialità televi-siva americana, col-

labora presso l’Osservatorio sulla Fic-tion Italiana. Appassionato di Cinema e Tv series, scrive soggetti e sceneggiature. In attesa di diventare il J.J. Abrams de noantri fa il custode di un oratorio: ragazzini-rin-coglioniti, padri-bambini e madri-isteriche sono per lui preziosa fonte d’ispirazione.

PASQUALE NAPOLITANOCul to re in Comu-nicazione Visiva e dottorando in Scienze della Comunicazione all’Università di Sa-

lerno, collabora con la cattedra di Disegno Industriale ed è curatore dei Laboratori Di-dattici di Comunicazione Visiva. Artista mul-timediale, performer ed esperto di design e comunicazione visiva, insegna in vari istituti ed è cultore in Analisi dell’Opera Multime-diale (Università Orientale - Napoli).

ERICA SPERANZALaureanda in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Uni-versità di Roma) con una tesi sull’Organiz-zazione e Gestione

degli Eventi Sportivi, scelta motivata dalla partecipazione alla Finale di Champions League di Roma 2009. Forte interesse per le strategie di marketing e comunicazione che cooperano nella costruzione di brand forti, e nelle dinamiche organizzative inter-ne all’impresa.

MARTINA FINELLILaureanda in Dise-gno Industriale. (La Sapienza Università di Roma). Linguista a tempo perso e aspiran-te grafica, si interessa

tanto al significato quanto al significante della parola scritta. Lettrice accanita e ap-passionata di arte e design.

VINCENZO BERNABEILaureato in Scienze della Comunicazione (La Sapienza Univer-sità di Roma) pubblica la sua tesi dal titolo Ci-

nema: Evasione, strategie di fuga nel più invasivo dei media con Tilapia. Titolare di Queimada – Brand Care, dal 2008 si divide tra l’ufficio e l’Università di Salerno, dove è dottorando di ricerca e studia i media e la sociologia dei processi culturali

CLAUDIO BIONDIEntra nel mondo dello spettacolo come attore; aiuto regista in circa 30 tra film, inchieste e serie TV; per oltre 20 titoli é produttore ese-

cutivo o produttore, uno su tutti I misteri della giungla nera. Autore di saggi, tra cui Come si produce un film (Dino Audino Editore), è ora docente di produzione au-diovisiva in numerosi master universitari. www.hstrial-cbiondi.homestead.com.

TANIAVALENTINI Laureata in Sociologia (Sapienza Università di Roma) ed esperta di marketing e comunica-zione. La passione per

il cibo è sempre stata presente nella sua vita, nella sua cucina e nell’organizzazione di eventi sino a diventare oggi una blogger professionista con un blog enogastrono-mico: da un anno è la curatrice di a ba-gnomaria del network di Blogosfere.

GIOIAGABELLIERIPsicologa e docente di Cinematerapia alla Nova Southeastern University di Miami (USA). Tiene laborato-

ri di Cinematerapia alla facoltà di Scienze della Comunicazione (Sapienza, Università di Roma), seminari di Team building e Cinematerapia all’Università Cattolica di Milano. Tra le sue pubblicazioni: Le imma-gini dietro le emozioni, Guerini e Associati (2008).

SAMADZARMANDILI Regista e giornalista pubblicista. Laureato in Storia e Critica del Cinema (Sapienza, Roma), entra nel mon-

do del cinema come aiuto regista e collabo-ra alla realizzazione di programmi TV. Scri-ve e dirige diversi corti, video, documentari e backstage, partecipa a molti festival. Nel 2009 Sole Rosso, il suo primo lungome-traggio, è selezionato per la Fabbrica dei Progetti al Festival Internazionale del film di Roma.

PIEROCOSTANTININasce nel 1977 in un paese del distretto industriale di Udine. A 20 anni comincia la sua carriera di monta-

tore, vfx artist e regista di videoclip a Mi-lano . Nel 2000 fonda Sputnik Media, casa di produzione orientata alle nuove tecniche di composizione dellʼimmagine. Dal 2004 vive a Roma e dirige, da regista, cortome-traggi, spot, documentari e videoclip per importanti brand italiani.

NIKO DEMASILo sguardo schizzato di Jack che chiama Dan-ny inseguendolo nella neve è tra i suoi ricordi d’infanzia più limpidi. Laureato in Comunica-

zione (Sapienza, Roma), esperto di proget-tazione multimediale, la voglia di “cucina-re” nella stessa pentola musica, grafica e video lo fa diventare un motiongrapher. Il mistero dei suoni e delle immagini è la sua passione. Da ottobre 2009 è l’art director di Queimada-Brand Care.

GIULIA GRECHILaureata in Scienze della Comunicazione (La Sapienza, Roma), collabora con la cat-tedra di Antropologia Culturale del Prof.

Canevacci. Dottore di Ricerca in Teoria e Ricerca Sociale, si occupa di studi cultu-rali, visuali e postcoloniali, con focus sulla relazione tra antropologia e arte contem-poranea. È assistente al coordinamento e docente del Master per Curatore Museale e di Eventi (IED, Roma).

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indice

comunicazione«QUESTA È LA NOSTRA ASCIA, LA NOSTRA TRIBÙ»Un dialogo sull’identità contemporaneadi Sergio Brancato e Gianfranco Pecchinenda

14

LAVORO E IDENTITÀBreve storia di una relazione complessadi Patrizio Di Nicola e Paola Cutini

30

IDENTITÀ: ACQUISIZIONI E PERDITEdi Daniele Pittèri44

creativitàVENDITORI O CACCIATORI DI LEONI? Creativi in crisi d’identitàdi Massimo Caiati

42

LA FINE DELL’UOMO TUTTO D’UN PEZZOLe molteplici identità del consumatore postmodernodi Tonia Basco

34

L’IDENTITÀ DELLA MARCA TRA COERENZA E INCOERENZAdi Vanni Codeluppi54

DESTINAZIONE BRANDSoluzioni per la comunicazione delle identità territoriali di Erica Speranza

84

marketing

MARCHE (IDENTITARIE)Storie di brand dal volto umano e individui che si auto-promuovonoFOCUS ON: I Lovemarksdi Vincenzo Bernabei

56

SIAMO NOI CIÒ CHE MANGIAMO?Il delicato rapporto tra cucina e identitàFOCUS ON: Amatriciana vs. Matricianadi Tania Valentini

72

LA FORZA DELL’IDENTITÀ NELLE TV SERIESFocalizzare il concept, definire il protagonista:precondizioni indispensabili per il successodi Luigi Granato

92

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tecnologie e webDIGITAL LIFESTYLEIl lato tecnologico dell’umanitàdi Davide Bennato

20

DALLA FICTION ITALIANA A YOUTUBEIdentità del linguaggio audiovisivodi Piero Costantini

96

BRAND 2.0 (1a puntata)Dalla brand identity alla brand reputation con i social mediaFOCUS ON: Social landscape per aziendedi Alessandra Colucci

24

business

CLAUDE CAHUNL’identità nel nome, lo pseudonimo come Altro da sédi Emi Guarda

IDENTITÀ METROPOLITANE TRA FOTOGRAFICA E SONORITÀL’incandescenza e la forma del Giappone nell’opera di Nicola Guarini (e dei Vidra)di Alfonso Amendola

OVERLAPPING DISCRETE BOUNDARIESAlessandro Carboni: esplorazione dell’identità glocale della metropoli contemporaneadi Pasquale Napolitano

38

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culture

66

formazioneIDENTITÀ E NARRAZIONEdi Claudio Biondi

L’ARTISTA COME ETNOGRAFOdi Giulia Grechi78

SOLE ROSSOUna nuova identitàdi Samad Zarmandili

90

86CHI È IL REGISTA NELLA MIA TESTA?Il cinema come strumento per capire meglio se stessidi Gioia Gabellieri

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comunicazione

14

Sergio Brancato: Gianfranco, possiamo partire dicendo che è difficile pensare di poter affrontare qualsiasi analisi sulla società, qualsiasi fenomeno, senza fare riferimento ai temi sostanziali, classici dell’identità. Si tratta infatti di un concetto che si lega profondamente alla storia della sociologia e alla attitudine tipica-mente moderna alla classificazione delle forme sociali.Tu hai studiato a lungo questi temi, iniziamo a delinearne i tratti distintivi.

Gianfranco Pecchinenda: Sicuramente il tema dell’identità è tra i più trattati nell’ambito delle scienze sociali negli ultimi 20 o 25 anni, e su questo argomento esiste una bibliografia enorme che cresce continuamente nei diversi settori di studio.Per quanto riguarda me, posso dire un’apparente banalità, e cioè di essermene occupato in ambito sociologico e in Italia, e questa non è soltanto una demarca-zione puramente accademica e geografica, bensì una precisazione importante sia dal punto di vista teorico che pragmatico. La questione dell’identità, insomma, è uno di quei concetti che meglio riassumono la complessità del pensiero sociologico, perché evidente-mente su carta tutti sanno che cos’è l’identità, e in via ipotetica non ci sarebbe bisogno di diventare sociologi, psicologi, antropologi o quant’altro per parlarne. Nella quotidianità parliamo di identità in ogni momento.

SB: Certo, basta pensare che uno degli elementi che costituiscono le fondamenta 14

Un dialogo sUll’identità contemporanea

di Sergio Brancato e Gianfranco Pecchinenda

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15

della soggettività moderna è un comunissimo oggetto come la carta d’identità.

GP: Appunto! Ma se invece entriamo nello specifico socio-logico, ecco che possiamo affrontare la questione in maniera più circostanziata, delineando una definizione dell’identità che è stata acquisita dagli studi, e che peraltro è il frutto di un percorso teorico niente affatto lineare o scontato: l’identità è anzitutto un fenomeno relazionale. Ciò significa che posso declinare il concetto di identità in mille modi differenti senza essere contraddetto, posso parlare indifferentemente di identità soggettiva o oggettiva, di identità virtuale o “reale” (termine tra l’altro molto ambiguo), e allo stesso modo pos-so persino affermare lecitamente di chiamarmi Napoleone Bonaparte, ma sotto l’aspetto scientifico niente di tutto ciò ha senso se non riconduco tali affermazioni a un processo di tipo relazionale.

SB: Dunque parlando di identità non contano tanto le cate-gorie di oggettività e soggettività, quanto la natura della negoziazione sociale che la produce.

GP: Giusto. E dirò di più. Esistono sempre degli scarti tra le concezioni soggettive e le concezioni negoziate dell’identità, e il compito delle scienze sociali in questa fase è proprio quello di indagare sulla costruzione sociale di tali scarti.

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quest’ultima rimane sempre e comunque un’entità opinabile e, appunto, negoziabile.

GP: Certo, e io da questo punto di vista sottolineo che la mia disciplina – alla quale aderisco completamente da questo punto di vista – mi insegna, mi dimostra (se può valere questo termine), che stiamo parlando di un tipo di ricerca inevita-bilmente influenzato da un certo... – e uso intenzionalmente un’espressione che ti piace – contesto narrativo. Il conte-sto narrativo dal quale proveniamo è quello di deri-vazione cristiana, in cui c’è sempre stata l’idea che ci fosse questo famoso quid da cercare. Un quid che ha cambiato semplicemente nome nel corso dell’evoluzione del nostro pensiero: anima, spirito, poi mente, scienza, inconscio, e oggi codice genetico. Per quanto riguarda i principi di oggettivazione e di raziona-lizzazione proposti dalle scienze fisiche o naturali, in generale è chiaro che quando si mette in atto uno processo scientifico spesso si va alla ricerca di un qualcosa che successivamente non avrà nulla a che vedere con ciò di cui si parla nella ricerca stessa. Quando si parla della clonazione non si sa a cosa ci si riferisce esattamente: allo sdoppiamento? Improbabile. Almeno dal punto di vista delle scienze sociali, infatti, è un assurdo pensare che nel codice genetico ci possa essere un altro identico, al di là di eventuali campagne speculative o sensazionalistiche che possono essere messe in atto.

SB: Sono d’accordo. Oltre tutto l’argomento della clonazione è particolarmente delicato per la nostra società perché in qualche maniera reintroduce l’inquietudine perturbante legata al tema del doppio, e non a caso quando vengono socializzati gli obiettivi o i risultati di tali esami scientifici riemergono sempre “antichi fantasmi“ (letteralmente, in questo caso, considerata

In generale, potremmo dire che noi riteniamo di essere ciò che la società ritiene che siamo. Tanto per voler semplificare il tutto, è molto agevole definire le società premoderne come società in cui era molto limitato lo spazio d’incongruenza di cui parliamo, lo scarto di cui abbiamo detto. Con la società moderna occidentale però la questione diventa più complicata, proprio perché con i fenomeni dell’individualizzazione e della differenziazione tipici della modernità tali scarti sono diventati enormi.Questo è un punto di partenza importante, soprattutto perché – nonostante quello che ho appena detto – sia nel senso comune che in molte altre scienze diverse dalla sociologia è ancora forte la tentazione di ricercare nell’identità qualcosa di oggettivamente definibile. Io ho provato a definirlo “homunculus”: un’entità che sta da qualche parte, presumibilmente dentro di noi (almeno così ci ha trasmesso la nostra tradizione), un nucleo identitario pri-mario. Basta pensare, per esempio, alle più recenti ricerche della ge-netica: stiamo parlando dell’ambito scientifico più in ascesa, più evoluto, dove si investe di più. Ebbene, in questo ambito si va alla ricerca dell’essenza attraverso lo studio del codice primario da cui tutto il resto deriverebbe. Un ‘essenza che nelle scienze sociali sarebbe semplicemente assurdo cercare.

SB: Per quanto riguarda il mio percorso di sociologo devo confessarti di professare un approccio estremamente scettico e disincantato rispetto alla concezione essen-zialistica dell’identità. Per molti versi, infatti, la stessa costruzione dell’esame scientifico è una narrazione: benché alcuni saperi legati per esempio al campo medico o, come ricordavi tu, alla genetica si propongano di lavorare sull’oggettivazione dell’esperienza, è evidente che in realtà

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la ricca produzione dell’industria culturale sul tema).Detto questo, vorrei introdurre un altro spunto di riflessione. Evidentemente, anche da quanto è emerso finora, il mondo moderno è sede di una straordinaria rete di conflitti, ed è caratterizzato da un lato dalla specializzazione del lavoro, dall’altro dalla moltiplicazione dei consumi. Come si ri-flette questa elaborata e complessa dialettica sulla definizione del problema identitario?

GP: Chiaramente il discorso sull’identità intesa come feno-meno relazionale si va ad applicare allo stesso modo a tutti i processi di costruzione identitaria e di identificazione, anche rispetto agli oggetti e, ovviamente, alla merce. Per quanto riguarda il marketing, non si può prescindere, anche qui, dall’esistenza di questo mito dell’homunculus. Faccio un esempio chiaro: poniamo che in un luogo di produ-zione si fabbrichino due paia di scarpe con lo stesso metodo e lo stesso materiale, e successivamente, in un altro luogo di produzione, a un paio di queste scarpe si apponga un piccolo segno, cioè il marchio, mentre all’altro paio non si apponga nulla. Ebbene, può accadere che al momento di arrivare sul mercato queste scarpe abbiano due prezzi molto diversi tra loro. In pratica ci troviamo di fronte a oggetti identici, almeno dal punto di vista fisico, la cui differenza di valore è data da questo elemento simbolico, immateriale, da questo quid irri-ducibile e non meglio definibile, da questo homunculus.Ma c’è anche un altro esempio, forse più suggestivo. Poniamo l’esistenza di una tribù di indiani in cui c’è il capo, lo stregone, che alza l’ascia di guerra, che è simbolo di tutto il gruppo, quella specie di totem intorno al quale si costruisce l’identità della tribù stessa, e dice: «Questa è la nostra ascia, la nostra tribù! Io l’ho ereditata da mio padre, che l’ha ereditata da mio nonno. Quando l’ha avuta mio nonno gli ha sostituito la lama, quando l’ha avuta mio padre gli ha sostituito il manico». A

quel punto un membro della tribù risponde: «se l’ascia è co-stituita materialmente da una lama e un manico, ed entrambi sono stati sostituiti, come fa l’ascia a essere la stessa?». È la stessa perché è evidente che la costruzione dell’identità è strutturata tutta intorno a una elaborazione simbo-lica, dialettica, relazionale. Uscendo fuor di metafora, tutti i processi di costruzione del marchio risentono dell’assimilazione del model-lo da cui siamo partiti, vale a dire quello relazionale. Dal punto di vista dell’immaginario collettivo però il processo identitario era e resta tuttora, nonostante tutti gli studi condotti e le convinzioni delle scienza sociali, so-stanzialmente costruito intorno all’idea di un’essenza univoca, primaria e irriducibile.

SB: Gli oggetti di consumo si legano fortemente a un brand, cioè a un qualcosa che siamo abituati a leggere addirittura come una sorta di araldica moderna. Ci troviamo di fronte a una configurazione di segni in cui si addensano dei va-lori e che rimanda necessariamente ad altro, che comunica un’appartenenza, e in questo senso in qualche modo il tema dell’identità è il tema stesso dell’appartenenza. Questo è molto interessante visto dal punto di vista dei con-sumi. Perché da un lato con le dinamiche di consu-mo moderne si tenta di scavalcare proprio le idee di appartenenza, si acquisisce una presunta, euforizzante libertà di surfing sulle maree della molteplicità dei prodotti e un’assoluta libertà di appartenere o di riappropriarsi, nello stesso tempo, di uno o dell’altro oggetto; dall’altro è vero quello che dicevi tu: è proprio la dinamica della grif-fe, del marchio, che in qualche modo ricostruisce una formula identitaria credibile di soggetto-che-consuma ,e attraverso il consumo individua se stesso.L’identità si lega, nel suo percorso teorico, prima a gran-

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di temi come ad esempio a quello di genere, o (almeno fino a qualche tempo fa) alle ideologie connesse alle logiche del lavoro, mentre ultimamente si destruttura nelle concezioni di identità più fluide, quelle del consumo, quelle più vi-cine a noi, per intenderci. A tuo modo di vedere quale è la caratteristica che oggi prevale all’interno delle riflessioni sulla questione identitaria e nelle pratiche quotidiane legate a que-sto importante tema?

GP: Devo dire che io sto elaborando una tesi un po’ in controtendenza rispetto a molte credenze contempo-ranee. La teoria, per esempio, che con l’avvento del post-mo-derno (tremenda parola!) si stia diffondendo progressivamente un tipo di costruzione identitaria più sfaccettata, molteplice, distaccata, amorale, ebbene non mi vede del tutto persuaso. O meglio, mi sto convincendo sempre più che questa sia una visione parziale della questione identitaria nei nostri giorni. È vero: cambio facilmente pelle, marchio di riferimento, modello di identificazione, e anche genere, nazionalità o quant’altro, ma è altrettanto vero che continua a essere ben forte la credenza in questo mito dell’essenzialità; e in questo senso viviamo in presenza di un insieme di modelli relazionali centripeti, che temono effettivamente la promo-zione di una eccessiva elasticità, che può essere vista come una spinta alla dissipazione della sfera identitaria.Insomma, si sta scavalcando la rigidità dell’identità moderna, ma non si sta scalfendo più di tanto la credenza condivisa che al fondo ci sia comunque un nucleo solido, profondo. Casomai riusciamo adesso a identificare questo nucleo con più difficoltà, però chi si muove così agilmente tra molteplici appartenenze continua a ritenere che ci si sia poi un’àncora, un ancoraggio. Al di là delle sensazioni, mi sembra molto evidente che que-sto meccanismo sia più presente, non a caso, nei momenti di maggiore crisi collettiva, come quello che stiamo vivendo. È chiaro, per intenderci, che quando qualcuno si sveglia e dice: «Io non sono italiano, sono padano» sta andando vera-mente alla ricerca di un modello profondo di identificazione, un modello che in apparenza è di natura difensiva, ma più che più probabilmente è ispirato a sentimenti profondi rimasti latenti per molto tempo, dormienti al di sotto di tutta quella frenesia cosiddetta “post-moderna” della superficialità, della molteplicità e quant’altro.

SB: Per chiudere facciamo il punto su una questione che mi sta a cuore. Se l’identità è il frutto, se vuoi l’oggetto, di una costante (e pro-babilmente interminabile) ricerca, allora diciamo che rispetto all’identità stessa i processi comunicativi finalizzati, per esempio quelli del marketing, devono operare in un mondo che a questo punto diventa interessante dal punto di vista delle riflessione teorica.Dico “interessante” perché si tratta di fenomeni che per certi versi entrano in rotta di collisione con una parte del corpus

teorico legato alle teorie comunicative recenti. La comuni-cazione corporate non solo deve inseguire le mutazioni co-stanti dell’identità, delle idee che si agitano in questo termine, ma probabilmente deve puntare essa stessa a costruire le identità. Cioè probabilmente, mentre noi siamo abituati a pensare al marketing come a una strategia in grado di co-gliere un’essenza, seguendo la tua riflessione potremmo inco-minciare a postulare l’idea che il marketing, invece, sia per molti versi la produzione di quell’identità, o quantomeno il dispositivo che in questa fase propone più di altri modelli identitari forti. Provocatoriamente, si potrebbe quasi ritornare alle teorie apocalittiche della comunicazione, secondo cui abbiamo dei soggetti forti che “lavorano” soggetti indifesi o quasi, in questo caso i consumatori.

GP: Accolgo la provocazione per dire che questa è un’altra questione che va superata. Perché è scontato che ci troviamo in un contesto pubblico e di mercato in cui ciascun soggetto ha i suoi interessi nell’occuparsi della costruzione di processi di identità per i fini più diversi: chi fa lo psicoterapeuta ha i suoi interessi, chi deve lavorare dei modelli di marketing ne avrà altri, chi deve insegnare altri ancora. Ma ciascun soggetto per lavorare sull’identità, propria o altrui, deve innanzitutto rivedere l’oggetto identita-rio narrativamente. Nell’ambito della strutturazione del-l’identità deve individuare un modello “mitologico”, perché ognuno ha un suo mito personale, e anzi colui che crede di avere un’identità, allora crede in un mito, in un modello narra-tivo esemplificativo e paradigmatico.

SB: Questo è un passaggio che spieghi molto bene quando nei tuoi libri parli, ad esempio, della tua biografia.

GP: Ogni autobiografia è costruita a partire da un’idea narrativa. Tale idea è in parte familiare, re-lativa a una famiglia che a sua volta ha i suoi riferi-menti collettivi. E poi quando si pensa a se stessi si pensa istintivamente a un processo, a un percorso di tipo narrativo in cui c’è un’origine, degli snodi, degli ostacoli, e dei modi di superare tali ostacoli.

©Flickr-by Max Nunziata “Wild photographer”

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il lato tecnologico dell’Umanità

di Davide Bennato

Siamo abituati a pensare la tecnologia come la nemesi del-l’umanità, o della società. Come se tecnologia e umanità fossero poli opposti di un campo comune che nel momento in cui entrano in contatto, si annichiliscono. Come ma-teria e antimateria, così tecnologia e umanità. Peccato che non solo non è vero, ma è palesemente falso. Tecnologia è il termine che assume la società quando pren-de la forma di un artefatto. Detto altrimenti, l’universo degli oggetti che ci circonda non è altro che frutto di un elaborato mix di organizzazione sociale, ricerca scientifica e creatività.

Prendiamo una tecnologia simbolo di consumismo, inquinamento e tutto quanto di negativo appartiene alla contemporaneità: la plastica. La plastica è la materia più duttile e plasmabile che l’uomo abbia creato, distil-lando conoscenza mediante l’applicazione della creatività al petrolio. Adesso ci possiamo permettere di essere snob nei confronti della plastica, di sbuffare nel momento in cui siamo chiamati dall’imperativo categorico dell’etica ambientale a separare la plastica da altri rifiuti. Ma mettiamoci nei panni dei nostri genitori quando un esercito di oggetti nuovi che al grido di “E mò, e mò, e mò? Moplen!” – celebre carosello con Gino Bramieri come testimonial – invadevano le case del boom economico degli anni ’60 con tutta una serie di suppellettili colorate che sostituivano gli oggetti in legno e metallo che la tradizione contadina aveva lasciato. Paradossalmente il motivo per cui la plastica è considerata inquinante e pericolosa per l’ambiente, è proprio per le sue caratteristiche di duttilità ed econo-

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©Flickr-by myuibe

micità. Un artefatto proteiforme che paga il suo essere troppo intelligente con una sanzione morale.

Ma potremmo fare un discorso ancora diverso e an-cora più antico: lo sviluppo degli utensili in epoca preistorica. Paleolitico e neolitico non sono solo due ter-mini per definire la storia prima della storia, ma sono anche un modo per descrivere lo sviluppo culturale umano che da utensili nati dalla scheggiatura delle rocce, diventano attrezzi in cui l’uomo dedicava del tempo attraverso la levigatura. In pratica siamo umani perché anche costruttori di ar-tefatti. Siamo homo sapiens perché ci siamo affrancati dalla natura costruendo utensili e inventando l’agricoltura, altra straordinaria rivoluzione tecnologica che – forzando un po’ la semantica – potremmo definire come prima innovazione bio-tecnologica dell’uomo.

Non importa da che punto di vista affrontiamo la questione, non importa a quale tecnologia facciamo riferimento, il risulta-to sarà sempre lo stesso. La tecnologia è una componen-te fondamentale della nostra umanità. La tecnologia è parte della nostra identità. Tutto ciò che ci rende umani ha una componente tecnologica: la costruzione di utensili, la capacità di scrittura (che è una tecnologia), persino l’arte è una forma tecnologica (non per niente l’etimo di riferimento è lo stesso di artefatto).

A questo punto la domanda non è come coniugare tecnologia e umanità, ma piuttosto che tipo di uma-nità esprime la nostra dimensione tecnologica. La rivoluzione neolitica con l’invenzione dell’agricoltura è espres-sione di una società che da cacciatori nomadi si stava trasfor-mando in raccoglitori stanziali. Lo sviluppo delle materie pla-stiche è frutto di una società che si stava sviluppando intorno al petrolio e alla chimica. Di cosa è espressione la tecnologia che portiamo incessantemente con noi? Tutta questa panoplia di netbook, cellulari, tablet cosa dicono di noi?

Quando nel 2005 presentò per la sua prima volta una delle tante varianti dell’iPod, Steve Jobs usò il termine Digi-tal Lifestyle. Una definizione – sicuramente più figlia del marketing che di altre forme di riflessione – che serviva sem-plicemente per sottolineare un aspetto importante: i gadget alla base dei consumi culturali avrebbero presto fatto parte del nostro stile di vita. Oggi, 2010, sembra evidente che avesse ragione lui, anche perché i maligni ricordano che moltissimi dei gadget contemporanei sono figli della Apple: iPod, iPho-ne, iPad. Al di la del voler definire se sia venuto prima l’uovo – il Digital Lifestyle – o la gallina – l’aggressiva strategia di Jobs – comunque qualcosa di vero c’è: siamo sempre più figli di un mondo connesso che usa tecnologie per la connessione. Torniamo alla domanda precedente: che tipo di umanità esprime la dimensione tecnologica dello stile di vita digitale? Un’umanità che rafforza la sua identità attraverso la tecnologia.A leggere bene sembra un paradosso: come può la tecno-logia, espressione della nostra umanità diventare strumento per rafforzare l’identità? Cosa produce cosa? In realtà la

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©Flickr-by webtreats

situazione contemporanea è figlia della narcosi di Narciso, processo descritto da Marshall McLuhan. Nel momento in cui perdo consapevolezza che l’immagine riflessa nello specchio sono io, allora rimango catturato dall’immagine stessa. Para-frasando, nel momento in cui dimentico che ciò che rende vivo i miei gadget sono io stesso, la mia voglia di stare con gli altri, la mia voglia di consumare i contenuti che preferisco, allora resto mesmerizzato dal luminoso luccichio delle tecnologie che porto con me.

Facciamo qualche esempio.Uno degli oggetti cult dei prossimi mesi saranno gli ebook reader, ovvero quei device che consentono la fruizio-ne di libri in formato digitale e in grado di connettersi a enormi database di testi. Ciò che li rende straordinari, non è tanto la tecnologia in sé – che comunque è straordi-naria se la si pensa come variante elettronica dell’inchiostro tradizionale – ma il fatto di consentire l’accesso a una vera e propria biblioteca di Babele. Ma questa è una componente che può essere apprezzata solo da coloro a cui piace leggere: gli ebook rafforzano e incrementano l’identità dei bibliofili e bibliomani. Prendiamo l’iPad. Commercializzato come ibrido tra un computer touch screen e un ebook, in realtà è uno stru-mento alla ricerca del suo utente, per il principio per cui le innovazioni non sono tecnologie nuove ma strumenti che inventano utenti nuovi. Chi potrebbe essere l’utente dell’iPad? Per esempio chi usa il computer come supporto per un modo diverso di consumare di contenuti, magari lettore di blog, magari lettore di giornali online, magari utilizzatore di apps specifiche o videogiochi. L’iPad rafforza l’identità dei flaneur digitali, ovvero di chi usa il computer per vagare sen-za meta da un contenuto digitale all’altro, senza soluzione di continuità.

Consideriamo gli smart phone. La caratteristica principale di questi telefoni non telefoni – come iPhone o la famiglia Android – non è tanto la possibilità di telefonare, ma la possibilità di usare tutte quelle applicazioni dei social media che rendono peculiare la nostra dieta mediale digitale. Wordpress, Facebook, Twitter, Linkedin: tutti questi social media hanno un corrispettivo nelle applica-zioni che si installano negli smart phone e che servono per continuare a essere incorporati dentro l’universo digitale da noi frequentato. Gli smart phone altro non fanno che rafforzare l’identità digitale di chi usa i social media come strumento di relazione ma anche di presenza sociale negli spazi digitali. È ovvio che questa tipologia di telefonini può essere apprezzata solo da chi frequenta sistematicamente questi ambienti digita-li, ovvero solo da chi ha una parte della propria identità sparsa nei social media. E non rida con sufficienza chi non usa gli smart phone. Si ricordi che spesso una banale suoneria di cellulare dice moltissimo su chi noi siamo e spes-so rischia di dare un punto di vista troppo personale a quello che vorremmo restasse formale. Come vi sen-tireste se ad un colloquio di lavoro in giacca e cravatta il vo-stro cellulare squillasse con la marcia di “Guerre Stellari” o il fischiettare della colonna sonora di “Lo chiamavano Trinità”?

Insomma la tecnologia è una importante componente antro-pologica che aiuta anche a definire meglio la nostra identità, figlia dei tempi in cui viviamo e della società a cui appartenia-mo. Si fa sempre un gran parlare del ricercare il lato umano della tecnologia, quando in realtà sarebbe molto più semplice – e meno ideologico – provare a chiedersi quale sia il lato tec-nologico dell’umanità. La tecnologia – in tutte le sue for-me – è specchio dell’umanità. Se non ci piace cosa vediamo in questo specchio, dovremmo chiederci a chi addossare la colpa.

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Brand Care on lineIl marketing e la comunicazione che non scadono.

Ogni giorno. www.brandcareonline.com

ogni giorno una

news sul mondo

della comunicazione

e del marketing

commentata da

Queimada, la società

di comunicazione

per professionisti e

aziende che basa

la propria offerta su

strategie di

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a messa a punto di efficaci strategie di marketing e comunicazione online diviene sempre più determinan-te nella creazione di “visibilità” per un soggetto di mercato, per un brand, un prodotto, un servizio o un artefatto comunicativo. Occorre comprendere che tali strategie possono – e di questi tempi devono – prevedere l’attivazione delle leve del marketing relazionale, basato sul posizionamento del progetto attraverso i vari social me-dia al fine di aumentarne riconoscibilità, presenza e fascino.Affinché l’approccio relazionale risulti efficace, occorre trat-

tare i propri clienti come “stakeholder” e non più solo come fruitori del brand.Il cliente da consumer è diventato prosumer: partecipa attivamente alla de-finizione del concetto di marca (sono le sue percezioni che ne determinano in molta parte i contenuti), alla produzione del prodotto/servizio (o quantomeno interagisce fortemente con esso, come nelle dinamiche di fandom e di user generated content), alla sua comunicazione e reputazione (la sempre crescente importanza del passa-parola e del corporate social networking ne sono dimostrazione), fino a divenire addirittura parte delle campagne pubblicitarie, rappresentato da un attore – come nel caso Conto Arancio [http://www.youtube.com/watch?v=UCPrqy-cL3U] – o ad-dirittura da sé stesso – per esempio nel caso di Q8 [http://www.cercasistarq8.it/].

dalla brand identity alla brand repUtationcon i social media

di Alessandra Colucci

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PER LE AZIENDE,D’ORA IN POI,

WHOLE BRAND REPUTATION,LA PAROLA D’ORDINE,

ADESSO C’È

DOVE FINO A OGGI C’ERA

UN PROGETTO DI

DIEGO MASI, PRESIDENTE DI ASSOCOMUNICAZIONE (N° 109 DI SOCIAL TRENDS PUBBLICAZIONE DI GFK EURISKO)

SARÀ

POSIZIONAMENTO INTEGRALE DELLE MARCHE,

IN UN MONDO CHE CHIEDE SOSTENIBILITÀ.WHOLE INTEGRO, PULITO, ONESTO, TRASPARENTE.

ANCHE LA COMUNICAZIONE DOVRÀ ASSUMERE

UN RUOLO PIÙ PROGETTUALE PER DARE

SIGNIFICATO CULTURALE E SOCIALEALLA MARCA.

E DOVRÀ AGIRE CON LUNGIMIRANZA E CREATIVITÀ,SENZA SOTTOVALUTARE L’IMPORTANZA E LA DIFFUSIONE

DELLE RELAZIONI SULLA RETE. […]

L’IMMAGINE,LA REPUTAZIONE.

L’IMPRESA NON È VISTA SOLO COME ATTORE DI SVILUPPO ECONOMICO,

MA ANCHE DI AUTENTICO SVILUPPO SOCIALE.

STA PER

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SOCIAL LANDSCAPE PER AZIENDE

Il blog come social mediaIl blog nasce dunque come “diario in rete” (web-log) ed è la prima espressione di quello che poi diverrà il concetto di medium “so-cial”: ogni lettore può interagire con i con-tenuti proposti dal blogger commentandoli, anche se non hanno qui il ruolo paritario e attivo che possono vantare con Facebook, Twitter e i loro tantissimi fratelli. È il blogger, il proprietario del blog, a decidere quali argo-menti trattare, quale stile e quale taglio dare ai contenuti, cosa pubblicare (spesso anche in relazione ai commenti, moderandoli) e con quale frequenza farlo.

Il blog consente di comunicare continuamente con il proprio mercato di riferimento dando risalto a tutte le iniziative portate avanti dall’organizzazione e dal settore in cui essa si posizio-na.Alcuni iniziano a parlare dei blog come di strumenti obsole-ti ma, pur ritenendo che si stiano evolvendo e trasformando, credo che rimangano il fulcro delle attività di web-marketing, siano esse personali o aziendali. In un blog si dovrebbero rac-cogliere contenuti continuamente aggiornati da veicolare sugli altri spazi di interazione posseduti e, nel momento in cui se ne acquista il dominio, è pressoché impossibile veder sparire tali contenuti senza avere voce in capitolo.Inoltre il blog permette attente azioni di SEO (Search Engine Optimization) personalizzate e di stabilire connessioni con i

propri spazi sugli altri social network e social media, mettendo in evidenza tutti i legami dell’azienda in un unico “luogo” (esso è insieme contenitore e moltiplicatore di visibilità).

Prima di creare un blog, aziendale o personale che sia, è fon-damentale definire bene che tipologia di contenuti vi verranno pubblicati e quanto il tono e lo stile di scrittura (ma anche quello della grafica) saranno istituzionali, tenendo conto che una delle caratteristiche fondamentali di questo medium risie-de nel suo essere “diretto”, dunque è sempre bene utilizzare un linguaggio chiaro e privo di inutili tecnicismi.La struttura grafica dovrà sempre rispecchiarne i contenuti, agevolandone la comprensione. In virtù di tale necessità sarà bene studiare prima la divisione logica delle informazioni, in-dividuandone la localizzazione migliore all’interno dello spa-zio delle pagine e della mappa del sito.Post e pagine non sono la stessa cosa: nelle pagine andranno inserite le informazioni relative al blogger o all’azienda (per intenderci quelle che rispondono alle domande “chi siamo?”, “cosa facciamo?”, “dove siamo?”…) in maniera più o meno approfondita a seconda del target che si pensa di raggiungere e delle esigenze che si ritiene di avere, logicamente suddivise e gerarchicamente collegate tra loro; nei post andranno tutti gli aggiornamenti e approfondimenti sule proprie attività, sui progetti e, nel caso, sul proprio settore: curiosità, case history, dati, ricerche, utility e quant’altro.

YouTube per i contenuti audiovisiviYouTube è il più conosciuto tra i social media che permette di condividere in Rete i propri contenuti audiovisivi consenten-done, una volta creato un proprio account, l’upload. YouTube

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Tenendo conto di tali premesse, si può costruire la brand reputation di un’azienda (ma anche di una persona) dotandola di molteplici strumenti per “farsi conosce-re” e rendere possibile una connessione diretta con i propri utenti (nel FOCUS ON a questo articolo ho pensato di inserire una panoramica abbastanza dettagliata degli strumenti più utili di cui le aziende possono dotarsi per perseguire tale scopo e delle loro caratteristiche di utilizzo).

In ogni caso, a qualunque Rete sociale si decidesse di aderire, il più grosso errore in cui si potrebbe incorrere sarebbe non avere una strategia chiara e ben definita sin dall’inizio, un pia-no d’azione ottenuto utilizzando un buon metodo progettuale (cfr. Brand Care magazine n° 005, p. 20).Bisogna saper cosa si vuol dire e a chi, prima di parlare e scegliere un tono adatto al contesto in cui si agisce: è così anche sul web. Prima occorre analizzare la propria situazione di partenza, poi fissare degli obiettivi, trovare i mezzi e gli stru-menti più adatti a raggiungerli, studiarne le modalità di funzio-namento (anche implicite), scegliere quelli più rappresentativi dei propri valori, darsi delle regole sul loro utilizzo, e solo

dopo mettere in pratica quel che ne frattempo è diventato un piano strategico: non basta un’intuizione per costruire una comunicazione efficace e un brand carismatico.

Dal punto di vista meramente pratico occorre ricordar-si che il profilo di ogni account aperto deve essere completato il più dettagliatamente possibile: è il primo elemento di rico-noscimento e di definizione della propria credibilità. Curare ogni minimo dettaglio, sempre: sono spesso le piccole cose a fare la differenza.

Va anche per quanto possibile evitato, quindi, il copia/incol-la dello stesso contenuto in ogni account, occorre mutare la forma dei testi e dei profili in relazione alle caratteristiche specifiche di ogni social media. Ove consentito,poi, è sempre bene personalizzare gli elementi grafici del proprio account in modo che siano coerenti con il proprio coordinato aziendale, senza entrare in conflitto con l’usabilità del medium.

Relativamente alle strategie, invece, è necessario par-tire dall’assunto di base che fare social networking è

permette anche l’incorporazione dei propri video all’interno di altri spazi web, occupandosi di generare in automatico il codi-ce HTML necessario.Attraverso YouTube è possibile creare un vero e proprio “cana-le” aziendale, quasi una webTV di brand, da personalizzare con i colori sociali in modo che sia immediatamente riconducibile all’organizzazione che ne produce i contenuti.Per le organizzazioni la creazione e veicolazione di contenuti audiovisivi è molto importante, nonché utile in quanto permet-te di costituirsi di un archivio da utilizzare a supporto di ma-teriale informativo e/o promozionale, da sfruttare in occasione di eventi o iniziative, ovvero per veicolare istruzioni (anche tecniche, nel caso dei video-tutorial). Uploadare delle “pillo-le”, dei brevi filmati, su YouTube, rende la diffusione di questo materiale anche semplice.

Flickr per fotografie e immaginiFlickr è lo strumento 2.0 che permette, a chi si iscrive e crea un proprio account, di condividere immagini. Inizialmente nato per ospitare immagini da pubblicare su altri siti, si è evoluto come virtual community e viene ora utilizzato per raccogliere “digigrafie”. Dal punto di vista aziendale può essere uno stru-mento utilissimo qualora si vogliano pubblicare fotografie e grafiche legate a eventi o partecipazioni a speech e fiere. Flickr dà la possibilità di organizzare le immagini con semplicità, di-rettamente attraverso applicazioni online, nel web browser, via MMS o e-mail (anche subito dopo aver scattato la foto), ca-talogandole e indicizzandole per mezzo di tag e parole chiave, ovvero in base al luogo in cui sono state scattate le fotografie.Questo social media permette di scegliere chi ha diritto di frui-re dei contenuti dell’account: distingue tra immagini pubbliche

e private, e per le immagini private si può stabilire se possono essere visualizzate solo dal proprietario dell’account o anche dai contatti considerati amici.

Scribd e Slideshare per documenti e presentazioniScribd e Slideshare sono siti web in cui è possibile uploada-re, vedere, scaricare, commentare e condividere presentazioni e/o documenti. Permettono agli utenti di caricare files di vari formati (come PDF, Word o Power Point) e di incorporare il visualizzatore di documenti iPaper all’interno di qualsiasi sito web o blog, conservando il loro layout di stampa senza preoc-cuparsi del formato del file. Anche questi strumenti consentono di conferire ai documenti che vi vengono allocati diversi gradi di visibilità mantenendoli privati o, al contrario, rendendoli visibili alla community in modo che si possa o meno effettuarne il download.

Issuu per le pubblicazioniSe invece si vuole ottenere la visualizzazione realistica e per-sonalizzabile dei materiali uploadati in digitale quali portfoli, libri, magazine, giornali, e altri mezzi stampa, il social media più indicato è forse Issuu, attraverso il quale il materiale viene visualizzato in modo da risultare, all’interno del browser, vi-sivamente simile ad una pubblicazione cartacea e completa, volendo, di un’animazione che ripropone l’azione dello sfo-gliare le pagine.Issuu si integra con siti di social networking per promuovere il materiale uploadato e ne rende possibile l’incorporazione del visualizzatore in qualsiasi sito web o blog potendo scegliere, oltre al livello di condivisione, quali documenti possano esse-re scaricati e salvati e quali solo sfogliati.

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FriendFeed e Google Reader: gli ag-gregatori di feedFriendFeed e Google Reader sono servizi web che consentono l’aggregazione in tempo reale degli aggiornamenti provenienti da reti socia-li, blog e più in generale da qualsiasi spazio web che renda disponibili i propri contenuti tramite feed RSS o Atom.Scopo di FriendFeed è la creazione di un flus-so di informazioni unico che riunisca le mol-teplici attività di uno stesso utente in rete ed offre anche la possibilità di inserire contenuti autonomi, di commentare i post di altri utenti e di creare una rete sociale con gli altri iscritti al sito.Google Reader viene invece utilizzato mag-

giormente come strumento di ricerca e aggregatore di con-tenuti di utenti differenti; rende possibile la sottoscrizione ai feed sia attraverso la funzione interna di ricerca che inserendo l’esatta URL del feed. Rende agevole organizzare i post in rela-zione alla data o alla rilevanza e leggerli sia online che offline. I contenuti di Google Reader possono essere condivisi via e-mail o attraverso la landing page relativa al proprio account Google.

LinkedIn: business networkLinkedIn punta a creare un business network online connet-tendo gli utenti registrati con la propria rete professionale. La rete di contatti di un utente è costituita dalle sue connessioni dirette e da quelle di secondo e terzo grado, connessioni che l’utente stesso può incrementare invitando chi di suo gradi-

mento, o semplicemente caricando la sua rubrica e-mail.L’uso che si può fare del network è molteplice:essere presentati a chi si desidera conoscere da un contatto condiviso e affidabile;trovare offerte di lavoro, persone, opportunità di business con il supporto del network;pubblicare offerte di lavoro e ricercare potenziali candidati;partecipare a gruppi di interesse per un determinato argomen-to e condividere informazioni a riguardo;segnalare le proprie attività per mezzo dei vari widget che si possono aggiungere al profilo standard...Oltre al profilo personale, è possibile creare un Linkedin Com-pany Profile che consente di dare una breve overview della propria azienda completa del profilo professionale degli im-piegati, qualora i loro profili fossero accreditati in modo che, attraverso il “follow company”, gli utenti della Rete potranno rimanere aggiornati su ogni attività dell’azienda in questione.

Facebook: all in one networkFacebook è una piattaforma sociale che consente di connet-tersi con amici, colleghi e in generale con persone in qualche modo facenti parte del proprio contesto relazionale, creando un proprio profilo online. Gli utenti creano profili che spesso contengono fotografie e liste di interessi personali, scambiano messaggi privati o pubblici e fanno parte di gruppi di amici. La visione dei dati dettagliati del profilo è ristretta ad utenti della stessa rete o di amici accettati dall’utente stesso. Il Facebook Group è community interna a Facebook che riu-nisce tutti gli utenti che vi si sentono rappresentati. Prevede informazioni sul gruppo, news, bacheca dei commenti, area discussioni, sezioni foto, video, link ed eventi associati. Non

soprattutto ascoltare, ascoltare e condividere le esperienze degli altri, essere empatici: l’era del marketing push è finita da un pezzo, la comunicazione consiste sempre più in uno scambio bidirezionale in cui bisogna interagire; è condivisio-ne, e non solo online (nessun contatto va trascurato perché ogni network è costituito da persone).

Oltre a ciò, per accrescere o mantenere visibilità e reputazione, occorre garantire una frequenza di ag-giornamento costante. Una volta creato un corporate blog o un profilo su uno dei social network per la propria organizza-zione, imprescindibile sarà aggiornarne costantemente e con cadenza regolare i contenuti.L’errore di molte aziende consiste proprio nel creare il proprio blog aziendale per poi, dopo qualche tempo, gestirlo come fosse un sito vetrina: senza costanza e senza continuità. Ovve-ro nell’aprire un profilo Facebook, Twitter o LinkedIn e, dopo i primi giorni di euforia, non inserire più alcun contenuto.Non c’è nulla di più sbagliato e deleterio per la propria visi-bilità: i lettori vanno abituati a una costante pubblicazione di contenuti (naturalmente di qualità) e fidelizzati utilizzando una

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può essere personalizzato.La Facebook Page è un profilo ufficiale Facebook di un’azien-da a cui si iscrivono utenti affezionati o legati al brand. Oltre alle funzioni del Gruppo presenta una funzione per le attività recenti, le note e le recensioni. Permette una completa personalizzazione, la targettizzazione dei messaggi e l’attivazione di Facebook Inside, strumento per il monitoraggio di attività della pagina, dati demografici sui fan, popolarità e andamento inserzioni.

Twitter: microbloggingTwitter è un servizio gratuito di social network e microblogging che fornisce agli utenti una pagina personale aggiornabile tra-mite messaggi di testo con una lunghezza massima di 140 caratteri. Gli aggiornamenti possono essere effettuati tramite il sito stesso, via SMS, con programmi di messaggistica istan-tanea, e-mail, oppure tramite varie applicazioni basate sulle API di Twitter e sono mostrati istantaneamente nella pagina di profilo dell’utente, oltre ad essere comunicati agli utenti che si sono registrati per riceverli. È anche possibile limitare la visi-bilità dei propri messaggi oppure renderli visibili a chiunque.

Yoono per non impazzire nel gestirli tuttiYoono è un adds-on di Firefox (disponibile anche come de-sktop application) nato come social bookmarking per la con-divisione dei propri segnalibri, poi evolutosi in “aggregatore di social media” che – diversamente da Social.Mix.Me – non si limita a creare una sorta di “biglietto da visita”, ma porta all’interazione diretta con ogni social media da un’unica in-terfaccia, “all in one place” senza limitarsi – diversamente da Brizzly – a Facebook e Twitter o – diversamente da Hootsuite

– ai soli social network. Yoono permette infatti di connetter-si e aggiornare YouTube e Flickr oltre a LinkedIn, Facebook, Twitter, Myspace, Friendfeed, anche tutti contemporaneamen-te, ma anche di: chattare con AIM, Live Messenger (MSN), Yahoo! Messenger e/o Google Talk; connettersi, aggiornare e condividere contenuti attraverso Google Reader; utilizzare in tutte le sue funzioni Gmail e altri account e-mail; fare ricerche su Internet e condividere qualsiasi contenuto con gli amici; aggiornare il proprio blog senza entrare nel back-end del sito; alscoltare la radio con Last FM; fare shopping online...Il tutto senza essere invasivo: graficamente Yoono si presenta come una piccola barretta del colore che preferite alla sinistra del vostro browser (se utilizzate la versione adds-on) che si “estende” a vostro piacimento nel momento in cui intendete fruire dei contenuti che vi avete archiviato o aggiornare uno o più dei vostri social media, per poi “sparire” una volta chiuse le operazioni. Nel momento in cui qualcuno dei vostri contatti aggiorna il suo profilo o status, ovvero vi contatta su uno degli instant messenger, qualora lo desideriate, Yoono vi avvisa con un suono di notifica e/o facendo comparire una piccola pop-up di sintesi.

scansione temporale minima tra un aggiornamento e l’altro (soprattutto per i blog); l’utente deve poter percepire nell’avvi-cendarsi degli aggiornamenti una sorta di “regola non scritta” che lo porti a crearsi attesa e aspettative in relazione alla pros-sima “emissione” di contenuti sul corporate blog o sul social network di turno.L’importante è non mancare l’appuntamento al fine di non deludere i propri lettori e rischiare di perdere la visibilità acquisita sino a quel momento.

Questi gli strumenti a cui affidare la propria brand reputation e i primi consigli su come utilizzarli, nel prossimo numero il dettaglio sui contenuti da veicolare, su cosa raccontare e cosa assolutamente evitare di dire per ottenere una buona reputa-zione di marca utilizzando il web 2.0.

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er secoli la risposta alla domanda “Che lavoro fai?” ha per-messo di identificare il ruolo di un individuo nella società. A partire dalla Riforma Protestante il lavoro ha assunto in-fatti una valenza positiva, che ha permesso ai lavoratori di identificarsi con la propria attività. Non è sempre stato così e ormai non è più così, perché oggi, complici la flessibi-lità del mercato del lavoro e la disoccupazione, l’attività lavorativa ha perso molto della sua capacità di costituire un elemento portante dell’identità per-sonale.

La storia della relazione tra identità e lavoro comincia idealmente nel sedicesi-mo secolo e termina alla fine del novecento, quando la società post-industriale, travolta dalla globalizzazione, si trova a fare i conti con la perdita di valore del lavoro. Nell’antichità il lavoro, soprattutto quello manuale, era considerato un’attività imposta all’uomo per l’espiazione del peccato originale. Narra la Bibbia che Adamo venne condannato a guadagnarsi il pane “con il sudore della fronte”, e l’idea che il lavoro sia una punizione divina resta integra fino al 540 quando le regole di Benedetto da Norcia previdero che i frati nei monasteri dovevano alternare il lavoro alla preghiera, attribuendo così per la prima volta al lavoro manuale un valore positivo. Sotto il profilo culturale, la piena affermazione del principio della positività del

breve storia di Una relazione complessa

Di Patrizio Di Nicola e Paola Cutini

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lavoro si ha soltanto nel sedicesimo secolo con la Riforma Protestante e in particolare con il Calvinismo. Secondo Max Weber è proprio tale dottrina, che mette l’accento sul duro lavoro e nel successo individuale, che pone le basi alla va-lorizzazione dell’industria e del lavoro, costituendo l’enclave ideale in cui il capitalismo moderno si svilupperà. Supportato quindi dalla religione e poi dalle filosofie illuministe, la valorizzazione del lavoro si allarga su basi sempre più solide sino alla rivoluzione indu-striale. In questo periodo, però s’innesca una dualizzazione dell’idea del lavoro: da una parte il lavoro come intrapresa – attività nobile che l’uomo svolge con orgoglio – dall’altra il lavoro come povertà, generato dal capitalismo industria-le, avido di manodopera non qualificata, che contraddice la concezione positiva del lavoro. Nella grande fabbrica non c’è più bisogno di artigiani, ma di operai destinati a lavorare a macchine sempre più sofisticate, con paghe che consentono a malapena di sopravvivere. Inizia a imporsi nell’800 il problema dell’estrema povertà degli operai e della nascita del proletariato, termine che ricorsa il fatto che gli operai portavano i figli in fabbrica e che fornisce di nuovo un’accezione negativa del lavoro. Questo scenario non è solo appannaggio del lavoro in fabbrica, basti pensare al libro Germinal del 1885 di Emile Zola, in cui lo scrittore francese narra le vicende di una famiglia di minatori delle Fiandre, tutti costretti a lavorare – in condizioni miserabili – nella stessa miniera.

Con la nascita del proletariato, sulla scia del socialismo uto-pico e dell’anarchismo, il lavoro inizia ad assumere una forte connotazione identitaria. Marx ed Engels, fondatori del socialismo scientifico, basano la contrapposizione tra ca-pitale e lavoro sulla razionalità economica, non sull’utopia di uguaglianza, bensì sulla capacità economica e di guadagno: chi produce il plusvalore e chi se ne appropria. Il marxi-smo è in fin dei conti incentrato sulla contrapposizione tra il lavoratore – in quanto classe – che produce il plusvalore, e i capitalisti che di tale valore si appropriano. Con il socia-lismo il lavoro assume un valore di vera e propria ideologia: il proletariato non è più visto come una massa di poveri costretti a lavorare in condizioni misere – da assistere tramite le leggi sulla povertà – ma si trasforma in un classe consapevole della propria forza rivoluzionaria, da esercitare tramite forti organizzazioni di rappresentanza, sindacati e par-titi. Lo storico Maurice Dobb, nel libro del 1946 Problemi di storia del capitalismo, dipinge un quadro preciso della nascita dell’ideologia socialista della classe operaia. Con la rivoluzione industriale, scrive Dobb, le fabbriche diventano talmente ben organizzate e i macchinari talmente raffinati che nessun artigiano riesce più a competere in termini quantitativi e qualitativi con i prodotti della fabbrica. Per questo motivo gli artigiani sono costretti ad abbandonare le botteghe ed en-trare nelle fabbriche; portano con sé un orgoglio del mestiere che prima si trasforma in orgoglio operaio e poi in una

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anche senza grandi competenze professionali, che restando unita può reagire alla capacità di segmentazione delle direzio-ni riuscendo a mantenere un elevato potere di controllo sulla produzione. Nascono, tra gli addetti alla catena di montaggio, comportamenti di gruppo che rimarranno importanti per tutto il novecento. Negli anni Trenta, per esempio, nasce lo scio-pero “a gatto selvaggio”: gli operai che lavorano nelle catene di montaggio capiscono che non serve uno sciopero totale e prolungato per danneggiare la produzione, poiché, es-sendo il ciclo lavorativo molto rigido, è sufficiente che ognuno fermi il suo lavoro per poco tempo, coordinandosi con gli altri per danneggiare irreparabilmente la produzione. In Italia il taylor-fordismo più duro arriva tardi, negli anni Qua-ranta e ancor di più nel dopoguerra, ma gli operai italiani che lavorano alla catena di montaggio scoprono presto di avere un elevato potere di gruppo, proprio come lo avevano scoperto decenni prima i loro colleghi americani. Il sindacato italiano, al contrario di quello francese, ha l’intelligenza di riconoscere il valore del lavoro alla catena non qualificato e dà il via a una serie di rivendicazioni basate sul principio dell’ugua-glianza. L’idea, come efficacemente detto in più occasioni da Aris Accornero, è che tutti coloro che lavorano in fabbrica devono avere gli stessi aumenti a prescindere che lavorino a Taranto, a Napoli, o a Torino. Forte dell’egualitarismo il sin-dacato esce dalla fabbrica per chiedere rivendicazioni socia-li, come ad esempio l’equo canone. Tutto ciò contribuisce a creare, attorno alla classe operaia, l’aura di classe vincente che raggiunge grandi obiettivi. E ciò aumenta l’identificazione nel lavoro, oltre che nella “classe”.

Negli anni ottanta la crisi economica, l’aumento dell’inflazio-ne e soprattutto il passaggio dalla società industriale a quella post-industriale rompono questo schema. I giovani entrano più tardi in fabbrica, a causa degli studi, e in numero sem-pre più crescente non vi entrano affatto; la classe operaia

ideologia, la quale costituirà la base del socialismo scientifi-co. Gli operai, grazie a questa nuova concezione positiva del lavoro, non sono più poveri costretti a vendere la propria forza lavoro in quanto privi di mezzi di produzione, ma iniziano a formare una classe sociale “moderna” che promuove rivendi-cazioni “moderne”: ad esempio si lotta per imporre il limite di otto ore di lavoro. In questa fase nascono le camere del lavoro, le società di mutuo soccorso e i sindacati; la classe ope-raia trova la voglia di aggiornarsi e perfezionarsi (a metà dell’ottocento negli Stati Uniti circolano diversi giornali specializzati sull’aggiornamento professionale degli operai). Emerge la figura dell’operaio di mestiere, l’avanguardia del socialismo scientifico intenzionata a conquistare il potere eco-nomico e politico. In questa fase il valore identitario del lavoro aumenta fino a diventare quasi un paradigma e l’essere lavo-ratore diventa la base di una ideologia e di un’identità estre-mamente positiva. Poco più di cento anni, quindi, sono bastati per rovesciata completamente l’idea che l’attività lavorativa sia una sofferenza imposta per espiare un peccato originale; il lavoro diventa un processo economico, un modo per conquistare il potere e soprattutto un processo di creazione di identità per una massa crescente di persone.

L’identificazione con il proprio lavoro continua, per quanto possa sembrare strano, anche quando il lavoro inizia a dequa-lificarsi con l’avvento del taylor-fordismo e della catena di montaggio: una grande operazione messa in atto da ingegneri e capitalisti all’inizio del ‘900 per trasferire alle direzioni le competenze degli operai e per impiantare un sistema produt-tivo completamente nuovo in cui l’uomo è ridotto ad acces-sorio della macchina. Con questo nuovo sistema produttivo si distrugge l’aristocrazia operaia che era alla base dei primi sindacati e partiti dei lavoratori, ma per contro nasce la consapevolezza di essere una massa omogenea di lavoratori,

©Flickr-by The Library of Congress

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sogna per i propri figli un futuro medio-borghese e rivendica una mobilità sociale fino ad allora negata. Questa aspirazione diminuisce il valore identitario del lavoro e lo trasferisce sulla cultura, sullo studio e sul saper ragionare più che sul saper fare. La clas-se operaia, anche a causa dei grandi mutamenti geo-politici, inizia a perdere peso nella società, mentre i giovani si trovano di fronte alla disoccupazione di massa, resa ancor più critica dalla globalizzazione, la quale mette in competizione paesi poveri e ricchi ed esige un aumento della flessibilità del la-voro. In questo passaggio nasce il germe dell’instabilità lavorativa. Il sistema economico non riesce a rinnovarsi, ad assorbire le nuove competenze professionali dei giovani e a garantire loro un inserimento duraturo in azienda. La disoc-cupazione giovanile accompagna tutti gli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta e mina alla base la capacità identitaria del lavoro. Nasce, quindi, per i disoccupati il bisogno di cercare identità in altri luoghi e contesti. Zygmunt Bauman è tra i primi a individuare nell’atto del consumo un elemento fortemente identitario: nel libro Lavoro, consumismo e nuove povertà sostiene il passaggio dall’etica del lavoro all’estetica del con-sumo. La reazione della politica è forse peggiore del male: la causa della disoccupazione giovanile, in continuo aumento negli anni ottanta, viene individuata nella rigidità del mercato del lavoro e negli anni novanta si tenta di reagire a questa si-tuazione introducendo forti elementi di flessibilità contrattuale. Il grande errore che viene commesso è che le for-me contrattuali flessibili non vengono distribuite su tutto il mercato del lavoro e su tutte le generazioni, ma vengono “scaricate” soprattutto sulle spalle dei giovani, creando così un mercato del lavoro duale,

rigido e protezionista per gli adulti ma precario per i giovani. L’introduzione della flessibilità/precarietà del lavoro ha portato – almeno su base transitoria, come dimostrano i dati occupa-zionali durante l’attuale crisi economica – a una diminuzione della disoccupazione ma, in assenza di tutele specifiche per i lavoratori flessibili, anche al precariato, che ha colpito a morte il lavoro come identità. Se negli anni Ottanta il lavoro non generava identità perché scarseggiava, ora non genera iden-tità perché è tanto precario da trasmettere valori negativi. E da questa situazione, che coinvolge l’attuale generazione di ventenni, non si potrà uscire senza ricondurre il lavoro a quello che deve essere: una attività economica, ma anche un universo identitario.

Per approfondire» Aris Accornero , Il lavoro come ideologia, Il Mulino, Bologna, 1980» Aris Accornero, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, Bologna, 2000 » Zigmunt Bauman, Lavoro, consumismo e nuove povertà, Città aperta, Troina, 2004» Maurice Dobb, Problemi di storia del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1946

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©Flickr-by mcalamelli

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le molteplici identità del consUmatore postmoderno.

di Tonia Basco

Siamo in una nuova era antropologica, quella della postmodernità, che Maffesoli definisce “un’armo-nia tra contrari”: una società che prende le distanze dai grandi miti della modernità e preferisce optare per l’am-biguità, il paradosso, la mutabilità. Postmodernità che si esprime nell’“individualismo contrapposto a universalità, pluralità verso consenso, dissenso verso conformismo, eterogeneità verso omogeneità, la differenza verso la so-miglianza” (Brown).

Un nuovo consumatore, più scaltro ed esigente rispetto al passato, si erge a protagonista di questa nuova variopinta scena e ridefinisce i caratteri e il significato stesso del consumo. Spogliato della tradizionale accezione funzio-nale e materialistica, quest’ultimo assume una valenza diversa e più complessa e si trasforma in metalinguaggio con cui comunicare identità, appartenenze, valori; attua un “agire sociale” guidato sempre più dalle emozioni e dai sentimenti piut-tosto che da categorie utilitaristiche. L’homo oeconomicus – razionale e proteso alla massimizzazione dell’utilità – cede il passo all’homo ae-sheticus, che si lascia ispirare dai desideri, rivaluta il ruolo dei sensi nella scoperta e nella scelta delle merci e attribuisce un’importanza

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inedita a tutte le componenti dell’atto d’acquisto, sia tangibili sia intangibili.

Curioso e creativo, questo personaggio sfugge a ogni tentativo di classificazione in categorie dai rigidi confini: il suo agire di consumo, infatti, appare sempre più incoerente e contrad-dittorio, e di conseguenza, sempre più imprevedibile. Tale atteggiamento si discosta da quel principio di linea-rità tipico dell’uomo tutto d’un pezzo, quell’individuo “integro”, con una personalità stabile e comportamenti facil-mente prevedibili, con cui il marketing ha interagito a lungo. Fino ad un recente passato il principio di coerenza nell’agire umano rappresentava un saldo paradigma, che, se da un lato premiava eticamente l’individuo rigido e lineare, dall’altro ac-cusava di immaturità, di mancanza di personalità, di labilità psicologica l’uomo che osava uscire dagli schemi. Tuttavia, la crescente complessità sociale e il declino delle ideologie hanno decretato la fine di tale paradigma e, con esso, dell’idea di una identità unica e coerente: la condizione umana diventa così quello che Dell’Aquila ha definito “un trascorrere da una identificazione all’altra”.

Nella società postmoderna, infatti, l’identità diventa più sfuggevole e flessibile, svincolandosi dalla monolitica in-terpretazione tipica dell’epoca moderna: dal cosiddetto

“monocentrismo occupazionale” si è passati al “policentrismo esistenziale”. Il principale elemento di caratterizzazione dell’identità dell’uomo moderno era il lavoro e la sua realizzazione personale e sociale era strettamente le-gata alla realizzazione ottenuta a livello professionale. Inoltre, si era soliti associare a un determinato status professionale un determinato modello di consumo, per lo più omogeneo e facilmente prevedibile nella sua graduale e limitata evolu-zione. Nella società odierna, invece, il lavoro è solo uno dei fattori che determinano l’identità: sono piuttosto i molteplici microcosmi sociali con cui il consumatore interagisce che plasmano la pluralità di maschere che egli indossa di volta in volta. In ciascun individuo, cioè, convivono diverse identità, legate alla pluralità dei contesti culturali e lavorativi in cui vive, alle ideologie di riferimento, ai vari hobby coltivati. Oggi ognuno si ritrova a inter-pretare più ruoli sociali che implicano comportamenti spes-so contraddittori: c’è chi veste i panni del direttore di banca durante il giorno e di notte si diletta a fare il disk jockey nei locali; o chi fa l’imprenditore in giacca e cravatta e contem-poraneamente frequenta centri sociali. Come destreggiarsi tra realtà così diverse senza doversi mettere sempre in di-scussione? Con flessibilità. Modellando la propria identità a seconda del ruolo da ricoprire e mettendola da parte quando tocca a quello successivo: un vero e proprio “andirivieni delle identità” (Olivenstein). Nella società postmoderna, pertanto, sperimentare una gamma estesa di sé possibili costituisce una risorsa centrale per ottenere successo sociale e mi-gliorare l’autostima personale. Le nuove tecnologie, inoltre, amplificano a dismisura il “catalogo” da cui attingere nuove identità da vivere: basti pensare alle chat e alla possibilità che ci danno di personificare un sé diverso dalla realtà nascon-dendoci dietro a un semplice nick name.

Di fronte all’incantevole mondo delle merci, que-sto consumatore dalle identità policentriche e in costante divenire mostra un atteggiamento schi-zofrenico, componendo un paniere di scelte ete-

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rogeneo e incoerente: a un paio di scarpe Hogan associa un abito acquistato ai magazzini, all’antiquariato associa l’hi-tech, al pezzo d’autore il mobile Ikea. Contaminazioni che in passato apparivano una reprensibile manifestazione di irrazio-nalità, oggi rappresentano l’espressione tipica di una società complessa che alla rigida logica dell’aut aut preferisce quella dell’et et. È il “sicreclettismo” il paradigma di fondo, neologismo che unisce due tendenze: da un lato l’eclettismo, che induce a optare per la combinazione di stili diversi; dall’al-tro il sincretismo, che crea una sintesi armonica tra di essi. Un paradigma che si piega considerando che ciascuna maschera del consumatore si esprime con scelte di consumo che pos-sono contrastare con quelle effettuate quando a prevalere è un’altra identità. Anche l’orientamento pragmatico dell’uomo postmoderno ci aiuta a interpretare la complessità dell’agire di consumo: il consumatore, infatti, tende a scegliere il me-glio in ogni contesto (cherry picking), acquistando le migliori griffe in alcuni settori merceologici e optando per prodotti più dimessi in quelli in cui non esistono significative differenze qualitative. La metafora più adatta a definire questo approccio al consumo è il “patchword”: un consumatore “brico-laire” guidato da un case by case approach che fon-

de insieme tessere diverse per generare un mosaico originale e creativo.

L’imprevedibilità del consumatore postmoderno ha messo a dura prova gli uomini del marketing, minan-do l’efficacia delle teorie classiche e delle tecniche di segmen-tazione con cui hanno a lungo definito strategie e individuato target. Parlare ad esempio degli “stili di vita” (che accomunano ampi strati della popolazione in profili-tipo costanti nel tempo e caratterizzati da una certa uniformità in termini di compor-tamenti di consumo) appare anacronistico in un contesto in cui la personalità di un individuo è così frammentata e labile. Questo tipo di segmentazione poggia sul presupposto, oggi obsoleto, che gli individui abbiano un nucleo di preferenze e gusti sostanzialmente stabile cui corrispondono determinate scelte di consumo. Sulla scia del mutamento sociale, gli stili di vita sono diventati sempre più eclettici e provvisori, perden-do la loro capacità di spiegare i processi di consumo.

Nella società postmoderna ha più senso parlare di “momenti di vita”: se è vero che il consumatore mostra di-verse attitudini al consumo in base al momento che sta vivendo e alla relativa maschera, è altrettanto vero che in quel momen-to sta condividendo con gli altri un qualcosa che ci permette di accomunarli. Ad esempio, più persone riunite in un cocktail party stanno condividendo uno spazio sociale che ha specifici codici simbolici, regole sociali e attitudini al consumo: in quel momento, è probabile che si sentano in sintonia con un brand edonista e spensierato piuttosto che con tematiche più “serie”. Le aziende, pertanto, possono individuare il proprio target partendo da quei luoghi reali o virtuali (touchpoint) in cui si aggrega nei diversi momenti di vita, per poi determinare quali siano le migliori modalità di interazione e il linguaggio più appropriato. Si tratta di rovesciare completamente la classica prospettiva: sostituire, cioè, al criterio di segmenta-zione basato sulle caratteristiche sociodemografiche uno di individuazione basato sull’hic et nunc.

Incontrando il consumatore nei molteplici microcosmi sociali tra cui si muove come un flaneur, è possibile capire il senso che attribuisce a certi comportamenti di consumo e offrigli quell’esperienza coinvolgente che la maschera del momento desidera. Le aziende non possono più pensare al loro pubblico come a un bersaglio da colpire ma devono confrontarsi con at-tori competenti e proattivi: devono pertanto scendere in strada, entrare nelle “tribù” e cercare di partecipare attivamente alla costruzione delle culture di consumo. Ignorare o provare a ridurre la complessità della società postmoderna è solo un’illusione: è ora di imparare a convivere con essa e gestirla.

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di Emi Guarda

l’identità nel nome, lo pseUdonimo come altro da sé

Rose Sélavy non era forse Marcel Duchamp?Da sempre l’identità di ogni persona passa per il suo nome proprio. Nello stesso modo da secoli artisti di ogni estrazione e appartenenza hanno assunto la pratica di firmarsi con uno pseudonimo per traslare la propria iden-tità in un’altra, chi per gioco (vedi le avanguardie del ‘900), chi per nascondere la propria reale identità, chi per sentito bisogno di riconoscersi in un Altro. Attraverso il nome, come aprendo uno scrigno, si possono vedere le origini di un individuo, avvicinarsi agli orientamenti religiosi, alla

famiglia, al sesso, all’estrazione sociale.

Oggi conosciamo come Claude Cahun, una donna poliedrica e feconda, una figura vissuta nell’ombra della fervente Parigi degli anni ’20 e ’30 al fianco di personalità di spicco della scena artistica e intellettuale, il cui valore può senza al-cuna esitazione essere affiancato ad altri talenti al maschile di ben altra notorietà, quale ad esempio di Man Ray (per affinità creative). Scrittrice, poetessa, saggista, critica letteraria, romanziera, surrealista (affiliata ma mai membro riconosciuto), traduttrice, attrice, fotografa, artista rivoluzionaria, militante politica contro il na-zismo. Decisamente troppo per una donna dell’epoca, talmente troppo da risultare

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scomoda, difficile, caustica, enigmatica e sfuggente, dunque per lungo tempo dimenticata dalla critica e forse non per un semplice caso… Scoperta e riportata alla luce solo negli anni ’90 del secolo scorso per merito dello studioso francese François Leperlier, che le ha dedicato la prima monografia e ha redatto il catalogo delle sue opere fotografiche in occasione della prima retrospettiva dedicatale nel 1995 dal Centre Pom-pidou. Fotomontaggi, collages, anamorfosi e autoritratti sono gli strumenti da lei utilizzati con creatività, ironia spirito dis-sacrante e destrutturante al solo scopo di scorporare l’identità univoca e dare vita a molteplici identità, così che alla doman-da: “chi è Claude Cahun?”, si possano dare infinite risposte.Il 25 ottobre del 1894 nasce a Nantes Lucy Renèe Mathilde

LE MIE ORE SOLITARIE… AVEVO TRASCORSO

[Claude Cahun, Aveux non avenus,1930]

A TRAVESTIRE LA MIA ANIMA.LE MASCHERE STAVANO COSì PERFETTE

CHE QUANDO GIUNGEVANOAD INCROCIARSI SULLA GRAN PIAZZA

DELLA MIA COSCIENZA

NON SI RICONOSCEVANO.

Schwob, figlia di Victorine Mary Anotoniette Courbebaisse e di Maurice Schwob, noto giornalista e saggista, proprietario del giornale Le Phare de la Loire, nonché nipote di Marcel Schwob, co-fondatore del Mercure de France e riconosciuto scrittore.Dunque donna, di nobile famiglia, di estrazione cul-turale elevata, ebrea e lesbica.Da giovanissima Claude inizia a dedicarsi alla stesura di saggi e scritti molto personali usando diversi pseudonimi, dapprima fu Claude Courlis (“courlis” è un tipo di uccello con un lungo e curvo becco), in seguito Daniel Douglas (in onore all’aman-te scomparso di Oscar Wilde), prima di assumere quello che

CON QUALSIASI COSA […]LO [IL NOME] SOSTITUIVO

[Claude Cahun]

L’IMBARAZZO, IL FASTIDIO DELLA PAROLEE SOPRATTUTTO DEI NOMI PROPRI,

È UN OSTACOLO ALLA MIE RELAZIONI CON GLI ALTRI,

CIOÈ ALLA MI STESSA VITA [...]

LA MODIFICAZIONE O SOPPRESSIONEDEL NOME PROPRIO

MI È DETTATA DAL SENTIMENTO PROFONDO

DEL CARATTERE SACRO DI UN ESSERE.NESSUN NOME ALLORA

È ABBASTANZA GRANDE,ABBASTANZA BELLO.

lei stessa sentiva come il suo vero nome, piuttosto che uno pseudonimo: Claude Cahun (1915).Fin da adolescente giocava spesso firmandosi René ometten-do la e muta finale in modo da trasformare il femminile del suo secondo nome in maschile. Preannunciava in tal modo la successiva messa in scena di una galleria di “eteronomi (lesbonomi?)” e l’”uso sovversivo delle marche di genere” evidenziando l’intenzione di giocare a stretto giro sul tema della sua identità e dei suoi appellativi. Ma quello che per l’estetica surrealista rappresentava un’estetica di firma della creazione, per Cahun era frutto di una vera esigenza.

La giovane rinuncerà non solo al nome della madre ma anche al cognome del padre e dello zio scrittore, affermato e stimato nell’ambiente intellettuale. Un gesto per rinascere, rinominarsi come ricrearsi da sé. L’artista sceglie come primo nome Claude (dal neutro fran-cese usato sia al maschile che al femminile) affermando già a partire dal genere sessuale lo sfaldamento dell’identità

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insieme con l’allontanamento dal nome imposto dalla madre (Lucy all’inglese, invece che Lucie alla francese, che Claude ha sempre rifiutato firmandosi R.M.). Allo stesso modo l’ac-quisizione del cognome materno Cahun, (Mathilde Cahun era infatti la nonna cieca con la quale crebbe nel momento in cui la madre naturale venne internata per disturbi psichici), riconduce ad una rivendicazione della maternità negata e al riconoscimento affettivo verso la nonna con un forte richiamo alle origini ebraiche. A tal proposito Rosalind Krauss scrive: ”Cahun è una forma francese di Cohen, e pertanto implica di appartenere, tra gli ebrei, alla classe rabbinica. […] L’atto pro-vocatorio inerente la scelta di lasciare il nome “Schwob” per prendere quello di “Cahun” può essere visto soltanto come la volontà di sbattere in faccia al forte antisemitismo della Fran-cia del dopoguerra la propria appartenenza al popolo ebraico, un tipo di provocazione in tutto e per tutto pericolosa quanto quella di esibire il proprio lesbismo”.

Sì esatto, lesbica. Non ci si può permettere infatti di trascura-re il ruolo fondamentale del legame amoroso di Claude con Susanne Malherbe, conosciuta nel 1909 a Pa-rigi, all’età di 15 anni, di rientro da un biennio di studio in Inghilterra (periodo nel quale soffrì di anoressia e tentò ripetutamente il suicidio) dove il padre l’aveva mandata per proteggerla della vessazioni antisemite delle sue compagne. Il rapporto delle due ragazze, inizialmente osteggiato, vivrà una crescita importante dal momento che il padre di Claude

sposerà in seconde nozze la madre di Susanne rendendo le due giovani sorellastre e portandole a vivere nella stessa casa. Susanne, in arte con il nome maschile di Marcel Moore, sarà l’unico amore di Claude fino alla morte oltre che compagna instancabile di lavoro. Il sodalizio artistico tutto al femminile è stato molto a lungo trascurato e si tende oggi a rivalutare il ruolo svolto da Suzanne nell’opera che esce a nome esclusivo di Claude Cahun, come è purtroppo avvenuto per altre cop-pie di donne dell’epoca, quali Marguerite Yourcenar e Grace Frick, Gertrude Stein e Alice B. Toklas. Quando si conobbero Malherbe era un astro nascente delle arti grafiche, da subito pubblicarono insieme, nel 1919 uscì il loro primo libro Vue e visions con testi di Claude e illustrazioni di Suzanne. Nel 1925 viene pubblicato Hèroines, sette brevi testi dedicati ad Eva, Dalila, Giuditta, Elena, Saffo, Margherita, Salomé. Nel 1930 escono una serie di poemi saggio e dieci fotomontaggi dal titolo Aveux non avenus.Inseparabili dal 1925 al 1927 fecero parte della compagnia tea-trale Thèatre Esotèrique, Claude come attrice e Susanne come costumista, nel 1932 si unirono alla Associazione degli Artisti e Scrittori Rivoluzionari, di ispirazione comunista, e nel 1935 parteciparono alla pubblicazione surrealista Contre-Attaque, a contatto con George Bataillle e Roger Caillois, con i quali con-dividevano l’analisi dei temi della fisicità corporea. Nel 1935 Claude espose una serie di lavori fotografici all’esposizione internazionale del Surrealismo a Londra e strinse un legame di amicizia sempre più stretto con André Breton, che la definì uno degli spiriti più curiosi del secolo.Nel 1937 decidono di lasciare Parigi per trasferirsi

a Jersey (isoletta nel canale della Manica) in quasi totale isolamento, se si escludono i consueti con-tatti epistolari con i surrealisti. Nel 1940 l’isola viene occupata da nazisti. Durante i quattro anni di occupazione le due donne si impegnano in una forte e costante campagna antinazista firmandosi ancora una volta con uno pseudonimo “il Soldato senza Nome”. Susanne conosceva bene il tedesco, scrivevano a macchina piccoli foglietti e volantini (sempre con caratteri diversi) che poi lasciavano appallottolati nelle tasche dei cappotti dei soldati appesi nei bar, nella auto tedesche par-cheggiate, in pacchetti di sigarette lasciate per strada. Nel ’44, dopo quattro anni di attività sovversiva della quale si credeva fosse responsabile un gruppo, le due donne furono arrestate a causa dei loro cognomi tedeschi (sembra che a Jersey le due

UN’ALTRA MASCHERA.SOTTO LA MASCHERA

[Claude Cahun]

NON FINIRÒ MAIDI SOLLEVARE TUTTI QUESTI VOLTI

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vivessero sotto le loro autentiche identità, tuttavia non ci sarà mai dato sapere quale infinita panoramica di nomi le due si attribuirono reciprocamente nella loro vita privata). Dopo un anno di prigionia, condannate a morte, fortunatamente furono liberate prima dell’esecuzione nel 1945 all’arrivo degli Alleati sull’isola. Claude, gravemente malata (a causa dei maltratta-menti subiti durante la detenzione) morì nel ‘54 mentre pro-gettavano di rientrare a Parigi e Suzanne si suicidò nel ’72. Lavorarono insieme fino alla morte di Claude.

A partire dalla sua riscoperta la figura di Claude Cahun è stata legata ad altri importanti nomi in qua-lità di antesignana. Nel campo dell’arte la critica l’ha spes-so associata ai nomi di Nan Goldin per l’approccio intimo e autobiografico focalizzato sull’ambiguità sessuale e di Cindy Sherman per l’ossessione verso il travestitismo, la messa in scena, la maschera di fronte all’obiettivo fotografico. Tanta par-te della critica femminista ha segnalato nel suo lavoro creativo uno dei primi gesti di ribellione e riscatto contro la reificazione del corpo femminile. Lo sfaldamento delle limitazioni identi-tarie, l’indefinibilità e fluidità della categoria sessuale come da lei intensamente vissute (“Maschile? Femminile? Ma dipende dai casi. Neutro è solo il genere che mi si addice sempre”) anticipano le teorie di genere successivamente portate avanti da Simone de Beavoir e Judith Butler.

Al di là di tutte le teorizzazioni possibili due sono i fattori che contribuiscono a mio avviso a dare al lavoro di Claude Cahun un’innegabile modernità. In primo luogo la sua opera na-

Per approfondire» F. Leperlier, Claude Cahun. L’écart et la métamorphose, Paris, Jaen-Michel Place, 1992» M. Ferrari, Claude Cahun. Scrivere l’inconfessabile, in “Towanda! Rivista Lesbica”, n.11, settembre/novembre 2003» C. Cahun, Confidence au Mirror, Confidenze allo specchio, saggio autobiografico iniziato nel ’45 e dedicato a Suzanne Malherbe, il titolo è del curatore » R. Krauss, Celibi, Codice Edizioni, 2004» C. Cahun, Aveux non avenus, Edition du Carrefour, Parigi, 1930

LA FOTOGRAFIA È INFATTIL’AVVENTO DI ME STESSO

COME ALTRO:UN’ASTUTA DISSOCIAZIONE

DELLA COSCIENZA D’IDENTITÀ

[Roland Barthes]

sce da un’esigenza profonda, è l’espressione della sua personale volontà di essere diversa dagli altri e da tutti. Aborriva l’idea di essere rappresentata da un’imma-gine pubblica, motivo per il quale non amava mostrare i suoi autoritratti fotografici. Se i fotomontaggi e i collages possono considerarsi infatti come produzioni creative assolutamente proprie dell’estetica surrealista, gli autoritratti invece hanno il carattere della ricerca privata. L’auto-referenzialismo co-stante delle opere fotografiche ruota intorno alla vo-lontà di smaterializzare il corpo per poterlo inventare di nuovo, decodificare di volta in volta in un aspetto fisico e in un ruolo altro da sé. Quel che ancor più risalta oggi ai nostri occhi e ci stupisce per l’approccio avanguardi-stico è lo sguardo politico di Cahun nei confronti della sua

epoca. Essere donna, ebrea e lesbica l’ha condotta a riflettere su come distruggere l’identità come stru-mento di controllo politico e personale. Trucco esaspe-rato, messe in scena, abiti maschili e femminili e il suo stesso corpo androgino fanno sì che l’immagine non rappresenti più l’identità ma produca la differenza, l’alterità, svalorizzi l’univo-co a favore dell’espressione di voci plurali.

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creatività

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di Massimo Caiaticreativi in crisi d’identità

Il Natale, quando arriva arriva”, diceva Renato Pozzetto in una pub-blicità per un noto panettone. E quando arriva, i bambini vengono assaliti dall’ansia di sapere quali regali riceveranno e se il nuo-vo Pro Evolution Soccer sarà migliore di quello dell’anno prima (domanda che in realtà si pongono anche i bambini un po’ più

anziani), in un trepidante mix di speranza e paura che tale speranza non si concretizzi.

Per i creativi è più o meno lo stesso. L’unica differenza sostanziale è nella data.Per chi fa il mio mestiere il vero e proprio Natale arriva a giugno, e a portare i doni non è un paffuto signore con la barba bianca vestito come una lat-tina di Coca-Cola, ma i giurati del Festival Internazionale della Pubblicità di Cannes, nel quale vengono assegnati i tanto agognati leoni d’oro, d’argento e di bronzo. L’edizione di quest’anno ha portato alla luce alcune interessantissime idee.

Aspettando di metabolizzare tutte le informazioni ricevute, in modo di poter trac-ciare una sorta di linea riguardo quelle che sono le forme più avanzate di co-municazione pubblicitaria, può essere divertente soffermarci su un aspetto più generale, che di fatto è stato sempre piuttosto ignorato ma che è di vitale im-

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portanza (ipotizzando, certo, che la pubblicità sia rimasta una forma di comunicazione di “vitale importanza”): il lavoro di un creativo è quello di vendere formaggini e prodotti finanziari o quello di vincere premi, far ragionare le persone e creare emozioni?

Per rispondere a questa domanda è necessario fare un piccolo passo indietro, e svelare una volta per tutte un piccolo segreto dei creativi di tutte le agenzie del mondo: il nostro lavoro è frustrante. Sia ben chiaro, non è frustrante solo perché c’è sempre qualcuno migliore di te, che ha già realizzato la tua idea nel 1988 in Sud America, mentre tu eri ancora intento a giocare con l’Intellevision e a tifare per il Milan di Donadoni e Van Basten. Quello è sì frustrante, ma comunque dopo un po’ ci si fa il callo. La vera frustrazione nasce dal fatto che noi pensiamo che il nostro lavoro sia quello di crea-re sempre il soggetto pubblicitario più innovativo, che faccia innamorare del prodotto chiunque lo guardi e che questo venga un giorno esposto al MOMA di New York come esempio della genialità umana, mentre i nostri clienti vo-gliono sempre e solo che il marchio sia grande, che il prezzo resti al centro dell’attenzione, e che ci sia sempre almeno un bambino che ride in una pubblici-tà per pannolini e una donna che ammicchi in manie-ra sexy in una pubblicità per una macchina.

Ecco. La frustrazione nasce proprio da questo. Dal fatto che solo una piccola parte del nostro lavoro sia destinata a farci venire idee, mentre la maggior parte di essa è dedicata a pro-vare a salvare queste idee e a evitare che l’intervento del cliente le renda più banali e scontate. Solo così, dopo este-nuanti battaglie e riunioni, alla fine dell’anno si può puntare ad avere qualcosa di cui essere fieri, da far vedere con orgoglio agli amici e soprattutto ai Direttori Creativi di altre agenzie, sempre assetati di premi.

Questa situazione di conflitto perenne ha dato vita ad abomini come gli Scam, le campagne fittizie create apposita-mente per vincere premi e che non verranno mai mostrate a nessuno, se non ai giurati e alle fidanzate/i. La cosa più assurda è che queste campagne, che in alcuni casi sarebbero ben più efficaci delle pubblicità che vengono normalmente mostrate, sono viste come un favore che i clienti illuminati fanno alle agenzie, un favore che con-siste nel concedere la possibilità a queste ultime di usare il loro marchio. Di fatto, le agenzie producono queste pubblicità a loro spese e ringraziano i clienti che le autorizzano a iscri-verle ai premi (sia ben chiaro, solo ai premi, non sia mai che qualcuno possa vedere una bella pubblicità in televisione per un detersivo per i piatti!).Di fatto, in questi casi tutte le regole dei rapporti tra agenzia e cliente vengono completamente alterate. E l’agenzia, dall’essere partner e consulente per la comunica-zione delle aziende, diventa una specie di noioso inter-

locutore infantile che bisogna accontetare e far sfogare un attimo, in modo da tenerselo buono per quando gli verrà chiesto di avere il marchio più grande nella prossima, “vera” campagna. Si tratta chiaramente di un controsenso assoluto, oltre che di un esempio di immensa idiozia edonistica.

Alla base di tutto questo c’è soprattutto un fenomeno: i rappresentanti delle aziende spesso credono che i consumatori siano una massa di “bamboccioni” incapaci di capire una pubblicità che richieda un minimo di ragionamento, mentre le agenzie pensano che il loro lavoro sia produrre pezzi d’arte, piuttosto che incrementare le vendite. È chiaro che avendo a che fare con due punti di vista così differenti il risultato non può non consistere in una serie di conflitti e frustrazioni che toccano entrambe le parti.

Ora, la domanda è: c’è un modo per uscire da questo meccanismo perverso? Forse sì, e la risposta, se c’è, ha a che fare con la parola cultura.È senz’altro vero che alcune delle pubblicità da premio risulta-no troppo complicate da capire per una persona non abituata a dover riflettere davanti a una campagna, ma è altrettanto vero che la memoria richiama più facilmente un evento se a que-st’evento è associata un’emozione o una risata. Di conseguen-za, l’arte del bravo pubblicitario e dell’efficace direttore di Co-municazione di un’azienda dovrebbe essere quella di muoversi con maestria in questo terreno dai tratti non ben definiti.

Con il passare del tempo, quando sempre di più si diffon-derà una consapevolezza tale da permettere di apprezzare forme pubblicitarie più evolute, sarà anche automatico che i creativi potranno (anzi, dovranno, se vorranno fare qualcosa che funzioni) alzare il tiro e migliorare la loro offerta creativa, con lo scopo di fare pubblicità che escano fuori dalla mischia e che siano più facilmente ricordate. Questo potrebbe dar vita a un circolo virtuoso che potrebbe in un colpo solo migliorare la qualità delle pubblici-tà, la soddisfazione del pubblico e i rapporti cliente /agenzia.

Pronunciate tutte queste belle parole, mi piacerebbe suppor-tare questa piccola teoria con qualche esempio, e credo ci siano già moltissime pubblicità sufficientemente accessibili e godibili in grado, allo stesso tempo, di rappresentare delle vere e proprie perle di intrat-tenimento. Sul sito www.canneslions.com (il sito ufficiale del Festival della Pubblicità di Cannes) sarà possible vederne alcune gratuitamente. Bisogna sperare di poterle prima o poi vederle in tv. Clienti e agenzie permettendo.

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di Daniele Pittèri

Negli ultimi venti anni si è assistito a un duplice proces-so di trasformazione/evoluzione delle identità che ha radicalmente modificato le dinamiche di mercato, rove-sciando letteralmente il ruolo e le funzioni degli attori principali, i consumatori e le merci. Da un lato il con-sumatore è andato incontro ad una metamorfosi radicale, che da soggetto subalterno lo ha fatto divenire attore protagonista, in virtù della progres-siva convergenza dei percorsi e delle filiere di consumo con i percorsi di costruzione identitaria dell’individuo.

Dall’altro le merci hanno perduto parte della propria forza immaginifi-ca e della proprie capacità ammaliatrici in virtù dell’accorciamento della loro durabilità sul mercato e dell’indebolimento dei propri tratti identitari.

In realtà questa trasformazione/evoluzione è soltanto giunta a maturazione negli ultimi due decenni, ma è frutto di un processo molto più lungo. Infatti, sin dai tempi della seconda rivoluzione industriale, negli ultimi decenni del XIX secolo, le dinamiche di consumo hanno inseguito, adottandolo e in qualche modo cristallizzandolo, il mutamento degli individui e delle società, adeguandosi nei significati ai cambiamenti economici, tec-nologici e sociali via via occorsi.In Europa e in Italia – causa i ritardi e gli impedimenti determinati dalle due

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grandi guerre novecentesche, dalla lunga permanenza al po-tere di regimi totalitari, oltre che da una diffusa mentalità di regolamentazione del mercato anche attraverso l’intervento dello Stato – le evoluzioni delle modalità di consumo hanno subito una radicale accelerazione solo a partire dagli anni Ot-tanta del XX secolo. È stato in quell’epoca che il consumo ha iniziato a riscattarsi dallo stretto legame che per lungo tempo aveva avuto con la stratificazione sociale e che si è attuata una svolta verso atteggiamenti di consumo tesi a definire identità individuali. In Italia, in particolare, dal consumismo segnale-tico degli anni Sessanta (orientato ad acquisire, attraverso il possesso di beni durevoli, una sorta di diritto di cittadinanza, la possibilità di essere parte di una società che aveva conqui-stato il benessere), transitando attraverso il consumismo della distinzione degli anni Settanta (i beni e i prodotti assumevano funzione di status symbol, di oggetti significativi di un’appar-tenenza sociale, culturale o di censo), si è passati, in maniera quasi repentina e improvvisa, a una dimensione di consumo che rompeva i tradizionali vincoli fra produzione e fruizione e che tendeva a configurarsi come atto di affermazione di una propria “unicità” da far conoscere, in maniera anche vistosa, a un contesto sociale articolato, ampio e mobile, non più rigida-mente ancorato a categorie tradizionali. È in quell’epoca che le scelte d’acquisto dei consumatori iniziano da un lato ad essere caratterizzate da un forte eclettismo e dal-l’altro ad essere orientate da una serie di variabili occasionali, che, per quanto eterogenee, funzionano come interruttori, come stimoli per generare processi di senso. Ciò provoca una radicale trasformazione culturale da cui prende

corpo il consumatore post-moderno. Si tratta di un nuovo idealtipo di operante nello scenario dei consumi, un soggetto che dapprima scopre il valore simbolico dei beni, per cui gli acquisti non rappresentano più la semplice soddisfazione di una necessità, ma assumono una valenza comunicativa, di segno distintivo della propria personalità (che, tuttavia, tende ad essere mutevole, così come mutevoli erano in quell’epoca le mode e i trend che in qualche modo ispiravano quelle per-sonalità) e che successivamente, a partire dagli anni Novanta, assume un atteggiamento via via più maturo, imperniato sulla costruzione di un progetto di consumo individuale.

Il consumatore che si affaccia al XXI secolo e che ne attraversa poi questo primo decennio è un con-sumatore ancora diverso, ormai “autonomo” e “competente”, che ha intrapreso un dialogo con le imprese e con le merci di cui non è più solo ricetto-re passivo, ma pieno co-protagonista. Cosciente dei propri bisogni, non più eterodiretti e sempre più complessi, cerca nei prodotti nuove qualità, tangibili e intangibili e tende a dialogare con le merci al fine di “modificarle”, di renderle sempre più rispondenti ai propri bisogni. Un consumatore maieutico, un prosumer (un produttore/consumatore, pro-ducer/consumer), il generatore di un senso da attribuire alle merci, affinché siano in grado di soddisfarne i bisogni. Ciò che egli cerca nelle merci, infatti, non è il possesso, non è l’acquisizione fine a se stessa. La rappresentatività sociale e culturale dei prodotti non gli interessa più. L’utilità, il calco-lo e il valore d’uso perdono gran parte della loro importan-za in favore di elementi nuovi, come la fantasia, il gioco, la quotidianità, lo spreco, poiché egli privilegia una relazione emotiva e percettiva con esse, perché cerca nelle merci una dimensione di amicizia e di parentela, qualcosa di intimo, di personale. È un sensation seeker, un cercatore di sen-sazioni e di suggestioni che può ricavare solo dall’esperien-za. E ciò lo spinge a ricercare delle occasioni di consumo, che costituiscono il suo vero interesse, poiché ogni atto che compie (comprare un prodotto, mangiare un cibo, viaggiare, usufruire di un servizio, guardare un film o leggere un libro) è parte di un più generale processo di autodefinizione identita-ria; ogni azione attinente alla sfera del consumo è parte di una filiera di azioni che egli realizza al fine di esprimere la propria identità e di comunicarla ai propri simili.

È una figura complessa quella del consumatore con-temporaneo. Da un lato è poliedrico e nomade e il suo percorso di vita, pur pieno di senso come mai prima, non è più né lineare né progressivo, poiché egli tende a muoversi dinamicamente e ad assumere attitudini di consumo diverse a secondo dei contesti con cui si relaziona. Dall’altro è sal-do nelle proprie scelte e nelle proprie relazioni con le merci, poiché le inscrive tutte in una logica esclusiva e personale. In un tracciato ispirato e guidato da un interesse preminente, una passione (ad es.: il vino, il cibo, lo sport,

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il mare, la natura, il cinema, la musica, il viaggio, il ballo, etc.) che assume il valore di una vera e propria vocazione identita-ria, che gli consente di “definirsi” come persona prima ancora che come consumatore. La natura della sua identità è liquida, è il risultato di uno “slittamento dall’individuo”, di un trapasso “dall’identità stabile che esercita la sua funzione in insiemi contrattuali, alla persona che recita dei ruoli nelle tribù affettive”. Per questo consumatore “non c’è esistenza se non nel quadro di un inconscio collettivo”, poiché è inserito, in una dinamica di corrispondenza e di partecipazione che pri-vilegia il corpo collettivo.

Questo insieme di processi individuali genera delle nuove forme di aggregazione comunitaria, che pur essendo (e costituendo) nuovi segmenti di mercato e nuovi target (di-namici e trasversali agli abituali criteri di definizione tipolo-gica del pubblico), differiscono per natura, per struttura e per conformazione dai target tradizionali. Qui non c’entrano più né gli stili di vita né gli stili di pensiero. Qui c’entrano logiche di condivisione e di appartenenza che si misurano col metro dell’intensità e non più in base a parametri quali-quantitativi. Ogni aggregazione comunitaria è di fatto una sorta di tribù più o meno numerosa, composta da individui che sono accomunati dalla medesima passione, da una stessa vocazione che praticano in modo più o meno intenso: identitario, vincolante e totalizzante; appassionato, forte e preminente; curioso, lieve ed episodico. NeoTribù che perpetuamente cercano le occasio-ni in cui esercitare la propria passione, condividendola con i propri simili, momenti che di fatto si trasformano in un vero e proprio ricongiungimento per tutti i membri di una stessa comunità e che, per questo motivo, assumono un elevato va-lore identitario e simbolico, ma che allo stesso tempo costi-tuiscono un’eccezionale circostanza in cui un intero segmento

di mercato confluisce in un contesto unico a connotazione esclusiva.

La connessione che si genera fra i componenti di queste neocomunità è molto stretta e, allo stesso tempo, discreta. Il legame che li salda è di tipo emotivo e lo spazio comunitario e “tribale” è vissuto in maniera non utilitaristica, come luogo di scambio di emozioni e di passioni. Non vige, come nelle tribù pre-moderne, l’alta vischiosità dei legami di sangue o di clan. In virtù della propria identità liqui-da, l’individuo contemporaneo entra ed esce facilmente da una o più tribù, appartenendo anche a più di un raggruppamento contemporaneamente. Ma la sua partecipazione a tutte le tribù in cui agisce, è caratterizzata sempre da intense e diffuse inter-relazioni con gli altri membri della comunità.Egli è un “insieme” di persone diverse che di volta in volta condivide con altre persone simili a lui un sentire comune, che lo rende in qualche modo identificabile e riconoscibile come appartenente a un gruppo, tuttavia sempre diverso. “In opposi-zione alla stabilità indotta dal tribalismo classico, il neotribali-smo è caratterizzato dalla fluidità, dai raggruppamenti puntuali e dallo sparpagliamento; è così che possiamo descrivere lo spettacolo della strada nelle megalopoli moderne”, in cui la ritrovata ricerca di socialità sta nel godimento che spesso si concretizza nella banalità del consumo di un medesimo pro-dotto, nell’utilizzo della stessa merce, nel confluire in un unico “posto”, sia esso un luogo di spettacolo o loisir, sia esso un spazio commerciale, sia esso uno spazio immateriale come il web. Si pensi, in tal senso, alle comunità di fan dell’iPod, della Harley Davidson o della Ducati, si pensi alle comunità on line come Facebook, che è a sua volta un insieme di micro comunità coagulizzate da tratti identitari il più delle volte de-bolissimi o pretestuosi.Individui che non cercano nel consumo un mezzo per

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dare significato alla propria vita liberandosi degli altri, ma che al contrario cercano in esso un mezzo per legarsi in una comunità di riferimento, la quale permette di produrre sensi e significati più o meno ampi e profondi per la propria vita. Il sistema di consu-mo non è allora un elemento primario che si serve del vincolo sociale, ma è un elemento secondario al servizio del vincolo sociale, poiché il legame è più importante del bene. In que-st’ottica, l’individuo sarà portato a consumare beni e servizi che facilitano l’interazione sociale in virtù del loro valore di legame, il quale non è costituito a priori, ma deriva dall’inte-razione fra i membri all’interno delle comunità. Raggruppamenti valoriali, comunità vocazionali, neotribù di brand, che, figli della società del loisir, di un’epoca in cui il tempo del non lavoro è diventato tempo per sé (tempo dedi-cato alla propria crescita intellettuale, emotiva e fisica), pon-gono al centro dei processi di consumo l’esperienza, ossia una dinamica attraverso la quale nelle merci si ricercano segni di sé. Ne deriva un “enorme mercato delle passioni e delle identità, in cui l’esperienza assume la funzione di elemento attuariale, di unità di misura della merce post-industriale”.Il processo di trasformazione delle merci e della loro progressiva perdita di identità è stato altrettanto radi-cale, ma molto meno complesso e articolato, essendo sostan-zialmente una conseguenza della metamorfosi del consumatore. Le merci hanno costituito l’elemento cardine dei mercati e delle loro dinamiche a partire dalla metà del XIX secolo,

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49Per approfondire» Fabris G., Il nuovo consumatore: verso il post moderno, Milano, 2003» Pollarini A. (a cura di), Tutti i colori del verde, Milano, 2008, » Maffesoli M., Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Milano, 2004» Pollarini A., Loisir, tribù e comunicazione nella postmodernità in Cristante S. e Pettarin F. (a cura di), Progettare eventi, Genova, 1999» Cova B., Il marketing tribale, Milano, 2003.

dall’Esposizione universale di Londra del 1851, fino a tutti gli anni ottanta del XX secolo, epoca in cui raggiungono il loro massimo splendore, apparati perfetti per generare significati, evocazioni, suggestioni.Alla metà dell’Ottocento la spettacolarizzazione dei prodotti dell’industria è in qualche modo una circostanza che con-sente di celebrare ed esaltare l’ingegno umano, la capacità dell’uomo di appropriarsi dei frutti e delle forze della natura, trasformando i primi grazie a un uso razionale e controllato delle seconde. Ma già nel momento in cui, pochi mesi dopo la conclusione dell’Esposizione universale, i prodotti escono dal Crystal Palace per entrare nei saloni de Le Bon Marché, il primo grande magazzino, la loro spettacolarizzazione assume un senso diverso. Non sono più prodotti, ma merci. Perdono il proprio legame diretto con l’ingegno umano e diventano semplicemente qualcosa di terribilmente complesso: oggetti deputati a soddisfare i desideri degli esseri umani. Le isole di prodotti tutti uguali che popolano e riempiono gli spazi vuoti dei grandi magazzini (centinaia di esem-plari l’uno affianco all’altro a comporre colonne e piramidi) determinano un impatto sensoriale ed emotivo sulle persone che travalica la razionalità, che addirittura non prevede alcuna mediazione con la ragione e che recide, quindi, tutti i legami fra i prodotti e gli ingegni che li hanno determinati.

È in quel momento che le merci iniziano a costruire una propria identità autonoma e a sviluppare un proprio linguaggio, la pubblicità, finalizzato a rafforzarne e a renderne progressivamente più sofisticata proprio l’identità. L’apice di questo processo di costruzione identitaria è co-stituito dalla celebrazione della merce/star che negli anni Ottanta del XX secolo fa Jacques Séguéla. È una merce-in-dividuo, dotata di un fisico, che muta al mutare del tempo, un carattere, immutabile poiché identitario, uno stile, che essendo il modo in cui nel tempo il carattere si manifesta, si evolve, ma non cambia registro. È l’epoca del massimo splendore in cui merci caratterizzate da un’identità forte e decisa generano, grazie al proprio linguaggio e in virtù di quell’identità, un insieme di sensazioni, suggestioni, evocazioni, sensi, significati che stringono in una rete il consumatore, stimolandolo, in tal modo, a tutto tondo.È l’epoca in cui le merci sono il dominus del mer-

cato, il momento in cui hanno il potere di dotare gli individui di personalità, di offrire “contenuti”, di il-luderli di un’identità. Ma è anche l’epoca in cui inizia il progressivo processo di metamorfosi del consuma-tore e, probabilmente, è proprio lo straordinario livello di so-fisticazione raggiunto dal linguaggio delle merci ad accendere questo processo, a provocare il consumatore e a spingerlo a un salto, a palesargli la necessità di trasformarsi da membrana sensibile, da ricettore di stimoli esterni a costruttore di sensi, emanatore di stimoli individuali e collettivi. Progressivamente, accompagnandolo in questa metamorfosi, anche le merci cambiano. Nel loro interagire con i con-sumatori e con le pratiche interindividuali che intercorrono fra essi contribuiscono alla costituzione e alla trasformazione dei significati socialmente condivisi e dei ruoli e delle relazioni di ciascun individuo, ma non li generano più. Pur mantenen-do una propria identità, tuttavia sempre più flebile, esse non trasmettono e non comunicano un significato preciso e de-terminato. Diventano polisemiche, potenzialmente di-sponibili alle nuove attribuzioni di significato che il consumatore decide di dare loro. Una sorta di ipertesto che si definisce poco alla volta nel corso dell’interazione con gli individui, concorrendo, dunque, alla produzione simbolica di una miriade di significati differenti, a secondo delle relazio-ni instaurate. Si trasformano in uno strumento nelle mani del consumatore, la testimonianza fisica della sua identità.

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di Alfonso Amendola

l’incandescenza e la forma del giappone nell’opera di nicola gUarini (e dei vidra)

Resta a Roland Barthes la definizione del Giappone come impero dei segni. Una ricostruzione semiotica che il grande pensatore francese volle rintracciare negli spazi non istituzionali e tentando di definire le complessità del-l’identità nipponica: “nella città, nel negozio, nel teatro, nel-la cortesia, nei giardini, nella violenza”. E poi inseguendo gestualità, analizzando cibi, rileggendo poesie, osservando volti ed occhi del popolo giapponese. E sottolineando “la fermezza della traccia, senza sbavature, senza margini, sen-za vibrazioni”.

Lungo e ben oltre l’orizzonte segnico indicato da Barthes sembra muoversi la “ricostruzione” fotografica del Giappone di Nicola Guarini. Una “rico-struzione” sostanzialmente identitaria che si staglia verso lo splendore metropo-litano di Tokio, gli scenari d’interni, le ombre dal notturno, le pulsioni urbanisti-che, gli spazi chiusi ed aperti, gli hotel. Alcune sue fotografie ne sono decisivo emblema: da For relaxing time a Nikko, da Al Terrace a Ginza. Fino a disegnare, fotograficamente, un Giappone immaginifico (penso in particolare all’homage de-dicato al film di Sofia Coppola Lost in traslation del 2003, che del Giappone, To-kio in particolare, evidenzia inquietudini e solitudini dove echeggia quell’assenza

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di sbavature e svuotamenti indicati da Barthes). Insomma, un Giappone concreto ed emozionale, incandescente e formale, rumoroso e silente quello fotografato da Guari-ni. Dove la traccia d’identità di un popolo compare in tutte le sue possibili sfaccettature: per un fotografo-viaggiatore come Guarini il Giappone non poteva non diventare lo spazio di una necessità espressiva ed esplorazione visiva (come in prece-denza è stato il suo rapporto con Cuba o con la Sicilia). Per questo il Giappone fotograficamente “indagato” e raccontato da Guarini è reso in tutta la sua irraggiungibile complessità, linee di fuga identitarie e contraddizioni (altra parola-chiave per avvicinare la patria di Zeami e dei fiori di loto; per com-prendere, pardon, cercare di comprendere questa terra segnata da cortesia e devozione, tra una natura imperiosa ed elegante e la maestosa moltiplicazione tecnologica e virtuale).

Quello che interessa alla fotografia di Guarini è sia la dimensione quotidiana che lo spazio vuoto. Infatti nello scorrere composito delle sue opere fotografiche l’autore

ci indica gli spaccati espressivi di tutta la sua ricerca artisti-ca: racconti di situazioni, movimenti minimi o scenari pieni, occasionalità, frammenti di estrema quotidianità, ma anche immediatezza e articolazioni complesse. Né potrebbe essere altrimenti: in quanto la forte personalità fotografica di Guarini, il suo trascinante viaggiare e realizzare reportage, lo portano a essere un vero e proprio narratore (non soltanto di identità ma anche di storie, luoghi, tempi e visioni). Una produzio-ne fotografica che si muove con eleganza e discrezione. Una modalità che ha trovato nel Giappone (una terra che ha an-che ospitato una sua preziosa personale, con testo critico di Marco Alfano, From here to eternity, al Four Seasons Hotels Gallery di Tokio, nell’ambito della Festa Italiana del 2009) un modo diverso, volutamente intimo e costellato da differenti contaminazioni artistiche e culturali per osservare una na-zione che, costruita nell’imperiosità del segno, è ancor oggi un vero e proprio luogo d’assoluto. Una terra di leggerezza e sapienza, dove l’incandescenza e la forma sono davvero il ritmo in grado di miscelare sperimentazioni high-tech e il

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culture

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profondo misticismo, le trasformazioni urbanistiche e la per-sistenza di luoghi tradizionali, le inquietudini e la saggezza, lo Shintoismo e l’eversione dei costumi, le “maschere” di Yukio Mishima e la “bellezza e tristezza” di Yasunari Kawabata, l’os-sessione cinematografica tra nuovo e modernità di Yasujiro Ozu e il citazionismo coltissimo dei film di Akira Kurosawa, il trionfo dei manga e la computer culture.

Proprio in questo percorso di “sintesi” s’inserisce un altro omaggio. Dalla sontuosità artistica di Nicola Guarini è sca-turita un’ulteriore “piega” per raccontare il Giappone: dall’im-magine fotografica alle sonorità, potremmo dire. E così sulla scia dell’incandescenza citazionista e della composita speri-mentazione delle forme, uno dei gruppi più di tendenza della

giovane scena musicale made in Italy, i Vidra (Antonella “Giga” Gigantino - voce e chitarre; Francesco “Fren-cio” Fecondo - voce, tastiere, sintetizzatori), hanno voluto dedicare allo spaccato giapponese un’ori-ginalissima “colonna sonora” che accompagna le opere fotografiche di Guarini. Una performance dal titolo J-POP che attraversa/omaggia la terra d’Oriente in una serie di sonorità “trasversali” tra Just Like Honey, raffinato brano dei Jesus And Mary Chain (song portante del malinconico film di Sofia Coppola) e l’iconografia dei Japan guidati negli anni Ottanta da David Sylvian, tra stralci letterari della miglior scrit-tura nipponica (selezionati da Maria Luisa Pesce e nel segno visivo del web-dj Frame 42) e una miriade di nuvole pop tutte da scoprire, tra Pizzicato Five e Franco Battiato, tra lirica e visioni, super eroi di cartoon e cinema classico. E in questo dialogo tra sonorità allegramente e seriamente post-Nipponi-che volute dai Vidra [www.vidraofficial.com] l’opera visiva di Nicola Guarini “respira” verso altre visioni, spazi di racconto, tensioni, necessità. E proprio verso questa dinamica sociologica e “multimediale” la fotografia di Guarini vuol sottolinearci, ancora una volta, il suo esser corpo vivo, indagine su tessuti d’identità, azione diretta, movimento d’energia, dialogo tra le arti. Una fotogra-fia che, “sedotta” dal segno giapponese, sa essere duplice – ed armonioso – sguardo: analiticamente profondo e soavemente lieve.

SULL’ACQUA CHE SCORRE.

MA QUANT’È PIÙ VANO AMARE

[poeta giapponese anonimo dell’Ottavo secolo]

CHI NON VUOLEIL NOSTRO AMORE INQUIETO

È VANO SCRIVERE

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marketing

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di Vanni Codeluppi

Nelle attuali società ipermoderne, l’efficacia dei messaggi trasmessi dall’impresa si riduce notevolmente per effetto di un processo di saturazione che riguarda tutti i canali disponibili. Va considerato inoltre che le prestazioni dei prodotti sono sempre più omogenee e dunque sempre meno coinvolgenti per i consumatori. Pertanto, oggi non è sufficiente comunicare l’esistenza di un prodotto o le informazioni rispetto a ciò che tale prodotto è in grado di offrire, ma è assolutamente necessario imporsi comunicando una specifica identità di marca. Il

ruolo della marca diventa quindi fondamentale per poter creare una barriera di-fensiva rispetto ai concorrenti.E ciò è particolarmente vero in una situazione come l’attuale di crescente globaliz-zazione dei mercati. In una situazione, cioè, nella quale la crescente concorrenza di imprese provenienti da altri Paesi impone di dover ribadire con forza la propria diversità. Il che si ottiene solamente potenziando la propria identità di marca. Ov-vero arricchendola di contenuti specifici. Pertanto, oggi le marche non pos-sono limitarsi a dare il proprio nome a una certa linea di prodotti, ma devono proporre dei valori, uno stile di vita, un’estetica e addirittura una visione del mondo.

L’efficacia della funzione identitaria svolta dalla marca è testimoniata dal fatto che oggi qualsiasi attore sociale, se vuole affermarsi socialmen-te, non può esimersi dall’adottare una precisa strategia di marca. Così, nell’attuale contesto sociale postmoderno, è possibile vedere che anche uomini politici, calciatori, ospedali, università e città si “brandizzano” in maniera crescente. Perché soltanto agendo in questo modo possono riuscire a resiste-re nel tempo. Possono, cioè, seguire l’esempio di tutte quelle marche che dal-

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l’Ottocento sono arrivate con successo sino ai giorni nostri. Nel marketing si è tradizionalmente ritenuto che il processo di gestione dell’identità di una marca fosse vincolato dai lega-mi esistenti tra la marca stessa e i suoi prodotti. L’idea infatti era che tali legami fossero tanto più forti quanto più fossero relativi all’ambito merceologico nel quale la marca aveva co-minciato a muovere i suoi primi passi sul mercato, perché il consumatore è disponibile a concedere a una marca soltanto la possibilità di occuparsi di prodotti rispetto ai quali ha dimo-strato di avere delle competenze e di poter dare delle garanzie. È pertanto l’ambito merceologico iniziale quello che ha dato alla marca l’imprinting sul quale la sua identità ha potuto suc-cessivamente installarsi e svilupparsi. Ad esempio, i legami più forti di una marca che si afferma sul mercato presentando dei formaggi rimarranno nel tempo proprio quelli con tali for-maggi, sebbene la marca successivamente abbia proposto ai consumatori anche burro, yogurt o dessert al cucchiaio.

Tutto ciò ha comportato l’adozione del principio che una marca è tanto più efficace sul mercato quanto più la sua strategia riesce a mantenere un elevato livello di coerenza. Una coerenza tra tutti i messaggi emessi e al-l’interno di ciascuno di tali messaggi, ma soprattutto rispetto ai prodotti cui la marca ha dato vita all’inizio della sua storia. Tale principio resta valido, ma oggi l’indipendenza delle mar-che rispetto ai loro prodotti tende a crescere in maniera espo-nenziale perché le marche cercano di rafforzare e allargare il loro mondo simbolico, la loro realtà fatta di immagini e comu-nicazione. Le principali marche diventano cioè sempre di più puri concetti, vere e proprie filosofie di vita. Dunque le marche tendono oggi a presentarsi come veri e propri mondi indipen-denti rispetto ai loro prodotti. Ciò comporta che nelle società contemporanee il tradizionale principio di coerenza applicato dal marketing alle identità delle marche appaia sempre meno valido. Il che sta avvenendo anche perché si è scoperto che per le marche la capacità di essere allineate con la situazione sociale che vive il loro consumatore in un determinato mo-mento sta diventando più importante del crearsi un’immagine di competenza relativa alla capacità di produrre determinati prodotti. Una marca dunque attualmente può anche permettersi di essere incoerente perché ciò che con-ta soprattutto è la sua capacità di essere in sintonia con l’attualità culturale e sociale.

Ne è un esempio il caso della marca Virgin, che ha ot-tenuto negli ultimi anni un notevole successo sebbene abbia adottato spesso dei comportamenti estremamente differenziati e addirittura incoerenti. Virgin si è presentata infatti sul merca-to vendendo prodotti molto lontani tra loro: musica riprodotta, viaggi aerei, viaggi in treno, soft drinks, assicurazioni sulla vita, abbigliamento, prodotti cosmetici e persino preservativi.D’altronde, agendo in tal modo, un’azienda può supportare il lancio dei suoi nuovi prodotti attraverso delle strategie di marketing basate sull’integrazione verticale. E può natural-

mente produrre degli effetti sinergici che generano notevoli benefici sul piano economico. Nel caso di Virgin, può ad esempio lanciare un nuovo pacchetto turistico di Virgin Va-cations promuovendolo mediante azioni in partnership con società del gruppo come la compagnia aerea Virgin Atlantic o la Virgin Train. Analogamente, può sfruttare la possibilità di fare conoscere ai consumatori il nuovo pacchetto turistico ricorrendo a messaggi veicolati attraverso i media del gruppo: Virgin Radio, Virgin Mobile, Virgin Media e i vari siti Web. I vantaggi economici ottenibili, insomma, sono più importanti della coerenza identitaria.

Va considerato del resto, che probabilmente il consumatore contemporaneo comprende che dietro un certo nome di marca non c’è una personalità coerente, ma un soggetto che possiede un’identità vivace e dinamica impegnata in una costante ricerca di sé, e che in tale ricerca può permettersi di essere incoerente nelle sue manife-stazioni. Anche per questo lo vive come più vicino, per-ché si comporta esattamente come lui.

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©Flickr-by Gene Hunt

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comunicazione

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Già nel numero 004 di Brand Care magazine, a proposi-to del rapporto tra social networking e consumi televisivi, c’è stato modo di accennare all’importanza delle tattiche di immedesimazione e differenziazione che i pubblici applicano in rapporto ai modelli d’intratteni-mento seriale. Attraverso la distribuzione “a puntate” o “a uscite” dei contenuti, infatti, i franchise dell’infor-mazione e dell’entertainment creano percorsi di condi-visione e rielaborazione di senso che coinvolgono le audience, con delle importanti conseguenze sulla

fisionomia dei consumi, che i player di mercato iniziano a conoscere bene.

Certo non si tratta di un fenomeno propriamente nuovo, se già durante la forma-zione dei grandi generi narrativi moderni, legati per lo più ai romanzi d’appendice dell’Ottocento, e successivamente con i comics, la televisione, la musica pop o i sequel cinematografici gli spettatori hanno fondato una parte importante della loro convivenza sociale sulla condivisione dei valori diffusi dai testi di successo (persino in maniera ridondante, se consideriamo i cosiddetti “tormentoni”). La fruizione di prodotti culturali in serie, insomma, da un pezzo attiene in modo sostanziale alla sfera identitaria degli individui, i quali immer-gendosi in tali flussi di consumo aggiornano e rimodulano costantemente la pro-pria esperienza culturale, riposizionandosi in modo continuo all’interno di gruppi (o di tribù) più o meno distinguibili, i cui membri sono accomunati da uno stile.

L’aspetto che più ci interessa in questo caso è quello della progressiva in-

di Vincenzo Bernabei

storie di brand dal volto Umano eindividUi che si aUto-promUovono

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cursione dei brand all’interno di tale meccanismo. Sia il il product placement, vale a dire il posizionamento strategico di marchi, servizi e prodotti nell’ambito delle opere d’intratteni-mento, che le sponsorizzazioni delle stesse sono operazioni tipiche del modello produttivo industriale, tanto è vero che l’origine di un genere come la soap opera è notoriamente legato agli investimenti pubblicitari della Procter&Gamble, marchio che negli anni Trenta dello scorso secolo ebbe l’in-tuizione di investire parte del proprio budget pubblicitario nella radiofonia, finanziando trasmissioni sperimentali con lo scopo di intrattenere il target delle casalinghe, e al con-tempo di proporre loro i propri prodotti per la casa (da cui il nome “soap”). In seguito, tanto le strategie di marketing dei grandi marchi quanto i formati audiovisivi hanno subito una serie di evoluzioni sfociate poi in una confluenza di interessi, fino a giungere alla ideale forma di simbiosi tra intrat-tenimento e marchio che oggi chiamiamo branded entertainment.

C’è da sottolineare, ovviamente, che il branded entertainment è quanto di più lontano si possa immaginare da un mecca-nismo di tipo impositivo: lo schema secondo cui un prodot-to/servizio avrebbe la strada del mercato automaticamente spianata dal momento in cui viene posizionato in un format, in una campagna web o in un film è dir poco ingenuo, e i re-sponsabili marketing di Pizza Hut e della Birra Budweiser, per esempio, ne sanno qualcosa, avendo scelto scelleratamente l’anno scorso di veicolare i propri marchi nel film america-no The Invention of Lying, con un ritorno d’immagine non esattamente all’altezza delle proprie aspettative [http://bit.ly/coOa8y]. Piuttosto, abbiamo a che fare con un processo comunicativo composito, in cui gli utenti-consumatori dimostrano di utilizzare le proprie competenze te-stuali per individuare consapevolmente gli item che più si confanno al proprio stile di vita, traducendoli in scelte di consumo fatte in piena autonomia, o negoziate con gli altri utenti delle proprie community di riferimento.

Progressivamente, dunque, ai valori sociali tradiziona-li si sono affiancati i valori di marca, i brand va-lues, e questi sono entrati a far parte del quadro di norme che regolano la socializzazione. Gli ormai classici dilemmi “Beatles o Rolling Stones?”, “PC o Mac?”, “Coke o Pepsi?”, “Mc Donald’s o Burger King?” sono gli esempi che più imme-diatamente danno l’idea di un contesto sociale in cui alcuni marchi sanno diventare lovemarks, ovvero emblemi a cui siamo legati da un rapporto affettivo, empatico più che razionale, e con cui instauriamo un rapporto personale tota-lizzante, che trascende la funzionalità degli oggetti di cui essi sono il simbolo.

L’essenza auratica del marchio, insomma, in alcuni casi oltrepassa l’involucro esteriore della nostra individualità e in-fluisce sul nostro modo di rapportarci con l’ester-

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“I lovemarks sono quei marchi di prodotti a cui siamo legati da una relazione affettiva, da un rapporto che coinvolge tutti i nostri sensi, e che sono stati capaci di instaurare un senso di lealtà nell’acquirente, in grado di attrarci al dilà di ogni forma di razionalità, che sia economica o pratica. Qualche esempio? Per l’Italia lo sono stati la Vespa, o la Cinquecento: chi le ha possedute è legato ad esse da un profondo senso di intimità, di sensualità e anche talvolta di affascinante mistero. Per Kevin Roberts, amministratore delegato di Worldwide Saatchi&Saatchi, una delle più grosse agenzie pubblicitarie mondiali, proprio ai Lovemarks è affidato il futuro del commercio.” [Anobii, http://bit.ly/9qlmrm]

La ricetta segreta per la costruzione di un Lovemark […] si basa su tre ingredienti magici: il Mistero, la Sensualità e l’Intimità. Anzitutto una marca deve essere un po’ misteriosa, in grado di ricatturare periodicamente la nostra attenzione, superando il rumore di fondo della comunicazione di massa e tenendo elevata la nostra curiosità e la voglia di scoprire le cose che ancora non sap-piamo o che possono essere dietro l’angolo. La seconda componente da costruire è quella della sensualità e dell’uso quindi di approcci multisensoriali, disegnando nei prodotti e servizi delle “firme” sensoriali. Passando all’intimità, questa si esplica nella capacità della marca di mettersi

in strettissima relazione con le aspirazioni personali e dei consumatori, creando dunque un senso di vicinanza affettiva propria del rapporto di innamoramento umano. Il lovemark è una marca in grado di dotarsi di un profilo contraddistinto da impegno, empatia e passione, per poter generare nel cliente (o adepto o, più propriamente, innamorato) una “lealtà al di là della ragione”. [Roberto Venturini su Mymarketing.it, http://bit.ly/bBubBJ]

no e con l’Altro. Da qui si può delineare un rovesciamento concettuale, ammettendo che noi stessi approntiamo di volta in volta la nostra componente relazionale per presentarci nel modo più adatto agli altri individui, tenendo conto della loro personalità e del contesto in cui li frequentiamo, e nei loro confronti promuoviamo creativamente noi stessi e il nostro bagaglio valoriale, esattamente come se fos-simo dei brand.

Il self-branding effettivamente è uno dei fenomeni che me-glio descrivono il marketing contemporaneo, tanto che oramai anche in campo business professionisti e privati applicano su se stessi strategie di visibilità del tutto simili a quelle che si utilizzano per mantenere la reputazione delle imprese. I precur-sori di questo fenomeno furono senz’altro i componenti dello star system cinematografico della prima metà del Novecento: già ai tempi d’oro di Hollywood i produttori più accorti conce-

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pivano i nuovi film a partire dalle note caratteriali ed estetiche degli attori che formavano la propria scuderia. Un modello operativo tra l’altro ben descritto dal concetto di marca-star di Jacques Séguéla, pubblicitario-intellettuale che ha costruito la sua carriera sulla consapevolezza che l’immaginario collettivo è costellato di entità in grado di emanare un fascino ipnotico verso il pubblico, e non importa se siano figure “in carne e ossa” o “triviali” oggetti di consumo.

Sotto altri aspetti la progressiva sovrapposizione tra indi-viduo e brand è figlia di un più generale processo di in-tegrazione tra privatezza e pubblicità, fenomeno che abbiamo imparato a conoscere ai tempi della neotelevisione e del talk show, prima, e del reality show dopo. Attualmente tale principio comunicativo rappresenta una delle basi del social networking, dato che quando utilizziamo applicazio-ni come Facebook, Twitter, LinkedIn o come l’ultimo arrivato Foursquare attiviamo una modalità di interazione con gli altri che, in un’ottica conversazionale, ridimensiona fortemente la formalità ed esalta i toni confidenziali. A questo proposito, forse quando il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg ha affermato che la privacy stessa è un concetto in via di supe-

ramento voleva solo dribblare abilmente le polemiche sulle presunte violazioni che recentemente hanno riguardato il suo social network. Resta il fatto che probabilmente non è andato molto lontano dal descrivere una situazione reale, e nei pros-simi anni potremmo ritrovarci a riscrivere le regole di condivisione dei nostri dati sensibili in senso deci-samente meno restrittivo.Le marche, insomma, diventano sempre di più marche identitarie, e a questo processo contribuiscono attivamen-te i media e i generi d’intrattenimento. Da un lato l’attenzione crescente degli attori di mercato verso la propria brand repu-tation fa pensare a una “umanizzazione” dei tratti distin-tivi del marchio, proprio perché la brand identity entra a far parte di un flusso narrativo, uno story-telling che intrattiene le audience-target; dall’altro la moltiplicazione delle occasioni di scambio, derivante principalmente dalla diffusione dei social media, fa in modo che gli individui esaltino le loro attitudini comunicative e allestiscano il proprio sé in modo ancora più prismatico e “strategico” di quanto non fosse al tempo dei media di massa, esibendosi galvanizzati dalla trasparenza del-la vetrina virtuale in cui di volta in volta si posizionano.

Per approfondire» Abruzzese A., L’occhio di Joker. Cinema e modernità. Carocci, Roma 2006» Barile N., Brand new world, Lupetti, Milano 2009 » Brancato S., Senza fine. Immaginario e scrittura della fiction seriale in Italia, Liguori, Napoli 2007» Codeluppi V., La vetrinizzazione sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2007» Morin E., Le star, Olivares, Milano 1995» Pecchinenda G., Homunculus. Sociologia dell’identità e auto narrazione, Liguori, Napoli 2008» Pittèri D., La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2002» Roberts K. Effetto lovemarks. Vincere nella rivoluzione dei consumi, Franco Angeli, Roma 2007» Séguéla J., Hollywood lava più bianco, Lupetti, Milano 1985

©Flickr-by webtreats

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di Pasquale Napolitano

alessandro carboni: esplorazione dell’identità locale della metropoli contemporanea

Questa è l’era della città, secondo il processo di inarrestabile trasformazione del paesaggio, denominato anche “high-speed urbanization”, che esprime le più diverse disarticolate forme di densità urbana. Ma esat-tamente, cosa si intende per città? La necessità diventa quella di mettere a fuoco questo concetto così sfuggen-te e dinamico. Il progetto Overlapping Discrete Boundaries tende ad inquadrare questa nozione come un archivio progressivo, che sposta sempre più la dimensione fisica di un flusso frammentato. Evol-

vendo l’innovativa lezione di Kevin Lynch, il progetto si prefigge di istituire una “geografia del corpo umano”, definendo cioè un passaggio analitico dal livello oggettivo a quello intimo, che si sforza di definire una nuova mappatura, sug-gerendo nuove frontiere e confini, nuovi modi di rapportarsi allo spazio, i più consapevoli e ricettivi sui continui cambiamenti che alimentano le nostre vite.

Questo è il modo in cui funziona la “geografia emozionale”: la mappatura di tutte le diverse località di cui si ha esperienza, che coinvolge la nostra sensibilità, che mette al centro il punto di vista, il percorso, “lo sguardo rappresenta un’azione archeologica di tassonomia urbana: una raccolta di frammenti in grado di rico-

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DI FLUSSI IN MOVIMENTO.

VILLAGGI E DISTRETTI PRODUTTIVI,

[Alessandro Carboni in uno dei reportage per “Abitare”]

NEL CORSO DEI SECOLISI SONO STRATIFICATI

CREANDO UNA GRIGLIA URBANA

MOLTO COMPLESSA E RAMIFICATA [...]

FOSHAN È UNA DENSA PASTA.

MI INTERESSAVA VISITARE QUESTE AREE

PER CAPIRNE I CONFINI TERRITORIALI,URBANI, SOCIALI, UMANI.

struire visivamente delle texture urbane” (Intervista a Carboni di Elisa Poli). Questo è il significato emergente dalla ricerca Alessandro Carboni, un artista che è diventato un attento os-servatore e interprete delle politica geo-culturali.

Il progetto itinerante Overlapping Discrete Boun-daries è il passo successivo rispetto a What Burns never Returns (WBNR), ambientato a Honk Kong, in cui il corpo del performer ha esplorato spazi nuovi di urbanità e che ha indagato, oltre il livello antropologico, le trasformazioni socio-culturali dei grandi contesti urbani.

In Overlapping Discrete Boundaries, l’indagine è focalizzata non solo su un’analisi obiettiva del contesto urbano, svolta attraverso tecnologie di mappatura geo esplorativa, ma consi-ste anche e soprattutto in un grande percorso individuale in-centrato sul rapporto soggettivo tra l’osservatore e l’ambiente percepito. L’ambiente risulta nella mente dell’osservatore una somma di elementi oggettivi e soggettivi in fase di mutazione costante. La tela dei percorsi dell’artista è composta da dodi-ci grandi contesti metropolitani asiatici, luoghi sensibili del contemporaneo dei quali l’artista esplora i vari livelli di senso, e contemporaneamente, accumula materiali e suggestioni che di volta in volta condensa in fulminee istallazioni multimedia-li, sviluppate in loco.Come sostiene lo stesso Carboni, il soggetto principale di questa indagine è il processo di percezione, la percezione individuale dello spazio e del flusso urbano: il ri-sultato è una griglia analitica fluida, mutevole, in cui gli esseri umani sono vettori e contemporaneamente agenti in grado di modificare l’ambiente e di generare nuovi flussi.“Per entrare nel cuore del problema, ho iniziato la mia ricer-ca, scavando strato dopo strato nelle tracce, nei residui della storia, nel tessuto urbano e negli abitanti di Ho Chin Minh City. Ho raccolto materiali e appunti, ho visitato musei, ho parlato con la gente, ho dormito per strada al fine di costruire, frammento dopo frammento, una solida base di conoscenze su cui costruire il mio lavoro. In un primo momento, è stato necessario prendere in considerazione le tappe storiche del-lo sviluppo urbano del Vietnam degli ultimi 50 anni. [...] Tutta la storia urbana della città che avevo letto e studiato era scritta e visibile nei muri. Segni, strati, scritte, frammenti si mostra-vano puri e chiari davanti a me come segni. I corpi, le

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posture, le pieghe rappresentavano per me il vero patrimonio urbano della città. Nessun megaposter pubblicitario appeso sopra i palazzi poteva nascondere l’eleganza e la leggerezza dei movimenti dei corpi di Ho Chi Minh City. I corpi in movimen-to, come moti disordinati di particelle, sembravano rispondere perfettamente a quelle famose teorie del caos che dimostrano che esiste una certa precisa armonia o un disegno nascosto anche nel disordine più totale. […] Ho imparato nel tempo che bisogna testare i tempi di attesa, capire quanto tempo si può stare fermi in un punto, prima che qualcuno ti inviti ad andare via. Avevo calcolato che bastavano pressapoco 10 se-condi per incominciare ad infastidire qualcuno del quartiere. Quindi le mie camminate erano lente, ma mai troppo. Dopo alcuni giorni, ho trovato un certo ritmo, ho allenato lo sguardo e ho affinato la mia presenza”.

In queste esplorazioni lo spazio urbano non è oggettiva-mente rappresentato, come nelle carte geografiche, si rappresenta invece una costante ridefinizione e

traduzione dal reale, anche grazie al medium audio-visivo digitale in cortocircuito con il corpo del performer.Alla luce di questa struttura di ricerca il processo coreografico alla base della performance viene ridefinito come processo di apprendimento: un modello interpretativo per la decodifica della realtà sulla pelle del performer: il corpo del danzatore diventa territorio di progetto e di traduzione. Eccone un esem-pio: “Negli ultimi giorni della residenza ad Ho Chi Minh City, ho voluto concludere il mio breve percorso di ricerca con una azione urbana ispirata agli studi e alla mia esperienza nella città e nel distretto 8. La mia azione urbana consisteva nell’uti-lizzare l’intera città come materiale, come base di lavoro su cui intervenire. Pensavo a qualcosa di enorme, ad un processo lungo, ad un lavoro su larga scala. Ho preso una mappa di Ho Chi Minh City e ho incominciato a disegnare dei percorsi ur-bani, che ricordassero i flussi urbani che avevo visto nel cen-tro della città. Volevo lasciare un messaggio, una scritta che al tempo stesso avesse un senso per la città e i suoi abitanti. Seguendo le strade della mappa, ho incominciato a tracciare

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Per approfondire» Koolhaas R., Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Milano, 2006» Lynch K., L’immagine della Città, Marsilio, Venezia, 2006» Shusterman R, Performing live: aesthetic alternatives for the ends of art, Cornell University Press» Solni R., Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano, 2005

» http://www.overlappingdiscretecityboundaries.com/ » www.alessandrocarboni.org » http://www.alessandrocarboni.org » http://www.abitare.it/highlights/pensiero-nomade/langswitch_lang/it/ » http://www.abitare.it/highlights/overlapping-discrete-boundaries-foshan-23-?-2n-113-?-43e/ » http://www.abitare.it/highlights/singapore-1?17’n-103?50’e/ » http://www.abitare.it/highlights/ho-chi-minh-city-10?46’10”n-106?40’55”e/ 63

delle lettere. Ho scritto “LONG NOW”. La frase voleva indicare un’idea di tempo esteso, un presente lungo, quasi immobile. Lo stessa immobilità che avevo intravisto lungo le rive de ca-nale. Per poter scrivere questa frase nella città avevo bisogno di un mezzo veloce in grado percorrere in breve tempo l’azione. Durante le mie esplorazioni nel distretto 8, avevo conosciuto alcuni signori che si guadagnavano da vivere facendo i tassisti con le motociclette. Decisi di chiedere ad alcuni di loro di far-mi da autista e aiutarmi nell’impresa. Per scrivere la mia frase nella città, ho utilizzato un data logger Gps che mi permetteva di tracciare il mio spostamento in città. La mattina del giorno seguente io e il mio autista abbiamo attraversato distretto dopo distretto, la città da un capo all’altro. Ci sono volute quasi 3 ore e per compiere la scritta lunga circa 35km.” O ancora: “Il giorno successivo ho comprato dello spago, simile a quello comunemente utilizzato dagli agricoltori locali, per segnare i confini tra i vari terreni. La stessa mattina, ho deciso di ri-percorrere lo stesso sentiero che dalle scale del ponte mi ha portato alla casa di Tran Thuy Linh. Con lo spago, ho misurato la lunghezza del sentiero. La distanza della casa di Tran Thuy

Linh e il ponte, poteva rappresentare metaforicamente la di-stanza tra i due mondi sempre più lontani. Successivamente, ho chiesto ad una sarta di utilizzare lo spago per creare una bandiera o qualcosa di simile che rappresenti la nascita di una nuova città sotto il Long Bien Bridge”.Alessandro Carboni per la realizzazione di questo progetto ha collaborato con artisti, performers, ricercatori, progettisti, architetti e sociologi, dando vita a lavori di matrice sostanzial-mente condivisa.L’aspetto che trovo francamente interessante dell’approccio del progetto Overlapping Discrete Bounduries sta nella formalizzazione in chiave estetica dello scarto anali-tico rispetto alla sproporzione di scala rappresentata dall’ambiente metropolitano contemporaneo. Rispet-to allo spazio indistinto ed immenso dello “Junk Space” con-temporaneo, Carboni non azzarda modelli analitici onnicom-prensivi, preferendovi “un lavoro molecolare, che analizza da diversi punti di vista le vibrazioni, le striature, le temperature, gli odori e sapori di piccole porzioni di tessuto urbano”.

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formazione

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di Claudio Biondi

Nella questione dell’identità confluiscono riflessioni fi-losofiche, sociologiche, psicanalitiche, neurologiche, antropologiche e linguistiche tese tutte, in egual misura, a sondarne il significato profondo e ad analizzarne gli effetti sull’esperienza quotidiana del vivere.L’identità serve soprattutto a soddisfare quel bisogno primario della specie umana corrispondente al possesso di una “certezza” mediante la quale riuscire ad avere un controllo sulla realtà (o, almeno, un’illu-sione di controllo) e tale bisogno è collegato strettamen-

te alla necessità di appartenenza a un gruppo di persone (famiglia, tribù, nazione, religione, consesso o professione) con cui condivide-re una visione della realtà e dunque la possibilità di controllo su di essa. La dinamica che si sviluppa tra il singolo e il gruppo produce, in tal modo, effetti di coesione/esclusione basati su norme (morali, religiose, magiche, legali, economiche, ecc.) che a loro volta confluiscono nell’identità.Paul Ricoeur distingue un’identità “idem” da una “ipse” introducendo la diversa connotazione che esse acquistano di fronte al fattore tempo. L’iden-tità idem resta immutabile mentre le apparenze cambiano; l’identità ipse si pone nonostante il cambiamento. In tal senso, nell’identità ipse apparirebbe un fattore “di volontà” in grado di “mantenerla” nonostante i cambiamenti prodotti dal tem-po durante i vari stadi e vicissitudini della vita.

La dialettica che si sviluppa tra queste due identità produce dunque una sorta di “identità narrativa” in grado di descriverne e renderne coerenti i vari stadi.In questa sede, ci interessa provare a capire proprio questo concetto di identità

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LA LEZIONE PIÙ IMPORTANTE“

SU CUI VOGLIO INSISTERE È LA DIALETTICA DELLE DUE IDENTITÀ:

L’IDENTITÀ “IDEM” E L’IDENTITÀ “IPSE”.

SI POTREBBE INFATTI DIRE CHE L’IDENTITÀ NARRATIVA

O INTERPRETATA DA NOI, DECIFRATA NELLA VITA -- PRESENTE NEI GRANDI RACCONTI

[Paul Ricoeur, dall’intervista Descrivere, raccontare, prescrivere - Parigi, 1991]

OSCILLA TRA I DUE POLI DELL’IDENTITÀ SOSTANZIALE,IMMUTABILE

E DELL’IDENTITÀ CHE ESISTE SOLOGRAZIE ALLA VOLONTÀ DI MANTENERLA,

COME QUANDO SI MANTIENE UNA PROMESSA.

narrativa, frutto del legame sostanziale che si svi-luppa tra narrazione e identità.Occorre, però, chiarire preliminarmente che intendiamo per:

• narrazione, la pratica comunicativa in cui si trovano sommate sinergicamente le due componenti che tendono ad in-formare (esigenza identificativa) e in-trattenere (esigenza coesiva) il destinatario includendo in tale pratica qualsia-si tipo di testo (mitico, storico, satirico, favolistico, epico, drammaturgico, ecc.) con qualsiasi mezzo diffuso (orale, scritto, dipinto, scolpito, audiovisivo, ecc.);• identità, il fenomeno soggettivo ed oggettivo, nelle sue varie forme (individuale, collettiva, sociale, di genere, ecc.).

Distinguendo l’identità collettiva da quella sociale si associa alla prima una sorta di “auto-imposizione” (sentirsi italiano o francese o texano) e alla seconda un effetto di “pre-comprensione” (essere medico o arti-sta o poliziotto) che confluiscono e si fondono nell’identità individuale.Texano, britannico, francese sono, ad esempio, termini che accomunano individui di una certa collettività geografica,

politica, storica, economica, ecc.; idraulici, medici, politici accomunano invece professioni ed effetti sociali indipenden-temente dalla loro identità collettiva.Ci sembra anche chiaro che entrambe queste forme d’identi-tà hanno valenze soggettive e oggettive e comportano effetti positivi o negativi nel senso che, mentre l’identità collettiva corrisponde a una definizione d’identità rivolta a se stessi (e simili), quella sociale corrisponde a un giudizio in cui conflui-scono non di rado elementi pregiudizievoli.Si potrebbe quasi sostenere che molte volte l’identità socia-le viene addirittura “agita” contro quella collettiva. Quando si usano termini che fanno riferimento a posizioni sociali o a condizioni razziali o di genere, si tende a rendere più forte l’identità sociale rispetto a quella collettiva. Se si afferma che “tutti gli uomini sono mascalzoni” si privilegia l’identità so-ciale di genere rispetto alle diverse identità collettive che gli uomini presentano.L’esigenza d’identificazione passa invariabilmente anche dalla necessità di diversificazione. Non avrebbe senso il sentirsi italiani o romanisti se non fosse pensato e percepito come opposto (o comunque diverso) dall’essere francesi o laziali.

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Infine, ci sembra che tutte le forme d’identità, comunque definite e comunque operanti, siano composte da un’espe-rienza che non può essere circoscritta solo a quella vissuta ma che resta ancorata anche a quella per-cepita mediante la narrazione a cui siamo esposti. Infatti, i dati di riferimento mediante i quali ci “auto-imponia-mo” una certa identità o “pre-comprendiamo” quella degli altri partono tutti da un terreno narrativo determinato da contesti storici e culturali ben definiti.Con il sentirmi italiano non affermo solo di essere nato in Italia o di avere la cittadinanza italiana, ma anche di utilizzare una lingua che è l’italiano e di riferirmi a un complesso di “dati” storico-culturali di cui fanno parte sia La Divina Com-media che la Resistenza, sia Michelangelo che Paolo VI e così via. Dati che conosco per esperienza diretta (vissuta) o indi-retta (narrata). Questi stessi dati, però, servono anche agli altri per “pre-comprendermi” (o pensare di poterlo fare) in modo tale da distinguere il mio essere italiano dal loro sentirsi, ad esempio, francesi che, a sua volta, si riferisce ad altri dati storico-culturali in cui appaiono La Chanson de geste, la Ri-voluzione francese e Napoleone.Il fatto che tali riferimenti possano essere usati con connota-zione negativa o positiva, con funzione aggregante o disag-gregante, non inficia che, comunque, tutti essi entrino a far parte di quella dialettica che si forma tra identità ipse ed idem dell’individuo. In tal modo, la funzione di un’identità narrata, costituita da “memorie “ (mitiche, leggendarie, favolistiche o reali), confluisce nella coscienza identitaria dandole o ne-gandole senso rispetto alla percezione diretta della realtà che ognuno si forma. Che la “classe” degli idraulici sia considera-

ta pericolosa per i legami matrimoniali non può essere effetto solo di un’esperienza diretta, ma piuttosto di una “narrazione” chissà in che modo formata e come tramandata, che però è in grado di rendere “pericolosa” la presenza dell’idraulico quasi come se derivasse da un’esperienza diretta.Tali “memorie”, sopravvivendo e rimandandosi per secoli e secoli conservano il loro significato simbolico e – così come la memoria individuale – non sono sempre presenti ed ope-ranti, ma lo diventano a seconda dei contesti. E ce ne sono vari esempi: nel periodo della Grande Crisi del ‘29, negli Stati Uniti vi fu una forte recrudescenza di sentimenti xenofobi e razzisti. Il ricordo che i serbi mantengono della sconfitta nella battaglia di Kosovo, subita ad opera dei turchi musulmani nel lontano 1389, costituisce un forte richiamo all’unità etnica contro tutti i nemici (dai bosniaci di origine musulmana ai croati alleati ai nazisti nel corso della II Guerra Mondiale che eliminarono più del 50% della popolazione maschile serba). Una memoria tanto forte da convincere alcuni leader serbi a dissotterrare le ossa del re Lazar, ucciso dai turchi in quella battaglia, por-tandole in pellegrinaggio attraverso i villaggi allo scopo di rinsaldare l’identità collettiva dei serbi.

È chiaro, dunque, che l’identità narrativa cui fa riferimento Ri-coeur comporta una continua dialettica tra fattori aggre-ganti e disaggreganti, soggettivi e oggettivi, positivi e negativi che si formano sia per esperienza diretta sia per percezione narrativa.Che tali “memorie” siano tramandate in forma scritta od orale, sotto forma di cronaca o di storia, affidate a opere drammati-che o romanzesche, che siano frutto di interpretazioni di fatti

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reali o soltanto racconto di eventi immaginati, ha poca o relati-va importanza rispetto alla conclusione che esse formino gran parte dei valori e rappresentino molti dei sentimenti e delle convinzioni legate all’identità.

Se questi presupposti possono essere accettabili, è il caso di chiedersi se e in che modo l’identità di ognuno di noi sia sotto-posta a un sostanziale stress nel momento in cui le narrazioni a essa corrispondenti mutano radicalmente di sostanza o si pre-sentano in forme nuove, insolite o addirittura contraddittorie. Autori appartenenti a discipline diverse (Baumann, Hogg, Vattimo) segnalano da tempo l’insorgere di una sorta d’incer-tezza dell’uomo occidentale contemporaneo nel de-finire la propria identità. E la novità appare platealmente vera se consideriamo la differenza quasi inesistente (o almeno insignificante) di valori sostanziali sociali, civili, religiosi, ecc. tra una generazione e l’altra di appena due secoli fa.Ciò che formava la base d’identità tra un nonno e un nipote di due secoli fa non presentava un divario tanto profondo come quello che risulta nella formazione identitaria di generazioni di oggi anche molto vicine tra loro, come tra un fratello maggiore e uno minore. Una differenza che si fa sempre più esigua a mano a mano che si compie un’indagine a ritroso nel tempo, tanto che possiamo immaginarla quasi nulla se confrontiamo narrazioni di due o tre millenni addietro.La progressione geometrica dell’evoluzione tecnologica dimo-stra come i campi di esperienza pratica tramandata abbiano via via perduto sempre più importanza e si siano ristretti notevolmente con l’avanzare sempre più incalzante delle “novità”. La capacità di trasmettere un qualsiasi sapere od operare, che poteva, un tempo, essere considerata appannaggio esclusivo dell’esperienza diretta, oggi risulta invece trasformata in una capacità di “aggiornamento diretto” affidata soprattut-to all’elasticità mentale dei più giovani, come dimostra una recente indagine che fa derivare l’incremento dell’uso del computer e del collegamento alla Rete dal contatto/rapporto nonni-nipoti (La Repubblica, 13 giugno 2010).

La crisi del modello sociale “stato-nazione”, consolidata dalla crescente globalizzazione, cambia le coordinate dei tra-dizionali fattori e modelli di riconoscimento e ne favorisce la rottura a favore di altri ritenuti più corrispondenti al controllo della realtà. Nel momento in cui alcune “certezze” vengono messe in difficoltà da altre emergenti, si tende ad assimilarne e addirittura crearne altre in grado di sostituirle con successo. Ma ciò non appare possibile senza una contemporanea e coe-rente mutazione delle forme e dei contenuti narrativi.È quasi impossibile non accorgersi di come e di quanto siano cambiate le forme e le sostanze narrative riguardanti la condizione femminile nell’ultimo secolo e di come corri-spondentemente ciò abbia influito sul sentirsi e sull’essere dell’identità di genere femminile. E se prendiamo in consi-derazione l’identità generazionale che si viene formando in maniera abbastanza trasversale tra giovani appartenenti a

collettività diverse, ci appare indubbio che essa sia diventata progressivamente più forte ed efficace in seguito alla massic-cia diffusione dei mezzi di comunicazione di massa soprattut-to audiovisivi e di Rete. E che ciò sia legato a una più vasta e compulsiva veicolazione di messaggi narrativi soprattutto audiovisivi non sembra possa essere negato se solo si guarda a come giovani appartenenti a paesi e culture diversi vestano o perfino si muovano in modo simile.Il “multiculturalismo”, allora, si presenta – specie per co-loro che non dispongono di sufficienti mezzi culturali – come una situazione generante incertezza. Il che costituisce un problema per l’analisi della connessione tra identità e ricono-scimento che, lungi dal poter essere considerato soltanto un dato di fatto acquisito, pone alla riflessione filosofica contem-poranea – come sottolinea Charles Taylor – istanze d’analisi del tutto diverse da quelle imposte da problemi passati.

A tale proposito è interessante notare come tra target mer-ceologico e identità generazionale si sia via via formato un legame sempre più stretto e sinergico soprattutto per ciò che riguarda la produzione cul-turale. Forme di espressione musicale (ad esempio, il rap) travalicano i confini culturali che li hanno generati per essere adottati in culture del tutto diverse. Il che è abbastanza norma-le se si tiene presente il ruolo delle generazioni nel settore del-la produzione e del consumo culturale, sempre più rilevante nella misura in cui ogni generazione è caratterizzata da una di-versa esperienza con i media e con le novità tecnologiche.

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A cambiare, in definitiva, non è l’identità in se stes-sa che, a detta di Habermas-Taylor resta “la visione che una persona ha di quello che è, delle proprie ca-ratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano”, ma i parametri e i modelli mediante i quali tale identità si costituisce.Se si accetta che il meccanismo essenziale della determina-zione dell’identità passi invariabilmente per un processo di confronto con un “modello” che può essere vissuto o perce-pito, diventa più agevole accorgersi in che modo e con quali effetti una narrativa non aderente alla realtà possa determinare distorsioni e confusioni nell’analisi del contesto in cui si vive e avere ripercussioni in quella dialettica richiamata da Ricoeur tra identità ipse ed idem.Ma l’aderenza della narrativa alla realtà è qualcosa che esula dal potere dell’individuo ed è soggetta al vaglio, all’interesse e alla necessità di istanze politico-sociali fatte proprie dai poteri istituzionali, così come anche le “memorie” narrate possono essere recuperate o tenute dormienti a se-conda del giudizio storico-politico che di esse è necessario (o conveniente) dare. Sicché la battaglia per una sostan-ziale libertà narrativa diventa l’unica difesa che l’individuo può opporre al fine di difendere la propria capacità di identità narrativa. A tale proposito ci sembra utile ricordare – al di là di ogni intento polemico – le parole che Walter Cronkite pronunciò, qualche giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, a proposito di alcune dichiarazioni del Pentagono sulla neces-sità di una possibile guerra segreta. Una guerra al terrorismo, cioè, che avesse necessità di svolgersi al di fuori del controllo dell’opinione pubblica.

Non vi può essere, a giudizio del più ascoltato giornalista americano, nessun evento – nemmeno tragico come quello

dell’attentato dell’11 settembre 2001 – che possa giustifi-care in un qualunque modo una restrizione del dirit-to-dovere di informare ed essere informati, a meno di non voler correre il pericolo di non sapere più qua-le sia la nostra identità.Individuale, collettiva o sociale che sia.

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©Geek & Poke

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NON ABBIAMO SOLO IL DIRITTO DI SAPERE,““

MA ANCHE IL DOVERE.VORREI SPIEGARE QUESTA COSA

QUANDO LIBERAMMO I CAMPI DI STERMINIO NAZISTI,

DI QUELLO CHE ACCADEVA DIETRO QUELLE MURA.

UN SACCO DI GENTE DEI PAESI VICINI

[Walter Cronkite, intervista al David Lettermann’s Show - 2001]

NON AVEVANO IDEA

ALMENO PER ALCUNI DI LORO.

NON HO DUBBI CHE CIÒ FOSSE VERO,

PERCHé, FIDANDOSI DEL PROPRIO GOVERNO,

MA ERANO COLPEVOLI TANTO QUANTO I NAZISTI

AVEVANO APPLAUDITO QUANDO HITLER CHIUDEVA LE RADIO E I GIORNALI.

AVEVANO RINUNCIATO AL LORO DIRITTO DI SAPERE,

AL PROPRIO DOVERE DI SAPERE.MA AVEVANO ANCHE MANCATO

L’INFORMAZIONE NON È SOLO UN DIRITTO,

MA ANCHE UN DOVERE.

CHE È MOLTO IMPORTANTE.

VENNE DA NOI PIANGENDO.

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comunicazione

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di Tania Valentiniil delicato rapporto tra cUcina e identità

L’identità nelle scienze sociali è quel concetto secondo cui l’individuo costruisce la percezione di se stesso rispetto all’appartenenza a un gruppo secondo diversi elementi: cultura, etnia, classe sociale, nazionalità. Tra questi ele-menti troviamo indubbiamente la cultura alimentare, dove identità e tradizione sembrano essere inseparabili. La cu-cina in fondo non è altro che uno strumento, una rappresentazione della nostra identità culturale.

Se pensiamo al nostro Paese e alle diverse tra-dizioni alimentari che lo rappresentano a ognuno di noi facilmente verranno in mente alcuni piatti tipici di uno specifico territorio italia-no. Dal pesto, alle orecchiette con le cime di rapa, dal risotto allo zafferano alla pasta alla norma questi sono solo alcuni esempi di primi piatti che potrebbero essere considerati le bandiere di alcune regioni. Anche se cucinati in tutta Italia, se chiediamo a un bambino di dirci a quale regione appartengono, nella maggior parte dei casi saprà senza alcuna difficoltà individuare l’area geografica cui si riferiscono. Questo succede perché sin da piccoli siamo abituati ad associare alcuni piatti che mangiamo a una regione oppure a una città. Se poi quel piatto che proponiamo tra le mura domestiche non fa parte della tradizione della nostra famiglia, quando abbiamo l’occasione di mangiarlo proprio nella località a cui si

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attribuisce la sua origine abbiamo la sensazione non di sta-re semplicemente consumando un piatto, ma la percezione è quella di vivere un’esperienza caratterizzata dai profumi, sapori e tradizioni legati al territorio in cui ci troviamo.

La parola pesto ci fa venire alla mente subito la città di Genova, in realtà esistono altre varianti a volte anche molto diverse tra loro. Le lasagne ci fanno pensare all’Emilia Roma-gna, ma questo è un piatto che viene riproposto con diversi ingredienti in tutte le regioni d’Italia. Proprio questo secondo piatto è molto interessante perché può rap-presentare la nostra doppia identità: quella nazionale, le la-sagne sono indubbiamente una ricetta tipica italiana, e quella regionale legata più alla ricetta proposta nelle case, la lasagna della mamma fatta secondo le tradizioni della regione di ap-partenenza. Delle lasagne infatti esistono molteplici versioni, dalle emiliane con pasta fresca bianca, alle romagnole con la pasta verde sino alla variante che meno ti aspetti: la versione sarda fatta con il pane carasau.

Non importa se siamo dei cuochi provetti oppure se stare ai fornelli non è il nostro forte, il rapporto tra noi e la cucina della ragione di origine è un legame fortissimo. Per generazioni, a tramandare le tradizioni culi-narie di un territorio erano le donne, cioè le mogli e le madri, regine del focolare a cui era interamente demandata l’organiz-zazione familiare rispetto all’alimentazione.Per le nostre nonne cucinare significava innanzitutto utilizzare i prodotti della zona in cui vivevano, l’acces-sibilità a derrate alimentari di altre regioni oppure di altri stati era difficile ed economicamente costosa, e riprodurre in ma-niera costante le ricette e le abitudini che a loro volta avevano imparato dalle loro mamme e dalle loro nonne.Oggi la nostra generazione è più abituata a speri-mentare, possiamo scegliere tra mille cucine oltre ai piatti tipici italiani. Possiamo decidere di gustarci una cena dai sa-pori siciliani pur essendo a molti chilometri di distanza dalla regione da cui traggono ispirazione le ricette. Possiamo sce-gliere di assaporare il prosciutto tipico spagnolo (jamón pata negra) senza bisogno di pianificare una vacanza nel continente

iberico. Chi ama cucinare può tranquillamente cimentarsi ai fornelli nella preparazione di piatti etnici invece di cucinare un ragù di carne alla bolognese oppure un brasato al barolo.

Ma se le ricette di altri paesi rappresentano il pia-cere di assaggiare un prodotto nuovo, magari in ri-cordo di un viaggio appena fatto, le ricette della do-menica restano quelle che ci rappresentano. Il forte legame tra le proprie tradizioni culinarie e la propria identità è così forte che anche grandi catene commerciali come McDo-nald’s per le nuove strategie di vendita ha sentito il bisogno di proporre piatti locali.McDonald’s, la catena simbolo del gusto globalizzato, oggi sembra in parte abbandonare questa politica per creare un legame più forte tra i suoi prodotti e i suoi potenziali clienti. In questo caso non si tratta delle amorevoli cure delle mamme che riproducono i piatti locali perché convinte della maggiore qualità della cucina che solo la tradizione familiare può ave-re, dalla scelta degli ingredienti alla preparazione, ma di una grande industria alimentare il cui obiettivo è fare profitti.Per la nuova offerta gastronomica il management della McDonald’s non ha lasciato nulla al caso, per rendere ancora più appetibile i nuovi panini giocando sul ri-chiamo dei sapori della tradizione la scelta dei nomi è stata fondamentale: McFalafel il panino pensato per il mercato egi-ziano, McKebab per quello israeliano, Samurai Pork Burger per quello thailandese. E per il nostro mercato? Per l’Italia non si poteva non giocare sul Made in Italy, marchio di garanzia da anni della qualità di alcuni prodotti alimentari davvero uni-ci: eccoci servito quindi il McItaly.

Ma quale è il legame tra tradizione, identità e cam-biamenti?In un momento storico in cui local e global sembrano essere due facce della stessa medaglia, in cui tutto è accessibile,

©Wikimedia

©Flickr-by Charles Haynes

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dove sapori diversi provenienti da luoghi anche molto lontani sembrano sposarsi per dare origine a nuovi sapori, cosa acca-de alla nostra tradizione?Assolutamente nulla! Una tradizione è tale proprio perché ne-gli anni, nel suo tramandarsi di generazione in generazione, si arricchisce di nuovi elementi legati al periodo storico in cui avvengono i cambiamenti. Se non ci fossero queste evoluzio-ni, oppure – come dicono molti chef famosi – rivisitazioni dei piatti tradizionali della nostra cucina, non esisterebbe la tradi-zione stessa e con essa verrebbe a mancare anche il concetto di identità.

Ero partita dal concetto secondo cui l’identità non è altro che la costruzione del sé rispetto al gruppo di ap-partenenza. Ma se questo gruppo cambia, con esso cambia la stessa concezione del sé. Questo è tanto più vero se peniamo alla nostra cultura alimentare.L’Europa prima e l’Italia poi sono nate sulla contaminazione di culture diverse. Proprio questo elemento ha reso ricco e vario il nostro scenario enogastronomico. Le diverse dominazioni e contatti tra popoli hanno lasciato ognuna qualcosa in quel-la che oggi noi consideriamo la nostra tradizione e la nostra identità alimentare.

Il classico esempio è quello degli spaghetti al pomo-doro. Quando si pensa a questa ricetta è inevitabile pensare al Bel Paese. Questa pasta è il nostro marchio per eccellenza, il famoso Made in Italy gastronomico. È parte della nostra tra-dizione culinaria, è uno dei primi piatti che mangiamo subito dopo l’età dello svezzamento, eppure se andiamo ad analizzare i singoli ingredienti ci accorgiamo che di “italiano”, ovviamen-

te andando indietro nei tempi, c’è davvero poco.Per creare questa ricetta sono serviti molti anni di storia e diversi popoli: ad esempio la pasta lunga è un’eredità della cultura araba, mentre per il pomodoro dobbia-mo attendere il XV - XVI secolo quando nel vecchio continente iniziano ad arrivare i prodotti dalle Ame-riche, l’olio era invece un prodotto prima greco e poi romano.Questo è forse l’esempio più famoso, sicuramente se andas-simo ad analizzare le ricette della cucina italiana rispetto alle loro origini potremmo scoprire che molti prodotti che siamo abituati a pensare come tipici italiani sono contaminati anche da altre culture.La nostra identità culinaria così come la conoscia-mo, come siamo abituati a pensarla oggi, si basa su una tradizione molto più recente di quello che ab-biamo costruito nel nostro immaginario. Non si tratta di mille oppure duemila anni di storia, ma di tempi molto più vicini a noi che magari risalgono alle nostre bisnonne oppure alle bisnonne delle nostre mamme. Per loro probabilmente la tradizione culinaria era ancora diversa dalla nostra.

Massimo Montanari, storico italiano, ha definito l’identità come un fatto in continuo mutamento. Se volessimo infatti comprendere le radici della nostra identità lo storico spiega come più scendiamo in profondità e più queste si allargano: “più cerchiamo e più troviamo il mondo”. Ma questo è pro-prio il bello dell’identità: l’identità è il presente, le radici sono il passato. Più sono larghe e profonde e più la nostra identità è forte.

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La scelta di una ricetta da cucinare può essere legata a fattori di gusto personale, alla ricerca di sapori della propria tradizione familiare oppure della zona geografica a cui si appartiene. Ma a volte anche le ricette che siamo abituati a pensare come tipiche di una città presentano qualche sorpresa. Cosa cucino questa sera: matriciana oppure amatriciana? Chi pensa che siano la stessa ricetta forse dovrà ricredersi. Nome simile, provenienza diversa.

La storia delle origini di queste ricette vuole che una sia romana e l’altra di una paese del reatino: Amatrice.Nel secondo caso la somiglianza del nome della ricetta e della lo-calità non lasciano spazio all’immaginazione sulle origini. Due ri-cette oppure solo due modi diversi per chiamare la stessa ricetta?Mentre ancora il dibattito è aperto, pur essendo un quesito non recente, ecco un’altra lettura: due ricette, due origini.

La tradizione delle due ricette vuole che quella di Amatrice in principio non prevedesse il sugo di pomodoro, ma poi i continui contatti tra le persone di Amatrice e quelle di Roma, spes-so per ragioni di pastorizia, hanno avuto come effetto quello di introdurre il pomodoro anche nella ricetta di Amatrice. Oggi gli ingredienti dei due piatti sono identici, fatta eccezione per un solo alimento: la cipolla. Nella ricetta della ver-sione romana ne è previsto un soffritto.

Amatriciana vs.

Matriciana

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Bucatini alla matriciana per 4 pax400 grammi di bucatini

1 cipolla 350 grammi di pelati

100 grammi di guanciale ben stagionato80 grammi di pecorino romano1 peperoncino intero da tritare1 bicchiere di vino bianco secco

sale quanto bastaolio extra vergine di oliva

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PREPARAZIONEPrendere il guanciale, togliere la cotenna e ridurre a listarelle. Pulire una cipolla e tagliare a dadini. Mettere i due ingredienti a soffriggere con olio e aggiungere il peperoncino tritato. Quando il grasso del guanciale inizia ad essere trasparente e la cipolla si è dorata sfumare con il vino bianco. Togliere gli ingredienti e lasciarli riposare.

Nella stessa padella aggiungere i pelati dopo averli tagliuzzati e farli cuocere aiu-tandosi con un cucchiaio in legno fino a quando non diventano un sugo denso. [n.d.a. Se i tempi sono stretti i pomodori pelati possono essere passati prima con il minipimer facendo attenzione a non renderli troppo liquidi.]

Quando i bucatini saranno cotti, ricordarsi di scolarli un minuto prima del tempo di cottura previsto, versarli nella padella, aggiungere la cipolla e il guanciale e saltare il tutto per il minuto rimanente di cottura.

Mettere la pasta così condita in un piatto da portata macinare abbondante pepe, aggiungere il pecorino e mescolare.

Attenzione: se andate ad Amatrice, non chiedete i bucatini ma gli spa-ghetti all’Amatriciana, vera specialità a cui è dedicata una sagra che si tiene tutti gli anni l’ultima settimana di agosto.

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©Flickr-by rayced

©Flickr-by senza senso

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culture

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di Giulia Grechi

A partire dagli anni ’90 del Novecento molti artisti contempora-nei hanno incrociato le loro estetiche con una profonda sen-sibilità etnografica, trasformando lo sguardo antropologico in un territorio di radicale sperimentazione. Questo snodo epistemologico, che il critico Hal Foster nel suo saggio Il ritorno del reale ha definito “la svolta etnografica” nel-l’arte contemporanea, ha visto affermarsi un sem-pre maggiore riconoscimento delle sovrapposizioni tra arte e antropologia in una vasta area di ricerca teorica caratterizzata da una fortissima interdisciplinarietà.

Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, dopo aver combattuto e archiviato le guerre per la decolonizzazione formale, è ormai chiaro che l’Altro sta parlan-do, e soprattutto ha da tempo iniziato a “ricambiare lo sguardo”, rivendicando e producendo autonomamente rappresentazioni e poli-tiche culturali rispetto a soggettività, etnicità e sessualità differenti, smascherando e contestando le persistenti relazioni neo-coloniali che legano in un doppio vincolo i paesi e le culture precedentemente colonizzate con le ex co-lonie. Appare evidente a questo punto, superata la fase dell’urgenza politica legata ai movimenti di liberazione e alla decolonizzazione formale, come uno dei luoghi cruciali della trasformazione politica, sociale e culturale sia collocato nel territorio della rappresentazione, anche artistica, e come questo luogo sia situato altrove, nel campo dell’altro, dell’altro culturale, postcoloniale o subculturale, che ora si auto-rappresenta e rappresenta chi precedentemente aveva il monopolio della

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produzione di discorsi sull’identità e sulla differenza. Tuttavia negli anni Ottanta e Novanta questo dibattito porta all’acutiz-zarsi di un rischio fondamentale, che riguarda la questione di una sorta di “monopolio” dell’auto-rappresentazione, per cui sembra che le questioni che riguardano la rappresentazione della differenza possano essere affrontate in maniera adeguata solo da chi è portatore di quella alterità, identificata in generale come subalternità.

Nell’approccio contemporaneo a questa problematica si tratta di mettere in discussione proprio la divisione binaria, etno-centrica ed essenzialista tra occidentale e non-occidentale, sottoponendola a critica e proponendo una rinegoziazione e una ridefinizione contestuale e plurale della relazione arte/an-tropologia. La sfida è prima di tutto verso una comprensione delle nuove configurazioni identitarie che mandano in pezzi la monumentalità di concetti come quello di autenticità e primitivismo, e che rendono la relazio-ne tra arte e antropologia uno spazio in cui la diffe-renza, l’identità e i valori culturali possono essere riprodotti o contestati, cioè uno dei principali territori nei quali rappresentare, mettere in scena, sottoporre a critica im-magini identitarie legate al concetto di differenza, mettendo in luce le ambivalenze critiche nella rappresentazione del sé e

dell’altro.Il lavoro di un artista come Jimmie Durham si colloca proprio in questo margine operativo: Durham è un artista, poeta, performer, saggista indiano-americano, un cherokee, membro fondatore dell’American Indian Movement, e lavora con i meccanismi della rappresentazione stereoti-pata dell’indiano-americano, replicandoli in una messa in scena ironica e straniante, raggiungendo così l’effetto dissacrante di metterne in luce tutta l’arbitrarietà. In Self-portrait (1987), l’artista costruisce un autoritratto, rappresentando il suo corpo a metà tra un grande manichino e un feticcio, con un sesso enorme e una serie di scritte sul corpo che contribuiscono a costruire, con estrema ironia, una rappresentazione che riproduce pedissequamente gli stereotipi sull’indiano-americano. Così facendo Durham da un lato mette in crisi quegli stessi stereotipi, decostruendo il concetto di etnicità; dall’altro lato problematizza il concetto di auto-rappresentazione, facendo slittare l’attenzione dalla que-stione dell’identità a quella processuale dell’identificazione, che evidenzia le posizioni e le dinamiche di potere in gioco nel processo rappresentazionale.

[Jimmie Durham, 2002]

DON’T WORRY – I’M A GOOD INDIAN.I’M FROM THE WEST,

LOVE NATURE,AND HAVE A SPECIAL, INTIMATE

CONNECTION WITH THE ENVIRONMENT...I CAN SPEAK WITH MY ANIMAL COUSINS,

AND BELIEVE IT OR NOTI’M APPROPRIATELY SPIRITUAL.

(EVEN SMOKE THE PIPE)...I HOPE I’M AUTHENTIC ENOUGH

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culture

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La ricerca di artisti come Durham è tesa dunque a generare una complessificazione del concetto di etnicità, un processo ulteriore rispetto alla sua de-essenzializ-zazione, la quale rischia di occultare una volta di più il nodo centrale della questione, e cioè il fatto che il concetto di etnici-tà è sempre stato sinonimo di alterità, mentre non è mai stato sottolineato quanto, ad esempio, anche l’identità “bianca” possa essere connotata in senso etnico. A questo proposito Yinka Shonibare, artista britannico di origine nigeriana, intervistato da Viviana Gravano nel 2002 rispetto alla questione di una definizione del concetto di et-nicità, afferma che etnico dovrebbe essere considerato un termine con un significato affine a quello di nativo (cioè nato in un luogo specifico). In questo senso tutti siamo “nativi”, così come tutti possiamo essere considerati “etnici”, cioè appartenenti a un territorio, prima di tutto sim-bolico, di complesse identificazioni. Così anche il bianco, nato in Occidente, può finalmente essere incluso in questo ordine terminologico. Shonibare traduce la trama mobile di queste definizioni identitarie nelle sue installazioni, applican-do la stoffa batik agli abiti in stile vittoriano coi quali veste dei manichini senza testa, oppure alla riproduzione di intere stanze in stile vittoriano. Il batik si presta perfettamente

al discorso de-essenzializzante sull’identità e alla critica al concetto di autenticità intorno ai quali l’artista lavora: è una stoffa originaria dell’Indonesia, prodotta per la prima volta a livello industriale dai colonizzatori olandesi, per essere venduta sul mercato indonesiano. Non avendo tuttavia avuto grande successo, gli Inglesi esportarono manodopera asiatica per iniziare la produzione industriale del batik a Man-chester. Il batik prodotto in Inghilterra veniva poi esportato nelle colonie britanniche in Africa occidentale, dove riscosse un enorme successo, al punto che in molti paesi, tra cui il Ghana e la Nigeria, questo tessuto divenne simbolo del na-zionalismo (sia per gli africani che vivevano in Africa sia per quelli che erano emigrati negli Stati Uniti o in Europa), e usato per veicolare messaggi politici, stampati sulla stoffa stessa insieme alle immagini dei leader dei movimenti nazionalisti. L’uso che Sho-nibare fa del batik è teso dunque a sottolinearne la complessa origine, legata erroneamente a una nozione pura di “africanità” che non aveva alcun riscontro nella storia del tessuto, e con-nessa a continue riappropriazioni e risemantizzazioni coloniali e postcoloniali.

©Flickr by sashafatcat

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USO I TESSUTI AFRICANI NEL MIO LAVORO A CAUSA DELLA LORO

QUANDO ERO ALLA SCUOLA D’ARTE

A LONDRA, SUBIVO UNA PRESSIONE COSTANTE PER PRODURRE

ARTE AFRICANA TRADIZIONALE. MA PER

CON UNA MOLTEPLICE ESPERIENZA CULTURALE L’IDEA DI UNA NOZIONE PURA

DI “AFRICANITÀ”

COMPLESSA ORIGINE.

UNA PERSONA

COME ME,

I BATIK MI SONO SEMBRATI

UNA BUONA METAFORA

NON AVEVA SENSO.

PER AFFRONTARE CRITICAMENTE

LA COLLISIONE DELLE CULTURE E LA NOZIONE DI AUTENTICITÀ. (...)OGGI ACQUISTO QUESTI TESSUTI AL MERCATO DI BRIXTON, A LONDRA.

QUALCOSA CHE È STATO

PRODOTTO E DISEGNATO IN EUROPA,

PASSATE TRANSAZIONI COLONIALI,

MA CHE DOVREBBE

CI SONO ANCHEOVVIAMENTE,

MI PIACE COMPRARE

SIMBOLEGGIARE IL NAZIONALISMO AFRICANO.

DELLE VERSIONI LOCALIORMAI

DEGLI STESSI TESSUTI

FRUTTO DI

PRODOTTI DIRETTAMENTE IN AFRICA

(YINKA SHONIBARE, 2001).

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culture

82I più importanti studi contemporanei che ridiscutono i concetti di razza e etnicità sia in ambito postcoloniale che in quello antropologico o negli studi culturali, si muovono all’interno di questo preciso orizzonte, considerando cioè la “whiteness” come una categoria etnica, densa e produttiva di ar-ticolazioni di potere.

Vorrei citare un’ultima esperienza artistica tesa a esplorare i territori ambigui della rappresentazione stereotipata dell’et-nicità attraverso i concetti di esotico e primitivo. Nel 1992 a Madrid l’artista, performer e poeta chicano Guillermo Gomez-Peña e Coco Fusco, artista cubano-americana, studiosa for-temente interdisciplinare, performer e curatrice, realizzano la

performance Two Undiscovered Amerindians Visit..., ripetuta poi molte volte e in contesti molto differenti anche negli Sta-ti Uniti (non solo in musei, ma anche in centri commerciali, gallerie...), in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America. Ispirati dal racconto di Kafka dei primi del ‘900 Relazione per un’accademia, che narra la testimonianza di un uomo africano vissuto per anni in Germania ed esposto come una scimmia, Fusco e Gomez-Peña propongono una sorta di contro-celebrazione del concetto di “scoperta”: si espongono in pubblico, chiusi in una gabbia, rappresentandosi come due indiani Guatinauis (identità totalmente finzionale) provenienti da un’isola del Golfo del Messico recentemente scoperta, ve-stiti con pelli di animali, ma con ai piedi scarpe da ginnastica

©Fl

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e indosso occhiali da sole, circondati da oggetti “tribali”, da bambole voodoo, da un computer portatile e una radio che suona rock. L’intera performance è centrata sull’interattività con il pubblico “pagante”: per mezzo dollaro “l’esemplare fem-mina” si fa fotografare accanto allo spettatore o può eseguire una danza “selvaggia”, mentre “l’esemplare maschio” può rac-contare storie “tradizionali” (in una lingua incomprensibile) o mostrare i genitali sotto il gonnellino (per cinque dollari) allo sguardo curioso degli spettatori. Nel frattempo due “guardie” danno da mangiare panini e frutta ai due personaggi in mostra, li accompagnano in bagno e forniscono agli spettatori notizie “scientifiche” sulla loro provenienza, mostrando finte mappe geografiche e pagine dell’Enciclopedia Britannica, ricche di in-formazioni “etnografiche” sulla popolazione e il suo territorio.Questa sorta di etnografia al contrario intende creare un’ironica rappresentazione dell’atteggiamento oc-cidentale verso l’esotico e il primitivo, e in generale verso l’alterità, connettendolo da un lato con la re-torica della “scoperta”, dall’altro con le aspettative radicate relativamente ai ruoli del soggetto esibito/osservato e del soggetto osservante. Coco Fusco ha più volte sottolineato come lei e Gomez-Peña non avevano previsto certe reazioni del pubblico, il quale per larga parte ha creduto che quella messa in scena non fosse affatto una finzione e, anche laddove ha riconosciuto la finzione e la per-formance degli artisti, ha dimostrato di trarre molto godimento dallo “stare al gioco”, pagando per guardare gli artisti compie-

re riti o azioni senza senso e umilianti. Così, mettendo in sce-na lo stereotipo del primitivo appena scoperto, del selvaggio addomesticato ed esposto – pur ibridandolo con segni e og-getti assolutamente contemporanei (come il laptop sul quale l’”esemplare femmina” incessantemente scrive), e al di là del riconoscimento o meno dell’aspetto finzionale della perfor-mance – il pubblico si è sentito autorizzato ad assumere (più o meno consapevolmente) il ruolo e l’identità dello scopritore, del colonizzatore, del civilizzato di fronte all’ultimo residuo di preistoria, proiettando su quella gabbia una serie di fantasie che dimostrano quanto i ruoli e le rappresentazioni coloniali siano effettivamente radicati, introiettati e rimessi inconsape-volmente in scena, come una sorta di lapsus linguae, anche nella contemporaneità.

L’attenzione agli artisti contemporanei che lavorano con e at-traverso l’etnografia può non solo sottolineare quanto la ri-cerca artistica sia una scienza “sociale”, al pari del-l’antropologia o della sociologia, ma anche intervenire in senso critico su alcune urgenze della cultura contempora-nea. Si tratta in altre parole di entrare dentro la dinamica della rappresentazione, forzandone dall’interno le rigidità, per aprire nuove posizionalità enunciative, affermare diverse modalità di identificazione e costruire infine la possibilità di definire una nuova consapevolezza relativamente ai potenti meccanismi di razzializzazione o stereotipizzazione del sé e dell’altro.

©Grechi

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marketing

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solUzioni per la comUnicazionedelle identità territoriali

di Erica Speranza

Se nell’antichità la marca era considerata un vero e proprio mezzo e/o strumento di identificazione, utile agli allevatori di bestiame per distinguere i propri capi, oggi possiamo accostarci sempre di più ad una concezione del brand inteso come identificazione di valori che coinvol-gono la sfera emotiva. Per questo motivo si parla di brand identity in una infinità di ambiti differenti, e negli ultimi anni anche in relazione al turismo, dove il marketing continua a fare passi da gigante, seguendo le evoluzioni tecnologiche e i trend di consumo.

Il processo di globalizzazione dell’economia mondiale ha conferito una nuova dimensione alle problematiche connesse allo sviluppo territoriale: la mondializzazione obbliga i sistemi territoriali a valorizzare i propri elementi distintivi rispetto a ciò che viene realizzato altrove, facendo emergere la sfida sul posizionamento e sulla definizione del ruolo dei territori che devono confrontarsi con nuove forme di concorrenza. In questo scenario diventa sempre più stra-tegico puntare sul “vantaggio competitivo” dei luoghi, cercando di valorizzare e mantenere nella zona tutte le risorse che compongono il “capitale territoriale”.

I sistemi territoriali, in pratica, possono essere intesi come veri e propri brand, e dunque possono essere posti in concorrenza tra loro per la conquista e il conso-lidamento di segmenti più importanti di un mercato in crescita. Un destination brand deve essere in grado di proiettare un’immagine positiva e veri-tiera del tessuto locale, e a questo scopo la carta vincente da giocare sembrerebbe proprio quella del ponte tra il territorio, la sua storia, le persone che lo abitano e le politiche di sviluppo che lo sostengono.

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Esistono in letteratura essenzialmente tre filoni di ricerca sul destination brand: il primo approfondisce il ruolo della marca della destinazione come strumento di comunicazione; il secondo ne analizza la funzione di schema percettivo volto alla costruzione dell’immagine della destinazione turi-stica; il terzo filone, infine, studia il ruolo della marca della destinazione come risorsa relazionale.I modelli di destination branding si basano in prima istanza sulla definizione degli elementi costitutivi l’identità della desti-nazione turistica come promessa ai turisti, per poi accostarsi ad un’analisi del processo di gestione e trasmissione del va-lore e dell’identità stessa, e a uno studio mirato sulle tipologie di attori del sistema di stakeholders turistici, che ricoprono un ruolo fondamentale nella creazione e gestione del valore.

Quali sono però i passi per costruire e progettare un de-stination brand efficace?In primo luogo occorre fare un’analisi comparativa delle marche delle destinazioni turistiche concorrenti: il destination brand dovrà essere un’immagine unica, distinti-va, identificativa e strategicamente valida. A tal proposito sarà necessario costituire un team efficace di esperti di design che possano sulla base dei valori della località turistica costruire un marchio che rimandi immediatamente al concept insito nel luogo che si vuole andare a promuovere. Lo studio del marchio della destinazione turistica dovrà essere il frutto di una cooperazione tra la popolazione locale, i diversi operatori turistici e una società di consulenza esterna. Non si ha infatti bisogno di un semplice studio gra-fico, ma di un soggetto in grado di intraprendere una fase di documentazione iniziale, seguita da un altro passaggio di tipo decisionale, che si traduce nel vero e proprio progetto grafico; per la documentazione e la ricerca ci si avvale solitamente di focus group e brainstorming orientati a elaborare e progettare valide strategie, per poi giungere alla definizione del punto di forza, che di fatto deve coincidere con l’elemento di unicità della destinazione turistica. La fase di design exploration con-sentirà di fornire e dare un valore al processo, per poi passare all’attività di comunicazione e marketing.L’obiettivo di costruire un brand territoriale con una forte identità sarà facilmente raggiungibile solo se si costituirà un team di consultazione che includa rappresentanti della Pub-blica Amministrazione, della cultura e dell’industria locale interessati a promuovere il turismo locale; se si svilupperà un processo di consultazione che si avvale della fama e della notorietà di opinion leaders; se si ricorrerà a professionisti veri e propri del marketing; se si elaboreranno messaggi promo-zionali calibrati a seconda del target di riferimento, creando un sistema di collegamenti e relazioni in grado di lanciare e sostenere il programma.

Certo, non tutti i territori apparentemente si prestano a di-venire vere e proprie località turistiche di tendenza, magari per mancanza di risorse, oppure perché non dispongono di

un background storico-culturale solido che li rende attraenti come mete turistiche. Ma facendo leva sui giusti carat-teri è possibile ottenere il risultato migliore in ogni circostanza. Un esempio lampante è Las Vegas, divenuta una destina-zione turistica celebre grazie alle sue strutture ricettive, che peraltro sono state costruite nel mezzo di un deserto. Quella che per decenni è stata una stazione di sosta per le carovane di pionieri dirette in California [http://it.wikipedia.org/wiki/Ca-lifornia] e, nei primi anni del Novecento [http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Snodo_ferroviario&action=edit&redlink=1], un importante snodo ferroviario [http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Snodo_ferroviario&action=edit&redlink=1], è diventata oggi la capitale dei divertimenti e del lusso. La metropoli della “surrealtà”. Las Vegas, che sorge nel deserto del Mojave [http://it.wikipedia.org/wiki/Mojave], presenta un paesaggio naturale secco, roccioso, con vege-tazione scarsa. In questo caso quindi l’obiettivo degli esperti di marketing è stato quello di promuovere strategicamente e rendere quanto più possibile affascinante una località attra-verso strategie di comunicazione mirate, che ne esaltassero le attrattive di tipo “artificiale”. Al contrario, molte altre località turistiche oggi più che mai puntano a differenziarsi dalla concorrenza sottolineando i valori del proprio territorio, e aggrappandosi alle loro radi-ci storico-culturali. Basta pensare alla promozione turistica dell’Emilia Romagna, il cui claim “terra con l’anima”, rimanda il turista potenziale a un universo di emozioni calde e “popolari”, comprendendo il divertimento, il mare e gli itine-rari enogastronomici.

©Flickr-by http2007

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il cinema come strUmento per capire meglio se stessi.

di Gioia Gabellieri

Pensare di avere il pieno controllo degli eventi è una me-ravigliosa sensazione, ma è proprio vero che riusciamo a tenere tutto sotto controllo? Crediamo testardamente nell’assioma “Volere è Potere” e non ci accorgiamo che la nostra non è che una pia illusione, anzi, una vera e propria superstizione su cui si basano gran parte delle nostre certezze.Pur di mantenere viva questa credenza, siamo pron-ti a rinunciare a entrare in contatto con la nostra parte spirituale e a compiere una sana introspezio-

ne. Facciamo ricorso ad alcool e pillole per anestetizzarci, riempiamo il nostro vuoto interiore con cibo e botulino, senza capire che non è così che riusciremo a sopire quell’inquietudine che spesso ci tronca il respiro. Siamo convinti, insomma, di essere padroni delle nostre anime e invece non sia-mo neppure capaci di controllare i nostri stati d’animo, le nostre emozioni.

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©sxc

A quanti è capitato di andare al cinema con un amico e di com-muoversi fino alle lacrime per una scena che lascia invece del tutto indifferente il nostro compagno? Non sappiamo spiegarci come mai ci abbia assalito tanta tristezza e liquidiamo il fatto come “stanchezza” o “stress”. Perché non proviamo, invece, a domandarci che cosa ci è successo? Cosa ci sfugge degli altri e di noi stessi? In che modo “leggiamo” il mondo? Che cosa “vediamo” oppure “non vediamo” di ciò che ci sta intorno?Lacan dice che l’uomo è composto da ciò che “non vede” e non semplicemente da ciò che “vede”. Per-ché allora non provare una sana curiosità per ciò che non riu-sciamo a vedere? Quella persona alla festa non l’ho proprio notata, tu invece ci hai parlato tutta la sera. Quella scena del film che ti è tanto piaciuta, io neppure la ricordo...Quando osserviamo il mondo esterno, compiamo una sele-zione tematica, cioè scartiamo o incameriamo le informazioni che ci arrivano dall’esterno, come farebbe un regista in cabina di montaggio, solo che il nostro cervello riesce a farlo a una velocità straordinaria.

Commentando l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes wide shut, un amico regista mi disse che Kubrick, come spesso gli accadeva, aveva tantissime ore di girato e in fase di mon-taggio avrebbe potuto ricavare non uno, ma 4 film diversi. È esattamente la stessa cosa che capita a noi con le scene che selezioniamo quotidianamente, potremmo creare un

numero impressionante di versioni del medesimo episo-dio. E qui entra in gioco il “piccolo abitante” della nostra testa, il regista occulto dell’infinita pellicola proiettata nella nostra mente: il Personal Editor. Se il nostro Perso-nal Editor modifica la sequenza delle immagini, ecco che cambia anche il film a cui assistiamo. In una versione, una scena viene tagliata, dunque non ne ab-biamo coscienza, mentre nell’altra diventa l’episodio cen-trale, quello attorno a cui ruoterà tutto il nostro giudizio. È il modo in cui organizziamo le informazioni che ci giungono incessantemente a fare la differenza. Quella canzone mi fa piangere e a te lascia indifferente, quel luogo mi emoziona e tu lo detesti. Si potrebbe pensare che le differenti reazioni siano da imputare al fatto che siamo diversi, ma diversi “come”, “quanto” diversi? È necessario definire le differenze, è vero, ma anche i punti di contatto sono importanti anzi, forse lo sono anche di più.

Nella mia esperienza di psicologa e di docente ho potuto notare che ci sono persone che si comportano in modo molto simile quando devono prendere una decisione o affrontare un proble-ma. Può essere che in loro agisca lo stesso Personal Editor? Questo articolo nasce proprio da questo interrogativo: quanti Personal Editor esistono e come operano veramente? Nel corso della nostra esistenza, ma anche nel corso di una normale giornata, questi Personal Editor fanno sentire la

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propria influenza imprimendo una direzione ai nostri pensie-ri, suscitando in noi reazioni, determinando in breve il nostro modo di agire e di rapportarci agli altri. Poiché la vita deve essere pensata come un fiume che scorre, nell’arco degli anni ciascun essere umano vive sotto il segno di più Personal Editor. Comprendere come il loro influsso sia determinante, permette all’essere umano di evolvere, di prendere consapevolezza di sé.

Nel libro Il viaggio dell’eroe, la psicologa americana Carol Pearson, cita sei archetipi che caratterizzano la nostra vita: l’Innocente, l’Orfano, l’Angelo custode, il Vian-dante, il Guerriero e il Mago. I codici di lettura forniti da questi sei archetipi permettono di comprendere le ragioni profonde delle nostre azioni, ma anche di quelle altrui, rega-landoci una visione più chiara delle dinamiche interpersonali di cui siamo protagonisti o comprimari.Un Archetipo, dice Jung, ci si attiva come immagine, ma soprattutto come emozione. Se tutto ciò che percepiamo è l’immagine, allora si tratta di una parola-immagine priva di energia psichica, di numinosità. L’Archetipo, infatti, non è un semplice nome o concetto, ma “un frammento di pura vita, che il ponte dell’emozione collega all’individuo vivente”. Gli Archetipi prendono vita solo quando ci sforziamo di conoscere il loro rapporto con noi. La difficoltà maggiore per chi deve spiegare il con-cetto di Archetipo, consiste proprio nell’apparente distanza tra un concetto così astratto e la vita reale. Spesso gli studenti dei corsi di Cinematerapia si scontrano con questa difficoltà e non riescono a far propria la dimensio-

ne degli Archetipi, che sentono come totalmente estranei a se stessi. Tuttavia, ho notato che è sufficiente lasciar loro il tempo di individuare l’Archetipo che li guida, permettere loro di rico-noscersi in questo o in quell’Archetipo, perché tutto diventi improvvisamente chiaro e reale.

Il cinema ci può aiutare a prendere coscienza dell’Ar-chetipo-Personal Editor che governa la nostra vita e a comprendere le ragioni profonde del nostro essere: i personaggi del film diventano la personificazione dei diver-si Personal Editor-Archetipi e permettono a noi spettatori di renderli umani e di farli entrare in contatto con noi attraverso l’emozione che proviamo mentre guardiamo le scene del film.Nell’analizzare l’evento cinematografico si è data, spesso, maggiore importanza al film come fatto oggettivo, piuttosto che alle reazioni che suscita nello spettatore a livello emotivo. Lo spettatore vede il film in un modo estremamente sogget-tivo. Ai partecipanti a una Cinematerapia si chiede di vedere un film non in modo critico, ma emotivo, lasciandosi andare alla storia e ai suoi personaggi. Con l’aiuto di uno psicologo-cinematerapeuta, gli spettatori riescono a capire le ragioni profonde di un’emozione provata durante la proiezione del film e imparano a conoscere meglio se stessi. La presenza di altre persone e l’ascolto della loro interpretazione della medesima storia, aiuta l’individuo ad ac-cettare l’esistenza di punti di vista differenti e ammissibili nella stessa realtà.

©Flickr-by Giorgio Montersino

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89[Tiziano Terzani - Un indovino mi disse]

LA VERITÀ È CHE UNO A CINQUANTACINQUE ANNI

LA PROFEZIA ERA LA SCUSA.

HA UNA GRAN VOGLIA DI AGGIUNGEREUN PIZZICO DI POESIA ALLA PROPRIA VITA,

DI GUARDARE IL MONDO CON OCCHI NUOVI,DI RILEGGERE I CLASSICI,

DI RISCOPRIRE CHE IL SOLE SORGE,CHE IN CIELO C’È LA LUNA

E CHE IL TEMPO NON È SOLO QUELLOSCANDITO DAGLI OROLOGI.

QUESTA ERA LA MIA OCCASIONE

Per approfondire» Carl Gustav Jung (1961), Approaching the Unconscious, (ed. it. Simboli e interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, 1993)» Tiziano Terzani (1995), Un indovino mi disse, Tea, Milano» Carol Pearson (1989), The Hero within. Six archetypes we live by , (trad. it di Paola Chiesa, L’eroe dentro di noi. Sei archetipi della nostra vita, Roma, Astrolabio, 1990) » Carol Pearson (1991), Awakening the Hero Within. Twelve Archetypes to help us to find ourselves and transform our world, (trad. it. di Paola Chiesa, Risvegliare l’eroe dentro di noi. Dodici archetipi per trovare noi stessi, Roma, Astrolabio, 1992).

Come psicologa, considero molto importante che la Cinema-terapia si svolga in gruppo. Il film in sé e per sé non è una cura, è piuttosto un percorso di crescita che va condiviso, un viaggio per capire meglio noi stessi.Chi partecipa alla Cinematerapia deve essere un viaggiatore paziente e non farsi scoraggiare dalla fatica, dalle soste forza-te, dalla polvere che gli impedisce di vedere oltre. L’obiettivo non è, infatti, giungere a destinazione, ma il viaggio stesso e le scoperte fatte chilometro dopo chilometro. Nel suo libro Un indovino mi disse, Tiziano Terzani racconta che nel 1976 un indovino cinese gli predisse la morte se avesse volato in aereo nel 1993. Anni dopo la predizione, Terzani si ricorda del-la profezia e decide di rispettare il monito dell’indovino: non prenderà un solo aereo per un anno, senza però rinunciare al

suo mestiere. Così, Terzani viaggia per il mondo a bordo di navi, autobus, treni e ogni sorta di veicolo terrestre, scoprendo luoghi che dall’aereo non avrebbe mai immaginato, facendo straordinari incontri e, soprattutto, scoprendo se stesso.

Come dice James Hillman “L’anima è senza fine, così è l’opera medesima di fare anima”.A questo punto, non mi resta che augurarvi “Buon viaggio”.

E NON POTEVO LASCIARMELA SCAPPARE

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di Samad ZarmandiliUna nUova identità

Non più soltanto masse di disperati riversati sulle spiag-ge, Siamo già di fronte all’Italia che affronta le questio-ni della seconda generazione di immigrati. Sono figli degli stranieri nati e cresciuti spesso in una doppia realtà: quella dei padri, legati alla cultura del Paese d’origine, ma anche quella dei loro coetanei ita-liani; modelli di vita non sempre compatibili, tanto che l’identità culturale delle seconde generazioni di stranieri è uno degli aspetti più attuali e complessi che ci offrono le società moderne.

Questa premessa potrebbe suggerirci che siamo in presenza di individui dalla doppia identità, con un’anima divisa, in balia della dissociazione che ne può con-seguire. Questo è sicuramente un elemento non trascurabile, ma l’aspetto più interessante cui ci pongono di fronte le seconde generazioni è la possibilità di affrontare il superamento dell’identità culturale di origine e di co-struire un’identità culturale nuova, un ibrido con delle caratteristiche pecu-liari che lo contraddistinguono. Le società contemporanee offrono a questi nuovi soggetti l’occasione di intraprendere un percorso innovativo, una trasformazione che rende i figli degli stranieri cresciuti in Italia dei cittadini sicuramente molto diversi dai loro genitori, ma neanche identici ai loro coetanei “nativi”. In realtà

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non aderiscono perfettamente né all’una, né all’altra cultura, sono individui nuovi, sintesi di diverse culture, come avviene per esempio negli States da varie generazioni.

L’industria culturale, i mezzi di comunicazione, le forme d’arte hanno influenza sulla società e posso-no “creare” identità. Il cinema, per esempio, rappresenta una forma di sintesi privilegiata che anticipa, ma più spesso fotografa e restituisce, i mutamenti della società e degli in-dividui che la formano. Attraverso la complessa elaborazione delle sue storie, il cinema produce un processo empatico di identificazione e permette di partecipare quasi dall’interno alla vita dei personaggi e alle loro vicende.

Sole rosso è un film ancora in fase di preparazione. Un film che guarda dentro questa doppia realtà, all’in-terno della casa di un immigrato che ha raggiunto uno status sociale di privilegiato, anche se non liberato dalla dicotomia complessa e dolorosa passato/presente, tra quello che ha ab-bandonato e ciò che possiede ora. Ed è soprattutto la storia di una giovane donna iraniana, Shirin, che si vede costretta a fuggire dal suo paese, l’Iran di oggi, divenuto per lei invivibile e pericoloso. Shirin è una giovane donna laureata e politica-mente attiva, che dopo aver rischiato l’arresto durante le mani-festazioni studentesche seguite alle elezioni del giugno 2009, trova una via di fuga attraverso un matrimonio combinato dal padre con Dariush, il figlio di un vecchio amico di famiglia che vive in Italia da 30 anni. Per Shirin l’Italia è una speranza per una vita nuova, ma nulla è mai semplice come sembra. Per Dariush invece, autentica espressione di quella seconda generazione di cui parlavamo prima, è la vera possibilità di affrancarsi dalla sua famiglia e dalla sua cultura d’origine. Non troverà però la forza per intraprendere questa maturazione complicata ma necessaria; l’influenza paterna e l’incapacità di compiere un percorso personale lo condizioneranno a tal punto da ritrovarsi schiacciato sotto il peso della sua doppia identità.In un primo momento Shirin è inconsapevole testimone di una epica familiare che la coinvolge e la sorprende, ma che alla fine le permette di ritrovare se stessa e la propria identità in una Roma caotica e apparentemente ostile. Shirin percorre un cammino di crescita ed emancipazione, attraverso drammi e incertezze, emozioni contraddittorie e sensi di colpa. Dunque il film ruota prevalentemente intorno a una figura femminile, intorno alle sue incerte emozioni e al suo faticoso cammino verso il futuro. E il peccato, vissuto attraverso i paradossi della cultura di un paese islamico, l’Iran, resta uno dei temi di fondo del film.Lo sguardo sulla realtà, nel film, è quello di Shirin; gli occhi con cui guarda il mondo sono quelli di qualcuno che deve imparare a conoscere chi gli sta di fronte. La gabbia in cui è costretta a muoversi impone comportamenti e scelte che non lasciano via di scampo e non prevedono mezze misure. Prigioniera di una difficile conciliazione tra culture, la prota-

gonista del film conquista a caro prezzo la propria libertà e cerca di costruire un percorso personale in equilibrio tra due mondi differenti. Una donna nuova, alla ricerca di una nuova identità.

Si tratta di tematiche già affrontate con successo dalle cinema-tografie europee, da quelle francesi, britanniche o tedesche, da tempo abituate a raccontare le storie legate alle generazioni successive a quelle degli immigrati venuti dai paesi ex co-loniali. L’Italia solo negli ultimi anni è venuta a più stretto contatto con le comunità di stranieri e i loro figli ormai radicati sul territorio. Anche il cinema e la cultura quindi sono in ritardo e cominciano solo ora ad affron-tare questi temi che sono centrali se si vogliono comprendere a fondo i mutamenti della società.Molto spesso i film inglesi e francesi hanno trattato le tema-tiche dell’immigrazione analizzando il livello d’integrazione delle comunità straniere, offrendo degli spaccati di società dove l’incontro/scontro tra diverse identità culturali genera conflitto, anche se spesso affrontato in chiave di commedia.Il cinema tedesco invece, non a caso con un giovane regista di origine turca, Fatih Akin, ha proposto negli ultimi anni due film che si concentrano proprio sulle seconde generazioni e sulla loro faticosa ricerca di un’identità nuova. Il primo La sposa turca, che ha vinto l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino nel 2004, è il drammatico e violento percorso di una coppia di giovani turchi di seconda generazione, che alla ricerca della propria identità in un ambiente familiare e socia-le conflittuale faticano a non cadere nella schizofrenia. Il suo ultimo film invece, Soul Kitchen del 2009, è una commedia dove le seconde generazioni di diverse origini, greche, turche, africane, in una Amburgo movimentata e notturna, rincorrono la loro nuova identità comune, ma si muovono a loro agio in un contesto che già comincia a delineare il profilo di un nuovo processo identitario. Uno spaccato della nuova Europa multiculturale.

Il cinema ci permette di compiere dei viaggi, a vol-te nel passato a volte molto radicati nel presente, il viaggio che deve intraprendere chi ha genitori di origini diverse dal Paese in cui è nato, cresciuto, dove ha studiato e dove lavora. Ci si deve avventurare in un complesso percorso di formazione e maturazione non sempre lineare: è un vagabondare che consente, attraverso una stratificazione e una successiva rielaborazione, di arrivare al superamento di una doppia identità o della scissione che deriva dalla sua negazione, per scoprire una nuova, più ricca, consapevolezza culturale.

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focalizzare il concept, definire il protagonista:precondizioni indispensabili per il sUccesso

di Luigi Granato

Ogni anno, durante le prime settimane di settembre, ne-gli States si consuma la battaglia del prime time a colpi di pilot. I principali network americani presen-tano infatti in questo periodo le nuove serie televisive della stagione autunnale, sicuramente la più importante e remunerativa per quel che riguarda gli ascolti. Que-st’anno poi, le aspettative del pubblico (americano, ma non solo) sono particolarmente elevate e l’attesa per il lancio delle premiere series è seguita con molta attenzio-ne dagli addetti ai lavori, dato che i nuovi titoli sono

chiamati all’arduo compito di colmare il vuoto che hanno lasciato serie storiche come Lost, 24, Heroes, Cold Case, Ghost Whisperer, terminate tutte nella scorsa stagione. Limitando l’elenco ai quattro storici network generalisti e alle sole drama series si possono citare: Body of proof, Detroit 1-8-7, Off the map, The whole truth su ABC; Undercovers, Chase, The Event, Love bites su NBC; Hawaii five-0, Blue bloods su CBS; Lonestar, Ride-along su FOX. Se dovessimo tener conto anche delle sit-com e delle TV via cavo tipo HBO, F/X, Showtime e via dicendo, la lista si allungherebbe a dismisura. Ma c’è di più. A riprova della prolifica macchina creativa americana e degli efficaci meccanismi di selezione, le serie elencate sono il risultato di una scrematura preventiva fatta tra centinaia di concept arrivati sulle scrivanie dei produttori di

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Hollywood. Di questi solo una minima parte diventano pilot, e un numero ancora più esiguo vedrà la messa in onda. Tra le serie che riescono a entrare nelle case americane poi, ce ne sarà probabilmente qualcuna che verrà interrotta per gli ascolti deludenti; altre, sempre per lo stesso motivo, si chiuderanno alla prima stagione; solo poche, infine, diventeranno delle se-rie televisive di successo.

A questo punto alcune domande sorgono spontanee: quali sono le variabili che determinano la sorte di una serie televisiva? Perché alcune si fermano sulla carta e altre raggiungono la messa in onda? Come creare una serie televisiva che faccia presa sul pubblico? Quali insomma gli ingredienti del successo? Se conoscessi le risposte starei probabilmente a sorseggiare champagne nella West Coast! Si può comunque tentare di farsi un’idea guardando alle serie TV più popolari, quelle che hanno raccolto i favori di pubblico e critica in tutto il mondo. Se è vero che alla base del suc-cesso di una serie concorrono un insieme di fattori capaci di creare un’alchimia vincente, è altrettanto vero che alla base di ogni serie di successo si scorge un’identità ben definita del concept, primaria e fonda-mentale variabile per la riuscita di un progetto seriale. CONCEPT: IDENTITÀ DELL’IDEAIl concept è l’idea-base, la determinante identitaria della serie. Il concept identifica di cosa parla una serie e in che modo ne parla, ovvero la premessa drammaturgica e la forma più adeguata per mettere in scena quella premessa. Ma ancora non basta. Se ci fermassimo qui, la definizione del concept di una serie non si discosterebbe poi tanto dalla defi-nizione del soggetto di un film. La specificità del concept risiede nel rendere manifesta la sostenibilità di un conflitto seriale, in maniera tale da consentire la narrazione di una molteplicità di racconti all’interno di una stessa cornice. Il concept è in definitiva una sorta di matrice in grado di generare un numero potenzialmente in-finito di storie riconoscibili; storie che siano immediatamente identificate come appartenenti inequivocabilmente a quella serie e a nessun’altra. Mentre quindi le genesi creativa di un film nasce col soggetto, l’atto generativo di una serie inizia ancor prima, proprio con il concept, che sta a monte di tutti i soggetti degli episodi della serie stessa. È il concept che deve indicare quali sono le storie che si possono raccontare nella serie, in che modo narrarle, attraverso quali strumenti stilistici ed estetici.

La difficoltà nel progettare una serie TV risiede proprio nella focalizzazione del concept, nella problematicità di indivi-duare un punto di vista identitario, originale e ben definito attraverso cui indagare un preciso universo narrabile. Senza una chiara identità del concept, difficil-mente una serie potrà vedere la messa in onda (almeno negli States…); o quantomeno farebbe fatica a fare ascolti, figurarsi

a diventare un successo! Un modo per testare la bontà di un concept potrebbe essere, come suggerito da alcuni esperti del mestiere, quello di “filtrare” gli spunti narrativi più ba-nali (un delitto passionale, una rapina in banca, un attentato terroristico) alla luce del concept ideato: maggiore è la capacità di rendere nuove e ri-raccontabili le situa-zioni più ovvie attraverso un punto di vista originale, maggiore è l’efficacia del concept e di conseguenza la riuscita della serie. Un buon concept è quindi in grado di dare nuova linfa vitale anche a materie narrative usurate e a generi sovrautilizzati.

Prendiamo l’hospital, genere televisivo per eccellenza: un conto è narrare la continua guerra alla morte che viene svol-ta da un gruppo di medici di un pronto soccorso chiamati a stabilizzare le condizioni di persone in fin di vita (E.R.); un altro è narrare le indagini mediche svolte da un dottore tan-to brillante quanto burbero alla ricerca della giusta diagnosi per scongiurare una morte orribile (Dr. House); altro ancora è narrare le vicende di un gruppo di specializzandi alle pri-me armi, costretti a crescere insieme e a forgiare il proprio carattere attraverso il consumarsi di vicende sentimentali e il confronto con la sofferenza degli altri (Grey’s anatomy). È a partire dal concept quindi che vengono definiti gli ele-menti chiave che creano l’identità della serie: protagonista, ambientazione, situazione drammatica, tema principale della serie, tipo di storie narrate. Elementi che verranno

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poi ampiamente sviluppati in quel documento progettuale dal nome altisonante di “Bibbia”.

Ciascuna delle serie citate, pur appartenenti a un medesimo genere, darà infatti vita a storie che fa-ranno leva su un differente meccanismo di spetta-colarizzazione, dettato per l’appunto dal concept. In E.R. non vedremo mai storie che parlano del rapporto medico-paziente da un punto di vista etico o psicologico, non è previ-sto dal concept; ciò che possiamo attenderci da questa serie è l’inevitabilità e la pervasività del rischio di morte che può colpire da un momento all’altro tutti, nessuno escluso. Altret-tanto insolito sarebbe vedere il Dr. Gregory House struggersi per un errore commesso e cercare consolazione nel rapporto con gli altri; scena che invece potrebbe tranquillamente vedere protagonista George O’Malley, uno dei giovani specializzandi di Grey’s Anatomy. Dal punto di vista della fruizione, il piacere derivante dalla visione di una determina-ta serie e il grado di soddisfazione del pubblico nel vedersi raccontare un determinato tipo di storie, di-pende quindi, ancor prima che dal genere, dal tipo di protagonista con cui abbiamo a che fare.

PROTAGONISTA: IDENTITÀ DEL CONFLITTOPer far sì che una serie appassioni il pubblico, oltre a dotarla di un concept che le dia un’identità chiara ravvisabile in tutte le storie della serie, bisogna creare dei personaggi che abbiano una caratterizzazione ben definita ed un tipo di conflitto univo-co e ripetibile. In una serie, ancor più che in un film, il rapporto che il pubblico instaura con il protagonista è di fondamentale

importanza, dato che è proprio sul protagonista sul suo universo narrativo e sul tipo di storie che questi andrà a vivere che si costruisce la fidelizzazione alla serie. Più che le aspettative per una trama originale è la certezza di ritrovare i nostri personaggi preferiti a spingerci a guardare una determinata serie, la sicurezza di vederli agire secondo un modello ripetibile in storie sempre differenti e avvincenti. Riprendendo l’efficace studio di Fabrizio Lucherini, a sua volta debitore della classificazione dei personaggi messo a punto da Frye, possiamo distinguere il protagonista di una serie in cin-que possibili tipi di varianti individuate in base alle sue qualità e al suo livello di controllo sull’ambiente circostante.

Eroe mitico. Come facilmente intuibile già dal nome, è un tipo di protagonista al di sopra degli esseri umani, di diversa natura, che padroneggia l’ambiente che lo circonda. Si tratta degli Dei della mitologia classica o dei super-eroi della narra-tiva popolare, dotati di super poteri rispetto ai comuni mortali. È il genere fantasy ad avere un rapporto elettivo con questo tipo di eroi. Le storie di cui è protagonista l’eroe mitico sono contraddistinte da un conflitto cosmico: difendere il mondo, salvare l’umanità, sconfiggere il male. Benché prevalenti nei fumetti e nel recente cinema ad effetti speciali, anche la seria-lità televisiva presenta esempi di eroi mitici: Hercules, Xena, Heroes.Eroe romantico. L’aggettivo non tragga in inganno: “roman-tico” non è inteso qui nell’accezione diffusa di sentimentale rispetto ad una storia d’amore, ma fa riferimento al termine romance col quale vengono definite, nella cultura anglosasso-ne, storie lontane dalla realtà, solitamente d’avventura. L’eroe

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romantico è quindi un essere umano dotato di particolari qualità o abilità (coraggio, bellezza, forza, intelligenza) che lo rendono straordinario, fuori dal comune e di conseguenza su-periore agli altri uomini. Riesce inoltre a controllare in maniera agevole le sollecitazioni esterne. È solitamente l’eroe con una missione da compiere come Indiana Jones o James Bond, per citare due esempi cinematografici. Si ritrovano eroi romantici in serie TV di diverso genere, dall’hospital (Dr. House) all’ac-tion (24).Eroe leader. È il tipo di protagonista più diffuso nelle serie TV. Si trova a metà strada fra il protagonista a statuto eroico che compie azioni straordinarie e il protagonista mimetico che deve confrontarsi con la vita quotidiana. Si comporta da lea-der: ricopre spesso un ruolo istituzionale o di responsabilità, gli viene riconosciuta autorevolezza, legge meglio e prima degli altri una situazione problematica e arriva spesso a ri-solvere il problema. Ma non sempre. L’eroe leader può infatti andare incontro al fallimento. Questo tipo di eroe è dunque superiore agli altri uomini, ma non al suo ambiente. Il suo agire diventa problematico. Lost, I Soprano, Cold Case, Senza traccia, Medium, Smalville sono esempi di serie che hanno come protagonista eroi leader.Protagonista mimetico. Non può essere definito più eroe, poiché questo tipo di personaggio non è superiore né ai suoi simili, né all’ambiente circostante. Si tratta di un protagonista immerso nel contesto della vita quotidiana, costretto a con-frontarsi con i problemi di tutti i giorni. Più che di un protago-nista si tratta quindi quasi sempre di un gruppo di protagonisti le cui relazioni definiscono il genere di appartenenza: family (Six feet under, Brothers and sisters, Una mamma per amica), teen drama (Dawson’s Creek, One three Hill), femminile (De-sperate housewives, Sex and the city).Protagonista comico. Questo tipo di personaggio ha un controllo sull’ambiente naturale e sociale inferiore alla norma, ponendo lo spettatore in una posizione di superiorità. Il prota-gonista comico subisce le situazioni, ne è vittima, suscitando così ilarità nel pubblico. La sit-com, nelle sue molteplici va-rianti, è la classica arena nella quale si trova ad agire il prota-gonista comico (Friends, The Office, My name is Earl, La tata, I Robinson ecc.).

A seconda dell’identità del protagonista si può indi-viduare la natura del conflitto e di conseguenza le

caratteristiche morfologiche e strutturali della serie. I protagonisti a statuto eroico ad esempio si battono contro un nemico esterno alla comunità fissa dei personaggi (l’assassi-no, la malattia, il demone) e il conflitto si risolve spesso nel-l’arco dell’episodio. Si tratta di un conflitto basato su un’azio-ne ripetibile. I protagonisti mimetici invece entrano spesso in conflitto con gli altri personaggi della serie con i quali instau-rano relazioni stabili (madre/figlia, fratello/sorella, coppie di fidanzati, copie di amici, ma anche capo/subordinato o datore di lavoro/dipendente). Inoltre da una serie con protagonista eroico ci si attende di essere sorpresi e affascinati dal modo in cui questi risolverà il problema, grazie alle sue straordinarie abilità; nelle serie con protagonisti mimetici si attua invece nello spettatore un naturale processo di immedesimazione. Per quanto concerne la fruizione quindi una chiara identi-ficazione del protagonista consente di instaurare un preciso patto di fedeltà con il pubblico.

Per approfondire» F. Lucherini, Strategie narrative e processi di identificazione nella fiction seriale, in Script N° 38/39, Dino Audino, Roma, 2005» F. Lucherini, Gli eroi delle serie hospital, in Script N° 40/41, Dino Audino editore, Roma, 2006» N. Lusuardi, La rivoluzione seriale. Estetica e drammaturgia nelle serie hospital, Dino Audino editore, Roma, 2010» G. Ventriglia, Dall’idea al concept al soggetto, in Script 44/45, Dino Audino editore, Roma, 2008» A. Visca, La fabbrica dei telefilm, in Link. Idee per la televisione. Focus telefilm, RTI, Milano, 2007» M.P. Pozzato, G. Grignaffini (a cura di), Mondi seriali. Percorsi semiotici nella fiction. RTI, Milano, 2008

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identità del lingUaggio aUdiovisivo

di Piero Costantini

Anno 2010: la tv (ebbene sì, anche quella italia-na) sta passando all’alta definizione. 1.658.880 pixel in più per ogni fotogramma visto. Roba da far tremare i polsi. L’audio diventa multicanale, guardando le partite di calcio sembra di essere allo stadio. Anche meglio. Finalmente anche noi stiamo entrando nel nuo-vo millennio! Un’era fatta di dettagli scolpiti sui pannelli LCD, di sistemi di ripresa digitali sempre più sofisticati e di una totale immersione nelle nostre storie preferite. Da Lost alla Serie A di calcio tutto ora è in alta definizione,

persino alcuni canali di mamma Rai. Strabiliante. Eppure, pur essendo io un fan scatenato dell’HD, qualcosa non mi torna. Difatti, veleggiando fra social network e portali di broadcasting, noto che i video più cliccati non sono quelli dalla qualità strabiliante, quelli dai miliardi di pixel ma bensì quelli fatti col telefonino o con un vecchio betacam SP e, piano piano, un sospetto si insinua dentro di me: ma alla gente, alla citatissima massaia componente massima dell’au-dience massmediatica, gliene fregherà qualcosa di questi maledetti 1.658.880 pixel in più?

Forse il discorso va preso a monte, partendo da ciò che i dirigenti delle reti (in questo caso televisive, del web parliamo dopo) descrivono come “il gusto della gente” oppure “ciò che il pubblico vuole vedere”. Oh oh! Quante volte mi sono sentito dire dalle teste calde di Rai e Mediaset che “la gente vuole sentirsi rassicurata” oppure che “dopo il telegiornale non possiamo programmare cose inquietanti” (come se Lost, ad esempio, fosse inquietante). E a causa di questo

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sentirci imporre di progettare dei marchi che “sarebbe meglio che non ci metteste il colore ROSSO”. Non ci dobbiamo met-tere il rosso? Cos’è? Un rigurgito anti-comunista? No. Troppo raffinato. Semplicemente, le grandi, enormi, eminenze grigie che dirigono le reti, asseriscono che il rosso, all’interno del marchio di una fiction (fosse anche solo una riga rossa che sottolinea il logotipo) sareb-be, come dire, destabilizzante per lo spettatore, il quale tenderebbe a cambiare canale. Oh mio Dio, oh mio Dio! Capisco che l’Italia sia un paese tendenzialmente “anziano” ma, cari miei, i miei nonni hanno fatto la guerra, quella vera, cosa volete che possa cambiare nelle loro vite di telespettatori il colore rosso per giunta nel marchio della fiction (semmai capissero, e ci metto mio nonno in primis, che quello è il marchio della fiction)? Per lo stesso motivo le fiction italiane vengono dirette da settantenni (con tutto il rispetto), “gente in grado di raggiungere il gusto del pubblico”, gente che nel 2010 usa la RED ma con il teleobiettivo e fa le zoomate come negli anni 70, ma non lo fa per citare quei tempi… ma solo perché quello è il loro modo di girare. Perché quella è la loro identità, un’identità che vogliono, in tutti i modi, appioppare al pubblico italiano generalista.

A questo punto mi chiedo quale possa essere il valo-re aggiunto di vedere Don Matteo (cavallo di batta-glia delle reti di Stato) in alta definizione. La dialettica sia di scrittura che di regia di prodotti del genere è quanto di più classico: se un personaggio si fa male a un piede ecco che il regista inquadra l’incidente all’arto inferiore, poi il viso del soggetto con tanto di smorfia di dolore (magari con una bella zoomata verso gli occhi) e la battuta “Ahi!” oppure “Mor-tacc…” (questo per non allontanarsi mai troppo dalla roma-nocentricità delle produzioni audiovisive italiane). Ecco che la grammatica “rassicurante” fa il gioco del regista “che coniuga alla perfezione i gusti del pubblico”. Probabilmente un regista giovane avrebbe scelto di elidere alcuni dettagli e magari di aggiungerne altri ma il risultato sarebbe comunque stato “fuori target”… magari accettabile per Rai 2 in seconda serata… forse… ma per Rai 1 proprio non se ne parla!

Tutto questo quando in rete, su Youtube ad esem-pio, la forma ha lasciato completamente spazio alla sostanza: un mosaico di immagini strampalate, disgregate, anarchiche – e ora anche in HD – che però formano un campione molto più rappresentativo di un gusto di quanto non facciano le tv generaliste italiane. Avendo un bambino di due anni e mezzo ho sco-perto una fantastica forma di intrattenimento (che a dire il vero cerco di limitare a pochi secondi): i video in cui si vedono le campane suonare. “Di nicchia” direte voi, ebbene no. Niente di più noioso di inquadrature fisse di campane che suonano. Eppure… milioni, decine di milioni di visite. O tutti hanno figli piccoli come me, oppure, nel mondo delle immagini in movimento la gente, il pubblico, divora di tutto, basta asse-

condarlo. Delle due l’una. Sono d’accordo che una terapia shock a base di Lost e surrogati tutte le sere sulle reti Rai non funzionerebbe, ma mi piacerebbe che quantomeno si provasse ad andare anche in altre direzioni. Investendo magari su temi più fantasiosi e non solo sulle fiction in costume basate sui triangoli amorosi.

Le identità, come il concetto di originale, su Youtube svaniscono, in un continuo equilibrismo sulla lama del copyright. E, guarda caso, gli unici che si offendono di essere mischiati “alla massa”, a quella massa di improvvisati filmmaker che popolano il portale, sono proprio i grandi broa-dcaster, nel nostro paese appunto Rai e Mediaset. La prima addirittura, dopo aver tentato una battaglia donchisciottesca contro il gigante americano sul copyright, ha acconsentito alla pubblicazione dei suoi contenuti su di esso a patto però che i commenti fossero disabilitati, quindi innalzando un’altra volta un muro tra produttore e fruitore.

Rabbrividisco di fronte alla cecità delle TV italiane che non capiscono che il loro è il canto del cigno e che se non si danno una mossa in tempi brevi, se non aprono alla condivisione, al web 2.0, all’identità di massa, nessuno le se-guirà più. Se non il mio caro nonno che però, a questo punto, non riesco ancora a capire che cosa se ne possa fare di quei 1.658.880 pixel in più per ogni fotogramma.

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