lutfi alia | il codice consuetudinario albanese

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1 LUTFI ALIA IL CODICE CONSUETUDINARIO ALBANESE (KANUN DI LEK DUKAGJINI) LE CATEGORIE ETICO - MORALI Siena 2016

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LUTFI ALIA

IL CODICE CONSUETUDINARIO

ALBANESE

(KANUN DI LEK DUKAGJINI)

LE CATEGORIE ETICO - MORALI

Edizione II

Siena 2016

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Titolo originale:

IL CODICE CONSUETUDINARIO ALBANESE

(KANUN DI LEK DUKAGJINI)

LE CATEGORIE ETICO - MORALI

Autore: Lutfi ALIA

Redattore: Prof Fabio BERTI

Consulente: Prof Vincenzo GALATRO

Copertina: Genci ALIA

Fotocomposizione: Christina CHRISTENSEN

Siena 2016

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Ai miei nipoti

Emma ALIA

Matteo ALIA

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.

Convegno di Alessio (Lezha), 1444

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PREFAZIONE

Prof Franco BELLI

Quando, qualche mese fa – certo troppi, ma in sintonia con i miei

tempi biblici di scrittura – l’Autore di questo libro, mi propose di

svolgere la funzione di Prefattore, dopo aver accettato di getto e con

entusiasmo da quello sconsiderato che sono, non potrei fare a meno

di domandarmi per quale arcano motivo Lutfi avesse scelto proprio

me. Non sono un antropologo e non so, forse oramai potrei azzar-

darmi a dire “non sapevo” – di storia e di costumi albanesi.

Sono un Professore di diritto dell’economia, ergo “giurista di

complemento”- dell’Università degli Studi di Siena, che ha avuto

contatti non sporadici, per corsi o per tesi di laurea con studentesse e

studenti albanesi.

Inoltre, per buona giunta, mi bastò sfogliare appena e di tralice il

saggio di Lutfi Alia ed il libro di Avv. Pandi Frasheri, per rendermi

conto che, pur trattando di un per me misterioso “Kanun”, aveva a

che fare con il diritto, con quello “positivo” che un pò mi è fami-

gliare, in maniera affatto particolare. Sarebbe stato preferibile – che

so io? – uno storico del diritto, un filosofo del diritto o, almeno, un

costituzionalista. Glielo dissi. E gli dissi anche che, magari, avrei

preferito scrivere la prefazione ad un suo libro di poesie, del tipo

Notturno senese, struggente omaggio di un’ospite che pur ha lasciato

il cuore nel paese di origine; ma, già lo sapevo per esperienza dire-

tta, gli albanesi sono più che tenaci, Lutfi non è da meno e … non

demorse. E dunque? Dunque, di sicuro il dottor Alia, “profugo” a

Siena ormai da molti anni, non aveva optato per il sottoscritto,

diciamo così, ratio materiae, bensì per altri motivi. Fra questi in

particolare, l’amicizia, ritengo. Un’amicizia, cementata negli anni

dal comune amore per la poesia; un’amicizia che ha resistito,

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stranamente direi, alle numerose “sòle” (in toscano significa “frega-

ture”) che avevo rifilato a Lutfi.

Perché non vieni a Tirana a presentare la riforma universitaria

italiana.” “Certo che sì.” “Quando?” “A ottobre…a novembre … in

primavera … a fine estate … ” E via andare, con questa musica, con

questo rosario di promesse non mantenute, ma ancora non cono-

scevo il significato ed il valore fondante nella società albanese della

“Bessa” (la parola data).

Oggi che, grazie a questo libro, ne ho contezza, prometto

(abbastanza) solennemente all’Autore che, prima o poi, mi munirò di

passaporto – non si meravigli il Lettore: sono una rara bestia

stanziale – e manterrò la promessa..

Ma veniamo, per brevissime parole, ai contenuti di questo libro:

il “Kanun”, o i “Kanun”, perché, come risulterà chiaro al Lettore, la

storia albanese ha prodotto vari kanun.

Mi soffermo sul Kanun di Lek Dukagjini. Siamo al cospetto di un

codice consuetudinario, che in verità affonda radici nella notte dei

tempi e che porta chiare tracce della civiltà greca e del diritto

romano, che fu organicamente risistemato nel corso del quattro-

cento, grazie all’opera del principe Lek Dukagini.

Il Kanun, tramandatosi oralmente nel corso dei secoli, come

unica fonte del diritto per regolare una società politicamente

martoriata e priva di altre leggi, riportato in forma scritta da Padre

Stefano Costantino Gjeçovi, nei primi decenni del secolo scorso,

recepito dalla legislazione dello Stato d’Albania nel 1912, fu

pubblicato nel 1933. Inutile ricordare che il Kanun cadde in disuso

durante il regime comunista, sopravvivendo tuttavia in maniera

carsica. Attualmente non è più in vigore, ma se ne riscontra nel bene

e nel male l’influenza nelle zone settentrionali del paese.

Ho detto nel “bene” e nel “male”.

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Parliamo, innanzitutto, del “male”. Liquidiamo gli aspetti premo-

derni, ovviamente e necessariamente, presenti nel Kanun e fra

questi, in special modo, la vendetta-faida ed il ruolo della donna,

come descritti da Avv. Pandi Frasheri nel suo libro “La famiglia

albanese, fonte della civiltà europea”, ed anche da Alia nel suo

saggio. Due “istituti” che, pur inquadrati storicamente, scandalizze-

ranno il lettore, forse più la non considerazione della donna (in un

sistema rigidamente patriarcale dove la donna è vista come “un otre

fatta solo per sopporare”) che non la vendetta di sangue, barbara

consuetudine antichissima.

Il Lettore italiano, dicevo, si scandalizzerà e forse si considererà

anche superiore rispetto ad impostazioni così “tribali”.

Giusto lo scandalo, meno giusto, ritengo, l’eventuale sentime-nto

di superiorità. Faccia un esame di coscienza, rispetto a questi feno-

meni tenendo conto, va da sé, della metamorfosi delle forme, la

nostra civilizzatissima società. Può darsi che questo esame, se con-

dotto seriamente, ci riservi qualche sorpresa. O no?

Veniamo al “bene”, veniamoci, e concludiamo, per dire che se

antifemminismo endemico e vendetta - faida, magari raramente “di

sangue”, sono ingredienti che, seppur dalle parole di tutti (quasi

tutti) apertamente condannati, restano ancora oggi rinvenibili nel

DNA delle società contemporanee, in esse sono invece sempre meno

rinvenibili i principi etici che fanno da cardine al Kanun: il valore

indefettibile di Bessa, della parola data, l’amico, l’ospitalità, la

solidarietà, la reciprocità ecc. Su questi importantissimi fronti il libro

del dottor Alia c’insegna molte cose e ci porta, pur parlando di

tradizioni del passato, un vento fresco di novità. fresco e ristoratore.

Siena il 18 Aprile 2009

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INTRODUZIONE

La storia e la tradizione ben s’intrecciano tra loro nella vita dei

popoli. Ricordare, tutelare e attualizzare i valori del proprio passato,

vuol dire cultura. Le narrazioni orali, tramandate di generazione in

generazione nella tradizione popolare, anche se sono condannate

all’anonimato, in realtà fanno parte della storia.

La tradizione ci porta a prendere contatto con il passato in modo

inconsueto e diverso, ma ci induce a riscoprirlo e ricostruire gli

anelli della storia, arrivando fino al presente.

Nella storia della società albanese, la tradizione occupa un posto

particolare, sopratutto quando si parla del “Canone di Lek Dukagini”

(gli albanesi lo chiamano Kanun) o meglio, il diritto consuetudinario

o Jus Albanicae, che rappresenta le basi etiche-morali e giuridiche

della società albanese, cioè quelle leggi, le regole, le norme, gli usi

ed i costumi, che non sono mai stati scritti, ma sono custoditi e

trasmessi oralmente nei secoli dal nostro popolo, con lo stesso

meccanismo con cui si trasmettono la lingua, il folclore, le usanze e

la nostra storia.

La vocazione di dedicare il mio interesse al Canone di Lek

Dukagini è legata alla mia vita a Siena fatidica, in questa città con le

tradizioni, la cultura e l’ospitalità che somigliano molto a quelle del

mio paese.

Vivere nel senese ha contribuito ad allargare il mio spazio

culturale e professionale, e mi ha fatto recuperare l’armonia con il

mondo. Il mio primo contatto con Siena prediletta fu un paesaggio

nebbioso che nascondeva una città che emergeva dalle colline, con

la sagoma della torre del Mangia e le punte dei campanili intorno;

una città accerchiata dalle mura rossicce del castello che rinchiude-

vano, dentro le case arroccate, i vicoli lastricati, stretti e ombrosi,

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percorsi dai contradaioli e dai turisti; una bella cittadella circondata

da un mirabile panorama. Una delle tante sorprese senesi è la

scrittura che campeggia sulla porta di Camollia: “Cor Magis Tibi

Sena Pandit – Siena ti apre un cuore più grande”, che ho sentito

come un augurio al mio arrivo, in questa città ospitale, che mi ha

offerto un abbraccio di quiete, di pace e di amore.

Per chi è stato di passaggio e per chi vive a Siena, la scrittura

scolpita sulla porta Camollia non è soltanto un saluto o un augurio di

benvenuto, ma esprime anche la cultura dell’accoglienza, l’ospita-

lità, l’amicizia e tanta umanità, doti delle quali i senesi sono orgo-

liosi. E non solo, ma quando io passo nei vicoli, anche se non mi

conoscono i senesi mi salutano con cordialità, come nel mio paese

Siena è una città piccola, ma grande nella sua lunga e ricca storia,

nella cultura, nell’arte e nella vita sociale, contradaiola ed intelle-

ttuale; è una città festosa, misteriosa e mitica nello stesso tempo.

Descrivere Siena è una impresa difficilissima, è come una illusio-

ne, perché più si scava nel segreto senese e più si scoprono i valori

ed i misteri; la parola è insufficiente per esprimere le dimensioni di

vita e dello spirito cortese senese. L’accoglienza, l’ospitalità e la vita

senese sono state, e ancora sono, ben regolate anche dagli Statuti

delle Contrade, quelle istituzioni cittadine che si avvicinano alle

leggi, alle norme etiche e morali e alle regole cavalleresche degli

Statuti ed in particolare del Canone albanese di Lek Dukagini.

Avvicinandomi a questa bella, magica e misteriosa realtà, sono

riuscito a scoprire, dentro Siena, anche una parte della storia e della

cultura albanese. Nell’Archivio di Stato di Siena, ho trovato la

lettera originale di Giorgio Castriota Skenderbeg (il Signore

dell’Albania), indirizzata ai nobili cittadini del Concistoro di Siena

(1451), l’epistolario del Conte Durazzo con i nobili senesi, mentre

nelle varie Biblioteche di Siena ho trovato opere degli albanesi del

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risorgimento europeo (sec. XV–XIX), come Leonic Tomeo, filosofo

e docente di filosofia greca nell’Università di Padova; Marin Barleti,

prete e storico; Pietro Bogdani, prelato della Chiesa Albanese, e

poeta del barocco europeo; Pietro Budi, prete e scrittore; ho letto i

libri di Girolamo de Rada, di Giuseppe Skirò; gli articoli di Dora

d’Istria (ha vissuto anche a Siena); le opere di Demetrio Camarda, di

Vincenzo Dorsa e di tanti altri miei vecchi compaesani.

Tra le altre sorprese è anche una copia dell’icona di “Signora di

Buon Consiglio di Scutari” del XV secolo, che si trova nella Capella

dell’Ospedale Universitario di Santa Maria della Scala, mentre l’ori-

ginale è al Santuario di Genzano - Roma.

Conoscendo queste opere, ho vissuto in questa città, con nostal-

gia e con fierezza, una parte della storia, della cultura e dello spirito

albanese: testimonianze di legami storici tra Siena e l’Albania, ini-

ziati in un lontano passato e arrivati fino ai giorni nostri.

Tre anni fa, in uno dei giorni di studio passati in Biblioteca degli

Intronati del Comune di Siena, fui avvicinato dalla gentilissima

amica Paola Lambardi che mi mise davanti un piccolo libro in lingua

italiana: “La famiglia albanese, fonte della civiltà europea”, pubbli-

cato a Spoleto Umbria nel 1947, scritto dall’Avv. Pandi Frasheri.

Sono rimasto sorpreso e meravigliato da questa opera.

Paola mi disse che Lei e il suo collega Marco Muzzi erano amici

del mio concittadino.

Qualche tempo dopo, Paola Lambardi in una lettera mi scrisse:

“Pandi M. Frasheri era una figura elegante, per quanto non

appariscente, estremamente gentile, educato e con un tono pacato

nella voce. La gioia nel porgermi i libri, che volle donare alla

Biblicoteca, era mitigata da una contenuta modestia, ma denun-

ciava, però ed ugualmente, una nobiltà d'animo ben percepibile da

chi aveva la ventura di incontrarlo e di parlarci. Una figura la sua,

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per me indissolubilmente legata al mio luogo di lavoro: il signor

Frasheri era già un frequentatore assiduo prima che io iniziassi a

lavorare in Biblioteca Comunale e trascorreva lunghe ore a leggere.

Poi, molto educatamente, veniva a restituire il libro e, cortesemente

salutava. Chiunque, scambiandoci qualche parola con lui, capiva

bene il livello di cultura e la grande educazione di quest’uomo, a

volte ho fantasticato sulla sua storia, su questa figura un pò

misteriosa, immaginando chissà quali dolorose realtà dalle quali

era costretto a proteggersi. E poi... poi arriva il momento che ti

rendi conto che è da un pò che non lo vedi il signor Frasheri,

domandi ad altri colleghi ed anche loro rimangono perplessi. Poi,

poi il tempo e il suo trascorrere ti suggeriscono una risposta che tu,

Lutfi, mi hai puntualizzato anche con una data. Ma il signor Pandi

Frasheri non è morto del tutto, finché il suo ricordo abiterà nel

nostro cuore. Forse, oso dire, che ha guidato i tuoi passi. Niente

accade a caso, no?

Pandi Frasheri era nato a Koritza – Albania il 6 luglio 1907, si era

laureato in giurisprudenza alla Sapienza di Roma e dopo aveva

svolto l’attività come avvocato di grande professionalità in vari

distretti di Albania, dove aveva conosciuto anche il diritto

consuetudinario dei montanari del nord di Albania. Nel 1944 arrivò

in Italia, dove ha vissuto per 38 anni, soggiornando per molto tempo

a Siena, dove è morto il 12 Dicembre 1982.

Il libro di Pandi M. Frasheri “La famiglia albanese, fonte di

civiltà europea”, è uno studio approfondito, un’analisi storica, giuri-

dica, sociale e culturale della famiglia, che è stata la pietra angolare

della civiltà albanese. La novità del libro di Frasheri è l’analisi della

famiglia sul piano del diritto consuetudinario, cioè secondo il

Canone di Lek Dukagjini, ma in modo diverso da quelle effettuate in

Albania, perché l’autore ha condotto questo studio senza pregiudizi

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ideologici. Frasheri analizza la famiglia con competenze giuridiche e

in un contesto storico e sociale, dimostrando che la famiglia albane-

se è un piccolo stato in miniatura, e l’organizzazione costituzionale

di questo stato, quantunque totalitaria, è repubblicana, è democratica

e aristocratica nello stesso tempo.

Nella prima parte del libro, l’autore racconta l’origine e un po’ la

storia del popolo albanese. Nei capitoli a seguire si presenta lo

studio storico, giuridico e sociologico della famiglia albanese, com-

pletato dall’autore con l’analisi curata delle norme etiche, morali e

culturali della società di questo paese.

Ho conosciuto il Canone di Lek Dukagini dalla mia infanzia, ma

l’ho letto la prima volta nel 1964 (pubblicazione del 1933), e dopo

ho letto anche vari studi e una moltitudine di critiche ideologiche sul

Canone; ma il libro di P. Frasheri é tutto diverso. Leggendo questo

libro ho conosciuto meglio i valori e l’impatto del nostro diritto

consuetudinario sulla famiglia albanese, ma anche aspetti particolari

della vecchia storia dell’origine del nostro popolo. Dopo questa

“scoperta” ho parlato con molti amici e colleghi, raccontando loro il

contenuto ed i valori del libro di P. Frasheri, ma spesso ho incontrato

qualche incomprensione: allora ho capito, che prima di parlare della

famiglia albanese secondo il diritto consuetudinario, è meglio spie-

gare che cosa è il Kanun e quale è il suo ruolo nella vita della società

albanese.

Il Canone di Lek Dukagini è il diritto consuetudinario non scritto

del popolo albanese e, a prescindere dal valore giuridico, è stato

anche un codice etico-morale che ha regolarizzato tutti i rapporti tra

individui, famiglie, stirpe, contrade, distretti, province, direi per tutta

la società albanese. Non dobbiamo dimenticare che quando parliamo

del ruolo e della forza del Canone, ci troviamo in una società

medioevale, quando non era esercitato nessun potere statale nel vero

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significato moderno della parola e la società urbana albanese era

basata sugli statuti cittadini, mentre la popolazione rurale gestiva la

vita, l’attività politica, sociale e militare secondo le norme che

imponeva il Codice Consuetudinario o “Jus Albanicae”, il quale è

stato attivo per molti secoli tra la popo-lazione albanese.

Il Kanun di Lek Dukagini durante l’occupazione turca (1479 -

1912) era l’unico atto giuridico tra i popoli balcanici, rimasto come

“diritto parallelo”, anzi dominante sulle leggi dell’Impero Ottomano,

sopra la Sheriat (la legge religiosa dell’Islam), ma anche sopra le

leggi ed il potere di tutti gli occupanti che in continuità hanno invaso

l’Albania. Il Kanun è storia istituzionale, ma anche “l’idea

formulata”; è lo spirito degli albanesi impresso nei secoli nelle loro

tradizioni orali, custodito con fedeltà e trasmesso come un

messaggio, che bisogna capire e far proprio per dialogare con il

mondo da cui è stato prodotto e trasmesso.

Questi sono stati i motivi che mi hanno spinto a scrivere questo

saggio sul Canone albanese, presentando la sua storia, il primo legis-

latore, il Principe Lek III Dukagini, il secondo legislatore Padre

Costantino Shtjefen Gjeçovi e, di seguito, una breve presentazione

della struttura del Canone e dei concetti etici e morali della società

montanara, nel letto storico e culturale in cui è nata e cresciuta una

società con il proprio diritto consuetudinario, la sua etica, la sua

morale e il suo ordine sociale.

La pubblicazione di questo libro nell’anno 2009 è realizzato con

il contributo e l’aiuto prezioso dei amici, soprattutto del mio com-

paesano Çlirim Muça, per l’incoraggiamento e l’appoggio sincero a

pubblicare assieme, nello stesso volume, lo studio dell’Avv. Pandi

Frasheri e il mio saggio.

In particolare ringazio Nirvan Frasheri, figlio di Pandi Frasheri,

che gentilmente ha concesso l’autorizzazione a pubblicare l’opera

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del padre.

I miei ringraziamenti e la mia sincera graditudine va al amico

Prof Franco Belli, per la sua premessa e per i preziosi consigli e dei

suggerimenti che mi ha dato per completare il mio saggio sul diritto

consuetudinario albanese.

Ringrazio cordialmente gli amici Guido Morgese, Senio Sensi e

Piersante Sestini che mi hanno incoraggiato e mi sono stati di aiuto,

per dare un tocco di “italianità” al mio lavoro.

In particolare ringrazio Prof Fabio Berti, per l’epilogo molto

sentito che ha dedicato a questo libro.

Questa ultima pubbicazione (2016), presento la parte dedicato

alle categorie etico – morali del diritto consuetudinario albanese,

conosciuto come il kanun di Lek Dukagjini.

Siena 23. 02. 2016

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IL CODICE CONSUETUDINARIO ALBANESE

IL KANUN DI LEK DUKAGINI.

Il codice consuetudinario albanese, ben conosciuto come ll

Canone (Kanun) di Lek Dukagini* o il Canone delle Montagne

Albanese o, meglio, lo Jus Albanicae è una raccolta delle leggi, e

nello stesso tempo un codice etico-morale, non scritte, tramandate

oralmente dai tempi antichi, fin ai giorni nostri.

Il Canone ha guidato il popolo albanese nella sua lunga e tormen-

tata storia. Anche se non è stato mai scritto, il Kanun è sopravvissuto

nei secoli e la memoria popolare lo ha custodito fedelmente

portandolo fino ai giorni nostri, in un’opera completa, ben nota

appunto, come il Kanun di Lek Dukagini.

Nel suo libro “Albania punto a capo”, Emanuela C. Del Re, tra le

altre scrive: “Parlando dell’Albania, prima o poi si finisce col par-

lare di Kanun”.

S. Villari nel libro “Le Consuetudini giuridiche dell’Albania” ha

scritto: “Il Kanun è un codice di consuetudini e profondamente

radicato nella coscienza del popolo albanese”.

Padre Giusppe Valentini, nel suo libro “La legge delle montagne

albanesi nella relazione della missione volante” scrive: “Per Kanun

s’intende l’intero complesso dei principi, delle istituzioni e delle

norme tradizionali in Albania, indipendenti dal diritto statale”.

Patrizia Resta, nel libro “Il Kanun, le basi morale e giuridiche

della società albanese”, scrive “Il Kanun di Lek Dukagini è una

raccolta delle leggi consuetudinarie, trasmesse oralmente per secoli,

* Il lettore italiano conosce il Canone di Lek Dukagini: pubblicato come opera

completa nel 1941, a Roma, dal Centro per gli Studi Albanesi dell’Accademia

Italiana delle Scienze - e l’ultima pubblicazione nel 1997: “Il Kanun, le basi

morale e etiche della società albanese” dalla Casa Editrice Besa – Lecce.

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ma che diventò codice quando fu scritto da Padre Gjeçovi, il vero

legilatore della tradizione giuridica albanese”.

Il Canone di Lek Dukagini è un’opera di valore monumentale, è

un patrimonio storico e culturale del diritto consuetudinario albanese

Il Canone rappresenta anche le basi etiche e morali che sono state

trasmesse oralmente nei secoli, dal padre al figlio, con lo stesso

meccanismo della lingua, del folclore e della nostra storia.

Il Canone è una tradizione giuridica molto legata alla storia

dell’Albania, all’identità del suo popolo, al suo essere fiero delle

proprie origini e della sua storia.

Il popolo albanese lo chiama il Canone con il nome di Lek Duka-

gini, perché da sempre si è sostenuto che fosse il Principe di Duka-

gini l’autore o, meglio, il primo legislatore del Kanun delle

Montagne Albanese.

Per secoli il Kanun rimase un opera non scritta, ma incisa nella

memoria dei vecchi, che fedelmente lo insegnavano ai loro

discendenti, garantendogli stabilità e continuità. E solo alla fine del

XIX secolo ebbe riconoscimento pubblico.

Il Kanun di Lek Dukagini fu raccolto, trascritto e codificato da

Padre Shtjefen Costantino Gjeçovi durante gli anni 1898-1929, che

ne dette conto in 2000 pagine manoscritte, pubblicate, come

“Kanuni i Lek Dukagjinit” nel 1933 a Scutari.

Del Kanun di Lek Dukagini si è parlato e scritto molto meno di

quanto meriti; anzi, concentrandosi sull’analisi giuridica e sociale

della “vendetta-faida” si può dire che, il Kanun per lungo tempo è

stato criticato e sottoposto ad ostracismo, mettendo in ombra gli

aspetti di valore storico, sociale, culturale, religioso e etico-morale.

Il Canone non è solo un’opera di diritto, un insieme di leggi di

regole e di norme: esso è un grande mito, che ha assunto la forma di

una costituzione e che rappresenta una ricchezza universale della

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cultura e della storia albanese. Infatti, più che una semplice raccolta

di leggi, il Canone delle Montagne è piuttosto un completo sistema

giuridico e sociale, che include anche le norme etiche, morali, cultu-

rali e religiose, che non appartengono del tutto alla sfera strettamente

giuridica.

L’autonomia locale ed il sistema d’autogoverno della comu-nità

montanara albanese, la gestione della vita e di tutte le attività fami-

liari, sociali, economiche e militari non avrebbero potuto durare a

lungo, senza una solida struttura legislativa basata sul Kanun e sulla

tradizione storica.

La tradizione giuridica del popolo albanese espressa nel Kanun è

conservata non solo in virtù della fedeltà della nazione alle tradizioni

e alla identità, ma anche dell'organicità e logicità della concezione

che le sta alla base e delle norme fondamentali che la concretano.

L’opera di Padre Gjeçovi è una raccolta organica e forse più

completa del diritto consuetudinario delle Montagne Albanesi. La

concezione della tradizione giuridica è una concezione giuridico,

sociale e morale. Dunque, il Kanun è questo: è la prova che la

consuetudine è stata acquisita come norma, è l’organizzazione della

vita sociale, è lo spirito del popolo albanese, la sua etica, la sua

morale, il suo essere fiero di sé, del suo onore, della “Bessa”, del

giuramento.

Il Kanun assicurava la perpetuità di concezione della vita sociale

e forniva le fondamentali istituzioni in cui una tale concezione

avrebbe potuto realizzarsi nel complesso e nei particolari. Tutti gli

aspetti fondamentali della vita umana, come la famiglia, il matri-

monio, l’eredità, il governo locale, l’economia, i diritti di pascolo, le

attività sociali delle istituzioni religiose, la difesa dei diritti elemen-

tari e della libertà, la delinquenza, gli atti criminali, il tribunale, il

servizio militare, la guerra ecc., erano regolati da vari codici

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tradizionali, tramandati oralmente dai vecchi, dal padre al figlio.

Il compito degli anziani non era quello di promulgare nuove leggi,

ma di interpretare i fatti d’ogni singolo caso alla luce delle vecchie

leggi e delle vecchie regole del Kanun, che loro conosce-vano a

memoria. La base di conoscenze del Kanun di Lek Dukagini era

rappresentata dalla tradizione che ha custodito i principi dell’identità

albanese, fondandoli in un insieme organico di codifica-zione sia

civile e processual-civilistica, sia penale e processual-penalistica.

Per capire il Kanun bisogna partire dalle origini del popolo alba-

nese, la sua storia, in quanto la sua identità. Il suo concetto di uomo

d’onore e di bessa (besa) si è tramandato nei secoli senza mai subire

la pressione delle forze occupanti, che si sono avvicendate nella

storia del Paese.

Questo diritto riflette, in una certa misura, anche i cambia-menti

successivi che hanno subito gli albanesi attraverso i processi storici,

costituendo al tempo una testimonianza della loro integrità spirituale

e etnica.

Si tratta, in definitiva, di un’opera di riflessione e di organi-

zzazione, ricca di espressioni laconiche, che dà conto dello specifico

universo culturale e morale, sistemato in un codice complesso, che

riguarda tutte le sfere della vita di una società cosciente di costruire

le condizioni di base (norme e metanorme) con le quali definisce la

pro-pria identità.

Gli albanesi lo chiamano il Kanun, "La legge Vecchia”, “La

legge Antica”, “La legge delle Montagne”; "Legge delle leggi”, "Il

Canone Vecchio”, ma si usano anche altre denominazioni particolari

come "Il Kanun di Lek Dukagini”, "Il Kanun delle Montagne”, "Il

Kanun di Skanderbeg”, “Il Kanun di Mirdita”, “Il Kanun di Malesia

e Madhe”, “Il Kanun di Martaneshi”, “La legge di Dibra”, “Il Kanun

Page 20: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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di Kurbini”, “Il Kanun di Papa Zhuli”, “Il Kanun di Laberia”,

“Shartri i Idriz Sulit”.

Tutte queste denominazioni si riferiscono all’applicazione del

diritto consuetudinario nelle varie regioni e distretti; in sostanza le

differenziazioni sono di poco conto, in quanto tutte le applicazioni si

fondano sulla Legge delle Montagne o, meglio, sul diritto consuetu-

dinario, che era diffuso e attivo in tutto il turritorio abitato dagli

albanesi.

Il Kanun ha regolato la vita pubblica e privata delle comunità e

dei singoli e ha consentito la realizzazione di una sorta di conver-

genza tra le leggi, i principi morali, religiosi e civili, determinando

una forma d’incontro tra sistemi normativi differenti.

Il Kanun è sopravvissuto ai tentativi di unificazione amminis-

trativa, sia ottomana, sia degli molti altri occupanti e, in seguito,

anche alla legislazione civile del Regno d’Albania del 1929 ed alla

legislazione del regime comunista.

Dall’inizio del XX secolo il Kanun non è più in vigore in

Albania, anzi diviene un “mondo chiuso”, o meglio un “opus finito”,

perché nel 1912 il Parlamento dello Stato di Albania, aprovò le

nuove leggi, poi il Re Zog I, gli tolse l’autorità del diritto. Da quel

tempo il Kanun delle Monatgne fu “congelato” e smise di agire

come legge fondamentale della società albanese, ma le norme etiche

e morali sopravvissero e continuarono ad essere applicate ancora per

molti anni nella società montanara.

Il regime comunista lo bloccò totalmente, lo dichiarò un “opus

proibito” e cancellò i residui rimasti nella popolazione montanara,

condannò e riuscì a cancellare la vendetta-faida; non solo, il Kanun

anche fu criticato come una legge medioevale, con morale e norme

patriarcali, oscurando così anche i valori storici, etici e culturali.

Ovviamente, in un stato moderno, le regole e le leggi del passato

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21

come il Kanun, perdono forza di agire, mentre in uno stato debole,

dove non agiscono le leggi, si assiste alla riattivazione degli aspetti

più negativi del Kanun, come la vendetta-faida, che è senza dubbio

una attività barbara, è un mezzo usato dalle forze oscure per distru-

ggere i valori e la cultura del popolo albanese.

Durante l’attuale transizione lunga e faticosa ed a causa della

crisi morale che ha investito l’Albania, il risveglio dell’atto

criminale della vendetta-faida, in particolare quella legata ai vecchi

rancori di vendetta non consumata, ha creato gravi problemi sociali

nella popolazione montanara o di origine montanara. Nella società

albanese ci sono persone che applicano la propria vecchia vendetta,

un’ostilità realizzata in modo selvaggio per motivi banali o come

mezzo di “regolamento dei conti” o come “una punizione tra

persone coinvolte nei conflitti e nei litigi banali”.

Anche se da molto tempo non è più in vigore in Albania ed a

prescindere dagli aspetti negativi ereditati dal passato, il Kanun

rimane un patrimonio della storia e della cultura albanese, un’opera

inesauribile di analisi e di studio.

Le ricerche scientifiche, per quanto siano profonde, rappresen-

tano quasi sempre solo un punto di vista del fenomeno, oppure

trattano un solo aspetto di esso, perciò i Kanun, devono essere

sottoposti alle ricerche e agli studi sistematici e multidisciplinari

giuridici, psicologici, sociologici e religiosi, senza escludere l’etica,

la morale ed anche la mitologia.

Page 22: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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IL PRIMO AUTORE-LEGISLATORE LEK DUKAGINI.

Secolo V (D.C) – Un cronista bizantino del settimo secolo, che si

basa sulla storia e le leggende, scrive che nel quinto secolo,

una tribù dei Goti, sotto la guida di Duca Gentius (o Gini),

scende dalla Dalmazia e si stanzia a Scutari. In seguito,

Duca Gini fu nominato dall’Imperatore bizantino il suo

Sebastocrator e ricevette anche l’incarico di Magister

militum per la Dalmazia.

Duca Gentius allargò il suo potere nei territori tramite

Scutari e Durazzo, dove esercitò il suo potere adattando

le leggi e le regole Gotiche.

Secolo VII (D.C) – Secondo le fonti Ragusiane, pubblicate da

Makushev in "Research on the Chronicle of Ragusa",

risulta che nell’anno 695 (d.C), i Ducagini di Albania

organizzarono la rivolta contro l’occupazione slava, ma

sconfitti chiesero protezione e asilo a Ragusa, che li rifiutò,

cosiché furono costretti a tornare nel loro paese e ad essere

sottomessi al potere slavo. Secondo le cronache di Ragusa,

accettarono di essere: "compari per sempre e non accattar-

ono che infra loro."

1190 – 1216 Il Principato dei Dukagini fa parte dello Stato di

Albania (Arberia).

1202 – 1204 Duca Progon, il figlio di Tanush I Dukagini, allarga i

territori del suo principato al nord-est, occupando i distretti

fino al fiume Fan (Mirdita). La capitale del Principato dei

Dukagini diventa la città di Lezha (Lissus-Alessio).

Secondo le cronache bizantine, Duca Progon aveva due

figli, Paolo I e Leka I, anche loro conosciuti come signori

di Zadrima. Due tra i loro discendenti, Giorgio Dukagini il

Page 23: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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signore di Zadrima e Tanush II Dukagini, il signore di Fan,

avevano molti figli.

1210 – Al trattato di pace tra Venezia e la Repubblica di Ragusa,

partecipano anche i principi di Dukagini, come amici dei

veneziani.

1281 – Per la prima volta appare scritto il titolo duca (dux),

"Ducam Ginum Tanuschum Albanensem”.

1356 – La famiglia dei Dukagini si divide in due parti:

- al nord Paolo II (figlio di Tanush II) estende il suo potere

nelle tribù di Gashi, Krasniqe, Peja, Pristina, Gjakova,

Prizren, e la capitale diventa Ulpiana;

- al sud Leka II (figlio di Giorgio), esercita il suo

dominio nelle regioni di Lezha, Zadrima, Puka, Selita,

Zhuba e Mirdita, con capitale Lezha e la residenza nel

castello di Lezha.

1393 – I Dukagini consegnano la città di Lezha ai veneziani,

per non cadere nelle mani degli ottomani, ma hanno il

diritto ad un terzo del reddito annuo.

1406 – Il principe Paolo (1384-1446) ed il fratello Nicola diventano

I Principi Priori del Principato dei Dukagini di cui faceva

parte Lezha, Puka, Mirdita e Kosova.

1410 – Nasce a Ulpiana il principe ereditario di Paolo II, chiamato

Alessandro III (Lek) Dukagini. Sua madre è sorella di

Arianit Komneni. Il piccolo Lek III è istruito e sviluppa la

sua formazione culturale nei centri più sviluppati di quel

tempo, come Ulpiana, Shkodra, Raguza, Napoli e Venezia.

1432 – Il principe Paolo II, suo fratello Nikola I, insieme con

Tanush Topia, appoggiano Aranit Komneni, nella

insurrezione contro gli invasori ottomani.

1433 – Nicola Dukagini e suo fratello Tanush Topia, cacciano via i

Page 24: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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turchi dalla città di Dania. Questa azione militare viene

contestata da Venezia che, in accordo con il governatore

turco di Scutari, appoggia gli attacchi dei turchi contro i

Dukagini.

1444 – Paolo e Nikola Dukagini si associano alla Lega degli

Albanesi (Arberi) a Lezha e mobilitano 5000 soldati. Paolo

accompagna Skënderbeg a Kruja. Nella prima battaglia a

Torvjolli, contro i turchi, partecipano anche i soldati del

Principato di Dukagini.

1446 – Muore Paolo II Dukagini. Al suo posto sale il suo figlio, Lek

III Dukagini (Alessandro).

1447 – Lek Dukagini sposa Teodora, la sorella minore di Gjon

Muzaka di Berat. Non hanno figli. I discendenti della

famiglia Dukagini in Italia e quelli in servizio dell’impero

Ottomano, sono membri adottati da Paolo o dallo stesso

Leka.

1452 – A Durazzo si riconciliano Lek Dukagini e Skenderbeg.

1454 – Breksamus, diplomato di Lek Dukagini, rappresenta

Skenderbeg presso il Re Alfonso di Napoli, il quale

accorda a Lek III una pensione di 300 ducati.

1458 – L’esercito turco occupa Prizren, il centro commerciale e

culturale del Principato dei Dukagini, mentre un anno

prima avevano distrutto e raso al suolo l’Ulpiana.

1458-1481 Lek Dukagini costruisce nuovi castelli e ricostruisce

quelli esistenti nella profondità montanara del suo Princi-

pato. Rafforza il potere locale dei montanari, i suoi

concittadini, i quali da sempre vivevano liberi in questi

territori. Il principe istituzionalizza un sistema politico –

giuridico popolare, che verrà ereditato generazione dopo

generazione come “Il Kanun di Lek Dukagini”.

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1461 – Si dice che Lek Dukagini abbia chiesto una alleanza

con i turchi. Questa sua iniziativa viene criticata da Papa

Pio II, che lo minaccia di scomunica.

1463 – Papa Pio II interviene per la seconda riconciliazione tra

Skenderbeg e Lek III. In seguito Lek Dukagini si

riunisce con l’alleanza antiturca formata da Skenderbeg,

il Doge di Venezia e Cernovici di Monte Negro.

1464 – Papa Paolo II, con una ferendae sententiae, scomunica Lek

Dukagini, accusando il Principe di essere poco ispirato alla

fede cristiana. (Molti autori dicono che questa scomunica

è legata al Kanun).

1465 – Durante la battaglia di Sfetigrado, Lek Dukagini con

un’azione coraggiosa salva la vita di Skenderbeg, che era

circondato dai soldati turchi

1466 – Lek Dukagini e Nikel Moneta sono alla testa di 13.000

soldati nella battaglia contro i turchi, comandati da

Ballaban Pascia.

1468 – Lek Dukagini comanda l’esercito albanese nella feroce

battaglia di Scutari, dove i turchi rimangono sconfitti

pesantemente.

1468 – Il Signore dell’Albania, Giorgio Castriota Skenderbeg

muore.

Lek Dukagini tenta di tenere riuniti i principi albanesi e si

mette al comando della resistenza contro gli ottomani.

1477 – Lek Dukagini comanda l’esercito albanese in difesa di

Kruja, dove rimane ferito gravamene.

1479 – I Veneziani firmano l’occupazione dell’Albania da

parte dell’Impero Ottomano. Lek Dukagini si ritira e

continua la resistenza nei Castelli nella profondità del suo

Principato.

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1481 – È documentata l’ultima comparsa pubblica di Lek

Dukagini. Si tratta di un viaggio (forse l’ultimo) da Ragusa

verso le montagne del suo Principato del Nord di Albania.

1481 – Muore Lek III Dukagini, l’ultimo erede del grande e

vecchio Principato dei Dukagini. Non esiste nessun

documento che indichi dove sia il luogo di sepoltura.

Secondo la tradizione orale dei montanari, Lek III Dukagini,

prima di allontanarsi dal suo principato, ha benedetto la libertà del

popolo albanese fino al ritorno dell’indipendenza e ha maledetto gli

invasori ottomani. La libertà degli albanesi e la lunga resistenza

contro gli occupanti turchi sono state evidenziate anche nel Kanun.

Il Kanun è stato attivo nel Principato dei Dukagini, in Kosova,

nelle Nove Montagne di Ghegheria, in Dibra, in Toscheria, in

Laberia ed anche in Çameria (Tsameria).

Il popolo albanese ha custodito il Kanun con fedeltà e amore,

nello stesso modo come la lingua e le buone tradizioni, e lo ha

applicato come legge per organizzare, autogestire e autogovernare la

vita nelle montagne.

Lek Dukagini è una figura storica e complessa. Molti studiosi lo

hanno descritto senza riserve questo saggio condottiero e hanno

trovato le parole giuste per evidenziarlo come personaggio eroico e

leggendario.

J. G von Hahn ha scritto: “Lek Dukagini è stato il signore di

questo paese e nello stesso tempo anche il suo legislatore. Lui ha

codificato il Kanun, vuol dire le regole e le disposizioni, in base alle

quali vivono, ai giorni di oggi, non solo i dukagini, ma tutti i

montanari che abitano nel nord del fiume Drini, chiamato con il

nome di Lui, il loro eroe nazionale”.

Edith Durham scrive: "Lek Dukagini sembra che sia stato una

personalità imponente, che ha influenzato molte persone, tanto che

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l’espressione “così ha detto Lek” (Kështu ka thënë Leka), ha una

forza di obbligo più dei dieci Comandamenti della Bibbia, più degli

insegnamenti dell’Islam ed anche più del Cristianesimo, più della

Legge dello Sheriat e della chiesa, perché tutti questi erano obbli-

gati a sottomettersi al Kanun di Lek Dukagini. La sua fama tra le

tribù montanare, che custodiscono con onore il suo nome, ha

sorpassato anche la fama di Giorgio Castriota - Scenderbeg”

Nel suo libro “L'Albanie et l'invasion turque au XV Siècle”, Paris

- 1937, lo storico Athanas Gegaj scrive: "Non ci sono dubbi che Lek

fu uno tra i membri migliori conosciuti della famiglia Dukagini. Egli

era molto energico e forte, aveva combattuto i turchi. Lek Dukagini

aveva le capacità organizzative e forse era un esperto nella

legislazione giuridica di questo tempo. Tutti i leaders delle tribù

albanese hanno riconosciuto e stipulato il suo Canone. E non solo,

ma il popolo la conosce con i suo nome: Kanun di Leka”.

Lo storico turco Sülejman Külçe, nel suo libro “Osmanli

tarahinde Arnavutluk” (Izmir 1944) scrive: “Le leggi consuetudi-

narie e le norme morali e sociali del Kanun dei montanari albanesi

sono quelle codifi-cate da Lek Dukagini e sono leggi draconiane”.

Whitaker ha scritto: “Leka fu un personaggio storico, ma si può

considerare soprattutto un semi eroe della tradizione albanese.

Talvolta ostile, talaltra amico di Skenderbeg, partecipò alla

rinascita del senti-mento nazionale albanese e fu parte attiva nella

lotta del suo popolo contro i turchi, fino ad assurgere a simbolo di

fierezza; è ricordato proprio per la sua opera di legislatore”.

Alessandro (Lek) III Dukagini (1410-1481) era contemporaneo di

Giorgio Castriota Skenderbeg (1404-1468), il signore dell’Albania.

La storia riconosce entrambi come principi ereditari, saliti al trono

dei loro rispettivi principati: Leka in quello dei Dukagini (dopo la

morte del padre Paolo nel 1446) e Giorgio, nel principato dei

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Castrioti nel 1443, dopo la morte del padre Giovanni Castriota. Il

suo padre Giovanni, nel 1407 fu menzionato dagli veneziani come

“Dominus Satis Potens in Partibus Albaniae”.

Del Principato dei Dukagini, con capoluogo la città di Lezha,

facevano parte i distretti di Zadrima, Mirëdita, Scutari, Malesia e

Madhe, Kelmendi, Pulti, Puka, Kukes, Tropoja ed anche la Kosova,

che aveva un secondo capoluogo, la città Ulpiana.

Il Principato dei Castrioti, con capoluogo la città di Kruja, si

estendeva nelle provincie del centro dell’Albania: Mati, Dibra,

Martaneshi, Çermenica, San Giorgio, Kurbin, Tirana, Durrazo,

estendosi fino al castello di Rodon sulla costa Adriatica.

Lek III Dukagini, formatosi con la cultura generale d’ispirazione

umanistica propria del Rinascimento europeo, aveva effettuato gli

studi a Venezia, Napoli, Ragusa, Scutari, Ulpiana ecc. Mentre

Scanderbeg aveva fatto una carriera veloce e brillante come militare

a Istanbul, alla corte del Sultano Murati II.

Quando si costituì l’alleanza dei principi albanesi nella Lega

dell’Arberia (Lezha - 1444), i Dukagini (Paolo Dukagini e dopo suo

figlio Lek III Dukagini) si associarono e rimasero per sempre

accanto a Skenderbeg,.

Dopo la morte di Giorgio Castriota (1468), il principe Lek III

Dukagini, continuerà la sua opera, prenderà in mano il comando

dell’esercito albanese, nella fase più difficile della resistenza

antiottomana, fino alla prpoptia morte nel 1481.

I cronisti e gli storici, iniziando da Tivarasi, Dh. Frengu, M.

Barletti e G. Muzaka, che erano contemporanei di Skenderbeg e

Lek, e dopo A. Gegaj, F. Noli, N. Frasheri, S. Godo, K. Frasheri

ecc., hanno descritto Lek Dukagini come l’amico di Skenderbeg.

Comunque, si può dire che sia gli storici, sia gli scrittori sono

stati un pò avari nel descrivere la figura di Lek Dukagini; questo è

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29

successo perché tutti erano incantati da Skenderbeg, il grande eroe,

mentre gli altri personaggi restarono tendenziosamente in secondo

piano, in ombra.

Più equilibrato dei cronisti e degli scrittori è stato il popolo o,

meglio, gli anonimi del popolo, che hanno mitizzato queste due

importanti figure della storia medioevale albanese. Il popolo ha

iden-tificato Skenderbeg, il principe coraggioso, con San Giorgio,

mentre Lek Dukagini fu indicato come il principe angelo, il mentore,

che con saggezza fu il legislatore del diritto consuetudinario e lasciò

il Kanun in eredità ai suoi discendenti, al suo popolo, come un

testamento per la difesa e la continuità della nazione albanese.

Tra gli storici e cronisti stranieri c’è anche chi tendenziosa-mente

ha scritto pettegolezzi su Lek Dukagini, presentandolo come un

personaggio antagonista di Skenderbeg. Sarebbe stato più giusto

che, invece di denigrare il Principe Lek, questi autori avessero avuto

un po’ di onestà e coraggio nel criticare lo stato Pontificio ed i paesi

europei, che, non riuscendo a creare una coalizione antiturca, hanno

di fatto abbandonato il popolo albanese, lasciandolo al suo destino.

Intermezzo.

Dobbiamo ricordare che Skenderbeg, Lek Dukagini ed altri

principi albanesi avevano proposto all'Europa disunita di mettere in

atto una grande alleanza cristiana contro il nemico comune, contro

gli invasori ottomani.

In una lettera inviata al Papa Pio II, Skenderbeg scrive: “Insieme

dobbiamo difendere le radici cristiane dell’Europa”. Questi inviti

rivolti a Papa Pio II, agli Stati ed ai Regni dell’Europa, caderono in

vuoto, l’alleanza fallì, e Skenderbeg e il popolo albanese rimasero

soli, lottando per venticinque anni con eroismo contro gli invasori,

che minacciavano il vecchio continente.

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La resistenza albanese contro gli Ottomani fu una ispirazione per

i movimenti patriotici in Europa. Per questo il poeta francese A.

d'Aubingé, nella sua opera "Les tragiques", propone agli europei di

superare le divisioni tra i vari paesi, di lanciare una riconciliazione

tra di loro, prendendo a modello l'Albania di quel tempo e la sagge-

zza del suo Signore, con il richiamo: "Imitez Skenderbeg".

Anche altri scrittori come Longfellow, Ronsard, Montaigne, K.

Marlow, M. Sarrocchi ecc.,evocano la resistenza ed il coraggio alba-

nese per ispirare insurrezioni per la liberatà.

I cronisti, gli storici e gli scrittori del medioevo non hanno osato

criticare la Repubblica di Venezia, che non fu un’alleata fedele degli

albanesi. I veneziani hanno approfittatto della resistenza antiturca

degli albanesi, anzi l’hanno usata per i loro interessi commerciali e

politico-espansionistici, per dividere la coalizione degli albanesi,

mettendo gli uni contro gli altri e, quando non riuscivano a

realizzare i loro scopi, li dichiaravano nemici del cristianesimo.

Lek III Dukagini fu uno dei Principi più potenti accanto a

Skanderbeg, perciò diventò preda anche degli intrighi della politica

veneziana e degli storici.

Quando la Serenissima sentì il pericolo turco vicino a casa sua,

soltanto allora si riunì realmente con la resistenza albanese e

proclamò la guerra all’Impero Ottomano nel 1463. Dopo quest’anno,

i veneziani si complimentarono con il Principe Lek Dukagini; i

cronisti e gli storici scrissero per suo coraggio e sue gesta eroiche

accanto a Skenderbeg e come comandante delle truppe veneziane,

fino al 1479, quando la Serenissima firmò l'armistizio con il Sultano,

che segnò anche l’occupazione dell’Albania da parte dei turchi.

Da questo anno gli storici smettono di scrivere per Lek III

Dukagini, il Vaticano e la Serenissima lo dimenticano Viceversa la

tradizione orale testimonia che il principe delle montagne continuò

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la resistenza in testa ai combattenti albanesi fino all’anno 1481, anno

della sua ultima comparsa pubblica in un viaggio da Ragusa verso le

montagne del nord di Albania, dove muore, ultimo erede del grande

Principato dei Dukagini.

Il mito di Lek Dukagini per secoli ha ispirato sentimenti patriotici

tra i montanari, egli era il grande cavaliere in prima linea nella lotta

per difendere la libertà del paese, sia come legislatore del Kanun, sia

come condottiero dell’esercito accanto a Skenderbeg e dei veneziani.

Anche dopo la sua morte, la figura di Lek Dukagini è stata gran-

demente onorata e identificata con il Kanun, che lui lasciò in eredità

ai suoi concittadini, che hanno custodito con fedeltà, e lo hanno

applicato come la legge delle montagne per cinque secoli.

Lo spirito popolare trasformò il principe Lek Dukagini in una

leggenda, in un vero mito, tanto che qualche storico scettico ha

avuto difficoltà ad accettare la sua figura e il suo operato come una

realtà storica.

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IL SECONDO LEGISLATORE DEL KANUN,

PADRE SHTJEFËN COSTANTINO GJEÇOVI.

Padre Shtjefën (Stefano) Costantino Gjeçovi nacque il 12 luglio

1874 a Janjeva di Kosova, dove frequentò la scuola elementare, ed

in seguito studiò presso il collegio dei Francescani a Troshan

(Scutari).

Nel 1888 andò in Bosnia, dove seguì gli studi liceali in filosofia a

Bania Luca, e gli studi di teologia a Kresheva. Nel 1896 ritornò in

Albania, dove servì come parroco a Peja, Laç, Durrazo, Rubik, Sapa,

Scutari, Thethi, Prekal, Gomsiqe, Vlora, Zyma ed a Zara (una isola

croata sotto il dominio italiano).

Padre Shtjefën Gjeçovi, prelato stimato della nostra chiesa

cattolica e dal popolo albanese e di una cultura poliedrica, dedicò

molto tempo alle ricerche sulla storia, archeologia, etnografia e

lingua albanese, senza dimenticare che il suo dovere principale era la

predica del Vangelo. Lui fu impegnato in tutti questi campi ed ha

scritto e pubblicato vari articoli e libri.

Padre Gjeçovi ha svolto anche un’intensa attività patriottica. A

prescindere dal ruolo di guida spirituale, fu anche il consigliere dei

combattenti di Malesia e Madhe durante l'insurrezione popolare per

l’indipendenza dalla lunga occupazione dei turchi (1910 – 1912); fu

il consigliere dei guerriglieri che combatterono per la difesa dei

nostri territori durante la prima guerra mondiale (1914 – 1918) e dei

com-battenti nella battaglia per la liberazione di Valona (1920).

Nel campo della storia, oltre qualche lavoro pubblicato sulla vita

e le gesta coraggiose di Giorgio Castriota (Skenderbeg), sugli alba-

nesi d’Italia e su Alessandro Magno, Padre Gjeçovi ha effettuato

anche vari studi di valore storico e culturale come l’opere “L’eredità

pelasgica nella tradizione del popolo albanese”, “Eredità illirica

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nella tradizione albanese”, “L’eredità traco-illirica”, che pubblicò

prima nel giornale “Populli” di Scutari, e poi nel giornale “Hylli i

Drites”.

E' inoltre l’autore della tragi-commedia “Mark K. Kryeqitas”

(1905) e del dramma “Moisi Golemi” (1906).

Nel 1910 pubblicò a Scutari il libro “L’alba della civiltà”,

un’opera con sentimenti profondi di patriottismo, scritto con un

linguaggio dantesco, ma ben comprensibile per il lettore.

Padre Shtjefen Gjeçovi ha tradotto vari libri dalla letteratura

mondiale, in particolare ha scelto opere con soggetto patriotico come

il dramma “Attilio Regolo” di Pietro Metastasio, la storia di “Sant’

Antonio da Padova” di Niccolò Dal-Gal (1912); “La pulzella di

Orleans o Giovanna d’Arco” (1915), ecc.

Padre Gjeçovi si impegnò anche nel campo dell'archeologia.

Effettuò scavi archeologici in varie zone nord di Albania, e con i

reperti rin-venuti, riuscì ad allestire un museo all’interno la sua

chiesa. Pubblicò i risultati degli studi archeologici in vari giornali

albanesi e stranieri. In questi articoli denunciò il governo albanese

per le concessioni rilasciate agli stranieri negli scavi archeologici, e

per il contrabbando dei reperti.

Il più grande contributo di Padre Gjeçovi afferisce al campo

dell’etnografia. Basta riccordare le raccolte sul folclore, che pubbli-

cò in una collana di opere come “Fabule popolari” (1903); ”Costumi

nei casi di morte” (1907), “La vita nelle montagne” (1908); ”Regole

e consuetudini sulle nozze” (1910-1911), “Il pianto-lutto, nei casi di

morte” (1917-1920). Inoltre, usando il pseudonimo “Lkeni i Hasit”,

Padre Shtjefen Gjeçovi pubblicò vari studi storici e sul folclore nella

stampa locale e nella rivista “Albania” pubblicato dal suoa amico

Faik Konica (Bruxelles – Belgio).

L’opera più importante di Padre Gjeçovi, è in ogni modo il

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34

“Kanuni di Lek Dukagini”, che iniziò a raccogliere nel 1898, e

continuò per circa 30 anni fino al 13 ottobre 1929, quando rimase

ucciso degli sciovinisti serbi.

Lui fissa per iscritto norme giuridiche ed etico-morali più antiche,

che sino ad allora erano state tramandate per via orale.

Durante gli anni del servizio come parroco nei diversi paesi delle

montagne dell’Albania del nord, Padre Gjeçovi venne a conoscenza

del diritto consuetudinario non scritto, del suo potere sulla società

mon-tanara, e meravigliato della forza e della ricchezza morale,

etica, giuridica, cominciò le sue ricerche, dedicandosi con grande

passione alla raccolta dalla voce del popolo, soprattutto dai vecchi

(vegliardi), di questo patrimonio prezioso della storia e della cultura

albanese, che operava come Canone delle Montagne albanesi, o il

Canone di Lek Dukagini. I motti e le sentenze che passavano di

bocca in bocca nell’occorrenza di un matrimonio, in famiglia, nella

stirpe, nelle contrade, nei villaggi, nei discorsi e nei convegni, per

sanare un conflitto o per stipulare un contratto, avevano una

indiscutibile forza prescrittiva, che conferiva loro l’aspetto di norma,

di regola e di legge stabiliti da Lek Dukagini.

Sin dai primi risultati delle sue ricerche sul Kanun, Padre

Shtjefen pubblicò vari articoli su tale patrimonio orale, nel giornale

“Hylli i Drites” (“La stella della luce”). Il suo lavoro fu ben accolto

dagli studiosi albanesi e stranieri, che espressero interesse a

conoscere le vecchie leggi delle montagne. Se il suo contributo

suscitò entusiasmo e interesse nel popolo e nel mondo degli

intellettuali e degli scienziati locali e stranieri, a qualcuno, o meglio

alle forze oscure, ciò dette molto fastidio. Un giorno, mentre stava

tornando delle sue missioni religiose e di ricerca sul Canone, Padre

Shtjefen Gjeçovi rimase ucciso in un imboscata di sanguinari

sciovinisti serbi

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35

La morte improvvisa di Padre Gjeçovi fu una dolorosa perdita per

la nostra nazione, che bloccò la pubblicazione del Kanun, già tutto

raccolto.

Sentendone l’obbligo morale di completare l’opera di Padre

Gjeçovi, un gruppo di padri francescani, riunì il voluminoso

materiale da lui raccolto, e dopo tre anni di intensi lavori, riuscì a

sistemare il materiale in un volume completo, pubblicato nel 1933 a

Scutari, “Il Kanun di Lek Dukagini”, opera postuma di Padre

Shtjefen (Stefano) Costantino Gjeçovi.

La premessa al Kanun fu scritta dal suo grande amico e collega,

l’Accademico italiano Padre Gjergj Fishta, che espresse stima

profonda per la competenza e la professionalità di Padre Gjeçovi, e

per il contributo straordinario dato dal suo lavoro di raccolta, ricerca

scientifica e codificazione delle leggi del diritto consuetudinario

albanese: vale a ribadirlo, fu un’opera di grande importanza per il

nostro popolo.

Padre Gj. Fishta nel 1933 scrive: “Con la raccolta del Kanun di

Lek Dukagini, Padre Gjeçovi ha reso un grande servizio alla

nazione, perché ogni stato che vuole vivere e svilupparsi secondo i

principi della ragione della vera civiltà, ha bisogno di conoscere

anche le leggi del diritto consuetudinario, che hanno importanza in

se stesse, ma innanzi tutto devono essere prese in considerazione da

quanti vogliano applicare le leggi dello stato”.

Tramite l’opera di Padre Gjeçovi, il popolo albanese diventò

conscio dei propri valori; anche il mondo riuscì conoscerci meglio,

ed accettare quei valori come parte integrante della eredità storica,

culturale e spirituale; valori cioè che nel loro insieme esprimono

l’autenticità della nazione albanese.

È importante sottolineare che l’opera e il contributo di Padre

Gjeçovi sono stati valutati e stimati più dagli studiosi stranieri che da

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36

quelli albanesi. Per l’apprezzamento dei suoi valori scien-tifici e per

il contributo storico e culturale del suo lavoro “Kanuni Lek Duka-

gjini”, il Senato Accademico dell’Università di Laipzig (Germania)

ha conferito a Padre Stefano Costantino Gjeçovi la Laurea Honoris

Causa di Dottore delle Scienze.

“Nessuno – disse Faik Konica – può competere con Padre

Shtjefen Gjeçovi, per la saggezza e le competenze sul Canone, che

rappresenta uno studio instancabile e approfondito, dove egli ha

raccolto, sistemato, qualificato e presentato tutto quanto è rimasto

del pensiero giuridico dell’Albania del medioevo, pensiero che

sembra abbia radici al di là del medioevo”.

Mons. Fan Noli scrisse: “Il Canone di Lek Dukagini, raccolto e

codificato da Padre Shtjefen Gjeçovi, rappresenta in realtà il monu-

mento più importante della cultura albanese, sorto durante il

Rinasci-mento Europeo è sopravvissuto per sei secoli, giocando un

ruolo strao-rdinario nella vita del nostro popolo, con la lingua nella

quale è stato scritto”.

Eqerem Çabej, nel 1935, nella sua opera “Elementi di letteratura

e lingua albanese”, include vari racconti i di Padre Gjeçovi

nell’antologia dei valori letterari, scelti per i bisogni della scuola

albanese.

Claudius Schewering (1939), professore della Facoltà di Giuris-

prudenza dell’Università di Münich - Germania, esprimendo le sue

opinioni sull’opera di Padre Shtjefen scrisse: “È un contributo di

grande valore (un tesoro) nella cultura mondiale”, aggiungendo che

“il Kanun è una raccolta del diritto consuetudinario e di leggi

interessanti, forse le più vecchie dell’Europa".

Con questi dichiarazioni per il Kanun di Lek Dukagini, Claudius

Schewering ha onorato la nazione albanese ed in particolare il suo

autore – legislatore Padre Shtjefen Gjeçovi.

Page 37: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

37

Padre Giuseppe Valentini, uno tra gli studiosi più conosciuti di

albanologia, ricercatore del diritto consuetudinario albanese, ha

scritto: “Padre Sh. Gjeçovi, ha fornito valori insostituibili per capire

la mentalità albanese. Senza di lui, oggi sarebbe difficile immagi-

nare, come il Kanun fosse il regolatore di tutto".

Ndoc Kamsi, scrive: “Padre Gjeçovi è un scrittore e patriota

valoro-so, il primo intellettuale albanese, che regalò al suo popolo

un’opera preziosa come è il Canone di Lek Dukagini, un’opera

dedicata solo al diritto canonico del nostro paese...”

Ms. Hasluck, Giuseppe Schirò e Witaker, scrivono: "Dopo una

lunga eredità orale, sia prima che dopo l’occupazione ottomana,

con la codifica fatta da Padre Gjeçovi, si vede che il Kanun contiene

valori e modelli normativi, è un testo storico che racchiude le basi

morali della società albanese".

Federico Patetta, l’autore dell’introduzione che correda la prima

pubblicazione del Kanun in lingua italiana (“Codice di Lek Duka-

gjini - ossia Diritto consuetudinario delle Montagne d’Albania” -

Roma 1941), scrive:“Il Canone, raccolto da Padre Shtjefen Gjeçovi,

rappresenta la consuetudine acquista dal popolo albanese come

norma”.

Ndrek Pjetri, valutando il lavoro minuzioso e grandioso del Padre

Gjeçovi scrive: “Il Canone fu raccolto come i chicchi di grano, in

una grande povertà. Il Canone è stato la legge, il modo di vivere del

popolo albanese, la nostra tradizione giuridica, che rispecchia noi e

la nostra nobiltà nazionale”.

Pandi Frasheri (1947) ha scritto: “Se apriamo il Canone di Lek

Dukagini compilato con amore dal nostro nuovo Giustiziano, Padre

Stefano Gjeçovi, troviamo istituzioni, leggi, usi e principi fondamen-

tali, che fanno sbalordire per la perfetta analogia e coincidenza che

hanno con quelli della Grecia e della Roma antica e, di conse-

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38

guenza, con quelli degli stessi di molti trattati politici internazionali

di ogni tempo”.

Patrizia Resta, autrice dell’introduzione che correda il libro “Il

Kanun, le basi morali e giuridiche della società albanese”, (pubb-

licato dalla Casa Editrice BESA, Lecce – 1997), scrive: “Il Kanun di

Lek Dukagini è una raccolta delle leggi consuetudinarie, che si sono

tras-messe oralmente per secoli, ma che diventò codice quando fu

scritto da Padre Gjeçovi, il quale è il vero legislatore della

tradizione giuridica delle montagne albanesi”.

Ismail Kadare, in un saggio, definisce il Kanun di Lek Dukagini:

“Jus Albanicae”.

In realtà, se prendiamo in considerazione l’originalità, la struttu-

ra, la specificità e la continuità storica, posso dichiarare con orgo-

glio, che la definizione di Kadare è pienamente appropriata.

Shaban Sinani, in uno studio dedicato al principe diffamato Lek

Dukagini, scrive: “Il Kanun codificato da Padre Shtjefen Gjeçovi è

un monumento culturale e storico del diritto tradizionale degli

albanesi”.

Lo studioso Tonin Çobani, analizzando il Kanun ed il suo legisla-

tore Lek Dukagini, scrive: "…. Durante il periodo 1458-1481,

quando Lek Dukagini dirigeva tutti i conventi e i consigli dei vecchi

delle montagne, si è codificato il Kanun, che fu ereditato genera-

zione dopo generazione come una pratica giudiziaria e le sentenze

trasmesse oralmente quali espressioni dei saggi, formulate o pronu-

nciate dal Principe Lek, alla stregua di sentenze giuridiche. Anche

se il Kanun non è stato scritto, ha agito per secoli come una sorta di

Commom law inglese, finché è stato raccolto e codificato da Padre

Shtjefen Gjeçovi, nel passaggio dal XIX secolo al XX".

Il medico giapponese Kazuhiko Yamamoto - che ha studiato il

Kanun con dedizione ammirabile, analizzando i concetti etici come

Page 39: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

39

la bessa, l’onore, il pane, il sangue e la vendetta (faida), trova una

concordanza con il diritto consuetudinario antico giapponese, con la

filosofia antica greca, con le opere di Platone e di Aristotele, anzi

rivendendo i concetti etici della società greca senza autorità statale.

In un’analisi comparata del Kanun, lui trova somiglianze con le

vicende descritte da Omero nell’Illiade e nell’Odissea, nonché con le

tragedie di Eschilo e di Sofocle.

Il Kanun di Lek III Dukagini è una opera di ampio respiro

giuridico ed umanistico, unica nella lingua albanese.

Il Kanun, questo monumento giuridico ed etico-morale del diritto

albanese, mette in luce l’abilità del nostro popolo di amministrare e

organizzare la vita, ne richiama l’esperienza giu-ridica, e sua cultura,

mostrando al mondo che gli albanesi non sono un popolo barbaro ed

incolto.

In particolare, i valori della nazione albanese sono evidenti nei

capitoli e negli articoli del Kanun, in cui si parla della famiglia

(struttura, organizzazione, i diritti ecc), o quando si determinano le

regole organizzative e sociale delle tribù, delle stirpi, delle contrade

e dei villaggi, per quanto riguarda l’onore, la parola data, la bessa,

l’ospitalità, il pane-cibo ecc.

Non dobbiamo dimenticare che quando parliamo del ruolo e della

forza di agire del Kanun, ritorniamo molto indietro nel tempo: ci

troviamo negli anni difficili di medioevo, difficoltà che sopravvi-

vono al medioevo stesso, quando il popolo albanese viveva nelle

zone alte e isolate delle montagne, dove non era presente nessun

potere statale dell’impero Ottomano.

Le tribù montanare nei secoli avevano autoorganizzato e automa-

ministrato la vita secondo le leggi del Kanun, difendendo la loro

auto-nomia, l’indipendenza, la loro identità etnica e culturale, la loro

lingua, garantendo la sopravvivenza della nostra nazione.

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40

In particolare, durante l’occupazione turca, quando non esisteva

né stato, né governo albanese, è stato il Kanun a dirigere, organi-

zzare e amministrare la vita in tutti i territori abitati dagli albanesi.

Il Kanun di Lek Dukagini, o il diritto consuetudinario albanese, è

stato l’unico tra i popoli balcanici rimasto come il diritto parallelo,

anche dominante sul diritto dell’Impero Ottomano, sopra la Sheriat,

ma anche sopra il potere e delle leggi degli altri occupanti che hanno

invaso l’Albania.

Il Kanun delle Montagne albanesi, raccolto e codificato da nostro

legislatore Padre Shtjefen Gjeçovi, è arrivato, con qualche cambia-

mento, fino ai nostri giorni come il Kanun di Lek Dukagini,

trasmesso fedelmente dalla nostra tradizione orale e come parte della

nostra storia e cultura.

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41

IL CANONE E IL SUO PERCORSO STORICO.

Il nome Kanun è di origine greca: «kanón» significa riga, lo

strumento per fare le linee dritte e quindi metaforicamente “tenere

dritto”, “tenere giustizia”. Dunque definisce “la giustizia di Lek

Dukagini”, o “la giustizia secondo il Canone delle Montagne”,

secondo il diritto consuetudinario non scritto, in base del quale è

stata costruita la vita del popolo albanese.

Quando si dice: “tutto è kanun, come ereditato dagli antenati -

gjithçka eshte kanù i trasheguem prej te pareve”, se ne evoca

l’origine antica, che ancora non siamo però in grado di verificare

con esattezza. Su tale origine insistono quasi tutti gli studiosi stra-

nieri e albanesi.

Schewering considera il Kanun “un riassunto delle norme con-

suetudinarie e delle leggi forse più antiche dell’Europa”.

S. Villari, nel libro “Le consuetudini giuridiche dell'Albania nel

Kanun di Lek Dukagini”, (Società Editrice del Libro Italiano, Roma

1940; pp 31-33), ha notato punti di corrispondenza fra il Canone

Albanese ed il “Fetha Neghest” attribuito ai padri della chiesa con-

vocati al Concilio di Nicea.

Non si può dire che queste due leggi abbiano una unica fonte, ma

il fatto della presenza attiva dell’Episcopato Illirico Albanese nei

primi Concili ecumenici, specialmente il suo contributo sin dal

Primo Concilio di Nicea, dove viene approvato il testo della formula

del “Credo”, proposta da tale Episcopato, ci fa pensare a legami e ad

influssi reciproci.

Nei documenti dei Concilii troviamo altri contributi dei padri

della chiesa Illirico-Albanese, in particolare nel campo della costru-

zione dell'“usus” ecclesiale. L’esistenza di un Canone illirico in

questo periodo, non è facile da provare, ma nemmeno si possono

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42

ignorare alcuni fatti di rilievo.

Su questi argomenti vorrei aggiungere che nell’Archivio di Stato

albanese si trovano più di 100 Codici, scritti dal VI secolo d.C fino

al XIX secolo e tra i quali ci sono diversi codici agiografici dedicati

alle regole sociali, alle norme morali, al matrimonio, alla tradizione

laica, alla giustizia, al tribunale, alla musica, alla scienza. Purtroppo

fin ora non sono stati effettuati studi approfonditi e comparativi tra

questi codici con il Kanun o, meglio i Kanune, perché sono tanti.

Barone Von Nopsca scrive: “la fonte del Kanun delle Montagne

sono le leggi dei Longobardi, entrati in Albania prima del XIV

secolo, tramite la Venezia”.

Faik Konica scrive: “Il Kanun presenta tutto quanto è rimasto dal

pensiero giuridico dell’Albania del medioevo, pensiero che sembra

avere i radici oltre al medioevo”.

Padre G. Valentini trova nel Kanun e analizza vari elementi che

si ricollegano al diritto romano.

Ernest Koliqi trovando nel Kanun analogie con il codice Teodo-

siano, con lo Jus Diocleziani, e con lo Jus Justiniani, scrive: “L’alto

significato morale cittadino, lo spirito eroico che ispira le consuetu-

dini giuridiche trasmesse oralmente, l’unico rimasto fin oggi in

Europa, ci ricorda da sé la vecchia origine, in particolare quegli

“antiqui mores” romani e le loro leggi, da cui è nato”.

Pandi Frasheri comenta: “Nel Kanun troviamo istituzioni, leggi,

usi e principi fondamentali, che ci fanno sbalordire per la perfetta

analogia che hanno con quelli della Grecia e della Roma antica“.

Robert Elsie, analizzando la vecchia origine del Kanun precisa:

“Le leggi consuetudinarie del Kanun, con il passare del tempo, sono

state cambiate e influenzate anche da soggetti stranieri. All’inizio

sono state influenzate dalle leggi romane e dopo dalle norme e dalle

leggi Germaniche, portate dai Goti.

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Non si esclude anche l’influenza della chiesa, soprattutto dei

monaci nelle zone montanare del nord dell’Albania”.

E ancora Kazuhiko Yamamoto: “Il Kanun ha somiglianze con

l’opera filosofica di Platone e Aristotele, e per di più, nel Kanun si

trovano concetti etici della società greca, del tempo in cui era

assente l’autorità statale, che fanno pensare che il Kanun sia di

antica origine”.

A. Andersen: “Il Kanun è una legge consuetudinaria che ha vissu-

to per 600 anni, e ha agito come un sistema per l’amministrazione

giudiziaria nel nord dell'Albania, che storicamente è stata isolata

dalle leggi del governo centrale”.

Ismet Elezi, uno dei più notti ricercatori sul diritto consuetudi-

nario albanese, ha documentato il fatto che “il Kanun appartenga ai

tutti i territori abitati dagli albanesi, dal nord al sud”.

Che il nostro Kanun sia esistito e abbia agito da secoli, ormai

nessuno ha dubbi, ma la questione è quando fu codificato originaria-

mente? Chi fu il primo legislatore?

Tutti si domandano se il Kanun sia stato scritto, e se sì, in quale

lingua? Come è riuscito a sopravvivere ed a rimanere invariato

durante tutti questi secoli? Quale sono le somiglianze e le differenze

con i diritti di altri popoli?

Page 44: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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Diogene con lanterna, cercando l’uomo vero.

Opera di JohanTischbein

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IL KANUN ED IL DIRITTO ROMANO.

Si suppone che il Diritto consuetudinario esistesse nell’Illiria, già

proprio dei tempi romani. Infatti l'Illiria, una delle quattro Prefetture

dell'Impero Romano, aveva il proprio diritto autoctono riconosciuto

dall’imperatore romano. Questo confermano diverse fonti storiche

ed anche il noto giurista romano Ulpiano, il quale scrive: “Il gover-

natore romano dell’Illiria prendeva in considerazione il diritto

locale”. Anche dopo la Legge di Caracalla (212 d. C.), questo diritto

consuetudinario locale illirico è restato in vigore nella pratica

giuridica.

Occorre inoltre aggiungere che il diritto consuetudinario è stato

conosciuto da quasi tutti gli imperatori romani di origine illirica,

specialmente da Diocleziano, Costantino, Giustiniano.

Tra gli argomenti che appoggiano l’idea che il nostro Kanun

abbia ereditato elementi dal diritto romano, è il Codice Teodosiano,

dove si trova la legge 6° che sancisce: “… Il legislatore critica il

prefetto Flaviano, perché ha sbagliato appoggiando le leggi locali

precedenti, che dicono: uno che vuole vendere la terra, prima deve

avere l’approvazione dei cugini e dei vicini”.

Anche se non è chiaro quali siano queste “leggi precedenti”, e

non viene specificato se è la legge romana o è la legge illirica, è

importante il fatto che questa vecchia legge è testuale anche nel

Kanun di Lek Dukagini, (articolo 77, § 464 del KLD) che stabilisce:

“prima che si venda un terreno, dovranno essere avvisati i cugini, la

fratellanza, la stirpe ed i confinanti del venditore”. La stessa legge

si trova anche nei altri Kanun albanesi.

Secondo gli studi di Seeck, la legge descritta nel Codice Teodo-

siano risale al 391 d.C, quando Flaviano era prefetto del protettorato

d’Illiria e l’imperatore era lo spagnolo Teodosio e non un imperatore

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illirico. È interessante il fatto che una legge formulata come sopra

non si trova nel diritto romano conosciuto finora, perciò Ernest

Koliqi pensa:“… Sia stata una consuetudine di quel tempo, abolita

in seguito e scomparsa dal mondo romano, ma custodita nel mondo

illirico”.

Durante l’occupazione romana, nel capoluogo principale o secon-

dario della Prefettura d’Illiria si organizzava il famoso “Conventus

iuridicus”, costituito dai nobili, notabili e giudici locali, mentre nelle

colonie, questo era sostituito con “Conventus civium romanorum”.

Il Prefetto periodicamente perlustrava la regione e, trattenendosi

per ispezione nei vari capoluoghi, vi convocava il “conventus”, con

il quale prendeva in esame le cause, specialmente di diritto civile,

secondo norme che lui aveva predefinito con “edictum perpetuum”,

che però si basavano sul diritto romano, sul diritto locale e sullo “ius

gentium”. In particolare per la procedura, secondo i principi di

“equità”, vigeva ampiamente, se non forse esclusivamente, l'istituto

del “recuperatio”.

Ogni cittadino locale che venisse chiamato in giudizio “in ius” da

un giudice romano o illirico, come pure il membro di una comunità

che venisse chiamato in giudizio dal membro di un'altra, aveva il

diritto di scegliere una specie di giuria di “recuperatores”, che cura-

vano il giusto svolgimento del processo nell'interesse dell'accusato.

Di fatto, secondo il Kanun, colui che nella montagna viene citato

dal suo avversario al giudizio degli anziani ha il diritto, secondo

l'importanza della causa e secondo la sua qualità, di presentare una

porota, o corpo di garanti, e testi a difesa, che avranno influenza

capitale nella soluzione della vertenza.

Nell’Articolo 144, § 1044 - KLD è stabilito: “Il Codice chiama

“Porota” - “Poronike” (giurati) quel numero di persone che espre-

ssamente vengono designate dai giudici, perché giurino a favore di

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un imputato per liberarlo dall’accusa”. Vero è che comunemente

tale termine tecnico viene messo in relazione col parallelo “porota”

vigente nel vecchio diritto tradizionale; ma non è improbabile, come

è stato detto da molti studiosi, che dal termine “recuperatio” della

lingua latina, attraverso la semplificazione “paratio”, sia derivato il

termine albanese “porota”, che si trova in tutti i nostri Kanun delle

montagne.

Si sa che, quanto ai testimoni, nel diritto romano antico come

consiglio e nel diritto Costantiniano come disposizione imperativa,

vigeva il principio che “testis unus, testis nullus”; in maniera anal-

oga anche la porota o corpo dei testi del diritto albanese richiede

appunto una pluralità di testi, il più delle volte fino a 12 o 24 testi-

moni, perché, spiega il Kanun: “Di tutta quella gente, se non il

primo, almeno il secondo e il terzo saprà qualche cosa e non vorrà

vendere l'anima sua con un giuramento falso” (Art 144, § 1049, §

1050 – K.L.D).

In seguito, cioè dal periodo degli Imperatori illirici in poi e spe-

cialmente dal tempo di Costantino, il “Conventus” acquistò sempre

maggiore importanza tanto da venire a somigliare ad un parlamento

provinciale, con diritto di presentare lagnanze e proporre migliorie al

governo imperiale.

La storia conosce tre di tali “Conventus” giuridici nelle città

illiriche di Salona, Narona, Scardona, ed anche un Conventus civium

romanorum, quello di Lissus, l'odierna Lezha di Albania, ma si può

supporre che altri ancora ne esistessero in altri centri.

Conventus in lingua albanese si chiama kuvend, ed è una parola

modificata della parola latina conventus.

Nulla sappiamo di preciso dal punto di vista costituzionale e

giuridico sugli illirici, ma è molto probabile che sia esistito uno

statuto o un codice tradizionale non scritto, legato da una parte, alla

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psicologia del popolo illirico e dall'altra alla costituzione già con-

sentita da Roma ai “Conventus”.

Non si sbaglia a sostenere che i conventus illirico-albanesi, e poi

anche il Kuvend, rappresentino una continuità del coventus romano-

illirico e che abbiano avuto un ruolo importante nello sviluppo

sociale, politico, culturale e militare del nostro popolo.

Altra analogia con il diritto romano, la troviamo nel deferire il

giuramento.

Secondo “legis actiones” dei romani, l'una parte poteva, in prova

dei fatti da essa allegati, rimettersi alla prova di coscienza dell'altra

parte, deferendole il giuramento sulla verità di quei fatti: l'avversario

soccombeva se ricusava di prestare il giuramento deferitogli.

Così pure il Kanun stabilisce: “Se l'accusato non confessa, il

padrone della cosa rubata o la parte civile ha diritto di costringerlo

al giuramento; o giurare che non se ne sa nulla, o restituire quanto

si deve, o presentare il colpevole “ (Articoli 88 – 95 del KLD).

I giuramenti: “Per il cielo e per la terra, per questo pane, per

questa pietra, per questo paese, per questo luogo” ecc., sono

elementi importanti nel Kanun delle Montagne, usati per testimo-

niare la verità, per esprimere la forza della verità nelle circostanze

quando lo si chiedeva dai vecchi giudici.

Nelle montagne albanesi il giuramento si fa sulla “pietra”

basando sui criteri del Kanun, ed “è uno dei giuramenti più spaven-

tosi che conosce il montanaro albanese” (Art 89, § 533 - K.L.D) –

ma si fa anche porta a porta. Questo giuramento non ha niente da

fare con la religione, nè con il Vangelo, né con il Corano.

I giuramenti stabiliti dal Kanun sono antichi, precristiani e legati

alla mitologia elena e romana, anzi sono uguali a quelli dei eleni

dell’antichità, che giuravano per il cielo (per Urano) e per la terra

(per Demetra).

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Ernest Koliqi, in un suo studio, ha confrontato il diritto di fami-

glia romano con il diritto della famiglia albanese secondo il Kanun e

ha individuato somiglianze interessanti.

Ricordiamo che, nella famiglia romana il “Pater familias” era il

solo supremo regolatore, il solo giudice delle colpe commesse dai

sottoposti alla “patria potestas”; aveva un illimitato diritto di correg-

gere e punire i figli (ius vitae et necis).

Come il padre era l'assoluto signore della famiglia, così egli era

l'unico ed assoluto padrone del patrimonio familiare. Tutto quello

che il figlio, posto sotto la patria potestà, acquistava, sia per incarico

del padre, sia a sua insaputa, apparteneva al capo della famiglia; e il

figlio non poteva, salvo in casi eccezionali, agire in giudizio in

proprio nome.

Analogamente, secondo il nostro Kanun, il padre ha diritto sulla

vita dei figli; ha diritto di mandare il figlio a servizio quando vuole;

può castigare quelli di famiglia lasciandoli a digiuno, togliendo loro

le armi per una o due settimane, legandoli o imprigionandoli in casa,

o cacciandoli; egli ha diritto sui guadagni di quelli di casa, siano

paghe o regali; ha diritto di acquistare, alienare, permutare qualsiasi

parte del patrimonio, mentre i familiari non possono vendere, nè

comprare, nè permutare alcuna cosa.

Solo chi era “pater familias” godeva in Illiria i pieni diritti civili e

politici, ed anche nel Kanun spetta al signore di casa, di prendere

parte alla vita della tribù e di partecipare nel conventus, egli rappre-

senta la famiglia con tutti i diritti e i doveri, in pace e in guerra (Art.

33 - K.L.D).

Nel diritto romano la famiglia è la cellula della società, ma la

donna non poteva aver mai la “patria potestas”, era esclusa nel

diritto più antico, dell'esercizio di tutti i pubblici uffici. Così pure nel

Kanun, la famiglia albanese è la pietra angolare della società, ma la

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donna non è ammessa a partecipare al conventus e “non può

accusare, non può essere testimone, e non ha diritti come erede”

(Art. 34, § 61 - K.L.D).

Sotto l’autorità del “pater familias” romano vi erano anche gli

“agnati” (cugini), cioè i discendenti in linea maschile dal comune

padre o nonno, e gli adottati da loro.

La costituzione della famiglia patriarcale albanese, con il vecchio

signore della casa, si estende analogamente a tutti i membri della

famiglia in linea maschile (linea del sangue), che convivono ancora

intorno a un solo focolare, o sotto un tetto.

Alla morte del titolare d'un patrimonio famigliare romano, tutto il

patrimonio passava in blocco a una o più persone che si dicevano

eredi. Dopo la morte del capo famiglia, nella società romana, il

gruppo della famiglia non si scioglieva, ma restava unito sotto un

altro capo, che era il più immediato discendente del “pater” o una

persona diversa ma designata da lui.

Così pure nella famiglia montanara albanese, ordinariamente alla

morte del padre o avo, continuava la convivenza ed il patrimonio

rimaneva unitaro.

Al primogenito spettava l’eredità del patrimonio e di governare la

casa dopo la morte del padre, e doveva essere interrogato circa ogni

questione, in casa e fuori. Secondo il diritto romano, all'erede

passava non solo l'attivo ma anche il passivo.

Cosi pure secondo il Kanun di Lek Dukagini. Se il capo di

famiglia muore senza figli, lascia dei debiti, questi vanno pagati

detraendone la somma dalle sue eventuali disposizioni testamentarie,

e ciò a cura dei cugini (Art 36 – 42, K.L.D).

Dall'eredità, nella società romana erano esclusi i discendenti in

linea femminile; così pure il Kanun albanese vuole che l'eredità

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spetti al nipote del tronco del padre (linea del sangue) e non al nipote

di figliuole (linea del latte).

Presso i romani in mancanza di agnati erano chiamati alla eredità

legittima i gentili o quelli della stessa “gens” o stirpe, benché tale

disposizione sia presto caduta in disuso, così pure è descritto anche

nel diritto albanese.

Nei villaggi delle montagne albanesi, se la casa rimaneva senza

discendenti maschi, il cugino più prossimo prendeva il dominio del

patrionio.

Se il patrimonio vacante non ha cugini in cui ricadere, la stirpe e

la tribù, anche solo per ragioni di parentela “nel centesimo grado, ha

diritto sul terreno e altri fondi del patrimonio (njiqind breza në

kjofshin, kanë tagër mbi gjânë, pronën e pasunínë e pangut të

shuem)”(Art. 42 del KLD).

Si vede che esistono tante somiglianze e quelle non sono casuali.

Nulla ne sappiamo di preciso dal punto di vista costituzionale e

giuridico sugli illirici, ma è molto probabile che sia esistito un

codice tradizionale non scritto, legato all’organizzazione della vita

del popolo illirico, che durante la lunga occupazione romana sia

stata influenzato, ed abbia ereditato molti elementi dal diritto

romano. Non solo ma gli illirico-albanesi hanno custodito invariato

il loro diritto consuetudinario.

Tale fortissime tendenze delle vecchie tribù illiriche, ed in conti-

nuità gli albanesi, si concretano nelle espressioni sacramentali con

cui ogni questione si tronca “come ce ne lasciarono legge i nostri

avi” ed “a paese vecchio uso nuovo non si addice”, che vuol dire che

non si possono fare cambiamenti alle leggi del vecchio Kanun.

Nessuno aveva diritto di cambiare il Kanun. Questa sentenza con-

sentì così di conservarlo invariato per molti secoli fino ad oggi,

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52

come un solido codice consuetudinario, come un diritto tradizionale,

l'unico esistente in Europa fin al XX secolo.

La decadenza prima dell'Impero romano e poi dell’impero bizan-

tino portò con sé un regime che andava facendosi sempre più di tipo

feudale. Tale processo naturalmente prima si concretizzava nelle

città, mentre la popolazione illirico – albanese, che abitava nelle

montagne e ancora rimaneva organizzata in tribù (fis), è presumibile

andasse acquistando sempre maggiore atonomia, fino a reggersi da

sé secondo le tradizioni etniche, ereditate dagli antenati.

Non si esclude che il Kanun, in parte sia stato modificato dalle

consuetudini impiantate dai romani e, nei secoli successivi, sono

stato influenzato anche dalle leggi dell’Impero Bizantino, dei longo-

bardi, dei normanni, degli slavi, dei veneziani e certo anche da altre

circostanze storiche.

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IL KANUN ED IL DIRITTO BIZANTINO.

Diocleziano (nato a Dioclea - Illiria) con la sua Tetrarchia divise

l’impero in due parti; una decisione fatale, che portò per secoli alla

divisione in due mondi, l’occidentale e l’orientale, sempre in con-

flitto tra loro. Durante la dominazione di Bisanzio, il territorio abit-

ato dagli albanesi fu oggetto di conquista da parte delle tribù barbare

del nord Europa, come Visigoti, Unni, Ostrogoti e Slavi.

Dopo il crollo dell’impero Romano (476 d.C), i bizantini eserci-

tarono un’autorità nominale, dividendo il territorio d’oriente in tante

piccole signorie locali, che erano in contatto tra loro ed in un certo

modo si fondono e si trasformano. I rapporti tra gli abitanti di queste

signorie (dirette da un militare - Rex), erano regolati con le leggi

centrali e locali. La risoluzione dei conflitti, fino al tardo medioevo

era la FAIDA.

Nel corso del V-VI secolo, l’autorità imperiale di Bisanzio tende

ad accentrare nelle proprie mani il potere politico, economico e

militare ed a controllare quello religioso.

Per garantire l’unità dell’impero, viene rafforzato e organizzato il

sistema giuridico ereditato da Roma (Codex Theodosianus - 438 d.

C.) e, poi, il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano (nato a Tauresio-

Illiria nell’anno 482 d. C, che diviene imperatore nel 527 d.C.).

Della legge di Giustiniano furono redatte due edizioni: la prima,

Codex Iustinianus primus o vetus del 529, è andata perduta, mentre

la seconda, il Codex Iustinianus repetitae praelectionis del 534 d.C.,

ci è pervenuta integralmente.

Lo Jus Giustinianeo è un capolavoro giuridico, composto da leggi

e di sentenze, a cui hanno dato vita secoli di giurisprudenza romana,

che codifica con chiarezza e razionalità i principi del diritto, su cui

poggia l’ordinamento statale.

Page 54: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

54

Il Codex Iustinianus è diviso in 12 libri, contenenti ognuno nume-

rosi titoli. Complessivamente si contano oltre 1600 costituzioni.

L'opera è divisa per argomenti:

- libro I: diritto ecclesiastico;

- libri II-VIII: diritto privato;

- libro IX: diritto penale;

- libri X, XI, XII: diritto amministrativo e finanziario.

Pure il Kanun di Lek Dukagini è diviso in 12 libri, ma anche il

primo libro è dedicato al diritto eclesiastico, i libri II - VIII al diritto

privato e così via gli altri libri, il che evidenzia una somiglianza im-

pressionante con la struttura del codice Giustinianeo.

Per quanta riguarda l’aspetto giuridico del Kanun di Lek Duka-

gini, risulta che molti argomenti sono quasi gli stessi di quelli del

Codex Iustinianiano, che era attivo in Illiria.

Dopo la morte di Giustiniano, le sue leggi subìscono un grande

processo di volgarizzazione, che renderà le sue opere molto più sem-

plici e adattabili a quelle che erano le esigenze politiche e culturali

di quei tempi.

Non si può escludere la possibilità che la tradizione consuetu-

dinaria degli illirici abbia subito l’influenza anche delle leggi di

Giustiniano, selezionate dai mentori illirici e adottate secondo le cir-

costanze e le condizioni specifiche della vita montanara nei loro

domini.

Dunque, possiamo suporrere che il Kanun rappresenta un

riassunto delle leggi di Giustiniano (un variante volgarizzata) e negli

anni successivi il diritto consuetudinario albanese, ha forse subito

influenze anche dalle leggi normanne.

Il nostro Kanun probabilmente è stato codificato come diritto

locale prima del VI secolo, perché i codici, dopo il regno di Eraclio

(VII secolo), attribuiscono al clero le funzioni amministrative; vice-

Page 55: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

55

versa il Kanun di Lek Dukagini vieta in ogni caso al clero di avere

potere amministrativo e politico.

L’organizzazione dell’impero bizantino nei piccoli stati (dal VI –

XII sec d. C), portò al consolidamento dei regimi locali, fra i quali

compare anche l’Albania. In ognuno di questi cosiddetti stati vigeva

il culto della personalità del diritto, per cui ciascuno di loro ha i

propri usi, le proprie consuetudini, le proprie norme e regole, che

sono custodite e trasmesse oralmente.

L’Albania in questo tempo assume una fisionomia feudale, più

chiara nelle città, mentre la popolazione montanara continua a rima-

nere organizzata in tribù e contrade, autogovernate secondo le regole

consuetudinarie tradizionali. Questo processo portò all’unificazione

del popolo albanese e della sua lingua, facendo nascere la nazione

albanese, processo che fu completato nel 1190, con la proclamazione

dello Stato di Albania.

La nazione albanese in questo periodo era organizzata in tribù

contadine e vari centri urbani, come Scutari, Durazzo, Tivari, Ulcini,

Drishti, Lezha, Berati, Elbasan, Prizren, Ohri, Janina, Vlora, dove la

vita e l’attività politica, sociale, economica e militare erano gestite

da regole e leggi che non potevano essere spontanee.

Le città albanesi erano come un ponte di comunicazione tra

l’oriente e l’occidente e erano diventate centri importanti amminis-

trativi, di artigianato, di commercio e centri di chiesa. In particolare

le città di Scutari, Durazzo, Vlora, Ulcini, diventarono centri impor-

tanti e ponte di collegamento tra l’oriente e occidente.

Dello Stato di Albania (Arberia) (1190 - 1216) faceva parte anche

il Principato dei Dukagini.

La famiglia dinastica Progono dello Stato di Albania aveva il suo

stemma araldico, con l’aquila monocipite, con le ali levate in alto,

che ritroviamo anche come stemma della famiglia dei Dukagini.

Page 56: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

56

Nel 1204 crollò l’Impero Bizantino, ma lo Stato di Albania rima-

rrà ancora a lungo, per più di un decennio.

Il fondatore dello Stato fu il principe Dhimiter Progoni, il Signore

di Albania, o “Magnus Arkond”, e poi i suoi discendenti.

Nel 1208, Papa Inocenzo III, in una lettera indirizzata al principe

Dhimiter Progoni, lo chiama “Judex”, il primo giudice dell’Albania.

Ma questo fatto fa sorgere una domanda: con quale leggi giudicava

il Magnus Arcond dello Stato di Albania?

Erano ancora le leggi di Gustiniano?

Erano le leggi degli illirici, o lo Stato di Albania aveva le sue

leggi, o forse in questo periodo era il Kanun?

Ancora non possiamo rispondere a questa domanda.

Comunque, in questo tempo esistevano delle leggi, come testimo-

nia un documento raro e significativo. Nell’anno 1215 l'Arcivescovo

Demetrios Chomatianos mandò una lettera al vescovo di Kruja, dove

si parla del matrimonio di Gregorio, il Magnus Arkond di Albania,

con Komnena, la sua cognata.

Con un analisi giuridica e teologica dell'argomento, l’Arcivesco-

vo Chomatianos scrive: “Questo matrimonio è conosciuto dalla

chiesa” e, “questo matrimonio non sporca il sangue ed è legittimo”,

confermando così il diritto di Gregorio per il legame matrimoniale

con la vedova di suo fratello deceduto.

Nel Codex Iustinianus ci sono molte leggi sul matrimonio, sul

divorzio, sul adulterio ecc., ma non esiste nessun paragrafo che si

riferisce al matrimonio con la cognata.

Quale è, però, questa legge sul matrimonio a cui si riferisce

Chomatianos? Questo matrimonio è realizzato secondo le regole che

stabilisce il Kanun delle montagne e, quindi riconosciuto dalla

chiesa o sono esistite anche altre leggi?

Può sembrare una domanda retorica e priva di una risposta esau-

Page 57: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

57

riente. Tuttavia se riflettiamo, possiamo dire che nelle condizioni

storiche e sociali dell’Impero Bizantino di quel tempo, gli albanesi

possono aver preferito usare le vecchie leggi locali ereditate. Se la

storia ha confermato che le leggi dell’impero bizantino (Jus

Iustinianus) erano ereditate da quelle del diritto romano, allora è più

probabile che il Kanun rappresenti la continuità di questa fonte,

ovviamente modificato con razionalità, addottandolo alle nuove

realtà medioevali, su cui poggia l’ordinamento statale in Albania di

questo periodo storico.

Cosa stabilisce il Kanun delle Monatgne rispetto al matrimonio

con la cognata vedova?

È importante sottolineare che le regole sul matrimonio, nel Kanun

di Lek Dukagini, sono le stesse di quelle che scrive l’Arcivescovo

Chomatianos. Nell’articolo 14, § 36 del KLD si stabilisce:“La

vedova ha diritto di scegliere il marito che meglio le aggrada, e di

decidere da sé del proprio matrimonio”.

Ricordiamo che il “diritto” secondo il Kanun di sposare la

cognata vedova è stato applicato dalle famiglia montanare albanese

fino alla prima metà del XX secolo. Anche se non le conosciamo

ancora, tutti siamo convinti che durante il medioevo, in Albania

siano esistite leggi e regole canoniche anche sul matrimonio. Su

questo argomento, di nuovo posso ricordare i 100 Codici albanesi

scritti dal VI fino al XIX secolo (in lingua latina e greca).

Lo scienziato Theofan Popa, dopo un lungo e accurato studio, ha

classificato i codici in tre gruppi: 1. codici biblici, 2. codici liturgici,

3. codici agiografici.

Nel gruppo dei codici agiografici si trovano scritture dedicate alla

cultura laica, alla vita sociale, alla morale, al tribunale, al giudice, al

diritto e alle tradizioni etno-culturali, al fidanzamento, al matrimonio

ecc., come risulta nel codice N° 14 di Berati dell’XI secolo, nei

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Codici N° 32, N° 38, N° 43 di Berati del XIII secolo, nel codice di

Scutari del 1341, ed in particolare nel Codice N° 86 di Elbasan

dell’anno 1563 (contiene le regole per il matrimonio), e nel Codice

N° 60 di Berati dell’anno 1786 con le norme e le regole per il

funzionamento della giustizia, per la figura del giudice, per il

tribunale, per le regole del fidanzamento e del matrimonio ecc.

Maggioranza di questi leggi, regolamenti e norme morali nei

Codici albanesi, non hanno niente da fare con la religione cristiana,

al contrario hanno carattere laico.

È probabile che le regole e le norme sul matrimonio, previste dal

Kanun di Lek Dukagini, forse le possiamo trovarle anche nei codici

richiamati.

Nell’articolo 11, § 29 del KLD si stabilisce: “Il matrimonio è

legittimo, riconosciuto come tale dal Kanun di Lek Dukagini e dalla

chiesa”, cioè il riconoscimento civile (secondo il Kanun) e ricono-

scimento religioso del matrimonio, come nei tempi odierni.

Dopo il crollo dello Stato di Arberia, fu il Regno d’Albania di

Carlo I Angiò (1272-1368) e poi gli albanesi furono sotto il dominio

slavo e, in seguito, sotto il dominio della Repubblica Marinara di

Venezia, della quale facevano parte i territori del centro-nord e della

costa marittima albanese. L’Albania Veneta continuerà fino alla

occupazione turca di Scutari (1479) e del Durazzo (1505).

Se il Kanun fosse stato codificato in questo periodo, ovviamente

sarebbe stato denominato con un termine in lingua latina o italiana,

che erano le due principali lingue usate nei documenti ufficiali, nei

protocolli delle relazioni con gli altri paesi ed usate anche dalla

chiesa cattolica. In realtà, la lingua albanese ha ereditato dalla lingua

latina molte parole di uso amministrativo e giudiziario, come statut

(status), ligj (lex), dokument (documentum), kod (codex), gjyq (ius),

porota (recuperatores) ecc., invece la denominazione del Kanun è di

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59

origine greca (lingua ufficiale nell’impero bizantino), il che sugge-

risce che il nostro diritto consuetudinario sia stato codificato prima

del dominio napoletano e veneziano, e che sia un codice più antico.

L’esistenza delle leggi attive locali, prima dell’occupazione vene-

ziana, è confermata in vari documenti dell’archivio di Venezia.

Padre Giuseppe Valentini ne ha scelto uno più significativo: “A

Durazzo ed anche nelle altre città governate dai veneziani, era

ordinato che ogni bailo, conte, podestà, o provveditore, dovesse

conoscere e prendere in considerazione le leggi consuetudinarie

locali”. Questo documento suggerisce l’esistenza delle leggi locali,

ma di nuovo si pone la domanda:

Quali sono le leggi locali?

Esisteva in questo tempo un codice giudiziario albanese?

Padre Giuseppe Valentini, studiando vari documenti dell’archivio

di Venezia, ha rinvenuto testimonianze che dimostrano che, nei

territori abitati dagli albanesi (Albania Veneta), funzionava un vero

sistema giudiziario e che i processi giudiziari importanti venivano

giudicati dal rappresentante veneziano una volta alla settimana,

mentre i processi civili rientravano nei compiti dei giudici locali, ma

non viene specificato chi fossero questi giudici locali (erano vene-

ziani o erano davvero Vegliardi albanesi?) ed in base a quali leggi

giudicavano? Esisteva in questi anni il Codice Consuetudinario

Albanese – cioè il Kanun degli albanesi?.

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60

Azem e Shota Galica

Page 61: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

61

IL KANUN NEL MEDIOEVO PRE-OTTOMANO.

Il medioevo albanese è stato travolto da molte guerre e vicende

storiche. Indipendentemente da queste circostanze dal secolo IX fin

all secolo XIV, il nostro popolo fu unificato, creando la sua identità

etno-linguistica e consolidato come nazione albanese.

Questo processo della nazione albanese viene finalizzato con lo

Stato di Albania nel 1190.

In questo periodo storico, nei territori abitati dagli albanesi esiste-

vano leggi, regole e norme, che stabilivano la vita nelle città e nelle

tribù contadine, ma determinavano anche i rapporti sociali, econo-

mici e militari all’interno dei principati e in relazione con gli altri

paesi. Basandosi sui documenti di questo tempo, M. Šufflay scrive:

“Nel XIV secolo, qualche gruppo di villaggi e distretti dei contadini,

inizia ad organizzarsi nelle repubbliche autonome, esprimendo due

elementi nuovi: uno militare e l’altro giuridico”.

Ormai la storia ha confermato che queste piccole repubbliche,

funzionavano secondo le loro norme e le regole morali e sociali, ma

avevano anche le leggi per governare, per amministrare la vita, per

reclutare soldati in difesa dei loro territori e della loro libertà.

Su queste nuove unità amministrative, Milan Šufflay racconta:

“In qualche città albanese furono costituiti gli uffici notarili, a cui si

rivolgeva la gente per risolvere i problemi e da dove uscivano le

notizie giudiziarie del paese”.

Da queste testimonianze risulta che i centri urbani, e anche quelli

rurali erano ben organizzati, e tutto funzionava secondo le leggi

locali, anzi erano istituiti anche i tribunali e gli uffici notarili, ma

non sappiamo ancora di quali leggi si trattava.

La storiografia albanese documenta che dall’XI al XV secolo, le

comunità urbane albanesi avevano raggiunto lo stesso livello orga-

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62

nizzativo e di sviluppo degli altri paesi dell’Europa occidentale. Che

lo spazio albanese sia stato incluso nell’umanesimo europeo viene

documentato dall’esistenza degli Statuti di varie città, come atto

fondamentale del diritto pubblico, come regole della vita cittadina

nel medioevo preottomano.

Molte città albanesi come Durazzo, Scutari, Tivari Drishti, Ulcini

Dania, Kruja, ecc, avevano i loro statuti (o meglio le costituzioni

cittadine).

Che l’Albania di questo periodo avesse uno sviluppo di cultura

civile, è testimoniato anche dal fatto che nell’anno 1369, nella città

di Durazzo, presso la Cattedrale di Santa Maria, fu fondata

l’Università: Univeristas Studiorum Durachium, dove si studiava

giurisprudenza, medicina e teologia. Dopo l’occupazione ottomana,

purtroppo la Cattedrale di Santa Maria di Durazzo, fu rasa al suolo

dai barbari turchi e l’Università fu chiusa per sempre.

L’esistenza degli statuti e l’organizzazione locale della vita citta-

dina e contadina secondo i costumi tradizionali, testimoniano uno

stadio avanzato di sviluppo del popolo albanese ed esprimono la

crescita dei fattori laici nell’amministrazione delle comunità urbane

e rurali. In questo tempo compaiono strutture amminisistrative simili

ad altri paesi europei, come il Ducato (Ducato di Scutari, Ducato di

Durazzo, Ducato di Argirocastra, Ducato di Arta ecc.) ed anche

Principati che si estendevano in ampi territori come, il principato dei

Dukagini nel nord, il Principaato di Arianiti e Castrioti al centro ed il

Principato di Gin Bue Shpata nel sud dell’Albania ecc.

In questa struttura amministrativa, le famiglie nobili albanesi

erano individuate tramite i segni araldici (lo stemma della famiglia),

le bandiere e gli statuti. Attualmente noi conosciamo diversi statuti:

lo statuto del Ducato di Scutari scritto in lingua latina è custodito

meglio di tutti gli altri statuti albanesi .

Page 63: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

63

Lo statuto di Scutari scritto nella prima metà del XIV secolo, con

70 pagine di testo, rappresenta uno degli standard più completi del

diritto cittadino albanese nel XIV secolo.

Lo scienziato Pellumb Xhufi, nel corso dell’analisi dello statuto

di Scutari, nel testo scritto in lingua latina trovò la parola albanese

BESSA, documentata nella forma scritta per la prima volta nel XIV

secolo, che testimonia in modo convincente l’esistenza dell’istituto

di Bessa albanese (parola d’onore) nel periodo preottomano.

Secondo Lucia Nadin ed Oliver J. Schmitt, “Lo statuto di Scutari

è un documento di fondamentale importanza da più punti di vista, è

un vero monumento dell’Albania medievale, anche qualcosa di più,

dal momento che risulta di sicuro interesse per la storia ed i

rapporti con Venezia e con le maggiori potenze dell’area, nel

quadro dei grandi equilibri internazionali.

Ha inoltre il pregio di essere il più antico testo legislativo

prodotto sul territorio albanese giunto fino a noi; è una chiara e

organica testimonianza di quell’Albania costiera, di centri urbani e

delle culture della montagna; che ci tramanda il ricordo di uno

straordinario incrocio di culture e di genti, di rapporti e di preva-

ricazioni; è la testimonianza di una stratificazione di vicende e

civiltà passata attraverso un’esperienza plurisecolare”.

Lo statuto di Drishti del 1464, riscritto nel 1468 (in lingua latina),

è un documento unico al mondo, perché contiene assieme sia le

regole della chiesa che il diritto pubblico.

Questa doppia funzione dello statuto fu determinata dalla circos-

tanza che in quegli anni entrambi i poteri, quello religioso e quello

pubblico, erano concentrati nelle mani dell'Arcivescovo di Drishti.

Lo statuto di Drishti, consigliato dal Papa Calisti II e dopo dal

Papa Pio II, fu scritto da preti albanesi e approvato in presenza

dell’abate Nicola Lalmi, del conte Giorgio Topia, del rettore di San

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64

Demetrio de Plumis e di molti cittadini albanesi. Dallo statuto risulta

che la città di Drishti, sotto l'aspetto politico, amministrativo e mili-

tare, era organizzata non solo secondo regole, norme e leggi scritte,

ma anche secondo costumi tradizionali.

Il primo capitolo dello statuto di Drishti inizia con una norma

consuetudinaria usuale nei tutti statuti albanesi e nei kanun Albanesi:

"Come i giovani devono rispettare i vecchi e viceversa, i vecchi

come devono stimare i giovani" (Cap I).

Questo articolo, inoltre testimonia l'esistenza di regole cittadine e

consuetudini antichissime, che sono state basati nella tradizione e

ereditate "A maioribus nostris quasdam constitutiones traditas,"

[pagina 2] e dunque rappresentano una continuità in questi atti pubb-

lici della società albanese.

In varie parti dello statuto gli autori dicono esplicitamente che esso

è scritto: "Secondum antiquissimam consutuetudinem imminantes"

(Capitolo. XXXIX). Secundum antiquissima et observata consuetu-

dine"(Cap.XLIV)."Secundum morem et consuetudinem antiquorum"

(Cap. XLVI).

Lo statuto stabilisce inoltre precisamente che in materie o circos-

tanze in esso non regolate “Si agisce secondo la giustizia e l'onestà”

(Cap. XXXV), due elementi fondamentali anche nel Kanun di Lek

Dukagini

Nei vari capitoli dello statuto di Drishti, sono contenute le regole

dell'amministrazione pubblica (Cap. XX) e le condanne per i delin-

quenti (Cap. XXIII), mentre il capitolo XLI, precisa le misure per il

sostegno degli studiosi e gli studenti.

Anche se lo statuto mescola, come abbiamo accennato, materie

pubbliche e religiose, in realtà le regole di chiesa vi risultano ada-

ttate secondo il diritto e la tradizione locale.

Come le città albanesi, anche le popolazioni rurali, in particolare

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le tribù montanare, che vivevano nelle alture profonde dell’Albania,

avevano le loro regole, i loro costumi, le norme etiche e morali ed il

diritto consuetudinario su cui era organizzata e gestita la vita sociale,

economica e militare.

Gruppi di villaggi e di distretti vicini, erano riuniti e organizzati

nelle “repubbliche piccole”, come racconta M. Šufflay: “Nel 1414 e

dopo, la grande tribù di Hoti si rafforza ed il suo priore viene

nominato Capitano: Capitaneus Montanae Hottorum. Nel 1415

viene fondato anche la Lega di Mirdita, che in questo tempo riusciva

a reclutare un esercito di circa 12 000 combattenti”.

Su questa realtà, Padre Fishta aggiunge:“L’esistenza di queste

piccole repubbliche in Albania, viene confermata con il fatto che si

chiamavano con due nomi, come Shalë e Shosh, Pukë e Iballe,

Shllak e Temal, Mat e Çidhen ecc.”

A questo elenco di Padre Fishta, possiamo aggiungere anche altre

piccole repubbliche con due nomi, ben conosciuto dalla storia come

Martanesh e Çermenike, Plave e Guci, Gora e Opari ecc.

Come si capisce, l’unificazione della popolazione contadina in

queste repubbliche non era una semplice alleanza tra tribù, tra con-

trade o tra villaggi, ma rappresentava una comunità riunita sotto

l’aspetto politico, amministrativo e militare, organizzata secondo

regole, norme e leggi ben precise ed anche secondo costumi tradizio-

nali, come viene precisato nello statuto di Drishti.

Durante il medioevo, l’organizzazione sociale, politica, amminis-

trativa e militare di queste piccole repubbliche, fece emergere una

classe di priori delle tribù e di signori di tali repubbliche e principati.

La signoria albanese del medioevo fu consolidata in dinastie

indipendenti, con il diritto di eredità del potere e nobili con vari titoli

e onorificenze equivalenti a quelle europee. La storiografia mondiale

e quella albanese, dispongono di documenti che dimostrano una

Page 66: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

66

gerarchia nobile albanese, espressa con i titoli di imperatores,

principes, comites (conte), barones, reges duces, dominos, capitanus

ecc.

Dopo l’occupazione turca gli albanesi emigrati in Italia hanno

custodito i titoli di nobiltà, riconosciuti dalla società e dallo stato che

li ha ospitati, come il principe Giovanni Castriota, la Contessa Irena

Castriota, il duca Topia, il conte Mansi, il conte Musaca, il conte

Zaccaria, il conte Scura, il principe Martaseos, barone Groppa ecc.

La nobiltà albanese è stata in relazione e in stretta collaborazione

con gli omologhi dei vari stati d’Europa. Questi rapporti erano basati

sul rispetto reciproco delle regole e delle leggi di ogni paese, perciò

è impossibile che i nobili albanesi abbiano accettato e rispettato solo

le regole e le leggi degli altri e non abbiano codificato le leggi nei

loro paesi e per i loro popolo.

D’altra parte, i contatti con i Paesi dell’Europa occidentale

rappresentavano una buona occasione per scambiare esperienze, per

assumere i loro buoni modi di governare e le leggi da adottare ed

applicare nelle condizioni dei loro principati.

Questo aspetto risalta dalle somiglianze del nostro Kanun di Lek

Dukagini e degli Statuti delle città albanesi del medioevo, con i

codici e gli statuti di altri Paesi europei.

Inoltre, questo argomento ci suggerisce che prima siano esistiti i

costumi tradizionali e le vecchie regole eticco-morali, che, durante

un percorso lineare del diritto consuetudinario, passeranno verso

forme statuarie e successivamente in forma più completa verso il

codice (il Kanun), uno dei quali noi lo conosciamo con il nome del

suo legislatore Lek Dukagini, che è sopravvissuto per molti secoli

come diritto non scritto.

Page 67: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

67

IL KANUN DELLE MONTAFGE ALBANESE

ED IL SUO LEGISLATORE LEK DUKAGINI.

All’inizio del XV secolo, il Principato dei Dukagini era in diffi-

coltà. La capitale Alessio, dal 1393, era sotto il domino dei vene-

ziani; la città Ulpiana, il secondo capoluogo del Principato, era stata

rasa al suolo dagli invasori ottomani e nello stesso tempo erano state

distrutte altre città e centri abitati in campagna.

In queste circostanze, Lek Dukagini fu costretto ad attaccare i

veneziani ed ad occupare il picolo castello di Shati in Zadrima, che

voleva trasformare nella sua residenza; ma interviene Skenderbeg, lo

riprende e lo riconsegna ai veneziani.

Rimasto abbandonato, senza una sua residenza e sotto gli attacchi

dei turchi, ed anche dei veneziani e di Skenderbeg, il Principe Lek

Dukagini fu costretto a ritirarsi nelle profondità del suo principato,

tra le montagne libere. Il suo popolo lo accolse con l’onore che meri-

tava, insieme con sua moglie Teodora Muzaka. Con i montanari del

suo principato, ben conosciuti come combattenti coraggiosi (Marin

Barletti), il Principe Lek ricostruì i suoi castelli e reclutò un esercito

permanente, che fu impegnato sia nella difesa del Principato, sia

nell’esercito della Lega degli Albanesi, sotto il comando di Skender-

beg nella lotta contro gli invasori ottomani.

Durante gli anni 1450-1481, Lek Dukagini fu costretto ad adotta-

re varie misure di difesa contro i turchi, che ovviamente accompa-

gnò con iniziative amministrative per rafforzare il potere locale dei

montanari, dei suoi concittadini fedeli, i quali da sempre erano

vissuti liberi.

In questo situazione, il Principe istituzionalizzava un sistema

politico – giuridico popolare, che garantiva l’autonomia ed il diritto

di autogoverno alle tribù montanare del suo grande Principato.

Page 68: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

68

Il principe Lek Dukagini raccolse le leggi, le regole e le norme

esistenti nella società montanara, le codificò e le consegnò ai vecchi,

i membri del conventus (kuvend) di ogni villaggio o gruppi di villa-

ggi del suo grande principato.

Dunque, Lek Dukagini è stato il legislatore del Kanun, che lascia

in eredità ai suoi concittadini, che lo accettano ed applicano come la

legge delle montagne e lo trasmettono oralmente, dal padre al figlio,

generazione dopo generazione per cinque secoli e sempre ricono-

scendolo come “Il Kanun di Lek Dukagini”.

A prescindere dall’aspetto giuridico e politico, il Kanun, come

regola della società montanara, precisa i raporti con la chiesa, ma

rappresenta anche le basi delle norme etiche e morali, dove l’etica ha

funzionato come un regolatore dell’ordine sociale, tanto più che in

questo tempo non esisteva separazione tra diritto e etica.

Un altro aspetto importante del Kanun è il carattere laico, il suo

modo di agire totalmente indipendente dalla religione, un aspetto

particolare che lo differenzia dai Codici, Canoni e dagli Statuti di

altri paesi dell’Europa Occidentale ed Orientale.

Secondo E. Durham, Whitaker, Villari, Resta ecc, il carattere

laico del Kanun spinge il Papa Paolo II, conosciuto per i suoi atte-

ggiamenti antiumanistici, con una ferendae sententiae dell’anno

1464 a scomunicare Lek Dukagini, accusando il Principe di essere

poco ispirato dalla fede cristiana; ma non si sa per certo se questa

decisione si riferisca o meno al suo Kanun.

Al di là della veridicità storica dei fatti, attribuire la funzione di

legislatore a Lek Dukagini, significa dotare di nobiltà e autorevole-

zza le norme, le regole le leggi consuetudinarie del suo Kanun;

significa legarlo indissolubilmente alla lotta di liberazione del popo-

lo albanese contro i turchi, a gesta epiche di eroi cavallereschi, ai

quali il popolo albanese ha demandato il ruolo di rappresentanti

Page 69: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

69

della propria identità nazionale.

Analizzando quest’opera voluminosa, raccolta e codificata da

Padre Gjeçovi e così arrivata fino ad oggi, vari autori ritengono che

sia difficile che il Kanun sia stato codificato ex-novo e solo da una

persona, sia pure Lek III Dukagini.

È più credibile che il diritto consuetudinario sia più antico, anzi si

pensa che ve ne siano stati diversi, usati dalle varie tribù e dai vari

principati, legati a costumi ancestrali, che usavano questi codici per

governare e amministrare la loro vita libera e isolata tra le montagne.

In questa ipotesi Lek III Dukagini è stato colui che li ha raccolti,

ordinati e codificati, dunque egli è il legislatore del Kanun albanese.

Non dobbiamo escludere che il Principe Lek ha usato sia le leggi lo-

cali, sia gli statuti cittadini del principato, sia il codice di Giustiniano

che è stato attivo per molto tempo nei territori abitati dagli albanesi.

Dunque, gli statuti, i codici e i Kanun precedenti, nel loro percorso

storico, hanno subito vari cambiamenti e modifiche suggerite dalle

circostanze storiche e sociali, ma alla fine sono stati raccolti e siste-

mati da Lek Dukagini e presentati come un codice unificato (quello

che è stato raccolto da Padre Shtjefen Gjeçovi, che giustamente è

considerato il secondo legislatore).

Padre Giorgio Fishta, nell’introduzione del “Kanun di Lek

Dukagini” di Padre Shtjefen Gjeçovi, ha spiegato perché il Kanun si

chiama con il nome di Lek Dukagini: “Una parte dice che il Kanun

è conosciuto con il nome di Lek Dukagini, perché era lui che lo ha

raccolto e codificato”. Questa opinione esprime anche lo storico

croato Milan Šufflay, che scrive: “La tradizione orale racconta che

questi vecchi costumi chiamati «Kanun di Lek», sono collegati con

Lek Dukagini, che è il suo legislatore”.

Padre Fishta, M. Šufflay, ma anche altri autori, non specificano di

quale Lek appartengano, è Duca Lek III, o Duca Lek II, o Duca Lek

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70

Ovvero queste leggi siano ancora più antiche, e ne risalgano dal

tempo di Alessandro Magno, che gli albanesi lo chiamano Lek.

Secondo Padre Gj. Fishta, esiste anche un'altra variante del nome,

legata a due ampi distretti, quello dei Lek (i territori nel nord del

principato dei Dukagini) e dei Dukagini (i territori di sud-est del

principato). Secondo questa ipotesi, il Kanun è stato valido per la

popolazione dei Lek (Shkodra, Malesia e Madhe) e per i Dukagini

(Shalë, Shosh, Lezha, Puka, Iballa, Kosova, Mirdita, Kthella, Selita).

Da questo ragionamento risulterebbe che il nome deriva che il

Kanun era applicato nel Lek e nel Dukagini e non perché era stato

codificato da Lek Dukagini, però anche gli abbitanti del Dukagjini

dicono “Così ha detto Leka”, cioè ne regge l’ipotesi legati con due

regioni, chiamati Lek e Dulagini.

A parte queste interpretazioni, tuttavia i legami del Kanun con il

nome di Lek Dukagini sono più convincenti, perché a prescindere

dal suo ruolo come legislatore, che ha raccolto tutte le leggi e le

norme del suo tempo, egli assume una posizione cardine e diventa il

condottiero e il simbolo storico dei montanari albanesi nella lotta per

la liberazione dagli invasori ottomani.

Page 71: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

71

IL KANUN DURANTE L’OCCUPAZIONE TURCA.

Come altrove alla stessa epoca, il diritto consuetudinario si svilu-

ppa progressivamente in Albania, passando in due fasi ben distinte:

La prima all’epoca della dominazione bizantina e, e la seconda dopo

l’occupazione turca. Successivamente, queste consuetudines si sare-

bbero distinte creando il diritto consuetudinario di ogni principato e

di ogni città albanese.

Quando i turchi hanno occupato l’Albania e, in particolare,

quando hanno iniziato a riorganizzare o, meglio, a disorganizzare la

struttura amministrativa dell’Albania, hanno conosciuto e si sono

confrontati con la forza attiva delle leggi locali. Nei vari documenti

ufficiali turchi si parla dell’esistenza e della forza giuridica del

Kanun di Lek Dukagini.

Secondo la storiografia antica e moderna turca, il Kanun è: "The

most barbaric code of customary law on earth."

Lo storico turco Sülejman Külçe, nel suo libro “Osmanli tarahinde

Arnavutluk” scrive: “il diritto consuetudinario e le norme morali e

sociali del Kanun dei montanari albanesi sono quelli codificati da

Lek Dukagini e sono leggi draconiane”. Però l’autore ignora tenden-

ziosamente il fatto che quelle leggi “draconiane” hanno mantenuto

l’ordine, hanno conservato la lingua, la cultura, l’identità nazionale e

sono state fondamentali per l’unità delle tribù montanare, che hanno

contrastato gli invasori turchi, che l’Impero ottomano per cinque

secoli non riuscì infatti a sottomettere.

Durante il dominio turco, il Kanun di Lek Dukagini ha funzio-

nato come sistema giuridico parallelo a quello ottomano.

Il diritto consuetudinario rappresentava una vera propria forma di

autogoverno, di autoamministrazione e di autodifesa del popolo per

non essere assimilato e sradicato dagli occupatori turchi.

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L’Impero turco, in quasi cinque secoli di dominio sugli albanesi,

non è riuscito a sopprimere l'applicazione delle leggi del Kanun,

anzi in varie Vilajet e, dopo, in varie Sangiac (denominazione turca

degli ex principati albanesi) esisteva un sistema giudiziario parallelo,

il cosiddetto Xhibal, che ha funzionato a Scutari fino al XIX secolo e

che verificava le discordanze tra il diritto Ottomano e dello Sheriat

con il Kanun di Lek Dukagini.

Come riferiscono molti autori, il Kanun di Lek Dukagini è stato

l’unico, tra i popoli balcanici, rimasto come diritto parallelo, domi-

nante rispetto al diritto dell’Impero Ottomano e dello Sheriat.

L’impero Ottomano, in particolare dopo l’anno 1550, applicò una

nuova organizzazione amministrativa per i territori abitati dal popolo

albanese. Da questo momento i principati e le piccole repubbliche

vengono denominati Bairak (Bandiera) e il priore di queste unità

amministrative viene chiamato Bairaktar (porta bandiera).

Il potere turco cancellò altresì i titoli precedenti dei nobili alba-

nesi, imponendo alla aristocrazia albanese titoli nuovi come pascia,

bej, aga, bylykbash ecc.

In questa metamorfosi della nobiltà albanese, solo il priore di

Mirdita conservò il suo titolo di Principe, che ha sopravvissuto fino

alla prima metà del XX secolo.

L’Impero ottomano tentò di cancellare la cultura albanese, ma il

popolo riuscì a custodire e trasmettere generazione dopo genera-

zione la sua storia, la sua tradizione, la sua lingua e la sua cultura.

Durante la resistenza contro gli invasori ottomani, il popolo coro-

nava con il titolo di Capitano tutti coloro che avevano organizzato e

comandato le battaglie e i movimenti insurrezionalisti per l’indipen-

denza dall’Impero Ottomano.

Considero interessante presentare i dati di un documento

dell’anno 1614 di Marjana B. Kotoranina, nobile di Cattaro (Monte

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Negro), che dopo una visita nel Sangiaco di Scutari, (prima si chia-

mava il Ducato di Scutari), pubblicò tutto ciò che osservò in:

“Relatione et descrittone del sangiaco di Scuttari, dove si ha piena

contezza delle città et siti, loro villagi, case et habitatori, rito,

costumi, et armi di quei popoli, et quanto di considerabile minuta-

mente si contenga in quel Ducato”.

In questo documento troviamo una lista di centinaia di Capitani

uno per ogni formazione militare sulle base di contrade e di villaggi,

di quei condottieri coraggiosi che organizzavano e comandavano il

popolo armato contro i turchi.

In quegli anni difficili, gli albanesi, più degli altri popoli europei,

hanno sofferto delle rappresaglie, le masacre degli invasori turchi,

che dall’inizio hanno sterminato gli albanesi, si tratta di un vero

genocidio, che la storia mondiale lo ha dimenticato.

Dopo la morte di Skenderbeg, il popolo albanese si trovò davanti

ad una occupazione barbarica asiatica, che porta alla privazione

della libertà, ed alla distruzione della cultura albanese.

Il popolo albanese subì rappresaglie, fu sradicato dalla sua terra e

costretto emigrare; subì pressione per la conversione al musulman-

ismo. Se non bastasse tutto ciò, il 31 maggio 1775, il Sultano Abdyl

Hamiti I, firmò una legge, proclamato con suo fermano, che vietò

l’uso della lingua albanese come lingua ufficiale; non solo ma tolse

il diritto al popolo di parlare in lingua albanese.

Tutti i documenti che erano scritti in lingua albanese, furono

distrutti e bruciati dai turchi, solo qualche opera importante si salvò

nelle biblioteche fuori l’Albania, come ad esempio il Messario di

Giovanni Buzuku, scritto nel 1555.

Un’altra condanna pesante per gli albanesi fu la vendetta dei

turchi per la loro lunga e coraggiosa resistenza, che aveva impedito

l’occupazione dell’Europa da parte dell’Impero Ottomano.

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Le cronache del tempo documentano, che i turchi quando attacca-

vano gli albanesi urlavano “Avanti su Roma”, perché il loro obiettivo

era l’Italia, il Vaticano, Venecia e l’occupazione dell’Europa.

Ma gli albanesi hanno fermato per venticinque anni gli attacchi

feroci degli ottomani alle porte di Europa.

Durante il lungo dominio turco, il popolo albanese aveva una

sorta di autonomia, ed ha gestito se stesso in modo diverso da quello

che imponevano le leggi dell’Impero.

Questa “libertà” gli albanesi la esercitavano tramite il Kanun di

Lek Dukagini ed anche di altri Kanun, che erano attivi come diritto

parallelo con diritto turo e che hanno garantito l’autonomia ammini-

istrativa, l’autodifesa e l’autoconservazione della identità nazionale.

Il governo turco, in cinque secoli, non è riuscito a sopprimere

l'applicazione e la forza attiva del Kanun.

Nell’Archivio di Stato Turco si trovano documenti che testimo-

niano come i governatori turchi si lamentassero che gli albanesi

ignorassero la legge ufficiale dell’Impero e di Sheriat.

Su questo punto, gli albanesi narrano della loro disobbedienza

alle leggi turche, rispetto alle quali, raccontano la superiorità del loro

Kanun di Lek Dukagini. Ne citiamo un episodio.

Intermezzo

Il Gran Visir (primo ministro) dell’Impero Ottomano, fu informato

che nemmeno gli albanesi musulmani ubbidivano alla legge di

“Sheriat”, si preoccupò e decise di verificare sul posto la situazione.

Travestito da dervish (monaco musulmano povero), salito a cavallo,

arriva vicino alla città di Prizren, dove si fermò per passare la notte

in un albergo. Durante la notte un ladro gli ruba il cavallo. Il padrone

dell’albergo rimane offeso, si mette a caccia del ladro e lo trova in

breve tempo. Però il ladro insiste che il cavallo è suo.

La questione arriva al Tribunale della regione.

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Il giudice albanese, prima che cominci il processo, chiede al

dervisci, se vuole essere giudicato secondo le leggi dell’Impero o di

quelli di Sheriat oppure secondo la legge albanese.

Il monaco sceglie la legge turca, quella ufficiale del suo Impero.

Allora il giudice gli dice: “Siccome tu non hai nessuna prova che il

cavallo è tuo, la legge turca in questo caso è impotente, e non può

restituire il cavallo”.

“Facciamo il processo secondo la legge albanese”, chiede il

presunto monaco.

Dopo questa richiesta il giudice ordina a tutti e due di togliersi le

scarpe. Visto che i piedi del “monaco” erano quelli di uno che non

va quasi mai a piedi, ma piuttosto a cavallo, ed, al contrario, che i

piedi del ladro erano quelli di un povero, che non aveva mai potuto

avere un cavallo, fa giustizia dando ragione al vero proprietario,

restituendo il cavallo e condanando il ladro.

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STRUTTURA DEL KANUN.

Il Kanun, come diritto consuetudinario aveva valore di norma

generale, era la costituzione, la legge, il sistema giuridico e sociale,

ma era anche la norma etica, morale e culturale, ed era diffuso e

vigente in tutti i territori abitati dagli albanesi.

È importante ripetere che non è esistito solo un Kanun, ma sono

vari Kanun, attivi nei diversi territori, anche se tutti questi codici

canonici sono assai simili, con qualche differenza non significativa.

Fino alla prima metà del XX secolo, gli albanesi hanno ereditato tre

gruppi di Kanun:

1. Il Kanun di Lek Dukagini (chiamato anche il Kanun delle

Montagne), identificato con il nome del suo legislatore Lek III

Dukagini e in seguito, dopo cinque secoli, raccolto e codificato da

Padre Shtjefen Gjeçovi.

Il Kanun di Lek Dukagini è stato attivo nei territori posti sotto la

giurisdizione dei Dukagini, cioè nel Principato dei Dukagini (Scu-

tari, Malesia e Madhe, Hoti, Gruda, Kuçi, Krasniqe, Gash, Bytyç,

Plava, Gucia, Tropoja, Peja, Prishtina, Gjakova, Prizreni, Tropoja,

Kukes, Puka, Lezha e Mirdita).

Essendo attivo nei diversi distretti del nord d’Albania, spesso è

successo che i vari studiosi o i viaggiatori venendo a contatto con il

Kanun attivo in un preciso territorio, lo hanno identificato con il

nome del paese, dove funzionava come legge vigente, come infatti

ad esempio nel caso del Kanun di Mirdita (usato dagli abitanti di

Mirdita), la stessa cosa si è verificata anche per le altre regioni e si è

parlato del Kanun di Puka, di quello di Malesia e Madhe ecc.

Dall’analisi approfondita di tali “varianti” del Kanun, risulta che,

a prescindere da qualche piccola differenza, la struttura ed il

contenuto hanno stessa origine, perciò, giustamente si dice che sono

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“varianti” locali dello stesso Kanun di Lek Dukagini.

2. Il Kanuni di Skenderbeg, conosciuto anche come il Kanun di

Arberia (Albania), raccolto dal 1933 fino al 1966 e codificato da

Dom Frano Illia, che lo pubblicò nel 1996.

Il Kanun di Skenderbeg, con i suoi 3534 paragrafi, è stato attivo

soprattutto nel parte centrale dell’Albania, nei territori che sono stati

sotto il dominio dei Castrioti, ed e forse è stato questo il motivo per

cui è stato chiamato con il nome di Skenderbeg.

Vari autori, trovando qualche differenza con quello di Lek Duka-

gini, hanno pensato che fosse un Kanun a parte, forse codificato da

Skenderbeg.

Il Kanun di Skenderbeg è stato attivo in Ghegheria, estesa in

territori tramite il fiume Mat e Shkumbini, all’est fino al Shkup e

all’ovest fin al mare Adriatico.

La parte centrale di Ghegheria è conosciuto come le Nove

Montagne (Mat, Martanesh-Çermenika, Diber, Lura, Kurbini, Kruja,

Tomadhea, Elbasan, Librazhd), ecc.

Essendo attivo in diverse zone, viene conosciuto anche con il

nome del paese o del regione dove è identificato dai studiosi, come

ad esempio il Kanun di Mati, il Kanun di Martaneshi, la legge di

Dibra ecc., che differiscono poco tra di loro e che si fondono tutti sul

Kanun di Skenderbeg.

3. Il Kanun di Laberia, conosciuto e attivo nella regione di

Laberia (Vlora, Kurvelesh, Kuçi, Tepelena, Drashovica, Gjirokastra,

Delvina, Kalasa), in Himara ed in Toskeria (Deshnica, Opari,

Skrapar, Verça, Shpati, Gramshi, Mokra, Myzeqeja).

Il Kanun di Laberia (conosciuto anche con il nome di Papa Zhuli

o Sharti i Idriz Sulit) era attivo nei territori del sud di Albania ed

anche nella regione di Çameria, come testimonia una lettera di

Marco Boçari, uno dei più famosi nobili e condottieri di questa

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regione nella lotta contro i turchi.

Il Kanun o, precisamente al plurale, i Kanuni delle montagne

albanesi sono stati attivi dal periodo pre-ottomano ed hanno prose-

guito durante l’occupazione turca, quando hanno svolto la funzione

di un diritto parallelo a quello ottomano, arrivando fino ai giorni di

oggi con una struttura compatta.

Quando Padre Gjeçovi si impegnò nel raccogliere il Kanun,

questo testo e il suo legislatore Lek Dukagini erano diventati sacri

per tutti gli albanesi, indipendentemente dalla religione.

Quando fu codificato il Kanun nel medioevo, la popolazione

albanese era di religione cristiana (cattolici e ortodossi). Così, nella

variante originale, il primo libro stabilisce le regole e le norme sulla

chiesa. Durante l’occupazione ottomana, quando una parte degli

albanesi fu costretta a convertirsi alla religione musulmana ed al

bectascismo, il Kanun non cambiò, rimase con la stessa struttura.

Il popolo lo rispettava e lo applicava con fedeltà e correttezza

ammirabile ed anche i musulmani lo conobbe con il nome di Lek

Dukagini. L’unica differenza, è presente nel primo libro, è che la

popolazione musulmana ha sostituito le norme ecliasistiche con le

norme per la moschea (musulmani suniti) e per la techia (i bectasci).

Padre Gjeçovi raccolse tutto quanto detto dai vecchi sul diritto

consuetudinario albanese, su quella tradizione orale rigurdante le

norme morali, etiche e giuridiche del Kanun di Lek Dukagini, ma

non riuscì a portare a termine la sistemazione di questo materiale

voluminoso e prezioso.

Dopo la morte di Padre Gjeçovi, un gruppo di padri francescani

lavorò intensamente per sette anni sulle 2000 pagine manoscritte che

lui aveva raccolto, e riuscì a classificare, raggruppare e sistemare

tutto il materiale in 12 libri (capitoli), in 159 articoli e in 1263 para-

grafi, che vennero poi pubblicate nel 1933 come opera completa.

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Il "Kanun di Lek Dukagini" contiene 12 Libri, oppure Canoni

(secondo l’ordine sistematico dato da Padre Gjeçovi):

Libro 1° - La Chiesa (la moschea per i musulmani e la techia per i

bectasci. Non ci sono cambiamenti: sono uguali i principi

canonici che regolano l’attività ecclesiastica, di moschea e di

techia);

Libro 2° - La Famiglia (la struttura e la gerarchia in famiglia).

La famiglia albanese nel Kanun si presenta fortemente

autoritaria e guidata dal signore di casa, il capo famiglia, che

nella maggioranza dei casi è il padre che riunisce tutti i figli,

anche quelli sposati con prole.

Ogni famiglia è inserita, attraverso una rete di obblighi

reciproci, in una struttura di parentela allargata alla stirpe

(Art. 9, 19, 101 del KLD), composta solo dai parenti paterni

(linea del sangue), mentre i parenti acquisiti per via materna

(linea del latte), seppure riconosciuti come affini, non fanno

parte della famiglia.

Parenti del fis hanno l’obbligo di ereditare la vendetta e di

proteggere le donne (madre, sorella, moglie) ed i figli.

Libro 3° - Il Matrimonio (comprende il matrimonio civile secondo il

Kanun, il matrimonio religioso; le regole del fidanzamento e

Del matrimo nio, i diritti e i doveri del marito e della moglie,

i bambini, il diritto della famiglia, il divorzio).

Nel Kanun, la scelta matrimoniale è imposta ai giovani dai

genitori che la contrattano separatamente (Art. 12. KLD), ma

la decisione deve essere approvata sia dai parenti di fis, che da

quelli materni.

Libro 4° - La casa, i poderi e il bestiame.

Libro 5° - Il lavoro e il commercio.

Libro 6° - Le prestazioni, le donazioni, ed i debiti.

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Libro 7° - La parola e la Bessa (Parola d’onore, il diritto di

parola, il giuramento sulla pietra, il giuramento sul

Vangelo, il giuramento sul Corano, il giuramento porta a

porta, la condanna per il giuramento falso ecc.);

Libro 8° - L'onore (l’onore dell’individuo, l’onore della famiglia,

l’onore della stirpe, l’onore sociale), l’ospite-amico, il sangue

(vendetta-faida), la fratellanza, il compare.

Come è evidente, i libri 7° e 8° sono dedicati alle norme morale

dell’onore e alle norme che regolano l’ospitalità.

Questi due libri racchiudono l’etica del popolo albanese, di quel

popolo nel quale la capacità dell’uomo di ottemperare al dovere, di

mantenere integro il proprio onore,della famiglia, dello stirpe e della

patria diventa fede, è legge inviolabile, è prescrizione assoluta, è

l’istituzione, assume caratteristiche di sacralità (§596.KLD), spinge

a conseguenze estreme ed inclina verso l’uso della vendetta - faida

(§ 598 KLD).

All’onore è legata l’ospitalità, una categoria canonica nel rango

di fede. Sembra che il codice dell’ospitalità vada piuttosto iscritto in

una dimensione di reciprocità, la cui mancanza metterebbe in crisi

l’intero sistema organizzativo di famiglia, stirpe e della contrada. Il

principio canonico dell’ospitalità e dell’accoglienza viene trasposto

nella norma chiave dell’etica, mentre l’inospitalità disonora, di

conseguenza assume il carattere di violazione di un precetto sacro,

mette in pericolo la coesione sociale.

Libro 9° - I Danneggiamenti (furti, ladri, il socio nel furto, la preda,

il tradimento, l’uccisore, la Besa, la mediazione, la tregua,

la riconciliazione, la vendetta-presa di sangue, il suicidio,

la fratellanza).

Libro 10°- I delitti infamanti. Il Canone contro le malvagità (crimini,

i delitti disonoranti, l’offesa, l’omicidio, la filosofia della

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condanna, la penalità).

I libri - 9°, 10°, 11°: rispettivamente, contengono la concezione

della colpa e la filosofia della pena.

La categoria più importante del decimo libro e di tutti i

Kanun albanesi è la Bessa, o meglio l’istituto di Bessa, la

sintesi delle istanze che reggono l’intera organizzazione

sociale.

Bessa, una parola intraducibile in qualsiasi altra lingua,

indica il rispetto dei patti, che regola l’ordine, garantita dal

codice d’onore del montanaro albanese.

Libro 11°- Il Codice giudiziario (Conventus - kuvendi, consiglio dei

vecchi, codice giudiziario).

Libro 12°- Privilegi ed esenzioni.

La stessa struttura, le stesse materie, lo stesso ordine le troviamo

anche nel "Kanun di Skenderbeu" e negli tutti altri Kanun, ma con

un diverso ordine, senza differenze nei principi canonici.

Il Kanun prevede un gran numero di norme di comportamento e

regole severe a seconda delle diverse situazioni, dalla nascita fino

alla morte.

Si può definire come una codificazione totale, precisa e dettagliata

delle leggi per una società complessa come era quella albanese.

Il Kanun esamina e salvaguarda le istituzioni ed i processi in corso,

rinforza la matrice tradizionale dei valori, stimola un determinato

modello di comportamento, assume funzioni di prevenzione, insegna

a non sbagliare ed a rispettare i diritti degli altri, scoraggia, severa-

mente sanziona i comportamenti contrari.

Nel caso in cui certe circostanze siano rimaste fuori del suo con-

trollo, viene rinforzata la logica immanente dell'ethos, con istruzioni

precise per una coscienza pulita.

Da un paragone fra il Kanun di Lek Dukagini ed il sistema del

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diritto moderno, risulta una concordanza impressionante.

libro 1° il diritto eclesiastico, trattato in tale modo come una sorta

di concordato tra lo stato e la religione.

libro 2° e 3° corrispondono al diritto di famiglia.

libro 4° al diritto privato.

libro 5° al diritto del lavoro e al diritto commerciale.

libro 6° coincide con il diritto tributario.

libro 7° il diritto della parola. Kanun presenta una sorta di codice

morale della società montanara albanese.

libro 8° è un riassunto dell’etica e della morale albanese, dove il

dovere per difendere l’onore diventa fede, è un obbligo

assoluto, un dovere sacro.

libro 9° e il libro 10°, corrispondono al codice penale e al codice

civile, dove sono catologati i crimini ed i delitti, dai più

gravi (il tradimento della patria, che mette in pericolo

l’equilibrio della società), fino ai reati minori puniti con

multe e ammende.

libri 11° e 12° corrispondono al codice di procedura penale e al

codice giudiziario.

Il Kanun è universale per tutte le regioni abitati dagli albanesi.

Il Kanuni non è legato ad un luogo o un paese preciso, al contra-

rio, come scrive Ismet Elezi, appartiene a tutti i territori abitati dagli

albanesi, dal nord al sud, e fuori ciìonfini amministrativi e da tutti è

conosciuto con nome generico “Kanun delle Montagne Albanesi”,

ed in seguito con i nomi dei legislatori: Kanun di Lek Dukagini, o

Kanun di Skanderbeg, il Kanun di Laberia ecc.

Per quanto riguarda i nomi del Kanun legati a luoghi particolari,

rappresentano solo il distretto, la provincia o il Bairak dove viene

applicato il Kanun di Lek Dukagini o il Kanun di Skenderbeg o il

Kanun di Laberia.

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Il Kanun è un codice laico.

Fin dalle origini e nel proseguire, il Kanun delle Montagne è

restato separato dalla religione, agendo in modo indipendente da

essa, anzi difendendo le istituzioni ed i clerici di ogni religione in

territori abitati dagli albanesi.

Il carattere laico del Kanun è stato descritto da Mrs. Edith

Durham: ”La forza del Kanun è che obbliga tutti, è sopra i Dieci

Comandamenti della Bibbia, sopra l’insegnamento del Cristiane-

simo e dell’Islam, sopra la legge di Sheriat e della Chiesa, perché

tutti devono essere sottomessi al Kanun di Lek Dukagini”.

Nei vari popoli del mondo, l’etica e le regole della società, rifle-

ttono anche l’appartenenza religiosa, anzi diversi popoli vengono

identificati secondo i libri sacri (la Bibbia, il Vangelo, il Corano),

mentre nei Kanun degli albanesi non è presente questo fenomeno.

Il Kanun è un universo giuridico, laico e molto vecchio, con le

radici della sua origine nell’antichità, forse precristiano.

Il Cristianesimo arriva in mezzo agli Albanesi con gli Apostoli

stessi e per millenni convivranno insieme il Kanun ed il Vangelo.

Il carattere divino della persona umana non è un fenomeno né

nuovo né strano: ma lo è il fatto quando non difenda il suo sangue, la

sua vita. Per il Kanun questo sarebbe stato un sacrilegio.

Sono tanti gli elementi che dimostrano la laicità del Kanun, come

la formula del giuramento che non è legata con Dio, né con i Santi

della religione cristiana, neanche con gli Imam della religione mus-

ulmana. Il giuramento nel Convegno “per questo cielo”, “per questa

terra”, “per questo luogo”, “per questa pietra”, “per questa pane”

ecc., - sia quella fatto davanti a tutti in assemblea (Kuvend), sia il

giuramento fatto porta a porta, sulla pietra ed anche il giuramento

fatto con la mano sul Vangelo o sul Korano non sono di matrice

religiosa, però sono legati con un credo mitologico, precristiano.

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I giuramenti secondo il Kanun (Articoli 92 – 95, KLD), sono

uguali a quelli dei eleni dell'antichità, i quali giuravano “per Urano-

per il cielo”, “Per Demetra – per la terra”, dunque sono giuramenti

per gli Dei antichi, che, come sappiamo, erano vietati dal Vangelo

(Nuovo Testamento) ed anche dal Corano.

Tutti i Kanun hanno sancito questo giuramento sacro autentico

dell’albanese, come si precisa nell’Articolo 89 § 534 del KLD: “Il

giuramento sulla pietra, secondo il Kanun è uno dei più gravi e dei

più spaventosi, che conosca il montanaro albanese”.

Inoltre, che talune categorie fondamentale dell’etica popolare

rispecchiata nei diversi Kanun, come l’onore, la dignità, il rispetto,

l’ospitalità, sono stabilite fedelmente: “Come ci hanno lasciato in

eredità gli avi” e non secondo i libri sacri.

Ovviamente, le istituzioni religiose ed i loro clerici, sono state

parte importante della società albanese, e hanno avuto un ruolo nella

vita spirituale e nelle relazioni sociali, esprimendo il ruolo sociale

della religione.

Tutti i Kanun albanesi dimostrano chiaramente “la missione

sociale” delle religioni e delle istituzioni religiose, perciò c’è una

divisione dei ruoli e, di conseguenza la religione non può interferire

negli affari dei Kanun e nei Convegni, anzi la chiesa, la moschea, la

tecia, la sinagoga, con i loro precetti, sono protetti debitamente dalle

leggi, dalle regole e dalle norme dei Kanun.

La divisione tra il Kanun e la religione si estende in tutte le

attività della società montanara albanese.

Nel articolo 11, § 29 del Kanun di Lek Dukagini si stabilisce che

il matrimonio “È legittimo, riconosciuto come tale dal Kanun di Lek

Dukagini e dalla chiesa”, una posizione netta, che, in quei tempi,

non si vedeva in nessun altro Paese della regione Balcanica. Anche

il battesimo dei bambini si celebra secondo il Kanun, riconosciuto

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come il battesimo fatto in chiesa (per i musulmani in moschea da

hodgia ed in casa per i bectasci), nello stesso modo di come, per

esempio si celebra il battesimo laico nelle contrade di Siena.

Il carattere laico del Kanun, come un atto universale giuridico,

etico e morale della società albanese, è stato importante per la convi-

venza e la tolleranza tra varie religioni tra gli albanesi. Vale a dire

che in Albania non vi sono mai state guerre religiose e la convivenza

tra cristiani, musulmani ed ebrei è stata sempre tollerante e di solida-

rietà reciproca, come testimoniò anche T.G. Hughes, nel suo libro

"Travels in Greece and Albania", pubblicato a Londra nel 1830.

La cultura laica del popolo albanese si è manifestata con grande

dignità nei vari casi di crisi o di situazioni di importanza storica

dell’Albania, come nel caso della Lega degli Albanesi nel 1444,

durante l’insurrezione “Messiana” nel 1602, della Lega dell’Arberia

nel 1703, nella costituzione della Lega di Prizren nel 1878 e durante

l’insurrezione popolare per l’indipendenza dall’occupazione turca

nel 1912, dove il patriottismo e la libertà nazionale diventeranno il

leitmotiv per l’unità degli albanesi contro gli occupatori turchi, tutti

insieme cristiani, musulmani, bectasci, ortodossi ed ebrei.

Un altro aspetto del carattere laico dei Kanun si vede chiaramente

in quegli albanesi, che furono costretti a convertirsi in musulmani.

Anche se hanno abbracciato il musulmanismo, loro hanno custodito

con grande onestà il carattere laico dei Kanun, proteggendogli con

dignità da ogni impato dell’ideologia Islama e dalle leggi di Sheriat.

Non solo ma, hanno continuato a chiamarlo con il nome del suo

legislatore, il Kanun di Lek Dukagini. Nella popolazione musul-

mana, l’unico cambiamento apportato al Kanun, si riscontra che il

libro di chiesa fu adottato per la moschea e per la techia.

In definitiva, il carattere laico del Kanun di Lek Dukagini è

simile a quello delle Costituzioni degli Stati attuali moderni.

Page 86: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

86

IL CANONE – KANUNI ed IL CONVEGNO – KUVENDI.

Il Kanun non aveva significato senza il Convegno (Kuvendi),

senza la presenza dei vecchi (vegliardi, anziani), i mentori, i saggi, i

signori di casa, i nobili, i principi, i capitani, i bairaktari, i condo-

ttieri, non aveva significato senza il popolo "ac presentibus nobilitus

et plebis innumeris", che riuniva tutti insieme per fare il diritto.

Gli albanesi dicono “Kanun e kuvend”, “Canone e Convegno”; è

questa la quintessenza del diritto consuetudinario albanese, cioè

nessun non può decidere fuori del Kuvend - “parlamento”.

La tradizione albanese, per risolvere i problemi nel Convegno,

rappresenta una testimonianza dell’antichità del Kanun, che rispe-

cchia le famose Conventus romane.

Soltanto un popolo con antiche radici culturali può elaborare, su

questa scala, gli elementi di autodisciplina e di responsabilità, per

rispettare con correttezza le norme, le regole, gli usi, i costumi popo-

lari ed il diritto consuetudinario nella vita sociale.

Un popolo che ha codificato le norme e le leggi della convivenza

e delle relazioni sociali, economiche, e giuridiche, dimostra una bell

cultura etnica.

Questo modo di organizzazione sociale, accettato da tutti in

unanimità e senza condizioni (nobilitus et plebis), si è consolidato

nel corso dei secoli, finché è arrivato alla codifica dei Kanun, che

rappresentano l’esistenza di una vita urbana e rurale formata ed una

coscienza di una civiltà e di una nazione.

La convocazione del Convegno era la vicenda più importante

sociale, politica, giuridica e militare per il popolo albanese.

Se un principato (o distretto, un villaggio) intendeva attaccare un

altro principato, o quando si trattava di mobilitare i combattenti per

difendere il paese da un attacco dei nemici esterni, o quando si

Page 87: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

87

doveva intervenire per riparare i danni dopo una calamità naturale, o

per porre rimedio ad un disagio sociale, allora tutti si riunivano in

assemblea generale (nel convegno – Kuvendi).

Il Kuvend decideva di proclamare lo stato di guerra e sull’ordine

di mobilizzazione di tutti gli uomini sopra 14 anni, come sancisce il

Kanun: “Uno per ogni casa”; decideva le misure e programmava le

azioni di aiuto per le famiglie colpite dalle catastrofe naturale, celeb-

rava i processi giudiziari, ricinciliava le parti in conflitto ecc.

Il Convegno – Kuvend è un istituzione che rappresenta tre forme

di governo. È per lo meno singolare che queste tre forme di governo

si contemperino nel regime politico della tribù albanese, poiché

troviamo:

- il potere monarchico nei nobili (principe, bairaktár, capovecchio),

- il potere oligarchico nel Consiglio degli anziani o saggi (vegliardi)

– il potere democratico nella “vegjelija” – rappresentato dalla gente

comune (i plebei).

Secondo il Kanun, “la tribù non conosce il Re” che vuol dire che

il principe ed il bairaktar sono una specie di console, ereditario ed a

vita, non però fornito di autorità maggiore di quella del console, né

di molte esenzioni, che non aveva nemmeno il magistrato romano.

D'altra parte, anche il capo della vegjelija, il tribuno della plebe,

è ereditario, senza però diventare un autocrate.

Nelle città medievali d'Albania ernao tre classi sociali cives,

proniarii, nobiles, corrispondenti alle tre classi dei plebei, dei

cavalieri e dei senatori in Roma, mentre nell’organizzazione della

comunità montanara abbiamo una più semplice distinzione in due

categorie: i senatori e plebei (lo stesso come nelle Contrade senesi).

La direzione degli affari e dei giudizi della tribù, è affidata al

consiglio degli anziani e solo straordinariamente all'assemblea gene-

rale di tutte le famiglie. Ciò comporta, dunque, che il senato sia un

Page 88: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

88

consiglio di ottimati. Membri del senato sono di per sé e per diritto

ereditario, soltanto i capi delle famiglie (§ 1147, KLD): tutti gli altri

formano la cosiddetta gente comune (plebei - vegjelija).

Il capo della stirpe, assieme ai vegliardi e al popolo delle frate-

llanze, ha diritto di tenere Convegni (Kuvende), stringere patti o

tregue, giudicare, multare e denunziare (§ 1150, KLD).

Il potere dei capi è regolato, o meglio limitato, dal Kanun che

sancisce: “Il capo di una stirpe non può giudicare né prendere deci-

sioni contrarie a quelle del Kanun” (§ 1152, KLD).

Il Kanun limita il potere autocratico dei capi: “Per multare e

denunziare un Capo bastano i Vegliardi, i sottovegliardi e il popolo

della stessa tribù (§ 1155. KLD), dimostrando il carattere democ-

ratico del Convegno, dove il popolo ha la sua voce, come stabilisce

il § 1176 del KLD: “Se il popolo non approva la decisione prese dai

Capi e dai Vegliardi, ha diritto di non attenersi alle medesime”.

Tuttavia, oltre ai pleq (senatori) ed i principi o i bairaktar che

sono i nobili, si possono convocare altri per saggezza, ovvero per le

loro personali doti di prudenza. “I senatori”, dice il Kanun, “sono o i

primi delle stirpi o i capi delle tribù” (§ 1146, KLD).

Senatori si chiamano anche uomini rinomati per prudenza de gli

esperti in affari giudiziari, politici, sociali, militari e soprattutto

quando si tratta di risolvere dei problemi delicati della vendetta –

faida, o presa del sangue.

Il Kanun di Lek Dukagini e degli altri Kanun, stabilisce che la

gente armata sia in pace, sia in guerra non era comandato dal priore

del villaggio (no da bairactari), ma dal Capitano, il quale veniva

eletto dal Convegno per merito militare.

È un meccanismo di elezione democratica della persona più

coraggiosa e di capacità militare distinte, nello stesso modo di come

si fanno le elezioni del Capitano nelle Contrade senesi.

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89

Il convegno si riuniva nei luoghi prestabiliti e permanenti e si

svolgeva con una cerimonia solenne, divina e autoritaria, con la

partecipazione dei nobili, dei vegliardi e dei rappresentanti di ogni

casa (il signore della casa), del popolo e, in casi particolari, anche

con la partecipazione delle donne.

Tutti i partecipanti riuniti in Convegno (Kuvend) si siedono in

semicerchio, con le armi appoggiate sulle ginocchia, seduti in modo

che ciascuno possa vedere l’altro e che l’invitato a presentarsi in

mezzo a tutti e dinanzi ai capi, trovi il passo libero.

I valorosi riuniti in convegno sono armati, ma nessuno usa l’arma

neanche nel caso di una provocazione grave.

Durante il dibattito, o durante i giudizi ed in assemblea generale,

i capi di famiglia e dei villaggi ed i Vegliardi stanno da una parte ed

il popolo dall’altra.

I capi ed i Vegliardi prendono posto secondo il diritto di prece-

denza. Nel convegno, quando uno parla, gli altri sono obbligati ad

ascoltare e tacere. Durante il dibattito non sono permesse parole

offensive, non è permesso insultare, né offendere e neanche interro-

mpere il discorso dell’altro, anche quando sta parlando in maniera

sbagliata, e chi osa contravvenire viene punito.

Dunque, il Convegno - Kuvendi era una democrazia autentica che

oggi potrebbe fare invidia ai parlamenti più moderni del mondo.

Il Convegno si occupa di cose importanti, mentre le questioni di

secondaria importanza ed i litigi tra le persone, sono regolati dai

Vegliardi e Sottovegliardi con il popolo.

Le questioni di maggiore gravità e che riguardano una stirpe,

dovranno essere prese in esame dai Capi della stirpe, dai Vegliardi e

dai Sottovegliardi. Invece, le questioni che riguardano il distretto

(villaggio, o gruppo di villaggi), il Bairak, il Principato, o la Patria,

sono di competenza dell’assemblea generale, alla quale dovranno

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90

intervenire i rappresentanti di tutte le famiglie.

In chiusura dei lavori del Convegno, si approva la delibera finale

(la sentenza), presentata in collegialità e in modo molto democratico

dai Vegliardi.

In questa cerimonia solenne e impressionante, gli autori e gli

attori sono i Vegliardi (i saggi), ed i capi delle famiglie, i mentori o

coloro che hanno custodito nella loro memoria e che hanno applicato

e trasmesso oralmente, con fedeltà e con una precisione straordinaria

tutto questo tesoro della cultura giuridica ed etico morale, parte della

nostra lunga storia, riassunto in modo laconico nel Kanun di Lek

Dukagini.

I Convegni si riunivano in luoghi permanenti, di solito in una

piazza del centro amministrativo di un villaggio, di un distretto, nei

cortili delle chiese, nella piazza di una contrada, o presso le rovine

dei vecchi posti sacri pagani (la tradizione precristiana).

La storia albanese ha documentato e riconosciuto molti con-

vegni, tra i quali ricordiamo più importanti:

1. Dukagini – sulla collina di San Giorgio (Shosh).

2. Puka – nella città di Puka.

3. Postriba – in piazza di Drisht.

4. Mbishkodra – nel cortile della Chiesa di Rapsha.

5. Kelmendi – in Colle di Berdelec.

6. Hoti e Gruda – nel villaggio di Hoti.

7. Zadrima (Capa) – nel villaggio di Dajç.

8. Nikaj - Merturi – nella Chiesa di Nikaj.

9. Mertur-Krasniqe – in campo di Blini Kuvendit Selca.

10. Miredita – presso la Chiesa di San Paolo o in Orosh.

11. Lura – in campo della Chiesa di Santa Maria Assunta.

12. Kthella – in piazza di Kroji i Fikut në Perlat.

13. Mati – nel villaggio di Lis.

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14. Malsija e Lezhes - sul Molung, in Dardha Kërbucë.

15. Dibra – nel villaggio di Çidhën.

16. Kruja e Malesija e Krujes - nel villaggio di Benda.

17. Martaneshi – nella lizza Belik del villaggio di Peshk.

18. Çermenika – nel villaggio di Zdrajsha.

19. Tomadhea (San Giorgio) - nel piazzale di Varros.

20. Malësia jugore e Elbasanit – nel villaggio di Gjinar.

21. Malesia veriore e Elbasanit - nel villaggio di Labinot.

22. Labëria – nel villaggio di Larushk .

23. Kurbini – nei Prati di Selita, e Laç Sebasta.

24. Luma – nel villaggio di Bicaj.

25. Hasi – nel villaggio di Kruma.

26. Plava e Gucia – nel villaggio di Vuthaj.

27. Malësija e Gjakovës, nella lizza del Cimitero di Shala.

28. Gash e Krasniqe, presso il Convegno di Selimaj.

Ecc, ecc.

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Bessa (Besa): Costantino con Doruntina.

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93

CONCETTI BASE DELL’ ETICA E DELLA MORALE DEL

KANUN DELLE MONTAGNE ALBANESE.

Gli studi sul Kanun sono indirizzati su due piani fondamentali:

giuridico ed etico. La maggioranza degli studi è stata dedicata

all’aspetto giuridico, suggerito dallo stesso codice consuetudinario.

Come ogni codice giuridico, anche il Kanun è collegato alle norme

morali ed etiche della società, tanto più che nel medioevo, quando è

presumibile che sia stato codificato il Kanun, gli albanesi non

avevano un governo nel significato moderno della parola e l’etica

funzionava come un regolatore dell’ordine e delle norme sociali.

Comunque, più che una semplice raccolta di leggi, il Kanun è

quasi un completo sistema giuridico e sociale che include anche le

norme etiche, morali e culturali, che non appartengono del tutto alla

sfera giuridica. Sotto questo aspetto il Kanun ha servito anche come

un Codice morale, etico e culturale, per regolarizzare i rapporti

sociali tra individui, famiglie, stirpi, contrade, villaggi, province e

per tutta la società albanese.

In tutti i Kanun albanesi fioriscono molte virtù etiche, morali e

culturali come burrëria (l’uomo d’onore, uomo virile e coraggioso),

l’onore, la Bessa, l’ospitalità (l’amico-Dio), l’umanesimo, la solida-

rietà – carità, la fierezza, l’orgoglio, il rispetto, l’amore profondo per

la libertà della patria, l’orgoglio nazionale, la resistenza e la tenacia

nel non sottoporsi al nemico straniero ecc.

Secondo Padre Giuseppe Valentini, “tutte queste categorie etiche

e morali hanno valori insostituibili per capire la mentalità e la

cultura albanese. Senza di loro sarebbe difficile immaginare come il

Kanun abbia regolato tutto e rappresenti il mondo spirituale e

psicologico del popolo albanese”.

Padre Shtjefen Gjeçovi, nei primi articoli pubblicati nel 1912 e

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94

successivamente, nel libro “Kanun di Lek Dukagini” pubblicato nel

1933, non esprime opinioni sulla mentalità e la personalità dell’alba-

nese, nemmeno per altre categorie etno-psicologiche, ma tutto si

capisce in modo indiretto, e tutti gli studiosi sottolineano che le

categorie etiche e morali incluse nel Kanun di Lek Dukagini, espri-

mono l’individualità etnopsicologica dell’albanese.

Dall’analisi di questo castello morale ed etico del Kanun e degli

elementi psicologici ed etnopsicologici, che vivono dentro il Codice

Consuetudinario, si evidenziano tante caratteristiche particolari, che

esprimono l’originalità, gli elevati valori umani e la cultura del

nostro popolo, nonché i legami del Kanun con il suo lungo percorso

storico.

Dentro il sistema di tanti elementi etici, morali e giuridici, spunta

in primo piano la vendetta - faida (la vendetta con la presa del san-

gue), un atto atroce e con radici che affondono sin dall’origine

dell’umanità, che è arrivato fino ai giorni nostri, come la coscienza

tragica dell’albanese, un atavismo della barbarie, un male sociale.

Il Kanun delle Montagne tratta la vendetta-faida come la sanzione

più importante per stabilire l’ordine pubblico in una società senza

autorità statale, situazione che, come sappiamo, gli albanesi hanno

vissuto per secoli.

In molti studi sul diritto canonico, emerge la considerazione della

vendetta-faida come un atto di giustizia.

Non dobbiamo dimentica che la risoluzione dei conflitti, fino al

tardo medioevo dell’Europa, era la FAIDA.

La maggioranza degli autori pensano: “la vendetta - faida non

dimostra la barbarie del popolo albanese, ma è una conseguenza

delle condizioni obiettive e delle particolari circostanze storiche che

ha attraversato questo popolo”. Tra i primi Padre Gj. Fishta, nella

introduzione che correda il Kanun di Lek Dukagini di Padre Sh.

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Gjeçovi, ed anche altri autori albanesi e stranieri, durante l’analisi

della vendetta – faida, si sono dedicati a questo fenomeno, trattan-

dolo come un atto di giustizia durante il lungo periodo di medioevo,

attuato nello stesso modo che in altri paesi, come Italia, Francia,

Spagna, Germania, Inghilterra, Russia ecc.

L’autore Rose W. Lane, nel suo libro “Peaks of Shala” (Note sul

viaggio in Albania nell’anno 1921), descrive la vendetta come gli

aveva spiegato l’arcivescovo di Pulti (diocesi del nord di Albania):

“La vendetta è molto brutta, ma è l’unico modo che impone il rispetto

delle leggi che, in generale, sono ammirabili, disse il prelato. La

vendetta non è fuori legge, come pensano molti stranieri, essa è una

forma della condanna captale, la stessa che esiste in altri Paesi che

applicano leggi severe”.

I. Whitaken, nello studio “Tribal Structure and National Politics

in Albania, 1910 – 1950”, ha considerato la vendetta “un meccanismo

pubblico del controllo sociale, in cui è compresa anche la struttura

etica del Kanun”.

K. Yamamoto, considera la vendetta-faida un concetto chiave,

legato con il concetto del sangue, che ci porta verso altri concetti che

costruiscono la struttura etica del Kanun e che assicura la funzione

come di regolatore giuridico. Lui scrive:“Il concetto vendetta – faida,

è un elemento fondamentale, il quale vigorosamente esprime la stru-

ttura etica del Kanun”.

La vendetta-faida codificata nel Kanun, si basa su una morale ed

una giustizia ben precisa e troppo rigorosa, che hanno una lun-

ghissima storia ed una larga presenza nella vita e nella cultura

tradizionale del popolo albanese. Ormai è chiaro che la vendetta-

faida aveva una propria legge (codice), il cui scopo generale era

l’equilibrio della società (spirituale, materiale, civile, militare ecc.).

La vendetta – faida albanese come istituzione giuridica, somiglia

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96

alla vendetta degli altri popoli più antichi d'Europa, ma ci sono

anche notevoli differenze dovute sicuramente dalle specifiche circo-

stanze sociali e storiche.

Le differenze più grandi si riscontrano specialmente nel modo in

cui si concepisce la vendetta-faida, sia confrontando tra di loro le

varie culture, sia all’interno della stessa cultura e di una stessa legge,

a seconda dei diversi periodi storici.

La vendetta - faida non è stata e non è un fenomeno o un

prodotto albanese. Nella vita, nella storia, come nella letteratura

spagnola, inglese, tedesca, italiana, francese, giapponese, russa ecc.,

quello della vendetta – faida è un fenomeno sociale e storico, ed è

presente anche attualmente in Corsica, in Calabria, in Puglia, in

Sicilia, in Sardegna, in Scozia, in Albania ecc.

La vendetta – faida, purtroppo è un fenomeno sopravvissuto al

passato ed è attiva anche ai giorni di oggi. Con l’abolizione del

Kanun, in Albania, la vendetta – faida non è più in vigore, ma si nei

territori abitati dalla popolazione montanara o di origine montanara,

che ha conservato egoisticamente la propria vecchia tradizione di

“presa del sangue”, come un modo di fare “giustizia”, una ostilità

applicata in modo selvaggio per i vecchi rancori di vendetta, di

solito per motivi banali, come dopo un vecchio litigio, o una offesa

nell’ambiente pubblico, spesso come “regolamento dei conti”, “una

aggressività nutrita dall’odio individuale”, una ostilità personale o

come una vendetta “ufficiale” e politica, della quale ho una espe-

rienza personale.

In questo saggio non parlerò della vendetta – faida, perché se ne

è studiata ed analizzata, se ne è parlato e scritto fin troppo, e non

vale la pena di dedicarcisi di nuovo.

Con la pubblicazione di questo saggio, ho preferito presentare un

altro aspetto del diritto consuetudinario albanese, di evidenziare

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qualche opinione storica, filosofica, etica e culturale che esprimono

molti valori e pregi presenti nei Kanun albanesi, dei quali si è parlato

poco.

L’autore Anton Çeta, in uno studio dedicato alle caratteristiche

positive della personalità dell’albanese inclusi nel Kanun, presenta i

valori classificati in tre gruppi:

- Nel primo ordine sono le categorie di burrerìa (l’uomo virile) e

l’onore (uomo d’onore), definite fondamentale per individuare la

personalità albanese. Lo spazio concettuale tra la burreria e l’onore è

molto stretto, anzi, queste due categorie si descrivono intrecciate tra

esse e, molte volte sono addirittura indicate come sinonimo.

- Nel secondo ordine sono le categorie di Bessa e di Ospitalità;

- Nel terzo ordine, sono raggruppate tutte le altre categorie etiche e

morali, considerate comuni.

Pandi Frashëri, nel libro “Famiglia albanese: fonte di civiltà euro-

pea“, pubblicato a Spoleto nel 1947, applica un'altra classificazione,

basata sulle conoscenze storiche, etiche, culturali e giuridiche conte-

nute nel Kanun.

- In primo piano, mette l’ospitalità e la Bessa (parola data). Secondo

Pandi Frasheri, questi due istituti politici della nostra civiltà hanno

un valore specifico e riflettono, parzialmente, la grandezza d’animo

di un albanese.

- In secondo piano mette la vendetta. Secondo Frasheri, le categorie

etico-morali di Bessa e l’Ospitalità non avrebbero nessun significato

senza la vendetta, nella quale si trova la vera sorgente di quelle due

virtù.

Il giapponese Kazuhiko Yamamoto, nel libro “The Ethical

Structure of Kanun” (2006), non formula classifiche dei valori etici

primari o secondari, ma li tratta uno ad uno, spiegando il loro signi-

ficato, svolge un’analisi comparata tra essi ed evidenzia le somi-

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glianze e le diversità.

Parlando dei concetti etico-morali come la besa, l’onore, il pane,

il sangue e la vendetta – faida, Yamamoto mette in luce il significato

e la loro funzione nel diritto consuetudinario albanese senza autorità

statale; trova concordanze con i concetti etici del vecchio diritto

giapponese e più remote come con “L’Illiade” e “L’Odissea” di

Omero, con le tragedie di Eschilo e Sofocle, con l’opera filosofica di

Platone, Aristotele, ed anche con le opinioni dello scrittore nazio-

nalista giapponese Jukio Mishima.

Gli studi sulle categorie etiche, morali e culturali del Kanun di

Lek Dukagini hanno arricchito le nostre conoscenze sui valori etno-

psicologici del nostro popolo, ma hanno evidenziato anche l’antichità

del Kanun, le dimensioni della sua attività, la forza attiva, i rapporti

storici, culturali e spirituali del popolo illirico – albanese con i greci

dell’antichità, con i romani ed altri popoli vicini e lontani con cui

siamo stati in contatto.

Analizzando in questo piano i Kanun delle Montagne, sono state

evidenziati categorie e concetti etici, morali, culturali, spirituali e

intellettuali nella nostra società montanara, nel letto storico e cultu-

rale della quale è nata e cresciuta una società con il diritto consue-

tudinario, la etica, le proprie norme, le leggi e con il suo ordine

sociale.

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L’OSPITE, l’ospite Dio,

L’OSPITALITA’, l’accoglienza, il pane-cibo, il rispetto e la

difesa dell’ospite-amico ...

Il Kanun di Lek Dukagini e tutti gli altri Kanun albanesi hanno

stabilito il culto dell’ospite e la cultura dell’ospitalità.

L’ospite per gli albanesi è un amico, è trattato davvero così, cir-

condato da onore, rispetto e l’accoglienza amichevole, esprimendo

in questo modo i sentimenti umani, la nobiltà, l’atteggiamento cava-

lleresco, la stima ed il rispetto per ognuno che ospita ed onora la

famiglia del montanaro.

Nel Kanun di Lek Dukagini (anche negli altri Kanun) è presente

la sentenza:“La casa è di Dio e dell’ospite” (Art. 96, § 602 - KLD),

che esprime il rispetto per l’ospite medesimo, al quale si fa onore

ospitandolo e offrendogli “pane, sale e cuore” “all’ospite del cuore

si cede la casa” (§ 613 - KLD).

Con questa categoria etica, il popolo albanese ha creato il culto

dell’ospite e la cultura dell’ospitalità, che è diventata una disciplina,

una norma sociale.

Per l’albanese l’ospite è sacro, perciò la casa che la ospita è di

Dio e dell’ospite, ma non solo la casa, anche l’ospite è equiparato

con Dio, perciò il Kanun lo definisce l’ospite – Dio.

Sono davvero divini e umani questo rispetto e questo onore che

si riserva all’ospite, che esprimono la nobiltà e la grandezza dello

spirito del montanaro albanese.

Il culto dell’ospite e la cultura dell’ospitalità sono regolati dalle

norme e dalle leggi nei Kanun e sono tramandati nella tradizione

popolare albanese invariati per secoli, quasi una raccomandazione-

legge espressa in modo categorico con una sentenza: “Cosi ha detto

il Kanun, la legge degli antenati”.

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Il culto dell’ospite è sancito negli articoli 96, 97, 98 del KLD

con le sentenze: “La casa dell’albanese è dell’ospite e del vian-

dante”;“la porta di casa si apre a ognuno che bussa, sia lui anche

un mendicante”;“all’ospite si fa onore dando pane, sale e cuore”;

“l’ospite occupa il primo posto alla mensa e acquista i diritti di

protezione della casa”, ecc.

Tramite queste leggi, sacre per l’albanese, si esprime una men-

talità ed una cultura antica, biblica e paracristiana, che ha origine nei

vecchi tempi, quando i profeti si affacciavano davanti alla porta di

casa dei fedeli vestiti come un viaggiatore povero o come un

mendicante.

La frase divina “All’ospite si fa onore dando il pane, il sale e il

cuore”, significa che il signore di casa, ospitando una persona anche

sconosciuta, gli offre tutto ciò che si trova in casa, ad es. una casa

povera gli offrirà pane - cibo con il cuore, cioè accogliendolo con

sincerità, rispetto, atteggiamenti calorosi, che garantiscono all’ospite

atmosfera amichevole, ospitalità, confort e sicurezza.

L’ospitalità è una categoria canonica nel rango di fede, e sembra

che il codice dell’ospitalità vada piuttosto iscritto in una dimensione

di reciprocità, la cui mancanza metterebbe in crisi l’intero sistema

organizzativo della famiglia, della tribù e della società albanese.

Il principio canonico dell’ospitalità viene trasposto nella norma

chiave dell’etica, mentre al contrario, l’inospitalità disonora, assume

il carattere di violazione di un precetto sacro del Kanun, mette in

pericolo la coesione sociale.

Vale ricordare che questa cultura dell’ospitalità è attiva nella

popolazione arbereshe d’Italia, legata ai luoghi e alle comunità dei

vecchi albanesi - che già esistono da secoli; dove si parla di una

cultura arbereshe di ospitalità, diversa dalle altre, che rappresenta un

elemento di ricchezza in più, proprio perché questa etnia porta con

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sé una storia vecchia, diversa ed originale da confrontare. Secondo

la mentalità albanese, l’ospite che bussa alla porta deve essere

accolto con tutti gli onori che merita e si deve “trattare nello stesso

modo sia il medicante, sia il santo”.

Secondo la tradizione popolare, l’ospite non si deve valutare dal

vestito (l’abito non fa il monaco), perché sotto i vestiti di un mendi-

cante può nascondersi un profeta o un santo.

Entrato in casa, l’ospite occupa il primo posto alla destra del

caminetto, di fronte al signore di casa, acquista tutti i diritti di pro-

tezione della casa e nello stesso tempo gode tutti gli onori, che gli

appartengono secondo il Kanun.

La commovente ospitalità del montanaro albanese, vero tipo del

gentiluomo povero, che priverebbe se stesso, la sua famiglia, le sue

donne, i suoi bambini dell'ultimo tozzo di pane per imbandirlo “con

sale e con cuore” all'ospite; e accetterebbe di vedere la sua famiglia

spenta a fucilata e le rovine della sua casa coperte di rovi, dalla

soglia al focolare, piuttosto che lasciare l'ospite senza cibo o indi-

feso. Questi sono norme morali della legge delle montagne, che

rappresentano i valori assoluti della cultura albanese per ciò che

riguarda l’ospitalità, presenti in tutti i Kanun.

Ricordiamo che il mondo lo ha conosciuto questo tipo di ospi-

talità nell'Iliade e nell'Odissea di Omero, ma anche nelle case dei

montanari albanesi, che hanno consolidato l’ospitalità in una tradi-

zione divina. E su questo aspetto hanno una grande esperienza molti

stranieri, che hanno avuto il privilegio e l’onore di visitare le case

modeste dei montanari, come testimoniano nelle loro cronache, E.

Celeppia, E. Durham, J. Hahn, Lord Bayron, Hugs, Padre Valentini,

Barone Nopça, Witaker, G. Valentini, Montanelli ecc.

Il concetto ospite-amico ed amico-dio, è legato strettamente alla

cultura dell’ospitalità dei montanari, all’ospitalità che il signore di

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102

casa offre a chi bussa alla sua porta ed è accolto con il pane - cibo,

preparato dalle donne di casa per l’ospite, dimostrando accoglienza,

cordialità, solidarietà e carità, dando prova del bene fatto.

L’accoglienza e l’ospitalità per l’amico rappresentano la perso-

nalità culturale, spirituale, umana e mistica del montanaro albanese.

Offrendo pane all’ospite – Dio, il signore di casa (il vecchio), i

membri della sua famiglia, la casa stessa, ricevono una benedizione,

anzi divengono “sacre”.

Il signore di casa trasmette all’ospite questa atmosfera divina

tramite le parole cordiali di accoglienza e di auguri: “Benvenuto a

casa mia: pane, sale e cuore”, “grazie al Dio che ti a guidato alla

casa mia”. Parole che non sono semplici saluti di invito e di educa-

zione, non sono una cortesia formale, ma esprimono la forza magica

di una cultura di ospitalità.

I saluti e le parole del signore di casa, indirizzati all’ospite, espri-

mono lo spirito generoso, l’invito cordiale, l’accoglienza e l’umanità,

e gli portano la fortuna, ma dall’altra parte, anche il ricambio dei

saluti, le parole di ringraziamento dell’ospite:“Ben trovato e sia

lodata la casa che mi ospita”, sono una benedizione e portano bene

al signore di casa ed ai tutti membri della famiglia, che saranno total-

mente impegnati nel rendere più accogliente e confortevole la perma-

nenza dell’ospite.

Una forma particolare del rispetto del signore di casa per l’ospite

si dimostra con l’obbligo di proteggerlo da ogni pericolo e non solo

quando è entrato in casa, ma anche quando si trova nel cortile o,

come dice il Kanun, “quando si trova nell’ombra di casa”, quando

passa per le strade del villaggio”ecc. Nell’Articolo 97, § 641 del

KLD è precisato una sentenza: “Se una persona viene alla porta della

tua casa e ti prega di accendergli la pipa e tu lo accont-enti, però

chiunque l’offenda si rende reo verso di te di lesa ospitalità”.

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103

Secondo il Kanun, l’ospite diventa membro inseparabile della

famiglia che lo ha ospitato.

Il più grande privilegio e l’orgoglio dell’ospite è quando lui

dichiara: “Sono nelle mani del signore di casa” (pronunciando il

nome e cognome di colui che lo ha ospitato), ciò significa che

durante tutto il tempo che rimarrà ospite nella casa, lui non potrà

subire vendetta da nessuno. Se per caso, succede che l’ospite cade in

una imboscata di un nemico che si vuole vendicare, basta dire “Sono

nelle mani del tale signore”, cioè far sapere che è l’ospite del capo

di una famiglia, pronunciando nome e cognome del signore di casa e

questo gli salva la vita, gli dà sicurezza, lo protegge da qualsiasi

pericolo.

Nei tutti i Kanun e nella vita del polo albanese, non si usa mai la

parola straniero e neanche forestiero, non esiste l’ospite straniero: al

contrario la figura dell’ospite è l’amico, una figura unica, indipenden-

temente dalla nazionalità, dalla fede, dall’appartenenza etnica e

sociale: dunque sono tutti amici, uguali, sia il povero che il ricco.

L’ospitalità albanese è diventata proverbiale, quando si parla di

accoglienza alle persone che soffrono, a quelle in difficoltà fisiche, a

quelle che chiedono aiuto, alle persone perseguitate, come è successo

con gli ebrei. Vale ricordare che. durante la persecuzione degli ebrei

da parte dei nazifascisti, il popolo albanese ha ospitato tutti i cittadini

ebrei, nascondendoli nelle loro case povere e non ha denunciato e nè

ha consegnato nessuno. In Albania, i nasifacisti non hanno arrestato e

non hanno ucciso nessuno ebreo.

Rispettando le leggi del Kanun, gli albanesi esprimono un atte-

ggiamento umano anche nei confronti delle persone in pericolo di

vita; non solo ma hanno accolto e dato ospitalità anche ai nemici

occupanti. Quest’ultima non è una leggenda, non è un paradosso,

invece è una realtà della storia e della cultura albanese, ha una lunga

Page 104: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

104

storia, è successo tante volte, come ha descritto Lord Bayron nel suo

libro “Child Harold” ecc..

Vorrei ricordare solo un episodio più recente.

Dr. Franco Benati nel suo libro “La guerra più lunga” (2007),

narrando le vicende dei soldati italiani dopo l’8 settembre 1943,

descrive con emozione, l’accoglienza e l’ospitalità ricevuta da una

famiglia albanese: ”Condorelli, io e qualche altro soldato italiano,

siamo accolti da una famiglia, che ha aperto la porta con una ospi-

talità commovente”.

Non dobbiamo dimenticare che solo qualche giorni prima, quegli

stessi ufficiali e quei soldati italiani erano i nemici invasori.

Vorrei anche aggiungere che il popolo albanese li ha ospitato e li

ha protetto dai tedeschi tutti i soldati italiani, i quali, dopo la guerra,

sono ritornati sani e salvi nella loro patria (più di 36 000 soldati

italiani). Pochi lo sanno, perché nessuno lo ricorda.

Tutti gli stranieri che durante il medioevo, e anche dopo, hanno

visitato l’Albania, sono rimasti stupefatti dall’ospitalità del nostro

popolo, definendola un valore unico della cultura albanese. Tra loro

vale ricordare il cronista turco E. Çelebiia, che traversò i territori

albanesi durante gli anni 1623 – 1670; che nelle sue memorie scrive:

“Non ho mai visto, in tutto l’Impero Ottomano, una ospitalità e una

accoglienza così calorosa e umana”. Lui definisce questo compor-

tamento un valore etico e culturale tipico albanese.

Nella tradizione albanese l’ospite ha una posizione di importanza

particolare, gode senza riserve, qurllo che possiamo definire “il

diritto dell’ospite”. Chi offende l’ospite, ha calpestato l’onore della

casa, ha violato le regole di accoglienza e l’ospitalità, ha offeso gli

Dei e oviamente, gli Dei si arrabbiano e si vendicano contro loro.

Secondo il Kanun di Lek Dukagini, l’unico modo per difendere

l’onore dell’ospite, e per evitare l’ira degli Dei sul signore di casa, è

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105

di condannare il colpevole, colui che ha offeso l’ospite, che ha

offeso il Kanun, che ha offeso la casa ospitante e che di conseguenza

deve essere punito. E la condanna viene eseguita tramite la vendetta.

Rifiutare ospitalità ad un amico, o ad un viandante, o ad uno che

chiede ospitalità, o offendere l’ospite è un grave reato.

Nel Kanun viene precisato: “È sentenza di legge: si perdona

l’offesa fatta al padre, al fratello, perfino ai cugini, ma l’offesa fatta

all’ospite non si perdona mai” (Art. 97, § 649 di K. L. D).

L’ospite, per l’albanese, ha anche il significato del rappresen-

tante di un’altra famiglia, è l’ambasciatore di un’altra “repubblica”,

di un “altro stato”, quindi dovrà essere rispettato e protetto appena

entra all’ombra della casa, sotto la sovranità della “repubblica”.

Non ha nessuna importanza se l’ospite è sconosciuto e non ha con sé

“le lettere credenziali”. Egli rimane un tutt’uno e inseparabile con la

casa, dovunque vada o chieda ospitalità e protezione. Solo così si

spiega il fatto che anche qualora due famiglie si trovino o perven-

gano lì per lì in conflitto (la vendetta-faida), se l’uccisore entra nella

casa dell’ucciso, sapendo o no che è di questo ultimo, lui non incorre

nessun rischio da parte dei familiari dell’ucciso: anzi, sarà da questi

protetto e tenuto con riguardo, prenderà eventualmente parte al

funerale della vittima e sarà accompagnato, l’indomani o lo stesso

giorno, dove egli desidererà andare o verso la strada che lo porta

direttamente a casa sua (Art. 97. KLD).

In queste circostanze, secondo il Kanun, l’omicida non subisce la

vendetta e, quando lui vuole, viene accompagnato dai membri della

casa dell’ucciso fuori del villaggio.

Questo atteggiamento cavalleresco ricorda quello che oggi si

tiene nei confronti dei rappresentanti diplomatici: anche quando due

stati si sono dichiarati guerra o sono in guerra, questi vengono

accompagnati con rispetto fino al confine.

Page 106: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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La tradizione d’ospitalità dei montanari albanesi poteva essere

valorizzata attribuendole un’etichetta cristiana, perché l’accoglienza

ai forestieri viene lodata dalla chiesa come l’espressione di genero-

sità “naturaliter cristiana”. Al stesso modo i bectasci la definiscono

l’ospitalità “la nobiltà dello spirito del montanaro”, mentre i

musulmsni è “l’onore di casa”.

Come si vede, sia i cattolici, sia i musulmani, che i bectasci la

considerano l’ospitalità come una norma etico e culturale, che non

dipende dalla religione.

La vita del montanaro albanese, la sua mentalità, la sua cultura

canonica, la sua prontezza al sacrificio della vita senza esitazione per

l'onore e per il dovere, la sua ospitalità unica e divina, la sua parola

d’onore e i suoi contratti, le sue contese, le sue rappresaglie, la sua

partecipazione al convegno, la sua posizione sulla politica interna ed

estera sono regolati da questa legge, proclamato nella sentenza:

“Tutto è Kanun di Lek Dukagini”, ereditato dai padri, più indelebile

che se fosse fuso in dodici tavole di bronzo. Nessuno l'ha scritto, ma

nessuno non lo mai cancellato dallo spirito e dalla mente albanese.

Page 107: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

107

L’ONORE:

Il culto dell’onore, il codice d’onore.

L’onore ed il sangue.

L’onore dell’individuo, della famiglia, della stirpe,

della tribù, della contrada, del villaggio, della Patria …

Il concetto di onore impresso nel Kanun assume una duplice

funzione: da una parte si presenta come una norma sociale generale,

è un culto su cui insiste la società montanara (art 96 - KLD) e

dall’altra parte, è un codice come precetto morale individuale, viene

qualificato come proprietà personale, ma anche collettivo (della

famiglia, della stirpe, della tribu, del villaggio (art 97, § 596 - KLD).

L’onore nel Kanun esprime l’integrità dei costumi, il rispetto dei

principi morali individuali e della comunità, su cui si fonda la pubb-

lica stima e il rispetto individuale e sociale, che obbligatoriamente

devono essere reciproci.

L’onore nel Kanun di Lek Dukagini, ed anche negli altri Kanun,

non è una categoria morale in senso stretto, anzi è una norma codifi-

cata: l'onore è dovere, è un codice, è una categoria giuridica, è legge.

L’onore è una delle categorie più importanti dell’etica del popolo

albanese, che esprime la capacità dell’uomo di ottemperare al dovere

di mantenere integro il proprio onore, la reputazione, la personalità e

l’autorità della sua famiglia e della sua comunità.

L’onore nel Kanun è una fede, è una prescrizione assoluta, è una

categoria etica che ha assunto le caratteristiche di sacralità.

In questo modo l’albanese ha creato il culto dell’onore e lo difende

con coraggio e fanatismo. E se qualcuno osa di toccare l’onore, la

reazione è immediata, e si spinge fino alle conseguenze estreme,

condannare il colpevole con l’uso della violenza, cioè applicando la

vendeta - faida.

Page 108: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

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Il culto dell’onore degli albanesi ha origine antiche ed è rimasto

sempre una categoria canonica codificata.

L’onore nei Kanun è diverso dall’onore del codice dei cavalieri

del medioevo e del rinascimento europeo, perché l’onore dell’alba-

nese rappresenta una virtù sublime, un comportamento nobile, epico,

eroico, un grande valore morale ed etico, è dignità, è coraggio.

D’altra parte ha anche un carattere ruvido, feroce (proteto dalla

vendetta-faida), ma si tratta di una ferocia che esprime la grandezza

dell’onore, come pregio.

Analizzando l’onore del Kanun di Lek Dukagini, anche se unico

nel suo genere, il giapponese K. Yashimoto trova somiglianze con

“Bushido”, il codice d’onore dei Samurai.

L’onore nel Kanun è in primo ordine fra tutte le norme e le leggi

ed è concepito dalla fusione di tre altri culti: l’ospitalità, la saggezza

e la bessa.

Ognuna di queste categorie canoniche è a parte, ma solidificati

nell’onore, rappresentando le caratteristiche etnopsicologiche posi-

tive della personalità del popolo albanese.

Avendo questi valori, il Kanun ha sancito che chi tocca l’onore

altrui, chi offende nell’onore qualcuno subisce punizioni pesanti:

“Per l’onore offeso non c’è giudizio o tribunale” (§ 596 - KLD).

Non solo, ma più pesanti sono le sanzioni nel Kanun per chi perde

l’onore, che è obbligato a difendere il proprio perchè “di fronte alla

legge il disonorato è considerato persona morta” (§ 600 - KLD).

Egli è così costretto ad agire nel senso di vendetta: “Il disonorato è

libero di vendicare il proprio onore; non si dà pegni, non accetta i

Vecchi, non si appella alla giustizia e non si contenta di risarci-

mento pecuniario. Il valoroso si giustizia da sé” (§ 599 - KLD).

L’onore ha grande dimensione etico e morale, ed a prescindere

dall’onore personale, racchiude anche l’onore della famiglia, della

Page 109: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

109

casa, della stirpe, della tribù, della contrada, del villaggio, del distre-

tto e della patria. Come ci si vede l’onore secondo il Kanun ha valori

universali, ma d’altra parte l’onore ha confini stretti nel modo come

viene applicato.

Il Kanun insegna come ci si deve comportare per non perdere

l’onore, dunque, in questo modo, il Kanun è un codice morale e

svolge la funzione preventiva di difendere l’onore.

Secondo i Kanun albanesi, un uomo perde l’onore quando lui

commette errori gravi, per esempio quando tradisce l’amico, l’ospite

e quando tradisce la stirpe, il principato, la patria. Ma si disonora

anche con errori “piccoli”, ad esempio, con una parola scortese

rivolta ad una persona che sta parlando nel Convegno, perciò: “Un

uomo si disonora, dicendo bugiardo ad altra persona, in presenza di

uomini seri radunati in Convegno” (§ 601 - KLD).

Il Kanun non solo difende il diritto di libertà di parola, ma nello

stesso tempo dimostra che il Convegno ha le sue regole che devono

essere rispettate, ha la sua etica e, come un’istituzione onnipotente,

deve difendere l’onore, perché l’onore è intoccabile, è sacro.

Il Kanun riconosce il diritto della libertà di parola, la libertà di

esprimere i pensieri, però all’interno delle norme e di una cultura

democratica; precisa infatti anche i limiti di questa libertà, che si

spinge fin a non toccare la libertà degli altri.

In modo chiaro il Kanun stabilisce che nessuno deve interrom-

pere in modo offensivo l’oratore, non solo nel Convegno, ma in

qualsiasi ambiente familiare e sociale.

Queste norme rappresentano nel loro complesso il codice della

difesa dell’onore dei montanari. Secondo il Kanun nessuno ha diritto

di offendere e di insultare l’onore degli altri in pubblico. Questa è

l’etica creata della saggezza popolare, sancita nei Kanun, espressa

con i discorsi laconici e filosofici dei montanari, con le norme del

Page 110: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

110

buon atteggiamento sociale, di rispetto reciproco e buona educa-

zione: è la cultura del dialogo, che contiene il peso dell’onore e della

saggezza per mantenere in efficienza i meccanismi del funziona-

mento del Convegno – Kuvendi.

L’onore nel diritto consuetudinario albanese è il contrario della

vergogna, esprimendo con varie sentenze:“L’onore sulla fronte c’è

stato impresso dal sommo Iddio” (§ 596 - KLD). “L’oltraggio

all’onore non si perdona mai” (§ 597 - KLD), “Di fronte alla legge

il disonorato è considerato persona morta” (§ 600 - KLD): questi

sono elementi fondamentali del Kanun per definire l’onore.

Se facciamo un confronto tra “le zone” o delle dimensioni

dell’onore con quelle che appartengono alla vergogna o al disonore

prescritti nel Kanun, risulta che lo spazio dell’onore è troppo stretto

e, dentro questi limiti l’albanese deve costruire la sua posizione, il

suo atteggiamento, la sua individualità e la sua personalità.

Dal punto di vista morale, il Kanun contiene una catena di restri-

zioni, limitazioni e tanti tabù che proteggono il montanaro dalle

“zone di vergogna”. In questo modo, lo aiutano a non cadere negli

errori gravi per non rimanere disonorato: “L’onore fa la casa”,

precisa il Kanun, ma “La casa non si fa con una generazione”.

Come si vede, il Kanun impone regole e norme generiche per

difendere l’onore della casa, della famiglia e obbliga a tramandare

queste norme in tutta la discendenza, generazione in generazione.

Il concetto dell’onore di casa ha avuto un impatto importante

nella vita della famiglia montanara albanese e nella educazione della

prole. Basandosi sui criteri dell’onore di casa, prima di creare una

nuova famiglia (sposare il figlio, la figlia), i genitori sono obbligati a

verificare la lontananza delle generazioni, cioè “di non essere dello

stesso sangue e parentela per sette generazioni” (§ 39 - KLD) (Il

Kanun in qualche distretto del nord di Albania stabilisce anche per

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111

12 generazioni).

Nello stretto significato, il Kanun esprime anche altre dimensioni

sull’onore, come quello di proteggere la donna, la moglie, la figlia.

Questa disposizione è singolarmente interessante, se si pensa che, in

altra parte, il Kanun dispone la sottomissione delle donne, delle mo-

glie, delle figlie, non dando loro pari diritti e opportunità.

Il Kanun lo considera “disonorato un uomo che oltraggia la

moglie, anche allontanandola dalla casa“ (§ 601 - KLD).

Dunque, il Kanun protegge l’onore, la dignità, la libertà e la per-

sonalità della donna in famiglia e in una società patriarcale.

Nella società albanese, il potere dell’onore è stato sempre, super-

iore al potere della religione e dello stato.

L’istituto dell’onore rappresenta, quindi, il culmine della vita

degli albanesi.

L’onore stava in cima a tutte le altre categorie etiche e delle nor-

me morali, perciò la sua perdita era equiparata alla morte: “Di fronte

alla legge il disonorato è considerato persona morta”.

Attualmente, in Albania, l’istituto dell’onore sociale non ha lo

stesso valore e le stesse dimensioni di quello del codice consuetudi-

nario, perché è ridotto e sfumato in un tale modo, che si presenta

come una eccezione sociale.

La semantica dell’onore significa allontanarsi da tutto ciò che è

vergogna, che ti macchia il carattere, ma vuole anche dire custodire,

proteggere, coltivare ogni norma morale ed etica che ti onora davanti

agli altri, che ti fa rispettare e che fa crescere la tua dignità e la tua

personalità davanti a tutti.

Solo un uomo d’onore rispetta la Bessa, le norme e le regole di

ospitalità, mantiene la parola, dimostra coraggio.

L’onore è collegato con il passato, il presente e il futuro. L’onore

non è solo un’istituzione del passato, una categoria etica arcaica,

Page 112: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

112

primitiva, consumata, al contrario: oggi in tutti i paesi è salvaguar-

dato da leggi (secondo il sistema politico-sociale).

È evidente, che l’onore non solo è riconosciuto nel diritto penale,

in correlazione con la personalità dell’individuo, nella sua espressio-

ne sociale moderna, ma è sancito anche nei vari documenti interna-

zionali, che stabiliscono la protezione dell’onore, dei diritti dell’indi-

viduo e dei diritti universali dell’uomo.

Mentre le leggi moderne sono dedicate all’individuo e basate

sulla paura alla disobbedienza, le leggi e le norme del codice con-

suetudinario albanese, sono basate sulla lealtà, sull’onore, sulla Besa

e sul comportamento cavalleresco personale, familiare e collettivo

(della parentela, stirpe), perciò, se non si rispetta questo codice, la

punizione è estrema, perchè “chi manca dell’onore è considerato

morto per il Canone di Lek Dukagini”.

Comunque, è un dovere imperativo morale e patriottico di cus-

todire e coltivare tutti gli aspetti positivi dell’onore, ereditati nei

secoli come valori della cultura e della storia albanese e incisi nel

Kanun di Lek Dukagini ed anche negli altri Kanun albanesi, con la

sentenza:“L’onore sulla fronte c’è stato impresso dal sommo Iddio”.

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113

BESSA (BESA).

Il culto della Bessa, la parola data, la parola d’onore,

mantenere la parola, la fedeltà, l’amicizia, la ricon-

ciliazione, la fratellanza, la solidarietà, la pace.

Il Kanun ha istituzionalizzato la BESSA e ha creato il culto della

BESSA, che regna su tutta la vita della società albanese.

La parola BESSA non esiste nelle altre lingue, è infatti intradu-

cibile e non avendo l’equivalente, nei vari dizionari la troviamo con

note che ne spiegano il significato.

La parola Bessa si usa anche in lingua rumena e bulgara, ma

come parola originata dalla lingua albanes. Si usa anche nella lingua

serbo-croata, definita come “arbanaska vjera” (che significa “quella

che credono gli albanesi”). Il fatto che la usano anche altri popoli,

dimostra che la Bessa albanese è una categoria etica e morale con

valori particolari e comuni, che ha spinto gli autori stranieri a defi-

nirla come fenomeno tipico albanese.

Bessa, o il culto di mantenere la parola data, la parola d’onore,

ha origine antica ed è legata al mito biblico della parola, perché

all’inizio fu la parola.

Nei tempi antichi, quando non esisteva la scrittura e quindi non

esisteva il documento scritto, gli accordi tra la gente si basavano

sulla parola. Anche durante gli anni del medioevo e successivamente

in una società albanese senza un vero governo, nelle necessità più

elementari delle relazioni tra individui, famiglie, stirpe, regioni e

principati, un importanza sociale assume la BESA, la parola data, la

promessa,: “Da dove esce l'anima esce la parola”(KLD).

Tra gli albanesi questa antica tradizione è conservata ed è diven-

tata sacra nell’istituto della Bessa canonica.

La Bessa, come un culto grande e divino, nel passare dei secoli,

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prende nella in lingua albanese anche gli attributi dell’idioma

religioso, diventa un sinonimo di fede (bessim), ma in particolare

custodisce la fonte d’origine antica, da dove fu ereditata come un

mezzo per esprimere l’obbligo di mantenere la parola data, obbligo

che, in seguito, fu incluso nel nostro Kanun di Lek Dukagini come

l’istituto della Bessa, l’autorità più alta e sublime nei rapporti e la

fiducia basata sulla parola data.

Bessa rappresenta l’accordo, il contratto non scritto.

Bessa è un patto, è un protocollo giuridico senza firme e senza

timbri, è un accordo senza cerimonie ufficiali e senza protocollo, ma

tutto basato sull’onore, sul rispetto e sulla fiducia nei confronti della

parola data: “Hai la mia bessa, o sei nella mia bessa” (KLD).

La BESSA significa mantenere la parola, è promessa, è giura-

mento, è accordo, è patto, è intesa, è fedeltà, è amicizia, è ricon-

ciliazione, è fratellanza, è perdono, è pace.

Tutto questo è basato sull’onore e sulla parola d’onore, che la

persona ha lasciato come pegno di garanzia e come assicurazione

per mantenere la parola data.

La Bessa è una categoria etica con grande autorità, legata e basata

sull’onore ed il coraggio, è una garanzia di fedeltà per i patti, le

alleanze e gli accordi presi tra persone, tribù, contrade, distretti, pro-

vince, principati, repubbliche, anche con gli stranieri, ma è anche

tregua, è accordare la pace in società in rapporto con l’istituto della

vendetta - faida.

Per l’albanese dare la Bessa è un atto sacro, è legge, è un atte-

ggiamento nobile e coraggioso, è una speciale manifestazione della

fedeltà, amicizia e di garanzia, congiunta ad una grandezza d'animo;

è l’aiuto e la protezione che ogni albanese, povero o ricco, debole o

potente, si sente onorato di accordare a chiunque gli chieda la sua

Bessa.

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115

Bessa, questo “animus albanese”, è un testamento morale dai

tempi remoti della mitologia. Le più antiche e più importanti ballate

del folclore albanese hanno come elemento centrale il culto di Bessa

– mantenere la parola data.

La costruzione del castello di Scutari (VIII - VI sec. a. C) e del

ponte che vibra hanno in comune la Bessa e il motivo del sacrificio

della donna che viene murata viva: dunque si sacrifica la moglie per

mantenere la parola data, la Bessa, stabilita tra i fratelli, di non sve-

lare alle mogli il consiglio del vecchio saggio.

Anche l’antica ballata di Costantino e Doruntina, ossia la storia

del risurrezione del fratello morto, parla della Bessa, cioè della paro-

la che Costantino ha dato a sua madre di riportare la sorella sposata

lontano. Costantino, che era morto, si alza dalla tomba e va a pren-

dere la sorella Doruntina, viaggia per tutta la notte e l’accompagna a

casa, come aveva promesso a sua madre o, meglio, le aveva dato la

Bessa, per portare la sorella che non la vedevono da molti anni.

Troviamo l’esistenza dell’istituto della Bessa albanese, anche

come categoria canonica nello statuto di Scutari del 1369, dove

Bessa viene documentata per la prima volta come una parola scritta

e che testimonia in modo convincente l’autorità del culto della Bessa

tra gli albanesi nel medioevo preottomano.

In tutti i Kanun albanesi, la Bessa viene equiparata con la vita,

anzi oltre la vita. Questo modo di concepire e applicare l’istituto di

Bessa, esprime la forza morale dell’onore e dell’onestà nei rapporti

sociali ed inoltre significa che il culto d’onore è il pilastro del culto

della Bessa albanese.

La Bessa rappresenta anche la tregua d’armi, la pace, la pacifica-

zione, la fratellanza in virtù della quale due famiglie sospendono

prima per 24 ore e dopo per 30 giorni le loro azioni di vendetta -

faida. Ovviamente le persone o le famiglie in vendetta non sono in

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116

guerra quotidiana con attacco e contrattacco, ma solo quando per

caso, i loro membri s’incontrano, o cercano l’occasione di attaccarsi.

Quindi, una famiglia concede all’altra la Bessa (per 24 ore o per 30

giorni), i membri di quest’ultima, possono uscire di casa liberamen-

te, possono andare a lavorare i campi, occuparsi di bestiame e, con

contegno riservato, possono restare nello stesso convegno e conver-

sare con i membri della famiglia che ha concesso la bessa.

Spesso questa tregua avvicina così profondamente le due fami-

glie in vendetta, che i loro membri soffrono sinceramente quando

scade il termine e devono ricominciare le ostilità e l’isolamento.

Nell’ambito di questa esperienza, il genio del popolo ha creato

l’istituto di pacificazione oppure, come lo chiamiamo noi albanesi,

la fratellanza (diventare probatini), in virtù della quale le famiglie in

vendetta, in una solenne ed emozionante cerimonia pubblica, mesco-

lano il loro sangue, buttando dietro le spalle la vecchia inimicizia, ed

i vecchi rancori, cancellano la vendetta e si affratellano tra loro

(Art. 140 - KLD).

Il processo di fratellanza delle due famiglie si svolge con una

cerimonia solenne, con una procedura ben precisa di riti epici, che

proclamano pubblicamente la Bessa, constituendo il nuovo legame

fraterno tra due famiglie.

Io, personalmente, sono stato presente in una tale cerimonia,

svoltasi in un’atmosfera shakespeariana. Ai due signori delle case

pacificate (o ai loro rappresentanti), da parte del capo vecchio del

villaggio (o il più vecchio della stirpe), viene legato il mignolo, poi,

con uno pugnale, si fa un taglio e si fanno uscire alcune gocce di

sangue, facendole cadere in due bicchierini riempiti di grappa o di

vino. Dopo aver mescolato bene il sangue nei rispettivi bicchierini, i

pacificanti li scambiano reciprocamente e, con le mani incrociate,

bevono il sangue l’uno dell’altro, fra gli auguri dei tutti i presenti,

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117

accompagnati da canzoni, danze e scariche di fucili. Dopo questa

cerimonia, i due rappresentanti si dichiarano pubblicamente fratelli –

probatini (§ 988, § 989, § 990 - KLD).

La Bessa è anche riconciliazione tra persone, tra famiglie, o tra

villaggi in conflitto o coinvolti in vendetta - faida tra loro.

La riconciliazione è una nozione molto importante nella tradi-

zione albanese.

Anche la riconciliazione, come il perdono, è una istituzione

centrale e antica dei Kanun, che nella procedura giuridica, ha sempre

avuto un ruolo importante e pratico per impedire l’espandersi dei

conflitti, per evitare la vendetta-faida, ma anche per evitare le con-

danne come forme non sempre produttive per la società montanara.

Siccome i Kanun prevedono condanne molto rigide, special-

mente nel campo delle norme morali, la riconciliazione ha contri-

buito ad addolcire le conseguenze sia delle colpe che delle condan-

ne, dunque di diminuire le sofferenze quanto più è possibile.

Quindi il suo ruolo nella umanizzazione della società albanese è

evidente. Questo ruolo emerge direttamente dal Kanun, proprio dal

suo fondamento, perché lo scopo principale di questa legge è con-

vincere e non obbligare, prevenire e non di condannare post factum.

La riconciliazione è la prima fase di ogni procedura giuridica per

spegnere i conflitti e della vendetta - faida. Ci sono almeno tre tipi di

riconciliazione: individuale, locale e generale.

La Riconciliazione sia individuale anche locale, si stabiliscono

quando tra le due parti in conflitto - con l'intermediazione del Con-

siglio degli Anziani oppure dell'Assemblea dei Consigli (Convegno -

Kuvendi), si trova il modo di superare il conflitto, di dare la Bessa e

stabilire la pace tra le persone, le famiglie e i villaggi.

Il Kanun di Lek Dukagini stabilisce: “Per le conciliazioni sono

necessari i garanti prescritti dalla legge” (§ 970 - KLD).

Page 118: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

118

Ma non c’é Riconciliazione senza Perdono, dopo di che segue la

stipula del contratto speciale di riconciliazione, che si chiama "Besë-

lidhje" (patto di alleanza), tradotto ad litteram vuol dire: “Uniti tutti

con la Bessa”. Questa riconciliazione prevede il rispetto delle condi-

zioni stabilite dal persona danneggiato, oppure dal Consiglio degli

Anziani nel Convegno - Kuvend.

La Riconciliazione generale, invece, è, di fatto, un grande

"Giubileo" dei peccati e del perdono, è alleanza, è una azione pre-

ventiva collettiva, è una impresa, è una Bessa nazionale, che ha un

carattere sociale, politico e militare. Cioè, la Bessa si applica come

un provvedimento di sicurezza e di autodifesa.

L'emanazione della Riconciliazione Generale o la Bessa Nazion-

ale, viene effettuata in caso di emergenza, quando la nazione viene

minacciata da una invasione straniera, dalla guerra, da calamità

dovute a cause naturali e altre minacce, oppure quando crescono i

problemi all’interno della collettività ed i conflitti arrivano ad un

livello che diventano pericolose.

Dal punto di vista giuridico è una amnistia generale.

L'iniziativa per una Bessa collettiva, che porta ad una riconcilia-

zione, non viene sempre soltanto dal Consiglio degli Anziani, ma

svolgono un ruolo anche le istituzioni religiose che intervengono

predicando e difendendo insieme la Bessa, l’unità, la fratellanza,

oppure anche altre istituzioni o gruppi di persone con una autorità.

Le Riconciliazioni generali non vengono spesso.

Alcune delle riconciliazioni più grandi, avvenute nella storia del

popolo albanese sono state quelle del 1190, 1444, 1462, 1602, 1703,

1878, 1912, 1920 e del 1942.

Page 119: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

119

BURRI: L’UOMO D’ONORE, L’UOMO VIRILE; virilità

(es vir), l’uomo con la forza di carattere, l’uomo onesto,

l’uomo di parola, l’uomo con dignità, l’uomo

coraggioso e saggio, patriota, l’uomo di sacrificio,

l’uomo forte, l’uomo combattente, condottiere.

BURRENIA: L’atteggiamento sociale d’un uomo d’onore,

comportarsi con saggezza e coraggio, mantenere la

parola data.

Tutti i Kanun hanno stabilito il ruolo centrale dell’uomo nella

società albanese, i segni della sua storia, il suo percorso nei secoli, il

formarsi della sua identità e della sua personalità in famiglia e nella

società.

La categoria dell’uomo canonico, in lingua albanese, si chiama

burri - che tradotto ad litteram vuol dire l’uomo, l’uomo virile (es

vir), che non definisce l’uomo solo nell’aspetto biologico, come

maschio, ma lo individua come categoria etno-psicologica.

Burrenia rappresenta una cultura a parte ed è un concetto tipico

albanese, che comprende in sé un complesso di virtù, qualità, valori,

pregi ed atteggiamenti intrecciati strettamente tra loro, che si espri-

mono unitamente come una categoria etica e morale nel canone delle

montagne.

Non trovando gli equivalenti in lingua italiana per tradurre il

concetto canonico delle parole burri e burrenia, perciò ho preferito

usare i termini originali in albanese, per custodire i loro significati

nei Kanun, dove burri e burrenia si affacciano come categorie etno-

psicologiche e sociali, non giuridiche e per di più neanche come

categorie biologiche.

Per capire meglio il concetto canonico di burri, dobbiamo fornire

una serie di spiegazioni, che a prescindere dal significato stretto

Page 120: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

120

uomo-maschio, vuol dire anche l’uomo d’onore, l’uomo nobile,

l’uomo virile, l’uomo con carattere forte, onesto, l’uomo di bessa,

colui che mantiene la parola, l’uomo serio, l’uomo con dignità,

coraggioso, saggio, il patriota, l’uomo di sacrificio, l’uomo forte,

l’uomo che resiste davanti alle difficoltà ed i pericoli della vita, il

combattente valoroso.

Per invitare un’albanese, a qualsiasi maggiore atto di valore e di

coraggio, a qualsiasi maggior sacrificio e rinuncia per uno qualun-

que dei grandi valori che nella sua mentalità costituiscono l'onestà e

l'onore, la saggezza, bessa, coraggio, forza, basterà domandare “a je

burrë? Es ne vir nec ne”? (“sei un uomo”?).

Non solo, ma i montanari, anche quando si salutano, tra loro, per

dimostrare rispetto, bessa e fiducia, così si rivolgono l’uno all’altro:

“A je burre – sei un uomo”?( es ne vir nec ne”?).

Le categorie fondamentali della psicologia albanese espresse nei

tutti i Kanun come ospitalità, onore, Bessa ecc., sono legate con le

categorie di burri e della burrenia, che intrecciati insieme, esprimono

unicamente la personalità e la posizione individuale e sociale

dell’uomo albanese.

Padre Shtjefen Gjeçovi, nel Kanun di Lek Dukagini, parla per “Il

Kanun – dovere e il Kanun di burrenia, che hanno avuto le nostre

montagne da epoca immemorabile” (Art. 12 - KDL).

In questo modo, come scrive Padre Gjeçovi, si evidenzia la dis-

tinzione tra due aspetti: “Il Kanun – dovere” (appartenente al campo

giuridico e giudiziario, con l’obbligo di rispettare le leggi, le regole e

le norme della società montanara), ed “il Kanun di burrenia” (legato

all’aspetto spirituale ed etnopsicologico o, meglio, è l’obbligo spiri-

tuale e morale per tutti, di rispettare il Kanun di Lek Dukagini).

“È legge mandare mediatori a chiedere Bessa. Concedere la

Bessa è un dovere e cosa degna di uomini forti” (§ 855 - KDL).

Page 121: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

121

Quindi alla base di tutta l'etica propria del Kanun, si trova Burri e

Burrenia, che comprendono quanto sorpassa l'apparenza e la condo-

tta puramente esterna, nonché le disposizioni di stretta giustizia, per

entrare nel regno dello spirito e dell'animo illuminato del popolo

albanese.

Nelle due categorie Burri e Burrenia, troviamo fuse varie virtù e

qualità fondamentali, legate alla concezione matura e virile della

vita, come la saggezza, che è l'equilibrio mentale, il sapersi compor-

tare con maturità, con prudenza, con garbo, con misura e rispetto nei

rapporti tra uomo e uomo, presentarsi con dignità nel Convegno, nei

rapporti con altre persone, con i membri della famiglia, della tribù e

con altre tribù, contrade e villaggi, con i compaesani e gli stranieri.

Secondo il Kanun il burri è coraggioso, che è valore ben distinto

dalla temerarietà: è in grado di affrontare le difficoltà ed i pericoli,

fin al punto che non lamenta mai; burri non piange mai, non può

versare le lacrime, anche nel dolore più profondo che può capitargli.

Burri è invincibile di fronte alle ingiustizie, è colui che sacrifica i

propri interessi e le ambizioni personali, anzi anche della sua fami-

glia ed ha la forza di perdonare.

Nella pratica consuetudinaria degli albanesi, chi perdona, aveva

sempre un vantaggio come virtù degli uomini e come mezzo per

annientare un conflitto, per scongiurare la vendetta-faida.

Questa virtù del Perdono è legata e dipende da Burri e dall’atte-

ggiamento con Burrenia e include un insieme di virtù e del carattere

forte dell’uomo albanese. Ecco come è concepita la categoria etno-

psicologica di Burrenia, in relazione con il Perdono, in uno dei tanti

racconti cosiddetti giuridici del nostro popolo.

Intermezzo.

In una seduta dell'Oda dei Vecchi (Forum), alla domanda su

“Quanto può essere alta e sublime la Burrnia”, uno dei Saggi

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122

rispose:

Burrenia ha tre piani e l’apice va molto più in alto.

- Nel primo piano è colui che resiste al male, alle disgrazie, soffre e

sopporta eroicamente, non si lamenta, non piange e non va a suici-

darsi. Per questo si dice che è Burri (uomo virile).

- Nel secondo piano è colui che sa uscire dal male senza provocare

conflitti e guerre, lui è il Burri dei Burri (il miglior uomo virile).

- Nel terzo piano è l’uomo con carattere forte che perdona al debole

e questo è un superuomo virile.

(Secondo una raccolta pubblicata da Anton Çeta).

Il contrario di burri e di burrnia è la situazione di quando qual-

cuno perde le qualità di un uomo d’onore, cioè quando è disonorato.

Nel Kanun di Lek Dukagini, per l’uomo che ha perso la burrnia si

usano i termini di diprezzo come: vile, vigliacco, uomo senza onore,

disonorato, misero, morto sociale.

Secondo il Kanun “l’uomo disonorato ha l’impronta della ver-

gogna per sette generazioni”, in particolar modo questa si usa per i

traditori, ed in seguito stabilisce: “Un uomo è libero di mantenere la

sua burrnia ed è libero di essere disonorato, di perdere la burrnia”,

come succede quando un uomo non mantenga la parola, che calpesta

la Bessa o si comporti in modo indecente, come non deve fare un

uomo maturo.

Nel Kanun di Skenderbeg, raccolto da Dom Frano Ilia, per un

uomo che perdeva l’onore o, meglio, perdeva la burrnia, le sanzioni

canoniche erano pesanti: “La condanna di uno che perde la burrenia

è la vergogna, che è peggiore della morte”. “Burrenia è resistere

nel bene e nel male, è nobiltà, è coraggio, è generosità, è bessa, è

patriottismo fino all’eroismo, è tenacia nel difendere il diritto”.

La perdita dell’onore, cioè della burrnia, è un concetto etno-

Page 123: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

123

picologico categorico, che non ha niente a che fare con la giustizia.

Secondo il Kanun, il “colpevole” subisce una punizione morale,

rimane svergognato, è disonorato davanti ai compaesani ed ai suoi

familiari, è una situazione peggiore della morte.

In tutti i nostri Kanun la burrnia è la sintesi delle virtù più alte

dell’etica e della morale degli albanesi, che insieme rappresentano la

personalità etnopsicologica del nostro popolo.

Dom Frano Illia, parlando di burrënia, ha dato un altra defini-

zione psicologica: “La burrenia è carattere determinato, è carattere

forte, è resistere davanti alle difficoltà, non inginocchiarsi, ma

piegarsi solo davanti alla verità, alla giustizia e al bene”.

Analizzando la Burrnia in rapporto con altre categorie etnopsiko-

logiche ed etico – morali del Kanun, Dom Illia aggiunge: “L’onestà

e la burrnia si rispecchiano l’una all’altra, mentre la Bessa è

l’espressione dell’azione di entrambi nella vita”, perché, secondo i

Kanun albanesi, un uomo senza Bessa, cioè uno che non mantenga

la parola, che ha perso l’onore, è disonorato, perde la burrnia, è uno

spudorato, non è un uomo d’onore, è un uomo morto.

All’onore, alla Bessa e all’ospitalità, che definiscono in com-

plesso la burrënia, Ernest Koliqi aggiunge un altro componente

importante che è la saggezza.

Secondo Koliqi “la burrënia è saggezza e dignità umana” e con

questo termine in lingua albanese si capisce l’intreccio delle varie

virtù che caratterizzano la burrenia albanese, come il coraggio,

l’onore, l’ospitalità, la generosità, la nobiltà, il dovere e l’obbligo di

rispettare le norme e le regole della società; mentre secondo Dom

Illia, la saggezza è quasi un sinonimo della burrenia: “La saggezza

trasmessa dalla bocca del Kanun è una virtù, la quale include in se

stessa le migliori qualità umane, come maturità, intelligenza, giusti-

zia, onestà, serietà”.

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Secondo la mentalità canonica, a prescindere dalle particolarità

che esprimono i sentimenti, gli aspetti conoscitivi, volutivi e psico-

logici dell’uomo albanese, la burrnia esprime anche le caratteristiche

fisiche, la forza, la resistenza, la reazione davanti alle difficoltà ed ai

pericoli, la giustizia, il coraggio nella difesa della libertà.

Essere burri non ha niente da fare con il concetto moderno di

maschilista.

Il nostro popolo vede l’uomo, la sua forza fisica come una cara-

tteristica tipica di burri, ma la mette sempre al secondo posto in con-

fronto alla saggezza, che è la prima, come testimoniano molti pro-

verbi albanesi che dicono:

“L’uomo ha bisogno di saggezza e di forza: la saggezza guida,

la forza combatte”,

“Il saggio sconfigge il forte”;

“Serve la forza, ma di più serve la saggezza”, ecc.

Il rapporto tra la forza e la saggezza dell’uomo, nella psicologia

del nostro popolo, si rispecchia chiaramente nella storia e nelle varie

leggende come quelle dell’epos albanese.

Vale ricordare un episodio. Il valoroso paladino Muji, quando

vede che il suo paese è minacciato dai nemici, chiede alla Fata di

dargli la forza e dal momento in cui lui beve il latte dal seno della

Fata, si trasforma dal pastore debole e delicato che era, in un potente

paladino, un eroe che salva la patria dagli invasori.

Page 125: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

125

BURRENESHA:

La donna con carattere, saggezza e coraggio dell’uomo.

Anche se i concetti burri e burrnia nell’aspetto semantico sono

legati con le parole uomo - maschio, nel Kanun risulta cha la burrnia

come categoria etnopsicologica e sociale viene attribuita anche alle

donne, alle femmine che dimostrano valori etici e morali elevati,

anzi dimostrano saggezza, coraggio, maturità, giustizia, non meno

degli uomini. Perciò il Kanun le definisce burrenesha, cioè donna

d’onore, donna nobile, donna saggia, donna coraggiosa - “virile”.

Ovviamente, il termine burrenesha non ha niente a che fare con

l’aspetto derivante dall’appartenenza al sesso, infatti in lingua alba-

nese è chiara e precisa la definizione della donna burrenesha, come

sancisce il Kanun di Lek Dukagini ed il Kanun di Skenderbeg:

“La donna con carattere forte dell’uomo, si chama burrenesha”.

Nella struttura canonica della famiglia patriarcale, la donna è tra-

ttata come un elemento sociale senza diritti e sottomessa, ma anche

se la sua vita ha questi limiti sociali, la donna albanese ha trovato la

forza e lo spazio per dimostrare i suo valori psicologici sociali, spiri-

tuali, culturali e fisici.

Parlando sulle disuguaglianze tra l’uomo e la donna, Padre Fulvio

Cordignano ha scritto: “Nel Kanun, la donna davanti al diritto non

ha la sua personalità e i suoi interessi materiali ed economici

vengono regolarizzati dalla famiglia, ma lo spirito di razza non l’ha

trasformata in schiava, nata solo per soddisfare il piacere del mas-

chio. La donna albanese sempre ha dimostrato la sua dignità, il suo

ruolo nella famiglia e nella società, il suo contributo nella missione

come madre, come sorella, come moglie, come compagna e come

donna”.

La storia del nostro popolo ha evidenziato molti casi del ruolo

Page 126: Lutfi Alia | Il codice consuetudinario albanese

126

primario delle donne in vicende importanti del nostro paese, la loro

partecipazione nei Convegni, con pari opportunità e con gli stessi

diritti degli uomini, anzi con il diritto di intervenire nel Kuvend,

dove sono state onorate e ascoltate con rispetto da tutti gli uomini,

come è successo con Ajkuna, Argjiroja, Mamica, Marta, Petrusha,

Bubulina, Dora D’Istria, Nora di Kelmendit, Tringe Smajl Martini di

Grudes, Nora Luli di Hoti, Shota Galica, Parashqevi Qirjazi, e con

migliaia altre burrnesha.

Della categoria delle burrnesha albanesi fanno parte anche le

famose Vergini giurate, quelle ragazze o donne che cambiano la

posizione sociale, chiamandosi e comportandosi pubblicamente

come burrnesha e non come donna.

Le Vergini sono conosciute da secoli in Kelmendi, Hoti-Gruda,

Malesia Madhe, Kosova, Shala, Puka, Mirdita, Tropoia, Malesia di

Lezha, Martaneshi, Dibra, Kurbini ecc.

L’albanologo Johann G.Von Hahn (filologo, diplomato austriaco)

nel anno 1863 scrisse: “Le burrnesha rappresentano il variante alba-

nese della devozione cristiana”.

Nella prima metà del XX secolo sono ben conosciute più di 300

burrënesha – vergini giurate. Ognuna di queste donne, essendo la

prima figlia o la moglie in una famiglia restati senza maschi, uccisi

in guerra o dalla vendetta, lei diventava capofamiglia e, sostituendo

il signore di casa, si vestiva come uomo, gestiva e proteggeva la pro-

prietà, lavorava la terra, allenava il bestiame, teneva la pistola alla

cintura e portava il fucile quando usciva da casa. Questa burrnesha

aveva diritto di partecipare al Convegno, con pari diritti a quelli

degli uomini, intervenendo con discorsi sempre basati sul Kanun;

aveva il diritto di giudicare e quando la tribù o il villaggio era in

guerra, andava insieme con gli uomini nelle battaglie per difendere il

paese, dimostrando coraggio e compiendo atti di eroismo non meno

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127

degli uomini.

Il Kanun di Lek Dukagini e gli altri Kanun albanesi, come tutti i

codici che rispecchiano il diritto feudale del tempo che li produsse,

ovviamente presentano vari aspetti delle disuguaglianze sociali, tra

le quali anche la discriminazione della donna.

Molti autori, studiando lo spazio giuridico tradizionale dei Kanun

albanesi, hanno visto una contraddizione del nostro diritto consuetu-

dinario: da una parte la donna era esclusa da tutte le attività sociali e

politiche, la sua sottomissione davanti alla “autorità” dell’uomo –

marito, la posizione inferiore nella famiglia patriarcale, in tribù, in

contrada, nel villaggio, nel convegno e nella società - ma dall’altra

parte, esiste anche la donna Burrnesha, la donna con diritti sociali, la

donna dell’Oda (forum), del convegno, la donna giudice, la donna

combattente ed anche la donna condottiera.

Lo spazio dei diritti delle donne nel Kanun è molto stretto, ma

dagli studi del folclore albanese risulta che nella vita spirituale e

sentimentale la donna è stata fortunata, onorata, rispettata, amata e

valutata non solo per la sua bellezza.

Basta ricordare le belle poesie e le belle canzoni popolari dedi-

cate alla donna, per capire il mondo dei pensieri e dei sentimenti

dell’uomo albanese per la sua donna.

Su questo argomento Ismail Kadare scrive: “Nella poesia popo-

lare, la femmina albanese è rispettata, è libera, è attiva, dunque

gode di tutto quello che non ha avuto mai nella vita. Si vede, che

quella che il popolo non ha dato nella vita alle sue figlie, con

grande generosità e con sentimenti delicati lo ha dato nelle

canzoni”.

Tutti i nostri Kanun negano i diritti delle donne nella famiglia e

nella società, ma le proteggono dalla vendetta e, anche se sembra

paradossale, gli uomini e le famiglie albanesi non sono stati così

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conservatori e fanatici con le femmine (comprese la sorella, la

moglie, la figlia).

Vi racconto una vicenda reale, una festa che si organizza almeno

sin dai tempi del medioevo e che, dopo una interruzione di quasi

mezzo secolo, è stata rinnovata e continua anche ai giorni di oggi.

È una festa particolare, unica: è il raduno di fine estate, chiamato

dai montanari “Logu i Bjeshkeve” (Il Loco delle montagne), che si

svolge nei prati fioriti di Perleci, tra le vette rocciose delle Alpi del

nord dell’Albania.

In questo posto incantevole, alla fine dell’estate, si riuniscono

tutte le famiglie montanare per festeggiare insieme la chiusura delle

raccolte estive (il ferragosto).

In un’atmosfera festosa e di divertimento, con canzoni, giochi e

danze vivaci, l’attività più bella che coinvolge tutti i partecipanti è la

sfilata delle ragazze vestite con costumi tradizionali.

Alla fine di questa sfilata, il popolo sceglie la ragazza più bella,

quella ragazza che, nei nostri tempi moderni la chiamiamo Miss di

bellezza. Come si vede, i montanari albanesi nei secoli hanno eletto

la loro “Miss Montagna”.

Secondo il Kanun delle Montagne, la femmina albanese (la

figlia, la sorella, la moglie), nella sua vita sociale e familiare è stata

sottomessa e senza diritti, ma protetta dalla vendetta del Kanun ed in

particolare, nell’aspetto del “diritto spirituale” ha ricevuto rispetto,

stima, amore, apprezzamento e la considerazione che meritava, evo-

cando in questo aspetto i grandi valori di cultura civile ed i valori

spirituali del popolo albanese.

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EPILOGO.

Prof Fabio BERTI

Dipartimento di Scienze Storiche, Giuridiche, Politiche e Sociali

Università degli Studi di Siena.

Fino a non molti anni fa “Kanun” era un termine noto a pochi

specialisti: forse qualche antropologo esperto della zona dei Balcani

o qualche raro giurista ferrato nella storia del diritto consuetudinario

avrebbe potuto esporre il significato di tale termine, che già solo dal

punto di vista semantico suscita interesse a curiosità al novizio.

Poi, all’inizio degli anni ’90, a seguito della caduta dei regimi

comunisti europei e il tramonto della cortina di ferro, anche l’Alba-

nia ha aperto le sue frontiere e centinaia di migliaia di albanesi si

sono riversati in Europa e in particolare in Italia: da quel momento,

nel bene e nel male, è cresciuta l’attenzione nei confronti di un

popolo e di una cultura praticamente sconosciuta nel mondo occi-

dentale e si è iniziato a parlare sempre più spesso anche del Kanun.

Tuttavia le ragioni per cui anche il grande pubblico ha scoperto il

Kanun ha fatto si che ne scaturisse un’immagine parziale e spesso

distorta. Oggi, anche tra coloro che si occupano di immigrazione

albanese, molti sono coloro che parlano del Kanun, spesso nel ten-

tativo di spigare o – anche peggio – di giustificare certi comporta-

menti “devianti” di questi immigrati; il problema semmai, è che

pochi hanno avuto l’opportunità di leggerlo e studiarlo, anche perché

la letteratura sul tema è ancora molto rara e sporadica.

Per questo, come dice giustamente Alia, il Kanun rimane un vero

e proprio mito, che evoca qualcosa di misterioso e sconosciuto; nel

Kanun c’è incastonata una sapienza atavica e irrazionale, oggi per

certi versi dispersa, ma che ci permette di vedere gli albanesi con

un’ottica diversa: non più quel popolo allo sbando, privo di ogni

identità, come lo descrive Gianni Amelio nel suo noto film

Lamerica, ma un popolo fiero, con una sua storia ed un insieme di

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tradizioni radicate. In realtà quello albanese è un “popolo” forte-

mente ancorato alle tradizioni, che ancora oggi regolano, soprattutto

nelle zone rurali, la vita dei cittadini.

Si tratta di tradizioni laiche, vere e proprie leggi consuetudinarie

che le tribù ed i clan avevano dovuto codificare per mantenere la

coesione tra le famiglie; queste sono legate ai passaggi più

importanti della vita (nascita, matrimonio, morte) e regolano una

serie di comportamenti la cui eredità è visibile ancora oggi.

Questa “legge” consuetudinaria si trova riassunta proprio nel

Kanun al quale, tra l’altro, è legato anche il tentativo di regolare la

“vendetta di sangue”, consuetudine antichissima, anche di origine

illirica e codifica in un sistema patriarcale, in cui il maschio più

anziano è a capo di una famiglia allargata.

Il rinnovato interesse per il Kanun è legato proprio a questi

aspetti più truci e violenti, che tuttavia nell’Albania del XV secolo

avevano un senso per evitare che le rivalità tra i diversi clan

sfociassero in vere e proprie guerre. In realtà il Kanun si occupa solo

incidentalmente della vendetta e delle modalità di perpetrarla, anche

se la superficialità con la quale oggi se ne parla fa apparire solo

questi aspetti. Al Kanun sono invece legati aspetti profondi che

prendono in considerazione la natura stessa del “patto sociale” a

fondamento della società albanese, come nel caso della bessa, la

parola data, un concetto molto forte per il quale il mancato rispetto

della parola è punito severamente; la bessa regola i periodi di tregua

tra famiglie rivali e l’ospitalità, un altro istituto molto importante

nella cultura albanese.

Anche se il Kanun non è più in vigore, smise di essere ufficiale

nel 1912, data dell’indipendenza dell’Albania, dopo fu abolito

durante la monarchia e il regime comunista compì sforzi importanti

perché non venisse applicato, in vasti strati della popolazione,

soprattutto in montagna dove la penetrazione culturale è stata più

difficoltosa, se ne sente tutt’oggi l’influenza.

Quelle regole codificate nel Kanun, utilizzate per lunghi secoli

come unica legge civile, contribuiscono ancora a delineare alcuni

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tratti culturali degli albanesi, anche se rimane troppo semplicistico e

riduttivo fermarsi a questo. Per essere più espliciti, chi pretende di

spiegare i fatti di sangue, per altro sempre ben amplificati dai media,

compiuti dagli immigrati albanesi utilizzando la prospettiva cul-

turalista, dicendo che in fondo fa parte della natura albanese avere

dimestichezza con il coltello, compie un’operazione strumentale che

ripropone la nota teoria del razzismo differenzialista ipotizzata da

Taguieff. Tutto questo perché del Kanun si è parlato e scritto molto

meno di quanto meritasse e questo non rende giustizia neppure alla

cultura italiana, così vicina ed intrecciata con quella albanese.

Di questo libro dobbiamo quindi essere grati all’autore che con il

suo sforzo ha cercato di fare chiarezza e di proporre una prospettiva

diversa sul Kanun e sulla cultura albanese.

La passione, più del rigore dello specialista, la volontà di

divulgare il valore storico di una cultura, piuttosto che i contenuti

“giuridici” del codice consuetudinario albanese, ed infine la

sensibilità del poeta, invece della disciplina del medico, hanno

mosso Lutfi Alia – che svolge entrambe queste attività – a scrivere

un saggio sul Kanun ed a riproporre al lettore un testo ormai

dimenticato sulla famiglia albanese, di un altro albanese, Pandi M.

Frasheri, trapiantato in Italia, anche se molti anni prima, addirittura

prima che le frontiere albanesi si chiudessero al mondo intero: di

questa passione dobbiamo rendergliene merito.

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Burrnesha e condottiera Shote GALICA

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INDICE.

Parte I.

Prefazione di Prof Franco BELLI …………..………………… 6

Introduzione …………………..……………………………………… 9

Parte II. Le categorie etico - morali del codice consuetudinario albanese (Kanun di Lek Dukagini)………………………….. 16 Il primo autore-legislatore Lek Dukagini ……………….. 22

Il secondo legislatore del Kanun

padre Shtjefën Costantino Gjeçovi……………………... 32

Il Canone (Kanun) e il suo percorso storico ……………. 41

Il Kanun ed il diritto romano ………………………………… 45

Il Kanun ed il diritto bizantino ……………………………... 53

Il Kanun nel medioevo pre-ottomano ……………………. 61

Il Kanun ed il suo legislatore Lek Dukagini ……………. 67

Il Kanun durante l’occupazione turca …………………….. 71

Struttura del kanun …………………………………………….… 77

Il Canone – Kanuni ed il Convegno – Kuvendi ………. 86

Concetti base dell’ etica e della morale del Kanun….… 93

L’ospite …………………………………………………................ 99

L’onore ………………………………………………………………. 106

Bessa ………………………………………………………………….. 113

Burri - burrnia ………………………………………………….…. 119

Burrenesha …………………………………………………………. 125

Parte III.

Epilogo: Prof Fabio Berti........................................... 129