ricorsi per inumana detenzione ex art. 35 ter l. 354/1975 ... · trattamento penitenziario e alle...

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1 Ricorsi per inumana detenzione ex art. 35 ter l. 354/1975 e giudice civile Le norme Articolo 3 CEDU Divieto della tortura. Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. Art. 35-terO.P. introdotto dal decreto legge n. 92/2014 successivamente convertito nella l. n. 117/2014 Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati 1. Quando il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio. 2. Quando il periodo di pena ancora da espiare è tale da non consentire la detrazione dell'intera misura percentuale di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza liquida altresì al richiedente, in relazione al residuo periodo e a titolo di risarcimento del danno, una somma di denaro pari a euro 8,00 per ciascuna giornata nella quale questi ha subito il pregiudizio. Il magistrato di sorveglianza provvede allo stesso modo nel caso in cui il periodo di detenzione espiato in condizioni non conformi ai criteri di cui all'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali sia stato inferiore ai quindici giorni. 3. Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L'azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è liquidato nella misura prevista dal comma 2. Art. 69 comma 6 lett. b

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1

Ricorsi per inumana detenzione ex art. 35 ter l. 354/1975 e giudice civile

Le norme

Articolo 3 CEDU – Divieto della tortura.

Nessuno può essere sottoposto a tortura

né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

Art. 35-terO.P. introdotto dal decreto

legge n. 92/2014 successivamente convertito

nella l. n. 117/2014

Rimedi risarcitori conseguenti alla

violazione dell'articolo 3 della Convenzione

europea per la salvaguardia dei diritti

dell'uomo e delle libertà fondamentali nei

confronti di soggetti detenuti o internati

1. Quando il pregiudizio di cui all'articolo

69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo

di tempo non inferiore ai quindici giorni, in

condizioni di detenzione tali da violare

l'articolo 3 della Convenzione per la

salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle

libertà fondamentali, ratificata ai sensi della

legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato

dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, su

istanza presentata dal detenuto,

personalmente ovvero tramite difensore

munito di procura speciale, il magistrato di

sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento

del danno, una riduzione della pena detentiva

ancora da espiare pari, nella durata, a un

giorno per ogni dieci durante il quale il

richiedente ha subito il pregiudizio.

2. Quando il periodo di pena ancora da

espiare è tale da non consentire la detrazione

dell'intera misura percentuale di cui al

comma 1, il magistrato di sorveglianza

liquida altresì al richiedente, in relazione al

residuo periodo e a titolo di risarcimento del

danno, una somma di denaro pari a euro 8,00

per ciascuna giornata nella quale questi ha

subito il pregiudizio. Il magistrato di

sorveglianza provvede allo stesso modo nel

caso in cui il periodo di detenzione espiato in

condizioni non conformi ai criteri di cui

all'articolo 3 della Convenzione per la

salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle

libertà fondamentali sia stato inferiore ai

quindici giorni.

3. Coloro che hanno subito il pregiudizio

di cui al comma 1, in stato di custodia

cautelare in carcere non computabile nella

determinazione della pena da espiare ovvero

coloro che hanno terminato di espiare la pena

detentiva in carcere possono proporre azione,

personalmente ovvero tramite difensore

munito di procura speciale, di fronte al

tribunale del capoluogo del distretto nel cui

territorio hanno la residenza. L'azione deve

essere proposta, a pena di decadenza, entro

sei mesi dalla cessazione dello stato di

detenzione o della custodia cautelare in

carcere. Il tribunale decide in composizione

monocratica nelle forme di cui agli articoli 737

e seguenti del codice di procedura civile. Il

decreto che definisce il procedimento non è

soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è

liquidato nella misura prevista dal comma 2.

Art. 69 comma 6 lett. b

2

(Il magistrato di sorveglianza)…

provvede a norma dell'articolo 35-bis sui

reclami dei detenuti e degli internati

concernenti: … b) l'inosservanza da parte

dell'amministrazione di disposizioni previste

dalla presente legge e dal relativo regolamento,

dalla quale derivi al detenuto o all'internato un

attuale e grave pregiudizio all'esercizio dei

diritti.

Art. 2 d.l. 92/2014 Disposizioni

transitorie

1. Coloro che, alla data di entrata in

vigore del presente decreto-legge, hanno

cessato di espiare la pena detentiva o non si

trovano più in stato di custodia cautelare in

carcere, possono proporre l'azione di cui

all'articolo 35-ter, comma 3, della legge 26

luglio 1975, n. 354, entro il termine di

decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa

data. (ENTRATA IN VIGORE DEL D.L. E’ IL

28/6/2014)

2. Entro sei mesi dalla data di entrata

in vigore del presente decreto-legge, i

detenuti e gli internati che abbiano già

presentato ricorso alla Corte europea dei diritti

dell'uomo, sotto il profilo del mancato

rispetto dell'articolo 3 della Convenzione per

la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle

libertà fondamentali, ratificata ai sensi della

legge 4 agosto 1955, n. 848, possono

presentare domanda ai sensi dell'articolo 35-

ter, legge 26 luglio 1975, n. 354, qualora

non sia intervenuta una decisione sulla

ricevibilità del ricorso da parte della predetta

Corte.

3. In tale caso, la domanda deve

contenere, a pena di inammissibilità,

l'indicazione della data di presentazione del

ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.

4. La cancelleria del giudice adito

informa senza ritardo il Ministero degli affari

esteri di tutte le domande presentate ai sensi

dei commi 2 e 3, nel termine di sei mesi dalla

data di entrata in vigore del presente decreto-

legge.

3

1. La genesi delle disposizioni

1.1. L’art. 3 CEDU prevede il divieto della tortura e di trattamenti inumani o degradanti.

Tale previsione aveva assunto particolare rilevanza, in Italia, con riferimento al

trattamento penitenziario e alle condizioni delle carceri che avevano generato un rilevante

contenzioso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In questa sede appare opportuno ripercorrere solo i passaggi fondamentali di tale

contenzioso.

1.2. Con la decisione 16.7.2009, Sulemajnovic, la Corte EDU esamina in particolare

l’aspetto del sovraffollamento carcerario; un cittadino della Bosnia Erzegovin, era stato

condannato a 2 anni e 5 mesi di carcere per rapina aggravata ed altri reati; con il passaggio in

giudicato della sentenza veniva trasferito a Rebibbia dove trascorreva 4 mesi e mezzo in una

cella di 16 mq con altre cinque persone, poi trasferito in una cella più grande.Il ricorso a

Strasburgo è incentrato sull’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e

delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a non subire trattamenti

disumani e degradanti. Ad avviso del ricorrente, la vita in carcere, secondo le modalità

effettivamente applicate nella struttura carceraria di Rebibbia, costituiva una violazione del

richiamato dettato normativo. Una soluzione condivisa dalla Corte, in base a cui gli Stati

devono garantire ad ogni detenuto “condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana”,

senza causare sofferenze che superino il livello già implicito nella detenzione, considerando

altresì il benessere e la salute del detenuto. Da ciò, il Comitato per la Prevenzione della Tortura

ha determinato che ogni detenuto deve avere a sua disposizione almeno 7 mq all’interno di

una cella. Nello specifico, la raccomandazione n. 2 dell’11.01.2006 - che precisa le condizioni di

vita dei detenuti e dei locali in cui devono alloggiare - definisce che gli Stati devono comporre

le esigenze di sicurezza con la necessità che le misure siano “le meno restrittive possibili”.

Inoltre, per evitare la violazione dell’art. 3, il detenuto deve godere di alcune ore d’aria con

l’obbligo per il personale di verificarne lo stato di salute fisico-mentale. Sembrerebbe,

dall’incipit della Corte e dalla precedente giurisprudenza, che prima di dichiarare la violazione

dell’art. 3, sia necessaria una valutazione caso per caso, che tenga in considerazione la vita

complessiva del detenuto in carcere. Tuttavia, nel caso di specie, la particolare ristrettezza

dello spazio a disposizione del detenuto ha indotto la Corte ad affermare che al di là di ogni

valutazione sulle altre condizioni, si fosse verificata una violazione dell’art. 3. Ad avviso dei

giudici europei, pertanto, laddove sussiste una situazione di sovraffollamento carcerario, non è

necessario considerare altri elementi poiché, in modo quasi automatico, si può presumere che

sia stato violato il divieto di trattamenti disumani e degradanti. La posizione assunta dalla

Corte non è stata condivisa dal giudice italiano Zagrebelsky e dal giudice Jocienè, secondo i

quali non era stato violato l’art. 3 perché mancava la necessaria gravità generalmente richiesta

per ritenere sussistente la commissione di trattamenti disumani e degradanti. In effetti, la

giurisprudenza della Corte è ormai assestata, come risulta dalla prassi in materia di art.

41 bis ord. penit., nel senso di ritenere violato l’art. 3 solo se risulta sorpassata una soglia

minima di gravità. Si consideri, inoltre, che per i giudici che hanno espresso l’opinione

4

dissenziente, la soglia minima richiesta non sarebbe stata superata anche per l’età del

ricorrente e in ragione del periodo relativamente breve di detenzione.

1.3. La decisione emessa in sede europea aveva delle immediate ripercussioni nella

giurisprudenza interna; l’Ufficio di Sorveglianza di Lecce,ord. 9.6.2011, adito in sede di

reclamo dal detenutoSlimani, riconosciuta la natura di diritto soggettivo alla posizione dello

stesso, ritenuta la propria giurisdizione anche sulla tutela risarcitoria deldiritto medesimo,

accertata la violazione del diritto ad un trattamento penale effettivamente finalizzato alla

rieducazione, condannava il Ministero della Giustizia al risarcimento del danno in favore del

detenuto.

1.4. Da un punto di vista processuale, però, la decisione dell’Ufficio di Sorveglianza di

Lecce era smentita da Cass. pen. 4772/2013 (che si pronunciava sul ricorso proposto dal

detenuto Vizzari contro il diniego espresso dall’Ufficio di Sorveglianza di Catanzaro su istanza

analoga a quella del caso Slimani); la S.C. negava infatti che la Magistratura di Sorveglianza

avesse competenza esclusiva sui diritti dei detenuti e non attribuzioni specifiche legate

all'esecuzione penale. Concludeva pertanto che dovesse escludersi che alla Magistratura di

Sorveglianza fosse attribuita la competenza a pronunciarsi sulle domande di carattere

risarcitorio pur derivanti da pretese violazioni di diritti soggettivi di detenuti anche se connessi

allo stesso stato di detenzione.

Punto necessario e prioritario da cui muove la decisione della S.C. è l'argomentazione

che in materia risarcitoria ed indennitaria il sistema normativo prevede in via generale la sua

attribuzione alla giurisdizione civile. La summa divisio tra giurisdizione civile e penale è sancita

dall'art. 1 c.p.c. e dall'art. 1 c.p.p. cui corrispondono le pertinenti norme del vigente

Ordinamento Giudiziario.Da tale presupposto consegue che le attribuzioni al giudice penale di

competenze in materia risarcitoria si pongono come eccezioni a tale generale ripartizione e,

come tali, devono essere specificamente previste dalla normativa, quali si rinvengono, ad

esempio, ove il giudice penale è chiamato a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria del

danneggiato da un reato costituito parte civile (art. 74 c.p.p.) o su quella per ingiusta

detenzione (art. 314 c.p.p.) od anche per riparazione dell'errore giudiziario (art. 643 c.p.p).È

però certo che una siffatta attribuzione specifica non si riscontra nelle leggi in materia

penitenziaria che, in via testuale, non prevedono alcuna attribuzione di competenza alla

Magistratura di Sorveglianza della materia risarcitoria o indennitaria pur discendente da quegli

aspetti dell'ambito penitenziario, o più strettamente carcerario, che vengono attribuiti alla sua

specifica competenza, che è sempre legata alla giurisdizionalizzazione dell'esecuzione penale.

1.5. Poco prima, la CEDU era nuovamente tornata sull’argomento relativamente

all’Italia; con la decisione 8.1.2013 Torreggiani, investita di analoghi ricorsi, la Corte

riconosceva l’esistenza di strumenti processuali messi a disposizione dei detenuti per tutelare i

loro diritti in sede di trattamento penale ma evidenziava che essi, di fatto, fossero poco

effettivi, anche alla luce dell’accertato sovraffollamento (dal 2010, in effetti, il governo italiano,

decretato l’esistenza di uno stato d’emergenze per quanto riguarda la situazione delle carceri

aveva adottato misure d’urgenza volte alla costruzione di nuovi penitenziari (cd. "piano

carceri") e a favorire l’esecuzione delle condanne o porzioni di condanna inferiori a dodici

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mesi all’esterno degli istituti penitenziari. Soprattutto la CEDU rilevava l’assenza di strumenti

volti a ottenere la riparazione del danno esistenziale patito in ragione della permanenza in

celle sovraffollate, riconoscendo come la pronuncia dell’Ufficio di Sorveglianza di Lecce fosse

rimasta isolata.

Ciò premesso e deciso il caso singolo, la CEDU compie un passo ulteriore, cui si collega la

nascita delle nuove disposizioni; essa adotta infatti la procedura delle sentenze pilota, fondata

sull’art. 46 CEDU, comma 1, e che è attualmente disciplinata dall’art. 61 del Regolamento della

CEDU, introdotto il 21 febbraio 2011, cui si ricorre, d’ufficio o su richiesta del ricorrente,

quando il caso particolare evidenzia l’esistenza di un problema sistematico derivante da una

prassi statale incompatibile con la CEDU suscettibile di interessare un vasto numero di

persone; i giudici osservano che sono oramai svariate centinaia i ricorsi simili a quello in esame

pendenti presso la Corte, a riprova dell’esistenza in Italia di un problema strutturale o

sistemico di sovraffollamento delle carceri. La gravità del problema è testimoniata dal fatto

che, dopo la decretazione dello stato d’urgenza avvenuta nel 2010, il tasso di sovraffollamento

delle carceri italiane (rapporto tra capienza massima delle strutture e presenza effettiva) è

passato dal 151% al 148%, con un calo quindi assolutamente insufficiente. Si deve ricordare

inoltre che circa il 40% della popolazione carceraria italiana è costituita da detenuti in attesa di

giudizio.

Affermata l’esistenza di un problema strutturale, la procedura delle sentenze pilota

consente alla Corte di indicare le misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per

contrastare tale situazione incompatibile con la CEDU prevedendo, in particolare,

l’applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle

che prevedono il carcere e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere ma

soprattutto a introdurre rimedi effettivi volti a eliminare il pregiudizio o a garantirne il

risarcimento.“Quanto alla via o alle vie di ricorso interne da adottare perfar fronte al problema

sistemico riconosciuto nella presente causa, la Corte rammenta che, in materia dicondizioni

detentive, i rimedi “preventivi” e quelli “di natura “compensativa” devono coesistere in

modocomplementare. Così, quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’art. 3

della Convenzione,la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del

diritto a non subire trattamentiinumani e degradanti. Inoltre, chiunque abbia subito una

detenzione lesiva della propria dignità deve potereottenere una riparazione per la violazione

subita”.

Il dispositivo della sentenza chiede allo Stato di istituire un ricorso o un insieme di

ricorsi interni effettivi tali da garantire forme di riparazione adeguate e sufficienti nei casi di

sovraffollamento penitenziario che espongano l’individuo a trattamenti inumani. Tali misure

devono garantire il rispetto degli standard e dei principi che guidano la giurisprudenza della

CEDU (compresi quindi gli standard elaborati e raccomandati dal CPT).

1.6. Per adempiere a quanto richiesto, il governo italiano ha emanato le nuove

disposizioni, introducendo nell'ordinamento nuovi rimedi preventivi e risarcitori in favore dei

detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'art. 3 della CEDU.

6

I nuovi strumenti consistono in due autonome azioni, disciplinate, rispettivamente, agli

artt. 35-bis e 35-ter o.p., che consentono al detenuto di essere sottratto con rapidità da una

situazione che genera la violazione del suo fondamentale diritto a non subire trattamenti

inumani e al contempo di conseguire un ristoro per la violazione subita. I due rimedi non sono

alternativi tra loro e hanno presupposti in parte diversi ma tendono, nel loro insieme, a

garantire al detenuto che assuma di patire (o di aver patito) una condizione detentiva

contraria all'art. 3 Cedu, di ottenere, durante la detenzione, dal magistrato di sorveglianza

l'immediato ripristino della legalità e uno sconto di pena (nella misura di un giorno per ogni

dieci giorni di pregiudizio subito) o, in via subordinata e casi residuali, un risarcimento in forma

monetaria (nella misura di 8 euro per ogni giorno di pregiudizio patito); dopo la detenzione, già

scontata quindi la pena, una riparazione pecuniaria dal giudice civile.

1.7. Sull’intervento del legislatore si è rapidamente avuto un primo riscontro dalla CEDU,

nella decisione 16.9.2014 Stella; la Corte ha di fatto espresso un giudizio ampiamente positivo

sull’accessibilità dei ricorsi preventivi e riparatori, nonché sull’apparente effettività degli

stessi.La Corte reputa effettivo lo strumento affidato al magistrato di sorveglianza, la cui

decisione è vincolante per l’amministrazione ed è suscettibile di esecuzione forzata. Il ricorso

viene infine giudicato dalla Corte un rimedio a priori accessibile, in grado cioè di offrire alle

persone sottoposte alla giustizia delle prospettive ragionevoli di esito positivo. Analogo

giudizio (positivo con riserva) la Corte ha espresso anche in merito al ricorso risarcitorio,

constatando che si tratta di un rimedio accessibile a chiunque lamenti di essere stato detenuto

in Italia in condizioni materiali contrarie alla Convenzione.Il giudizio positivo è però espresso

con riserva perché la Corte si riserva appuntola possibilità di un eventuale riesame che

consideri anche le decisioni rese dai giudici nazionali e l’effettiva loro esecuzione.

Più in particolare, per quanto riguarda le caratteristiche della riparazione, la Corte

ritiene soddisfacente ed appropriata anche nel quantum la riparazione tramite riduzione di

pena, che presenta l’innegabile ulteriore vantaggio di contribuire a risolvere il problema del

sovraffollamento accelerando l’uscita dal carcere delle persone detenute; mentre in relazione

alla compensazione pecuniaria, pur rilevando che la somma fissata dal legislatore italiano si

pone al di sotto dei parametri della "Torreggiani", valuta la stessa ugualmente in termini

positivi, osservando che, “quando uno Stato ha fatto un passo significativo introducendo un

ricorso risarcitorio per porre rimedio a una violazione della Convenzione, essa deve lasciargli un

più ampio margine di apprezzamento affinché lo Stato possa predisporre tale ricorso interno in

maniera coerente con il proprio sistema giuridico e le sue tradizioni, conformemente al livello di

vita del paese. In tali situazioni, segnate da una gran mole di ricorsi, la Corte ha ritenuto non

irragionevole la previsione di somme, che, pur essendo inferiori a quelle fissate dalla Corte

medesima, costituiscano comunque una risposta rapida e celere nella sua esecuzione dello

Stato convenuto ai numerosi ricorsi intentati nei suoi confronti”.

1.8. Tali passaggi rendono peraltro evidente che l’effettiva e definitiva soluzione del

problema sovraffollamento, anche in sede CEDU, non è arrivata ma dipende anche dalla

concreta operatività dei rimedi, sia preventivi che compensativi, introdotti e quindi dal modo

in cui si orienteranno i giudici nella loro applicazione.; il che non pare affatto scontato.

7

Le disposizioni che riguardano in particolare il giudice civile (già di per sé chiamato a

“maneggiare” una materia tradizionalmente lontana dal suo strumentario sostanziale e

processuale) creano infatti nell’interprete molti dubbi; dal punto di vista del diritto sostanziale,

il giudice è chiamato a valutare il carattere risarcitorio o meramente indennitario dello

strumento introdotto, poi a dover qualificare l’illecito e la natura della responsabilità con tutte

le conseguenze in tema di onere della prova e prescrizione; inoltre non sono chiari gli effettivi

ambiti di competenza del giudice civile rispetto al magistrato di sorveglianza in numerosi casi

di non irrilevante portata; dal punto di vista processuale, il richiamo al rito camerale e la

genericità di taluni passaggi normativi danno spazio a divergenti interpretazioni.

Ed infatti, nel panorama della prime pronunce edite, sono presenti quasi tutte le opzioni

interpretative possibili.

La genesi delle nuove disposizioni e le considerazioni della sentenza Stella possono

costituire una utile chiave di lettura e interpretazione delle stesse, inducendo a preferire, tra le

varie possibili,l’interpretazione che maggiormente sia in linea con la finalità dell’intervento

normativo, evitando (per quanto possibile) soluzioni meramente processuali e interpretazioni

eccessivamente formalistiche.

1.9. La considerazione preliminare da fare è fondamentale e riguarda il dubbio se le

nuove norme abbiano introdotto un procedimento che è volto a riconoscere un mero

indennizzo o un vero e proprio risarcimento.

La lettera della legge (che parla di “strumenti risarcitori”, “risarcimento del danno”)

sembra deporre inequivocabilmente nel senso della natura risarcitoria dell’istituto in

questione. Il dato appare dirimente anche perché occorre considerare che nella vicenda, per

molti versi analoga, della cd. legge Pinto (ove pure occorreva introdurre uno strumento

interno, celere ed efficace, volto a tutelare il diritto, di derivazione CEDU, alla durata

ragionevole del processo), il legislatore non aveva usato la stessa terminologia.

In tal senso si è espressa tutta la giurisprudenza dei tribunali ordinari edita che

esplicitamente o implicitamente fa riferimento sempre al risarcimento dei danni (Trib. Palermo

1.6.2015; Trib. Roma 30.5.2015).

La tesi diversa, della natura meramente indennitaria, è stata però pure prospettata in

dottrina (Braccialini, Art. 35 ter c. 3 ordinamento penitenziario, Risarcimento o tassa fissa?, in

Questione Giustizia) che ha evidenziato come tale diversa impostazione porterebbe a

configurare il decreto che conclude il procedimento come atto che non determina un giudicato

e costituisce un mero indennizzo anticipatorio; ciò, pur con delle difficoltà, ovvierebbeal

problema della costituzionalità del valore giornaliero fisso, quasi che con il D.L. 92/2014 si

pagasse un acconto risarcitorio standardizzato.

2. Le questioni sostanziali

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2.1. Una delle prime questioni che si è posta è quella se le disposizioni in parola creino

un nuovo illecito o solo un nuovo strumento processuale.

L’opinione largamente prevalente è che si tratti di un illecito preesistente nel sistema,

trattandosi di violazione del diritto ad una detenzione conforme all’art. 3 CEDU; deporrebbe in

tal senso Cass. 4772/2013, sopra ricordata, che nel negare l’ammissibilità della tutela

risarcitoria davanti al magistrato di sorveglianza aveva evidenziato che il diritto al trattamento

penitenziario conforme all’art. 3 CEDU potesse essere fatto valere, de iure condito, davanti al

giudice civile (così Trib. Roma 30.5.2015, Trib. Napoli 7.8.2015).

Del resto, appare difficile pensare che prima di tali disposizioni la detenzione in carcere

potesse lecitamente assumere caratteri tali da configurare trattamento inumano.

2.2. Quanto alla natura della responsabilità sono state avanzate diverse tesi.

La questione appare evidentemente rilevante in termini di ripartizione dell’onere della

prova e di individuazione del termine di prescrizione, anche se forse meno di quanto si possa

ritenere a prima vista.

Riconducono la responsabilità in questione alla previsione dell’art. 2043 c.c.la maggior

parte delle decisioni dei giudici civili: vedi per es. Trib. Torino 6.5.2015; Trib. Roma 30.5.2015;

Trib. Catania 15.6.2015; in alcune di tali decisioni non vi sono particolari approfondimenti sul

punto della natura della responsabilità dell’amministrazione e la qualificazione della stessa

come aquiliana è data per scontata o implicita allorquando si determina in cinque anni il

termine di prescrizione applicabile.

Opta per la responsabilità ex art. 2051 c.c.Trib. Palermo 25.3.2015 (adito però ex art.

702 bis c.p.c. prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni); tale decisione riconduce la

domanda di danni originati dalle carenze di carattere strutturale attinenti alle condizioni delle

celle all’interno della casa di detenzione alla responsabilità da cosa in custodia che sancisce la

responsabilità del soggetto che eserciti sulla cosa un effettivo potere fisico tale da implicare il

governo, l’uso e il potere di escludere i terzi dal contatto con essa, imputando i rischi inerenti

alla cosa al suo custode che ne controlli le modalità di uso; la conseguenza è che spetterebbe a

chi agisce dimostrare che l’evento si è prodotto come conseguenza della particolare

condizione lesiva della cosa e la prova liberatoria consiste nel caso fortuito (ma l’affermazione

è poi in concreto mitigata dal riferimento alla non contestazione e ai criteri di riparto

dell’onere della prova in casi di differente posizione tra e parti processuali).

Altre decisioni sono invece nel senso della responsabilità contrattuale o da contatto

sociale; in tal senso Trib. Palermo, 1.6.2015; Trib. Napoli, 7.8.2015 (nel novero delle varie

decisioni dei magistrati di sorveglianza si era orientata in tal senso anche la citata Uff. Sorv.

Lecce, ord. 9.6.2011).

È noto che secondo l’orientamento della S.C. quando l’ordinamento impone a

determinati soggetti in ragione dell’attività o funzione esercitata e della professionalità

richiesta a tal fine di tenere in determinate situazioni specifici comportamenti, ai sensi dell’art.

9

1173 c.c., sorge in favore dei soggetti che si trovano nelle predeterminate situazioni e che

entrano in contatto con l’attività di quel soggetto, uno specifico diritto di credito alla

prestazione di facere contemplata e agli annessi obblighi di protezione, cui fa da contraltare

una correlativa obbligazione, dire che in tali situazioni la responsabilità da inadempimento

deriva dal mero contatto serve solo a differenziare tali casi da quelli in cui la responsabilità

civile deriva da violazione di norme di fonte propriamente negoziale. Tale principio costituisce

iusreceptum della giurisprudenza di legittimità che ha ravvisato la sussistenza della

responsabilità in esame in una varietà di casi accomunati dalla violazione di obblighi di

comportamento preesistenti alla condotta lesiva posti dall’ordinamento a carico di determinati

soggetti. Simili situazioni sono state per lo più ravvisate nell’ambito dell’esercizio delle attività

professionali protette cioè riservate dalla legge a determinati soggetti previa verifica della loro

specifica idoneità quali quelle del medico ospedaliero, del mediatore o dell’avvocato ma anche

del banchiere.

A fondare la tesi della responsabilità contrattuale o da contatto sociale sono quindi

richiamati:

- l’art. 6 della l. 354/1975 che prevede che i locali dove si svolge la vita dei

detenuti e degli internati debbano essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce

naturale e artificiale, aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigano, dotati di

servizi igienici adeguati;

- gli artt. 7 e 8 del d.p.r. 230/2000 che prevedono poi che i locali dove si svolge

le finestre debbano consentire il passaggio di luce ed aria, non siano ammesse

schermature delle finestre se non in casi particolari e i servizi igienici debbano essere

in vani annessi alla camera di detenzione.

Esistono quindi specifiche disposizioni di diritto positivo che impongono

all’amministrazione penitenziaria di tenere specifiche condotte di facere allorquando entra in

contatto con una persona in qualità di detenuta o internata.

In realtà la differenza tra le diverse tesi poggia tutta sull’interpretazione del valore delle

norme di legge e regolamento penitenziario che definiscono le caratteristiche delle strutture

carcerarie e le prestazioni assistenziali rieducative sanitarie da erogare al detenuto; tali norme

o sono considerate il parametro di valutazione di una colpa specificaderivante da violazione di

legge o regolamento (responsabilità ex 2043 c.c.) oppure, per chi valorizza la relazione che si

instaura tra amministrazione e persona detenuta, quelle norme stabiliscono confini di una vera

e propria obbligazione cui corrisponde uno specifico diritto di credito in capo alla persona

detenuta.

A sostegno della tesi della responsabilità da contatto sociale potrebbero deporre le

seguenti ulteriori circostanze e considerazioni:

- il dato letterale; che gli interessi del detenuto possano assumere valenza di

veri e propri diritti sembrerebbe confermato dallo stesso art. 35 ter comma 1 che

richiama il pregiudizio di cui all’art. 69 comma 6 lett. b dell’ordinamento penitenziario,

il quale concerne l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni previste

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della legge e dal regolamento che determinino pregiudizio all’esercizio dei “diritti”; in

altri termini esso individua e qualifica le posizioni giuridiche del detenuto quali veri e

proprio “diritti” voti ad esigere una determinata prestazioni prevista dall’ordinamento

penitenziario medesimo, cui deve fare quindi da contraltare una specifica

obbligazione;

- non pare particolarmente rilevante la circostanza che le norme in parola non

prevedano precisamente l’ampiezza del locale in quanto la specificità della

disposizione non appare intaccata;

- pur nella consapevolezza dell’ampio dibattito in tema di valenza delle norme di

ordinamento penitenziario, l’opzione che dallo stesso derivino in capo ai detenuti dei

veri e propri diritti appare preferibile anche in termini di interpretazione

costituzionalmente orientata; il rischio che, trattandosi di diritti, ogni violazione di

norma penitenziaria sia suscettibile di generare una pretesa risarcitoria appare del

tutto evitabile ove si consideri che, in materia di danno non patrimoniale, occorre che

per accedere al risarcimento, sia superata una certa soglia di gravità del danno stesso

(il risarcimento mediato dal filtro della gravità della lesione era peraltro proprio del

parere di minoranza del giudice Zagrebelsky nella sentenza Torreggiani e potrebbe

essere un utile criterio di valutazione dei requisiti dell’illecito, come dopo si vedrà).

2.3. Occorre a questo punto esaminare quali siano irequisiti per l’accoglimento della

domanda e cioè quando è possibile parlare di detenzione in condizioni inumane contrarie

all’art. 3 CEDU.

Sul punto in tutte le decisioni dei giudici civili edite viene accolta l’idea di fondo

emergente dalla prevalente giurisprudenza CEDU secondo cui occorre distinguere tra le ipotesi

di:

- grave sovraffollamento: sono i casi di ampiezza della cella e spazio vitale a

disposizione del ricorrente inferiore a 3 mq.;

- sovraffollamento non così serio da sollevare - da solo - un problema ex art.3

CEDU; si tratta dei casi di spazio disponibile tra i 3 e i 4 mq; in tali casi occorre guardare

anche ad altri elementi quali possono essere possibilità di uso dei servizi igienici in

modo riservato, aerazione disponibile, esistenza e qualità del riscaldamento,

limitazione delle passeggiate all’esterno.

La questione del sovraffollamento viene quindi sostanzialmente ricondotta alla

questione dello spazio a disposizione di ciascun detenuto; esso può divenire elemento da solo

sufficiente ad accertareil mancato rispetto dell’art. 3 CEDU, quando sia inferiore o uguale a 3

mq. per ciascun detenuto all’interno di celle destinate a più persone (Makarov c/Russia n.

15217/07; Lind c/Russia n. 25664/05; Kantyrev c/Russia n. 37213/02; Labzov c/Russia n.

62208/00; così anche Torreggiani e altri c/Italia n. 43517/09). In altri termini, in situazioni di

grave sovraffollamento, individuabile nei casi in cui lo spazio disponibile sia inferiore ai 3 mq.,

la detenzione è considerata di per sé contraria all’art. 3 CEDU. Sempre dalla predetta

giurisprudenza emerge poi che ove il detenuto abbia a disposizione uno spazio tra i 3 e i 4 mq.,

per aversi violazione dell’art. 3 CEDU, occorre la verifica di ulteriori elementi. In particolare, i

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Giudici di Strasburgo hanno preso in considerazione altri elementi concorrenti all’assenza di

spazi adeguati, per valutare se il trattamento è in concreto inumano e degradante. Ad

esempio, parametri concorrenti sono un accesso insufficiente alla luce e all’aria naturali, le

condizioni igieniche precarie, il calore eccessivo associato a mancanza di ventilazione, il rischio

concreto di propagazione di malattie, l’assenza di acqua potabile o corrente, la condivisione di

letti da parte dei detenuti, la passeggiata di brevissima durata, una o due ore al giorno, il fatto

che i servizi igienici si trovano nella cella e sono visibili, l’assenza di cure adeguate per

patologie di un ricorrente (per es. Moisseiev c/ Russia n. 62936/00; IstvanGkborKovcs c.

Ungheria n. 15707/10).

Quest’assunto di fondo è sostanzialmente recepito espressamente da tutte le decisioni

dei tribunali civili a vario titolo sopra riportate.

Ma a ben vedere la semplificazione dei presupposti per poter riscontrare una violazione

dell’art. 3 è solo apparente perché vi è poi un’ estrema varietà di tesi sucome si calcoli lo

spazio.

Rispecchiando le divisioni esistenti in dottrina e nella magistratura di sorveglianza (sulle

quali divisioni v. Albano, Picozzi, Contrasti giurisprudenziali in materia di (misurazione dello)

spazio detentivo minimo: lo stato dell’arte, in Arch. Penale 2015, n. 1) anche i giudici civili

hanno avanzato plurime tesi, riconducibili alle seguenti opzioni, per le quali lo spazio va

calcolato:

o al lordo della mobilia;

o al netto della mobilia: è la tesi dello spazio “calpestabile” per

cui occorre scomputare dalla superficie lorda tutto lo spazio occupato da ogni

mobile, sia esso letto, armadio fisso, tavolo o sgabello, in quanto la natura

fondamentale dei diritti in questione non lascia adito alla possibilità che la già

angusta misura dei 3 mq. sia ulteriormente ridotta; in tal senso, Trib.

Venezia20.3.2015 che richiama peraltro anche a sostegno la sentenza CEDU

Modarcac. Moldova del 10.5.2007 n. 294 nonché la recente 12.3.2015 Mursic

c. Croazia, su cui vedi dopo;

o escludendo lo spazio occupato dall’armadio ma non dai mobili

quali tavoli e sgabelli e non dai letti: spazio “vivibile”; in tal sensoTrib. Genova

3.6.2015 (che evidenzia che nello spazio vivibile si debba eliminare lo spazio

occupato dall’armadio e dagli arredi fissi mentre non si deve tenere conto di

sedie, tavolo, sgabelli perché utilizzabili per lo svolgimento delle attività

quotidiane e nemmeno del letto, arredo che è fruibile come seduta e quale

sede di svolgimento di attività quotidiane anche diurne); escludono lo spazio

dell’armadio anche Trib. Palermo 6.5.2015, Trib. Roma30.5.2015;

o escludendo lo spazio del letto: Trib. Napoli 7.8.2015, sul rilievo

che il letto individuale è il mobile sicuramente previsto dalla normativa e dalla

giurisprudenza CEDUper es. Ananyev c./ Russia 10.1.2012;

o al netto del bagno (vedi Trib. Palermo 25.3.2015; Trib. Roma

30.5.2015; Trib. Genova, 3.6.2015;; Trib. Napoli, 7.8.2015); sul punto si

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evidenzia come se la presenza di un bagno sia un fattore positivo di cui tenere

conto ai fini della valutazione delle condizioni detentive è anche vero che la

superficie di tale locale nonpuò computarsi, per la sua specifica destinazione,

nella quantità di spazio vitale assegnato a ciascun detenuto, spesso è citata a

sostegno di tale conclusione la sentenza Sulejmanovic; del resto è la stessa

disposizione dell’art. 8 d.p.r. 230/2000, in seguito indicata, a prevedere che il

vano adibito a bagno sia diverso ma annesso alla camera. Tale conclusione è

ampiamente maggioritaria ma non univoca, in senso contrario si esprime

infatti Trib. Palermo 6.5.2015;

o al lordo del bagno; in tal senso appunto Trib. Palermo

6.5.2015.

La varietà delle soluzioni dipende anche dall’assenza di sicuri riferimenti provenienti da

Corte europea e di legittimità.

Le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza CEDU non appaiono univoche anche in

considerazione della natura particolare delle relative decisioni, legate sempre al caso concreto;

inoltre in numerosi casi le decisioni si fondano sulla natura delle informazioni fornite dal

ricorrente e dall’Amministrazione non assumendo significato di criterio di computo, per

es.nella decisione Tellissic. Italia del 5.3.2013 la Corte argomenta sulla contestata violazione

dell’art. 3 dando per buoni i dati forniti dalla seconda e non contestati dal ricorrente.

Neanche decisivi appaiono gli arresti della giurisprudenza di legittimità; Cass. 5728/2014

viene spesso citata dai giudici civili a fondamento della tesi per cui occorrerebbe scomputare

dalla superficie lorda della cella lo spazio occupato dal mobilio; ma la S.C. sembra limitarsi a

ritenere non irragionevole tale valutazione di merito effettuata dal magistrato di sorveglianza.

Né risolutivi appaiono alcuni “paradossi” evidenziati dai primi commentatori; per es. le

tesi favorevoli ad escludere il mobilio dal calcolo dello spazio utile evidenziano il rischio che,

diversamente opinando, la detenzione si rivelerebbe legittima ove svolta in una camera molto

ampia ma talmente ingombra di mobili da rendere impossibile il passaggio; tale circostanza

però appare di difficilissima verificazione; ben maggiore, a ragionar per paradossi, appare

invece il rischio che, ad accedere a tale impostazione, si possa verificare l’opposta conseguenza

di ritenere legittima la detenzione in una camera con 3 mq. di spazio netto per ciascun

detenuto ma priva del tutto di mobili.

In realtà il problema del giudice civile, ancorato alle prove offerte dalle parti e privo di

un contatto diretto e dei poteri propri del magistrato di sorveglianza, è anche quello di prova

relativamente all’esistenza effettiva di tali elementi di arredo, per cui potrebbe essere di

agevole applicazione un criterio che tenga conto solo dei mobili che necessariamente devono

esserci all’interno della cella.

Infine occorre segnalare che l’impostazione “spaziocentrica” finora citata, come detto

maggioritaria, non è l’unica; una parte della dottrina (vedi per es. Ciuffoletti, Mariotti,

Integralità e personalizzazione del risarcimento del danno da detenzione inumana, in

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Questione Giustizia online, 2015, ma anche Albano, Picozzi cit.), è infatti aspramente critica nei

confronti di tale visione.

Un punto in questa direzione potrebbe essere offerto dalla sentenza Mursicsopra citata

che sembra scindere la valutazione in merito al livello minimo di gravità delle condizioni

detentive dal mero dato dello spazio personale disponibile rigettando il ricorso di un detenuto

che aveva a disposizione meno di 3 mq. Nel tentativo di mettere ordine nella questione, il

giudice europeo indica i tre cardini entro cui deve muoversi il giudizio in merito alla violazione

dell’art. 3 della Convenzione; in particolare, infatti, gli stati devono assicurare che le condizioni

detentive siano compatibili con il rispetto della dignità umana, che i modi e i metodi di

esecuzione della misura non sottopongano il soggetto a una afflizione o a una prova di

intensità tale da eccedere il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e, con

riguardo alle esigenze pratiche dell’incarceramento, devono assicurare in maniera adeguata la

salute e il benessere del detenuto. Relativamente al giudizio sulle condizioni detentive, inoltre,

si afferma il valore dell’ “effetto cumulativo” di queste tre componenti, cui si aggiunge, come

quarto elemento di valutazione necessitata, il tempo di protrazione della specifica situazione

detentiva. Infine si ricorda come il mero dato spaziale debba essere considerato come una

forte presunzione di violazione, secondo il ragionamento della Corte nel casoAnanyev, che

individua, tra l’altro tre standard probatori rilevanti nei casi in cui la violazione dell’art. 3

discenda da una mancanza palese insufficienza di spazio personale disponibile. Prescindendo,

quindi, da qualsiasi automatismo, la Corte in Ananyev afferma che il parametro spaziale, lungi

da rappresentare elemento autonomo e automatico di giudizio, deve essere letto alla luce di

tre prospettive: ogni detenuto deve avere a disposizione un posto letto individuale, deve avere

a disposizione almeno 3 m2di superficie calpestabile (calpestabile, detratto quindi il mobilio

fisso, tra cui rientrano, senz’altro, il letto, gli armadi e gli ingombri) e la superficie stessa della

cella deve essere tale da assicurare alla persona ristretta di muoversi liberamente tra gli arredi.

L’assenza di uno qualunque di questi elementi crea una “forte presunzione” di violazione

dell’art. 3 della Convenzione; trattandosi di presunzione, però, essa potrebbe essere superata

alla luce di una valutazione di tutti gli elementi concreti. Si prescinde, così, da ogni

automatismo spazio-centrico nella valutazione della potenziale violazione dell’art. 3 della

Convenzione.

2.4. Il quantum del risarcimento è previsto direttamente dalla legge: 8 euro per ogni

giorno di detenzione inumana.

Premesso che si tratta di danno non patrimoniale (così espressamente Trib. Palermo

25.3.2015), il giudice è quindi chiamato a individuare il numero dei giorni in cui la detenzione è

stata non conforme ai canoni di cui all’art. 3 CEDU.

La dottrina (Gori, Art. 3 Cedu e risarcimento da inumana detenzione, in Questione

Giustizia online, 2015), ha evidenziato come il legislatore ha previsto di risarcire il danno per

un giorno di inumana detenzione con un valore rigidamente quantificato in 8,00 euro, molto

più basso del primo punto di invalidità previsto per le micro-permanenti, ed aggiornato al 5

luglio 2014 in euro 795,91. Non solo, come evidenziato già dai primi commentatori del d.l., è

un valore anche molto inferiore al tasso di conversione delle pene pecuniarie in sanzioni

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sostitutive ex art. 102 l. 24 novembre 1981 n. 689, come interpretato dalla sentenza della

Corte costituzionale 12 gennaio 2012 n. 1, pari a 250,00 euro, ed è pure inferiore alla stessa

liquidazione dell'indennizzo – e non risarcimento – operata dalla Corte EDU nel

caso Torreggiani sulla base di un valore superiore a 20,00 euro al giorno. Sono tutti parametri

che inducono ad interrogarsi sulla ragionevolezza della quantificazione operata dal legislatore,

considerato anche che si tratta di danno alla persona in casi di accertata violazione dei diritti

dell'uomo protetti dalla CEDU (in tal senso vedi anche Braccialini, Art. 35 ter o.p.: risarcimento

o tassa fissa?, in Questione giustizia online, 2015).

Non risultano note allo stato questioni di legittimità costituzionale che del resto

parrebbero possibili solo ove nel ricorso si chiedesse una somma diversa da quella

predeterminata dal legislatore.

Sulla questione del risarcimento per equivalente, infine, occorre però rammentare che

la CEDU, nella citata sentenza Stella, afferma la necessità di lasciare agli stati, che decidono di

introdurre una misura risarcitoria espressa per violazioni relative a norme della CEDU, il più

ampio margine di apprezzamento, al fine di organizzare tale misura in maniera coerente

rispetto al proprio sistema giuridico e alle proprie tradizioni e in conformità rispetto al tenore

di vita del paese. La Corte accetta, quindi, la congruità della somma stabilita dal legislatore

italiano nella misura di 8 euro per ogni giorno passato in condizioni tali da integrare una

violazione dell’art. 3 della Convenzione; somma che, pur integrando un quantum risarcitorio

inferiore alla media prevista e accordata dalla giurisprudenza della Corte, non appare, a

giudizio della Corte di Strasburgo, irragionevole.

2.5. L’oggetto del processo è spesso ampliato dalla proposizione di due eccezioni da

parte dell’amministrazione, prescrizione e compensazione.

Quanto alla prima, occorre evidenziare che la stessa deve sempre essere eccepita dalla

parte e non dovrebbe essere rilevabile di ufficio.

Quanto all’individuazione del termine diprescrizione, in primo luogo tutte le decisioni

dei giudici civili sopra indicate ritengono che ila legge in esame non abbia introdotto un nuovo

diritto ma solo uno specifico strumento processuale, circostanza per la quale non è dalla

entrata in vigore della legge che inizia a decorrere il termine di prescrizione del diritto.

Quanto al dies a quo del termine di prescrizione, l’opinione prevalente è relativa

all’applicazione dell’art. 2947 c.c. nel senso di far decorrere la prescrizione giorno per giorno a

ritroso, partendo dalla data di proposizione della domanda; occorre segnalare peraltro che

l’Amministrazione talvolta ha fatto riferimento anche al momento dell’uscita dal carcere o alla

fine di ciascun periodo di detenzione presso ciascun carcere o presso ciascuna cella. Il

riferimento ad ogni singolo giorno pare maggiormente conforme alla stessa legge che ha

individuato nell’unità di tempo “giorno” anche il criterio di calcolo del danno.

Quanto all’individuazione del termine, in linea di prima approssimazioneessa dipende

dalla tesi adottata in merito alla natura della responsabilità; ove si opti per la responsabilità

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extracontrattuale, il termine è di cinque anni, ove si opti per la responsabilità contrattualesarà

di dieci anni.

Pertanto sul punto le decisioni dei giudici civili rispecchiano esattamente la differenza di

posizioni esistenti in merito alla natura della responsabilità.

In realtà è stata avanzata anche una tesi del tutto diversa (Trib. Lanciano, e sul punto

analogo è anche il parere dell’Ufficio Studi del CSM sulla legge in questione) per cui

occorrerebbe in questa sede riprendere l’orientamento espresso da Cass., Sez. Un., 2.10.2012,

n. 16783, in tema di irragionevole durata del giudizio, per cui il termine di prescrizione inizia a

decorrere solo impedita la fattispecie decadenziale; in altri termini, ove la legge prevede un

termine di decadenza per far valere un diritto, e il fatto che determina l’impedimento della

decadenza coincida con quello interruttivo della prescrizione, esso esclude che possa

decorrere anche il termine di prescrizione.

L’Avvocatura dello Stato spesso propone poi un’eccezione di compensazione, riferita sia

alla pena pecuniaria eventualmente irrogata al condannato che al credito per le spese di

mantenimento in carcere.

Fermo restando che dell’esistenza derivanti dalle stesse dovrà essere offerta prova, con

riferimento alla pena pecuniaria sono possibili due ordini di considerazioni; da un lato, la pena

pecuniaria è un credito certo, liquido ed esigibile e che non rientra nei casi dell’art. 1246 c.c.;

dall’altro essa, in quanto pena, non sembra disponibile da parte dello Stato che non può

rinunciare alla sua esecuzione, eventualmente chiedendo, in caso di insolvenza, il PM al

magistrato di sorveglianza la conversione in sanzioni sostitutive.

Non vi dovrebbero invece essere ostacoli particolari in relazione al debito per spese di

detenzione.

Ha accolto l’eccezione di compensazione Trib. Brescia 9.6.2015, sull’assunto che l’art. 69

r.d. 2440/1929 in tema di fermo amministrativo prevede in generale il potere

dell’amministrazione di sospendere i pagamenti nei confronti del soggetto verso cui vanti

ragioni di credito.

3. I profili processuali

3.1. Il procedimento civile introdotto dal legislatore prevede il rito camerale;

probabilmente l’esigenza è quella di consentire l’utilizzazione di uno strumento processuale

agile ed effettivo, in linea con l’ esigenza segnalata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani che

assegnava termine all’Italia per adottare un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi

idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario,

in conformità con i principi della Convenzione come interpretati dalla giurisprudenza della

Corte.

16

Si tratta però di un procedimento camerale che non ha ad oggetto affari di volontaria

giurisdizione ma diritti soggettivi, rientrante quindi nel fenomeno della tutela camerale dei

diritti, ben noto (ma non sempre ben visto) alla dottrina processualcivilistica, il che rende

necessario, ove esistano lacune da colmare, fare riferimento alle elaborazioni giurisprudenziali

riguardanti tali situazioni.Il procedimento in camera di consiglio dell’art. 737 c.p.c., è stato

definito dai primi commentatori (Braccialini, Art. 35 ter o.p.: risarcimento o tassa fissa?, in

Questione giustizia online, 2015)lo “schema più etereo, il rito più evanescente che sia mai

stato concepito, il quale è arrivato fino ad oggi solo grazie alle robuste iniezioni ortopediche

che ha apportato la giurisprudenza su uno schema di base, che era pensato per la giurisdizione

volontaria (amministrazione di diritti), ma che con il tempo si è venuto colorando - in certi

settori e materie - di fogge contenziose”.

E’ evidente la totale controtendenza rispetto agli interventi normativi, anche recenti,

finalizzati ad eliminare il ricorso al rito camerale ove la controversia verta su diritti; viene

immediato il riferimento al d.lgs. 150/2011 che, nel dichiarato intento della cd. semplificazione

dei riti, ha eliminato numerosi casi di procedimento camerale riconducendo determinate

materia al rito ordinario (è il caso, per es., della domanda di attribuzione del sesso anagrafico

dopo l’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali) o al rito sommario di

cognizione (è il caso dei procedimenti in materia di protezione interazionale e di immigrazione)

o al rito del lavoro. Tendenza peraltro presente anche nella giurisprudenza di legittimità (vedi

per esempio il dichiarato sfavore per il rito camerale nelle decisioni sulle controversie in

materia di apolidia).

Se si parte dalla considerazione che la scelta legislativa di adottare il rito camerale sia

consapevole e quindi non neutra, ne derivano peraltro diverse conseguenze, come

successivamente si vedrà.

3.2. Quanto alla competenza, la norma prevede che sia competente il Tribunale del

capoluogo del distretto ove si trova la residenza del ricorrente; non è quindi rilevante ove la

pena inumana sia stata scontata ma unicamente la residenza del ricorrente al momento del

ricorso; trattandosi di procedimento camerale l’incompetenza è rilevabile anche di ufficio in

base alla formulazione dell’art. 28 c.p.c.

3.3. La legittimazione attiva(intesa in senso improprio) spetta alle persone che abbiano

subito una detenzione inumana,non importa sea titolo definitivoo non definitivo; ciò che rileva

nel primo caso (pena detentiva a titolo definitivo) è che essa sia cessata; nel secondo caso

(custodia cautelare) che essa non sia convertibile in pena espiata (quindi in buona sostanza che

la persona che abbia sofferto la custodia cautelare in condizioni inumane non sia poi stata

condannata).

Ciò in realtà pone diverse questioni, ove si intrecciano diritto sostanziale e competenza.

3.4. Il primo caso è relativo alle persone (ancora) attualmente detenute per pregiudizi

però non più attuali, cioè subiti in precedenti detenzioni “non conformi all’art. 3 CEDU”; in

questo caso si pone il dubbio se sia competente il Tribunale civile, con ammissibilità del solo

rimedio risarcitorio, o il Magistrato di sorveglianza; il quale quindi, se competente, può anche

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concedere uno sconto di pena sull’attuale detenzione. La questione deve essere letta

ovviamente non tanto con riferimento alla competenza ma soprattutto con riguardo al merito

della tutela cui abbia diritto la persona che si trovi in siffatte condizioni; cioè colui che sia

ancora detenuto, ma non più in condizioni inumane, ha diritto alla tutela preventiva (sconto di

pena, sulla pena attuale benché ora conforme all’art. 3 Cedu) o alla sola tutela risarcitoria?

La soluzione dipende dall’interpretazione della nozione di ”attualità del pregiudizio”,

prevista dall’art. 69 comma 6 lett. bche prevede che“il magistrato di sorveglianza… provvede a

norma dell'articolo 35-bis sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti: … b)

l'inosservanza da parte dell'amministrazione di disposizioni previste dalla presente legge e dal

relativo regolamento, dalla quale derivi al detenuto o all'internato un attuale e grave

pregiudizio all'esercizio dei diritti”.

Sul punto esiste un vivace contrasto tra i magistrati di sorveglianza (divisi tra i sostenitori

della tesi cd. attualista e non attualista), la cui interpretazione determinerà anche la concreta

proposizione o meno del ricorso al giudice civile; è infatti ragionevole pensare che colui che sia

tuttora detenuto “preferisca” ottenere lo sconto di pena anziché la tutela per equivalente, ove

il magistrato di sorveglianza si ritenga competente; in tali casi quindi non vi sarà alcuno spazio

per la tutela risarcitoria davanti al giudice civile. Tra coloro che sostengono la tesi attualista,

peraltro, prevale l’opinione che l’attualità del pregiudizio debba esistere non solo al momento

della domanda ma anche al momento della decisione.

Non è questa la sede per ripercorrere le tappe di tale dibattito, molto acceso.

La tesi non attualista appare probabilmente preferibile, per ragioni sistematiche,

letterali e logiche; quanto alle prime, essa sembra meglio rispondere alla ratio delle nuove

disposizioni tendente a ridurre il sovraffollamento e a privilegiare la tutela risarcitoria in forma

specifica; concedere ulteriori riduzioni di pena infatti contribuisce. Quanto alle seconde,

occorre osservare che la conseguenza della tesi attualista (cioè per cui occorre che il

pregiudizio sia ancora in essere per accedere al magistrato di sorveglianza) dovrebbe essere

quella di rendere possibile per tali persone, ancora detenute, di adire il giudice civile; ma ciò è

espressamente escluso dal comma 3 che prevede che per adire il giudice civile occorre che il

ricorrente abbia terminato di espiare la pena in carcere a meno di non ritenere, appunto, che

questi debba prima aspettare di terminare la detenzione e poi agire. Altro elemento letterale

è dato dal fatto che anche il comma 3 richiama l’art. 69 e quindi l’attualità del pregiudizio, per

cui i due richiami in realtà si eliderebbero a vicenda e le norme non avrebbero senso. Infine

sembra di ostacolo alla tesi attualista, soprattutto nella sua versione più restrittiva per cui

l’attualità occorre anche al momento della decisione, l’idea che così facendo si attribuirebbe

ad una delle parti il potere di vanificare l’altrui iniziativa giudiziaria semplicemente spostandolo

in altro istituto o comunque eliminando le condizioni disumane nel corso del processo.

3.5. L’altra questione che concretamente si è posta in diversi ricorsi concerne il caso di

persone che, dopo la detenzione in carcere, siano state ammesse amisure alternative alla

detenzione che siano ancora in corso; anche in questo caso si pone il dubbio di quale sia la

tutela cui abbiano diritto e quale il giudice da adire (giudice civile o ancora magistrato di

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sorveglianza, connessione con la questione dell’attualità del pregiudizio); l’Avvocatura dello

Stato, adita davanti al giudice civile, ha in questi casi eccepito l’ inammissibilità del ricorso per

avere diritto il detenuto allo sconto di pena, in quanto pur non trattandosi di detenzione

sarebbe ancora pena in espiazione. L’Amministrazione ritiene cioè che in tali casi trattandosi

ancora di pena in fase esecutiva il soggetto abbia diritto allo sconto di pena e quindi debba

rivolgere la sua istanza al magistrato di sorveglianza.La soluzione della questione dipende in

primo luogo dalla nozione di “attualità del pregiudizio” sopra evidenziata. E’ evidente infatti

che se si ritiene che il presupposto per adire il magistrato di sorveglianza sia l’attualità della

detenzione non conforme ai canoni dell’art. 3 CEDU,la persona ammessa alla misura

alternativa ha diritto solo alla tutela risarcitoria.Ove si ritenga diversamente, si apre però una

questione ulteriore e in parte diversa relativa al tipo di tutela risarcitoria (in forma specifica,

davanti al magistrato di sorveglianza, o per equivalente davanti al tribunale civile) cui abbia

diritto colui che ha terminato, almeno allo stato, la propria detenzione in carcere e sia stato

ammesso al regime alternativo per es. alla detenzione domiciliare.Anche sul punto la norma

non è chiara; il dato letterale sembrerebbe deporre nel senso che costoro abbiano diritto alla

sola tutela per equivalente; il comma 1, laddove parla dello sconto di pena, parla

genericamente di pena detentiva; ma il comma 3 prevede quale unico requisito legittimante il

ricorso al giudice civile che la parte abbia terminato di espiare la pena detentiva “in carcere”,

facendo quindi espresso riferimento alla detenzione inframuraria.Neutro e compatibile anche

con tale ricostruzione appare il passaggio della disposizione laddove prevede che il magistrato

di sorveglianza conceda una riduzione della “pena detentiva”.

Infine non appare pienamente condivisibile la preoccupazione manifestata da alcuni

commentatori secondo cui così facendo si verificherebbe una paradossale conseguenza nel

caso in cui due soggetti correi condannati alla stessa pena tengano in carcere comportamenti

diversi, uno accedendo ai benefici premiali e l’altro no; il paradosso consisterebbe nel fatto che

solo quest’ultimo, nonostante il suo comportamento, potrebbe beneficiare dello sconto di

pena e il primo potrebbe avere solo tutela monetaria. Invero le due situazioni appaiono

profondamente diverse in quanto appare evidente che vi è profonda differenza, dal punto di

vista dell’afflittività, tra colui che permanga in carcere e colui che sia ammesso a regime

alternativo.

Inoltre la normativa in esame non ha alcuna finalità premiale ma di escludere o risarcire

la permanenza in carcere in condizioni di afflittività aggravata dal sovraffollamento.

3.6. Per quanto concerne gli adempimenti del giudice,non dovrebbero esservi dubbi sul

fatto che, benchè si tratti di rito camerale, sull’istanza debba essere attivato il contraddittorio,

in quanto si controverte su diritti soggettivi; il giudice emetterà un decreto di fissazione di

udienza; non è previsto un termine libero di comparizione predeterminato dal legislatore né è

applicabile il termine dell’art. 163 bis c.p.c.I tempi della fissazione sono quindi da decidere dal

giudice, caso per caso, a seconda delle esigenze di ruolo; è certo che non si tratta di

procedimenti da trattare necessariamente con urgenza, difettando ogni previsione al riguardo.

Il decreto non deve necessariamente essere comunicato al ricorrente, seguendo Cass.

S.U. 5701/2014 che nel rito camerale esclude l’obbligo della comunicazione del decreto di

19

fissazione dell’udienza e grava la parte del relativo onere. Ove vi sia l’utilizzazione di Consolle e

la presenza di un avvocato costituito il problema peraltro di fatto non si pone.

Il decreto deve essere notificato al Ministro della Giustizia presso l’Avvocatura

Distrettuale dello Stato e la costituzione deve avvenire mediante l’Avvocatura dello Stato, non

essendo previste deroghe alle regole generali.

3.7. Molte perplessità sono sorte in merito all’effettivo contenuto del ricorso

introduttivo e ai requisiti minimi del medesimo onde evitare una pronuncia di inammissibilità;

nelle prime esperienze infatti alcuni ricorsi sono apparsi piuttosto scarni nelle loro indicazioni

in fatto.

Per valutarne l’ammissibilità, è indispensabile fare riferimento alle norme processuali, in

particolare l’art. 125 c.p.c. (“salvo che la legge disponga altrimenti, la citazione, il ricorso, la

comparsa, il controricorso, il precetto debbono indicare l'ufficio giudiziario, le parti, l'oggetto,

le ragioni della domanda e le conclusioni o la istanza, e, tanto nell'originale quanto nelle copie

da notificare, debbono essere sottoscritti dalla parte, se essa sta in giudizio personalmente,

oppure dal difensore che indica il proprio codice fiscale”) ma occorre altresì considerare che

tale ricorso, per espresso dettato normativo, può essere proposto anche personalmente, senza

patrocinio di difensore, specularmente al rimedio del reclamo davanti al magistrato di

sorveglianza.

Le situazioni sostanziali in cui la difesa personale è consentita, nel sistema processuale

civile e in processi comunque contenziosi, sono probabilmente riconducibili sempre

all’esigenza di facilitare l’accesso al giudizio; può trattarsi di pretese di poca rilevanza

economica ma laddove ciò non sia necessariamente, per esempio nel processo di opposizione

a sanzioni amministrative, la difesa personale è sempre unita alla previsione di significativi

poteri officiosi in capo al giudice che potranno sopperire in tal modo alla disparità esistente tra

le parti.

La volontà di consentire quindi la difesa personale, che nel caso di specie probabilmente

nasce dalla necessità di facilitare l’accesso alla giustizia, potrebbe essere pregiudicata da

interpretazioni eccessivamente rigorose in merito al contenuto degli atti processuali; una

scelta eccessivamente rigida del giudice civile circa il necessario contenuto del ricorso, che non

tenga conto di quanto detto, correrebbe cioè il rischio di rendere vana l’introduzione dello

strumento risarcitorio e creare disarmonie rispetto all’ammissibilità del reclamo al magistrato

di sorveglianza.

Appare quindi necessario che il ricorso faccia riferimento alla data dell’inizio e della fine

della detenzione, al luogo o ai luoghi della medesima e anche ai dettagli in merito alle effettive

condizioni della stessa che consentano di applicare eventualmente il principio di non

contestazione da parte dell’Amministrazione; occorre poi anche fare attenzione a non ritenere

clausole di stile il richiamo agli elementi che sono usati dalla stessa CEDU come indicativi della

detenzione inumana, cioè le condizioni di sovraffollamento della cella per la presenza di

numerosi detenuti, lo spazio ridotto, la presenza del mobilio e formule similari; il contenzioso

in esame infatti ha un contenuto tipizzato dal legislatore con il richiamo alla giurisprudenza

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CEDU, ove sono proprio questi gli elementi fondanti la responsabilità dello Stato.In questo

senso Trib. Venezia 8.3.2015 ha ritenuto sufficiente l’indicazione dei periodi di detenzione in

condizioni di sovraffollamento carcerario e il riferimento al ricorso proposto prima davanti alla

Corte Europea e alla relativa giurisprudenza.

Il ricorso nasce cioè dalla necessità di introdurre uno strumento di reazione ad uno

specifico pregiudizio alla condizione dei detenuti, quello del sovraffollamento; l’oggetto del

processo, in altri termini, è dato unicamente dal danno derivante dalla detenzione in

condizioni di sovraffollamento; le altre condizioni della detenzione eventualmente denunciate

non si profilano come autonome cause di danno ma possono costituire motivo per rafforzare o

contrastare il rilievo della limitatezza dello spazio disponibile

In caso di genericità del ricorso, ci si è posti il dubbio circa l’ammissibilità del rimedio

dell’art. 164 c.p.c.

Innanzi tutto sembrerebbe possibile ritenere sanato il vizio in caso di costituzione

dell’amministrazione che fornisca tutti tali elementi.

In generale, poi, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. 23.2.2015, n. 3508, in

merito alla fase camerale conseguente all’opposizione al rigetto della domanda di indennità ex

lege Pinto) ha ritenuto applicabile l’art. 164 c.p.c. proprio con riferimento alla incertezza su

petitum e causa petendi e quindi a vizi della editioactionis. Analogamente Trib. Venezia,

20.3.2015 che richiama Cass. 25.10.2011 n. 22153 (che sembrerebbe però riferirsi sì

all’applicabilità dell’art. 164 c.p.c. al rito camerale ma con riguardo a vizi della vocatio in ius).

3.8. Altro dubbio processuale attiene alla ipotesi di mancata comparizione delle parti e

all’applicabilità degli artt. 181 e 309 c.p.c.

Una costante giurisprudenza ritiene che nei procedimenti in camera di consiglio tali

disposizioni non siano applicabili; nel caso di mancata comparizione delle parti all’udienza

davanti al giudice, purchè risulti la notifica del ricorso disposta dal giudice, la S.C. afferma che il

giudice deve decidere nel merito; la conclusione nasce dal fatto che detti articoli non sono

richiamati nel procedimento speciale camerale: Cass. 9930/2005 con riferimento al

procedimento di reclamo fallimentare, Cass. 2847/2009 nel reclamo contro il provvedimento

ex art. 262 c.c., Cass. 27089/2005 e Cass. 1688/2002 nel procedimento ex art. 30 comma 6

d.lgs. 286/98 in materia di permesso di soggiorno per coesione familiare; Cass. 16884/2012,

Cass. 18043/2010, Cass.5238/2011 nel reclamo in tema di protezione internazionale.

Molto spesso l’affermazione della S.C. richiama precedenti conformi ed evidenzia che le

regole degli artt. 181 e 309 sono dettate per i procedimenti ordinari; talvolta vi sono delle

argomentazioni più puntuali per cui, partendo dalla considerazione che l’ipotesi non è

regolata, si precisa che non è prevista neanche l’udienza di comparizione la cui fissazione è

rimessa al giudice; celerità delle forme e impulso officioso nello svolgimento deporrebbero nel

senso che non possa esistere nel rito camerale un onere maggiore rispetto al rito ordinario,

per cui il giudice, anche se la parte convocata non compare, deve decidere nel merito.

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Forse tali considerazioni potrebbero essere riviste alla luce di due osservazioni:

- esse sembrano considerare solo il caso del procedimento camerale vero e

proprio, avente ad oggetto affari di volontaria giurisdizione, e non i numerosi casi in

cui comunque, per una scelta del legislatore, il rito camerale abbia ad oggetti diritti

soggettivi e posizioni contrapposte; nel primo caso, infatti, la comparizione delle parti,

non prevista dalla legge,è una scelta del giudice, funzionale ad acquisire informazioni

utili alla decisione del merito, per cui appare ragionevole che il giudice debba

comunque decidere; nel secondo caso, invece, la fissazione di un’udienza di

comparizione delle parti non è una mera eventualità ma un adempimento processuale

imposto da principi di valenza costituzionale, quale il principio del contraddittorio;

laddove manchino norme che prevedano un impulso officioso, non si vede perché in

tali casi l’inerzia della parte debba essere valutata diversamente dal rito ordinario;

- inoltre tale ordine di considerazioni nasce nell’originaria formulazione dell’art.

309c.p.c.; secondo la stessa, l’inattività delle parti determinava solo una quiescenza del

processo (rinvio, cancellazione, estinzione solo su istanza di parte di riassunzione

finalizzata all’estinzione) in alternativa alla decisione; dire che il 309 non si applicava al

rito camerale significava dire che il giudice doveva decidere; oggi l’art. 309 comporta

invece l’automatica estinzione del processo e cioè l’alternativa è tra decisione ed

estinzione; l’inerzia è sanzionata con l’estinzione. Si potrebbe quindi forse dire che non

può esistere una sanzione, nel rito ordinario, più grave di quella prevista nel rito

camerale.

3.9. Quantoall’onere della prova, appare evidente il collegamento con la questione della

natura della responsabilità; ove si opti per la tesi della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.

il ricorrente ha l’onere di provare tutti i fatti costitutivi della sua pretesa, potendo al più essere

agevolato dalla non contestazione dell’amministrazione; nel caso che si consideri la

responsabilità come contrattuale da contatto sociale, è invece sul debitore ex art. 1218 c.c. che

grava l’onere di provare di aver correttamente adempiuto.

In realtà l’impatto di tale scelta, almeno in termini pratici, appare ridotto da numerose

considerazioni.

In primo luogo, in caso di specifica allegazione dei fatti, dovrà funzionare il principio di

non contestazione; nella prassi sono emersi alcuni casi limite, come per esempio quello del

ricorrente che affermi di essere stato detenuto ma non alleghi alcun documento che attesti

neanche questa condizione e l’amministrazione non sia costituita; in realtà sembra che casi

siffatti possano essere evitati attraverso un’accorta gestione dell’udienza e l’invito, ex art. 738

c.p.c., al ricorrente, ad integrare la documentazione;

Poi, la ripartizione dell’onere della prova deve anche tenere conto ex art. 24 Cost. della

riferibilità o vicinanza dei mezzi di prova.

Il principio di riferibilità o vicinanza dei mezzi di prova è espressamente fatto proprio

dalla S.C. (Cass. 17.4.2012 n. 6008) che lo radica nell’art. 24 Cost. ed anche dalla

giurisprudenza Cedu proprio nelle controversie inerenti la disumanità del trattamento

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detentivo; secondo i giudici di Strasburgo la vulnerabilità delle persone interessate che si

trovano sotto il controllo esclusivo degli agenti dello Stato induce a non applicare

rigorosamente il principio dell’onus probandi e la prova può risultare anche da un insieme di

indizi gravi, precisi e concordanti; soprattutto, il Governo è l’unico a dare accesso alle

informazioni che possono confermare o infirmare le affermazioni del ricorrente ed è tenuto a

fornire documentazione o spiegazioni a sostegno delle sue opposizioni (CEDU, sentenza

Torreggiani).

Trattandosi di rito camerale, infine, il giudice ha certamente dei poteri istruttori officiosi,

ex art. 738 c.p.c.; tale disposizione prevede che possano essere assunte informazioni ma è

invocabile anche l’art. 210 c.p.c., rivolto alla parte, o l’art. 213 c.p.c., con richiesta di

informazioni di ufficio; si potrebbe porre il dubbio che trattandosi di un camerale su diritti non

si possa, con i poteri istruttori officiosi, alterare la “regola del gioco” ma tale considerazione

potrebbe essere superata proprio dalla volontà legislativa di rinviare al rito camerale anziché a

forme processuali più rispettose dei principi classici del processo civile.

Concretamente, nella pratica, almeno nei primi ricorsi, l’Amministrazione nel costituirsi

ha prodotto dei rapporti inerenti la storia del detenuto, contenenti una serie di indicazioni sia

sulla collocazione dello stesso, sia sull’ampiezza dei locali sia infine sul numero dei detenuti in

quella determinata cella giorno per giorno.

Peraltro, sempre volendo utilizzare le categorie e gli istituti classici del processo civile, il

problema pratico che potrebbe porsi è quello relativo alla presenza di contestazioni su quanto

indicato in tali rapporti e quindi del valore da attribuire a quanto riferito dall’Amministrazione

e se sia o meno necessaria la querela di falso per superare talune affermazioni. Per esempio, il

dato relativo al numero dei detenuti in una determinata cella sembra superabile solo

attraverso una querela di falso mentre il dato dell’ampiezza dei locali sembra suscettibile di

smentita diversa trattandosi di dati percepiti con il ricorso a misurazioni tecniche.

3.10. La decisione deve essere assunta con decreto con il quale regolare anche lespese

di giudizio.

Occorre premettere che l’applicazione del rito camerale non esclude il dovere del

giudice di regolare le spese, non essendovi dubbi sul fatto che si tratti di un procedimento

camerale su diritti a posizioni contrapposte.

In ordine alla regolamentazione delle spese di giudizio, la compensazione sembrerebbe

quindi possibile solo per la novità della questione, altrimenti dovendo valere la generale regola

della soccombenza.

Occorre infatti evidenziare che non è possibile ritenere che il giudizio sia in qualche

modo“necessitato” (cioè che l’attore debba per forza agire in giudizio per ottenere il

risarcimento); infatti nel contenzioso, per molti versi analogo, relativo alla legge Pinto, la S.C.

ha ritenuto numerose volte che si applichi comunque sempre la regola della soccombenza non

potendosi ritenere che il diritto debba essere soddisfatto solo attraverso il giudizio.

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Cass. 1101/2010 (ed analoghe sono Cass. 5123/2015, 18704/2014), infatti, ha cassato la

decisione della Corte di Appello, in punto di compensazione delle spese di lite, fondata

“unicamente sul rilievo che l'amministrazione convenuta, non essendosi costituita in giudizio,

non ha tenuto un comportamento volto ad ostacolare il riconoscimento del diritto spettante al

ricorrente, il cui soddisfacimento non avrebbe potuto essere realizzato se non in via giudiziale”.

La S.C. ha ritenuto non condivisibile tale ultima affermazione, nulla impedendo alla

pubblica amministrazione di predisporre i mezzi necessari per offrire direttamente

soddisfazione a chi abbia sofferto un danno a cagione dell'eccessiva durata di un giudizio in cui

sia stato coinvolto. Ma, anche indipendentemente da ciò, appare chiaro che la mancata

costituzione in giudizio della parte convenuta non implica, di per sè, acquiescenza alla pretese

dell'attore e, se può in concreto rendere meno dispendioso l'esercizio processuale del diritto di

costui, non per questo giustifica che i costi di tale esercizio debbano restare a suo carico. Nè

varrebbe, in un simile caso, invocare l'applicazione, in luogo del mero principio di

soccombenza, del criterio d'imputazione delle spese processuali a chi al processo ha dato

causa. È pur sempre da una colpa organizzativa dell'amministrazione della giustizia che

dipende la necessità per il privato di ricorrere al giudice, al fine di conseguire l'indennizzo

spettategli per l'eccessiva durata del processo, indipendentemente dal fatto che

l'amministrazione convenuta scelga poi di costituirsi o meno nel giudizio di equa riparazione

che ne consegue.

Ciò premesso, hanno condannato alle spese Trib. Palermo, 25.3.2015 e Trib. Genova,

3.6.3015 che ha escluso che potesse darsi luogo alla compensazione per scarto elevato tra

somma domandata e somma riconosciuta (secondo la nota tesi dell’accoglimento parziale

come ipotesi di soccombenza reciproca) evidenziando che ciò dipendeva dalla difficoltà insita

nella ricostruzione dei fatti da parte del ricorrente

Hanno disposto la compensazione per novità della questione o controvertibilità della

stessa: Trib. Venezia, 25.3.2015, Trib. Palermo, 6.5.2015, Trib. Roma, 30.5.2015; Trib. Brescia,

9.6.2015, Trib. Catania 15.6.2015, Trib. Caltanissetta 27.6.2015,Trib. Napoli, 7.8.2015.

Ciò premesso, sempre in punto di spese, e particolarmente ai fini dello loro liquidazione

(anche ove la parte ricorrente sia ammessa al patrocinio a spese dello Stato), si potrebbe

porre il dubbio se occorra fare riferimento, nell’individuazione dei parametri, alla voce

“volontaria giurisdizione” o alle voci relative al processo ordinario (e quindi alle quattro fasi, di

studio, introduzione, istruzione, decisione), di cui al d.m. 55/2014.

Si è già avuto modo di evidenziare che appare difficile ritenere che l’oggetto del

processo in questione possa considerarsi afferente alla volontaria giurisdizione in quanto, pur

camerale, esso ha ad oggetto diritti e posizioni contrapposte, con conseguente necessità di

fare riferimento alle voci del contenzioso ordinario, opportunamente considerando, negli

aumenti e diminuzioni possibili, la natura più o meno standardizzata del processo.