lorenzo calogero nella solitudine dell'immenso

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20 Domenica 7 marzo 2010 Domenica 7 marzo 2010 21 Lorenzo Calogero La stretta assonanza di pensiero tra il poeta di Melicuccà e Pavese nella relazione di Gianni Carteri al recente convegno dell’Unical NELLA SOLITUDINE DELL’ IMMENSO di GIANNI CARTERI L’immagine strappata dalla quotidianità «Questo mio omaggio a Calogero era un atto dovuto perché negli ultimi anni mi è stato accanto nella sofferenza quotidiana che mi scarnisce» A lato: l’immagine classica di Lorenzo Calogero, scattata a Milano in piazza Duomo nel 1964 In alto: un disegno a mano di Calogero, in uno dei suoi quaderni (su concessione del dipartimento di Filologia, sezione Archivi letterari dell’Unical) I poeti conclamano il vero/ sono iner- mi./Lasciamoli al loro linguaggio, l’esempio / del loro vivere nudo / ci so- sterrà fino alla fine del mondo/ quando prenderanno le trombe/ e suoneranno per noi. Sono versi di Alda Merini, matta come lo fu Calogero, e uno dei nostri poeti più veri, una voce che - come dice Franco Loi - «si lascia parlare dall’ignoto, che procede dalle oscuri- tà piuttosto che dalle troppe sapienze della mente, che sa trascorrere tra i dolori e i deliri senza cedere al compiacimento» . Questo mio omaggio a Lorenzo Calogero era un atto dovuto, perché negli ultimi anni mi è stato accanto nella sofferenza quotidia- na che a giorno a giorno mi scarnisce, mi sfi- bra, con il mio cuore sempre più stanco di sopportare il peso del tempo. Ed allora cerco un appiglio alvarianamen- te nella notte della stanza, perché di notte il silenzio è come un’acqua ed io bevo, bevo, mentre l’orologio misura scalpitando il tem- po. Nelle giornate talora interminabili at- tendo con calma il mio taciturno turno di partire, ben consapevole insieme al Nostro che siamo legati alla vita da sottilissime ve- ne. Mentre nel luglio scorso, meditabondo, stavo seduto su una comoda panchina di le- gno in via Medina , accanto alla fontana del Tritone, mi è parso per un attimo di scorgere la figura stanca e barcollante di Lorenzo Ca- logero. Avevo portato con me le sue poesie che sul treno mi avevano fatto compagnia come tante «filigrane infilzate dentro un raggio di sole» e mi aiutavano a capire intui- re la vera essenza del poeta: Sono il solitario origliere/ di ciò che dor- me/ Perciò scrivo/ colla tacita mano,/ l’occhio rivolto ai sonni. Oggi mezzo assopito/ nel frastuono gron- dante / nuvole bionde dal cielo infinito/ guar- do solitario i passanti dal volto duro / dai tor- bidi occhi incavati. E tutto odorava di menta/ e del profumo delle viole, delle viole da noi raccolte/ come pallida messe di sogni. Mi viene istintivo accostare Calogero al mio Pavese del bellissimo articolo scritto il 20 maggio 1945 per L’Unità “Ritorno all’uo- mo” , il cui incipit è l’emblema di una genera- zione: «Da anni tendiamo l’orecchio alle nuove parole(…) conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri.(…) Laggiù noi cercam- mo e trovammo noi stessi. Le parole sono il nostro mestiere.Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l'uomo e non l’uomo per loro». Continuavo a pensare alla Napoli dei pri- mi anni Trenta dove Calogero tra il 1929 e il 1936 studiò per diventare un bravo medico: una città magicamente descritta da Peppino Marotta ne “L’Oro di Napoli” e da Anna Ma- ria Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”. Li ho riletti d’un fiato e mi sono emozionato per- ché a Napoli non tornerò più . A luglio, la città si spalanca come una rosa nel bicchiere, lo spremilimoni nel suo chio- sco non riesce a stare un attimo zitto: lèggere con la frescura che arriva dal porto ti stacca dal mondo. Mi par di vederlo Calogero con il suo Frontespizio, attraversare di fretta la vie del centro storico napoletano e non veder l’ora di divorare le pagine di una rivista che voleva togliere alla cultura cattolica la pati- na di conformismo che la confinava ai mar- gini, e aprirla così alle esperienze dell’arte e della cultura contemporanee. La vera anima della rivista era Don Giuseppe De Luca, uno dei protagonisti più notevoli della cultura italiana del secolo scorso , che iniziò subito a collaborare perché vedeva nel Frontespizio una delle vie per portare la cultura cattolica fuori dalle sagrestie e agire liberamente ac- canto e in mezzo alla cultura laica per infon- dere nella anemica lettera- tura italiana un poco di vita interiore. Se vi andate a leggere i car- teggi tra Piero Bargellini e De Luca, tra Carlo Bo e De Luca , tra Ungaretti e Prezzolini, vi renderete con- to perché le pri- me poesie di Calogero ven- nero rifiutate da Betocchi e in un certo senso obbligarono il poeta a tuffarsi con più lena nel mestiere di poe- ta con risultati straordinari e inimitabili. La vera poesia -an- notava Montale - quando c’è può sempre attende- re il suo turno . La ininterrot- ta poesia di Calo- gero ci obbliga ogni volta che apriamo i suoi li- bri ad una lettu- ra molto impegnativa e defatigante. Come scrive Dante Mafia la sua «è una poesia tra- volgente: pare di trovarsi di fronte ad accu- muli di fuochi d’artificio che si aprono a ripe- tizione, senza sosta, senza mai una pausa che consenta di fermarsi su un'immagine, su un pensiero, su una nota. Tutto un susse- guirsi di metafore di cui non si conosce l’approdo». C’è in lui come un furore espressionistico tra il patolo- gico e il poetico, un discorso ininterrotto che dà luogo ad arabeschi linguistici che se- gnano tutto un percorso ben definito. È lui stesso a definire l’essenza della sua poetica in una lettera a Sinisgalli: «Quando tendo a realizzare un’immagine, ne distolgo quasi apposta il lettore con un altro verso in un’al- tra direzione». La lettura delle sue poesie è cosa ardua, perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ri- dotta a puro segno. La vita a giorno a giorno gli sfuggiva, dissanguata dall’altra “vita acre dei segni”. Quando avremo preso completa visione degli ottocento quaderni inediti riusciremo a dare più compiutezza al suo profilo, alla sua poetica e alla sua vita, sempre mossa da densi venti che spesso non facevano sentire il suo grido di dolo- re: Giorno dopo giorno ho combat- tuto/ solo col mio dolore. D’autunno son guaste le parole./ Penso anch’io. Nell’occhio stan- co/ riconduco il senso della vita. Lascio che il tempo in me parli antico / e lasci un sapore salmastro / nelle mie parole, coi suoi soavi det- ti./ Aspiro ad una veste / d’assoluto silenzio. Sto con le gi- nocchia piegate/ in un tabernaco- lo di luce / in puro atto d’amore. I pensieri a stormo passava- no cortissimi/ e i supplizi erano il pensiero più di- sadorno / quelli alla cui rupe del tempo / era un faggio intorno. Non si aveva bisogno di sogni/ quando una nebbia liquida / era che rincasa; ma tu nel sangue magico/ giorno dopo giorno spegnevi la corsa. Tu eri pazzo e nessuno ti bada/ sovrana- mente tra quelli/ che una volta ti guardava- no, ti mordevi/ un dito in mezzo alla tua ca- sa,/ quando morte era/ o era un desiderato nulla. Ma come nasce la poesia di Lorenzo Calogero? Istintiva- mente ho pensato al mio Pave- se che da Brancaleone così scriveva nel suo Segretum professionale: «Questa sera , sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d'imma- gini che simile tratto consentirebbe. (…) Per- ché non posso trattare io delle rocce rosse lu- nari ? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesi- stico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Che viene a dire come il primo fondamento della poesia sia l'oscura co- scienza del valore dei rapporti, quelli biolo- gici magari, che già vivono una larvale vita d’immagine nella coscienza prepoetica». L’amico Vito Teti mi ha preceduto in un’in- tuizione che mugolavo da tempo tra me e me: «La parola calogeriana, come quella di Pave- se, scorge il senso del luogo nel dio incarna- to, nella natura dei suoi spazi». Le prime pro- ve poetiche di Calogero partono da questa natura divina, da questo panteismo creando con il passare degli anni nuovi nuclei attivati da un sangue ritmico sempre più incalzante e attraversato , nelle prove più mature e riu- scite, dal demone dell’analogia: Dalla lontananza/ dei boschi una voce vie- ne: / suona all’orecchio (…)Io dico che questa voce , / la voce della poesia, / si ripete per que- sti chiari / spazi stellari e riempie di sé/ que- sto firmamento delle cose. L’afosa luna non sai più che sia, quali/ re- moti esseri s’allontanano dormenti, se in fermo / sonoro fumo, fuoco e sonno sono del- la terra / intorno all’aria o nel remoto centro ./la marea è bassa entro cui mi raccolgo,/ mi ravvolgo anch’io. Raggi vedi, / nostalgica un’ala immersa / nella solitudine dell’im- menso. La rivista “ Poesia” del giugno 2008 ci ha ridato in copertina l’unica nitida immagine di Lorenzo Calogero in Piazza Duomo a Mi- lano. Un poeta piccolo, magro, storto (così lo descrive il Tedeschi ). «Faccia semiglabra e lucida, occhiali tondi e antichi, occhi vividi o spenti allo stesso tempo». Nel descrivere il suo incontro con il poeta, Tedeschi ricorda quando l’accompagnò al Policlinico: «Lo spogliarono, lo spulciarono, gli fecero una doccia. Ricomparve con un camice bianco enorme, tratteneva a stento le lacrime, «una figura pallida e disordinata, suggestionan- te e dispettosa, apparentemente senza sto- ria, a cui tutto capita per ineluttabilità». Calogero aveva cinquanta anni e veniva da tutta una serie di fallimenti nella sua vita professionale di medico. Decise allora di de- dicarsi interamente al lavoro letterario tor- nando definitivamente a Melicuccà, suo ni- do materno e matrigno che lo chiamava co- me una sirena, che gli sorrideva come una sfinge, che alla fine lo ha castigato come una medusa, sorella carnosa e vicina. Ritorna al- la sua rozza infanzia che prega e piange,/ si estasia di sole morente /, in una riva autun- nale. Appare evidente il riferimento al mare di Bagnara, della Costa Viola con il superbo e mitico scenario delle Eolie: Paese del bosco. Vane immagini della stra- da. / Tu ritorni. Sì presto! Approdano / popoli nuovi in quest’angolo/ azzurro violetto./ Vergini / variegano le nude ciglia del sonno/ i risvegli ti allettano/ lungo il percorso. E le borgate, le vigne fiorenti / risplende- ranno di sole. Guardi nei cerchi/ concentrici della me- moria: melodiosi/ si congiungono a me in so- gno al luogo / che ti fu caro . Io mi ricordo dei tempi passati, antichi./ Tutto era accolto nel calmo/ taciturno lento svolgersi delle stagioni./ tutto si muoveva lento quieto, / quasi senza un perché./ Ascol- tavo la prima voce dei pastori/ al limite dei tempi solitari,/ finchè non me la ritoglieva/ la voce impetuosa del vento./ l’urlo delle pas- sioni/ non era ancora solitario entrato/ nel cavo delle vene a scuotermi./ tutto era calmo solare/ come un giorno aperto. Calogero crede nella parola, incarnata nel mondo che lo circonda, a cui vuole dare un si- gnificato, trovare le vere radici: la poesia lo aiuta pavesianamente a difendersi dalle of- fese della vita. La poesia , anzi, diventa la re- sidua, unica compensazione alla vita. Solo la parola/ può salvare la mia anima/ solo che sia grido riflesso/ d’un illuminato mondo, / del mondo che vedo vaneggiante / nella mia anima./ Troverò le nude radici di esso. Se c’è un autore al quale si può ricondurre l’esperienza poetica di Calogero io farei il no- me di Mallarmè, sempre alla ricerca della parola assoluta, bruciata da ogni scoria di ma- terialità, di incrostazioni. An- che il poeta di Melicuccà fa suo, per dirla con Hugo Frie- drich, l’allontanamento più radicale dalla lirica impernia- ta sulla esperienza vissuta e sulla confessione. Questa ri- cerca , quasi ascetica, di assoluto, di parole incontaminate, porta Calogero al dramma dell’inespresso, dell’oscurità. Il critico tedesco spaziando attraverso di- verse lingue e letterature conduce per mano il lettore nei labirinti delle poetiche. Ne emer- ge il lato più caratteristico del poeta moder- no, il suo uso più suggestivo che comunica- tivo del linguaggio. Questo radicalizza al massimo espressioni conosciute e praticate anche in epoche precedenti al Novecento. Scrive Hugo Friedrich: «La lirica moder- na pone alla lingua il compito paradossale di esprimere e al tempo stesso celare un signi- ficato. L’oscurità è divenuta un principio estetico universale. È essa che stacca così la poesia dalla normale comunicazione della lingua, per tenerla librata in una sfera in cui essa più allontanarsi che avvicinarsi. Lorenzo Calogero è tutto questo e a mio avviso da qui bi- sogna partire per entrare nel suo mondo poetico. Gli inediti in questo ci saranno d’aiuto. Per il poeta di Melicuccà la realtà non deve esistere. Va quasi rifiutata per viverla al di fuori di ogni impegno. E così il mare, componente essenziale del suo paesaggio poetico, si traduce in me- tafora della desolata e disperata solitudine dell’uomo. Entro una superficie/ liscia si distingueva di un’infinita / distesa il bagliore. Era anche stata la condizione di Cesare Pa- vese nella solitudine del confino calabrese , a Brancaleone: Uomo solo dinanzi all’inutile mare, / atten- dendo la sera , attendendo il mattino. L’uomo solo si leva che il mare è ancora buio / e le stelle vacillano.(…) Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno / in cui nulla ac- cadrà.(…) L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire ./ quando l’ultima stella si spegne nel cielo ,/ l’uomo adagio prepara la pipa e l’accende. Anche le labbra di Calogero, arse di solitu- dine , sono ormai stanche di ri- volgersi al mondo delle lettere che non lo comprende. Aveva tentato due volte il suicidio, le malattie immaginarie lo tor- mentano ancora di più, viene ricoverato a più riprese nella clinica Villa Nuccia a Catan- zaro, ritorna nell’isolamento periferico della casetta di Me- licuccà, di proprietà della famiglia , al limi- tare del bosco. Inizia a nutrirsi di caffè fortis- simo, sigarette Alfa, Talofen e Luminal. Continuava a scrivere, a riempire quaderni a quadretti, è stanco di urlare senza voce. Quasi cade la fiducia incondizionata in un sol Dio, in quel Dio che da giovane ritrovava in ogni cosa e che lo faceva sentire misero frumento/ che giace sepolto nel mare della terra/ per crescere / per diventare un mare di spighe. Tendetemi la mano/ ed accoglietemi nel grembo vostro :/ mai desiderai la morte / co- me in questo momento. …Forse ora io esulto/ ed imploro morte a piene mani. Intuisce che il mondo sta prendendo altre strade, opposte alla sua vocazione di poeta. È lo strano, amaro destino dei poeti. Ecco cosa scriveva da Milano in data 8 novembre 1914 Giuseppe Ungaretti a Prezzolini: «Sono uno smarrito. A che gente ap- partengo, di dove sono? Sono senza posto nel mondo, senza prossimo. Mi chino verso qualcuno, e mi faccio male. E come fare a vivere e continua- mente rinchiudersi come una tomba? È questa la mia sorte. E chi do- vrebbe accorgersi che patisco ? Chi potrebbe ascoltarmi ? Chi può dividere il mio patimen- to. Mi distruggerò al fuoco della mia desola- zione» Quell’Ungaretti delle trentatrè liriche del Porto sepolto, uomo di pena, pena di spirito e corpo, la solitudine metafisica e la rassegna- zione alla propria croce, che a Napoli Caloge- ro si era quasi divertito ad imitare: Di che reggimento siete fratelli?/ Mai ho visto il vostro viso sì scarno, / il passo vacil- lante, / il vostro vestito così lacero sangui- nante,/ la sembianza d’una perpetua trup- pa./ Non vi ho visto mai così. / Era mestieri dirlo?/ Alla bocca del fuoco siete stati. Come non ricordare i versi delle Poesie Grigioverdi di Corrado Alvaro : Non dire alla povera mamma/ che io sia morto solo./ Dille che il suo figliolo / più grande, è morto con tanta/ carne cristiana intorno. Non è casuale il riferimento allo scrittore di San Luca. C’è una linea di continuità nei versi di Tommaso Campanella , Corrado Al- varo e Lorenzo Calogero. Così come lo scrit- tore di San Luca, che suo padre voleva diven- tasse poeta, aveva ridato voce alla Calabria dopo tre secoli di silenzio, anche il poeta di Melicuccà fa sua la lezione che Tommaso Campanella, venuto a debellare tirannide , sofismi ed ipocrisia, trasmise ad Alvaro: «Bisogna osare fin dove dice lo spirito e la coscienza individuale , se non ci si vuole ras- segnare a essere tardi imitatori e seguaci di mondi già scoper- ti». La poesia di Calo- gero dagli anni cin- quanta diventa l’unico scopo della sua vita, si tramu- ta in un linguag- gio oscuro, nel quale sofferenza e scrittura si vampi- rizzano a vicenda, ogni verso trasu- da la disperazione del poeta per la propria sconfitta, per il proprio fal- limento. Il testo diventa fuga dal- la realtà, stru- mento e trascri- zione di una vita alienata e subli- mata. Un proces- so di estraniazio- ne dalla vita che si fa cupamente parossistico, con una dedizio- ne mostruosa e disperata alla poesia. La natu- ra occupa ampi spazi, diventa interlocutore privilegiato, fa- cendolo appoggiare ai detriti del passato. Non si muove più libero il tuo cuore/ da un fondo grigio e stanco./A questo grido, che io chiamo partire,/ è uno spiraglio quieto di un improvviso / tuo dolore. La morte -oh si - la morte m’innamora / e la vorrei condurre a quel sito / in cui come ama- ta amante/ mi ama ancora. La poesia italiana ,dominata dallo speri- mentalismo del Gruppo 63, non ha tempo per leggere Calogero. I suoi versi sono diffi- cili perché nessuno può resistere a lungo al suo diluvio ininterrotto di parole . Sinisgalli gli dedicherà versi indimentica- bili: Come un cane infetto / ha raspato alle vo- stre porte / nessuno gli ha aperto. Lorenzo calogero è un vero innovatore , in grado di creare alla fine quell’unitario can- zoniere - poema dove le parole non sono usate per veicolare significati ma per giungere al significato vero dell’esistenza. Ecco perché i suoi versi ormai si tramuta- vano in lacrime nelle concave notti senza passi. Lungo le croci del labirinto si prepara- va ad insegnare alla sua anima disfatta un inevitabile passo d’addio, consumato negli accesi silenzi, per usare le parole di una grande poetessa: Cristina Campo. La fede as- soluta nella parola non bastava più. Le sue celesti titubanze, i suoi miracolosi detriti erano ormai divorati dal livore del mondo. Come si legge nei cenni biografici di Giu- seppe Martino «la mattina del 25 marzo 1961, all’alba, Lorenzo Calogero bussò alla casa del parroco perché voleva confessarsi e ricevere la comunione». Da bambino aveva seguito la pratica dei primi venerdì , ben consapevole, come voleva la tradizione cristiana seguita in famiglia, che ciò lo avrebbe aiutato a morire nella gra- zia di Dio. Quel Dio che era penetrato nella sua intima carne come un acciaio rovente e che cercava continuamente. Ma non basta- va. La morte era venuta a prendere i suoi oc- chi, quella morte che più volte lo aveva allet- tato come un vizio assurdo mai sopito. La luna in cielo era una larva , era quella di Alvaro , simile ad una cica- la dopo aver canta- to. Pendeva stanca nel cielo, pur essa sorpresa dall’alba. Un’alba che col suo chiarore tranquil- lo si posò per sem- pre sul suo viso scarno e supino. Il fantastico lume si spegne / ti guarda una luce titubando/ in frantumi. Un’altra mattina( come un amico/ ver- sò un farmaco bian- co) era di mezzo marzo/ nella notte stellata a pieno. Non so se li cono- sceva questi versi al- variani ma mi piace immaginare che, con un battito sempre più flebile, siano usciti dalle sue labbra: Come in sogno, co- me la pioggia di set- tembre,/ o Signore , arriva piano,/poiché il cuore che ho qui den- tro / è solamente un cuore umano Quando si scriverà la vera storia letteraria di questo Paese (esiste anche in questo cam- po una irrisolta questione meridionale) sot- to forma di atlante geografico, collegando luoghi e memoria, la nostra Calabria sarà, di certo, l’itinerario più suggestivo ed in esso la voce inquietante di Lorenzo Calogero, smar- rita nell’oceano del silenzio, ci obbligherà a riflettere sul significato ultimo del suo testa- mento poetico: Verranno gli eventi/ muteranno i tempi/ ci calcheranno/ in quel che avemmo di più ca- ro/ Ci sosterremo a vicenda/ col cuore di mar- mo./ Ciascuno ha il suo cuore/ che non cono- sce / meglio morire/ che vedere la propria di- struzione. L’attenzione è al momento del ritorno Come Mallarmè alla ricerca di parole assolute La razionalità nello scrivere “infuocato”

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Articolo di Gianni Carteri apparso sul Quotidiano della Calabria

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Page 1: Lorenzo Calogero nella Solitudine dell'immenso

20 Domenica 7 marzo 2010 Domenica 7 marzo 2010 21

Lorenzo CalogeroLa stretta assonanza di pensiero tra il poeta di Melicuccà e Pavesenella relazione di Gianni Carteri al recente convegno dell’Unical

NELLA SOLITUDINED E L L’ IMMENSO

di GIANNI CARTERI

L’immagine strappata dalla quotidianità«Questo mio omaggio a Calogero era un atto dovuto

perché negli ultimi anni mi è stato accantonella sofferenza quotidiana che mi scarnisce»

A lato: l’immagine classica di Lorenzo Calogero, scattata a Milano in piazza Duomo nel 1964In alto: un disegno a mano di Calogero, in uno dei suoi quaderni (su concessione del dipartimento diFilologia, sezione Archivi letterari dell’Unical)

Ipoeti conclamano il vero/ sono iner-

mi./Lasciamoli al loro linguaggio,l’esempio / del loro vivere nudo / ci so-sterrà fino alla fine del mondo/ quandoprenderanno le trombe/ e suoneranno

per noi.Sono versi di Alda Merini, matta come lo fu

Calogero, euno deinostri poetipiù veri,unavoce che - come dice Franco Loi - «si lasciaparlare dall’ignoto, che procede dalle oscuri-tà piuttosto che dalle troppe sapienze dellamente, che sa trascorrere tra i dolori e i delirisenza cedere al compiacimento» .

Questo mio omaggio a Lorenzo Calogeroera un atto dovuto, perché negli ultimi annimi è stato accantonella sofferenzaquotidia-na che a giorno a giorno mi scarnisce, mi sfi-bra, con il mio cuore sempre più stanco disopportare il peso del tempo.

Ed allora cerco un appiglio alvarianamen-te nella notte della stanza, perché di notte ilsilenzio è come un’acqua ed io bevo, bevo,mentre l’orologio misura scalpitando il tem-po. Nelle giornate talora interminabili at-tendo con calma il mio taciturno turno dipartire, ben consapevole insieme al Nostroche siamo legati alla vita da sottilissime ve-ne.

Mentre nel luglio scorso, meditabondo,stavo seduto su una comoda panchina di le-gno in via Medina , accanto alla fontana delTritone, mi è parso per un attimo di scorgerela figura stancae barcollantedi LorenzoCa-logero. Avevo portato con me le sue poesieche sul treno mi avevano fatto compagniacome tante «filigrane infilzate dentro unraggiodisole»e miaiutavanoacapire intui-re la vera essenza del poeta:

Sono il solitario origliere/ di ciò che dor-me/ Perciò scrivo/ colla tacita mano,/ l’occhiorivolto ai sonni.

Oggi mezzo assopito/ nel frastuono gron-dante / nuvole bionde dal cielo infinito/ guar-do solitario i passanti dal volto duro / dai tor-bidi occhi incavati.

E tutto odorava di menta/ e del profumodelle viole, delle viole da noi raccolte/ comepallida messe di sogni.

Mi viene istintivo accostare Calogero almio Pavese del bellissimo articolo scritto il20 maggio1945 per L’Unità “Ritorno all’uo -mo”, il cui incipit è l’emblema di una genera-zione:

«Da anni tendiamo l’orecchio alle nuoveparole(…) conoscemmo la carne e il sangueda cui nascono i libri.(…) Laggiù noi cercam-mo e trovammo noi stessi. Le parole sono ilnostro mestiere.Le parole sono tenere cose,intrattabili e vive, ma fatte per l'uomo e nonl’uomo per loro».

Continuavo a pensare alla Napoli dei pri-mi anni Trenta dove Calogero tra il 1929 e il1936 studiò per diventare un bravo medico:una città magicamente descritta da PeppinoMarotta ne “L’Oro di Napoli” e da Anna Ma-ria Ortese ne “Il mare non bagna Napoli”. Liho riletti d’un fiato e mi sono emozionato per-ché a Napoli non tornerò più .

A luglio, la città si spalanca come una rosanel bicchiere, lo spremilimoni nel suo chio-sco non riesce a stare un attimo zitto: lèggerecon la frescura che arriva dal porto ti staccadal mondo. Mi par di vederlo Calogero con ilsuo Frontespizio, attraversare di fretta la viedel centro storico napoletano e non vederl’ora di divorare le pagine di una rivista chevoleva togliere alla cultura cattolica la pati-na di conformismo che la confinava ai mar-gini, e aprirla così alle esperienze dell’arte edella cultura contemporanee. La vera anima

della rivista era Don Giuseppe De Luca, unodei protagonisti più notevoli della culturaitaliana del secolo scorso , che iniziò subito acollaborare perché vedeva nel Frontespiziouna delle vie per portare la cultura cattolicafuori dalle sagrestie e agire liberamente ac-cantoe inmezzo alla cultura laica per infon-dere nella anemica lettera-tura italianaun pocodi vitainteriore.

Se vi andatea leggere i car-teggi tra PieroBargellini e DeLuca, tra CarloBo e De Luca ,tra Ungaretti ePrezzolini, virenderete con-to perché le pri-me poesie diCalogero ven-nero rifiutatedaBetocchi e inun certo sensoobbligarono ilpoeta a tuffarsicon più lena nelmestiere di poe-ta con risultatistraordinari einimitabili. Lavera poesia -an-notava Montale- quando c’è puòsempre attende-re il suo turno .

La ininterrot-ta poesia di Calo-gero ci obbligaogni volta cheapriamo i suoi li-bri ad una lettu-ra molto impegnativa e defatigante. Comescrive Dante Mafia la sua «è una poesia tra-volgente: pare di trovarsi di fronte ad accu-muli di fuochi d’artificio che si aprono a ripe-tizione, senza sosta, senza mai una pausache consenta di fermarsi su un'immagine,su un pensiero, su una nota. Tutto un susse-guirsi di metafore di cui nonsi conosce l’approdo».

C’è in lui come un furoreespressionistico tra il patolo-gico e il poetico, un discorsoininterrotto che dà luogo adarabeschi linguistici che se-gnano tutto un percorso bendefinito. È lui stesso a definirel’essenza della sua poetica inuna lettera a Sinisgalli: «Quando tendo arealizzare un’immagine, ne distolgo quasiapposta il lettore con unaltroverso inun’al -tra direzione». La lettura delle sue poesie ècosa ardua, perché in lui la parola è del tuttospogliata del suo contenuto semantico e ri-dottaapuro segno.Lavitaa giornoagiorno

gli sfuggiva, dissanguata dall’altra “vitaacre dei segni”.

Quando avremo preso completa visionedegli ottocento quaderni inediti riusciremoa dare più compiutezza al suo profilo, allasua poetica e alla sua vita, sempre mossa dadensi venti che spesso non facevano sentire

il suo grido di dolo-re:

Giorno dopogiorno ho combat-tuto/ solo col miodolore.

D’autunno songuaste le parole./Penso anch’io.Nell’occhio stan-co/ riconduco ilsenso della vita.

Lascio che iltempo in me parliantico / e lasci unsapore salmastro/ nelle mie parole,coi suoi soavi det-ti./ Aspiro ad unaveste / d’assolutosilenzio.

Sto con le gi-nocchia piegate/in un tabernaco-lo di luce / in puroatto d’amore.

I pensieri astormo passava-no cortissimi/ e isupplizi erano ilpensiero più di-sadorno / quellialla cui rupe deltempo / era unfaggio intorno.

Non si avevabisogno di sogni/ quando una nebbia liquida/ era che rincasa; ma tu nel sangue magico/giorno dopo giorno spegnevi la corsa.

Tu eri pazzo e nessuno ti bada/ sovrana-mente tra quelli/ che una volta ti guardava-no, ti mordevi/ un dito in mezzo alla tua ca-sa,/ quando morte era/ o era un desideratonulla.

Ma come nasce la poesia diLorenzo Calogero? Istintiva-mente ho pensato al mio Pave-se che da Brancaleone cosìscriveva nel suo Segretumprofessionale:

«Questa sera , sotto le roccerosse lunari, pensavo comesarebbe di una grande poesiamostrare il dio incarnato in

questo luogo, con tutte le allusioni d'imma-gini che simile tratto consentirebbe. (…) Per-ché non posso trattare io delle rocce rosse lu-nari ? Ma perché esse non riflettono nulla dimio, tranne uno scarno turbamento paesi-stico, quale non dovrebbe mai giustificareuna poesia. Che viene a dire come il primo

fondamento della poesia sia l'oscura co-scienza del valore dei rapporti, quelli biolo-gici magari, che già vivono una larvale vitad’immagine nella coscienza prepoetica».

L’amico Vito Teti mi ha preceduto in un’in -tuizione che mugolavo da tempo tra me e me:«La parola calogeriana, come quella di Pave-se, scorge il senso del luogo nel dio incarna-to, nella natura dei suoi spazi». Le prime pro-ve poetiche di Calogero partono da questanatura divina, da questo panteismo creandocon il passare degli anni nuovi nuclei attivatida unsangue ritmicosempre più incalzantee attraversato , nelle prove più mature e riu-scite, dal demone dell’analogia:

Dalla lontananza/ dei boschi una voce vie-ne: / suona all’orecchio (…)Io dico che questavoce , / lavoce dellapoesia, / siripete perque-sti chiari / spazi stellari e riempie di sé/ que-sto firmamento delle cose.

L’afosa luna non sai più che sia, quali/ re-moti esseri s’allontanano dormenti, se infermo / sonoro fumo, fuoco e sonno sono del-la terra / intorno all’ariaonel remotocentro./la marea è bassa entro cui mi raccolgo,/ miravvolgo anch’io. Raggi vedi, / nostalgicaun’ala immersa / nella solitudine dell’im -menso.

La rivista “ Poesia” del giugno 2008 ci haridato in copertina l’unica nitida immaginedi Lorenzo Calogero in Piazza Duomo a Mi-lano.Unpoetapiccolo, magro,storto (così lodescrive il Tedeschi ). «Faccia semiglabra elucida, occhiali tondi e antichi, occhi vividi ospenti allo stesso tempo». Nel descrivere ilsuo incontro con il poeta, Tedeschi ricordaquando l’accompagnò al Policlinico: «Lospogliarono, lo spulciarono, gli fecero unadoccia. Ricomparve con un camice biancoenorme, tratteneva a stento le lacrime, «unafigura pallida e disordinata, suggestionan-te e dispettosa, apparentemente senza sto-ria, a cui tutto capita per ineluttabilità».

Calogero aveva cinquanta anni e veniva datutta una serie di fallimenti nella sua vitaprofessionale di medico. Decise allora di de-dicarsi interamente al lavoro letterario tor-nando definitivamente a Melicuccà, suo ni-do materno e matrigno che lo chiamava co-me una sirena, che gli sorrideva come unasfinge, che alla fine lo ha castigato come unamedusa, sorella carnosa e vicina. Ritorna al-la sua rozza infanzia che prega e piange,/ siestasia di sole morente /, in una riva autun-nale. Appare evidente il riferimento al maredi Bagnara, della Costa Viola con il superbo emitico scenario delle Eolie:

Paese del bosco. Vane immagini della stra-da. / Tu ritorni. Sì presto! Approdano / popolinuovi in quest’angolo/ azzurro violetto./Vergini / variegano le nude ciglia del sonno/i risvegli ti allettano/ lungo il percorso.

E le borgate, le vigne fiorenti / risplende-ranno di sole.

Guardi nei cerchi/ concentrici della me-moria: melodiosi/ si congiungono a me in so-gno al luogo / che ti fu caro .

Io mi ricordo dei tempi passati, antichi./Tutto era accolto nel calmo/ taciturno lentosvolgersi delle stagioni./ tutto si muovevalento quieto, / quasi senza un perché./ Ascol-tavo la prima voce dei pastori/ al limite deitempi solitari,/ finchè non me la ritoglieva/la voce impetuosa del vento./ l’urlo delle pas-sioni/ non era ancora solitario entrato/ nelcavo delle vene ascuotermi./ tutto era calmosolare/ come un giorno aperto.

Calogerocrede nellaparola, incarnatanelmondo che lo circonda, a cui vuole dare un si-

gnificato, trovare le vere radici: la poesia loaiuta pavesianamente a difendersi dalle of-fese della vita. La poesia , anzi, diventa la re-sidua, unica compensazione alla vita.

Solo la parola/ può salvare la mia anima/solo che sia grido riflesso/ d’un illuminatomondo, / del mondo che vedo vaneggiante /nella mia anima./ Troverò le nude radici diesso.

Se c’è unautorealquale sipuòricondurrel’esperienza poetica di Calogero io farei il no-me di Mallarmè, sempre allaricerca della parola assoluta,bruciatada ogniscoria dima-terialità, di incrostazioni. An-che il poeta di Melicuccà fasuo, per dirla con Hugo Frie-drich, l’allontanamento piùradicale dalla lirica impernia-ta sulla esperienza vissuta esulla confessione. Questa ri-cerca , quasi ascetica, di assoluto, di paroleincontaminate, porta Calogero al drammadell’inespresso, dell’oscurità.

Il critico tedesco spaziando attraverso di-verse lingue e letteratureconduce per manoil lettore nei labirinti delle poetiche. Ne emer-ge il lato più caratteristico del poeta moder-no, il suo uso più suggestivo che comunica-tivo del linguaggio. Questo radicalizza almassimo espressioni conosciute e praticateanche in epoche precedenti al Novecento.

Scrive Hugo Friedrich: «La lirica moder-na pone alla lingua il compito paradossale diesprimere e al tempo stesso celare un signi-ficato. L’oscurità è divenuta un principioestetico universale. È essa che stacca così lapoesia dalla normale comunicazione dellalingua, per tenerla librata in una sfera in cuiessa più allontanarsi che avvicinarsi.

Lorenzo Calogero è tuttoquestoeamio avvisodaquibi-sogna partire per entrare nelsuo mondo poetico. Gli ineditiin questo ci saranno d’aiuto.

Per il poeta di Melicuccà larealtà non deve esistere. Vaquasi rifiutata per viverla al difuori di ogni impegno. E così ilmare, componente essenzialedel suo paesaggio poetico, si traduce in me-tafora della desolata e disperata solitudinedell’uomo.

Entro una superficie/ liscia si distinguevadi un’infinita / distesa il bagliore.

Era anche stata la condizione di Cesare Pa-vese nella solitudine del confino calabrese , a

Brancaleone:Uomo solo dinanzi all’inutile mare, / atten-

dendo la sera , attendendo il mattino.L’uomo solo si leva che il mare è ancora

buio / e le stelle vacillano.(…) Non c’è cosa piùamara che l’alba di un giorno / in cui nulla ac-cadrà.(…) L’uomo solo vorrebbe soltantodormire ./ quando l’ultima stella si spegnenel cielo ,/ l’uomo adagio prepara la pipa el’accende.

Anche le labbra diCalogero, arsedi solitu-dine , sono ormai stanche di ri-volgersi al mondo delle lettereche non lo comprende. Avevatentato due volte il suicidio, lemalattie immaginarie lo tor-mentano ancora di più, vienericoverato a più riprese nellaclinica Villa Nuccia a Catan-zaro, ritorna nell’isolamentoperiferico della casetta di Me-

licuccà, di proprietà della famiglia , al limi-tare del bosco. Inizia a nutrirsi di caffè fortis-simo, sigarette Alfa, Talofen e Luminal.Continuava a scrivere, a riempire quadernia quadretti, è stanco di urlare senza voce.Quasi cade la fiducia incondizionata in unsol Dio, in quel Dio che da giovane ritrovavain ogni cosa e che lo faceva sentire miserofrumento/ che giace sepolto nel mare dellaterra/ per crescere / per diventare un mare dispighe.

Tendetemi la mano/ ed accoglietemi nelgrembo vostro :/ mai desiderai la morte / co-me in questo momento.

…Forse ora io esulto/ ed imploro morte apiene mani.

Intuisce che il mondo sta prendendo altrestrade, opposte alla sua vocazione di poeta. Èlostrano,amarodestino deipoeti.Eccocosa

scriveva da Milano in data 8novembre 1914 GiuseppeUngaretti a Prezzolini: «Sonouno smarrito. A che gente ap-partengo, di dovesono? Sonosenza posto nel mondo, senzaprossimo. Mi chino versoqualcuno, e mi faccio male. Ecome fare a vivere e continua-mente rinchiudersi come

una tomba? È questa la mia sorte. E chi do-vrebbeaccorgersi chepatisco? Chipotrebbeascoltarmi ? Chi può dividere il mio patimen-to. Mi distruggerò al fuoco della mia desola-zione»

Quell’Ungaretti delle trentatrè liriche delPorto sepolto, uomo di pena, pena di spirito e

corpo, la solitudine metafisica e la rassegna-zione alla propria croce, che a Napoli Caloge-ro si era quasi divertito ad imitare:

Di che reggimento siete fratelli?/ Mai hovisto il vostro viso sì scarno, / il passo vacil-lante, / il vostro vestito così lacero sangui-nante,/ la sembianza d’una perpetua trup-pa./ Non vi ho visto mai così. / Era mestieridirlo?/ Alla bocca del fuoco siete stati.

Come non ricordare i versi delle PoesieGrigioverdi di Corrado Alvaro :

Non dire alla povera mamma/ che io siamorto solo./ Dille che il suo figliolo / piùgrande, è morto con tanta/ carne cristianaintorno.

Non è casuale il riferimento allo scrittoredi San Luca. C’è una linea di continuità neiversi di Tommaso Campanella , Corrado Al-varo e Lorenzo Calogero. Così come lo scrit-tore di San Luca, che suo padre voleva diven-tasse poeta, aveva ridato voce alla Calabriadopo tre secoli di silenzio, anche il poeta diMelicuccà fa sua la lezione che TommasoCampanella, venuto a debellare tirannide ,sofismi ed ipocrisia, trasmise ad Alvaro:

«Bisogna osare fin dove dice lo spirito e lacoscienza individuale , senon ci si vuoleras-segnare a essere tardi imitatori e seguaci dimondi già scoper-ti».

Lapoesia diCalo-gero dagli anni cin-quanta divental’unico scopo dellasua vita, si tramu-ta in un linguag-gio oscuro, nelquale sofferenza escrittura si vampi-rizzano a vicenda,ogni verso trasu-da la disperazionedel poeta per lapropria sconfitta,per il proprio fal-limento. Il testodiventa fuga dal-la realtà, stru-mento e trascri-zione di una vitaalienata e subli-mata. Un proces-so di estraniazio-ne dalla vita chesi fa cupamenteparossistico,con una dedizio-ne mostruosa edisperata allapoesia. La natu-ra occupa ampispazi, diventa interlocutore privilegiato, fa-cendolo appoggiare ai detriti del passato.

Non simuove piùlibero il tuo cuore/da unfondo grigio e stanco./A questo grido, che iochiamo partire,/ è uno spiraglio quieto di unimprovviso / tuo dolore.

La morte -oh si - la morte m’innamora / e lavorrei condurre a quel sito / in cui come ama-ta amante/ mi ama ancora.

La poesia italiana ,dominata dallo speri-mentalismo del Gruppo 63, non ha tempoper leggere Calogero. I suoi versi sono diffi-cili perché nessuno può resistere a lungo alsuo diluvio ininterrotto di parole .

Sinisgalli gli dedicherà versi indimentica-bili: Come un cane infetto / ha raspato alle vo-stre porte / nessuno gli ha aperto.

Lorenzocalogero èunvero innovatore , in

grado di creare alla fine quell’unitario can-zoniere - poema dove le parole non sono usateper veicolare significati ma per giungere alsignificato vero dell’esistenza.

Ecco perché i suoi versi ormai si tramuta-vano in lacrime nelle concave notti senzapassi. Lungo le croci del labirinto si prepara-va ad insegnare alla sua anima disfatta uninevitabile passo d’addio, consumato negliaccesi silenzi, per usare le parole di unagrande poetessa: Cristina Campo. La fede as-soluta nella parola non bastava più. Le suecelesti titubanze, i suoi miracolosi detritierano ormai divorati dal livore del mondo.

Come si legge nei cenni biografici di Giu-seppe Martino «la mattina del 25 marzo1961, all’alba, Lorenzo Calogero bussò allacasa del parroco perché voleva confessarsi ericevere la comunione».

Da bambino aveva seguito la pratica deiprimi venerdì , ben consapevole, come volevala tradizione cristiana seguita in famiglia,che ciò lo avrebbe aiutato a morire nella gra-zia di Dio. Quel Dio che era penetrato nellasua intima carne come un acciaio rovente eche cercava continuamente. Ma non basta-va. La morte era venuta a prendere i suoi oc-chi, quella morte che più volte lo aveva allet-

tato come un vizio assurdo mai sopito.La luna in cielo erauna larva , eraquella di Alvaro ,simile ad una cica-la dopo aver canta-to. Pendeva stancanel cielo, pur essasorpresa dall’alba.Un’alba che col suochiarore tranquil-lo si posò per sem-pre sul suo visoscarno e supino.

Il fantastico lumesi spegne / ti guardauna luce titubando/in frantumi.

Un’altra mattina(come un amico/ ver-sò un farmaco bian-co) era di mezzomarzo/ nella nottestellata a pieno.

Non so se li cono-sceva questi versi al-variani ma mi piaceimmaginare che, conun battito sempre piùflebile, siano uscitidalle sue labbra:

Come in sogno, co-me la pioggia di set-tembre,/ o Signore ,

arriva piano,/poiché il cuoreche hoqui den-tro / è solamente un cuore umano

Quando si scriverà la vera storia letterariadi questo Paese (esiste anche in questo cam-po una irrisolta questione meridionale) sot-to forma di atlante geografico, collegandoluoghi e memoria, la nostra Calabria sarà, dicerto, l’itinerario più suggestivo ed in esso lavoce inquietante di Lorenzo Calogero, smar-rita nell’oceano del silenzio, ci obbligherà ariflettere sul significato ultimo del suo testa-mento poetico:

Verranno gli eventi/ muteranno i tempi/ cicalcheranno/ in quel che avemmo di più ca-ro/ Ci sosterremo a vicenda/ col cuore di mar-mo./ Ciascuno ha il suo cuore/ chenon cono-sce /meglio morire/ chevedere lapropria di-struzione.

L’attenzioneè al momento

del ritorno

Come Mallarmèalla ricerca

di parole assolute

La razionalitànello scrivere“infuocato”