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Lieti attingerete alla sorgente L’episcopato camerinese di mons. Bruno Frattegiani (1964-1989) GIUSEPPE TOZZI GIUSEPPE TOZZI Lieti attingerete alla sorgente

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L'episcopato camerinese di mons. Bruno Frattegiani (1964-1989)

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Lieti attingeretealla sorgente

L’episcopato camerinesedi mons. Bruno Frattegiani (1964-1989)

Giuseppe Tozzi

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Indice

Introduzione 3

L’alba di un nuovo giorno 5Le dimissioni di mons. d’AvAck 7dA PerugiA ALL’ePiscoPAto cAmerte 9

Le associazioni di Azione cattolica a Migiana 11Presidente del Tribunale ecclesiastico regionale umbro 12Il giornalista Penna nera 14Assistente ecclesiastico di Azione cattolica e di altre associazioni 15Vicario generale di Perugia 15Incontri con Madre Speranza 16La nomina ad arcivescovo di Camerino 18La consacrazione episcopale 19La prima lettera pastorale 20L’ingresso in diocesi 22Il Concilio ecumenico e l’aggiornamento dei sacerdoti 24Il programma pastorale 29

Dal Concilio quattro lineedi programmazione pastorale 31

LA PAroLA di dio 33Testimonianze di esperti biblisti e teologi 37Pellegrinaggio in Terra Santa (3-12 settembre 1978) 40

LA riformA deLLA LiturgiA 42La cena del Signore 43Ai sacerdoti sulla celebrazione della messa 49

rinnovAmento deLLA vitA cristiAnA 54Divorzio, Humanae vitae, aborto 55

ecumenismo 69I protestanti 71

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Gli ortodossi 80Gli ebrei 83I non credenti 84Dimissioni dalla commissione della CEI per l’ecumenismo 85

La Chiesa locale 89Le Persone 99

Seminaristi e seminario 99Il vescovo, il clero e il popolo fedele 112I religiosi 123I laici 129

LA chiesA LocALe come istituzione 139Prima visita pastorale 139L’istituzione del consiglio presbiterale 141Amministratore apostolico di Sanseverino Marche 141Istituzione del consiglio pastorale e nuovi vicariati 143Nomina del vicario pastorale e riforma della curia 145Nuovo Bollettino ecclesiastico 146La “tre giorni” diocesana 147Un preciso calendario per la visita pastorale 149Conclusioni della visita pastorale nella vicaria di Camerino 151Ricorso contro il prefetto di Macerata 153Ristrutturazione della diocesi 154Vescovo di Sanseverino Marche 155Mutano i confini 156Istituto per il sostentamento del clero 159Unione della diocesi di Sanseverino con Camerino 160

oPere deLL’Arcidiocesi 162“L’Appennino camerte” e “La Voce settempedana” 162Fondazione “Don Igino Cicconi” 172Libreria “Loggia di Sisto V” 173Radio C1 174

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La fondazione opere di religione arcidiocesi Camerino (o.r.a.c.) 176La fondazione Maria Sofia Giustiniani Bandini (ma.so.gi.ba.) 177La fondazione “Beato Rizzerio” e la clinica ortopedica Sagisc 189Pensionato femminile universitario “Battista Varano”- Casa dellagioventù 191Il collegio universitario “Bongiovanni” 193Istituto “Francesco Arsini” – Santuario di Macereto 194Uno speciale stile di governo 197Le amministrazioni diocesane 199

e venuta la sera… 203LA mALAttiA e iL decLino 205ALcune note suLLA suA vitA sPirituALe 210

appendice 221ecce, venio

LetterA di sALuto AL cLero e AL PoPoLo di cAmerino 223cAntAte domino cAnticum novum

LetterA PAstorALe Per LA QuAresimA 1965 236 considerAzioni suLLA grAnde PreghierA eucAristicA

LetterA PAstorALe Per LA QuAresimA 1968 249A diALogo con i divorzisti

LetterA PAstorALe Per LA QuAresimA 1967 258PoLemiche giornAListiche 263

Il divorzio 263eLenco definitivo deLLe PArrocchie deLL’Arcidiocesi

di cAmerino - sAnseverino mArche (1984) 283

note 289

indice dei nomi 299

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L’episcopato camerinesedi mons. Bruno Frattegiani (1964-1989)

Giuseppe Tozzi

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Questo scritto è frutto di insistenti richieste di sacerdoti e laici che desiderano ricordare la vita e l’attività del nostro arcivescovo mons.

Bruno Frattegiani. Essendo stato per lungo tempo suo collaboratore, ho quotidianamente constatato le sue profonde umanità e spiritualità e il suo lungimirante e appassionato lavoro pastorale svolto in attuazione del Concilio ecumenico vaticano II. Il professore mons. Mario Sensi, che conosce molto bene lo spessore umano, spirituale, pastorale e culturale di mons. Bruno Frattegiani, mi ha più volte suggerito di pubblicare in un unico volume tutti i suoi scritti. Ma gli scritti di mons. Frattegiani sono proprio tanti.

Oltre ai vari libri pubblicati nel corso degli anni, ci sono gli interventi al Concilio ecumenico, alle commissioni CEI e CEM, i vari articoli su quotidiani e settimanali, in particolare la sua sistematica collaborazione all’“Amore misericordioso”, a “Rocca”, al “Segno”, alla “Voce” di Perugia e a L’Appennino camerte. Si conservano, infine, i quaderni autografi compilati

in preparazione degli esercizi spirituali e dei ritiri che tenne per sacerdoti, religiosi e laici di vari movimenti. Per questo lavoro di ricerca e sistemazione mi sento inadeguato. In appendice a questo testo mi sono limitato a raccogliere alcune delle numerose lettere pastorali, fondamentali - credo - per comprendere il suo programma pastorale, e alcuni articoli che rivelano la sua vis polemica in difesa di valori non negoziabili su temi come il matrimonio, il divorzio, l’aborto, nonché la lettera polemica ch’egli indirizzò a don Giovanni Franzoni, interventi questi che hanno avuto risonanza nazionale e internazionale. Del resto da squarci significativi di suoi scritti, di cui s’avvale il libro, appare con chiarezza il suo impegno per la vita spirituale dei fedeli, impegno ribadito anche dalle strutture nuove da lui realizzate per il bene della Chiesa particolare di Camerino-Sanseverino Marche.

Mons. Bruno Frattegiani

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Ho la speranza che, nonostante tante manchevolezze (penso in particolare all’assenza di testimonianze di sacerdoti, religiosi, religiose e laici che pur constatatoro la sua disponibilità all’ascolto, al colloquio e soprattutto la sua amabilità e la grande attenzione alla loro persona), questo scritto possa soddisfare le richieste fattemi e possa contribuire a conoscere e far stimare sempre più il nostro indimenticabile arcivescovo Bruno. In ultimo ringrazio sentitamente per la loro intelligente collaborazione mons. Mariano Ascenzo Blanchi, l’avv. Giuseppe De Rosa, il prof. Pier Luigi Falaschi e Maria Cristina Viviani. Giuseppe Tozzi

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L’alba di un nuovo giorno

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Le dimissioni di mons. D’Avack

Venerdì 23 febbraio 1964 i canonici del capitolo metropolitano e i sacerdoti della diocesi di Camerino sono convocati per le ore 12 in

episcopio per comunicazioni importanti da parte dell’arcivescovo. Mons. Giuseppe D’Avack, commosso, subito comunica ai convenuti che, dietro sua richiesta per motivi di salute, il santo padre Paolo VI ha accettato le sue dimissioni da arcivescovo di Camerino e ha nominato successore mons. Bruno Frattegiani del clero della diocesi di Perugia 1. La notizia, del tutto inattesa, suscita stupore, meraviglia, sconcerto, ma anche ammirazione per l’alto senso di responsabilità pastorale manifestato da mons. D’Avack. Lascia la diocesi, a soli 65 anni di età, dopo diciotto anni di grande impegno e totale dedizione al ministero. Domenica 5 aprile la diocesi si stringe attorno al pastore durante la solenne celebrazione della messa in cattedrale, affollatissima di fedeli - giunti da ogni parrocchia della diocesi - che intendono ringraziarlo per la missione svolta con eccezionale generosità. All’omelia mons. Ferruccio Loreti, arcidiacono, così compendia l’alto insegnamento spirituale: «Croce, eucarestia, carità, unite al fiat della Vergine santissima, Madre della misericordia». Successivamente, in episcopio il prof. Pier Luigi Falaschi, presidente della giunta diocesana di Azione cattolica, presenta l’omaggio e il ringraziamento di tutte le organizzazioni cattoliche diocesane. Il professore evoca con splendida sintesi gli anni e lo stile proprio di mons. D’Avack, da quando raggiungeva le parrocchie con la jeep, ai suoi ispirati interventi al Concilio ecumenico, grazie ai quali era riuscito a trasferire l’indefessa carità del pastore coraggioso da Camerino alla Chiesa universale. Nel pomeriggio, al teatro cittadino “Filippo Marchetti”, sono le autorità a manifestare il loro grazie all’arcivescovo. A nome dei colleghi della diocesi, il sindaco di Camerino, prof. Libero Polzonetti, ricorda il continuo impegno del vescovo per la città, l’Università e l’intero territorio dell’arcidiocesi, indi consegna al vescovo un’artistica medaglia d’oro. Al ringraziamento del sindaco si unisce quello del prorettore prof. Guido Giacomo Tedeschi per l’apporto determinante dato per la statizzazione della nostra Università 2. Nell’ultima lettera pastorale mons. D’Avack spiega così le sue dimissioni:

«Non vorrei che prendeste cattiva edificazione dal mio ritiro dalla diocesi. Non pensate che io voglia riposarmi. Il sacerdote per immenso dono del Signore non deve avere la malinconia del “collocamento a riposo”: si riposerà in eterno in Paradiso. Non avendo più energie per il governo della diocesi,

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avrò la possibilità di altro lavoro sacerdotale. Vi lascio sereno, vi lascio nelle mani e nel cuore del nuovo arcivescovo con grande commozione. L’ho conosciuto personalmente, non so dirvi la consolazione, l’edificazione che mi ha dato» 3.

E verso mons. D’Avack così si esprime mons. Frattegiani nella sua prima lettera al clero e ai fedeli di Camerino, “Ecce venio”:

«Al venerato predecessore ho già detto come la penso; per me non è partito, ma è salito sul monte a pregare per il nostro combattimento spirituale. Lui farà il Mosè e io cercherò di essere il vostro Giosuè. L’interessante è che ci sforziamo di entrare nella terra di riposo (Ebr 4,11) faticando quaggiù» 4.

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Da Perugia all’episcopato camerte

Mons. Bruno Frattegiani 5, figlio di Eusebio e Anna Ceccarini, nasce a Migiana di Monte Malbe, frazione del comune di Corciano,

provincia di Perugia, il 9 febbraio 1914. Di Migiana dice: «Sono nato tra le querce della mia Migiana» e degli ascendenti: «… solidi vecchi, boscaioli e fabbricanti di calce». E nel cinquantesimo anniversario di sacerdozio nella nativa Migiana scrive:

«È mio dovere confessarvi l’emozione profonda che ho provato rivivendo un’infanzia serena: sereni anche i quattro chilometri a piedi di ogni giorno per conquistare il diploma di quarta elementare! Al mio paese c’era solo la terza» 6.

A 11 anni entra nel seminario diocesano di Perugia, dove frequenta il ginnasio e il liceo. Il suo primo rettore, mons. Beniamino Ubaldi, poi vescovo di Gubbio, lo descrive come un giovane dotato di uno squisito senso di umanità, di una natura armoniosa ed equilibrata, tanto comprensivo e indulgente quanto pronto a soffrire lui un dispiacere piuttosto che darlo a un altro. E mons. Raffaele Baratta, allora vicario generale, lo trova in seminario tra gli alunni del liceo e lo descrive come “giovane bravo, intelligente, studioso ed anche buono, molto buono”. Dopo un anno al seminario regionale di Assisi, dove inizia lo studio di teologia, passa al Pontificio seminario romano maggiore. Il 6 dicembre 1936 è ordinato sacerdote dal cardinale vicario Francesco Marchetti Selvaggiani nella cappella della Madonna della fiducia del Seminario maggiore romano. E alla Madonna della fiducia resterà sempre devotissimo, tanto da volere una bella riproduzione dell’immagine romana nella cappella dell’episcopio di Camerino. Si laurea all’Università Lateranense in teologia con la tesi “Nomos et agape (Nova et vetera de Thesauro S. Thomas Aquinatis)”; più tardi, risiedendo all’Apollinare, si laurea anche in “utroque iure” con la tesi “Il tribunale della Rota perugina”. Uno stralcio importante della sua tesi in teologia sarà poi pubblicato in “Miscellanea francescana” (luglio - dicembre 1962); la

Con la mamma Anna Ceccarini

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tesi in diritto è pubblicata integralmente sul Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria (vol. XLVI - 1949). Più volte esprimerà in seguito il suo rammarico per non aver potuto iscriversi al Biblico, come desiderato e chiesto. Ritornato in diocesi, è nominato vice rettore del seminario diocesano e docente di latino e greco, insegnamenti che conserverà fino alla nomina ad arcivescovo. Lasciando Perugia ricorderà gli alunni carissimi “... così affezionati al professore di greco, anche se poco ad Erodoto e compagni...”. Don Bruno Frattegiani svolge il suo primo impegno pastorale nel natio paese, Migiana: «Fui incaricato di aiutare il parroco a tempo perso (dico per dire, perché fu tra i più bei guadagni della mia vita)» scriverà più tardi. Dal 1940 ogni venerdì sera lascia Perugia e raggiunge Migiana dove opera il sabato e la domenica; il lunedì mattina è di nuovo a Perugia per gli altri incarichi pastorali. Migiana – racconterà lui stesso – è come una famiglia stretta attorno alla chiesa, al parroco (suo zio), fedele alle tradizioni. Chi sul tardi, la sera, cammina per le stradine del piccolo paese, sente risuonare la recita del rosario che proviene dalle case. Inizia la sua opera di consolidamento della comunità parrocchiale offrendo prospettive di vita cristiana: la fede nell’amore che Dio nutre per gli uomini, il cuore accogliente di Cristo, la comunione con Lui: questa la base e il clima del lavoro che si concretizza con la consacrazione della parrocchia al Cuore di Gesù e con la festa giubilare del Crocifisso del 1947, che vuole solennissima e per la quale compone il bell’inno - appunto - a Gesù crocifisso. Cura molto le feste tradizionali, in particolare quella dell’Immacolata. Un parrocchiano, ragazzo al tempo di don Bruno, ricorderà soprattutto la festa grande connessa a ogni domenica: sembrava sempre Pasqua. Molto curata l’omelia, numerosi e scelti i canti, alcuni da lui stesso composti: tra gli altri il bell’inno in onore di Gesù crocifisso su testo del sacerdote perugino don Remo Bistoni. Il suo amore per la musica lo porta a studiare il piano a livello professionale, come testimonia un suo amico dell’Apollinare. La domenica pomeriggio catechismo per tutti. Durante i primi anni del suo ministero a Migiana è in atto la guerra: don Bruno rimane vigile e incoraggiante tra la popolazione spaurita. A lui si rivolgono con fiducia gli sfollati, per lo più oriundi tornati al paesello ritenuto sicuro. In tanti ricevono aiuto e conserveranno per lui venerazione. Passata la guerra, la canonica di Migiana ospita un orfanello di Cassino: la carità di don Bruno vuole che il piccolo ritrovi accanto a lui un cuore di padre e una mamma nella sua Annetta.

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Le associazioni di azione caTToLica a MiGiana

In un articolo per la rivista del santuario di Corinaldo “Il giglio” del gennaio 1976 mons. Frattegiani ricorda l’intitolazione della gioventù

femminile di Azione cattolica di Migiana:

«... Restai affezionato alla piccola martire a cui dedicai la mia prima esperienza di Azione cattolica. Un bel gruppo di gioventù femminile nella parrocchia fu intitolato a Maria Goretti. Posso asserire che tramite il venerato parroco di allora, mons. Bernacchia, che ci teneva in collegamento con mamma Assunta, nacque fra Corinaldo e Migiana una specie di asse: gli assi allora erano di moda. E per concludere, la mia carriera a Migiana terminò con un indimenticabile pellegrinaggio parrocchiale a Corinaldo (cantammo allora la canzone che adesso si esegue anche a Corinaldo)».

La musica è sua, le parole sono di don Remo Bistoni. Il 15 gennaio 1967 l’inno sarà eseguito anche dal coro di voci bianche di Renata Castiglione e trasmesso anche nel terzo programma Rai 7. All’associazione di gioventù femminile seguono quelle dei giovani, delle donne, degli uomini. Nel 1946 dei 500 parrocchiani 170 sono iscritti all’Azione cattolica. Per dare il senso della Chiesa ed alimentare l’attaccamento al papa conduce a Roma i giovani in occasione dell’ottantottesimo della fondazione e le giovani per il loro trentesimo: i mezzi di trasporto sono fortunosi, ma tanto è l’entusiasmo. «Camioncino dell’ottantesimo, come ti potremo scordare?» scrive in una lettera. Alla fine raccoglie ciò che con amore e intelligenza ha seminato. Tra l’altro ha la gioia di vedere uno dei suoi ragazzi, Sergio Rossi, salire l’altare. È doloroso il distacco dai migianesi nel 1951:

«Vi lascio con la commozione nel cuore – scrive – e forse l’occhio mi tradirà. Ma vi lascio sereno sapendo che servo la Chiesa che amo e che ho cercato di insegnarvi ad amare come Gesù».

Nella lettera inserisce tre raccomandazioni:

«1. Amate la Chiesa con fede profonda, venerate nel papa, nel parroco, nei sacerdoti, i rappresentanti di Gesù, anche se in grado diverso. Continuate a cantare forte nel credo la proclamazione entusiastica della Chiesa “una

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santa cattolica e apostolica”, ma cercate soprattutto di sentire vivo nel cuore il vostro canto. Amate il papa, difendete il papa. Prima dunque la Chiesa, perché la Chiesa è Gesù. 2. Vogliate sempre tanto bene alla Madonna, ricopiandola soprattutto nel suo devoto atteggiamento di sottomissione alla santa volontà di Dio (segreto sicuro di pace), abbiate fiducia in Lei. 3. Confessatevi bene, confessatevi bene, confessatevi bene – spesso, se potete – ma soprattutto bene».

presidenTe deL TribunaLe eccLesiasTicoreGionaLe uMbro

Nel 1939 mons. Frattegiani era stato nominato membro del tribunale ecclesiastico regionale umbro, prima come vice, poi come difensore

del vincolo e infine giudice. Dal 9 dicembre 1951 è presidente e manterrà

l’ufficio fino alla nomina ad arcivescovo di Camerino. Così sintetizza la lunga attività fra’ Giuseppe Mattia, vice presidente dello stesso tribunale:

«Nella numerosa varietà di sentenze pronunziate sono condensate tutte le qualità della sua intelligenza e le doti del suo cuore. A una moderazione

Tribunale ecclesiastico umbro: mons. Frattegiani (a sinistra)con l’arcivescovo mons. Raffaele Baratta e padre Giuseppe Di Mattia

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di giudizio non comune univa la capacità dell’introspezione psicologica, chiara analisi degli atti, acutezza di induzioni insospettabili e di conclusioni inaspettate. Espose riflessioni di vasta problematica e prospettò soluzioni che portarono “un cospicuo contributo alla scienza giuridica” – come ebbe a dire un valente giurista. Infatti molte delle sue pregevoli sentenze sono state pubblicate nelle riviste “Il diritto ecclesiastico” ed “Ephemerides juris canonici”, accolte dagli studiosi con vivo consenso e suscitando note di commento e di proficua discussione. Ha lasciato nell’organo giudiziario eredità di saggezza e amabilità, di compiutezza e ponderazione».

Ricordando la sua esperienza di giudice ecclesiastico, così scrive su L’Appennino camerte del 20 aprile 1974, mentre era in corso l’accesa polemica sul divorzio:

«Devo riconoscere che ieri sera (16 aprile) l’on. Fortuna ha dimostrato di sapere cos’è la Sacra romana Rota, distinguendola dai tribunali ecclesiastici di grado inferiore. Di solito dalle pagine “pulite” di ABC l’onorevole ed i suoi eruttavano facili accuse alla pretesa faciloneria della Sacra Rota di sfornare “annullamenti” purché si pagasse, intendendo, penso, per Rota anche i tribunali di primo e secondo grado, sufficienti da soli ad annullare in caso di sentenza conforme. A parte l’inesattezza del termine “annullare”, la volgarità delle accuse consiste nell’attribuire ai tribunali ecclesiastici una certa larghezza di vedute, purché si paghi. Le statistiche annuali delle “cause paganti” e delle cause di gratuito patrocinio dimostrano la banalità e la mala fede di questa insinuazione. Personalmente ho servito la chiesa in Rota (nel senso largo che i più danno a questa parola oggi agli onori della polemica “sì e no”), per venticinque anni, dodici come difensore del vincolo e tredici come presidente del tribunale ecclesiastico regionale umbro. Porto la gioia in cuore di quanto in coscienza ho potuto, in collaborazione con gli altri ministri e con le sentenze conformi del tribunale regionale superiore o della stessa Sacra romana Rota, ridare gioia a creature travolte in situazioni dolorose, sia pure in conseguenza della propria leggerezza (non sempre). Porto in cuore la tristezza di quando ho detto di no, perché in coscienza mi pareva di dover dire di no. Porto la gioia, di due noccioline americane. Si trattava di una causa di due poveri in canna. Lui venditore di semi salati alle feste del paese, lei una domestica dei tempi passati, quando le “marchette” erano un lusso e la paga era mangiare gli avanzi dei padroni e avere in “regalo” i vestiti smessi della signora. La causa assolutamente gratuita con una modesta spesa di trasferta a carico del nostro tribunale fu, come si dice in gergo, una causa fortunata. Rividi lui, che intanto si era potuto sposare con la sua “seconda”, ad una festa patronale. Mi riconobbe, mi fece festa,

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mi condusse davanti al suo carrettino e indicandomi il bengodi della sua povera mercanzia mi disse: “Sor Bruno prenda quello che vuole”. Esitai. Poi presi due noccioline americane: una pensai per me e una per la Sacra Rota che (allo stesso prezzo) aveva confermato la nostra sentenza. La storia delle noccioline non è soltanto uno spunto autobiografico. È la storia vera della Sacra romana Rota» 8.

iL GiornaLisTa penna nera

Mons. Frattegiani è nel comitato di fondazione del settimanale perugino Il segno, di cui diviene redattore e poi direttore. Il piccolo

settimanale è stampato con caratteri tipografici composti a mano e porta in tante case la parola di Dio. Sono attesi e letti con molto interesse i “corsivi “ e “neretti” di Penna nera, suo pseudonimo.

«Testi – annota un giovane collaboratore – che scoccavano nel bersaglio come i dardi della balestra. Molti, soprattutto i giovani non abituati quel tempo alla lotta politica, scorrevano velocemente quegli scritti per rileggerli, meditarli e discuterli, onde approfondire se non imparare quel metodo polemico che è fatto di onestà professionale e cosciente indagine della situazione. In tal modo mons. Frattegiani è stato considerato anche come maestro di giornalismo».

In seguito passa come redattore a La Voce di Perugia, dove ugualmente e puntualmente è sempre presente con le sue note di forti, ma garbate, puntualizzazioni. Vasta eco ha allora la controversia con l’amico Aldo Capitini sul problema dei sacerdoti di Perugia sospettati di modernismo. Nello stesso tempo collabora con continuità alla rivista quindicinale La Rocca della Pro civitate cristiana di Assisi. Oltre che autore di impegnativi articoli, è anche tra i redattori che rispondono ai quesiti dei lettori su argomenti di fede e morale. Risposte puntuali, piene di dottrina, comprensione e - a volte - di pungente bonaria ironia. Anche altre riviste come Jesus caritas dei fratelli di Foucault e Settimana del clero si avvalgono della sua collaborazione. Più puntuale e duratura è quella con la rivista L’Amore misericordioso, del santuario di Collevalenza, ove ogni mese è presente con una meditazione biblica.

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assisTenTe eccLesiasTicodi azione caTToLica e di aLTre associazioni

Prima è assistente diocesano delle donne di Azione cattolica, poi, più a lungo, della gioventù femminile. Proponendo la sua anima

sacerdotale, ricchissima di umanità e di carità, porta entusiasmo nella vita spirituale e nell’attività apostolica delle giovani. Nel 1963 realizza quella che resterà l’iniziativa forse da lui più amata, una settimana intensa di formazione sui problemi dei giovani “di fronte all’amore”, destinata a tutta la gioventù di Perugia. I giovani di tutte le condizioni sociali sono convocati per discutere i loro problemi, porre domande, cercare soluzioni. Da questa iniziativa nasce l’istituto “Pro domo” a favore della famiglia. Il “Gruppo di spiritualità familiare” ha invece origine dalle associazioni giovanili che mons. Frattegiani chiama “Incontri di Nazareth”; alla sua iniziativa si deve anche l’istituzione del consultorio familiare, affidato ai medici cattolici, dei quali egli è assistente. È altresì assistente dei giuristi cattolici. Per la sua esperienza di giudice del tribunale ecclesiastico ritiene essenziale che la vita religiosa affondi le radici nell’intimo della coscienza; personalmente ritiene essenziale presentarsi agli uomini, a tutti gli uomini, in atteggiamento di servizio della verità. Di vasta efficacia e risonanza l’assistenza religiosa ch’egli presta agli studenti di tante razze e civiltà richiamati a Perugia dalla Università per stranieri. Questa è la testimonianza di mons. Canzio Pizzoni:

«Attività molteplici e varie, vivificate da pietà semplice e costante, mai ingombrata dal suo io che rimaneva nascosto nell’umiltà con cui irradiava la luce del suo ministero».

Vicario GeneraLe di PeruGia

Mons. Frattegiani nel dicembre del 1955 è scelto dall’arcivescovo mons.

Pietro Parente quale delegato arcivescovile ad omnia e dopo due anni, il 12 dicembre 1957, è nominato dallo stesso arcivescovo vicario generale. Appena due anni dopo mons. Frattegiani con sofferenza si decide a presentare le dimissioni. Con umiltà e La fontana di Perugia

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sincerità manifesta al vescovo il suo dissenso per il modo con cui tratta i suoi sacerdoti e la scelta autoritaria di guidare la diocesi, a tal punto che molti lo temono e si tengono lontani, mentre altri lo adulano e sono i suoi confidenti. L’arcivescovo, dopo aver affermato di avere avuto in serbo per lui grandi progetti, lo accusa di slealtà, chiedendogli di mettere per iscritto le sue osservazioni, cosa che Frattegiani con umiltà e obbedienza subito esegue. Tra l’altro descrive con ironia un aneddoto che i sacerdoti andavano ripetendo: all’avvicinarsi del vescovo in visita ad una parrocchia, il cane del parroco avrebbe ringhiato forte e a lungo:

«… bisognava dare la medaglia d’oro al cane perché unico nella diocesi aveva avuto il coraggio di mostrare pubblicamente il suo dissenso, senza paura, al vescovo…».

Ricorda anche che, a una sua timida osservazione per il modo duro con cui aveva tolto l’ufficio di amministratore diocesano all’investito, si sente rispondere testualmente e al modo di sfida: «Ragazzi, io qui voglio solo esecutori di ordini» 9 .

inconTri con Madre speranza

Nel primo anniversario della enciclica di Giovanni Paolo II “Dives in misericordia”, nel santuario della misericordia a Collevalenza

mons. Frattegiani tiene una relazione in cui racconta i suoi incontri con Madre Speranza, cui tra l’altro deve la sua collaborazione alla rivista del santuario. In uno di questi incontri parla proprio della rinuncia a vicario generale.

«Nel settembre 1954, accingendomi al mio primo pellegrinaggio a Lourdes, decisi di saggiare l’ambiente che i più consideravano ancora alla larga e scrissi all’amico p. Arsenio, già appartenente al clero perugino e ora siglato FAM (Figli dell’Amore misericordioso), esponendogli il mio desiderio di fare da solo un corso di esercizi spirituali nel suo Istituto. Naturalmente – dicevo – non volevo essere di disturbo e intendevo pagare. Padre Arsenio mi rispose che ero accolto a braccia aperte. Però soggiungeva perentorio:

Madre Speranza

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“Madre Speranza dice che, se vuol pagare, vada all’albergo”. Appresi così in anticipo che uno degli scopi precipui della casa era l’assistenza ai sacerdoti, un’assistenza intesa nel senso più largo e più completo della parola. E Madre Speranza? Trovai una donna semplice, profondamente pia, molto cordiale, dagli occhi intelligenti e penetranti, soprattutto tanto materna con i suoi “figli”, che l’aspettavano con ansia a turno alla ricreazione della sera. Miracoli? Io di miracoli ne ho visto uno solo e questo miracolo si chiama Collevalenza: la creatura di trent’anni fa è diventata (e non solo dal punto di vista architettonico) un gigante. Interessante nel gennaio seguente (1955) un viaggio in macchina da Collevalenza a Perugia, dove accompagnavamo Madre Speranza a visitare la rinnovata casa del clero affidata ai suoi figli e figlie. Fra me e Madre Speranza nacque una conversazione molto interessante, rivelatrice di autentici “segni” della Provvidenza. È opportuno lasciare la valutazione definitiva alla Chiesa, quando suonerà l’ora di Dio. Desidero solo soffermarmi su un altro momento che segnò nella mia vita una svolta importante. L’incontro con Madre Speranza fu per me – così lo sentii – il sigillo di Dio su un gesto di rinuncia che la coscienza mi spinse a compiere (dimissioni da vicario generale), anche se non tutti lo compresero... Il 23 ottobre 1959 mi recai a Collevalenza perché avevo bisogno di una parola di comprensione se non di incoraggiamento. C’erano con me mamma Annetta e due amici sacerdoti (uno di essi, mons. Tintori, è morto). Appena mi vide (notate, non ci fu domanda, non ci fu saluto!) il saluto venne dopo, Madre Speranza mi disse decisa: “Figlio, te lo ha fatto fare il Signore. Tu da solo non potevi farlo!”. Tanto per sdrammatizzare (e per me fu un dramma) lasciatemi finire con un’altra battuta graziosa della Madre, quando ero già vescovo. Mi diceva delle sue preoccupazioni per la costruzione della grande chiesa e dei padiglioni adiacenti. Ma era Lui che voleva così. Lui, però, padre mio, Lui non ha fatto mai l’economo» 10.

Scrive ancora mons. Frattegiani:

«Ho confessato qualche volta, fin dalla mia prima lettera di saluto, che molto ho sofferto quando ho visto nel nostro mondo allignare l’adulazione servile per i superiori: ho goduto tanto, quando, una settimana prima di venire tra voi, il carissimo santo padre Paolo VI mi fece discretamente capire che conosceva un po’ della mia storia (“tempi difficili” mi disse sorridendo) e fu una delle gioie più grandi della mia vita» 11.

Due circostanze ribadiscono quanto fu importante per mons. Frattegiani l’episodio delle dimissioni da vicario generale: 1. Ordina che la cartella in cui sono contenuti i documenti dell’intera vicenda venga conservata

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nell’archivio della curia della diocesi di Camerino. 2. Nello scarno suo testamento torna sul tema con queste parole:

«Davanti alla morte, dichiaro solennemente che sono tranquillissimo sul mio operato in occasione delle mie dimissioni da vicario generale di Perugia» 12.

La noMina ad arcivescovo di caMerino

Ricco di tanta umanità, dottrina ed esperienza unite a vera umiltà e disponibilità mons. Frattegiani riceve la visita del suo arcivescovo

mons. Raffaele Baratta che gli comunica ufficialmente la nomina ad arcivescovo di Camerino: è il 14 gennaio 1964. Nella sua prima lettera pastorale ai nuovi fedeli, “Ecce venio”, del 16 aprile con semplicità racconta come ha reagito all’annunzio.

«Cercai notizia di Camerino per enciclopedie e annuari, aprendo poi il libro dei Salmi lessi quasi a caso “Affida al Signore la tua strada e confida in Lui e Lui farà”. Più tardi appresi con gioia che il 14 gennaio a Camerino si celebra con solennità la festa della Madonna con il titolo di Santa Maria in Via, quasi la Madonna volesse prendermi con mano per condurmi per la nuova strada a cui il Signore mi chiamava. Il 15 mattina celebrai la mia prima messa “Pro Camerino” in onore della Vergine Santissima e mi affrettai a mettere sotto il manto della Madonna tutte le

Con i suoi parrocchiani di Migiana

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anime che il Signore mi affidava. (Pensate che gioia quando nel duomo di Camerino vidi quel manto e sotto un gruppo simbolico di voi nella bella immagine della Mater misericordiae). Seguì un pellegrinaggio al santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza e alcuni giorni dopo decisi di recarmi a Loreto. Non vi dico quanto la mia buona mamma, che mi aveva seguito nel pellegrinaggio di Collevalenza e che fu invitata al secondo, si meravigliasse di questa improvvisa mania di pellegrinaggi: sarebbe stato così bello con il tempo buono a primavera! Nella Santa Casa ripetei le parole con cui il Verbo incarnato, entrando nel mondo e quindi all’unisono con il fiat di Maria, dichiarava la sua totale dedizione alla dolce volontà del Padre: “Ecce venio”. Passando velocemente a Camerino, appresi che la cattedrale è dedicata al mistero soavissimo e augusto dell’Annunciazione; una delle gioie più belle di quante finora Camerino abbia potuto darmi. Ho fatto memoria di pellegrinaggi e non ho pensato di dirvi che la mia preparazione più bella a questa vocazione di Abramo, che mi invita a lasciare la mia terra per seguire voi nella vostra terra benedetta, è stato il pellegrinaggio nella patria di Gesù nello scorso settembre. Mi piace ora riaccostare Nazareth e Loreto e tutte e due alla cattedrale di Camerino».

Mons. Frattegiani trascorre a Prato la preparazione immediata alla sua venuta a Camerino, “durante la settimana santa in profondo raccoglimento, con al centro riassorbito nella liturgia, ma più che mai vibrante nello sfondo della passione, la festa della Santissima Annunziata”.

La consacrazione episcopaLe

Mons. Frattegiani è consacrato vescovo il 19 aprile 1964 nella cattedrale

di Perugia gremita di fedeli di Perugia e Camerino. Consacrante è mons. Baratta, arcivescovo di Perugia; conconsacranti mons. Ubaldi vescovo di Gubbio e mons. Fiordelli vescovo di Prato. Presenti mons. D’Avack, mons. Campelli vescovo di Cagli e Pergola, mons. Pronti vescovo di Nocera Umbra, mons. Lajoli vescovo di Amelia. Al pranzo mons. Giacomo Boccanera porta l’augurio della diocesi di Camerino e illustra i punti di contatto geografici, filologici, storici

Ordinazione episcopaledi mons. Frattegiani

nella cattedrale di Perugia (1964)

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tra Perugia e Camerino. Il predecessore mons. D’Avack parla, in piena coerenza col suo messaggio di fondo (anche la sua presenza è in linea con quella logica): quanta consolazione oggi – afferma – perché si realizza la volontà del Signore, ancora la maestosa “voluntas Dei” anche nel distacco per chi va e chi viene, per gli uomini e per la diocesi 13.

La priMa LeTTera pasToraLe

Mons. Frattegiani, prima di entrare a Camerino, invia la lettera pastorale “Ecce venio” in cui ricorda anzitutto ciò che del vescovo

afferma il Concilio Vaticano II:

«Il vescovo è per il servizio (diakonìa) nella comunità e per la comunità cementata dalla comunione con Cristo (koinonìa)».

E perciò:

«Così ci stimi ognuno: come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora dagli amministratori si chiede che si dimostrino fedeli: questo vi ripeterò con San Paolo e dovrò soggiungere con lui che non mi è lecito tenere per metro il vostro giudizio perché il giudice è soltanto il Signore. Ma nello stesso tempo vi dico: non mettete mai, per amore di Dio, una cartina fumogena d’incenso tra voi e me. Non danneggiate la mia vista che deve scrutare sempre solo la volontà di Dio e la sua gloria e il suo amore. Il vescovo viene a voi come Gesù: non per essere servito ma per servire e perdere la sua vita. Viene a promuovere la comunità dell’amore e ha bisogno di amore e di sincerità. Il vescovo ha bisogno dell’atmosfera serena dell’agape, della sincerità dei fratelli e dell’amore e della devozione meditata e riflessa dei figli. Quello che vorrei che insieme cancellassimo per sempre dal nostro stile, è l’espressione cortigiana e servile, la pratica continua dei “tre tiri doppi”, il donabbondiesco “forte petto e zelo imperterrito di vossignoria illustrissima”. Vi meraviglierete che vi parli così e non vorrei che pensaste che io ritengo questo stile, il vostro stile. Ma è un andazzo che pesa un po’ dappertutto e risente quella visione non del tutto soprannaturale, che ci richiama la descrizione fosca di Pascal: “Dire la verità è utile a colui a cui viene detta, ma dannosa a chi la dice, perché così si fa prendere in odio”. O le parole della beata Camilla Battista: “Soli Deo honor et gloria”. Se mai dirò parole che mi tornino di onore, tu che ogni cosa puoi, fammene tornare in vergogna e confusione».

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C’è in queste parole un amaro ricordo della sua veloce esperienza di vicario generale della arcidiocesi di Perugia?

Il piano pastorale - «Voi vorrete sapere – dice mons. Frattegiani – qual è il mio programma, ma io non ho altro programma che quello di fare la volontà di Dio e di volervi bene e di spendermi tutto per voi e non ho altro appoggio che la sua grazia e la benedizione della Madonna santissima. Ci sono da fare anche i piani, ma questi piani io debbo farli con voi fratelli sacerdoti e, perché no?, attraverso l’articolazione delle parrocchie, delle associazioni, dei gruppi, attraverso gli stessi contatti diretti anche con voi, figli carissimi del laicato camerinese. Ripeto con S. Ignazio: chi onora il vescovo è amato da Dio; chi opera ad insaputa del vescovo serve il diavolo. E con San Cipriano: nulla senza il vostro consiglio e senza il beneplacito del mio popolo. E io sogno il collegio sacerdotale di Camerino come S. Ignazio descrive quello di Efeso, armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra. Quello che non è possibile alla natura egoistica è possibile alla Grazia».

Lo stemma - «Ho scelto una fontana come stemma e non deve parervi strano che la mia attenzione si sia fermata alla fontana maggiore di Perugia. La fontana maggiore situata dalla parte del Vangelo dell’altare maggiore della cattedrale sembra realizzare plasticamente la gioiosa antifona pasquale che poi riassume il capitolo 47 di Ezechiele, una profezia a cui Gesù allude nel passo “Ho visto un’acqua che sgorgava dal tempio al lato destro, alleluia, e tutti quelli a cui è giunta quest’acqua sono stati salvati e dicono: alleluia, alleluia. La mia fontana vuol essere la fontana di Pasqua, la sorgente dello spirito sgorga dal cuore squarciato di Cristo e voi attingerete acqua con gioia alla sorgente del Salvatore. La mia fontana scroscia in un canto di festa che richiama l’Exultet e ripete al mondo, che non si accorge di morire di sete, la buona novella, l’unico Vangelo di salvezza. La morte che ha sconfitto la morte per sempre è il prezzo di quest’acqua, che si prende senza argento e dona la vita. La mia fontana vuole essere il simbolo dell’umanità di Cristo strumento congiunto della divinità per il grande dono della grazia e in particolare il simbolo del Cuore sacratissimo, che nella funzione di sorgente dello Spirito Santo ha la più profonda certificante giustificazione teologica. La mia fontana vuole essere il simbolo vero della Chiesa “del sangue incorruttibile conservatrice eterna”. (...) La Chiesa, aveva detto un giorno l’amatissimo papa Giovanni, è come la vecchia fontana del

Lo stemma episcopaledi mons. Frattegiani

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villaggio… Penso alla fontana di Nazareth soffusa di tanta dolcezza per il ricordo della “benedetta” che vi attinse acqua. Penso alla fontana di Gibran, l’unica sorgente di Gerusalemme, ma che i cristiani arabi chiamano “ain sitti Mariam” (fontana della signora Maria). Nel piano attuale della Provvidenza senza Maria non si concepisce Gesù: la prima vena della sorgente è Lei. Ma nello stemma in alto ho preferito un’immagine più piana e tradizionale. La gioia di essere abbandonati nelle braccia del Padre non ci toglie alle tempeste e alle tentazioni della vita, ma nel mare in tempesta c’è la stella. “Guarda la stella, invoca Maria” (S. Bernardo). Non ho altro da dirvi, se non invitarvi a salutare insieme la Madonna Mater nostra, fiducia nostra. …In cammino per le strade di Abramo ho anche io il mio posto di tappa dove piantare la tenda. Nella mia strada c’è la Madonna, voi la chiamate S. Maria in via. Con lei non ci stancheremo mai di riprendere il cammino».

L’inGresso in diocesi

Il 3 maggio 1964 mons. Frattegiani fa il suo ingresso in diocesi come arcivescovo

di Camerino. Accolto ai confini della diocesi, a Serravalle di Chienti, riceve il saluto delle autorità civili e religiose e, accompagnato da una cinquantina di macchine e scortato da un folto gruppo di motociclisti, giunge a Camerino nella piazza prospiciente S. Maria in via, dove il vicario capitolare mons. Giulio Splendiani declama:

“La diocesi ha camminato con passo sicuro, retta da uomini forti e dolci, in questi decenni. Ho l’onore di presentare una diocesi viva, una diocesi che l’attendeva e già la ama. Santa Maria in Via e la Mater Misericordiae, sotto il cui manto è cominciato il vostro ingresso; san Venanzio e sant’Ansovino, al cui patrocinio siamo tutti affidati; la volontà nostra, clero e laici, è con l’eccellenza vostra”.

Poi il sindaco Libero Polzonetti dà il Santa Maria in via

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benvenuto della città:

“… di qui incomincia la città, è la nostra Camerino, ricca di fede e di amore”.

Quindi in processione con tutto il clero e i numerosi fedeli raggiunge la cattedrale, dove celebra un solenne pontificale e riceve l’obbedienza del clero. Spiega la missione del vescovo con un’omelia dal tono dialogante e brioso – nota il cronista – pieno di bontà, di dottrina calata sugli avvenimenti, affermando con forza che dovrà dire “luce alla luce, tenebre alle tenebre” 14. Il 10 ottobre 1964 mons. Frattegiani, insieme a molti altri arcivescovi, riceve l’imposizione del sacro pallio. Tra gli altri c’è anche l’arcivescovo di Cracovia, mons. Karol Wojtyła, il quale il 10 ottobre dell’anno successivo scrive a Frattegiani la seguente lettera:

«Excellentissime Domine gratitissimum mihi est in memoria revocare me eodem die ac Excellentia tua Sacrum Pallium ex corpore Beatissimi Petri Apostoli a Summo Pontefice postulasse atque obtinuisse. Dum ergo Excellentiae Tuae pro collatione huius signi muneris ac honoris ex toto corde congratulari cupio exortare simul audeo ut, hac simultanea S. Pallii impositione Ecclesiae nobis commissae non solum cum Beati Petri sepulcro et cathedra, sed etiam sibi ad invicem profundius constringantur. Quod vincolum ut in mentibus, in cordibus et presertim in orationibus nostris remaneat, humiliter adprecor ac me ipsum Excellentiae Tuae profiteor, addictissimus Carolus Wojtyla» .

Questa la traduzione:

«10 ottobre 1965 - Mi è molto gradito ricordare che io ho postulato e ricevuto il pallio sacro proveniente dalla tomba di S. Pietro apostolo per mano del Sommo pontefice lo stesso giorno di tua eccellenza. Mentre dunque desidero cordialmente congratularmi con te per il conferimento di questa insegna di ufficio e di onore, esprimo il desiderio che anche le nostre Chiese si stringano sempre più compatte non solo al sepolcro e alla cattedra di Pietro, ma anche fra loro. Chiedo umilmente che questo vincolo rimanga nelle nostre menti e nei nostri cuori e soprattutto nelle nostre preghiere e mi professo di tua eccellenza devotissimo in Cristo» 15.

La corrispondenza prosegue per alcuni anni. Il conferimento del pallio a mons. Frattegiani acquista significato particolare perché è l’ultima volta che un arcivescovo di Camerino ne viene insignito, in quanto per disposizione

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della Santa Sede il diritto sarà eliminato in occasione dell’unificazione a Camerino della diocesi di Sanseverino Marche.

iL conciLio ecuMenico e L’aGGiornaMenTo dei sacerdoTi

Pochi mesi dopo l’ingresso a Camerino mons. Frattegiani prende parte alla quarta sessione del Concilio ecumenico Vaticano II e vi

partecipa con assiduità e vivacità fino alla chiusura dell’8 dicembre 1965. Accoglie il concilio con entusiasmo, lo vive con impegno, chiede con zelo

la realizzazione in diocesi. Così scrive dal Concilio:

«Nulla saprei ridirvi dell’emozione profonda - ma pacata e tranquilla - vissuta questa mattina nell’aula conciliare. Dal punto di vista esteriore, folcloristico, sotto la luce potente delle lampade, era come una immensa festa

Mons. Frattegiani (a destra) in piazza San Pietro, durante una pausa dei lavori del Concilio. Insieme a lui gli arcivescovi “emeriti” di Camerino, mons. Giuseppe D’Avack (a sinistra)

e mons. Umberto Malchiodi (al centro)

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di fiori. Ricordando Cesi e i suoi gerani, m’è venuta spontanea l’immagine di una luminosa “sagra dei gelsomini”. E mi sono per un momento commosso, mentre la bianca figura del Papa si allontanava, pensando che un Concilio è sempre una primavera per la Chiesa. Come a giustificare l’ottimismo, di cui vi parlavo durante la bella Messa di S. Maria in Via, il S. Padre - portandoci al di là delle parvenze e delle sagre e delle fioriture - ci ha ridetto il senso della realtà di stamane e di questi altri giorni grandi, che vi invito ancora a rivivere dentro di voi nella riflessione e nella preghiera. Noi facciamo la Chiesa. Come sacerdoti, è vero, e come maestri e pastori. E questo al vostro servizio, cari fedeli. Ma prima di tutto facciamo la Chiesa come membri del Popolo Santo di Dio e in questo siamo accanto a voi e come voi, dopo il cammino della vita, riceveremo il premio non nella misura del grado rivestito ma nella misura della risposta all’amore del Padre, manifestatosi in Gesù per mezzo dello Spirito Santo. Spiritus hic adest. Lo Spirito Santo è qui, in mezzo a noi. È fra i Padri del Concilio, per i quali si esprime infallibilmente la Chiesa docente. Ma è in ciascuno di noi e nella comunità dei fedeli - ed in ciascuno attraverso la comunità - perché la vostra vita di grazia, alimentata dall’Amore, «risplenda davanti agli uomini e vedano le opere vostre buone e glorifichino il Padre che è nei cieli» (S. Matteo 5-16). Vi trasmetto il saluto e la benedizione del Santo Padre. A tutti, e particolarmente ai sacerdoti, ai religiosi, ai laici che lavorano nelle varie organizzazioni apostoliche, ai sofferenti, ai poveri. E a tutti ricordo l’invito del Papa a santificare le quattro tempora di settembre (23, 25, 26) per la buona riuscita del Concilio. “Osservi chi lo può egli ha detto, il digiuno nei giorni indicati e ciascuno si faccia obbligo di praticare qualche esercizio di mortificazione e di penitenza; e si dia premura di rivolgere al Signore alcune speciali preci espiatorie e impetratorie”. È per rispondere in forma solenne al suo invito che vi aspetto tutti sabato 26 alle 17 in cattedrale. Da lì muoveremo in processione di penitenza fino a S. Venanzio, dove una solenne liturgia stringerà Camerino al Concilio e al Papa in un palpito di fede, di devozione e di amore. In attesa di questo benedetto incontro, vi porto ogni giorno con me in S. Pietro e cordialmente vi benedico. Roma, 14 settembre 1964» 16.

Afferma mons. Bittarelli:

«Mons. Frattegiani si è formato con assoluta serenità nel capoluogo umbro ove l’area clericale agli inizi del secolo, prima che egli fosse, era stata scossa da una sconcertante, ma valida stagione allora definita modernista; superate con operoso distacco le lotte interventiste del dopoguerra, si è trovato tra i più pronti in Italia a respirare fino in fondo il Concilio nelle più sostanziose

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correnti teologiche e pastorali» 17.

Dal Concilio informa attraverso L’Appennino camerte sacerdoti e laici della diocesi sui temi al centro delle discussioni, approfondendo ogni problema senza rinunciare allo stile giornalistico, brillante e gustoso, acquisito in anni lontani. In particolare invita i parroci a sottolineare con speciali funzioni e appropriata catechesi l’importanza dell’avvenimento per la vita della Chiesa. Raccomanda caldamente di seguire e far seguire su “L’Avvenire d’Italia” i servizi sul concilio. Consiglia di propagandare al massimo gli abbonamenti trimestrali a detto giornale e di promuovere circoli di studio fra i giovani, di organizzare dibattiti, opportunamente guidati; suggerisce infine di acquistare il volume di Raniero La Valle, che il teologo francese René Laurentin giudica come la migliore informazione d’Italia e forse del mondo. Racconta con ironia la sua delusione per non aver potuto illustrare all’assemblea generale del concilio un puntuale intervento su cui aveva molto lavorato. Non sa infatti che per parlare all’assemblea non basta depositare lo scritto, ma occorre esplicita richiesta. Il tema non è marginale, né privo di motivazioni: sottolinea la necessità di predicare più intensamente la situazione finale della nostra salvezza, quella che farà seguito senza mutazione alla risurrezione dei corpi e al ritorno glorioso di Cristo, e nello stesso tempo la necessità di combattere certe forme devozionali affette da terrorismo, individualismo, fariseismo e a volte perfino da superstizione 18. In seguito noterà con gioia che un suo divieto, più volte espresso come conseguenza del suo pensiero su un certo canto, o almeno su una certa strofa che rattristava la liturgia del mese di novembre, aveva trovato un’autorevole conferma in un libro di mons. Arialdo Beni (Teologia: problemi d’oggi, ed. Ares, Roma 1972) che recita: «Accanto alla misteriosa sofferenza, nel purgatorio ci sono sicuramente anche tante gioie. Oh, quanto è falsa quella lauda popolare che fino ai suoi tempi il santo cardinale Elia Della Costa aveva saggiamente proibito ai suoi diocesani e nella quale si canta di fratelli “afflitti e piangenti che… sommersi nel fuoco di un carcere orrendo, ti gridan piangendo perdono e pietà”» 19. Due altri interventi di mons. Frattegiani riguarderanno uno lo schema della Chiesa nel mondo (piuttosto critico sotto l’aspetto formale) e l’altro lo schema della libertà religiosa. Nel secondo l’arcivescovo sostiene la necessità della libertà religiosa anche nei luoghi ove la Chiesa per ragioni storiche si trova in posizione di fatto privilegiata. L’uomo di oggi vuol sapere dalla Chiesa se essa viene per comandare o per servire e dare se stessa come il Maestro (Mt 10,45), se viene umile e mite 20. Sul tema della conciliarità, su cui a suo tempo aveva mostrato la più

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piena adesione, una decina di anni dopo rilascerà ad Adriana Zarri per il giornale “La Stampa” di Torino una lunga, articolata, meditata intervista, in cui con semplicità e chiarezza risponde alle domande un po’ provocatorie dell’intervistatrice. Ecco la risposta alla prima:

«Mi permetta di cominciare con un atto di fede: credo con fermezza quanto ha deciso solennemente il Concilio Vaticano I e credo con pari fermezza quanto il Concilio Vaticano II non ha definito, ma ha autorevolmente insegnato, dando così il via – inequivocabilmente – a un magistero ordinario e universale. Essendo l’oggetto di tale magistero senza la minima ombra di dubbio contenuto nei documenti della rivelazione, non vedo come possa sottrarsi all’ambito della verità da credere fede divina e cattolica. Va da sé quindi che il mio credo comprende, pari pietatis affectu, il primato di Pietro e il Collegio apostolico, la giurisdizione immediata del Papa e la corresponsabilità del Collegio dei vescovi» 21.

Terminato il Concilio, nell’agosto dell’anno successivo propone ai sacerdoti “Una settimana di raccoglimento e di studio per approfondirne le costituzioni e i decreti presso il Centro internazionale Pio XII di Rocca di Papa”. Di persona presiede tutti gli incontri, dando un tono di grande serenità e semplicità, creando così un clima di vera fraternità e dialogo. La

Con il gruppo di sacerdoti diocesani a Rocca di Papa, ad uno dei convegni sul Concilio Vaticano II

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settimana viene ripetuta, sempre a Rocca di Papa, negli anni 1967, 1968, 1969; i partecipanti aumentano progressivamente: dai quaranta del 1966 si passa ai settanta del 1969. Vengono allora approfondite le costituzioni “Lumen gentium, Gaudium et spes, Dei Verbum, Sacrosanctum concilium, Presbiterorum ordinis”. Maestri delle settimane sono p. Lombardi, p. Rotondi, p. Paludet, p. Cubero, p. Taggi e il prof. Tommaso Federici dell’ateneo di S. Anselmo. Nel 1970 la Settimana si tiene ad Ariccia, dove l’argomento specifico è la “Unitatis redintegratio”; ne è guida lo stesso arcivescovo, nominato membro della commissione della CEI per l’ecumenismo: ad essa partecipano anche sacerdoti di altre diocesi italiane; vi intervengono come relatori don Germano Pattaro, don Mario Cuminetti, mons. Luigi Mari 22. Nel ricordo e nell’animo dei partecipanti agli incontri – nota un cronista de L’Appennino camerte – restano i segni:

«… profondità e ricchezza dei maestri del corso; il rinnovamento conciliare di un clero sufficientemente aperto, una serie di propositi personali, assolutamente insondabili, suscitati dalle serene e pie giornate di Rocca di Papa; una esperienza consumata e tesa a maggiormente saldare i vincoli del comune sacerdozio, piano pastorale per un anno di lavoro, tanto ottimismo nell’immancabile successo del piano salvifico del Signore» 23.

Per disposizione dell’arcivescovo incontri per la formazione del clero proseguono con giornate di studio presso l’Università di S. Anselmo, ove sono maestri dom Adrien Nocent, Elio Marsili, Tommaso Federici, p. Giordano Murano. Il prof. Federici, dietro invito dell’arcivescovo, per alcuni anni dirige l’aggiornamento del clero negli incontri sacerdotali del mercoledì. Dom Adrien Nocent è il maestro delle “tre giorni” diocesane su evangelizzazione e sacramenti. Gli incontri fuori diocesi non interrompono le tradizionali “tre giorni” estive di Camerino. Per la partecipazione attiva ai lavori del Concilio, l’arcivescovo viene subito designato membro della commissione teologica della CEI ed eletto direttore del terzo gruppo di studio sulla relazione generale di mons. Carlo Colombo “Cultura teologica del clero e del laicato”. Il tema del gruppo ha come argomento “Le questioni di contenuto teologico nell’aggiornamento post-conciliare”. Questa la conclusione di mons. Frattegiani:

«Sarebbe un errore intervenire in forma drastica per far tacere quelle voci che sembrano troppo aperte. Dovere dell’episcopato è di accostarvisi con simpatia per cogliere quanto di buono vi è nelle esigenze di ognuno, con

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la necessaria umiltà di chi sa che tutti abbiamo bisogno di aggiornamento. Nasce ciò da un’esigenza di fede testimoniata e dalla convinzione che non siamo noi a possedere la verità, ma è la verità a possedere noi» 24.

Ancora come membro della commissione teologica, mons. Frattegiani ha l’incarico di introdurre il dibattito preparatorio della delegazione italiana alla partecipazione al simposio internazionale dell’episcopato europeo di Coira in Svizzera, dove poi come membro partecipa attivamente ai gruppi di studio 25.

iL proGraMMa pasToraLe

Il 21 febbraio 1965, a soli dieci mesi dal suo ingresso in diocesi, mons. Bruno Frattegiani scrive la seconda lettera pastorale “Cantate Domino

canticum novum”, con la quale indice la prima visita pastorale alle tante parrocchie della diocesi. È una lettera fondamentale per comprendere l’apertura ai grandi temi trattati nel Concilio ecumenico Vaticano II e la sensibilità e la profondità con cui li presenta e li approfondisce per una concreta innovativa attualizzazione nella vita quotidiana del cristiano. La lettera suscita interesse anche al di fuori della diocesi e riscuote grande consenso. Varie personalità ecclesiali gli fanno conoscere il loro interessamento e apprezzamento. Alcune riserve ci sono a motivo dello spirito innovativo ritenuto eccessivo da alcuni esponenti conservatori della curia romana. Per comprendere appieno il progetto pastorale dell’arcivescovo è indispensabile leggere attentamente l’intera lettera in appendice. Eccone però alcuni brani.

«1. Rinnovamento della predicazione. La visita pastorale – ho detto nel titolo – vuol essere un servizio di un rinnovamento liturgico prima di tutto nella predicazione. Rinnovamento liturgico in questo campo significa incamminarsi per la strada maestra della Bibbia e della liturgia, impegnarsi a leggere e a meditare e a studiare la Bibbia sia nello scrigno prezioso dei libri santi, sia nell’ostensorio mirabile della sacra liturgia, destinato a riflettere di quei libri le luci più vive sul cammino del popolo di Dio, decidersi a far parte di quei tesori ai fedeli di ogni ceto con sapiente dosaggio e a tirar fuori quell’ostensorio dal cumulo di sovrastrutture sotto il quale abbiamo tante volte sepolto la verità e la vita, limitandoci spesso a dare col contagocce quello che la Chiesa dal cuore di Cristo rovesciava a fiumi (vorrei sempre ricordarvi il mio Haurietis aquas cum gaudio).

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2. Rinnovamento della liturgia. La realtà luminosa la trovate leggendo il racconto dell’istituzione dell’eucarestia, tenendo conto del rituale d’uso che contemplava il ricordo esplicito della prima Pasqua (la proclamazione). L’indomani c’è la Croce, poi ci sono la Risurrezione e la Pentecoste, in una parola la Pasqua nel suo duplice aspetto di morte e di vita, la Pasqua che la cena santa anticipa, la messa cuore della Chiesa e sintesi della sua vita incessantemente ripresentata. Mai la Chiesa (convocazione del popolo di Dio) è così Chiesa come durante la messa. Mai la vostra parrocchia così pienamente rappresenta la Chiesa cattolica come quando la vedete radunata intorno all’altare. Il Concilio mette in evidenza il fatto di questa concezione integrale quando afferma che “dal costato di Cristo morente è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa”, ma ha cura di sottolineare il carattere specifico del momento liturgico: la liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa per mezzo di segni visibili viene significata e, in modo proprio, realizzata la santificazione dell’uomo e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo, è azione sacra per eccellenza e nessun’altra azione della Chiesa allo stesso titolo e allo stesso grado ne eguaglia l’efficacia. 3. Rinnovarci nella vita per insegnare con l’esempio la retta impostazione dell’esistenza cristiana, troppo spesso paralizzata dalle pastoie di un moralismo legalistico e gretto, quando nostro Signore ci invita a lanciarla per le piste animose della sua sequela e San Paolo ne scandisce i passaggi al ritmo della sacra azione liturgica (Rom. 12,1): “Vi esorto fratelli per la misericordia divina a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito al Signore come culto spirituale...”. Spirituale nell’originale greco di S. Paolo è “logikos” e il teologo protestante Karl Barth preferisce tradurre proprio nel senso di logico: la logica cristiana di dare tutta la vita come offerta a chi si è dato tutto a noi nell’infinità dell’amore. 4. Affido il poco (tanto poco) di quello che avevo nel cuore alla Madonna, alla nostra santa Vergine in Via. ... Nella sua festa del 1965 Le ho chiesto più che mai di guidarci per la strada che Ella stessa ci mostra in Gesù, Suo figlio, via, verità e vita. Sono i tre momenti del nostro rinnovamento. E sono nelle sue mani. Che la Vergine santa le innalzi a benedirci tutti, come io cordialmente voi e le anime a voi affidate benedico con il saluto di S. Paolo (Cor 13,13): “L’amore di Dio e la grazia del Signore nostro Gesù Cristo e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi. Amen”» 26.

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Dal Concilio quattro linee di programmazione pastorale

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La parola di Dio Invito a conoscere, amare, pregare,

proclamare la parola di Dio

L’11 luglio 1964 mons. arcivescovo scrive una lettera ai sacerdoti per invitarli alla “tre giorni” diocesana sulla conoscenza della Bibbia.

«Invito con gioia tutti i confratelli sacerdoti alla “tre giorni” biblica che terremo in Camerino dal 3 al 5 agosto 1964. Dico con gioia e spero una corrispondenza con gioia, perché sia un po’ vero nella comunione degli animi il motto della fontana del mio stemma: haurietis aquas cum gaudio. E per cominciare non potrebbe esserci una cosa più bella di questo accostarci insieme “alle sorgenti della salvezza, che dal libro sacro sprigionano con la ricchezza e la pienezza di Dio”. Il tema generale è desunto da S. Paolo (2 Cor 1,20) “... tutte quante le promesse di Dio sono divenute Sì in Lui” e vuole aiutarci a vedere l’Antico Testamento alla luce del Nuovo. (...) Aspetto tutti con gioia, sarà per noi tutti il punto d’incontro e di partenza. Possa lo studio amoroso della Parola di Dio rendere vero di noi quello che l’autore degli Atti diceva dei primi discepoli e servitori della parola: “Erano pieni di gioia e di Spirito Santo...”» 27.

Scrive ancora il 28 luglio 1964 in prossimità dell’inizio della “tre giorni”:

«Cari fratelli sacerdoti, spero vedervi tutti alla “tre giorni”: so il vostro amore alla genuina cultura sacerdotale e vi farei un torto a sottolineare l’importanza formidabile del tema e la sua bruciante attualità nell’atmosfera gaudiosa del Concilio che proprio per tramite santo della Parola di Dio sta lanciando ponti di un grandioso movimento ecumenico con l’audacia di una rinnovata Pentecoste. Papa Giovanni ne comunicò al mondo l’intenzione profetica e papa Paolo l’ha inaugurata nella meravigliosa epifania di Gerusalemme e di Nazareth e di Betlemme. Di papa Paolo i protestanti hanno ammirato la solida impostazione biblica,

Seduta plenaria del Concilionella basilica di San Pietro

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sentendovi la base di ogni possibile dialogo ecumenico (così Cullman, 15 luglio 1964). Ogni prete senza Bibbia è un prete zero. Zero in parrocchia, zero a scuola di religione, zero in tutto. E ogni ritorno amoroso alla Bibbia è un ritorno alla giovinezza sacerdotale. Siccome vi sogno tutti giovani a cominciare dagli ottuagenari, vi aspetto» 28.

Lo svolgimento si articola in sette lezioni del prof. d. Carlo Ghidelli di Crema e meditazioni bibliche e comunicazioni di carattere pratico di mons. Gioacchino Scatolon, segretario dell’Associazione biblica italiana. Questo il commento del risultato della “tre giorni”:

«Il clero camerte ha respirato un’atmosfera di spiritualità intensa, quasi una teofania rivissuta nello studio e nella preghiera. Il giovane maestro è stato dotto indicatore del piano salvifico di Dio, esposto nella Bibbia, nella liturgia, nella Chiesa, nel sacerdozio; il direttore è stato suadente organizzatore dell’associazione biblica tra il clero camerinese. L’arcivescovo mons. Frattegiani è stato ardentissimo suggeritore di note per la vita quotidiana nel moderno piano della santificazione del sacerdozio e del popolo cristiano. Ora che la “tre giorni” sacerdotale si è chiusa possiamo raccogliere alcune constatazioni: primo, il clero è stato presente battendo ogni record post bellico, è stato assiduo a tutta la manifestazione; secondo, l’arcivescovo ha infuso all’iniziativa freschezza di toni e calore di convinzioni; terzo, un tema si è venuto imponendo in tutta la sua urgenza e grandezza: la conoscenza della Bibbia e la sua trasmissione al popolo cristiano» 29.

Questo il commento di mons. Frattegiani nella lettera “Verso il Concilio” del 29 agosto 1964:

«... Ai cari fratelli sacerdoti ricordo il modestissimo impegno della lettura corale del Nuovo Testamento con inizio dal 1° settembre, unico frutto immediato della nostra ““tre giorni” biblica”. Anche questa lettura può farsi centro di diffusione di gruppi di Vangelo in seno alle nostre associazioni, nelle scuole, in riunioni di famiglia. L’unico frutto, ho detto con una tinta di pessimismo forse. Nella “tre giorni” accanto alla consolante partecipazione del clero dobbiamo lamentare qualche difetto di impostazione, come il carico eccessivo di lezioni e pratica impossibilità di discutere; l’esperienza ci servirà per un’altra volta, ma l’unico frutto apparente può essere un’autentica benedizione se diventa per noi l’avvio metodico e deciso con un contatto quotidiano amoroso con la Parola di Dio, una quotidiana comunione eucaristica. Ogni settimana su L’Appennino camerte il direttore ci riserva un angolino per ricordare le direttive di marcia e favorire l’unisono. Servirà

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anche a tenerci vicini nel Signore durante la lontananza del Concilio e poi sempre. La riuscita della “tre giorni”, del resto, mi sembra che sia consistita essenzialmente in questo: vescovo e sacerdoti ci siamo veramente incontrati. Ho l’impressione che ci siamo capiti e che si sia stabilita in Domino la nostra perenne sacerdotale amicizia» 30.

Nasce così una rubrica settimanale su L’Appennino camerte condotta dallo stesso arcivescovo che indica il testo da leggere con il relativo commento. La lettura del Nuovo Testamento, una lettura corale, un coro nell’unità dello Spirito Santo che ci stringe al Signore per condurci al Padre, un coro che si ispiri alla devozione di Maria per la Parola che l’ha fatta Madre nella mente, prima che nel corpo. Alla lettura del Nuovo segue quella del Vecchio Testamento. “Il Quadrante” – come veniva chiamata la rubrica – è presente nel settimanale dal 4 ottobre 1964 al 30 dicembre 1969. Riprende poi a commentare vari brani dell’Antico e Nuovo Testamento ne L’Appennino camerte degli anni 1973 – 1974. Come auspicato e suggerito da mons. arcivescovo nella lettera “Verso il Concilio”, i “Quadranti biblici” sono letti in diocesi e anche fuori diocesi dai tanti abbonati de L’Appennino camerte: molti sono i sacerdoti, i religiosi e i laici che fedelmente, con entusiasmo, ogni settimana leggono, meditano e pregano coralmente la Parola di Dio. Dalle parrocchie e dalle associazioni sono costituiti gruppi di studio per approfondire insieme i brani commentati nei “Quadranti”. A Camerino lo stesso arcivescovo dirige un gruppo biblico di giovani, che puntualmente ogni venerdì nel tardo pomeriggio si riunisce in episcopio. Vengono poi istituiti i mercoledì biblici 31 presso la libreria “Loggia di Sisto V”, guidati da autorevoli biblisti e teologi, p. Zerwich, p. Ortensio da Spinetoli, p. Flick, p. Beni, don Valsecchi, p. Grasso. In diocesi si stabilisce una vera gara, si diffonde una vera gioia nello scoprire la bellezza, la profondità e la ricchezza della parola di Dio. Intanto nel gennaio del 1967 esce, pubblicato dalla editrice del santuario di Collevalenza, il volumetto “Le strade dell’Amore misericordioso” contenente le meditazioni bibliche sulla Genesi e sull’Esodo di mons. Frattegiani, apparse sulla rivista dello stesso santuario negli anni 1960-1962. Dai “Quadranti” de L’Appennino camerte nel 1968, edito dalla Queriniana, esce il volume “La strada di Emmaus (cento settimane per l’Antico testamento)”. Nel 1969, curato dalla editrice Trevigiana, il volume “La strada di Gerusalemme (cinquanta settimane per il Nuovo testamento)”. Nel 1971, edito dall’ufficio pastorale di Ascoli Piceno, il volume “Le strade di S. Paolo” e della stessa editrice, nel 1975, il volumetto “S. Maria in Via, meditazioni

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bibliche sulla Madonna”. Nel 1977, edito ancora dal Santuario dell’Amore misericordioso, il volume “Cercavi me Signore? Spunti per una meditazione del quarto Vangelo”, che riporta gli articoli di Frattegiani sulla rivista “Amore misericordioso”. Su queste pubblicazioni mons. Frattegiani scrive:

«Ancora una volta ho finito… con la preghiera della Beata Battista da Varano: “Recòrdate Redentor mio benigno di quello che ho avuto voglia di fare e non di quello che ho fatto”. Come le strade delle cento settimane (la strada di Emmaus) affinché pure questa delle cinquanta alla celeste guardia di S. Maria in via, patrona di Camerino. Là c’era scritto: Resta con noi, Signore. Qui raccogliamo l’invito di Giovanni e ripetiamo: Vieni, Signore Gesù» 32.

Altri numerosi articoli di mons.

Frattegiani su temi biblici vengono pubblicati su varie riviste e su “L’Appennino camerte”. Esorta anche i seminaristi a conoscere e amare le sacre scritture e stimola gli ordinandi al sacerdozio ad approfondire e a scrivere ne L’Appennino camerte commenti sugli Atti degli Apostoli, sui quali nella tre giorni del 1968 insisterà P. Tansini. E così dalle ultime settimane del 1965 a tutto il 1966 troviamo gli articoli di Giancarlo Sbarbati, Angelo Frittelloni, Vincenzo Finocchio, Decio Cipolloni, Ottaviano Tordini, Fabio Paglioni, Gianni Fabbrizi, Eraldo Pittori, Cherubino Giardini, Luigi Verolini, articoli dedicati tutti al commento di vari capitoli degli Atti. In una lettera ai sacerdoti del 1976 pubblicata su L’Appennino camerte mons. Frattegiani scriverà:

Copertina del libro “Cercavi me, Signore?”

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«Carissimi, quest’anno ho fatto vacanza da una vera e propria lettera pastorale; a dire la verità non sono molto convinto della sua efficacia. Nell’intervista di Peppino De Rosa (riportata dal nostro settimanale del 17 aprile) ho detto – e lo ripeto – che la mia vera lettera pastorale di sempre è stata quella scritta su L’Appennino camerte per centocinquanta settimane di seguito come guida alla lettura della Bibbia; lo ripeto sereno come se questo fosse il mio testamento: come lettera è sorpassata; come spirito (e quindi ancora una volta come testamento) resta un invito a ricercare domenica per domenica il contesto delle vostre letture non tanto sui prontuari a buon mercato, ma sul testo medesimo della Sacra Bibbia, di cui torno a raccomandarvi la consuetudine quotidiana. Già quotidiana! A questo proposito sappiate valorizzare il ciclo triennale delle domeniche e il ciclo biennale feriale, ricordando per il feriale che non è opportuno cambiare nelle memorie obbligatorie, ma è bene continuare le letture feriali; le letture proprie sono prescritte solo quando vi è nominato il santo del giorno, il che naturalmente è assai raro (Timoteo, Tito, Maria Maddalena...)» 33.

TesTiMonianze di esperTi bibLisTi e TeoLoGi

Per chi dubitasse della bontà della iniziativa del Quadrante biblico ci piace riportare il biglietto di padre De La Potterie all’arcivescovo:

«Ho ricevuto il suo bel volume. Tante grazie per questa delicata attenzione. Che bella cosa che anche oggi ci siano dei vescovi che, come al tempo dei “padri”, sanno rompere il pane della Parola di Dio come una parte essenziale del loro ministero sacerdotale e pastorale. Questo esempio è prezioso anche per noi esegeti, per rammentarci che il nostro lavoro deve sempre avere come scopo quello di nutrire la fede del popolo di Dio» .

A commento di queste parole l’arcivescovo ci tiene ad aggiungere solo una cosa:

«Stendendo la prefazione del libro e presentando gli scarni commenti settimanali come una iniziativa comunitaria, ho inteso rendere onore alla diocesi, della cui corrispondenza non posso dubitare. Va bene la Bibbia del breviario, va bene la Bibbia del lezionario (è possibile che ci sia ancora qualcuno che non sa approfittarne?). Va bene che è nostro dovere o con Luca e con altri sussidi intrecciare al catechismo (e sono già tre), ma senza una lettura integrale e continuata del messaggio biblico resteremo sempre ai margini (breviario distratto, lezionario inattuale, catechismo meccanico)» 34.

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Padre Henri De Lubac:

«Eccellenza carissima, io ci ritrovo sulla strada di Gerusalemme quello che ho tanto amato nelle prime pagine da me lette: questa profonda semplicità dell’Evangelo che voi sapete far gustare a tanti periti di oggi, pieni di grandi parole astratte e di idee pretenziose ma spesso così vuote di vita cristiana» 35.

Carlo Ghidelli (“La rivista del clero”, marzo 1972):

«Particolare attenzione merita indubbiamente l’opera così geniale e così moderna che sta portando avanti da alcuni anni l’arcivescovo di Camerino, mons. Bruno Frattegiani, il quale si è fatto guida spirituale del suo clero e dei suoi diocesani per una lettura spirituale di tutta la Sacra Scrittura. Dal 1965 al 1967 egli ha steso alcune note, ospitate puntualmente tutte le settimane nel settimanale diocesano, nelle quali ha fatto una presentazione agile e sostanziosa ad un tempo di tutto l’Antico Testamento. Poi la fatica è stata continuata per il Nuovo Testamento, compreso ovviamente il libro degli Atti. Infine s’è messo a commentare alcune lettere di Paolo ed anche questo lavoro, fortunatamente, non è andato perduto. Abbiamo perciò oggi una terna di volumetti di vario formato ma di un’unica ispirazione, quella di aiutare nel modo più semplice possibile sacerdoti e laici nella lettura della Parola di Dio scritta. Chi conosce mons. Frattegiani sa che queste pagine, talvolta così semplici e tal altra presentate con una povertà tipografica sconcertante, sono l’esatta fotografia dell’autore: un uomo letteralmente innamorato della Sacra Scrittura (nonostante la sua formazione giuridica), un sacerdote che ha improntato il suo lavoro apostolico alla semplicità e alla familiarità con il libro sacro, un vescovo che trova il tempo per farsi maestro e guida degli altri sulla strada che porta alla scoperta di Dio. È forse per questo che egli ha genialmente pensato di dare questi titoli ai suoi libri: La strada di Emmaus (ovvero: cento settimane per l’Antico Testamento), La strada di Gerusalemme (ovvero: cinquanta settimane per il Nuovo Testamento) e Le strade di Paolo (ovvero: lettura commentata delle lettere di Paolo ai Romani e ai Corinti)» 36.

Scrive l’Osservatore romano, con firma convenzionale:

«In S. Paolo le strade hanno il significato dell’itinerario a Cristo. In strada Saulo – come si legge negli Atti – vide il Signore. Di strade parla anche nella prima lettera ai Corinzi. Timoteo – si legge al 4,17 – vi rammenterà la mia strada in Cristo. Un vescovo, Bruno Frattegiani, ha voluto rifarsi a questa terminologia per esprimere in chiave moderna la dottrina dell’Apostolo

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delle genti. “Le strade di S. Paolo” sono meditazioni, appunti, riflessioni, sbocciate dal cuore di un pastore penetrato profondamente dalla realtà ecclesiale e dall’assillo quotidiano dell’uomo contemporaneo» 37.

Settimana del clero pubblica un’ampia recensione del volume “Cercavi me, Signore?”:

«È detto tutto nel sottotitolo quando l’autore scrive che si tratta di “spunti per la meditazione”. Giovanni qui è preso non per la scalata vertiginosa della riflessione teologica astratta, ma come guida per pregare, per conoscere Gesù, per diventare suoi amici… Il tessuto del libretto è estremamente semplice: in 28 capitoletti scorre gran parte delle pericopi del vangelo di Giovanni riportate in traduzione originale e fedele e seguono brevi riflessioni personali, quasi confidenziali, frutto di studio su autori seri, ma specialmente frutto di intuizioni d’amore che solo la contemplazione sa suggerire e provocare» 38.

Mons. Giuseppe D’Avack:

«Essendo stato alcuni giorni in clinica (grazie a Dio tutto bene) ho completato l’attenta lettura del suo “Le strade di San Paolo” e sono contento di dirle la mia ammirazione, la mia edificazione, la mia consolazione per la dottrina così profonda, soda, equilibrata, che mi ha fatto tanto bene; e fino allo stile tanto vivace e brioso. Ringrazio assai e sempre più il Signore per le mani benedette a cui ha voluto affidare la diletta diocesi che fu mia» 39.

Scheda del prof. Tommaso Federici su “Cercavi me... Signore?”:

«L’autore è anche biblista titolato. Egli redige qui brevi riflessioni sul IV Vangelo in modo che il testo di Giovanni preceda sempre davanti agli occhi. La modestia del titolo ed anche del dettato è una sicura garanzia di una guida dentro gl’innumerevoli problemi dell’Evangelo Spirituale. Gli “spunti” sono spesso gustosi e scelgono motivi assai cari alla sensibilità di chi vuole meditare alcune pagine piene e trovare anche ad ogni passo un’esortazione alla fede, alla fiducia, ad un maggiore ingresso nella sala del tesoro che è la Sacra Scrittura» 40.

Mons. Carlo Benelli:

«Eccellenza, ella rifacendosi al bel titolo con il quale i fedeli di Camerino venerano la loro celeste Patrona ha voluto comporre un agile volumetto, nel quale ricorrono frequentemente i motivi biblici, i richiami alla storia della

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salvezza, i temi della recente esortazione apostolica “Marialis cultus”, per spiegare così quale sia il senso più vero e più alto dell’espressione “Maria – via” in rapporto a “Cristo – via”» 41.

Il direttore de L’Appennino camerte mons. Angelo Antonio Bittarelli non ha mancato di recensire con profondità e competenza ogni pubblicazione edita dall’arcivescovo.

peLLeGrinaGGio in Terra sanTa (3-12 seTTeMbre 1978)

Dall’opuscolo della prof. Anna Santancini “Appunti e disegni”.

«Mons. Frattegiani dopo aver visitato più volte la Terra Santa è chiamato a guidare un pellegrinaggio diocesano di 50 sacerdoti e laici. Il percorso si snoda partendo da Amman. Lungo tutto il viaggio mons. Frattegiani con tanta competenza, amore ed entusiasmo illustra i luoghi con brani della Scrittura e a tutti fa gustare la Terra Santa. Amman (il racconto di David) poi Petra - La fonte di Mosè - Vallata di Ebron - Giordano - il ponte di Allenby - Gerico - Qûmram - Mar Morto - Tiberiade - Cafarnao - la casa di Pietro - la sinagoga Heptagon - Betsaida - Monte delle Beatitudini - Cana – Nazareth - il torrente Kishon (Elia) - Haifa, monte Carmelo - Cesarea - lago di Galilea monte

Tabor - Nablus - pozzo della Samaritana - Valle di Lebona (storia di Anna, Samuele) - Colline di BetEl - al torrente Jabbok (Giacobbe) - Mizpa – Bire - Ain Karim (visitazione) - Emmaus - monte dell’ascensione - Pater noster - Getsemani - pozzo di Aronne a Ebron - Gerusalemme - via Crucis - Santo Sepolcro - Amman».

Con i partecipanti diocesani

al pellegrinaggio in Terra Santa

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Nella prefazione dell’opuscolo mons. Frattegiani scrive:

«C’è il mio grazie più vivo e cordiale che va a tutti i pellegrini che con tanta buona volontà hanno seguito la mia... raucedine cronica intenta a una lettura biblica, la quale – vi confesso – è stata l’unico movente della mia partecipazione pur tanto generosamente e cordialmente offerta da d. Lucio. Io sento molto il “vae mihi si non evangelizavero” (guai a me se non vi espongo il Vangelo)... Io mi proporrei di rifare più diffusamente dal punto di vista biblico il resoconto del viaggio a patto che voi tutti mi prometteste di seguirmi. Se voi volete, da ottobre o meglio novembre in poi io vi aiuterei a rivivere le nostre giornate e le nostre meditazioni su L’Appennino camerte» 42.

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La riforma della liturgia

Mons. Frattegiani il 23 giugno 1965 invita il clero diocesano a partecipare alla “tre giorni” tradizionale tenuta quell’anno sulla

liturgia.

«Cari confratelli, l’anno scorso vi invitai per la “tre giorni” biblica. La vostra risposta fu plebiscitaria e così il primo incontro veramente plenario tra vescovo e clero ebbe nell’amore fraterno il segno più evidente della benedizione di Dio. Un altro segno fu lo svolgimento soddisfacente delle lezioni tenute con tanto impegno da don Candido Ghidelli e mons. Gioacchino Scatolon. Un terzo il magnifico proposito di leggere insieme in un anno il Nuovo Testamento: una dolce pratica che stiamo per portare a termine e che ci introdurrà alla lettura parimenti corale di tutti i restanti libri della Sacra Scrittura. “Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la vita coll’ascoltarti” così dicevamo, così proponemmo facendo nostra l’aspirazione di santa Elisabetta della Trinità. Ora la Parola di Dio ha il suo momento privilegiato nella proclamazione liturgica. Ecco l’aggancio fra la “tre giorni” dell’anno scorso e la “tre giorni” liturgica di quest’anno, alla quale invito con desiderio vivissimo di vedervi tutti. Come già sapete da tempo ci sarà maestro incomparabile mons. Carlo Manziana, vescovo di Crema, amico personale del santo padre e discepolo prediletto del grande padre dei nostri tempi, il card. Giulio Bevilacqua. In attesa della “tre giorni”, sagra annuale del clero camerte, vi saluto cordialmente» 43.

Ancora il 7 agosto successivo mons. arcivescovo ricorda l’importanza del corso sulla costituzione conciliare “Sacrosantum Concilium” per comprendere e vivere sempre più, clero e laici di Dio, la liturgia della Chiesa. Fa poi conoscere con piacere come gli stessi monaci protestanti di Taizé, che poco prima ha incontrato durante un soggiorno in Svizzera, si sono impegnati a pregare per la nostra “tre giorni” liturgica. Mons. Manziana illustra da par suo e con grande soddisfazione dei sacerdoti la “Sacrosantum concilium” ponendo la celebrazione eucaristica al centro della realtà ecclesiale. Ecco una breve sintesi:

«La riforma liturgica non è stata improvvisata, ma è felice conclusione di un importante movimento ed ha un’alta funzione pastorale. Alcuni punti fondamentali: 1) Aspetto teandrico della Chiesa; coincidenza degli opposti finito ed infinito, temporale ed eterno, attuale ed escatologico. 2) La liturgia è edificazione del corpo di Cristo. Per capire cos’è la liturgia bisogna avere

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un concetto esatto della Chiesa e del mistero di Cristo. Non si capiscono i sacramenti senza la sacramentalità di Cristo e della Chiesa. Il Cristo è presente nella liturgia. La Chiesa continua la sua azione sacerdotale soprattutto nella liturgia che si presenta come culmen et fons del rapporto con Dio attraverso il Cristo. Non c’è contrasto tra ascesi personale e liturgia perché in essa la pietà personale e quella comunitaria si integrano» 44.

Siamo negli anni in cui, in attuazione dei decreti conciliari, Paolo VI dà inizio alla riforma liturgica partendo dal nuovo messale romano che gradatamente arriverà alla edizione definitiva nel 1970. Molte sono le novità: l’uso delle lingue nazionali, l’arricchimento di testi della Sacra Scrittura, il sacerdote celebra non più rivolto verso l’altare, dando le spalle ai fedeli, ma rivolto verso di loro. Mentre prima la celebrazione era focalizzata sulla eucarestia come sacrificio, ora la “mensa della parola” si affianca alla “mensa del pane” e risalta maggiormente l’aspetto assembleare della cena comunitaria. A questo proposito mons. Frattegiani scrive:

«Scrivo a voi fratelli sacerdoti nell’imminenza di un anno liturgico così ricco di novità (novus ordo missae, rinnovata pastorale dei sacramenti, avviamento di una collaborazione sacerdotale studiata insieme e delineata in sintesi dal consiglio presbiterale, messa a punto del consiglio pastorale ecc.) e quindi così pulsante di grazia per il nostro ministero e, prima, per la nostra vita interiore. Scrivo nell’intento – e con la preghiera – che sia ravvivato il carisma che è in noi per l’imposizione delle mani del vescovo (2 Tim. 1, 6), l’evento profetico cui si associò in segno di comunione e come pegno di sintonia l’imposizione delle mani del presbiterio (1 Tim. 4, 14)».

La cena deL siGnore

«Fra le cose più belle che ho trovato nell’introduzione alla nuova liturgia eucaristica (è probabilmente fra le più contestate nell’inaudita reazione, che ha raggiunto forme parossistiche negli ultimi giorni, e con quali avalli!) è il ritorno a questa bella denominazione fiorita dal racconto evangelico: la cena del Signore. Usatela con la vostra gente e fatene sentire il peso dottrinale e pratico: è solo mediante la cena che Gesù ci fa comprendere il senso sacrificale della sua morte ripresentata oggi nel gesto conviviale – il Suo gesto – che la anticipò; ma resta una cena: il Corpo e il Sangue, i santi segni del pane e del vino possono essere profanati non solo dalla mancanza di fede, ma anche dalla mancanza di amore (si illustri l’esempio di 1 Cor 11, 17-34; la comunione con Cristo è stata un oltraggio al Signore perché è mancata la

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comunione fraterna, senza la quale del resto è assurdo celebrare un convito). E preparate tutto bene, facendovi aiutare dai vostri fedeli. E soprattutto celebrate bene: con tanto raccoglimento e con tanta dignità, sia che vi circondi una cattedrale piena, sia che assistano solo quattro vecchiette» 45.

In occasione della concessione di Paolo VI della lingua nazionale anche “nel canone della messa”, mons. Frattegiani nella lettera pastorale per la Quaresima del 1968 svela tutto il profondo significato teologico del testo. Ecco alcuni brani della lettera, pubblicata intera in appendice:

«Dalla “Traditio apostolica” di Sant’Ippolito ripropongo alla vostra meditazione l’antichissima formula della prece eucaristica romana (verso il 200). Dopo le battute che conserviamo tutt’ora, del Dominus vobiscum, del sursum corda, la grande intonazione eucaristica – Gratias agamus Domino – con la risposta come oggi, merita tutta la nostra attenzione come una vera e propria proposizione tematica. Il greco originale – io credo – doveva

Mons. Frattegiani benedice il nuovo altare nella cappelladel pensionato femminile universitario “Battista Varano”, opera e dono dell’istituto teresiano,

con il tabernacolo a suo tempo donato da mons. Giuseppe D’Avack

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suonare: Eucharistesomen to Kyrio, e ha qualcosa di più del semplice timbro originale di “ringraziamo il Signore”. Qualcosa di più come “celebriamo l’Eucaristia”, il che vuol dire: “sciogliamo il canto di ringraziamento, offriamo a Dio l’unico ringraziamento valido, il corpo e il sangue del Signore”. Ricordiamocene nell’intonare il prefazio (……….).Ricordiamo poi le “meditazioni sulla messa” di Theodor Schnizler (Roma 1956), che raggruppa le preghiere del canone in una serie di strofe armoniosamente convergenti verso la consacrazione. “In otto strofe il cantico sale – afferma Schnizler – fino al vertice della consacrazione, le cui parole costituiscono la nona e la decima strofa, e in otto strofe ridiscende; così dunque l’Eucaristia risuona in due serie di nove strofe simili ai nove cori delle gerarchie angeliche. Con quanto amore è stato elaborato questo testo così sobrio! Il prefazio col Sanctus, spesso col ricordo del mistero del giorno o del tempo, vogliono metterci alla presenza dell’Altissimo nel clima del sacro tremore in cui il profeta contempla sbigottito e adorante la grande teofania (Is 6, 3). Il timore si stempera nell’entusiasmo per la venuta del Signore, Dio con noi, nel cantico del Benedictus. Compiuta la consacrazione, la dossologia trinitaria accompagnata dalla elevazione dell’ostia, vi dirà la gioia dell’umanità peccatrice e redenta – redenta adesso nel mistero e per la gloria resa al Padre per Cristo, con Cristo e in Cristo nella rinata unità che lo Spirito cementa tra i fedeli e il Signore Gesù, così come tra lui e il Padre (Gv 17, 23). C’è chi pensa che l’unità dello Spirito Santo sia equivalente di “Chiesa” con tutte le implicazioni cristologiche e trinitarie che ne conseguono. L’Amen che segue dovrebbe essere sentito dal popolo come uno dei momenti più importanti della messa, quasi notifica del “populus sacerdotalis”, in atto di fede che, ripetuto singolarmente e responsabilmente del “Corpus Christi” (comunione) dice adesione formale alla rinnovata alleanza» 46.

«Una strenna, non posso pagarvela. Ve la consiglio. È l’opera del nostro carissimo dom Nocent a commento e guida dell’anno liturgico. Il titolo è “Celebrare Cristo” (Cittadella editrice, Assisi); comprenderà sei volumetti tascabili (sono usciti i primi due, reperibili alla “Loggia Sisto V”) che si rivelano il sussidio più ricco alla nostra evangelizzazione, perché non si tratta di commenti scodellati alla pigrizia ma di una prestigiosa inquadratura della trama dell’anno liturgico e, prima ancora, di una penetrante guida alla meditazione individuale e di gruppo. Voglio stralciare per voi un paio di paginette che mi hanno scaldato il cuore stamattina: “Se possiamo parlare con tanta insistenza del valore intrinseco dell’anno cristiano, è perché lo celebriamo col Cristo stesso. La caratteristica della liturgia cristiana sta totalmente nel fatto che il Signore stesso la presiede ed è lui con la Chiesa che celebra i suoi misteri per la gloria del Padre. Il Concilio Vaticano II ha

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insistito moltissimo sui diversi modi di presenza del Cristo nella celebrazione liturgica. Tale presenza è, nel suo vertice, la presenza reale eucaristica. D’altronde essa è sorgente e centro di ogni celebrazione liturgica perché presenza del mistero pasquale. Tuttavia ogni celebrazione eucaristica, anche se ha come fondo il mistero pasquale, ha il suo aspetto particolare e il suo colore nella celebrazione della liturgia della Parola. L’eucaristia celebrata a Natale è insieme diversa, benché la stessa, dalla celebrazione eucaristica del giorno dell’invio dello Spirito nella Pentecoste. La celebrazione della Parola dà alla celebrazione eucaristica il suo colore specifico. Ma dobbiamo insistere sulla presenza del Signore anche nella sola celebrazione della Parola, come nella celebrazione dell’ufficiatura… La Bibbia, libro morto, diventa attuale e viva quando è proclamata nell’assemblea liturgica; la costituzione liturgica sulla liturgia si limita a insegnare che il Signore stesso proclama oggi ancora il suo Vangelo”.Paolo VI sembra andare più avanti. Nell’enciclica “Misterium fidei”, nella quale si propone di affermare la permanenza della presenza reale eucaristica, egli prende lo spunto per dichiarare che non vi è solo una presenza reale e che non si devono escludere altri modi di presenza oltre la presenza eucaristica. Questa affermazione è tanto importante in quanto è fatta in un contesto in cui si vuole affermare il valore e la realtà della presenza eucaristica. Paolo VI scrive: “La presenza di Cristo nell’eucaristia è detta reale non per esclusione, come se le altre presenze non fossero reali, ma è chiamata reale per eccellenza”. (…) Secondo Paolo VI vi sono dunque diversi modi di presenza reale. Ciò che li distingue non è la realtà della presenza ma il modo di tale presenza che li diversifica e dà loro un livello diverso, anche se tutte queste presenze condividono la stessa realtà. La presenza reale eucaristica suppone una “transustanziazione” e una permanenza sotto il segno, e questo non lo comporta la presenza reale di Cristo nella proclamazione della sua parola. Ciò che si deve sottolineare è che la presenza del Signore nella proclamazione della sua parola non è una presenza analogica, figurata, come quando in un’assemblea culturale si leggono le parole di un poeta… Qui si tratta di una presenza reale e attiva del Signore. Lasciamoci prendere dalla gioia di questa fede, di questa certezza e facciamo della messa la nostra festa d’ogni giorno» 47.

Ancora a Rocca di Papa mons. Frattegiani, con settanta sacerdoti, chiama come maestro p. Juan Pedro Cubero perché affronti i problemi della pastorale partendo dall’incontro con Cristo nella liturgia. Il mistero pasquale centro della vita sacerdotale e cristiana. La celebrazione eucaristica deve tenere il primo posto nella pastorale, il cui fine è far passare tutta la vita di ogni giorno della comunità cristiana nell’eucarestia e l’eucarestia nella vita. Proprio per

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aiutare a vivere la liturgia inizia a scrivere su L’Appennino camerte un nuovo Quadrante liturgico, in cui ogni settimana spiega, commenta e inquadra nel contesto liturgico le varie letture bibliche domenicali, invitando sacerdoti e fedeli ad approfondirle e a meditarle personalmente per preparare le omelie. Il “Quadrante”, iniziato nel 1968, continuerà per molti anni a cura di mons. Ferruccio Loreti. Subito dopo l’istruzione sul mistero eucaristico della congregazione dei riti, l’arcivescovo interviene per dare precise indicazioni. Afferma che non si tratta di un’osservanza rubricale: i sacerdoti attraverso le modifiche debbono sentire maggiormente l’importanza della loro mediazione liturgica. Mons. arcivescovo insiste molto sulla formazione ed educazione liturgica, su come vivere e attuare la riforma. Molto attento e sensibile, curando e dando importanza anche ai minimi atteggiamenti, vuol evitare che in diocesi ci siano sbavature.

«Nella messa celebrata secondo le nuove norme si notano qua e là dei difetti. È necessario predisporre tutto con la preparazione accurata dell’eucarestia domenicale con la partecipazione di laici impegnati della parrocchia. Si scelgano opportunamente e per tempo i lettori – possibilmente non fanciulli –; preparare bene il piccolo clero; abituare il popolo ad andare insieme nella recita orale, nei movimenti. Non si passi sopra la punteggiatura e si insista che partecipino tutti. Si vinca in ogni modo il rispetto umano degli uomini e dei giovani. Alcune cose intollerabili: il lettore senza veste appropriata, il lettore che non sa leggere, il lettore che fa anche la parte di guida… Si preparino i canti dando un posto particolare all’ufficio del salmista, si cerchi di preparare l’omelia domenicale con i laici. In ogni parrocchia, comprese le più piccole, ci sia un gruppo di animazione dei canti. La commissione per la musica sacra preparerà un direttorio di canti per la diocesi» 48.

Ricorda infine il rapporto tra la schola e l’assemblea e tra i diversi attori e dichiara: “La schola canta, il lettore recita, la guida intona”. In funzione d’una celebrazione liturgica più dignitosa lancia poi, attraverso L’Appennino camerte, una colletta per il restauro dell’organo della cattedrale, contribuendo come sempre con una generosa offerta personale. Il vescovo raccomanderà sempre musica e canto nella celebrazione liturgica.

«Ocche est enimme. Non si tratta di esperanto. È semplicemente latino pronunciato male. Il guaio è che si tratta delle parole della consacrazione. Questo non è detto per cercare nuovi scrupoli da aggiungere a quelli già prodotti dalla pronuncia sillabata, misterica, insufflata. È detto per ricordare

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che il momento più solenne della messa ha ripreso, grazie a Dio, il suo carattere di proclamazione solenne che, per opera dello Spirito Santo e non in virtù della pronuncia affannosa, il pane e il vino si convertono nel corpo e nel sangue del Signore. Dobbiamo assuefarci a questa proclamazione dignitosa. Dignitosa e serena. Se in latino sia un latino pronunciato bene. Presto avremo il canone in italiano. Deve essere una scuola di devozione. Ma nel cuore della “grande preghiera” la consacrazione sarà sempre e solo una narrazione. Nessuno certo sarà tentato di sillabare le parole sante. A proposito: pur attendendosi una dichiarazione ufficiale, pare che non convenga più osservare la rubrica “cubitis super altare positis”. C’è invece un’aggiunta alla narrazione, una sola, che non è lecito toccare e può rimanere come espressione viva e contenuta di devoto stupore. Voglio dire l’inciso “mysterium fidei”» .

«Caduto dalle nuvole. Il felice “infortunato” è stato l’arcivescovo quando a Casavecchia si è visto assistito all’altare, per la messa della cresima, nientemeno che da due sacerdoti in cotta – il parro co don Pietro Furiassi e don Marino Maccari –. Egli si era sorpreso qualche volta a leggere con meraviglia (su La Voce di Perugia) come per esempio l’arcivescovo di Perugia, celebrando una messa piana in cattedrale, ha due canonici che l’assistono (con tanto di nome e cogno me da far capire che si tratta di co sa vera, documentabile!). Sembra in realtà assurdo che il vescovo debba vedersi confinato solo all’altare alle prese con due chierichetti mentre il parroco in clergyman (quasi regolamentare per la verità) passeggia apostolicamente in mezzo al la sacra assemblea. Allora si capisce come mai gruppi di fedeli – riconoscibilissimi i romani – guardano al vescovo che arriva come un curioso orang-utang, da fotografare magari ma per niente affatto da sentire come pastore della Chiesa locale. Allora più che mai il vescovo assapora la solitudine; ed è per questo che dimostra tanta gratitudine alle mamme che gli portano i bambini. Il vescovo che viene – si chiami come vuole – è per il parroco motivo serio di evangelizzazione. Chi scrive ha sofferto – in un lontano passato – quando ha visto che gli incontri pastorali si trasformavano in occasioni di adulazione, tanto più odiosa quanto più bene accolta; per questo gli è piaciuta la sobrietà marchigiana. Ma gli piacerebbe anche un pochino di proprietà, a cui non sono estranee la talare e la cotta. Grazie dunque ai due assistenti di Casavecchia» .

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ai sacerdoTi suLLa ceLebrazione deLLa Messa

Mons. Frattegiani è sempre molto attento che nelle celebrazioni delle sante messe non entri altro motivo che la gloria del Signore e

condanna l’eventualità che vi possano entrare motivi di interesse personale o anche di istituto religioso.

«Ci riferiamo alla celebrazione delle messe da morto (denominazione assurda: perché cercate un vivo fra i morti?). La loro sequenza è assolutamente ingiustificata, soprattutto se si seguita ad usare la pianeta nera. Per i defunti – salvo casi di morte, trigesimo e anniversario (privilegiato è solo il primo anniversario) – si applichi la messa del giorno, facendo menzione dei nomi nel momento ed eventualmente anche nella preghiera dei fedeli. La messa infatti deve diventare sempre più quello che essa è: l’assemblea dei vivi alla cena del Signore e alla mensa della Parola così abbondante e variata per chi segue i lezionari, pur riconoscendo che la provvisorietà delle edizioni è seccante e dispendiosa: può ancora pensarsi un rettore di Chiesa o parroco che privi sé stesso e i suoi fedeli di una tale provvidenza quotidiana? Né si dica che durante la settimana la frequenza è minima e non vale la pena d’impegnarsi. Il gruppo settimanale dovrebbe essere il più curato; in fondo l’uditorio più modesto rende più facile dare in poche parole i chiarimenti più necessari, perfettamente inutile leggere le didascalie delle edizioni, ottime, spesso ma... più difficili del testo. Ma se fossimo proprio soli? O allora godiamoli nel raccoglimento, quasi meditando la Parola della Scrittura ed entriamo così nel “sancta sanctorum” a gustare ogni riga, a soffrire ogni riga se l’anima è in pena, cercandoci dentro il fervore della prima messa» 49.

«A proposito di binazioni. Eccoci all’argomento tabù (de quibus postea). Vediamo di procedere con ordine.1. È principio solenne sancito dal diritto canonico e basato sul criterio del sommo rispetto che si deve all’eucarestia (contro i sospetti di devozioni... interessate): chi “ogni qual volta celebra più di una messa nella giornata una ne applica a titolo di giustizia, eccezion fatta per il giorno di Natale; e non può ricevere elemosina per la successiva, a meno che non si tratti di retribuzione data a titolo estrinseco (can. 824, par. 2)2. La Santa Sede ha concesso alle nostre, come quasi a tutte le diocesi meno provviste, questo privilegio, che oltre le pro populo (eccettuate dodici) tutte le binate e trinate siano applicate ad mentem ordinarii, oppure per intenzione particolare con l’obbligo di passare l’elemosina al vescovo per il seminario.3. Molti religiosi hanno facoltà di trattenere parte almeno delle binate con il consenso dell’ordinario del luogo.

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4. Ed eccoci al tabù: si tratta di questo. Qualcuno dei miei predecessori aveva benevolmente concesso in particolari casi di trattenere le elemosine delle binate a titolo di supplemento del magro beneficio. L’ho fatto anch’io. Né io né loro potevamo farlo (richiamo il principio solenne di cui sopra)... Io sono tenuto a provvedere per me e per loro ritirando ogni concessione in proposito, come intendo fare e come faccio con la presente lettera. Con effetto 1° gennaio 1973.Secondo il motu proprio “Pastorale munus” del 30 novembre 1963, n. 2, il vescovo ha la facoltà “concedendi sacerdotibus ut, propter penuriam cleri et iusta causa, missam bis diebus ferialibus celebrare possit et etiam ter diebus dominicis aliisque festis de praecepto, si vera necessitas pastoralis id postulet”. Le sottolineature riguardano l’uno o l’altro caso in maniera diversa: deve esserci una giusta causa per la binazione e una vera necessità pastorale per la trinazione in concorrenza con vera e attuale penuria di clero. È assolutamente vietato (a parte per quanto diremo per un tipo di concelebrazione) binare per pura devozione o magari... per incrementare con l’offerta l’opera vocazioni ecclesiastiche o la propria comunità religiosa. Sarebbe sacrilego simpliciter (per la ragione di rispetto che sottostà al divieto binare per incrementare... la propria tasca). Tenuto conto della tasca leggera della maggior parte dei sacerdoti e delle comunità religiose, questa severità può dispiacere, ma è il puro e semplice corollario d’una premessa di fede. Per quanto riguarda la penuria di clero si può formulare un principio: la facoltà della binazione e della trinazione non è mai personale, ma locale...; basta che sia presente un altro sacerdote libero e disponibile per quella tale messa, perché di fatto scade la facoltà di binare. Ciò potrebbe costituire una certa difficoltà per le comunità religiose che hanno la facoltà di trattenere l’offerta. Ma non c’è niente da fare: per il presupposto teologico – o meglio di fede – ripetutamente ricordato, la binazione non gaudet favoris juris e il mio appello tocca la delicatezza di coscienza di ogni sacerdote e di ogni superiore religioso. È materia questa che sfugge alla sorveglianza del vescovo: la sorveglianza resta doverosa, ma lo spirito sacerdotale dovrebbe renderla superflua» 50.

Scrive ancora mons. Frattegiani:

«Riprenderei volentieri dalla lettera di Capodanno che ha avuto un inatteso quarto d’ora di celebrità, ma ho l’impressione che – grazie al cielo – gli interrogativi si sono diradati a poco a poco e adesso accennano a scomparire del tutto. Vorrei solo tentare un riepilogo dal semplice punto di vista della coscienza sacerdotale. Tanto per entrare subito nel vivo della questione, io non vedo assolutamente perché all’inizio dell’anno si debba esigere un

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rescritto episcopale che concede di trinare in caso di vera necessità (per molti di voi tale necessità esiste ogni domenica; so bene quanto sacrificio vi costa e per giunta senza il minimo profitto materiale), e di binare justa de causa nei giorni feriali, sempre beninteso che vi sia penuria cleri (cade ad esempio la facoltà di binare quando capita un confratello in vacanza dotato di un minimo di buona volontà o quando proprio all’ora giusta ti arriva provvidenziale un sacerdote che deve ancora celebrare). È questa detta binazione feriale (tutt’altro che un privilegio) un sacrificio che io vi ho chiesto più volte – e torno a chiedervi – per favorire notevoli gruppi di fedeli in occasione della Quaresima, dell’Avvento, del mese di maggio, di novene solenni, di giorni particolarmente sentiti come il primo venerdì e il primo sabato del mese. Come vedete, ce n’è per ogni calibro di zelo sacerdotale (a beneficio della diocesi, sia che si tratti di religiosi, a beneficio delle proprie opere, d’accordo con il vescovo!) il disinteresse, dico, cala il mysterium fidei nel personale adimpleo ea quae desunt (cap. Col 1,24) e diventa mezzo prezioso di ascesi e di santificazione. Solo vi scongiuro per amor di Dio che la seconda, la terza messa non sia mai più affrettata e meno dignitosa della prima. E che non sia mai senza una breve, ma sostanziosa omelia o almeno una breve presentazione delle letture (se no dove andrebbe a finire il motivo pastorale? e cadendo il motivo pastorale, cadrebbe la facoltà). Per quanto riguarda le concelebrazioni in occasione di uffici funebri, ritengo mio grave dovere ricordare che all’infuori del caso personale espressamente contemplato di funerali di confratelli, è vietato parteciparvi binando» 51.

«Con un amico di Sanseverino abbiamo compulsato il classico e un po’ stagionato Stocchiero (Il codice del clero italiano – Vicenza 1937) per vedere se era possibile trovare una benevola scappatoia alla lettera di capodanno. Abbiamo trovato che l’Ordinario può non solo fissare la c.d. elemosina diocesana, ma ha anche le quote maggiorate “ratione temporis et laboris” etc. (il che a Sanseverino è stato fatto, mentre a Camerino si è ritenuto meno opportuno, attesa la diversità delle zone pastorali). Ma abbiamo pure trovato che è “nefas” trattenere una seconda elemosina (il che sinceramente non ci ha fatto meraviglia): pur restando il sullodato autore a livello di modesto compilatore, non poteva certo capovolgere il pensiero della Chiesa» 52.

Nella “tre giorni” diocesana del 1967 mons. Frattegiani, chiamando come maestro il prof. padre Giorgio Tansini, stabilisce di ritornare sul binomio “Bibbia-liturgia” ed esprime la volontà che il tema sia proposto a partire dalla catechesi parrocchiale, offrendo così ai sacerdoti un apporto concreto su come far gustare e vivere la liturgia ai fedeli, di fatto loro quotidiana fonte di ansia. Un tema specifico riguarda l’arte sacra, che per secoli era stata una

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vera catechesi per i fedeli. Tutte le nostre, anche piccole, chiese parrocchiali sono ricche di affreschi, di tele a soggetto religioso e di altre opere d’arte, purtroppo di grande attrazione per i ladri. Mons. arcivescovo affida allora l’incarico di avviare il museo diocesano a mons. Giacomo Boccanera e mette a sua disposizione alcune sale dell’episcopio; contemporaneamente vara la commissione diocesana per l’arte sacra. Connette grande importanza e dedica molta preparazione alla celebrazione della “Settimana liturgica” indetta a Camerino dal 6 al 16 maggio 1969 a ricordo dell’undicesimo centenario della morte di sant’Ansovino e di anniversario ugualmente plurisecolare della cattedrale. La manifestazione, avente per tema “L’eucarestia e i sacramenti nella vita della Chiesa”, è diretta dal prof. Luca Brandolini, si avvale come maestri di mons. Virgilio Noè, p. Luca Brandolini, p. Luigi Molinelli, e si conclude con il pontificale in cattedrale del card. Giacomo Lercaro. Infine in data 25 settembre 1980 mons. arcivescovo istituisce una commissione di esperti in campo storico, teologico e pastorale per il lavoro di revisione del “Proprio delle messe e liturgia delle ore”. La commissione lavora a più riprese e si avvale della collaborazione dei parroci delle zone e parrocchie legate al culto dei vari santi e beati. Dopo l’unificazione delle diocesi di Camerino e Sanseverino Marche il 30 settembre 1986, la commissione arricchita di nuovi membri affronta il lavoro già iniziato per i santi e beati anche di Sanseverino. Da ultimo viene sentito il parere del consiglio presbiterale diocesano. Il lavoro conosce un iter laborioso dal momento che si tratta di rivedere accuratamente anche il calendario. Secondo la normativa della istruzione “Calendaria particularia” dispone i testi relativi per le messe e la liturgia delle ore. Finalmente il lavoro verrà approvato dalla

A una tre giorni diocesana, durante il pranzo

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congregazione del “Culto divino e disciplina dei sacramenti” il 9 agosto 1995 e promulgato il 18 maggio 1996 solennità di San Venanzio. Per concludere sulla riforma liturgica si riporta un brano di d. Ferdinando Cappelletti, presidente diocesano della commissione liturgica.

«Negli anni ’70, sempre per impulso dell’arcivescovo, due avvenimenti dettero vigore decisivo allo sviluppo della vita liturgica: la riforma della curia (1971), con la costituzione fra l’altro, dell’ufficio per il culto e soprattutto la “tre giorni” diocesana, indirizzata per tre anni all’approfondimento della liturgia sul tracciato di due piste: un’inchiesta condotta scientificamente con la collaborazione dell’Università di Camerino, e una catechesi liturgica sull’eucarestia, sui sacramenti dell’iniziazione cristiana, sul sacramento della penitenza e sulla preghiera. L’attenta lettura dei dati dell’inchiesta, sia a livello diocesano che zonale, permise l’elaborazione di un progetto di pastorale liturgica dal titolo “Mistero della fede” (giugno 1987). Ci piace concludere queste brevi note con le parole che lo stesso mons. Frattegiani scrisse presentando il progetto alla diocesi perché sono una limpida testimonianza del brio dello scrittore e del suo amore per la liturgia che rende viva e attuale la parola di Dio: “Le messe sciatte e le assemblee distratte, i battesimi ridotti a cerimonie di tradizione, e cresime caotiche, le confessioni stereotipe (si direbbe a disco), le prediche senza mordente oltre che la nostra poca preghiera, dipendono da un nostro modo di affrontare il mistero. Prima viene la parola (ma deve essere la parola!), poi viene il sacramento, poi viene la testimonianza. Ma si potrebbe dire come della Trinità da cui provengono: “questi tre sono una realtà sola”. Infatti è la parola del Padre che con Cristo si fa sacramento e nella Chiesa rende testimonianza per la forza dello Spirito che la raduna nel suo Signore. Invito a leggere con calma questo documento, a riflettere, a pregare, e soprattutto a lavorare insieme, convinti che i piani pastorali fanno facilmente la fine del paralitico della piscina di Bezetha costretto a dichiarare “hominem non habeo!”. È indispensabile l’impegno di ciascuno. Il Signore ci benedica. S. Maria in via, madre dei lumi, ci sia materna scorta in questi giorni in preparazione della Pentecoste e all’anno mariano e sempre» 55.

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Rinnovamento della vita cristiana

Già come scritto nella lettera “Cantate Domino canticum novum”, mons. Frattegiani afferma:

«C’è tutto da rifare nell’impostazione della catechesi morale... Ed ecco alcuni punti focali:A - La redazione dei sinottici ci presenta Gesù a colloquio con gli ebrei e precisamente in materia di legge: “Le due tavole vuole dire Gesù si riassumono nel grande comandamento” e “nel secondo, simile a questo”. Però siamo sempre nella prospettiva dell’economia antica: per la nuova inaugurata dal suo sangue, Gesù ha qualcosa di più da chiedere ai suoi discepoli ed è il precetto dell’amore nella formulazione di Giovanni “mandatum novum do vobis ut diligatis invicem sicut dilexi vos” (Gv 13,34) e nella proclamazione sconcertante: et nos debemus pro fratribus animas ponere (1 Gv 3,16). Provate a leggere tutto S. Giovanni e non troverete, anche là dove parla dei precetti al plurale, altro precetto che questo: amare i fratelli come Gesù ci ha amato. Provate a leggere tutto S. Paolo (esempio classico in Rom 13,8-10) e troverete che l’amore del prossimo compie da solo la legge. Pare strano che S. Giovanni e S. Paolo non accennino per nulla a un precetto di amare Dio e dicono solo che l’amore di Dio da prova di se stesso nell’amore del prossimo. L’amore di Dio per i cristiani non è oggetto di un comando. L’amore di Dio per i cristiani è il clima che respirano, perché è l’autentico dono di grazia: “L’amore di Dio (agape) è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato donato” (Rom 5,5). È da questo amore che vibra dalla voce dello Spirito sussurrante nei cuori l’Abba Pater (Col 4,6) che nasce l’offerta logica di tutta la vita cristiana a Dio per Dominum nostrum Jesum Christum. È da questo amore che sgorga il canticum di una vita spesa per i fratelli secondo le liriche espressioni di S. Paolo nel celebre inno di 1 Cor 13.B - La legge nuova è legge di libertà: ubi spiritus Domini, ibi libertas (1 Cor 3,17). Certo non si può fare a meno di precetti... Certo non si può fare a meno di comandamenti. La legge nuova è lo Spirito Santo, ma resta, se pur sussidiario l’elemento positivo e scritto, perché il cristiano perfetto che possa procedere senza binario non esiste, per lo meno non esiste quaggiù. Il vino nuovo non tollera otri vecchi, ma non si conserva senza otri (Mc 2,22). L’abolizione di ogni norma esige l’escatologia consumata, e la prospettiva profetica dell’alleanza nuova avrà il suo pieno sviluppo nel compimento del regno di Dio.C - Quello che urge è che noi facciamo leva nell’interiorità, educhiamo all’interiorità e ricordiamo a tutti che solo la grazia può farci superare il

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punto morto della legge. E la grazia, inseparabile dalla gioia, pur nel bel mezzo delle tribolazioni, è frutto dello Spirito Santo (Gal 5,22). Certamente la dottrina dell’amore non prospetta un idillio. Ma un impegno ed un rischio. All’esistenza umana minata dal Peccato (scrivo maiuscolo, com’è inequivocabilmente maiuscolo Hamartia in S. Paolo) che vede da questa realtà satanica minato tutto l’universo, spasimante come in un doloroso parto in attesa verso la sua redenzione (Rom 8, 19-22), s’impone l’alternativa agostiniana del duplice amore. O si passa per la croce negando l’uomo o nell’affermazione dell’io ci si danna. È questo che urge anche per l’insegnamento morale, spostare il centro. Dall’io fradicio a Dio refugium nostrum et virtus» 56.

A proposito del rinnovamento della teologia morale, mons. Frattegiani chiama per la “tre giorni” del 1966, per trattare dei “fermenti rinnovatori della teologia morale”, il prof. sac. Dionigi Tettamanzi, che dedica al rinnovamento della morale la prima giornata, prendendo avvio dai nuovi indirizzi affermatisi nell’esegesi biblica, nella pastorale e nella liturgia. Il Concilio ecumenico segna l’inizio di un nuovo cammino; c’è bisogno di dare un volto nuovo della morale: interiore ed esteriore; l’antropologia dell’uomo, immagine di Dio in Cristo, è fondamento della morale cristiana; vocazione dell’uomo è quella d’essere conforme all’immagine del Figlio; imperativo morale fondamentale è la sequela Christi. Mons. Tettamanzi tratta infine della morale familiare e coniugale, nonché della spiritualità coniugale e familiare. Ancora per la “tre giorni” diocesana del 1970 sceglie come tema: “La morale dopo il Concilio” e chiama come maestro il prof. don Enrico Chiavacci. L’arcivescovo conclude così la “tre giorni”: «Credo che questa tre giorni sia la più riuscita di quelle svoltesi in questi ultimi anni per la vivacità degli interventi».

divorzio, HuManae viTae, aborTo

Negli anni dell’episcopato di mons. Frattegiani esplode in Italia il dibattito sul divorzio, sulla lettera enciclica di Paolo VI “Humanae

vitae” e sull’aborto. La Chiesa italiana puntualmente si oppone prima alle proposte e poi alle leggi approvate dal parlamento italiano, consolidate alfine dal referendum. Mons. Frattegiani con i suoi articoli su quotidiani, su L’Appennino camerte e altri periodici cattolici, chiari e precisi in difesa del

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Vangelo e fortemente polemici contro le tesi avversarie, eppur comprensivi verso le persone erranti in buona fede, è uno dei protagonisti del fronte cattolico. I suoi scritti rivelano profonda cultura, grande conoscenza della Sacra Scrittura e della teologia, ottima capacità giornalistica e cuore sensibile di pastore.

•Letterapastoraledellaquaresima1967.“Adialogoconidivorzisti”

Nel 1967 mons. Frattegiani dedica la lettera pastorale della quaresima alla questione del divorzio. “A dialogo con i divorzisti” ha una grande risonanza sulla stampa nazionale e viene anche apprezzata da famosi teologi d’Oltralpe. È opportuno leggerla interamente in appendice per comprendere la fermezza e chiarezza dottrinale dell’arcivescovo e la sua carità pastorale. Qui riproponiamo l’ultima parte, occasione di incomprensione e di polemiche.

«… Ciò che in conclusione occorre ottenere in questo momento è un deciso atteggiamento dei nostri cristiani, una reazione cortese ma ferma al tentativo di introdurre il divorzio nella nostra legislazione. La fermezza non va disgiunta dalla serenità e dalla umiltà e questo deve valere anche per le discussioni. Il buon Dio non ha bisogno né di moschettieri né di avanguardisti. Il nostro aiuto è nel nome del Signore. Lavoriamo per la “legge di Cristo” e siamo convinti che l’arma più potente resta sempre la mitezza: “Beati i miti, perché possederanno la terra” (Mt. 5, 5). Fu la grande vittoria di Papa Giovanni. Ci guidi nel pacifico intento la Vergine Santissima, Madre amabile e Madre purissima, Regina delle famiglie cristiane. Chiudo, ricordando e raccomandando la crociata quaresimale per gli affamati e per i lebbrosi. Che sia per tutti carità fiorita dal sacrificio e nutrita dalla santa liturgia di quaresima» 57.

•Rilevantiechidellaletterapastorale

Il Regno pubblica per intero la lettera nel numero 5 del 2 aprile 1967, mentre Il nostro tempo di Torino ne tratta largamente in un articolo di Franco Peradotto (n. 14 del 2 aprile 1967). La Settimana del clero ne pubblica la parte conclusiva nel numero dell’8 marzo 1967, con il titolo “La Chiesa non ha bisogno né di moschettieri né di avanguardisti”. Padre Balducci, letto il documento, subito scrive: “Bella la lettera, specie nella seconda parte. Ne scriverò”.

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Il card. Michele Pellegrino viene a conoscenza della lettera pastorale tramite Henry De Lubac mentre partecipa a un convegno a Lione e ne chiede una copia. Padre Bernard Häring scrive all’arcivescovo:

«New Haven 28 febbraio 1967. Eccellenza, ringrazio per la sua lettera pastorale “A dialogo con i divorzisti”. L’ho letta con gratitudine. Un simile discorso è necessario in molti argomenti. I nostri sacerdoti devono imparare insieme con i fedeli l’arte dell’amore che distingue fra fermezza tra i principi e fermezza nella misericordia. Un tema attualissimo mi sembra proprio questo: la morale cattolica non cambia con la legislazione civile; la coscienza dei fedeli non si informa dalla sola legislazione umana, ma dalla legge divina; d’altra parte ci sentiamo obbligati a contribuire per una sapiente legislazione secondo le possibilità storiche. Nel nostro caso (divorzio) questo - secondo il mio parere - significa formare una sana opinione pubblica; mettere in rilievo il valore della fedeltà come carattere del vero amore; la preziosa testimonianza della sposa abbandonata, se rimane sempre disposta di riconciliarsi e di salvare lo sposo. Tutto questo non sarà credibile ai nostri fedeli e ai non cristiani se non va insieme con misericordia con coloro che hanno fatto un errore - un peccato - ma poi fanno quello che loro è possibile e umilmente pregano per quello che non ancora sembra possibile. Ho sviluppato parecchi temi sull’argomento nel mio piccolo libro “La predicazione morale dopo il Concilio” (ed. Paoline). Da quattro settimane sto in America. Per un anno insegnerò in due grandi facoltà teologiche protestanti che rappresentano tutte le chiese evangeliche degli Stati Uniti (Yale Divinity School con quattrocento studenti e Union theological seminary con 800 studenti). Il mio compito secondo il contratto è di dare un’esatta informazione sullo stato della teologia morale cattolica ai futuri ministri e professori protestanti. L’accoglienza è stata ottima. Con ossequi distinti p. Bernardo Häring» 58.

Un commento alla lettera pastorale di Henri De Lubac:

«Eccellenza reverendissima, è un raggio di gioia che mi porta la vostra lettera pastorale. Essa è una volta di più la lettera di un buon pastore che istruisce il suo gregge sopra un soggetto bene scelto perché esso è il più attuale e il più sostanziale. Se fosse stato ancora in tempo l’avrei comunicata ai vescovi della nostra regione perché ne facessero profitto. Sarà per l’anno prossimo. Dopo il Concilio, in Francia come in alcuni altri paesi un partito di agitati pretende di dirigere un aggiornamento che non ha più niente di quello

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che voleva Giovanni XXIII, che il Concilio ha promulgato e che Paolo VI ci richiama. Invochiamo lo Spirito Santo perché la crisi attuale si evolva in senso favorevole. Siano benedetti i vescovi fedeli al loro ufficio di testimoni e di guide; con molto rispetto» 59.

Durante poi la propaganda sul referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, l’arcivescovo scrive un trafiletto su L’Appennino camerte intitolato: “Non abboccare!”.

«Alcuni sacerdoti hanno ricevuto un’offerta di collaborazione da parte di un partito che evidentemente si propone di trasformare il referendum in una crociata “pro ecclesia et pontifice” (che poi della Chiesa e del Pontefice non gliene importa un fico secco, si fa per dire), ma il tema degli arditi e dei crociati è tramontato da un pezzo. La Chiesa si limita ad annunciare il Vangelo. I sacerdoti hanno ottimo materiale nel capitolo 19 di Matteo che richiama Genesi 2 e prepara 1 Corinti 7 ed Efesini 5. Il resto, molto sobrio, è indicato nel messaggio della CEI pubblicato anche nel nostro settimanale n. 8. E forse non è male ricordare - risulta che molti lo ignorano - che la Chiesa non può ammettere i divorziati al matrimonio religioso; anzi, se risposati - almeno come regola generale - non può nemmeno ammetterli ai sacramenti. Comunque l’arcivescovo ci raccomanda di dirlo chiaro, di dimostrarci predicatori sereni del Vangelo e non galoppini di chicchessia» 60.

Questo comunicato fa il giro dei giornali nazionali ed è considerato e sfruttato dai fautori del divorzio come favorevole al divorzio. A questa interpretazione l’arcivescovo risponde con un articolo intitolato “Immanu-El e l’on. Fortuna”. Ecco la parte conclusiva.

«Piaccia o non piaccia a Paese sera, 4 marzo, abbiamo fondati motivi di ritenere che l’arcivescovo, esortando i suoi sacerdoti ad essere “sereni predicatori del vangelo” (galoppini di nessuno) intendesse riferirsi al vangelo di Gesù, come è scritto per esempio nel capitolo 19 di Matteo. Il Vangelo non è una polpettina per le anime pie. Il Vangelo è impegno, è lotta, è sacrificio. Il Vangelo è vita giocata, resa possibile dalla presenza di Immanu-El. È Vangelo doloroso (ma è Vangelo pur quello) il piccolo innocuo brano saltato da Paese sera, a cui premeva inveritare un vescovo contestatore. Il brano dice così: “E forse non è male ricordare - molti lo ignorano - che la Chiesa non può ammettere i divorziati al matrimonio religioso; anzi se risposati o conviventi - come regola generale - non può nemmeno ammetterli ai sacramenti”. Forse questo non interessa all’on. Fortuna. Però anche per lui c’è Immanu-El. Del resto, sentite un po’! Vi pare proprio che usciremmo

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dal Vangelo se insegnassimo che la legge Fortuna è una pessima legge e che merita la nostra bocciatura solenne? E se è vero - come è vero - che il Vangelo è un Vangelo di libertà, vuol dire che saremo più comprensivi all’esame di riparazione» 61.

A questo articolo ne segue un altro ancora dell’arcivescovo dal titolo “Precisazioni di un vescovo… divorzista”.

«Con grande dispiacere vengo a conoscere che da qualche parte - e in specie nella mia cara Migiana, che in altri tempi conobbe il mio stile fin troppo intransigente e battagliero - è stato fatto il mio nome come di un vescovo favorevole al divorzio, nella fattispecie della pessima legge Fortuna. Per quanto riguarda l’episodio di Migiana - dato che il promotore dell’informazione propagandistica è stato un giovane confratello del resto carissimo - spero che si sia trattato di semplice incoscienza e non di malafede. Professo il massimo rispetto per quei laici cattolici che si sono espressi in senso contrario. Posso credere alla crisi interiore di fratelli sacerdoti che in questa particolare contingenza storica avvertono la sofferenza di anime rette che è possibile trovare in qualsiasi campo d’azione. Ma deploro la ribellione aperta di quei confratelli che confondono i pruriti profetici con lo spirito di Dio; si credono autorizzati a opporsi al giudizio dell’episcopato e si fanno galoppini - involontari spero - di quella babele al rovescio in cui si trovano in armonia “diverse lingue e orribili favelle” per la promozione della società permissiva. È stato per aver detto ai miei confratelli “galoppini di nessuno, predicate Matteo 19 e basta (in cui il galoppinismo a confronto dei nuovi profeti metteva in guardia dagli occhi di triglia di un partito che “tira dritto per il sì”, ma di Matteo non dovrebbero intendersene un gran che), è stato per aver detto “galoppinismo” che il rullo compressore della stampa social comunista liberale e la cosiddetta indipendente mi ha sollevato agli onori di una cronaca in cui - in ogni caso - sono fuori posto. E a cui, sia ben chiaro, non tengo» 62.

La pastorale “A dialogo con i divorzisti” dell’arcivescovo Bruno Frattegiani è incappata in una grave distorsione esegetica, grave e offensiva anche sul “Corriere della sera” e sulla rivista “Amica”. In appendice le risposte dell’arcivescovo.

•Lapioggia,lagrandineeilsole(dopoilreferendumdel12maggio)

«Carissimi fratelli sacerdoti, è attribuita al card. Poletti vicario di Roma la battuta di commento ai risultati del referendum: “Credevo che piovesse, ma

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non che grandinasse”, dove l’umorismo era chiaramente rivolto a smaltire l’amarezza. Di motivi di amarezza ce ne sono diversi a cominciare dallo stile violento con cui si è cercato di coprire e perfino di intimidire le voci che professavano l’urgenza di un sì indissolubilmente legato al sì del rito, al sì della fedeltà “in ogni circostanza felice o avversa e nella buona e nella cattiva salute”, al sì pronunciato da Dio sul sì della prima coppia (non ancora cristiana!), al sì sempre valido per tutti gli uomini nel rude pronunciamento di Gesù. Che la banale trovata del “non votare come Almirante” possa aver fatto presa sulle masse non è incoraggiante dal punto di vista della stima che i dirigenti di partito dovrebbero avere per i loro gregari. E non vi pare che sarebbe ora di farla finita di sfoderare l’epiteto “fascista” ogni volta che qualcuno dimostra di dissentire da impostazioni e purtroppo imposizioni di parte? e non vi pare che c’è troppa compiacenza, troppo smaccato conformismo nell’adottare con faciloneria il vocabolario dell’intolleranza? Quanto fa pena vedere tanti giovani in gamba diventati preda di pochi scalmanati! Un altro motivo di tristezza è la infallibile presa di posizione di quei cattolici (antinfallibilisti per quanto concerne la gerarchia) i quali hanno ritenuto di far progredire la chiesa verso la libertà, stemperando la durezza di Cristo nelle edulcorazioni borghesi. Io capisco la pena di chi si sente pesare l’angoscia di fratelli sconvolti da sciagurate esperienze matrimoniali (e chi può sottrarsene, se ha un minimo di consapevolezza cristiana?). Ma sono assurde codeste certezze carismatiche (non importa se sgorgate dalla preghiera!) che sconvolgono il senso genuino di chiesa. Al posto d’una chiesa visibile, gerarchica, incarnata nel suo grano e nel suo loglio (i peccatori stanno a cuore anche a noi, fratel Carlo Carretto; oltretutto ci sentiamo peccatori pure noi), al posto d’una Chiesa concreta dove c’è spazio “per la ressa dei mediocri», si aderge schifiltosa una chiesa donatista di «specialisti del Logos”, loro solo dotati del discernimento degli spiriti. L’indovinata opposizione “mediocri-specialisti” è di quel grande maestro di fede che risponde al nome di Henry De Lubac. Una buona lettura del suo libro “Meditazione sulla Chiesa” sarebbe molto proficua per i cristiani del no. Un terzo motivo di tristezza è la confusione di idee che non può non essere nata nella testa di tanta povera gente. Non per nulla ci siamo detti che la nostra doveva essere solo opera di illuminazione delle coscienze e doveva limitarsi ai testi biblici chiarissimi nel quadro dell’insegnamento e della prassi ecclesiale; ma doveva anche sottolineare quello che parrebbe ovvio eppure ovvio per tanti non è (penosa denuncia della nostra insufficiente catechesi): che cioè il divorzio scioglie davanti al sindaco ma non davanti a Dio, perché davanti a Dio - e quindi in chiesa - ci si sposa una volta sola. Naturalmente a questo punto sarebbero saltati su - e salteranno su pure adesso - gli informatissimi intellettuali del rotocalco settimanale i quali hanno orecchiato tutto sulla sacra rota (fra parentesi mi permetto rinviarvi

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a due servizi modesti, ma assai eloquenti e direi quasi esaurienti, comparsi sul nostro settimanale a firma di un certo Vom Rad il 20 aprile e l’11 maggio di quest’anno. Vom Rad, che vuol dire “della rota”, dovrebbe nascondere qualcuno che ha bazzicato i tribunali ecclesiastici e un pochino parrebbe intendersene). Come dicevo nella lettera pastorale del 1967, “domani potranno esserci dei fratelli cristiani che scelgono il divorzio. È chiaro che essi optano per una concezione di vita che non è cristiana… Sarà assurdo che essi chiedano i sacramenti di una chiesa che dimostrano di non credere e sarebbe un tradimento da parte mia il darglieli”. Il disgraziato “domani” è venuto. Il dopodomani è nelle mani di Dio. Proprio ieri ho ricevuto una lettera da Monaco di Baviera, dove mi si traccia un parallelo fra l’abdicazione dei cattolici italiani di fronte al divorzio e quella dei cattolici tedeschi di fronte all’aborto (si tratta per ora solo di un sondaggio di opinione pubblica di fronte alla liberalizzazione del crimine nei primi tre mesi di gravidanza, già approvata dal Bundestag il 6 giugno). Il dopodomani è nelle mani di Dio. Ma nelle nostre mani c’è il vangelo di Dio in Gesù Cristo. Dopo la pioggia e dopo la grandine è questo il sole di Dio e non teme il buio che gli uomini hanno preferito alla luce (Giov 3, 19). Noi ne siamo debitori a tutti (Rom 1, 14). Prima il vangelo e poi i sacramenti. Senza vangelo, niente sacramenti. Senza vangelo, niente matrimonio cristiano (tutt’al più una bella cerimonia, magari sacrilega! ma che importa quando ci son tanti fiori e una soavemente gorgheggiata avemaria di Schubert?). Cari fratelli, il sole dice chiarezza. È giunta l’ora in cui le circostanze storiche esigono da noi il rovescio di quello che con santa fermezza fece il mio amico e consacrante mons. Fiordelli nel 1958. Se non ci vediamo chiaro, se da noi non si accetta l’unica cosa che possiamo e dobbiamo dare e cioè il messaggio del vangelo, noi dobbiamo cortesemente ma fermamente rifiutare il matrimonio. Da noi è lecito sperare che si tratterà di un caso rarissimo. Resta l’obbligo di esigere da tutti i nubendi una adeguata preparazione. Il terzo anno del programma “evangelizzazione e sacramenti” (ordine e matrimonio) dovrebbe trovarci intonati fin da adesso. Qui vorrei aggiungere solo quello che accennai nell’incontro del giovedì santo. Riterrei opportuno che alla forma ecclesiastica del matrimonio sia tolta la clausola invalidante. Non è più sostenibile che io rifiuti il matrimonio religioso e poi debba trattare da concubini i nubendi. Opportuni provvedimenti penali (per il caso che i peccantes resipiscant) potrebbero sostituire la clausola invalidante che - come sapete - è nata solo col concilio di Trento. Mi auguro che il prossimo sinodo (proprio per l’urgenza del suo tema, evangelizzazione nel mondo contemporaneo) prenda a cuore questa istanza. Comprendo le difficoltà. Il divorzio le completa. Ma proprio in questo modo apparirebbe chiara la differenza fra il primo e il secondo matrimonio. Oggi il primo (sempre trattandosi di cattolici) è invalido in forza di una disposizione ecclesiastica, il secondo è invalido sempre in forza

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del quod Deus coniunxit. Dopo da pioggia e la grandine, il sole di Dio… Che il sole di Dio (la nostra lectio biblica maturata nella preghiera e in tutto il contesto di vita sacerdotale) fecondi il vostro campo di lavoro. Anche la pioggia e perfino la grandine contribuiscono alla crescita dell’agricoltura di Dio. Camerino, festa del Corpo del Signore, 1974. ✠ Bruno arcivescovo» 63.

•Invitoalla“tre giorni” sul matrimonio

Per la “tre giorni” diocesana su “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” che si svolgerà nel seminario di Camerino, mons. arcivescovo scrive il seguente invito indirizzato al clero, ai religiosi, ai laici impegnati:

«L’esperienza degli ultimi anni, da quando abbiamo aperto la “tre giorni” ai nostri laici, mi dà fiducia che anche questa volta la risposta sarà confortante. L’importanza del tema “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio” con tutte le sue implicazioni storiche, liturgiche, bibliche, teologiche e pastorali, la competenza del maestro Adriano Nocent, a cui ci lega ormai, per lunga consuetudine, stima profonda e vivissima simpatia, e finalmente la possibilità di trovarsi e lavorare insieme, sono altrettanti motivi che mi fanno pregustare la gioia di essere con voi – sacerdoti, religiosi, religiose, laici – con voi fermento di Chiesa viva e operai del Vangelo. È bello essere con voi a pregare e a lavorare là dove la nostra Chiesa locale – la Chiesa delle nostre due diocesi sempre più affratellate – non può tornare a sentire la vitalità delle proprie radici, voglio dire il nostro seminario (il problema del seminario non può non essere tra i più urgenti tanto per Camerino come per Sanseverino e nessun contesto gli è più congeniale di una teologia della famiglia). Vi attendo numerosi, volenterosi, decisi. E vi benedico» 64.

L’enciclica“Humanaevitae”

Nel 1968 Paolo VI pubblica l’enciclica Humanae vitae sull’amore coniugale, la paternità responsabile, unione e procreazione, che tante polemiche suscita anche in ambienti ecclesiali. Fa seguito un comunicato della CEI che ne mette in luce il grande significato, richiamando la responsabilità dei cristiani nell’accettare le indicazioni del papa. Mons. Frattegiani propone all’attenzione dei sacerdoti e dei fedeli la grande validità dell’enciclica e, nell’occasione di una “tre giorni” diocesana sull’Azione cattolica, invia al papa il seguente telegramma: «Beatissimo Padre, il clero di Camerino e Sanseverino Marche, seriamente impegnato in una tre giorni sull’Azione cattolica post conciliare sotto la guida di mons. Agostino Ferrari Toniolo,

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esprime la ferma adesione agli insegnamenti dell’Enciclica Humanae vitae, insieme al proposito di farne oggetto di studio serio e di fedele trasmissione ed applicazione pastorale». A questo proposito commenta S. Paolo (2 Cor 4, 1-2).

«“Pertanto avendo ricevuto questo ministero in quanto fummo oggetto di misericordia, non ci scoraggiamo. Anzi abbiamo ripudiato i sotterfugi vergognosi, rifiutando di camminare nella furberia di falsificare la parola di Dio. Al contrario nella manifestazione della verità ci raccomandiamo a ogni coscienza umana nel cospetto di Dio”. Il nostro ministero nasce dunque dall’Amore misericordioso che ci ha assunto di mezzo agli uomini non certo per la nostra bravura. E non deve poggiare se non sull’amore misericordioso. Quando Paolo VI ha detto al mondo cose dure nella Humanae vitae (stavolta si può dire ad litteram senza addolcire la pillola) non ha avuto altra fiducia che la croce del Signore, che egli spera radicata nel cuore dei cristiani e non ha avuto altra forza che nel nome del Signore. Egli ha pregato e sofferto (vedo oscillar nella notte la lucernetta del curato d’Ars e sullo sfondo la finestra illuminata di piazza San Pietro). Egli ha studiato a lungo e si è consultato con molti (anche questo necessario, perché la parola di Dio non è una formula magica: mistero d’incarnazione, essa esige da noi la preparazione che ne promuova la “presa” nell’ambiente di ogni nostra giornata)» 65.

Invita poi all’approfondimento della stessa enciclica con un articolo del grande teologo Jean Danielou, di cui riportiamo il brano finale:

«Le violente scosse che ha suscitato l’enciclica attestano a qual punto essa ha toccato un cardine essenziale. Ha scatenato il furore di tutti quelli che col pretesto di riconciliare la Chiesa con il mondo non fanno che configurare la Chiesa sul mondo. Si sono ricapitolati in questa occasione tutti gli “slogan” sul disprezzo della carne nella Chiesa, sull’integrismo post conciliare, nonché sul carattere ansioso di Paolo VI. Il tipo fazioso di tale argomento costituisce la migliore giustificazione dell’enciclica. Giacché il suo insegnamento è un insegnamento d’amore e non di condanna, un orientamento dato a tutti e non la costituzione di una piccola setta di fedeli».

•Inchiestasulcontrollodellenascite

Sul tema mons. Frattegiani richiama e commenta un’inchiesta promossa nel Maceratese, a cui hanno risposto oltre un migliaio di insegnanti, illustrata su Il Resto del carlino da Mario Zampetti il 17 novembre 1972. Egli annota:

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«Che oltre un quarto degli intervistati abbia dichiarato di non aver interesse per questo tipo di problemi, dice molto bene Zampetti, “è un fatto difficile a spiegarsi, perché ogni insegnante in quanto tale, dovrebbe informarsi su ogni problema di interesse generale e di attualità”; aggiungeremmo un altro motivo: pur essendoci a volte imbattuti in insegnanti divenuti in tale materia degli autentici diseducatori, riteniamo che aver idee chiare sul controllo delle nascite (diremmo meglio con una parola meno malformata: sulla paternità responsabile) appartiene al bagaglio minimo indispensabile d’ogni educatore. E che un insegnante non sia educatore è semplicemente inconcepibile. Sul metodo poi da consigliare, ci informa ancora Zampetti, essi ritengono che i più accettabili sarebbero quelli della continenza periodica (Ogino Knaus, temperatura basale) e quelli comportanti l’uso di antifecondativi orali. E questo è confortante perché denota una valutazione corretta del rapporto tra i coniugi; pur non mancando il richiamo alla famosa “pillola” e quindi in contrasto di principio con l’Humanae vitae, non sarà fuori luogo ricordare come al particolare senso di comprensione di Paolo VI per la non facile situazione di molti coniugi fece eco la sollecitudine di quasi tutti gli episcopati del mondo: tutti ribadirono con energia la condanna dell’egoismo (l’egoismo travolge nella sua immoralità costituzionale qualsiasi metodo fosse pure angelico) e sottolinearono la posizione scabrosa di chi si trova a dover limitare la prole senza per questo poter rinunciare all’impegno di una sacra, ma integrale comunione d’amore. In sostanza il punto di vista di Paolo VI era quello stesso del discorso della montagna: non è la legge ma solo la grazia che salva. E l’Humanae vitae resta soprattutto un grande documento di delicatezza paterna inculcata ai pastori di anime e soprattutto ai confessori, troppe volte nel passato guidati da una intransigenza pratica tutt’altro che evangelica. È del resto confortante - parliamo ancora dell’inchiesta secondo la relazione Zampetti - che le insegnanti intervistate, se da una parte esigono garanzie per la propria salute, dall’altra amano in maggioranza rifarsi ai principi religiosi. Per quanto riguarda l’aborto fa piacere costatare la percentuale bassa (10%) di quelli che attribuirebbero alla popolazione maceratese (chi sa poi come lo sanno) una certa disposizione ad accettare “la legalizzazione dell’aborto” in genere; impressiona però negativamente - per un buon terzo delle risposte - il franamento dell’opinione pubblica (e qui si tratta di insegnanti e cioè di educatori delle generazioni future) di fronte alla massiccia propaganda in favore perfino per la liberalizzazione dell’aborto. “Essi ritengono - riferisce Zampetti - che debba essere permesso l’aborto provocato non solo nel caso di indicazione di natura medica, ma anche di natura psichiatrica e quando si hanno fondati motivi di malformazioni nel feto. Una parte di essi ritiene che esso debba essere permesso anche nei casi di violenza carnale”. Manca grazie a Dio un’argomentazione in favore dell’aborto dedotta dall’assoluta disponibilità del proprio corpo come a volte

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si riferisce addotta da donne più o meno celebri (superfluo dire che il profeta Amos le chiamerebbe “le vacche di Samaria”). Ma è ugualmente penoso che ci si adatti tanto facilmente a tornare indietro di duemila anni, non dico di fronte al messaggio cristiano, ma rispetto allo stesso diritto romano che ha improntato di sé tutte le legislazioni civili quando ha fissato il principio “conceptus pro jam nato habetur” (chi è concepito si consideri come nato ad ogni effetto). Io capisco che si possa valutare con indulgenza il terrore di una mamma, che forse ha altri bambini da tirare avanti, a cui - spesso con eccessiva facilità - i medici hanno detto: o abortisci o muori. Posso perfino credere, per certi casi limite, alla buona fede dei medici che non riescono a vedervi l’inesorabilità del “non uccidere” sembrando loro - certo a torto - che non agire equivale uccidere la madre. Io capisco il profondo smarrimento di una ragazza violentata da un bruto. Personalmente mi guarderei bene dal giudicare incorse nella scomunica tali persone. Ma pur favorevolissimo alla abolizione di tutte le scomuniche, dico francamente che ci terrei molto a che la Chiesa mantenesse tale gravissima sanzione per colpire questo enorme delitto contro l’umanità , che si vorrebbe ridurre al rango di una innocua cura contro un agente patogeno. In fondo per il Terzo Reich erano agenti patogeni anche gli ebrei e i deportati politici; e le camere a gas e i forni crematori rappresentavano nel caso una misura igienica di indubbia efficacia. Alla misura igienica erano delicatamente sottoposti anche i minorati fisici (una fungaia parassitaria assai pericolosa per la sanità della razza). I nostri nazi-abortisti che si fanno degna bandiera di luridi giornali, hanno trovato più comodo e meno dispendioso provvedere fin dalle sorgenti della vita. E del resto i minorati sono una scusa: quando si è aperta la cateratta, la fiumana di fango travolge tutto e le “vacche di Samaria”, patrocinate dai paladini dell’obbrobrio vi sguazzano “come porci in brago” direbbe Dante. “Come la scrofa - direbbe S. Pietro - che si lava e poi s’avvoltola nel fango”. Ma ce n’è per ambo i sessi; non è fango soltanto. È sangue. Nessuna differenza dal sangue versato da “Settembre nero” o dalle incursioni israeliane, dal napalm americano o dai mortai vietcong. Come si fa poi a stracciarsi le vesti e a predicare contro la violenza? Quando Hitler volle preparare una gioventù di razza buona, capace di non titubare davanti allo sterminio, insinuò nel Mein Kampf il superamento del concetto semitico di peccato. Dalla sensualità inculcata senza ritegno e praticata senza pudore (vecchio tabù) non è difficile cadere nel sadismo più feroce.Il senso del peccato resta – con il richiamo a conversione continua - uno dei capisaldi del cristianesimo (non c’entrano per nulla i complessi di colpa, frutto di una educazione malsana). Peccato da detestare e peccato da perdonare. Quante volte il fariseismo di famiglie perbene, cosiddette praticanti (ma praticanti che cosa?), hanno spinto figliole che hanno

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sbagliato a completare lo sbaglio con il delitto! Si tratta di gente che non ha capito la propria miseria e quindi non può far tesoro del perdono di Dio e quindi non sa aiutare creature cadute a rifarsi una vita con dignità. Fa spavento l’altro, il maschio, il dongiovanni da strapazzo che se ne va a cuor leggero. Sulla sua vita peserà sempre, voglia o non voglia, il grido di dolore di un amore ingannato nella migliore delle ipotesi, il cadaverino deforme di una creatura di Dio assassinata nel caso più deprecabile. I facili paladini dei porno illustrati, i produttori e i registi del gusto facile, i socio-psicologi del “superamento”, gli squallidi industriali piccoli e grandi di certe sale di ritrovo (la solita macchina pubblicitaria strilla sotto la mia finestra l’ennesimo invito all’ennesima serata danzante di questo perpetuo carnevale in cui viviamo a dispetto della situazione tutt’altro che allegra) mi ricordano i lanzichenecchi di manzoniana memoria che “insegnano la modestia alle fanciulle”. Ma un domani che indulge al delitto si annuncia tutt’altro che roseo per la generazione che avanza. “Se il Signore non costruisce la casa, lavorano invano quelli che la tirano su” (salmo 127). Ma noi confidiamo ancora, grazie a Dio, alla possibilità di tante case “costruite sulla roccia” (Mt 7, 24). E ciò in particolare per le nostre Marche» 66.

•IldecalogodellaCEI

«Ci si domanda se è il caso di leggere in chiesa il decalogo formulato dalla CEI dopo la deprecata affermazione abortista. Non c’è questione di caso, dichiara l’arcivescovo, ma si tratta di un dovere preciso del nostro ministero. Credo - soggiunge - di non essere stato, almeno in questo, il cane muto incapace di latrare di cui parla Isaia 56,10. È nostro preciso dovere leggere e spiegare e affiggere il decalogo alle porta delle nostre chiese. Non è infatti questione soltanto il fatto di un peccato. Qui si tratta di scegliere da cristiani o no. Si tratta di una scelta di fede. Ogni cristiano purtroppo può peccare. Tutti purtroppo possiamo peccare e non c’è bisogno che ce lo ricordi Dario Fo. C’è però una sfumatura importante: nel momento in cui ci riconosciamo peccatori, noi compiamo un meritorio atto di fede che dispone al perdono. Quando invece neghiamo il peccato (sesto e in questo orribile caso, quinto comandamento inclusi) abbiamo rinnegato la fede – ci dice S. Paolo – e siamo molto peggiori di un infedele (1 Tm 5,8). E chi accetta la legge assassina diventa per sé e per gli altri apologista di un grande peccato. Il che non ci impedisce di considerare e trattare gli erranti con la massima pazienza e carità. Ma anche con serietà. Una confessione che dimostri di non includere il pentimento è nulla per il penitente (in realtà non penitente) e sacrilega per il troppo compiacente ministro. Quod Deus avertat!» 67.

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•Comunicatosul“Delittodiaborto”(8luglio1978)

«La gravissima censura (scomunica riservata all’ordinario) comminata per il delitto di aborto dal can. 2350, sia per gli operatori come per la madre colpevole non è, come pacchianamente ha sentenziato un big del nostro giornalismo, un regalo della CEI o del Papa al popolo italiano. La pena esiste da secoli e ha sempre riguardato tutto il mondo cattolico. È chiaro: i non cattolici non sono in comunione con la Chiesa e quindi non possono essere ex-comunicati (e cioè messi fuori da ex dalla comunione stessa), anche se commettono ugualmente un gravissimo reato contro Dio e contro l’umanità. A tutti i sacerdoti confessori l’arcivescovo raccomanda di rivedere, tanto meglio se in gruppi vicariali di studio e di preghiera, il celebre can. 2254, documento della maternità della Chiesa. Egli ricorda pure che i due vicari generali e i penitenzieri delle due cattedrali hanno ex jure la facoltà di assolvere dietro congrua penitenza. I confessori non aventi facoltà (e non è bene che tale facoltà sia generalizzata per non annullare il canone) possono rivolgersi caso per caso, oltre che all’arcivescovo, ai vicari generali e ai penitenzieri, competenti (almeno in questa materia) per ambedue le diocesi. In ordine a un opportuno allargamento di competenze e anche a una comune concezione di salutaris poenitentia l’arcivescovo gradirà suggerimenti sia a voce che per scritto. In ogni caso nessuno di noi dimentichi mai di essere solo un povero rappresentante del Buon Pastore. A lui ci unisca sempre più una vita di preghiera e di fede. Con questo pensiero (che fa, prima di tutto, suo) l’arcivescovo si congeda dai confratelli per un periodo di riposo e chiede e promette un fraterno “memento”. Il Signore ci unisca sempre più a sé e tra di noi» 68.

In funzione della giornata della vita fissata per domenica 4 febbraio 1979, l’arcivescovo scrive così su L’Appennino camerte del 27 gennaio:

«Non è male che la denuncia contro il card. Benelli abbia messo l’urgenza di evangelizzazione sull’aborto. Già precisamente evangelizzare. Tutti i camerinesi devoti di S. Maria in via sanno che il Vangelo della festa, il 14 gennaio (visita di Maria a santa Elisabetta), mi ha offerto da qualche anno uno spunto felicissimo per evangelizzare la vita nel grembo materno. Bella questa espressione “evangelizzare la vita” immenso dono di Dio sempre! Vorrei pregare i fratelli sacerdoti di innestare la grande pagina di Luca 1, 39-56 nel tessuto delle letture di domenica 4 febbraio, fissata dalla CEI come giornata in difesa della vita. Chi sono in realtà i protagonisti dell’incontro Maria - Elisabetta? Non c’è dubbio: sono le due creature (anche il Verbo s’è fatto creatura) che le due sante donne portano in grembo e cioè Battista di

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sei mesi (per ora protetto dalla legge italiana, bontà sua) e un embrioncino di pochi giorni che peraltro “sarà chiamato Figlio dell’Altissimo”. Sono loro i protagonisti che mettono il canto nel cuore e sulle labbra delle mamme, il “benedetta tu fra le donne” di Elisabetta e il Magnificat di Maria.Siate umanissimi con l’aberrante, fratelli sacerdoti, ma siate implacabili con l’aberrazione. No, non è un progetto d’uomo “lo zigote”, di cui parlava con tanta sufficienza qualche sera fa un radicale arcinoto per le sue stravaganze da clown. Non è un progetto d’uomo: è un uomo. La saggezza del diritto romano sfiora la sapienza del vangelo quando proponeva un principio che tutte le legislazioni civili hanno accettato per duemila anni: conceptus pro jam nato habeatur (il concepito vale per legge come uno già nato). Non è un progetto di Cristo futuro, il piccino che ispira il canto dell’autentica rivoluzione cristiana (il Magnificat). È Cristo dal momento che il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14). Di questo piccolo embrione ecco che cosa dice la lettera agli Ebrei: “Entrando nel mondo (e c’entra nel momento della concezione verginale) dice: Tu non hai gradito l’antica offerta sacrificale. Invece mi hai preparato un corpo. Ho detto: vengo per fare la tua volontà”. Vien fatto di dire pregando: “Madonna santa, tu che ne senti il palpito anche se il cuore ancora non s’è formato, ispira alle mamme un santo istinto di rigetto per la legge che permette l’aborto e un Magnificat di esultanza per il dono santo della maternità. E chiedi perdono e ripresa per tutte quelle che non percepiscono l’orrore dell’abisso e possono sbagliare come tutti sbagliamo”.Ricordate ai fedeli il bellissimo tratto del Salmo 138 dov’è chiaramente descritta l’opera misteriosa del Creatore: “Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai impastato nel seno di mia madre. Il mio essere non sfuggiva al tuo sguardo quando ero formato nel buio, quando fui ricamato nei penetrali della terra (il terreno vitale di mamma). I tuoi occhi mi vedevano ancora informe e nel tuo libro erano scritti tutti i miei giorni, quando ancora non c’era nessuno”. Sono poveri ma chiarissimi spunti, cari fratelli: potete leggerli alla vostra gente, ma è meglio che li sviluppiate in una ben preparata omelia, nella quale il paolino “guai a me se non annuncio il Vangelo” della seconda lettura domenicale potrà esservi di ispirazione. Parliamo con garbo, ma parliamo con forza e chiarezza. Mai come adesso Dio autore della vita è con noi» 69.

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ECUMENISMO «Considero – scrive Frattegiani – una grazia del Signore il fatto di essere stato avviato per tempo a sentire il problema dell’unità dei cristiani. Fu soprattutto dopo il mio ritorno da Roma, dove ero stato bloccato per gli studi teologici e giuridici (sono già quarant’anni sonati) che fui chiamato a essere parte attiva in Perugia per l’organizzazione della settimana per l’unità. Ma allora si preferiva, purtroppo, parlare solo di preghiera per il ritorno dei lontani. C’era sotto una specie di convinzione farisaica che solo noi cattolici in fondo si era di casa nell’ovile di Cristo: “La porta è aperta, sarebbe ora che si decidessero ad entrare coloro che sono usciti”. Il grande passo in avanti venne con il Concilio per cui la stagione di papa Giovanni e di papa Paolo VI poté rivelarsi come un’autentica primavera. Ricordata l’amarezza delle divisioni e delle susseguenti incomprensioni secolari, il decreto sull’ecumenismo così si esprime: “Ora il Signore dei secoli, il quale con sapienza e pazienza prosegue il disegno della sua grazia verso di noi peccatori, in questi ultimi tempi ha incominciato ad effondere con maggiore abbondanza nei cristiani tra loro separati l’interiore ravvedimento e il desiderio dell’unione. Moltissimi uomini in ogni dove sono stati toccati da questa grazia ed anche tra i nostri fratelli separati è sorto, per grazia dello Spirito Santo un movimento ogni giorno più ampio per il ristabilimento dell’unità di tutti i cristiani”». «Al movimento ecumenico – afferma ancora mons. Frattegiani – appartengono e normalmente collaborano “quelli che invocano la Trinità e professano la fede in Gesù Cristo Signore e Salvatore e non solo le persone singole, ma anche riunite in comunità nelle quali hanno ascoltato il Vangelo e che i singoli indicano essere la Chiesa loro e di Dio. Tutti in genere aspirano all’unità, così da renderla più agevolmente realizzabile”, che il mondo si converta al Vangelo e così si salvi per la gloria di Dio. In senso largo poi il movimento ecumenico si apre anche ai fratelli ebrei (che devono esserci carissimi in Cristo, figlio di Dio e figlio di Davide) e ai fratelli mussulmani (adoratori con noi, anche se non come noi del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe); in senso ancora più largo il movimento si apre a tutti gli uomini d’ogni religione o anche, disgraziatamente senza religione e senza Dio. Nelle intenzioni dell’ottavario ecumenico non manca mai un’implorazione particolare anche per questi fratelli estranei al corpo, ma non al cuore della Chiesa madre. Lodevole ho trovato di anno in anno l’organizzazione della settimana, a Camerino come città, dove tanto le parrocchie, come le istituzioni e i movimenti convengono ogni sera a Santa Maria in via. Sento come una mancanza essere stato assente a Sanseverino, ma sono certo che (diciamo così) la seconda capitale non è inferiore alla prima. Quest’anno

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comunque voglio che si programmi una sera anche a Sanseverino. A parte le due... capitali vorrei che ogni parroco s’impegnasse, dove è possibile, con l’intero ottavario e dove non è possibile, almeno con un particolare richiamo domenicale. Ecumenismo e missioni, sia pure in maniera diversa devono essere due poli di vivo interessamento per il popolo cristiano. La maniera tocca il problema dei fondi che non è pressante per l’ecumenismo (ecumenismo-economico!) e resta invece di fondamentale importanza per un’autentica formazione missionaria alla collaborazione anche economica. Sono certo che nessuno trascurerà questo fraterno richiamo. Di ognuno il Signore benedica l’impegno mentre facciamo nostro l’anelito di Gesù: ut omnes unum sint 70. È la sagra dell’unità che ogni parrocchia in gamba (ogni centro quando si tratta di città o paesi con più parrocchie) celebra nell’ottavario dal 18 al 25 gennaio. È stata la vostra corrispondenza agli inviti della Chiesa in materia ecumenica, concretati fra noi mediante incontri di preghiera con i fratelli separati (sorelle di Maria di Darmstadt, un fratello pastore di Taizé, studenti ortodossi della nostra Università, a Sanseverino il pastore Bertalot) e anche mediante massicce partecipazioni a convegni ecumenici (ricordo i quaranta di Ariccia, settembre 1970) è stata, dicevo, la vostra corrispondenza che mi ha procurato per tre volte l’onore e l’onere di essere stato eletto nella commissione CEI per l’ecumenismo. È assolutamente necessario che la nostra gente prenda coscienza del problema, per esempio la veneranda tradizione dell’ortodossia orientale e il fenomeno inquieto del protestantesimo dalle molte anime con l’aberrazione assurda dei testimoni di Geova, che pure conta molto sull’ignoranza cronica in materia di fede (qui ci sarebbe altro paragrafo: urgenza, ma spero non ce ne sia bisogno. S’incarna nel paolino: “Vae mihi si non evangelizavero” (1Cor 9,16)» 71.

Nel “Quadrante liturgico” (19.9.1970) l’arcivescovo, commentando la pericope di Mc 9, 38-48, tra l’altro scrive:

«C’è un pensiero fondamentale che potrebbe essere tema di profonda e tempestiva meditazione ed è dato dai primi tre versetti. È un pensiero ecumenico. Il cristianesimo non monopolizza il bene (la bontà esiste anche al di fuori di noi). Il movimento ecumenico ci fa intravedere ogni giorno di più gli aspetti migliori delle altre chiese e anche di coloro che sono al di fuori del cristianesimo. Abbiamo forse ceduto alla tentazione di confiscare il Cristo per noi soltanto e di pensare di più alla compattezza della nostra comunità, che alla causa del Signore. Dobbiamo essere umili, riconoscere le nostre colpe verso gli altri e soprattutto che noi siamo dei poveri peccatori. Non è escluso che ci siano tante persone migliori di noi e nelle altre chiese e anche fra le

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religioni non cristiane. È una visione oggettiva della realtà del resto suggerita da Gesù: chi non è contro di noi, è per noi. Non si tratta di essere tolleranti verso chi non crede come noi; si tratta invece di inserire nella volontà salvifica di Dio tutte le forze, che si muovono nel mondo e nell’ambiente ecclesiale, per convergerle verso l’unico Cristo. Esistono molti cristiani di fatto e, riferendoci alle altre chiese cristiane, è sempre vero quello che diceva Bruce Marshall che esistono molti cattolici che non sono cristiani e molti cristiani che non sono cattolici. L’ecumenismo diviene quindi, particolarmente in Italia, dove la popolazione è quasi tutta ufficialmente cattolica, rinnovamento nella Chiesa. Non c’è vero ecumenismo senza conversione interiore; perciò dobbiamo implorare dallo Spirito Santo la grazia di una sincera abnegazione, dell’umiltà e mitezza nel servire e della fraterna generosità di animo verso gli altri. Bisogna anche perdonarci reciprocamente con grande larghezza. La conversione del cuore deve essere accompagnata da un vero desiderio di unità. Esistono dei pericoli: si può incorrere in facile irenismo e in un’ardita problematica della fede; contestazione demolitrice, cedimento alle forze negative della secolarizzazione, svuotamento in un piatto indifferentismo religioso, sentirsi spinti solo da una carica socio-umanitaria. È necessario conoscere profondamente la propria fede e aderirvi serenamente. Senza la fedeltà alla Chiesa il dialogo resta inefficace. E se è vero che il movimento ecumenico è di base, non si può prescindere dal vescovo, capo della Chiesa locale, il terreno più adatto per l’ecumenismo, e quindi dal Papa, il pastore della Chiesa universale. Lo Spirito Santo non può ispirare l’unità all’esterno, a prezzo dell’unità interna. Esistono delle incrostazioni anche nel campo della fede che bisogna togliere, ma il limite è costituito da alcune verità essenziali, il cui centro è Gesù Cristo. Superare questo limite è uscire dall’unità, non farla. Comunque è dovere dei sacerdoti, specialmente dei parroci, creare delle comunità veramente ecumeniche, rinnovate attraverso la liturgia, lo studio della Bibbia, la predicazione, l’apostolato dei laici, nel senso di una visione più ampia, più comprensiva e più dinamica della Chiesa» 72.

i proTesTanTi

•ConvegnoSAE(Segretariatoattivitàecumeniche)

Mons. Frattegiani come membro della commissione CEI per l’ecumenismo interviene a molti convegni e incontri: presiede quello di Ariccia, partecipa come rappresentante italiano a quello internazionale di Bari, a quello di Nemi, a quello di Lubecca, Amburgo e Berlino di cui molto parlano i

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giornali tedeschi, a quello organizzato dal SAE. A proposito dell’esito di quest’ultimo convegno così scrive ai membri della commissione CEI:

«Metto insieme una specie di invito avuto da mons. vicepresidente a buttar giù un parere sul convegno del SAE dello scorso luglio sul tema dell’intercomunione e una suggestione che viene a tutti noi da identica voce all’ordine del giorno per il prossimo incontro di domani a otto per sollecitare voi tutti a dirmi un vostro parere. Dal materiale che mi è stato inviato (relazione Marranzini e articoli di riviste quali “7 giorni”, “Politica” e “Rocca”) suppongo che l’invito o meglio l’incarico è motivato dallo scalpore suscitato dalla relazione “L’eucarestia memoriale e l’unico pane spezzato” di p. Marranzini, scalpore di cui si sono fatti interpreti Adriana Zarri e Anna Portoghese. Riconosco che la “maretta” è pienamente giustificata. Il tono del padre gesuita (che si avrebbe il diritto di supporre molto aperto per la consuetudine di traduttore con un teologo del calibro di Karl Rahner) poteva essere pienamente giustificato in un circolo di persone desiderose di conoscere “sic et simpliciter” il pensiero cattolico e l’attuale disciplina cattolica; ma si capisce bene solo a leggerlo quanto dovette risultare indisponente in un convegno in cui accanto a teologi cattolici sedevano pastori e fedeli acattolici, nei quali nulla ci autorizza a supporre una adesione meno sincera e ferma della nostra alla rispettiva posizione di fede. Quanta delicatezza occorre per l’umile nostra certezza di fede, dono del Padre in Cristo “per Spiritum”, perché essa non sia scambiata con una orgogliosa affermazione di sé e del proprio punto di vista. Mi si permetta riferire un’esperienza personale: una lezione di umiltà quando pure il mio tono era improntato a delicatezza e simpatia. Nel 1969 fui incaricato dalla comunità di Marienschwestern di Darmstadt di presentare al pubblico italiano un libretto di madre Basilea (uscì sotto il titolo “Coloro che vincono”, ed. Ancora, 1969). Buttai giù un pezzo entusiasta, che fu bene accetto, però fui pregato con molta delicatezza, ma con molta decisione di “far fuori” due passaggi molto meno graditi. Il primo diceva: “Credo di presentare un libro per cui non ci sono riserve. C’è perfino qualcosa tipicamente cattolico, come quando si parla del pastore Oberlin e di una sua visione del mondo di là, che ricorda da vicino la passio delle sante Perpetua e Felicita... una certa tal quale testimonianza del purgatorio e del suffragio...”. Il secondo riferiva una brillante battuta di Bruce Marshall: “È ora che tutti i cristiani diventino cattolici. Ma è pure ora che tutti i cattolici diventino cristiani”. Se mi si permette, direi che, senza volerlo, p. Marranzini è stato estremamente cattolico e proprio per questo scarsamente cristiano (p. Marranzini mi perdoni, in fondo è questione di sottolineature stonate. Era cristiano del resto ricordare ai fratelli non cattolici, come si faceva un tempo, che la casa rimaneva aperta: tornassero pure se volevano... Sia lodato Dio

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che ci ha liberati dal complesso del fratello maggiore!). Per un bilancio della benemerita attività del SAE occorre tener presente che non tutto – al termine di una sessione – vuole essere presentato con la stessa urgenza. Altro è la lezione del teologo, altro è la conclusione di un gruppo di studio, che in ogni caso è preziosa per la segnalazione di inquietudine, di istanza, di desideri, di cui non possiamo non tener conto (non fosse altro, ove occorra, per correggere). Mons. Bettazzi, la cui presenza e discrezione nel seguire i lavori è stata a giudizio di persona autorevolissima (me teste... cum judicio) molto apprezzata, potrà meglio ragguagliarci, Arrivederci a Roma (perdonatemi le correzioni. Fosse così facile correggere le nostre strutture ecumeniche!)» 73.

•TaizéeDarmstadt

Così mons. Frattegiani racconta la sua conoscenza dei fratelli di Taizé e le sorelle di Darmstadt:

«Domenica 24 luglio a bordo della Nsu Prinz di un caro amico sacerdote filavo da Ars, dove il giorno precedente avevo celebrato sulla tomba del “Curato” il ventinovesimo anniversario del mio suddiaconato, verso Taizé. C’era con noi mia madre, la quale non pareva molto persuasa dei discorsi entusiasti che andavamo tenendo su quella comunità, che avevamo tanto desiderato di conoscere e d’improvviso mi piantò questa domanda: “Ma allora chi sono più buoni, i cattolici o i protestanti?”. Senza che lei se ne rendesse conto, gli ottanta anni della mia cara mamma si mostravano in quel momento carichi di una storia di secoli, in cui l’impostazione moralistica aveva avuto il sopravvento sulla parola di Dio e sul mistero della grazia. La risposta che mi fiorì sul labbro mi fornì poi lo spunto per l’omelia che i cari fratelli di Taizé mi chiesero di tenere alla concelebrazione del giorno dopo nella cripta cattolica della loro splendida chiesa della Riconciliazione. Aiutandomi con alcune cartelle diligentemente e ansiosamente preparate il giorno avanti in francese sul Vangelo della domenica settima dopo Pentecoste, per tanto tempo ho detto sotto i falsi profeti, i cattolici ci hanno visto e stigmatizzato i protestanti, e i protestanti hanno fatto altrettanto per i cattolici. Si dimenticavano così che la parola di Dio ci invita soprattutto e prima di tutto a giudicare noi stessi e che prima di ogni cosa il Vangelo ci insegna l’amore e la comprensione. Taizé con la comunità di monaci protestanti (fiorente di sessanta monaci per lo più giovani) e con quella dei frati francescani così amorevolmente uniti e collaboranti ci insegna a vivere lo spirito di papa Giovanni, guardare prima di tutto quello che ci unisce. La folta assemblea liturgica a carattere internazionale ha riso amabilmente quando ho ricordato la domanda di mia madre: “Ma allora chi sono più buoni

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i cattolici o i protestanti?”, la risposta la dava il Signore Gesù: “Solo Dio è buono e noi possiamo semplicemente attingere alla sorgente inesauribile della sua bontà. Umili servi della verità, senza voler essere moschettieri intransigenti che si guardano in cagnesco dalle opposte trincee, in umile attesa dell’ora di Dio, pregando e operando per l’unità visibile, dobbiamo abbandonarci come la Vergine di Nazareth alla santa volontà di Dio, unico segreto – secondo il Vangelo – del giorno di crescita e di fruttificazione per la vita eterna”» 74.

L’arcivescovo è ospite della comunità protestante e successivamente di quella francescana. Durante l’ufficio mattutino di domenica i fratelli di Taizé pregano pubblicamente per mons. Manziana, per il quale nutrono profonda venerazione, per il vescovo e per il clero di Camerino in vista della “tre giorni”.

•LavisitaaDarmstadtel’originedellacomunità

«In una intervista alla signorina portoghese della pro Civitate cristiana

Con don Amedeo Gubinelli in Germania

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(“Rocca”, 15 ottobre 1963) la sorella E. raccontava così l’origine della comunità: “La notte tra l’11 e il 12 settembre 1944 un bombardamento massiccio distrusse quasi completamente la nostra città... Mai come allora ci trovammo di fronte quasi al giudizio di Dio, a pochi passi dalla più atroce sofferenza e dalla morte. Nella città già nel 1939 un gruppo di signorine sotto la guida di Klara Schlink si erano riunite a pregare e a studiare la Bibbia. Ora, di fronte a quel disastro le mie sorelle capirono che non sarebbero bastati più lo studio e la meditazione; occorrevano anche le opere dell’amore. Presto bisognava fare qualcosa per i nostri fratelli tedeschi, per gli ebrei, e per tutti i cristiani, per tutti gli uomini. La nostra fede senza le opere dell’amore sarebbe stata una fede morta... Nel silenzio di alcuni giorni di penitenza mentre ancora fumavano le rovine della città, nacque l’idea di una comunità religiosa. Fu fatto nella casa della signorina Schlink il primo esperimento di vita comunitaria. Lei si chiamò Mütter Basilea e le compagne Marienschwestern... Si cominciò a insegnare catechismo nei luoghi più frequentati dalla gente, nelle periferie, nelle carceri femminili. Poi l’abitazione di Mütter Basilea non bastò più. Bisognava costruire e purtroppo avevamo sempre meno denari”. Sorella E. continua ricordando gli eventi straordinari della Provvidenza (consigliamo di leggere il libro di madre Basilea: “Dio fa miracoli”, Milano 1968) e il tenace lavoro di muratori eseguito dalle sorelle. “Mentre alcune lavoravano, sotto una tenda montata lì vicino c’era sempre una sorella a pregare incessantemente il Signore. Ora ci troviamo più volte al giorno nella cappella: al mattino per una preghiera libera, a mezzogiorno per intercedere a favore dell’unità dei cristiani e per Israele, al primo pomeriggio per una meditazione sulla sofferenza di Gesù Cristo, la sera per vespro e compieta. La domenica si celebra la cena. La casa Jesus Fremde serve soprattutto a incontri interconfessionali e ci sono celle cattoliche e celle delle altre confessioni. Un luterano o calvinista – spiega sorella E. – può rimanere stupito di trovare nella cella cattolica tale o tale altro testo di S. Giovanni della Croce che esprime per esempio la trascendenza di Dio e la sua inaccessibilità, come un cattolico può ammirare tale o tale altra affermazione di Lutero sulla Madre del Signore o sulla Chiesa. Tutto questo per la ricerca di ciò che può unirci». «Quando mi è giunto il libro di madre Basilea: “Dem Überwinder die Krone” così dattiloscritto nella versione italiana e una lettera delle sorelle Eusebia e Gabriella, che mi chiedevano una presentazione della congregazione e del libro ai lettori italiani, mi sono trovato tanto male: ero davanti a giornate fitte di lavoro e soprattutto avevo l’anima invasa da preoccupazioni di carattere pastorale che mi parevano più grandi di me; volevo rispondere cortesemente che non mi era possibile. Ho aperto il libro da principio: “Come posso riuscire vincitore nelle mie preoccupazioni?”. Era madre Basilea che, con l’incantevole semplicità della sua grande fede rispondeva in anticipo

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alla mia lettera. Allora mi sono messo a scrivere. Il resto è qui. Credo di presentare un libro per cui non ci sono riserve. Soprattutto spira in ogni pagina un cristianesimo autentico, quello della croce e del rinnegamento che è solo presupposto di Pasqua». «Della congregazione luterana delle Marienshwestern di Darmstadt – racconta mons. Frattegiani – avevo avuto notizia nello stesso contesto di letture ecumeniche che mi avevano portato alla gioiosa scoperta dei fratelli di Taizé, ma fu soltanto nel luglio del 1968 che ebbi la grazia di visitarle. Non sto a dirvi la gioia tutta francescana che improntò la fraterna accoglienza. Questa volta eravamo attesi il mio amico ed io. Al cancello d’ingresso era ad aspettarci, agitando festosamente la bandiera italiana la sorella E. Ci scortò trotterellando accanto alla macchina con naturalezza spigliata, che nulla toglieva alla gravità religiosa impressa a fondo negli occhi luminosi e raggianti. Nel piccolo chiostro alcune sorelle avevano preparato il saluto fatto di canti spirituali in un’atmosfera da “Fioretti di S. Francesco”. Perché di S. Francesco le sorelle di Maria di Darmstadt hanno preso soprattutto due cose. Due cose che a molti, che di cristianesimo hanno solo la vernice, appariranno addirittura contraddittorie; un grande amore alla passione di Gesù e un grande spirito di gioia nella povertà e nella carità. Il loro grande recinto, dove ora è anche un reparto destinato alle prime vocazioni di fratelli, si chiama Kanaan e le principali stazioni della vita del Signore vi sono rappresentate da cappelle, aiuole, targhe, immagini che nell’ultima parte ricordano nettamente le nostre stazioni della “Via Crucis”. Un colloquio con madre Basilea, la fondatrice, ci aiuta a capire il legame fra Cristo vissuto e la gioia testimoniata nell’amore. “Quando sono vicina al cuore di Gesù, dice Basilea, tanto lo sono al fratello”. Anche la casa destinata agli ospiti ha un nome che ricorda un legame: “Si chiama Jesus Fremde (gioia di Gesù) e raccoglie ogni anno folte schiere di persone e specialmente di giovani che vi trascorrono un periodo di preghiera e di meditazione”. Gli ospiti danno un’offerta per il loro soggiorno e le sorelle lavorano, ma non lavorano per sé. Esse vivono di quel che manda giorno per giorno la Provvidenza e nella sala da pranzo viene annunciato di volta in volta chi sono gli oblatori di quelle patate, di quelle uova, di quella carne che vengono servite alle sorelle. Lo constatammo quando fummo invitati come ospiti illustri alla cena comune che ebbe tutta l’aria di una liturgia nella parsimonia di cibo e di bevanda (un po’ di thè) e nella esuberanza dei canti di fraternità. Madre Basilea e madre Martiria, la cofondatrice, mi pregarono di parlare della beata Battista da Varano, la mistica francescana camerinese, che le sorelle conoscono per la comunione di fraternità ecumenica con il monastero delle clarisse di Camerino. Acconsentii. Il mio tedesco stentato e condito di strafalcioni contribuì a cambiare la serenità in simpatica ilarità, nulla peraltro che turbasse quell’atmosfera di pace che nasce dalla contemplazione e dal

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lavoro. A Darmstadt infatti c’è qualcosa di francescano, ma anche qualcosa di benedettino, come a Taizé. Si vive di carità come alla Porziuncola e a S. Damiano (come non ricordare quella sera la cena di Francesco e di Chiara?), S. Francesco mi perdoni il paragone con me, ma santa Chiara ci sta a puntino con le Mariens. Si vive di carità, ma si lavora sodo per affrontare le opere di apostolato missionario che già vedono impegnate le sorelle in altri paesi (Phoenix negli Usa, Gerusalemme-Tessalonica, Inghilterra, Danimarca e Italia). Ma le sorelle di Darmstadt ci insegnano che è assurda un’attività orizzontale che sia disincarnata dalla verticale. Orizzontale e verticale sono le due linee che formano la croce e solo la croce è salvezza».

«Ma allora chi sono più buoni i cattolici o i protestanti? A parte le parole di Gesù (ricordo anche le altre), così dolci: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figlioli, quanto più il Padre vostro nei cieli darà lo Spirito Santo a coloro che lo pregano”. (Il vescovo Bruno sarebbe molto felice di essere annoverato nella schiera che comprende i fratelli di Taizé e le sorelle di Darmstadt, e lo spera per la grazia del Signore e per l’amore di Dio Padre e per la comunione dello Spirito Santo!). Del resto non si tratta della schiera dei buoni, ma solo della schiera di coloro che hanno ottenuto misericordia con madre Basilea e con le sue e nostre sorelle carissime in Cristo, preghiamo perché la schiera travolga nell’amore i confini della Chiesa e abbatta gli steccati fra le religioni e colmi le trincee fra le razze e nell’unica fede del solo Signore diventi “la folla immensa che nessuno riusciva a contare” (Ap 7, 9) unico gregge del solo pastore (Gv 10, 16)» 75.

•ManifestazioniecumenicheaCamerino

Manifestazioni ecumeniche non sono più una novità per Camerino, dove già da anni viene celebrata con particolare solennità l’ottava di preghiera di gennaio. Una vibrante manifestazione ecumenica di preghiera per la gioventù si tiene a Santa Maria in via in occasione della visita a Camerino di fr. Pierre Étienne, pastore protestante di Taizé, all’arcivescovo. E a proposito di questa visita così fr. Pierre scrive all’arcivescovo:

«Caro monsignore, è con molta riconoscenza che ripenso all’accoglienza che mi avete riservato a Camerino. La liturgia della Parola con la gioventù della città, i contatti con i sacerdoti, con le suore clarisse, i piccoli e i grandi seminaristi costituiscono dei doni spirituali di altissimo significato. Mi rallegro per il fatto della preghiera ecumenica e lo Spirito di carità (che sono alla base del cammino verso l’unità) abbiano un posto così grande nel cuore dei cristiani della vostra diocesi. Il fratello Pierre vi trasmette i suoi messaggi

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più affettuosi nel Signore. Vogliate esprimere alla vostra signora mamma i miei più rispettosi saluti. Ricevete caro monsignore i miei saluti riconoscenti e fraterni. Pierre Étienne» 76.

Focolare di spiritualità ecumenica è il monastero di Santa Chiara, che è da tempo collegato in fraternità di preghiera con le Marienschwestern di Darmstadt e con le clarisse anglicane di Oxford. Così altra manifestazione si ha per la visita delle sorelle Claudia e Gabriella di Darmstadt nel monastero di S. Chiara. L’arcivescovo invita i giovani a una veglia di preghiera ecumenica insieme alle sorelle luterane. Parecchi ragazzi e ragazze rispondono e la veglia si svolge in un clima di esemplare raccoglimento, presieduta dall’arcivescovo. Alla veglia segue una proiezione sull’opera delle stesse sorelle seguita con molta attenzione e i piccoli svarioni sull’italiano appreso di fresco contribuiscono a sottolineare il clima di gioia, alimentato dai canti con cui il grazioso duo vuole ricreare il clima della loro casa, un autentico clima da “Fioretti di San Francesco” (l’arcivescovo ha tradotto in italiano l’inno delle sorelle). La proiezione è ripetuta in seminario. L’indomani le sorelle, prima di partire per Roma dove costituiscono un piccolo focolare ecumenico, fanno una breve comparsa al convegno del clero di Camerino per salutare l’arcivescovo con i sacerdoti e il diacono Carlo Carretto venuto a presiedere l’incontro. Un anno dopo suor M. Gabriella e suor Maria Nicoletta delle sorelle di Darmstadt (suor Nicoletta ha preso il posto di suor Claudia, morta santamente a Roma nel giorno della festa di S. Venanzio) ritornano di nuovo a Camerino, ospiti delle clarisse, unite nell’amore per il nostro Signore Gesù Cristo. Per alcuni giorni visitano i monasteri, dove incontrano molte “sorelle in Cristo”. Affermano che i vari incontri spirituali sono stati una gioia per il Sacro Cuore di Gesù, una consolazione nel nostro tempo scuro. La visita si conclude a S. Chiara con una nuova veglia ecumenica per la gioventù di Camerino. Ripartono poi per Assisi 77.

•Claustraliedecumenismo

La rivista “Ancilla” per le religiose aveva avanzato una riserva sulla formazione ecumenica delle comunità religiose in Italia. Nel numero del 23 febbraio 1969 si dichiara lieta di ritirare la riserva pubblicando una lettera delle clarisse di Camerino di cui diamo qualche stralcio.

«Il nostro monastero è legato dal 1966 da profonda amicizia con reciproca corrispondenza e scambio di doni con due comunità di “sorelle separate”.

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La prima è quella delle suore evangeliche di Darmstadt ... le quali ci hanno fatto una tanto gradita visita nell’estate 1967 e ce la ripeteranno nei prossimi mesi. La seconda comunità con la quale siamo in fraterna corrispondenza è la comunità anglicana di S. Chiara (clarisse) di Freeland (Oxford)».

La lettera prosegue riferendo la visita dell’arcivescovo Bruno Frattegiani alla comunità delle Marienschwestern di Darmstadt:

«Noi siamo molto edificate della freschezza e dell’autenticità con cui queste nostre sorelle esprimono il Vangelo nella loro vita religiosa. I loro scritti ci portano sempre un soffio di vita nuova e di fervore che fa tanto bene alle nostre anime e arricchisce anche la nostra umanità».

La lettera termina ricordando un più limitato scambio con la comunità di Taizé e la visita di Pierre Étienne, che tiene anche a loro un’interessante conferenza sulla preghiera, e conclude con un pensiero e un augurio ecumenico di mons. Frattegiani sulla relazione con le Chiese protestanti:

«Un canto della Chiesa metodista inglese dice: Christ is Advocate on high; You are our Advocate within. Quanto sarebbe bello che nello Spirito dell’ecumenismo ci unissimo ai fratelli separati per cantare nello Spirito Santo: Cristo è nostro avvocato in alto; Tu sei nostro avvocato dentro di noi» 78.

Ancora sull’argomento così scrive mons. Frattegiani ne L’Appennino camerte del 29 agosto 1970:

«In occasione della celebrazione giubilare della madre Vincenza Fondati, per lunghi anni abatessa del monastero delle clarisse di Belforte, ho avuto il piacere di scoprire che anche quel piccolo drappello di claustrali (come le sorelle di Camerino) è impegnato in una larga corrispondenza ecumenica. Ecco un brano della lettera di un monastero di Boston: “Noi affrontiamo uno stadio di ecumenismo in cui si vedono le divisioni non fra cattolici e protestanti, pentecostali ed altri, ma piuttosto fra coloro che pensano di avere sempre ragione e quelli che sono aperti e hanno sete della verità non importa quale sia la sorgente”».

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GLi orTodossi

Numerose le celebrazioni con studenti universitari greci per

la Pasqua e la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Uno stralcio del lungo articolo comparso ne L’Appennino camerte e intitolato “Messa senza colonnelli”.

«Abbiamo chiesto all’arcivescovo di dirci una sua impressione sulla messa celebrata per gli studenti greci domenica 21 gennaio nel contesto della settimana di preghiera per l’unità delle Chiese. “È stata una bella esperienza – ci ha detto – e sono solo rammaricato prima di tutto perché abbiamo cominciato troppo tardi (anche se ci ho pensato e ne ho parlato da molto), e poi perché il primo incontro è stato meno solenne e meno appropriato di quanto speravo. I disguidi postali natalizi (ma non so se solo natalizi: una mia lettera del 4 dicembre è giunta a P. Fortino il 12 gennaio) hanno impedito la venuta di chi avrebbe celebrato nel rito dei nostri amici; si trattava precisamente di P. Eleuterio Fortino della chiesa greca di Calabria, che certo avrebbe dato un tono più solenne e nello stesso tempo maggior sapore di casa agli studenti. Comunque è andata molto bene e sono rimasto veramente commosso. Posso dire, pur tenendo presenti i miei incontri di Taizé, di Darmstadt, di Lubecca, di Amburgo e di Berlino, che questa di domenica è una delle mie esperienze più gioiose, forse perché più direttamente inquadrata nella mia responsabilità di vescovo. Tanto per continuare a sfoggiare greco, come in maniera elementare mi toccò fare domenica, devo dire con S. Paolo ‘Ellesin te kai barbarois ofeiletes eimi’ (sono debitore ai greci e ai barbari). Domenica dovetti prepararmi assai accuratamente la lettura del vangelo in greco, perché non mi è affatto familiare la pronuncia moderna. Azzardai anche all’inizio a improvvisare il saluto paolino di grazia e di pace “charis kai eirene”; stavo impappinandomi quando vidi Stelvio, il capogruppo dei greci che con un cenno del capo e con un bel sorriso mi incoraggiava e tirai via. Fu bellissimo il momento della lettura del brano ecumenico di Efesini 4 (il lettore volle cantarlo: e dire che lo qualificano come “uno di sinistra” con nessuna voglia di pregare per i colonnelli). Il gruppo dei greci (una trentina)

Con il patriarca greco-ortodosso Atenagora

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scattò composto in piedi. Quei ragazzi dovettero nel canto tradizionale (anche se ti confessano candidamente che a messa ci vanno assai poco, non fosse altro perché è molto lunga) sentir vibrare l’anima religiosa del popolo greco di sempre. Poche volte ho sentito come in quel momento l’importanza del segno liturgico: senza volerlo i greci ci davano una testimonianza di fede nella validità del messaggio apostolico. Sorpreso scattai in piedi anch’io; scattò in piedi tutta l’assemblea. Tra le volute del canto afferravo commosso le parole programmatiche: Uno solo è il corpo, come uno è lo Spirito e una la speranza a cui siamo stati chiamati”. Abbiamo pure chiesto qualcosa sul contenuto dell’omelia. “Una conversazione bonaria – ha detto l’arcivescovo – e anche alla buona con i greci e con i camerinesi. Avevo letto il vangelo della conversione e della fede nel lieto messaggio di Marco 1, 15 in italiano e in greco. Mi sono scusato della lettura del greco un po’ compitata e ho voluto far sorridere i greci difendendo la nostra pronuncia classica citando Aristofane (non so in quale commedia egli riproduce il belato delle pecore; con la pronuncia moderna le pecore farebbero viii invece di beee). Ma se la pronuncia ci divide, ho detto, la fede ci unisce. Non c’è che da superare dei malintesi, purtroppo radicati in una storia millenaria. E intanto quello che conta è l’amicizia. Ed è questo, in un clima di maggior fiducia, che chiedono da noi i giovani greci”» 79.

•IlviaggioaMosca

Scrive l’arcivescovo nell’imminenza di un suo pellegrinaggio alla ricerca di un incontro con la Chiesa ortodossa:

«Carissimi fratelli sacerdoti di Camerino e di Sanseverino, eccomi in procinto di partire con i corrispondenti dell’Opera romana pellegrinaggi alla volta di Leningrado, sono già in cravatta e rido fra me al pensiero di quanto vi apparirà inconsueto questo tipo di esordio per una lettera che pure brevissima, vuole essere una lettera pastorale. Eppure non potete credere con quanta emozione mi accingo a compiere questo breve giro che non può non avere il carattere di un avvenimento ecumenico. A parte gli incontri previsti con i rappresentanti ortodossi e con i cattolici di Vilna, non è forse una delle espressioni più vive e attuali dell’attività ecumenica l’incontro con i non credenti, anche se per ovvie ragioni organizzative non è possibile prevedere un vero e proprio dialogo? Ma non si può andare in Russia e non portare in cuore la tristezza di un esodo così massiccio dalle Chiese ufficiali, che pure avrebbero dovuto costituire la guida per l’esodo vero, quello dalla casa della schiavitù alla casa del papa attraverso il sacrificio di Cristo nell’unità dello Spirito Santo. Se penso alla celebre Madonna di Vladimir che forse dovrò

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accontentarmi di venerare in un museo, alle innumerevoli icone di ogni Chiesa e di ogni casa di cinquant’anni fa, sento il sapore di famiglia, l’odore di pane e l’odore di mamma che ha improntato per secoli la spiritualità del popolo russo. Non si può andare senza sofferenza: il fatto che se ne sono andati ci tocca da vicino, è anche cosa nostra, colpa nostra; rientra nel conto che ci chiederà il Signore; cosa ne avete fatto dei poveri? Non ci sono ancora tanti fra noi – fra noi dico – delle popolazioni cristiane e d’Europa e d’America che continuano a vivere come i miserabili descritti nei romanzi russi dell’Ottocento sullo sfondo di una società gaudente e cinicamente egoista? Ricordo un detto di Fulton Sheen. Gli orientali – i russi – hanno scelto la Croce senza Cristo; gli occidentali – l’America in specie – hanno scelto Cristo senza la Croce. Un Cristo senza la Croce è un assurdo blasfemo e alla sua ombra fiorisce solo una gramigna di religiosità superficiale e superstiziosa. La Croce da sola non basta, è il patibolo infame, ma se la irradia una luce dall’alto, sarà la sua ombra a segnare la strada per Cristo. Ed io lo sogno e lo invoco quel giorno e prego con voi che celebrate da stasera l’ottava di preghiera per l’unità dei cristiani: perché noi riprendiamo sul serio la croce e loro ritrovino il Signore morto e risorto per la salvezza di tutti. Mi sento pellegrino; partendo da S. Maria in Via (14 gennaio) e dalla Madonna dei Lumi, vado a lasciarmi guardare negli occhi pieni di voi e dei nostri comuni problemi, dagli occhi fondi e mesti della Madonna di Vladimir. È la mia mèta» 80.

•Asterischisovietici

Mons. Frattegiani farà poi un preciso e particolareggiato reportage del suo viaggio in Unione Sovietica su L’Appennino camerte del 13, 20 e 27 febbraio 1971, in cui si rammarica di non avere realizzato il suo desiderio di incontrarsi con gli occhi della Madonna di Vladimir.

«Purtroppo non sono stato bene (anzi, modestia a parte, posso dire che sono stato male negli ultimi tre giorni) e ho perduto molte occasioni belle e non ho visto la santa icona che è il cuore della Russia cristiana (purtroppo in museo). Invece, durante la corsa folle attraverso le sale dell’Hermitage (il celebre museo fondato da Caterina II nel palazzo d’inverno di Leningrado, oggi immenso e di incommensurabile valore) ho visto passare come in un sogno d’incanto la Madonna e i santi dei più grandi pittori italiani, spagnoli, fiamminghi, francesi. Ma non mi ha commosso né Raffaello, né Leonardo, né Tiziano, né il Tiepolo della nostra Madonna, né Velasquez, né Murillo. Mi sono fermato incantato davanti ad una piccola Madonna di Giovanni Bellini. Una Madonna tanto triste col bambino in braccio triste. Guardava

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fuori, verso i campi e i paesi dell’Unione Sovietica. Era tanto triste. Ma non era prevenuta. E mi ci sono tanto ritrovato che ho pregato» 81.

GLi ebrei

Mons. Frattegiani alla sua conoscenza e amore per la Bibbia unisce profonda attenzione e rispetto per il popolo ebraico, così da tenere

contatti stretti con esperti e laici su temi dell’Antico Testamento. Conosce bene la lingua ebraica, il testo della Bibbia in ebraico è sempre sul suo tavolo di studio. Conosce la liturgia di ogni celebrazione ebraica e spesso illustra rito e significato. Ha particolare attenzione per la celebrazione pasquale come anche oggi gli ebrei la celebrano. Conosce molto bene la Palestina e i luoghi sia dell’Antico che del Nuovo Testamento per averli visitati più volte, talora guidando pellegrinaggi. Quando ci fu l’attentato alla sinagoga ebraica di Roma scrisse al rabbino capo, manifestando il suo sdegno ed esprimendo la sua dolorosa partecipazione. E il rabbino capo di Roma rispose:

«Le sue parole di solidarietà e di partecipazione al lutto di questa comunità per il vile attentato alla sinagoga del 9 ottobre scorso ci sono giunte particolarmente gradite. Voglia accogliere i sensi del nostro animo grato e riconoscente e i nostri più cordiali saluti» 82.

E quando poi mons. Frattegiani si dimetterà da membro della commissione CEI per l’ecumenismo il rabbino capo della comunità israelitica di Roma, ElioToaf, così scriverà:

«La Sua cortese comunicazione dell’8 agosto scorso mi ha procurato vivo dispiacere. Il fatto che Ella abbia deciso di lasciare la commissione per l’ecumenismo mi addolora perché so che senza il Suo generoso apporto questa commissione perderà di mordente ed efficacia. Mi conforta sapere che continuerà anche al di fuori della CEI la Sua opera in favore di una maggiore collaborazione con gli ebrei. E per questo desidero esprimerLe ancora una volta la mia gratitudine e il mio vivo apprezzamento. Gratitudine e apprezzamento che Le voglio confermare ancora una volta per aver Ella compreso con quale disagio e con quale dolore gli ebrei vedono scritto l’ineffabile nome quadrilatero. Voglia gradire i sensi della mia cordiale amicizia e tanti affettuosi auguri di ogni bene» 83.

Il rabbino Toaf fa riferimento a un preciso impegno di mons. Frattegiani,

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che nella prefazione del suo libro “Cercavi me, Signore?” scrive:

«Ma c’è soprattutto una cosa di cui chiedo scusa e che presuppone in me un particolare tipo di conversione. Potrete meglio rendervene conto leggendo sulla rivista di Collevalenza la mia puntata di giugno di quest’anno 1977. Voglio riferirmi all’uso del nome divino, probabile ma non sicura lettura del sacro tetragramma JHWH. È da qualche tempo che mi sono proposto di astenermene, non fosse altro per rispetto alla delicata sensibilità dei nostri fratelli ebrei in questo campo. Essi leggono Adonaj (il Signore) né più e né meno che la antica versione greca dei Settanta (Kyrios) e le classiche versioni latine (Dominus). Però non mi sono sentito di correggere i numerosi passi in cui il Nome ricorreva (notate: gli ebrei si accontentano anche di chiamare Dio così: il Nome). Un proposito non è un puntiglio. Però vi assicuro che il proposito resta a saprò mantenerlo. È un proposito che... propongo anche a voi».

i non credenTi

«A Perugia, fra gli altri, avevo un amico comunista. Era cominciato con le botte che minacciò di darmi l’indomani della morte di

Stalin, quando lo incontrai dolente per corso Vannucci e senza sgarbo gli dissi che per me era morto un criminale e che Dio lo avesse in pace. Poi venne Kruscev e mi dette ragione, ma non se ne parlò più. Ci vedevamo spesso e l’amicizia si radicò nei commenti ironici ai fatti del giorno che ci scambiavamo via via in stile Don Camillo e Peppone. Una volta mi ricordò una cosa che io non ricordavo più (quanto poco basta per lasciare una luce!). Mi volle offrire un caffè e poi mi disse: “Non scorderò mai quello che mi disse quando stava male la mia povera mamma”. “Cosa dissi?” domandai incuriosito. “Mi disse se ero contento che nella messa avrei pregato per la mamma. Non me ne scorderò più”, e l’occhio gli si inumidì (il babbo era morto quarant’anni prima in seguito a percosse dei fascisti e la mamma aveva tanto sofferto per tirar su i figli senza assistenza sociale). “Allora, soggiunsi, adesso vado ancora a dir messa e pregherò per lei personalmente stavolta”. “No, no, per me no!” protestò sorridendo, mi dette una stretta di mano da far scricchiolare le dita e dietro-front ognuno per la sua strada. In Russia (che scandalo!) era con noi un senatore comunista. Tanto una brava persona, gioviale, cortese, colto. Bravissimo a rintuzzare tutte le frecciatine che la nostra comitiva non gli risparmiava. Una specie di S. Sebastiano. Gli ho raccontato del mio amico di Perugia. Quando fui ordinato vescovo, il mio amico era assessore comunale ed era venuto a reppresentare

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il sindaco, ma non s’era messo con l’autorità; era rimasto tra la folla, protetto per di più da un gran paio di occhiali neri. Quando passai per benedire, come gli fui vicino sussurrò “monsignore” al posto del solito Don Bruno e ci abbracciammo commossi. I fotografi si precipitarono, ma l’incanto della riconciliazione Chiesa-Soviet era già dileguato» 84.

«Il 24 dicembre 1968, in orbita lunare, Borman lesse il primo capitolo della Bibbia, dove il nostro satellite è presentato come il luminare appeso in cielo per rischiarare la notte. Il 6 febbraio di quest’anno Mitchell ha depositato nella zona di fra’ Mauro, racchiuso in un cofanetto di protezione e tradotto in sedici lingue, il primo versetto di quello stesso incomparabile capitolo: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. I telecronisti non mi risulta che ne abbiano parlato, perché la cosa non ha rilevanza per la fame di sapere dell’uomo secolarizzato. E allora mi ripropongo la domanda che in altro contesto – cattolici e protestanti – un giorno a Taizé mi propose mia madre: “Ma allora – stringendo le mie divagazioni – chi sono più buoni i russi o gli americani?”. Voi come ve la cavereste? C’è una bella differenza, no? fra questi americani proclamanti la Parola negli spazi immensi e i russi che non si accorgono quanto sono ridicoli quando dicono che Dio lassù non ce l’hanno trovato? Io, per me, non ho che una risposta ed è quella del Verbo fatto carne per i russi e per gli americani: “Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10, 18)» 85.

diMissioni daLLa coMMissione

deLLa cei per L’ecuMenisMo

Mons. Frattegiani, dopo tre consecutivi mandati di membro della commissione CEI per l’ecumenismo, nel 1977 rassegna le

dimissioni. Mons. Ablondi, presidente della commissione, nell’accogliere infine le dimissioni così scrive:

«Eccellenza reverendissima, ci spiace veramente tanto di non averla più con noi in una collaborazione che ritenevamo tanto attenta e importante. Pazienza. Sappiamo che ci sarà ugualmente vicino con l’affetto, con la preghiera e con la collaborazione...» 86.

Tuttavia mons. Frattegiani conserverà ancora per altri anni l’incarico per l’ecumenismo nella conferenza episcopale delle Marche. Continuerà pertanto a tener desto l’impegno nei vescovi e nelle diocesi marchigiane per

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l’ecumenismo, ma soprattutto curerà con amore l’impegno nella sua diocesi. Sempre assiduamente presente alla celebrazione in città della settimana per l’unità celebrata solennemente a S. Maria in via. All’invito a partecipare in diocesi alla settimana di preghiera su L’Appennino camerte ogni anno ne illustrava il tema.

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A una festa dell’arma dei carabinieri (1966)

Messa all’aperto con don Renzo Rossi (a sinistra)e don Biagio Persicorossi (a destra)

Mentre celebra nella cappella dell’istituto “Battista Varano”

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La Chiesa locale

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Nella lettera pastorale “Ecce venio” - riprodotta in appendice - mons. Frattegiani delinea con chiarezza la dottrina della Chiesa locale, a cui

si ispira e di fatto realizza in tutta la sua attività pastorale. Di nuovo con la lettera pastorale “Giubileo e congresso eucaristico” del 1966 specifica come questa dottrina della Chiesa locale vada vissuta con impegno costante nell’attività pastorale ordinaria.

«Confratelli sacerdoti e figli carissimi, due grandi avvenimenti, destinati ad improntare di sé i primi cinque mesi del nuovo anno di grazia 1966, mi inducono ad anticipare la lettera pastorale che del resto vuole limitarsi a pochi pensieri. I due grandi avvenimenti sono il Giubileo straordinario incentrato nella Cattedrale (il grande avvenimento “diocesano” e nello stesso tempo “universale” che vi invita a vedere con fede il vostro vescovo e insieme tutti i vescovi del mondo successori degli apostoli sotto la guida di Pietro) e il congresso eucaristico regionale, il grande avvenimento marchigiano, e nello stesso tempo tipicamente cattolico, che vi richiama a solenne celebrazione del grande “mysterium fidei” che è Cristo veramente presente sull’altare come vittima santa, presente alla mensa eucaristica come pane di vita, presente nel tabernacolo come guida permanente del nostro pellegrinaggio verso la casa del Padre. A lui, “la Parola eterna” che si fece carne e si attendò in mezzo a noi (Gv 1,14) e oggi – come dice un vecchio

Sullo sfondo si stagliano il duomo di Camerinoe le pendici di Montigno

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canto – adoriamo “per amore velato in sì povero velo”. Sono due avvenimenti più importanti di qualsiasi avvenimento parrocchiale, fosse pure il più sacro e solenne. Quando venni fra voi e vi scrissi la prima lettera, dopo avervi ricordato con Sant’Ignazio martire la necessità di essere sempre in armonia con il vescovo, mi riferivo pure a San Cipriano e mi ripromettevo con lui di non far nulla “senza il vostro consiglio e senza il beneplacito del mio popolo”. Ma è naturale – aggiungevo – che il popolo non può intendersi qui il popolo-campanile, ma solo il popolo-Chiesa. Oggi che ci conosciamo un po’ meglio, voi mi permetterete di dirvi con tutta sincerità che, mentre sento viva e compatta la coesione del clero nel culto delle buone tradizioni diocesane e nell’amore per il seminario e per le sue prerogative, non riesco a percepire così vivo il senso di “ecclesia” diocesana nelle nostre popolazioni, per le quali la tentazione del campanile è favorita dallo spezzettamento amministrativo (trentacinque comuni, se non erro) e dalla polverizzazione pastorale spesso tirannicamente imposta dalla conformazione geografica. Credo superfluo dirvi che, considerata la costituzione gerarchica della Chiesa, ove venga a mancare il senso della “ecclesia” diocesana, è finita pure per il genuino “sensus Ecclesiae” quale sentimento della Chiesa che il Concilio ci aiuta oggi a tradurre come consapevolezza del popolo di Dio. (Mi sia concesso di ridirvi, almeno tra parentesi, quanta carica pedagogica può avere in questa direzione una appropriata formazione del popolo a sentire come proprie le necessità del seminario). Quando, dopo l’omelia della giornata pro vocazioni, la vostra gente vi domanda perché a queste faccende non provvede il vescovo o magari il Papa, a meno che non lo faccia per scherzo e per il gusto matto di vedervi andare in bestia, io capisco bene la vostra tentazione di andarvene dalla parrocchia; come voi capirete bene la mia di non mandarci più nessuno per trent’anni… È proprio il senso della famiglia che manca, il senso della famiglia di Dio. Gli spazi delle feste triennali sono allora un inutile duplicato di quelli delle “feste dell’Unità”. Un segnale di questa mancanza di sentirsi parte della diocesi, l’arcivescovo l’aveva fatta rimarcare nella sua prima visita a Sarnano, allorché il sindaco nel saluto aveva espresso la gioia per la venuta del vescovo di Camerino. L’arcivescovo l’ha subito interrotto dicendo: sono vescovo anche di Sarnano!» 87. La stessa dottrina viene di nuovo illustrata ampiamente nella pastorale quaresimale del 1972, in cui sono commentate le Sette lettere di Sant’Ignazio di Antiochia.

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«Le Sette lettere, è bene ricordarlo, furono scritte tutte durante il viaggio dell’illustre prigioniero a Roma, dove subì il martirio nell’anno decimo di Traiano (107). Questa circostanza ci aiuta a renderci conto della mirabile consonanza della struttura di oggi e di sempre a quella della chiesa del II secolo. A loro volta le lettere pastorali di san Paolo ci aiuteranno a capire il passaggio senza scosse dalla guida degli Apostoli (pur tanto più eccelsa sotto alcuni punti di vista) a quella dei vescovi. La Chiesa del carisma slegata dall’istituzione è un miraggio, una specie di fata morgana che non ha cessato di illudere parecchi nel corso dei secoli. Come sempre, la verità è nella sintesi. “Ministero o profezia? - mi domandavo in una pubblicazione recente - Alessandro VI o Savonarola? Una risposta esistenziale di valore non può non scegliere Savonarola. Ma il problema essenziale non sta nel dilemma. Cristo vuole il Papa e permette Alessandro VI, Dio accetta la tribolazione del suo popolo e vi suscita un profeta. Se il profeta rinnega il papa, il profeta dice anatema a Gesù (non è certo il caso di Savonarola che pure è un caso limite). Il problema si risolve nella sintesi operata dallo Spirito. Quando a Gregorio XI, “reverendissimo e dilettissimo padre in Cristo Gesù”, la sua “indegna, misera, miserabile figliola Caterina, serva e schiava dei servi di Gesù Cristo, scrive nel preziosissimo sangue suo”, allora la sintesi risplende perfetta» (Le strade di san Paolo, p. 128).

•IlpensierodiDio

«Agli Efesini sant’Ignazio raccomanda di “correre d’accordo con il pensiero di Dio”. Interessante il verbo: syntréchete non è soltanto concordare, ma - alla lettera - concorrere, camminare insieme e anche spediti! Ma qual è il pensiero di Dio, la gnóme tu Theû? “Gesù Cristo, nostra vita incomparabile, è il pensiero del Padre, proprio come i vescovi, stabiliti per i vari territori, sono una cosa sola con il pensiero di Gesù Cristo” (cap. 3); (l’antica versione latina dice addirittura: Jesu Christi sententia sunt). “Perciò, continua sant’Ignazio, è vostro dovere concorrere con il pensiero del vescovo come già fate. Infatti il vostro venerando presbiterio, degno di Dio, è tanto in armonia col vescovo come le corde con la cetra. È così che dalla vostra unione e dalla concorde carità si innalza un canto a Gesù Cristo” (cap. 4). Ed ecco, sul finire, una sintesi mirabile dell’aspetto interiore carismatico e dell’aspetto esteriore gerarchico nella vita dei cristiani che “ciascuno in particolare e tutti insieme nella grazia, in una medesima fede e in Gesù Cristo… figlio dell’uomo e Figlio di Dio, convengono nell’ubbidire al vescovo e al presbiterio con sentimento immutabile, spezzando un solo pane, che è farmaco d’immortalità” (cap. 20)».

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•Chiesatrinitaria

«Ai fedeli di Magnesia sant’Ignazio scrive così: “Come il Signore non fece mai nulla, né da solo, né per mezzo degli Apostoli, senza il Padre (perché è uno solo con lui), così anche voi non dovete far nulla senza il vescovo e i presbiteri” (cap. 7). Così la gerarchia è immagine del Padre e il popolo fedele immagine di Cristo. Uniti nell’amore che è lo Spirito Santo (cfr. in unitate Spiritus Sancti!) - se ne può dedurre - pastori e fedeli riproducono in sé per grazia il mistero della vita trinitaria: “una sola preghiera, una sola supplica, una sola mente, una sola speranza nell’amore (agape) e nella gioia senza macchia, che è Gesù Cristo” (ib.). “Abbiate cura di tenervi saldi nei precetti del Signore e degli Apostoli… in unione al vostro degnissimo vescovo e alla preziosa corona spirituale del vostro presbiterio e dei vostri diaconi cari a Dio. Siate sottomessi al vescovo e gli uni agli altri, come Gesù Cristo al Padre e come gli Apostoli al Padre e al Figlio, affinché la vostra unione sia insieme sensibile e spirituale” (cap. 13)».

•ChiesadiCristo

«Ai fedeli di Tralles: “Tutti portino rispetto ai diaconi come a Gesù Cristo e al vescovo che è la figura del Padre e ai presbiteri come al senato di Dio e collegio di apostoli: senza di loro non si può parlare di Chiesa” (cap. 3). “Quando siete sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo, allora sì che voi date a vedere di non vivere secondo la mentalità umana ma secondo Gesù Cristo, che è morto per noi perché credendo nella sua morte possiate sfuggire la morte” (cap. 2). Bellissima la breve esortazione alla fede, il cui contenuto è tanto sobrio ma anche tanto eloquente nei confronti di certe demitizzazioni dei giorni nostri: “Siate sordi quando qualcuno nel parlarvi fa a meno di Gesù Cristo, disceso dalla stirpe di David, nato da Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve, fu realmente perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu realmente crocefisso e morì… e fu realmente risuscitato dai morti e lo risuscitò il Padre suo che a sua somiglianza risusciterà anche noi che crediamo in lui per mezzo di Gesù Cristo senza del quale noi non possediamo la vera vita” (cap. 9). Ho sottolineato l’avverbio realmente (alethôs) che contro i doceti martella la certezza gioiosa degli Apostoli: Surrexit Dominus vere (ontos) et apparuit Simoni (Luca 24, 34)».

•Lapresidentedell’amore

«Non c’è bisogno che vi ricordi a lungo la lettera ai Romani, che tutti abbiamo imparato ad amare durante il corso di teologia. Chi non ricorda

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il celebre frumentum Christi sum, dentibus bestiarum molar (cap. 4)? Se i romani riuscissero a sottrarlo al martirio bramato, Ignazio non sarebbe altro che un suono; egli invece vuole nella testimonianza di sangue diventare parola (logos) di Dio (cap. 2). Per quel che riguarda la nostra meditazione sulla Chiesa locale è interessantissima la testimonianza di Ignazio in favore della chiesa locale di Roma che, posta da Cristo a presiedere all’amore (prokatheméne tês agapes) “nel luogo della regione dei Romani” – “amata, illuminata, santa, venerabile, degna d’essere dichiarata beata, meritevole di lode e di felice successo, adorna di candore, segnata dalla legge di Cristo e dal nome del Padre” (cap. 1) -, sigilla quasi sacramentalmente l’unità delle chiese in Cristo e fonda sulla roccia che è Pietro la realtà mirabile dell’una sancta catholica apostolica Ecclesia. Ma della lettera ai Romani consentitemi ancora due citazioni. Se anche solo servissero a innamorarci - dopo la Bibbia - dei Padri, questa mia lettera non sarebbe del tutto inutile. “Ora comincio a essere discepolo di Gesù, a nulla desiderare delle cose visibili e invisibili pur di incontrare Gesù Cristo. Fuoco e croce e branchi di belve, tagli, squarti, strappi d’ossa, spezzamento di membra, macinazione di tutto il corpo, mali castighi del diavolo vengano pure su di me, purché io possa trovare Gesù Cristo” (cap. 5). “Il mio amore naturale (eros) è stato crocefisso e in me non c’è più fuoco di attaccamento alla materia, ma acqua viva e parlante in me, dentro di me, che mormora: Su! vieni al Padre (ricordate Giovanni 7, 37-39 con il mistero dell’acqua zampillante dal cuore di Cristo, simbolo dello Spirito Santo. Non vi dispiaccia se vi ricordo una meditazione da “Le strade dell’Amore misericordioso” pp. 75-80, che ritengo utilissima per la catechesi sulla grazia). Non mi diletto di cibo corruttibile né di soddisfazioni di questa vita. Voglio pane di Dio ed è la carne di Gesù Cristo, nata dalla stirpe di David, e voglio per bevanda il suo sangue che è l’amore incorruttibile” (cap. 7); notate ancora le implicanze trinitarie: il Padre che dona, Cristo dono nella Eucarestia, l’Amore che è lo Spirito frutto del Sangue di Cristo. Citazioni estranee al tema? Non direi se io vescovo e voi presbiteri dobbiamo essere il polso della Chiesa locale. Il cuore è Cristo. È veramente il nostro cuore il Signore Gesù?».

•Misteroeministero

«Come vorrei che la nostra Chiesa di Camerino e di Sanseverino assomigliasse “alla Chiesa di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo che è in Filadelfia dell’Asia, fatta oggetto di misericordia e fortificata nella concordia di Dio ed esultante con certezza incrollabile per la passione del Signor nostro e pienamente sicura della sua risurrezione” (Fil. introd.). Ignazio la saluta “nel sangue di Cristo, lei che è la gioia costante ed eterna, specialmente

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se i fedeli saranno uniti col vescovo e con i suoi presbiteri e diaconi scelti secondo il pensiero di Gesù Cristo che, di sua propria volontà, li ha fortificati in fermezza per mezzo del suo Santo Spirito” (ib.). Loda il vescovo che parla poco ma “tacendo ha più forza di coloro che parlano di cose vacue” (come vorrei saperlo imitare!) ed esorta a seguirlo come pecore il pastore (cap. 1 e 2). Con rara potenza di sintesi è presentata l’intima inscindibile connessione fra la chiesa-mistero, adunata intorno alla eucaristia sua vita, e la chiesa-ministero essenzialmente finalizzata al mistero ma assolutamente indispensabile alla sua manifestazione: “Abbiate premura di partecipare a una sola Eucaristia; perché una è la carne del Signor nostro Gesù Cristo e uno è il calice che ci unisce nel suo sangue, uno è l’altare come uno è il vescovo col presbiterio e i diaconi” (cap. 4). Ed ecco una sintesi, se così si può dire, di morale ecclesiale, singolarissima negli accostamenti: “Non fate nulla senza il vescovo, custodite il vostro corpo come sacrario di Dio, amate l’unità, fuggite le divisioni, siate imitatori di Gesù Cristo come lui lo è del Padre suo” (cap. 7)».

•Validitàdell’eucaristia

«La lettera agli smirnesi dà molto posto a una polemica appassionata e serrata contro i doceti. Il martire si sente personalmente coinvolto: “Se ciò che il Signore ha fatto è solo una apparenza, allora anche le mie catene sono un’apparenza... Per associarmi alla sua passione io sopporto ogni cosa, perché me ne dà la forza lui che è diventato l’uomo perfetto” (cap. 4). Ma non poteva mancare il solito colpo d’ala sulla chiesa locale, vibrato per giunta con particolare vigore: “Seguite tutti il vescovo, come Gesù Cristo segue il Padre, e il presbiterio come gli Apostoli… Nessuno faccia, senza il vescovo, alcune di quelle cose che riguardano la chiesa. Sia ritenuta valida l’Eucaristia che è presieduta dal vescovo o da chi ne ha avuto da lui autorità. Dovunque appaia il vescovo, ivi sia la comunità, come dovunque è Cristo ivi è la Chiesa cattolica. Senza il vescovo non è lecito né battezzare, né celebrare l’agape; ma quanto egli ha approvato è gradito a Dio e così sarà sicuro e valido tutto quello che si fa” (cap. 8). Per quanto il concetto ignaziano di “valido” (bébaios) non possa ricondurci alla definizione giuridica, non può non sorprenderci la sicurezza con cui la presidenza dell’Eucaristia viene considerata una funzione specifica del vescovo. Un altro può esserlo non tanto se ordinato da lui, ma se incaricato da lui (“ha avuto da lui autorità”). Qui si fa strada più che mai deciso il concetto di chiesa locale dove ogni sacerdote che celebra l’Eucaristia la celebra in nome del vescovo e al posto del vescovo».

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•Cristospezzato

«Isolotto e Oregina sono casi dolorosi non soltanto per la triste esperienza di una rottura che appare senza speranze, ma soprattutto perché l’Eucaristia di piazza (che potrebbe essere bellissima di per sé) - pur conservando la frigida validità giuridica - non ha più valore di chiesa adunata nel Cristo. È una Eucaristia valida secondo il codice di diritto canonico, anche se i sacerdoti sono sospesi a divinis, ma è una Eucaristia che - malgrado le comunioni più o meno numerose (ma spesso senz’altro numerose perché si trova più comodo procedere per assoluzioni di massa) - non porta a una vera comunione con Cristo, è una Eucaristia non valida secondo i canoni di Ignazio e dei Padri. Comunque si voglia giudicare il contegno dei vescovi di quelle comunità (spesso i giudizi sono stati pesanti a loro carico e così pesanti non mi sento di condividerli), non si può non condannare chi si è assunto la responsabilità di un taglio che fa a pezzi il corpo di Cristo (l’immagine è di san Paolo in 1 Cor. 1, 13: meméristai ho Christòs). Ritrovo un mio appunto con una citazione di Adesso 1 agosto 1962; i tre asterischi che sostituiscono la firma dovrebbero indicare quel grande figlio della Chiesa che fu don Primo Mazzolari. Dice così: “credo fermamente che si debba obbedire al S. Uffizio; non credo affatto che lo Spirito Santo abbia sempre le stesse idee del S. Uffizio”. Gli amici dell’Isolotto e di Oregina sono stati troppo precipitosi a identificare le idee dello Spirito Santo con le loro proprie e in conseguenza hanno scartato la certezza d’obbedienza doverosa di don Mazzolari; e il vescovo e il S.Uffizio sono stati scartati bruscamente. Ma è saltata la Chiesa e l’Eucaristia, giuridicamente valida, è diventata un segno sacrilegamente bugiardo. Far violenza alla Chiesa vuol dire far violenza a Cristo».

•Svegliamociinsieme

«L’ultima lettera è indirizzata al giovane vescovo di Smirne Policarpo, che morirà martire poco meno di mezzo secolo più tardi nel 155. I primi cinque capitoli sono tutti un direttorio ispirato a un rude esame di coscienza per me. Ma c’è ancora qualcosa che riguarda la struttura della Chiesa sacramentale e gerarchica: “Conviene che gli sposi e le spose stringano la loro unione con l’approvazione del vescovo affinché il matrimonio sia secondo il Signore e non secondo la concupiscenza. Tutto si faccia per la gloria di Dio” (cap. 6); naturalmente, come per l’Eucaristia, accanto al vescovo ci sono i sacerdoti in comunione con lui; non si parla espressamente di un rito, ma è facile immaginare che questo sia concepito come una ratifica del parere del vescovo. Epoca beata in cui la Chiesa si sente veramente chiesa anche perché è minoranza e spesso perseguitata e il vescovo è il padre a cui si ricorre per

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tutto in spirito di fede! Toccherà aspettare di ridurci a minoranza perché rinasca vivo il senso della Chiesa come famiglia di Dio, corpo vivo di Cristo, compaginato nello Spirito Santo? “Ascoltate il vescovo, ci ammonisce Ignazio per l’ultima volta, perché Dio ascolti voi. Io offro la mia vita per quelli che sono sottomessi al vescovo, ai presbiteri e ai diaconi… Associate i vostri sforzi, lottate insieme, correte e soffrite e riposate insieme, insieme svegliatevi come amministratori e assessori e servi di Dio (tre vocaboli - oikònomi, pàredroi, yperétai - in cui alcuni riconoscono rispettivamente i vescovi, i sacerdoti e i diaconi). Cercate di piacere a colui per cui militate e da cui ricevete lo stipendio. Che nessuno di noi sia scoperto disertore. Il vostro battesimo vi sia come scudo, la fede come elmo, la carità come lancia, la pazienza come armatura… Siate magnanimi a vicenda nella mitezza, come Dio lo è con voi. Possa io godere di voi sempre!” (cap. 6)» 88.

Nella “Lettera di Capodanno 1972”, nel titoletto “Giornate di raccolta”, scrive:

«Dovrei dire giornate di preghiera e di raccolta, ma è strano come per la preghiera non ci sarebbero notevoli difficoltà e invece ce ne sono per la raccolta. Però di norma l’abitudine della questua in chiesa – quando fatta con garbo – ha valore formativo… è assurdo che non si cerchi di far sentire l’importanza ecclesiale di giornate come quella per le missioni, per il seminario (autonomia della Chiesa locale), per il quotidiano, per l’Università cattolica» 89.

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Le personeseMinarisTi e seMinario

I seminaristi e il seminario sono al centro dell’interesse, dell’impegno e dell’amore di mons. Frattegiani che li sente come centro, come

elemento vitale della vita della Chiesa diocesana. Dal primo momento del suo ingresso in diocesi, anzi prima ancora nella sua lettera pastorale “Ecce venio”, scrive:

«Mi fu detto che a Camerino c’era un seminario maggiore e un seminario minore di centoventi seminaristi; il mio cuore si allargò per questi “getti rigogliosi” di olivo fioriti intono alla mia mensa, per accoglierli in me in nome di Dio come “pupille dell’occhio”» 90.

E questo impegno per i seminaristi e il seminario è stato continuo, martellante, ripetuto in ogni occasione, soprattutto in ogni festa liturgica, per coinvolgere tutti i fedeli a sentire come proprio il problema delle vocazioni al sacerdozio. Il 3 agosto 1964, nel contesto della “tre giorni” diocesana sulla Bibbia, viene solennemente celebrato a Camerino il quattrocentesimo anniversario dell’istituzione del seminario da parte del

vescovo Berardo Bongiovanni, avvenuta nel 1564. Nel suo discorso mons. Frattegiani tra l’altro dichiara:

«Quattrocento anni di gloria ci separano dalla sua istituzione: ora però il minore è nuovo, decoroso e funzionante, il maggiore è malsano e cadente! Con l’immagine suggestiva della tre giorni biblica si può paragonare il maggiore al Vecchio Testamento, il minore al Nuovo. La Provvidenza ha profuso nel secondo grandi capitali, ora viviamo il periodo di magra;

Camerino, seminario minore in via Macario Muzio

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per il momento non possiamo pensare che ai termosifoni per quella parte del vecchio edificio abitato dai filosofi e teologi. La soluzione sta nella collaborazione e generosità di tutti» 91.

Il 5 dicembre 1964 l’arcivescovo scrive su L’Appennino camerte:

«Nella cronaca della celebrazione sacerdotale del centenario del nostro seminario, il proto dell’Avvenire d’Italia si lasciò sfuggire uno svarione tanto madornale quanto inesplicabile, sventato da una telefonata di un correttore di bozze che francamente non ci si raccapezzava. Si diceva che l’arcivescovo avesse manifestato ai sacerdoti convenuti la sua determinazione di affrontare una spesa per il seminario maggiore: era infatti indispensabile pensare al rigore dell’inverno mettendo “i termini filosofici” nei vecchi locali. Purtroppo con tutta la buona volontà degli insegnanti mons. Loreti e don Cappelletti “i termini filosofici” non sono sufficienti a scaldare i nostri seminaristi, né come impianto né come esercizio. È stato così che al posto dei “termini filosofici” abbiamo dovuto mettere nel seminario maggiore – glorioso ma fatiscente – degli autentici termosifoni. Un primo passo indispensabile sulla via del risanamento che la comprensione e la generosità e lo spirito cristiano dei camerinesi residenti ed emigrati ci aiuteranno ad attuare, sia pure a piccoli passi e con la dovuta prudenza. Per ora non abbiamo altra ricchezza che il nostro nulla, sottolineato dai debiti residui della fabbrica del seminario minore e da quelli indispensabili per affrontare la nuova spesa e tenuto desto di continuo dal bilancio ordinario non del tutto quadrante e niente affatto quadrabile con aumenti di rette: il nostro nulla e una grande fiducia nella Provvidenza. E la Provvidenza di introiti straordinari su cui difficilmente possiamo contare per il passato, si servirà del buon cuore e della legittima fierezza dei camerinesi che non possono rinunciare (si noti l’eventualità, ma tra le tante possibili) non possono rinunciare, ripeto, al seminario teologico vanto non ultimo della loro città.Conto su tutti i camerinesi: dai più poveri, che nonostante tutto sapranno trovare quel poco che chiedo, ai più ricchi che suppliranno la deficienza dei poveri; dai camerinesi della città a quelli di tutta l’arcidiocesi, dai camerinesi di Camerino a quelli di Roma, di Milano, di tutta Italia, dall’estero. Il loro seminario, adesso posso dire il nostro seminario, costituirà per tutti, ovunque siano, un legame d’amore e un impegno di testimonianza cristiana. E prima di tutti conto sui miei fratelli sacerdoti i quali non devono aver paura di dare e di darsi per il bene di tutti. Anche chiedendo (e ci sono tante necessità per cui chiedere) si contribuisce alla salvezza del prossimo; perché nulla, se son vere certe parole del Signore, nulla compromette tanto la nostra salvezza quanto l’attacco alle ricchezze. Vi chiedo solo cento lire, cento lire per

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ciascuno. A prima vista è una cosa molto facile. Ma lo so che nel complesso chiedo una cosa piuttosto complicata ai miei cari parroci (praticamente sono loro, direbbe don Abbondio, che tirano la carretta, ma la tirano volentieri per il seminario, a cui devono tutto). Si tratta di organizzarsi; occorre una sapiente nervatura di raccoglitori, vorrei dire di mietitori, ma forse basta dire di spigolatori e spigolatrici. Cento lire: per i singoli non è nulla. Anche per il più povero cento lire non rappresentano nulla. Per il seminario è la vita. Non vi dico di farcela in occasione della prossima giornata del 20 dicembre. Vi dò tempo un anno, ma vi sono grato se mi permetterete di ringraziarvi prima che l’anno scada. Datemi cento lire per il seminario. Il Signore vi renderà il centuplo e copiosamente vi benedirà come io vi benedico» 92.

•Continuiinterventiperilseminario

Quasi settimanalmente mons. Frattegiani torna a ricordare a sacerdoti e fedeli sia la necessità di pregare per le vocazioni sacerdotali, sia il bisogno delle 100 lire per il seminario. Così scherzosamente scrive nella lettera di Natale 1964:

«Forse c’è un babbo natale anche per l’arcivescovo di Camerino. Sogno un portalettere sudato… per portare assegni!».

E nella lettera pastorale del 1965:

«La seconda cosa che mi sta al cuore di dirvi tocca il problema delle vocazioni. Dirò con S. Paolo: spendetevi e sopraspendetevi, ma mi permetto di aggiungere quanto è necessario spendere, se non potete voi (conosco bene la povertà di tutti) trovate chi possa spendere».

Annunciando poi la notizia di un seminario per le vocazioni adulte fondato a Roma dall’Azione cattolica esorta:

«Parlatene, predicatelo! E se trovate qualche cosa di serio, venite da me… Ma intanto preghiamo e facciamo pregare. E ai monasteri di clausura affido con fraterna urgenza e con tanta gratitudine il mio appello… Le giornate per le vocazioni le leghiamo con fiducia al rosario e nel cuore della Vergine benedetta chiudiamo i nostri infuocati desideri. Vi saluto con affetto e vi benedico insieme ai vostri fedeli» 93.

E nel Natale 1965:

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«L’Avvento di pace e il Natale di certezza e l’anno di grazia (ecco il motivo della nostra giornata d’Avvento che ci disponga più buoni a Natale e garantisca un anno di vita al nostro caro seminario) resterebbero ben presto sommersi nella banalità, se non nella tragicità d’una vita senza Dio e senza ideali se ci venissero a mancare i sacerdoti. Anche quest’anno chiedo a tutti e specialmente ai piccoli, ai malati, alle anime consacrate preghiere, preghiere, preghiere al Signore perché mandi operai alla sua messe. A voi sacerdoti chiedo con insistenza di parlare nella giornata e sempre, della gioia della vocazione. Quante volte la voce di Dio resta sepolta in generose anime giovanili sotto la cenere di un pesante conformismo (nolite conformari huic saeculo), ma il secolo – l’eone presente – si abbarbica a tutti noi da mille tentacoli come una piovra paralizzante. E poi la mia antifona di Natale: datemi cento lire!» 94.

• 12 marzo 1966: cadrà la Diocesi di Camerino? Confidenzedell’arcivescovo

«Agli amici vicini e lontani e in particolare alle colonie camerinesi di Roma e Milano: “Ibam forte via sacra…”, me ne venivo bel bello per il corso verso l’episcopio, quando incontro un amico camerte della colonia romana, un rappresentante tra i più qualificati. Ci salutiamo cordialmente; vuole accompagnarmi e chiacchieriamo delle cose nostre. Del giornale che va bene, ma potrebbe andare meglio, del prossimo convegno romano dove vogliono anche il sindaco e finalmente… “delle cento lire”. Gli offerenti – mi dice – gradirebbero assai qualche resoconto, che in fondo li spronerebbe a dare volentieri. Faccio notare che io stesso ho fatto un bilancio sostanziale, quando ho rilanciato l’appello per il secondo anno 1965-1966 e ho ringraziato commosso per l’esito dell’anno precedente: sei milioni che ci hanno consentito di pagare completamente il nuovo impianto di termosifoni del seminario maggiore. In ogni modo, grazie all’amico che mi dà l’occasione di rinnovare sia il ringraziamento, sia l’appello a dare ancora quest’anno e gli anni successivi. Ripeto qui il discorso che ho fatto in duomo per la giornata del seminario. Lo ripeto volentieri, soprattutto per gli amici lontani che sono più che mai in grado di sentire – ingigantiti dalla nostalgia – i problemi della loro città. Il discorso è questo: è in revisione l’ordinamento delle diocesi italiane. Una diocesi intanto si sostiene in quanto può mantenere decorosamente il suo seminario. Il nostro seminario minore è ancora gravato di notevoli debiti; il seminario maggiore è un pianto. Sia pure a poco e non con prestigiose operazioni immediate, la campagna “cento lire”, sentita da tutti i diocesani residenti e non, come una cosa di famiglia, una campagna

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cento lire che dia davvero cento lire a testa (sette milioni annui) può risolvere il duplice problema, i debiti dell’uno e i guai grossi dell’altro. Si tratta di dire anno per anno quel che ne abbiamo fatto del vostro obolo, non è una cosa molto difficile. La faremo senz’altro. Ma tutti voi dovrete comprendere che o si salva il seminario in maniera decorosa o la diocesi cade.Io, se vivo, vengo trasferito altrove e per me il problema è risolto. Non vi nascondo che mi resterebbe in cuore tanta nostalgia di Camerino e dei due seminari che non sono riuscito a fare amare come avrei voluto. Ma voi credete che per salvare il prestigio di Camerino non sia necessario salvare la diocesi? Perdere me, penso sia per voi tutto di guadagnato. Ma perdere il vescovo per sempre?... e per questo non dovete scusarmi se insisto nel chiedere. Ditemi pure che al posto della fontana potevo mettere nel mio stemma… la borsa. Ma questa borsa riempitela generosamente. Non è necessario per questo turbare la serenità degli imminenti convegni di Milano e di Roma. C’è tempo fino a novembre (per quest’anno). C’è tempo per tutti. La borsa in realtà è vostra, strettamente vostra. A me incombe di farmi accattone per amore della nostra città, per amore della nostra diocesi. E lo faccio volentieri, tanto più che conosco il vostro amore. Vi saluta e benedice tutti il vostro vescovo» 95.

•17dicembre1966

«Cari figlioli e fratelli nel Signore. Domenica scorsa sono stato a Castelraimondo, una parrocchia modello nella comunione del problema vocazioni ecclesiastiche. Ho detto: “Voi avete la vostra chiesa da costruire, ma poi chi ci mettiamo se non mi aiutate per il seminario? Io desidero aiutarvi per la vostra chiesa, ma voi dovete aiutarmi a costruire la nostra Chiesa con la maiuscola”. Quello che ho detto a Castelraimondo, lo ripeto a voi tutti, con urgenza. Aiutatemi a costruire la nostra, la vostra Chiesa diocesana: il suo cuore è il seminario. Se il cuore cessa di battere, la Chiesa muore. E Camerino potrebbe anche morire come Chiesa diocesana. Tutti insieme possiamo impedirlo. L’appello che lancio a voi per la terza volta è leggermente modificato: Datemi almeno cento lire per il seminario. Veramente spetta a tutti i sacerdoti far proprio questo appello, farne proprio lo spirito. E lo spirito è questo: nel seminario, nei seminari si incrociano tutte le esigenze della Chiesa diocesana; non esiste Chiesa là dove non c’è il senso del vescovo e della comunità diocesana. Datemi almeno cento lire per il seminario è allora una esigenza di fede e di autentica vita cristiana. Per questo prego però tutti i parroci perché si adoperino affinché in ogni parrocchia fiorisca o rifiorisca l’Opera vocazioni ecclesiastiche (OVE) Il Signore vi ricompensi largamente» 96.

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È chiaro l’interesse di mons. Frattegiani per la formazione spirituale e culturale dei seminaristi. Intervenendo nella commissione CEI per i seminaristi afferma:

«È necessario che la commissione affronti decisamente il problema dell’insegnamento nelle scuole teologiche dei nostri seminari. Non sempre è possibile a ciascuno di noi di avere a disposizione soggetti che intraprendano tale rinnovamento usando vecchi strumenti. Sono necessari invece strumenti nuovi. Non si può per esempio seguitare ad insegnare pastorale seguendo il vecchio Stocchiero o ad insegnare morale seguendo il vecchio Noldin, assolutamente inadeguato dal punto di vista formale, perché è un guazzabuglio di nozioni di dogmatica, di morale, di diritto e di diritto naturale (spesso solo preteso) e dal punto di vista sostanziale perché non risponde affatto alla impostazione cristocentrica che è un’esigenza del Concilio. Nell’interesse stesso della formazione umana e cristiana deve essere superato il buon vezzo italiano da una parte di dare del cretino a chi manifesta attaccamento alla Tradizione (non sempre con la T maiuscola) e dall’altra parte peggio di dare dell’eretico a chi manifesta qualche apertura anche giustificatissima (come il Concilio ha dimostrato)» 97.

•Temporalediluglio1968

Mons. arcivescovo continuerà con questi accorati appelli per la vita del seminario, ma nel frattempo è intervenuto un fatto nuovo che ha creato in diocesi gravi difficoltà. Mons. Frattegiani riassume tutto con la frase “temporale di luglio 1968”. Il fatto. Terminato il Concilio ecumenico Vaticano II, le conferenze episcopali nazionali ottengono maggiore autonomia dalle congregazioni della curia romana. Così sarà pure per la Conferenza episcopale italiana (CEI) e di conseguenza anche per quelle regionali italiane. E così la congregazione romana per i seminari regionali dispone che le conferenze regionali divengano responsabili dei vari seminari regionali. Il primo punto dell’ordine del giorno della Conferenza episcopale marchigiana (CEM) del 25 giugno 1968 è così formulato: “I problemi relativi al passaggio del seminario regionale di Fano alla Conferenza episcopale marchigiana”. C’è da tener presente che al seminario regionale non partecipano teologi di Fermo, Camerino, Ascoli Piceno, Macerata, diocesi che, proprio per i teologi, hanno un proprio seminario. I vescovi marchigiani sono d’accordo su due punti: è innegabile l’urgenza di una collaborazione sul piano della formazione teologica dei seminaristi (anche per ovviare a una delle più valide

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obiezioni contro la permanenza di piccole e medie diocesi). Fano però non è ritenuta adatta, sia per la posizione decentrata sia per il clima. Coloro che si oppongono fortemente a Fano sono mons. Frattegiani e mons. Carboni. Si opta per la costruzione di un nuovo seminario regionale a Loreto. Mons. Frattegiani non manca di ragguagliare del problema sia i superiori che gli insegnanti di teologia del seminario e anche i seminaristi direttamente interessati, ottenendo il consenso per Loreto. Nel frattempo l’arcivescovo di Fermo, in considerazione del nuovissimo seminario e del consistente numero di seminaristi teologi, ottiene dalla congregazione di conservare il suo seminario per i teologi e anche di poter ospitare gli alunni di Ascoli Piceno. Mons. Frattegiani si reca allora personalmente a Roma per chiedere che anche Camerino, per la lunga storia e la lontananza dalla costa, possa conservare il seminario e, in subordine, la facoltà di inviare gli alunni a Fermo, più vicina geograficamente e culturalmente. La risposta è nettamente negativa. In manifesto contrasto col comportamento del vescovo, giunge a lui imprevista una lettera della congregazione romana, datata 3 luglio, nella quale si legge tra l’altro:

«… La prontezza con cui Vostra Eccellenza ha accolto, sia pure con grave sacrificio, la decisione di questa sacra congregazione merita un particolare encomio e siamo sicuri che anche altri eccellentissimi Vescovi seguano l’esempio dato da Vostra Eccellenza» 98.

La diffusione del contenuto provoca grave sconcerto e forte turbamento tra sacerdoti e laici, indotti a temere anche per la sopravvivenza della diocesi, di cui da alcuni anni si parla e si scrive. Mons. arcivescovo in quei giorni si trova in Germania, a Ettal, per un breve periodo di riposo. Il 13 luglio partono da Camerino quasi contemporaneamente tre lettere dirette all’arcivescovo. Una di mons. Martella, rettore del seminario, una di mons. Bittarelli, direttore de L’Appennino camerte e professore nel seminario e una dell’avv. Emanuele Grifantini. Il rettore segnala al vescovo l’allarme che si è diffuso tra le autorità cittadine a motivo della sua cedibilità di fronte alla dolorosa operazione: “La pronta ubbidienza è una bella cosa, ma ci mette in gravi difficoltà”. Mons. Bittarelli lamenta l’encomio per il vescovo che per primo ha aderito al progetto.

«Il seminario scompare – afferma – e Camerino tra qualche anno avrà il clero dei paesetti… è triste pensare che il Concilio meritava tale interpretazione. Non piango sulle strutture che crollano, per un mondo che cambia, ma sul

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clero vivo e valido della Chiesa camerte».

La notizia intanto viene amplificata dalla stampa:

«Non si comprende – scrive ancora Bittarelli – come l’attuazione di un provvedimento così grave per la città sia stato assunto in un clima di assoluta riservatezza, senza coinvolgere sacerdoti e laici, mentre il trasferimento del seminario teologico e la paventata soppressione della diocesi vengono vissute come un attentato alle istituzioni vecchie e nuove, sentite come elementi vitali per l’esistenza stessa della città».

Lontano dalla diocesi, attraverso le lettere ricevute, l’arcivescovo percepisce d’essere stato frainteso e tradito, si addolora profondamente soprattutto per l’incomprensione e l’ingratitudine da parte del clero e si lamenta:

«Fano e l’eco ingiusta avuta fra i miei sacerdoti e certo tra i miei seminaristi è stata per me la più grave sofferenza dei miei anni camerti».

Rivolgendosi poi al vice cancelliere don Ivo Gentili, aggiunge:

«Mi aiuti se può, con l’interessamento di mons. vicario e don Timperi, di chiarire questi ingiustissimi malintesi e preghi per me».

Quello che soprattutto addolora e turba l’arcivescovo è la negazione completa del suo operato e la credibilità assegnata alla lettera della congregazione romana rispetto alle sue asserzioni.

«In quattro anni e passa ormai camerti, niente mi ha fatto soffrire di più di questa imposizione di Fano, davanti alla quale sono stato, col vescovo di Macerata, l’ultimo a cedere e dopo aver inutilmente ricorso di persona anche con un viaggio a Roma. Certo la lettera della congregazione ha tutta l’aria di una canzonatura, in quanto si parla di pronta adesione, addirittura di prima adesione».

Seguono subito, dirette all’arcivescovo ancora a Ettal, una mia lettera di chiarimento insieme a quelle di mons. Martella e mons. Bittarelli, che manifestano il proprio rammarico per l’incomprensione e chiariscono che la loro censura riguarda il deliberato e il modo in cui la congregazione romana l’ha presentato, in quanto sono ben consapevoli dell’operato dell’arcivescovo.

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Questi si sente confortato dagli ultimi scritti: la lontananza gli ha forse fatto sopravvalutare il malcontento dei sacerdoti e con nuova lettera diretta a mons. Martella esprime il desiderio di incontrare gli scriventi subito dopo il suo ritorno in diocesi per chiudere così “il temporale di luglio”. Infine mons. Frattegiani su L’Appennino camerte del 10 agosto con una precisa nota chiarisce ai diocesani e chiude l’intera vicenda.

«Rispondendo a una illustre personalità camerte la quale non si rendeva conto della recente decisione della Santa Sede di iniziare subito a Fano i corsi riuniti di filosofia e teologia, in attesa di Loreto (decisione comunicata ai vescovi solo in data 25 giugno) l’arcivescovo così scriveva da Ettal in data 17 luglio: “Non sono d’accordo con lei per quanto riguarda la permanenza della teologia a Camerino ‘a tutti i costi’, mai l’episcopato marchigiano ha agito così conciliarmente come quando ha deciso all’unanimità di curare l’erezione di un seminario interdiocesano a Loreto. Se di fronte al sì di Fermo, di Macerata, di Ascoli Piceno, di Senigallia, di Pesaro io avessi detto no, avrei il rimorso di aver sottovalutato l’intelligenza e lo spirito ecclesiale del mio clero e del mio popolo. Attaccamento a Camerino sì, campanile no!”. Sulla conciliarità del provvedimento provvisorio ‘Fano’ si dovrà anche discutere col dovuto rispetto. Non si può invece discutere sul dovere di attuarlo in spirito di ubbidienza (il dialogo del resto non è mancato e ha avuto anche le sue punte forti). Alcuni hanno sperato per un po’ di vedere l’arcivescovo trasformato… in un vescovo dell’Isolotto» 99.

•Traseminarioregionaleeseminariodiocesano

Sorte difficoltà tra i vescovi per la creazione del nuovo seminario regionale a Loreto, difficoltà sia economiche che di luogo, si affaccia l’ipotesi di crearlo ad Ancona, approfittando dell’offerta di quella diocesi. Il consiglio presbiterale diocesano viene convocato da mons. arcivescovo per deliberare la scelta tra Loreto e Ancona. In data 12 aprile 1969 il consiglio all’unanimità sceglie Ancona. Per quanto riguarda il seminario diocesano, così recita il verbale:

«Con delibera del consiglio presbiterale diocesano, convocato da mons. arcivescovo, del 14 giugno 1969 si decide di unificare la sede del seminario diocesano, stabilendo che anche i liceali si trasferiscano al seminario minore in località S. Francesco, e chiudendo definitivamente il glorioso e plurisecolare seminario dentro le mura della città. Il numero dei seminaristi della media e del liceo è di 90» 100.

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Risolto definitivamente il problema delle sedi del seminario, l’arcivescovo torna con grande attenzione ad affrontare la vita interna del seminario diocesano. Seguendo la vicenda in tutto l’arco dell’episcopato camerte di mons. Frattegiani, si coglie con quanto amore e impegno abbia seguito la vita del seminario in ogni occasione. Il 18 febbraio 1970 convoca a Camerino i tre rettori che dirigono i seminaristi della diocesi: mons. Elio Sgreccia per i teologi di Fano, don Mario Scuppa per il seminario di Camerino e mons. Nello Paina per il seminario di Sanseverino Marche. Vengono proposte ed approvate le linee direttive per quanto riguarda la formazione spirituale e di studio per i seminaristi e per le stesse direzioni del seminario . Il 4 aprile 1970 esorta con nuova insistenza a pregare e a lavorare per le vocazioni sacerdotali.

«Per specialissimo invito del Santo Padre, il 12 aprile si celebra in tutto il mondo la giornata mondiale delle vocazioni. È giornata di preghiera per ogni tipo di vocazione ed è consigliato per questo rinviare ad altro tempo la raccolta delle offerte. Sacerdoti, religiosi e religiose devono sentirsi cointeressati davanti al Signore a suscitare una vera e propria crociata di preghiere. È, d’altra parte, più che naturale che l’arcivescovo profitti di questa circostanza per raccomandare a tutti, e in particolare ai parroci, il problema del seminario da ogni punto di vista (anche le cento lire continuano ad essere valido attestato di zelo); ma quello che più conta è capire i segni dei tempi così mutati, sostenere i giovani già avviati, avere il coraggio di mantenere la vita consacrata, la nobiltà della missione sacerdotale» .

Il 1° aprile 1974, in occasione dello scadere dei primi 10 anni di episcopato:

«… L’invito vecchio è ancora: seminario-seminario e non è più solo per le 100 lire che farebbero bene a diventare 200, ma anche per le vocazioni, soprattutto per le vocazioni. Rogate Dominum messis… rimboccatevi le maniche. Credo che sarà necessario studiare più seriamente in questo campo i rapporti tra il seminario camerte e quello di Sanseverino Marche. Ma intanto subito: pregare e lavorare. S. Maria in via, Madre dei Lumi, ci soccorra con la sua materna intercessione» 103.

Il 10 giugno 1975 mons. arcivescovo indice una riunione per discutere ancora sui problemi del seminario e in particolare per la ricostituzione del centro diocesano vocazionale, per promuovere preghiere e coordinare il lavoro vocazionale in diocesi.

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«Dobbiamo riconoscere – nota mons. arcivescovo – che in questi ultimi anni abbiamo tralasciato quasi ogni attività a favore delle vocazioni. E mentre da noi la fase decrescente delle presenze in seminario non si è ancora arrestata, rimane almeno un segno positivo: i nostri fedeli continuano a sostenere con le loro offerte “il cuore della diocesi”. Si continua ancora a pregare nelle comunità religiose e in qualche parrocchia. È necessario però che tutta la Chiesa diocesana si faccia carico del comando di Gesù: “Pregate dunque il padrone delle messi perché mandi operai per la sua mèsse”. Se gli operai sono pochi e se i chiamati hanno continuo bisogno di rinnovare la generosa dedizione alla missione ricevuta, il rimedio c’è, ed è indicato dal comando di Gesù. Dovremmo avere un po’ della fede semplice e forte di padre Annibale di Francia, che così si esprimeva: “Chiamiamo infallibile questo rimedio perché avendolo additato e imposto nostro Signore, non può fallire: e se additò la preghiera a questo scopo, vuol dire che vuole esaudirla, se no, non l’avrebbe comandata… se si pregherà per le vocazioni sarà segno che esse saranno apprezzate, si risponderà ad esse con maggiore fedeltà”» 104.

•1976:auguridiNatale

«… E in vista dell’evangelizzazione di domani, la passione di tutti i nostri cuori è il nostro seminario. Dell’attuale situazione avete seguito gli sviluppi. Scuola media parificata autonoma: dopo il periodo di rodaggio (per cui siamo grati all’istituto Bambin Gesù di Sanseverino Marche e alla preside suor Giuliana) presiede adesso il can. Scuppa, che ha lasciato la direzione del seminario a don Antonio Massucci con la collaborazione di don Mariano Blanchi (ognuno in gambissima per il proprio ufficio); devo aggiungerci a pari merito i cari insegnanti, devo aggiungerci per Sanseverino Marche il generoso impegno di don Nello che considero un prezioso contributo al nostro domani unitario. Tutti naturalmente in bolletta se dovessero vivere della direzione della scuola del seminario. Tutti perciò grandi benefattori. Quando venni chiesi subito cento lire a testa e si poté provvedere per il vostro zelo e per il vostro saper chiedere al riscaldamento dell’allora seminario maggiore, ora collegio universitario “Bongiovanni”. Il minore (ora tutto, e purtroppo ci avanza) resta un monumento dello zelo pastorale del venerato predecessore mons. D’Avack e del sacrificio di tutta la diocesi. Ora c’è da rimboccarsi le maniche e seguendo le direttive della commissione per il seminario (preghiera, sacrificio di moltiplicata offerta e azione vocazionale) bisogna adoperarsi per una ripresa. Non è facile. Ma se non cerchiamo noi stessi, il Signore è con noi. Il tema del Natale Immanu-El resti la nostra parola d’ordine» 105.

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•20aprile1985:appelloperlagiornatavocazionale

«Carissimi fratelli sacerdoti, saprete certamente che il 28 aprile si celebra la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. In tutte le sante messe i sacerdoti sentano il dovere di ricordare ai fedeli la responsabilità che tutti abbiamo di incrementare e sostenere le vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa. Una buona traccia per una buona omelia i sacerdoti la troveranno nella guida liturgica pastorale 1984-1985 a pag. 216. Dal punto di vista vocazionale la situazione odierna delle nostre due diocesi si presenta come una paurosa catastrofe. Mi allineo in prima fila per battermi il petto insieme a tutti i confratelli diocesani e religiosi, invocando “Parce Domine”. Dal punto di vista di un nuovo reclutamento, io credo che più che contare sui bambini (come avvenne per noi) urge lavorare più responsabilmente sui giovani bene avviati alla vita di pietà e di collaborazione con le parrocchie. Grazie a Dio, giovani così non mancano. Riprendiamo fiducia fratelli. Anche per me questa è la sola legge: o fiducia ... o ritorna al tuo paesello... A parte la battuta scherzosa (me la cantavo da bambino) la situazione è tale da invitarci a piangere. Ma prima di piangere la logica ci invita a lavorare, a prospettare al popolo di Dio il problema delle vocazioni, l’intercessione di Maria Regina apostolorum» 106.

Tre interventi esemplari del suo diretto interessamento improntato a grande serenità e cordialità con i seminaristi e a profonda stima e rispetto per le persone che li aiutano nella scelta vocazionale:

«Da un campeggio I.B.O. (costruttori volontari) che ha avuto luogo a Stockstadt nei pressi di Francoforte sul Meno, sono tornati ricchi di esperienze e pieni di giovanile entusiasmo i chierici Peppino Mosciatti e Giuseppe Bagazzoli. Attendiamo da loro una bella relazione in collaborazione oppure… la concessione esclusiva ai nostri inviati speciali» 107.

Di una lettera di un candidato al sacerdozio riferisce così l’arcivescovo su L’Appennino camerte del 5 agosto 1972:

«Conoscendo la mentalità… pubblicistica dell’arcivescovo, il diacono don Mariano Blanchi così argutamente ha annotato al termine di una lettera dal mese di Galloro, dove si prepara alla sua ordinazione sacerdotale: “non pubblicabile (tutti i diritti riservati all’autore)”. Allora… solo un piccolo brano che ci sembra intonato alla “tre giorni” (Eucaristia e Chiesa locale). “Al mese ho imparato che la comunità non si fa soltanto discutendo insieme, ma soprattutto pregando insieme e individualmente l’uno per l’altro. Siamo

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ventuno, vecchi, giovani e di mezza età, delle più varie parti d’Italia e del mondo; non ci conoscevamo affatto, non abbiamo mai discusso assieme i nostri problemi; eppure se lei ascoltasse l’omelia della sera, al termine della giornata, un’omelia così spontanea, immediata, profonda, personale, potrebbe credere che ci conosciamo da lungo tempo. Nessuna soggezione o paura di esprimere i propri pensieri anche intimi, perché si vede che tutti sono ben disposti all’ascolto, e se anche dici delle cose ovvie, già non sono più ovvie perché le hai dette tu, perché l’hai fatte proprie”» 108.

•11settembre1976:letteraadonMarioScuppa

«Carissimo don Mario, nel momento in cui lascia la direzione del seminario dopo tante vicende tristi e liete (per citare i fatti più rilevanti: la fine del corso autonomo di teologia e la diminuzione drammatica di alunni e dall’altra parte il conseguimento, da lei stesso validamente patrocinato e voluto, della parificazione della scuola media) sento il dovere di esprimerle il mio grazie, quello dei confratelli e dell’intera diocesi. È a tutti noto lo sforzo intelligente e costante, da lei compiuto in mezzo a difficoltà non comuni per intonare la vita del seminario ai principi del Concilio Vaticano II, alle direttive della Santa Sede e dell’episcopato italiano e alle indicazioni più sane della moderna pedagogia.È a tutti noto il suo impegno perché la parificazione della scuola non restasse un palliativo di colore. L’autonomia ottenuta a decorrere dal prossimo anno scolastico, che la vedrà preside, e il riconoscimento avuto dall’opinione pubblica cittadina dal momento dell’apertura della scuola stessa agli esterni, dimostrano chiaramente la validità dell’iniziativa. Non sto a sottolineare quanto ha fatto per la conservazione e il consolidamento dell’edificio e delle sue strutture, per il miglioramento delle attrezzature didattiche e sportive, per il potenziamento della biblioteca che si vuole aperta alle esigenze culturali del nostro clero, certi suoi sacrifici personali (anche di tasca!) io li scopro solo adesso, ma il Signore li ha scritti nel suo libro e forse a molti ragazzi, anche sventati a volte, non sono sfuggiti. Voglia gradire un dono modesto ma significativo, che le offro a nome di tutti e che per me costituisce un valido surrogato di titoli ai quali lei del resto non tiene: è l’edizione originale della ormai celebre Tradution oecumenique de la Bible (TOB); la ritengo molto intonata al suo magistero di sacerdote e di titolare della cattedra di francese. Dio la benedica nel suo nuovo lavoro. Cordialmente. ✠ Bruno arcivescovo» 109.

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iL vescovo, iL cLero e iL popoLo fedeLe

È necessario premettere sui rapporti del vescovo con i sacerdoti e fedeli quanto mons. Frattegiani scrive nella sua lettera pastorale

“Ecce venio”.

«È mio grande dovere ricordarvi le forti parole di S. Ignazio martire: “Stando sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo, voi dimostrate di non vivere secondo il mondo, ma secondo Gesù Cristo che è morto per noi affinché, credendo alla morte sua, siate preservati dalla morte. È necessario dunque, come già fate, che non intraprendiate nulla senza il vescovo” (Trall. 2, 1-2); “Chi onora il vescovo è onorato da Dio; chi opera a insaputa del vescovo serve al diavolo” (Smirn. 9, 1).Ma è anche mia premura, con tutta la prudenza e con l’occhio sempre rivolto alla Santa Sede Apostolica, tradurre in pratica con voi le parole del grande S. Cipriano ai suoi Preti: “Nulla senza il vostro consiglio e senza il beneplacito del mio popolo” (Lettere 14 e 32).È naturale che per popolo non può intendersi qui il popolo-campanile, ma solo il popolo-Chiesa. Un popolo, supponiamo, che fa rivoluzione perché non parta il parroco giudicato dal vescovo necessario altrove per il bene di tutti, non è un popolo-chiesa ma un popolo-campanile.Anche i sacerdoti di Cipriano sono consiglio al loro vescovo solo in quanto presbiterio, nella comunione di carità che non cerca i propri interessi; ed io sogno così il collegio sacerdotale di Camerino - come S. Ignazio descrive quello di Efeso - “armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra” (4, 1). Quello che non è possibile alla natura egoistica, e possibile alla Grazia.Non è quindi una supposta ventata democratica dell’arcivescovo novello e novellino che deve portarci, ma il soffio dello Spirito Santo. L’unione che, movendo dal popolo, attraverso il clero giunge a comporsi nel cuore del vescovo e che viceversa, movendo dalla sollecitudine del vescovo per la salvezza e per il bene di tutti, si imposta organicamente nelle attività del clero e nella vita cristiana del popolo: ecco la “cetra” di Ignazio, ecco il “concerto di lodi a Gesù Cristo” (l.c.), ecco l’ideale paolino vissuto: “Facendo la verità nella carità, sforziamoci di crescere sotto tutti i riguardi in Lui, che è il Capo, dal quale tutto il Corpo riceve armonia e compattezza e attua la propria crescita per la edificazione di se stesso nell’amore” (Ef E, 15-16)».

•Nonvengoperessereservito...

«Il vescovo (dico vescovo per dire l’istituto divino, e lascio stare per un po’ l’arcivescovo che distingue la diocesi più che l’eletto, ma è puro frutto di

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contingenze storiche e forse ricorda i tempi meno belli del principe) viene a voi come Gesù, “non per essere servito, ma per servire e per dare la sua vita” (Marco 10, 45). Viene a promuovere la comunità dell’amore ed ha bisogno di amore e di sincerità. Se c’è qualcosa in lui che vi turba, voi dovete dirglielo con tutta umiltà e carità. Umiltà, perché questo servo di Dio rappresenta tra voi ufficialmente il Signore. Carità, perché anche lui - come voi - porta il suo grande tesoro (e la sua responsabilità tremenda) in un vaso di coccio (cfr. 2 Cor., 4-7). È chiaro che egli non potrà misurare il suo servizio nel Signore sulla soddisfazione di tutti, e talvolta non potrà condividere le osservazioni e talaltra potrà sembrare che non ne tenga conto. Ma resta sempre il dovere dell’apertura ufficiale, che sventerà il pericolo delle lodi vili e delle nubi d’incenso estraliturgico. Non è detto che al vescovo - povera creatura di carne e di sangue anche lui - non possa far bene sapere che certe cose sono state gradite, che i suoi figlioli sono contenti. La strada non s’insegna soltanto dicendo che quella già presa è sbagliata e che pertanto bisogna cambiare, ma anche rassicurando il viandante sulla bontà dei passi fatti finora».

Nella lettera “ai cari fratelli sacerdoti” del 20 ottobre 1966 mons. Frattegiani ricorda la preghiera di Sant’Agostino nel contesto accorato della santa madre Monica:

«Ispira, ai tuoi servi miei fratelli e ai tuoi figli miei padroni, a cui servo con la voce e con il cuore e con gli scritti… di ricordarsi all’altare di Monica tua serva. La preghiera mi ha interessato per un altro motivo: S. Agostino, se non mi inganno, considera i sacerdoti servi di Dio, quindi suoi fratelli, considera i fedeli figli di Dio e quindi padroni dei sacerdoti e padroni suoi. Quante volte ce ne siamo scordati! E pure era già il programma chiaro di S. Paolo: “Noi non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo come Signore;

Impartisce la prima comunione a una bambina

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quanto a noi siamo vostri servi (anzi douloi) e quindi schiavi per causa di Gesù”. Era l’invito perentorio del Signore Gesù: “Chi tra voi è il primo sia come colui che serve”. Dalla formula protocollare “Servo dei servi di Dio” Sant’Agostino invita a trarre le più sconcertanti conclusioni che a catena potranno rendere così: dunque i vescovi sono padroni del papa, i sacerdoti sono padroni del vescovo, i fedeli sono padroni dei sacerdoti. Altro che trionfalismo! Voglio dire: l’anno nuovo ci veda al lavoro penetrati da questo spirito di servizio che ci impegni a darci tutti senza riserva, ciascuno secondo il dono ricevuto… come bravi amministratori della molteplice grazia di Dio» .

L’arcivescovo poi continua sviluppando ampiamente questi punti:

«1. Siamo servi della parola, apprendendola con spirito religioso e proclamandola con fiducia; come a nome della Chiesa ha detto il Concilio, facciamone norma di vita per noi e pane sostanzioso per i nostri fratelli… 2. Siamo dispensatori dei misteri di Dio. Che la dignità dell’azione liturgica, centro quotidiano della nostra vita, muova da sola – come è suo compito e sua forza – la pietà e la corrispondenza dei fedeli… 3. Siamo collaboratori di Dio. È qui soprattutto che il vescovo è servo vostro, è qui soprattutto che voi siete servi dei vostri fedeli a causa e per amore del Signore Gesù. Lavoriamo con impegno: servi della parola, dispensatori dei misteri di Dio, collaboratori di Dio e miei conservi, vi benedico con affetto e cordialità insieme ai vostri e miei figlioli, nostri padroni nel Signore» 110. Per dare risalto all’immagine del vescovo, già nel primo anno del suo episcopato stabilisce che la festa tradizionale del vescovo non sia legata alla sua persona, ma si svolga nel giorno della ricorrenza della festa della cattedrale e in seguito a quella del vescovo S. Ansovino. E pertanto mostra la sua profonda e sincera contrarietà al titolo di “Eccellenza” e lo manifesta in tutti i modi, perfino in senso scherzoso. Scrive: «Vostra Eccellenza! Se il titolo fosse valido dovrei dirvi adesso che la mia eccellenza vi saluta. Vogliamo una buona volta risolverlo il problema di questo titolo tanto anacronistico? Non so imporvi di chiamarmi padre, perché soprattutto di voi mi sento fratello (il pro vobis episcopus, vobiscum cristianus di Sant’Agostino vale per i fedeli). Comunque è un titolo d’uso e può andare. Chiamatemi come volete (non posso dispensarvi dal rispetto che è… di fede!), ma aiutatemi ad oltrepassare lo stadio spagnolesco (del resto oggi gli spagnoli – e potrebbe essere un’indicazione – dicono: signor vescovo, signor arcivescovo; l’ho sentito alla radio vaticana durante il Concilio) . E in un’altra occasione: “Ya Mhashamu Bruno”. Con un calcolo verbale siamo giunti a stabilire che, nella partecipazione bilingue

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(italiano e kiswaili) dell’ordinazione del nostro giovane amico Tarcisio Nagalalekumtwa, l’espressione “Ya mhashamu Bruno” è l’equivalente di sua eccellenza Bruno. L’arcivescovo trova che in mancanza di meglio sarebbe un ottimo surrogato del decrepito eccellenza. A meno che la sintassi kiswaili non ci abbia giocato un brutto tiro a dispetto del calcolo accurato» 112.

Concelebrazione pressoil convento di Renacavata

Con i sacerdoti diocesani partecipantial convegno di studio sui documenti

del Concilio a Rocca di Papa

Con don Giulio Fedeli

Con un gruppo di sacerdoti diocesani a Renacavata

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E trattando della riforma liturgica, porta alcuni approfondimenti per la vita spirituale dei sacerdoti:

«Il mistero eucaristico… la messa è eucarestia, cioè grazia! Perché Dio “prior dilexit nos”; è croce: tota vita Christi fuit crux et martirium… Rivestitevi del Signore Gesù Cristo (Rom 13,14). Ma non ci si riveste se prima non ci si spoglia: “Rivestirci di Cristo” suona come un assurdo se non ci spogliamo di noi. Giunge quindi provvidenziale, fratelli sacerdoti, per noi e per i fedeli che abbiamo bisogno di formare all’abneget semetipsum (dovremmo poter dire: sicut habetis formam nostram). Il rito è un segno, il cui contenuto è l’immolazione. In capite Libri scriptum est: ecce venio. È agape, ci permette di partecipare all’unico sacrificio, il sacrificio del capo e delle membra: pleroma Crucis. L’incarnazione è venuta una volta sola in persona Christi, ma si attua nei secoli. Ognuno di noi deve essere disponibile, a pronunciare come Maria: ecce ancilla Domini e saper dire il cotidie morior. Ciclo liturgico e breviario. Il tempo dev’esser santificato perché esso è stato santificato quando il Verbo incarnato lo ha scandito. Il tempo ci è stato offerto perché vi seminassimo l’eterno. La preghiera della Chiesa è la preghiera del tempo, preparazione di quella dell’eternità. Il tempo ha quindi valore escatologico: consacrazione delle ore, settimane, stagioni. Centralità della Pasqua nell’anno e della domenica nella settimana. Santificazione del giorno attraverso le lodi e il vespro, che esprimono i “mirabilia” della creazione e della benedizione, che ci danno i due gioielli del Benedictus e del Magnificat. Il mattutino ricorda il “donec veniat” e quindi la necessità di essere in veglia, perché lo sposo ritorna. Recitare le ore in coincidenza con la giornata e la compieta la sera: consacrazione del tempo. Amare il Breviario è questione non di quantità, ma di qualità. Non lasciate nulla di intentato di giorno e di notte perché ci sia più spazio per la preghiera liturgica, senza trascurare il pio esercizio della Via Crucis e del santo rosario. La preghiera personale più viva, la vostra meditazione più intensa, la vostra liturgia delle ore più tempestiva e posata e serena, la vostra messa più raccolta e goduta, il vostro ricorso più fiducioso a Maria vi aiuteranno a disporre i vostri fedeli a vivere pienamente il giorno del Signore» 113.

Infine, nella lettera pastorale su “Giubileo e visita pastorale”:

«Per ora esorto tutti i confratelli parroci e rettori di chiesa, diocesani e religiosi, a dare ai loro fedeli l’intonazione corretta. Leggevo stamattina il racconto di Gesù che siede a mensa con i “peccatori” ed è criticato dai “giusti” schifiltosi, con i quali peraltro il Maestro dichiara di non aver nulla in comune; il suo pensiero è chiaro: i giusti di per sé non esistono in

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quanto solo il perdono e la grazia dall’alto (la giustizia di cui parla S. Paolo nella lettera ai Romani) può rendere gli uomini tali al cospetto di Dio per il sangue di Cristo nel dono dello Spirito Santo. Sapiente è la pedagogia della Chiesa che all’inizio di ogni nostra assemblea ci invita a riconoscere “i nostri peccati” e più per i peccatori invoca la pietà del Padre su “nobis quoque peccatoribus”. Non lo dite a nessuno, ma l’ultima preghiera del canone cosiddetto romano è destinato… a noi preti; non al prete di cui si chiacchiera, non al prete sulla crisi del quale si fanno commenti, non al prete segnato a dito per una presunta avarizia, ma semplicemente a noi preti: nobis quoque peccatoribus. Dunque una conversione per noi e per gli altri. Conversione ogni giorno. E poi riconciliazione» 114.

E ancora:

«Si tratta della nostra vita, fratelli sacerdoti, si tratta di spenderla senza risparmio, spronandoci a vicenda; non vi vorrò male se (con garbo) spronerete la mia pigrizia; consentitemi di fare altrettanto con voi; quando ce ne fosse bisogno. Mi viene in mente in questo momento una espressione incandescente di San Paolo: “Non quaero vestra, sed vos”. Non mi ricordo nemmeno dove sta, ma la troviamo subito (ah! benedetto latino e benedette concordanze, dove siete andate a finire?). Ecco 2 Cor 12, 14. Nel contesto bruciante d’una vita donata, lasciamoci afferrare, fratelli, dalla grazia della nostra chiamata. Ancora con l’Apostolo “impendam et superimpendar” e solo un versetto dopo il Nuovo Testamento interconfessionale lo traduce così: “Ben volentieri io spenderò quel che possiedo e sacrificherò anche me stesso per voi”. O siamo convinti che la nostra vita è donata al Signore per il bene dei fratelli o siamo degli spostati. Dio ce ne liberi, cari sacerdoti. Scrivo nel contesto del mio quarantesimo di sacerdozio. Il domani non lo so. Né voi saprete il vostro. Sappiamo solo che sarà fruttuoso e gioioso e benedetto nella misura in cui sarà votato al Signore».

E esorta:

«Siamo uniti nella carità e celebriamo ogni giorno la pasqua del nostro sacerdozio negli azzimi della sincerità e verità» 115.

E in tutte le sue lettere pastorali per la Quaresima, per il Natale, per la Pasqua, per la Pentecoste o in occasioni particolari, sempre offre spunti di spiritualità sacerdotale. Per la vita spirituale dei sacerdoti, mons. Frattegiani dà molta importanza al ritiro mensile del clero, riservando sempre un’ora all’adorazione eucaristica e al tempo di silenzio per le confessioni. Insiste

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perché ogni anno i sacerdoti partecipino a corsi di esercizi spirituali, indicando su L’Appennino camerte i luoghi, i tempi e i maestri dei vari corsi in Italia. Per gli anni 1975, 1976, 1977, 1978 e 1980 partecipa personalmente con i soli sacerdoti diocesani a corsi di esercizi spirituali a Cascia con maestri come p. Garofolo, p. Greich, mons. Banetta e altri nomi di padri agostiniani. Nel dopo cena, prima della compieta, si svolgono revisioni di vita sia personale che pastorale sempre con la presenza gioiosa dell’arcivescovo.

•Mons.Frattegianieisacerdotimissionari

Mons. Frattegiani oltre all’aspetto strettamente spirituale, pastorale e culturale dei sacerdoti diocesani facilita e asseconda coloro tra questi che manifestano una sincera vocazione missionaria, e una volta in missione li segue con amore, li incoraggia con lettere nel loro lavoro pastorale e li aiuta economicamente nelle loro opere. Più volte ripete che per lui continuano l’attività nella Chiesa diocesana. Li invia affidando loro un mandato particolare durante una cerimonia liturgica. Scrive a proposito:

«Hanno diritto di essere considerati non solamente nostri membri attivi, ma come attivi soldati di prima linea del nostro presbiterio. Devono quindi essere i primi a godere del nostro appoggio e del nostro aiuto» 116.

Considera la parrocchia di Nostra Signora del cammino di Lima in Perù, la parrocchia di Anatuja in Argentina e quella in Guatemala, parrocchie della diocesi.

«Ricordiamo i nostri confratelli diocesani missionari! Don Secondo Orazi, don Cherubino Giardini, don Mario Lesti, don Francesco Vitali, don Italo Scoccia, don Emilio Marchionni, don Gianni Fabbrizi, don Paris Maponi, don Ugo Bosoni. E i religiosi originari della nostra diocesi e alcuni già nel nostro seminario: mons. Attilio Marinangeli, già rettore del seminario di Camerino, don Giovanni Monti, p. Adalberto Galassi, p. Grasselli già del seminario di Camerino, divenuti missionari della Consolata. Poi il dott. Bucari, p. Corvini...» 117.

A favore di mons. Marinangeli, mons. Frattegiani lancia su L’Appennino camerte un invito per realizzare a Iringa prima un dormitorio per i poveri, poi l’ospedale. Per le due parrocchie del Perù e dell’Argentina devolve quanto raccolto dalla “Quaresima di carità”; per la missione dei cappuccini di mons. Marinozzi manda aiuti da destinare alle scuole e all’ospedale in Etiopia;

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una notevole somma è destinata all’ospedale in Bangladesh del dott. Bucari; aiuti per p. Corvini a Sumatra, aiuti per il Benin dei cappuccini marchigiani. Jeep per don Cherubino e don Secondo in Guatemala. Proposte di aiuto e rendiconti sono pubblicati dal vescovo sul Bollettino della diocesi. Permette, incoraggia e invita molti sacerdoti giovani, una ventina, a iscriversi alle Università pontificie e statali. Permette ad alcuni di lavorare pastoralmente a Roma, ad Ancona, a Tarquinia; ad altri consente l’assistenza ai militari, ad altri ancora di seguire i migranti all’estero. Tutto con grande apertura e desiderio di consentire a ognuno la sua specifica vocazione. Con i sacerdoti lontani dalla diocesi corrisponde con regolarità. Riserva una particolare cura ai sacerdoti giovani, fissando incontri di formazione per loro e anche interessandoli attraverso cordiali colloqui ai problemi e alle realizzazioni della diocesi.

•Mons.Frattegianieisacerdotichehannolasciatoilministero

Segue e aiuta anche alcuni confratelli che avevano ottenuto lo stato laicale. A questo proposito scrive:

«È don Mazzolari che lo tratta con grande spirito di apertura sull’ottima rivista Presbiteri – che ogni sacerdote dovrebbe avere, leggere e meditare –. Egli vuole parlare di coloro che impropriamente sono chiamati ex e cioè dei nostri fratelli che – grazie a Dio con il consenso della Chiesa – hanno lasciato il ministero. L’ontologia sacerdotale ci insegna che essi non sono ex, e il nostro impegno di fraternità nei loro riguardi non può in coscienza rallentare. Soprattutto dobbiamo difenderli da ogni speculazione scandalistica, perché di questo si tratta e non di scandalo vero e proprio, quando si pretende erigersi a giudice degli altri. Il precetto chiave del discorso della montagna è “non giudicare, che è poi l’unico modo per non essere giudicati”. A scanso di... scandali gratuiti, precisiamo che il “grazie a Dio” che poco sopra mi è scivolato dalla penna non si riferisce al fatto che i nostri fratelli hanno lasciato il ministero, ma al fatto che la Chiesa l’ha trattati da madre, per convincere noi a trattarli da fratelli. È questo uno dei meriti più grandi di papa Paolo VI che – nel clima del Concilio – ha avuto il coraggio di rompere con uno stile di crudezza e di inesorabilità che non si confaceva alla maternità della Chiesa: una autentica conversione. Ne sia ringraziato Dio» 118.

Coerente con quanto scritto, mons. Frattegiani segue da vicino, sia con incontri personali che con lettere alcuni sacerdoti diocesani che avevano

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ottenuto lo stato laicale; ed essi gli mostrano riconoscenza, sentendosi compresi e in alcuni casi anche aiutati.

•Iproblemieconomicidelclero,inparticolareisacerdotimalatieanziani.Unacooperativa

Dietro invito e desiderio esplicito di mons. Frattegiani il 12 febbraio 1981 è ufficialmente costituita, davanti al notaio dr. Paloni di Matelica, la cooperativa assistenza sacerdoti anziani (C.A.S.A.) per il clero anziano e bisognoso, con finalità di assistere i sacerdoti che si vengono a trovare in situazioni difficili per malattia e vecchiaia e di realizzare anche, dove e quando possibile, case per il clero. L’arcivescovo, anche per l’impegno assunto accettando il legato della principessa Maria Sofia Giustiniani Bandini, stabilisce che sia ampliata, ammodernata e dotata di servizi adeguati la casa del clero, che mons. Giuseppe D’Avack aveva ricavato nella soffitta del palazzo arcivescovile per gli insegnanti del seminario, gli addetti agli uffici di curia e i giovani sacerdoti. Conferisce l’incarico all’amministratore della curia diocesana mons. Giuseppe Scuppa, che rende accessibile la casa camerte anche a sacerdoti anziani realizzando un adeguato ascensore grazie al consistente dono in denaro offerto dal prof. Cesare Lami di Perugia. In precedenza ha fatto ristrutturare un’ala del vecchio seminario abbandonata dai seminaristi per farne appartamenti da affittare ai sacerdoti impegnati a Camerino e viventi in famiglia. Mons. Frattegiani è molto sensibile alle reali difficoltà economiche di molti parroci e alla disparità di trattamento tra di essi. Mentre alcuni godono d’un buon beneficio parrocchiale, i più, titolari di minuscole parrocchie di montagna, vivono in grandi ristrettezze, nonostante la cosiddetta “congrua” corrisposta dallo Stato. Già mons. Giuseppe D’Avack aveva notato questa disparità e aveva stabilito un fondo pensioni per il clero poi, per realizzare una vera perequazione economica e sollevare i sacerdoti dall’amministrazione mai semplice dei benefici, aveva elaborato un progetto originale, che si sarebbe rivelato singolarmente profetico nei confronti del Concordato tra la Santa Sede e lo Stato italiano del 1984. Il progetto, che prevedeva un’amministrazione centrale di tutti i benefici parrocchiali, aveva ottenuto l’approvazione dello stesso pontefice, ma era in seguito naufragato per il ricorso di alcuni parroci alla congregazione del clero, che non aveva trovato la soluzione conforme al diritto canonico allora vigente. Corre voce tra il clero che di fronte alle proteste presentate da mons. D’Avack alla congregazione esibendo il permesso esplicito del papa, il prefetto della congregazione del

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tempo, card. Bruno, avesse risposto seccato: “Dite a Pacelli che se vuole questo progetto cambi il diritto canonico!”. Mons. Frattegiani, pur consapevole di tale precedente, non rinuncia a tentare una certa perequazione economica per il clero. Costituisce una commissione con sacerdoti eletti nelle varie vicarie della diocesi. Il primo compito della commissione è quello di valutare la situazione reale di ogni parrocchia e di tutti i singoli sacerdoti sulla base dei redditi derivanti da terreni, congrua, scuola di religione, pensione di invalidità e vecchiaia, interessi di capitale in deposito presso l’ufficio amministrativo diocesano, conguaglio versato dal fondo pensioni diocesano. Le direttive impartite dall’arcivescovo alla commissione sono: 1. Attuare il n. 20 della Presbiterorum ordinis: lo stesso trattamento a coloro che si trovano nelle stesse condizioni di lavoro e di spese. 2. Come bene primario, tenere e promuovere l’unità del presbiterio. Se la Chiesa è comunione non si deve attuare una perequazione con una parte del clero contro l’altra. Pertanto non si proceda per imposizioni giuridiche; non si proceda senza concedere fiducia a quanto ognuno dichiara sia sui redditi che sulle necessità, a meno che non ci sia palese falsità 119. La commissione per la perequazione lavora con assiduità e intelligenza, ma incontra anche molte difficoltà, superate alla fine per la sensibilità, il colloquio e il rispetto del vescovo per ogni singolo sacerdote. Ci sono da superare posizioni acquisite, come dimostra l’intervento del vescovo sulla perequazione in una situazione particolare, intitolato: “Non il proprio interesse”.

«Questa volta il discorso è – diciamo così – in presa diretta miei cari confratelli sacerdoti. Voglio dire che lascio di fare il finto portavoce dell’arcivescovo e faccio... l’arcivescovo. Mi dispiace solo che non tutti mi leggerete per il solo motivo che ne ho saputa una assai grossa: non tutti i confratelli sono abbonati a L’Appennino e di conseguenza a La Voce settempedana. Questo fatto mi porta a considerare con voi tutti (e prego la redazione di mandare questo numero a tutti: pagherò io la spesa modesta), la voce obbligazione, una parola giuridica che è venuta più volte alla ribalta in occasione dei discorsi (molti) e dei fatti (un po’ meno) sulla perequazione. È normalissimo che ogni sacerdote si senta obbligato a leggere la nostra stampa diocesana. Sarebbe però assurdo che nel caso si parlasse di sanzioni, anche se per un giurista puro un’obbligazione senza sanzioni non ha senso. Ma noi non possiamo misurare la nostra vita sul puro diritto. Passiamo senz’altro al campo più delicato della perequazione. Questa mattina, 20 settembre, il nuovo breviario mi ha fatto meditare a terza le parole di S. Paolo: “Ognuno cerchi non il

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proprio interesse, ma quello degli altri (1 Cor 10, 24)”. O ci misuriamo con questa regola, la lex nova dello spirito di vita (Rom 8, 2) o ci manca qualcosa per essere cristiani. Allora può essere perfino comodo prendersela con la scarsa energia del vescovo (il quale ben volentieri riconosce i suoi limiti)» 120.

«“Ciò che tocca a tutti”. Una riflessione sul dettato del can. 101 (quod omnes uti singulos tangit ab omnibus probari debet) mi ha portato a schierarmi per Sanseverino con quella parte della nuova commissione che riteneva non valida la votazione a stretta maggioranza per una perequazione totale. Ciò non toglie che restino moralmente obbligatorie e per Sanseverino e per Camerino, le tassazioni fissate per quest’anno dalle rispettive commissioni. Sarebbe doloroso se io dovessi per le perequazioni e per le percentuali dell’insegnamento religioso (questo purtroppo entro la prossima settimana improrogabilmente!) ricorrere a quelle sanzioni che le disposizioni vigenti mi consentono e in parte mi impongono (ma allora non è più la lex nova; non resta che il canone del proprio interesse). Inopportuno parlarvi così in una pagina a cui danno volentieri un’occhiata anche parecchi laici? Non lo credo. I laici ci guardano, ci criticano, ma desiderano che noi facciamo il nostro dovere anche quando per difetto di canoni o per debolezza dei superiori non si danno sanzioni; e forse pregheranno per noi. Perché si mantenga fede al poco che si è fatto. Ed i laici saranno contenti di sapere che su questo io non ho dubbi e giudico superfluo il discorso sulla coercizione» 121.

Dalle commissioni, tuttavia, accoglie anche suggerimenti e qualche volta accetta posizioni diverse dalle sue direttive. Così una volta scrive:

«Commissione - arcivescovo 1 a 0. Ho accolto il fatto che la commissione camerte non ha creduto di ritenere ulteriormente un’eccezione da me proposta di esentare per il primo anno della perequazione i vecchi docenti di materie non religiose» 122.

Mons. Frattegiani generoso, comprensivo e sinceramente rispettoso di ogni persona, si rivela rigido ed estremamente esigente con chi scientemente si mostra refrattario a essere preciso negli impegni richiesti e chiaramente esigiti in campo economico.

«Richiamo urgente. Carissimi confratelli delle due diocesi devo parlarvi di alcune cose che hanno carattere di urgenza ex ipsarum natura. Si tratta di questo: 1. È dovere elementare di ogni sacerdote diocesano che abbia un titolo

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parrocchiale, anche se per motivi contingenti è sostituito da un vicario parrocchiale (detto appunto sostituto), di applicare ogni anno 11 messe per il popolo e una pro emigranti (è ovvio che alla curia non viene niente e quindi non c’è motivo di prendersela con i soliti curiali). 2. È dovere elementare di ogni sacerdote diocesano di consegnare in curia entro gennaio l’elenco delle messe ad mentem ordinarii (pro populo, binate e trinate) e l’importo delle messe stesse, se applicate per intenzioni particolari (obbligo grave per le messe pro populo ratione oboedientiae Sanctae Sedis e obbligo più grave per le binate e trinate per ovvie ragioni di rispetto alla SS. Eucarestia. Si tratta per questo gennaio di un pacifico “regolamento di conti” che riguarda ogni sorta di voci. Ne dipende il buon andamento della curia e – si voglia o non si voglia – la curia segna il polso della diocesi (perché non giungere a concepirla come centro pastorale e aiutarla ad essere tale?). In materia è tollerabile una dimenticanza, ma è da stroncare con decisione ogni atteggiamento che accenni disprezzo. Dispongo pertanto che a marzo venga trattenuto il foglio verde a chiunque non sia in regola con tutti gli adempimenti prescritti. La disposizione vale naturalmente – e molto di più – per coloro che hanno arretrati di qualsiasi tipo e non hanno tenuto conto di precisi impegni assunti: si tratta di giustizia di chi ha fatto in tempo il proprio dovere. Chi non sarà in regola non potrà prendersela con la curia; potrebbe semmai – nel caso non fosse abbastanza ragionevole – prendersela con me, che però non potrò farci nulla. Scusate la vivacità e la durezza. Ma si suol dire che “quando ci vuole, ci vuole”. Per quanto sta in me non tollererò abusi. E per tutto ciò che mi sfugge, devo ricordare che “Deus non irridetur”. Preghiamo il Signore che ci aiuti, come ho scritto nella pastorale, a conoscerci meglio, a volerci bene nonostante le scadenze di curia» 123.

i reLiGiosi

•Lecomunitàreligioseindiocesi Mons. Frattegiani durante il suo lungo episcopato mostra attenzione e vera stima per tutte le varie comunità religiose maschili e femminili operanti nella diocesi, si rivela rispettoso della loro spiritualità e autonomia, ma non rinuncia a coinvolgerle nell’attività pastorale. Per questo, dopo le dimissioni per motivi di salute di mons. Augusto Timperi, che molto aveva operato per il bene delle suore, nomina vicario pastorale per i religiosi e le religiose mons. Ferruccio Loreti, che con dedizione vera segue tutte le loro vicende e attività. Ma l’arcivescovo non fa mai mancare la sua presenza e la sua illuminata

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parola in tutte e dodici le comunità maschili, che vanno dai monaci cistercensi di S. Maria dei Lumi in Sanseverino ai benedettini – silvestrini di S. Lucia in Serrasanquirico, dai religiosi del Terz’ordine regolare di S. Francesco ai Chierici regolari minori di S. Maria in Vepretis di San Ginesio, dai religiosi della Piccola opera della divina Provvidenza di don Orione in Sanseverino ai cappuccini di Renacavata, Colpersito di Sanseverino e Visso, ai frati minori di S. Liberato e S. Pacifico. Profitta di ogni evento, significativo per la vita di comunità e la pastorale, per valorizzare la loro specifica spiritualità. Particolarmente intense sono le relazioni con i cappuccini di Renacavata

e i frati minori sia di San Liberato che di San Pacifico e questi ultimi si prenderanno cura di lui negli estremi anni della sua dolorosa malattia. È assai vicino alle monache degli otto monasteri di clausura e anche al piccolo gruppo di monache domenicane, già camerinesi, residenti nel monastero delle loro consorelle di

Castelbolognese. È sempre pronto ad aiutarle nella loro formazione culturale e spirituale con le profonde catechesi e soprattutto coi commenti volti a far conoscere meglio e a far amare le Sacre Scritture. Ad esse trasmette anche il suo amore per l’ecumenismo, mettendole in comunicazione con suore anglicane e luterane. In modo particolare è vicino alle clarisse di Camerino e Sanseverino per l’amore che nutre per la beata Camilla Battista. Nella presentazione del libro “Camilla Battista da Varano” di p. Umberto Picciafoco, scrive:

«Per un candidato arcivescovo di Camerino si trattava di una la cuna imperdonabile: non conoscevo affatto la beata Camilla Battista da Varano quando fui nominato nell’ormai lontano 1964. Per conto delle nostre buone clarisse del monastero ducale, il compianto padre Boldrini o.f.m. mi inviò a Perugia una copia rilegata della pregevole edizione della autobiografia e degli

Celebra messa a Renacavata in occasione della festadel primo maggio, organizzata dalle Acli

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altri scritti, curata da mons. Gia como Boccanera. Il volume mi accompagnò a Prato, dove mi preparai in ritiro al grande giorno dell’ordinazione episcopale, ospite del mio carissimo condiscepolo mons. Fiordelli, vescovo di quella diocesi, ben noto a tutti per il suo zelo illuminato e santamente spericolato quando si trattava di affermare il bene delle anime e i diritti della S. Chiesa. Conobbi così la Beata, ripercorrendone la strada dalla lacrimet ta del venerdì ai fastigi di una contemplazione che la collocano fra i grandi mistici di ogni tempo. E nella mia piccolezza, resa più eviden te dal mistero di grazia che mi chiamava all’episcopato, le tesi la mano perché mi guidasse dalla mia Perugia alla sua ed ora anche mia Camerino. (...) Voglia la nostra grande Beata aiutarci a comprendere il segreto della sua vita consacrata all’Amore» 124.

E ancora nella prefazione del libro “Camilla Battista da Varano e il suo tempo”:

«Una delle più forti consolazioni all’annuncio della mia nomina alla sede arcivescovile di Camerino mi venne dalla lettura delle “Opere spirituali” della beata Camilla Batti sta. La francescana di casa Varano mi rivelò che i cristiani di Camerino posseggono profonde radici spirituali. Schietta e umile ella si pone in ogni pagina con indicibile e filiale ar dire di fronte al “suo” Signore. Al solito bagaglio a cui ci hanno abituato le biografie di tanti santi religiosi, tappezza ti di aspetti negativi che girano sempre attorno e dentro l’odio del mondo, la Beata dei camerinesi aggiunge il rap porto straordinario, vissuto minuto per minuto, con totale dedicazione, con la presenza divina: “Stando un dì in oratio ne, et avendo sentito chiaramente, che esso (Cristo) era en trato nell’anima mia”... E dopo altri rapimenti in Cristo cro cifisso “rimase nell’anima mia un fuoco tanto grande, che ho ardire di dire con somma verità che l’anima mia fu cosi veramente affiammata et arsa da questo ardente, immate riale fuoco, come nel material fuoco s’affiara et abbrucia la cosa materiale, e tal fuoco, se ben ricordo, mi durò più di tre mesi”. Fu la Beata a rendermi familiare la gente e la spirituali tà camerinese, tutto così simile, a volte uguale, alla gente e alla spiritualità della mia Umbria. Al di qua, come al di là degli Appennini S. Francesco di Assisi continua a fare scuola, a segnare aspetti intimi di vi ta, elevazioni ineguagliabili dello spirito» 125.

In un incontro delle suore della diocesi per la giornata della vita religiosa, tenutasi nel monastero delle clarisse di Camerino, all’omelia della messa mons. Frattegiani tratteggia le caratteristiche della spiritualità della beata Battista. In sintesi: profonda devozione all’umanità sofferente e amante del Cristo e l’amore derivante per le creature tanto amate da Dio. Lo spunto dell’omelia: 1. “Io ti amo, Camilla! Che bisogno avevi delli fatti miei, dolce

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Gesù, che con tanta insistenza mi cercavi e volevi?”. 2. “Tutto l’amore della Madonna e dei santi non basterebbe a ringraziare Iddio per il dono del più piccolo fiore” 126.

Ancora così scrive sulla Beata:

«L’arcivescovo si confessa: sto leggendo, meglio, sto rileggendo dopo diversi anni (prima lettura integrale a Roma nei giorni del Concilio) le “Opere spirituali” della nostra grande beata Battista Camilla da Varano. Detto tra parentesi: mi piace chiamarla così con tutti i due nomi, tanto più che non soltanto la monaca (Battista) ma anche la principessa (Camilla) – il termine non è preciso ma vuol segnalare genericamente la posizione della figlia del… regnante – che ha qualcosa di profondo, vivo e vitale da insegnarci in ordine a un autentico cammino di fede. Non si può certo dire che si tratti di un’anima scordata, anche perché le sue figlie carissime si premurano ogni anno di chiamarci a venerare le sue spoglie mortali (festa il 2 giugno) in una serena cornice di festa. Ma quanti di noi rispondono? So che è stato celebrato solennemente un centenario (il quinto della nascita, 1558-1958) ed è un’autentica grazia che a ricordo concreto delle celebrazioni sia rimasta quanto più disponibile la bella edizione delle “Opere spirituali”, curata dal can. prof. Giacomo Boccanera. Quanti, non dico fedeli, ma almeno sacerdoti, si fanno premura di leggere e meditare gli scritti, preziosi oltre tutto anche dal punto di vista letterario? Gli anni che vengono segnano cinque secoli della resa di Camilla alla chiamata di Dio (e ce ne volle), del suo ingresso nel monastero di Urbino (1581) e del ritorno a Camerino nel monastero di S. Chiara (1584). Si lasceranno passare inosservati?» 127.

Per questo motivo sono frequenti le sue visite al monastero di Camerino, dove passa molto tempo per pregare davanti all’urna della Beata e per illustrare alle monache la spiritualità della loro consorella del XV secolo.

Santa Camilla Battista Varano

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È molto presente anche nel monastero delle clarisse di Sanseverino, alle quali affiderà sua madre negli ultimi anni della vita di lei. Costante e premuroso è il suo interessamento per le monache carmelitane di Santa Caterina: incoraggia il cappuccino padre Onorio e l’ingegnere Liberti durante la progettazione e la costruzione del nuovo monastero “Santa Maria del Carmelo”. Chiede e ottiene grande partecipazione di clero e fedeli alla devota processione di trasferimento delle monache dal vecchio monastero di via Viviano Venanzi al nuovo e conclude l’evento con una solenne celebrazione liturgica. L’organo della chiesa di Santa Caterina, destinata ad accogliere l’archivio di Stato, viene trasferito alla chiesa del nuovo seminario, mentre l’antico coro, commissionato dalle domenicane, passa al comune di Camerino per accogliere le sedute dell’assise consiliare. Infine segue con frequenti visite i 18 istituti di suore presenti in diocesi: guida esercizi spirituali, detta meditazioni e istruzioni, presiede celebrazioni, segue con attenzione il lavoro apostolico delle religiose negli ospedali, nelle case per anziani, nelle scuole materne, nei convitti per ragazze, incoraggiando il loro quotidiano lavoro, rispettando la spiritualità particolare di ogni ordine e non ingerendosi nell’organizzazione interna. È vicino in modo particolare all’opera delle religiose secolari dell’Istituto teresiano di Camerino per il loro impegno tra le universitarie e alle suore dell’Istituto Bambin Gesù di Sanseverino per il loro compito di insegnanti, con corsi di teologia dommatica e morale e corsi di esegesi biblica. Sulle comunità settempedane così scrive l’arcivescovo ne L’Appennino camerte del 9 marzo 1968:

«Già lo scorso agosto l’Istituto del Bambin Gesù, tanto benemerito della diocesi e della città di Sanseverino, assecondando un desiderio dell’amministratore apostolico, decideva di abolire le superate distinzioni tra sorelle converse e sorelle coriste e intraprendeva uno studio accurato della regola. Nello stesso tempo adottava misure di intelligente elasticità nei confronti delle convittrici (tolto ad esempio l’obbligo tutto anacronistico della messa quotidiana) e apriva il convitto all’atmosfera conciliare con la costituzione di un bel gruppo biblico. Il giorno 5 marzo l’amministratore apostolico celebrava la s. messa nel monastero di S. Chiara di Sanseverino e annunciava alle buone claustrali che la S. Sede aveva acconsentito alla loro domanda di passaggio delle converse al rango di coriste. Così dal colle di Sanseverino religiose di vita attiva e religiose claustrali segnano lodevolmente il passaggio ad una riforma che non può non portare i suoi frutti. Perpetua e Felicita, diceva scherzando mons. Frattegiani alludendo a converse e coriste, si sono finalmente ritrovate

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sorelle: due condizioni e un solo… martirio. Ma per amore» 128.

•L’arcivescovoelemonachedomenicanediCastelbolognese

Quando mons. Frattegiani fa ingresso nella diocesi, invia la sua foto con la scritta:

“Alle buone monache domenicane camerinesi di Castelbolognese, unendo la mia nostalgia di Perugia alla loro per Camerino perché il Signore la rivolga per il bene spirituale della amata diocesi. Paternamente benedico».

Nel primo anno del suo episcopato, per gli auguri pasquali rivolti al popolo diocesano, scrive su L’Appennino camerte questa espressione:

«Auguri anche ai religiosi e alle religiose, in particolare ai nove monasteri di clausura. Diciamo nove, pensando con simpatia alla piccola colonia domenicana di Castelbolognese che tanta nostalgia nutre per Camerino» 129.

Il ricordo delle monache domenicane di Castelbolognese:

«È un bisogno impellente mettere in rilievo alcuni tratti ed episodi che nei 25 anni alla guida della diocesi non dimenticò noi domenicane camerinesi lontane..., ma per la sua profondissima umanità fu un vero padre per il piccolo gregge. Mons. arcivescovo ebbe il delicato pensiero di inviarci volta per volta ogni libro da lui scritto: è doveroso quindi rievocare nel ricordo riconoscente, le importanti iniziative prese a nostro riguardo con episodi che hanno sapore umoristico. Per noi povere monache così lontane dalla amata diocesi essere state ricordate dal nuovo arcivescovo… sentivamo il nostro animo ripieno di gioia sollevato da un peso... potevamo dire: sono cadute le mura di Gerico! In seguito mons. Frattegiani volle onorarci con una sua breve visita molto speciale e serena. Avvenne proprio in un pomeriggio del mese di novembre 1966, proveniva da Bologna in quanto si era recato per un’intervista radiofonica (Radio Vaticana). Egli si presentò alla grata del parlatorio quale sacerdote di Camerino, chiedendo di parlare con le domenicane camerinesi. Informata la priora, insieme a me che scrivo, ci presentammo alla doppia grata chiedendo cosa desiderasse. Nessuna risposta. Soltanto guardava in alto. Alla stessa domanda lo stesso atteggiamento. Quasi un po’ intimidite, pensavamo, non sarà forse un farabutto travestito, in quanto nei monasteri capitano persone un po’ misteriose. Ad un tratto, dopo essersi divertito, vedendo i nostri volti poco sereni e imbarazzati, volle metter fine all’equivoco, rivolto a me camerinese: lei si chiama suor

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Maria... finendo il mio nome; confermai e chiesi: “Per favore il suo nome”. Il medesimo atteggiamento. Dopo qualche minuto disse: “Io sono il segretario dell’arcivescovo di Camerino” senza dire altro. Subito dopo, rivolto a me disse: “Non mi riconosce? – avvicinandosi alla grata – mi guardi bene, non mi riconosce?”. In quel momento mi raffigurai il volto del nuovo arcivescovo rappresentato dalla foto inviataci a suo tempo. Intimidita, quasi sillabando dissi, mi sembra un po’ il volto di Sua Eccellenza, senza che terminassi il nome: “Mi ha scoperto, mi ha scoperto! Non ho fatto bugie, perché come vescovo ho tutti i segreti qua dentro”, con un gesto mise la mano sul petto per confermare. Chi poteva immaginare una tale presenza? S’era tolto perfino l’anello pastorale e il cordone attorno al cappello, quindi senza insegne. La priora con un suono di campanello chiamò anzitutto le altre consorelle camerinesi e tutta la comunità si trovò riunita davanti alla grata. Fu una vera esplosione di gioia per tutti. Dopo trascorso alcun tempo, partì alla volta di Camerino» 130.

i Laici

•AzioneCattolica-Fuci-Scout

Mons. arcivescovo indice la “tre giorni” diocesana tradizionale per il clero nei mesi estivi su “L’Azione cattolica”. La “tre giorni”

si svolge nei giorni 6,7 e 8 agosto 1968 nel palazzo arcivescovile. Come maestro chiama mons. Agostino Ferrari Toniolo, ausiliare del vescovo di Perugia e già assistente nazionale della F.U.C.I. Come suo solito, annuncia più volte e per tempo l’iniziativa sul Bollettino della diocesi e L’Appennino camerte e infine il 20 luglio rinnova l’invito raccomandando una più larga partecipazione, specialmente del clero delle due diocesi e assicura con la solita bonomia:

«Nessuna preghiera stavolta per i fratelli assenti colpevoli; proprio non se lo meritano» 131.

Poi per la prima volta allarga l’invito ai soci dell’Azione cattolica e anche ai laici a vario titolo impegnati nella pastorale parrocchiale. Nell’invito dice che ogni giornata ha un tema che si annuncia il mattino e conclude la sera; e pertanto è necessaria la presenza nell’intera giornata fino alla gioia della concelebrazione finale. Veramente risulta un’assemblea multiforme per la numerosa partecipazione di sacerdoti e laici e una “tre giorni” fino allora

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mai così articolata e densa. Magistrali e significative le tre lezioni di mons. Ferrari Toniolo, il quale sa trarre da principi fondamentali soluzioni conciliari modernissime. E fa scoprire gioiosa la vitalità dell’Azione cattolica al di là di ogni crisi e al di fuori di forme superate. La partecipazione dei presenti al confronto e al dibattito, date le difficoltà in cui l’associazione si trova e il desiderio di rinnovamento di cui si è in cerca è numerosa e costante. Mons. arcivescovo segue con interesse il lungo, animato dibattito, ma di fronte anche a tante disquisizioni teoriche, rivolge un benevolo richiamo alla realtà inserendo nel suo discorso finale il noto adagio “Dum Romae consulitur…”. Ricorderà più volte l’intervento di mons. Mosè Malpiedi:

«Oggi – ha detto – è la festa del santo curato d’Ars (4 agosto). La sua azione pastorale cominciava la mattina alle quattro, quando facendosi strada con una lucernetta ad olio, usciva di casa e andava in chiesa a pregare e a mettersi a disposizione dei fedeli. Era questo il suo segreto: vita interiore e dedizione totale. Se tornasse oggi, forse scenderebbe agitando una torcia elettrica. Ma la sua strada sarebbe quella».

La “tre giorni” porta un significativo approfondimento nella coscienza dei partecipanti di essere popolo in cammino sotto la guida dello Spirito nella carità e un’ansia di concreto impegno missionario nella vita e nella attività parrocchiale: l’ansia può svilupparsi solo da una maggiore e approfondita conoscenza della Parola di Dio. Dalla “tre giorni” prende avvio una seria riorganizzazione dell’Azione cattolica diocesana, sollecitata da un magistrale, articolato discorso del prof. Pier Luigi Falaschi sulla reale natura ecclesiale dell’Azione cattolica e su un preciso programma di attività. L’arcivescovo più volte, soprattutto in occasione delle visite pastorali nelle parrocchie, torna ad esortare parroci e laici perché si impegnino in Azione cattolica 132. Parallelamente all’Azione Cattolica è presente nella pastorale universi-taria della città di Camerino la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), che già negli anni quaranta e cinquanta aveva avuto risonanza an-che a livello nazionale con il presidente dott. Osvaldo Massi e l’Assistente ecclesiastico mons. Ferruccio Loreti. Mons. Frattegiani, già presente attivamente tra gli studenti dell’Univer-sità per stranieri di Perugia, segue attentamente la Fuci di Camerino, molto attiva negli organismi studenteschi dell’università cittadina ed anche in am-bito regionale e nazionale. La Fuci camerte partecipa numerosa al convegno universitario di Terracina ed è chiamata ad organizzare il convegno regiona-

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le marchigiano di Ancona e quello interregionale, ancor più importante, di Sassari. Ed è sempre impegnata nelle note “Settimane universitarie naziona-li” di Camaldoli.

Né dimentica nel suo magistero pastorale la benemerita Associazione scout, che anzi incoraggia e apprezza per l’impegno nella formazione umana e cristiana svolta in particolare ai lupetti e alle coccinelle, visitandoli nei vari convegni estivi.

•Casadellagioventù“PapaGiovanni”

Mons. Giuseppe D’Avack per sopperire alle ingenti spese affrontate per la costruzione del nuovo seminario, dopo essersi privato di sue proprietà familiari, aveva venduto l’antico palazzo Giori (ribattezzato “Toniolo” dalle associazioni che l’avevano occupato), per molti decenni sede delle attività dei giovani cattolici di Camerino o dimoranti in città per ragioni di studio (vi aveva avuto sede anche la F.U.C.I., che gestiva anche una mensa per universitari). Per porre rimedio alla alienazione, mons. D’Avack aveva destinato alle associazioni parte dei locali inutilizzati del palazzo arcivescovile. Mons. Frattegiani giudica subito inidonei quei locali e decide di ristrutturare le ex aule del seminario di via Bongiovanni site a piano terra. Lancia allora – come per altre iniziative – una campagna attraverso L’Appennino camerte, raccogliendo un discreto consenso. Ma l’iniziativa va in porto solo per la sede e le attività scout 133, a motivo della resistenza che

Con le “coccinelle” del gruppo scoutdi Camerino a un campeggio

a Valsantangelo di Pieve Torina

A un campeggio scout

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oppongono i parroci della città, intenzionati a trasferire presso le rispettive parrocchie oratori e associazioni.

•MovimentoEmmaus

Nella seconda parte del 1965 mons. Renzo Rossi, assistente della gioventù maschile di Azione cattolica della parrocchia della cattedrale, con un gruppo di giovani, ispirandosi all’attività dell’abbé Pierre, dà inizio a Camerino all’operazione Emmaus: in pratica una raccolta di cartastraccia, stracci, oggetti e mobili scartati dalle famiglie da rivendere per destinarne il ricavato alle necessità delle persone povere e in difficoltà. Mons. Frattegiani segue con interesse e benedice questo generoso impegno di giovani e mette a loro disposizione un locale al piano terra del palazzo arcivescovile. Al “movimento” aderiscono in seguito anche persone adulte e pensionati; il materiale raccolto aumenta sempre di più, tanto che il locale non è più sufficiente a contenerlo e non c’è spazio sufficiente per poterlo lavorare. Allora mons. arcivescovo destina per questa attività alcuni locali lasciati libera dall’ufficio amministrativo diocesano: si tratta di scantinati, che però consentono l’accesso a un’ampia sala, già palestra del seminario diocesano. Sotto la direzione di don Renzo Rossi, con l’impegno di volontari del “movimento”, e soprattutto con il lavoro generoso di Fulvio Sparvoli e Serafino Gentili, in poco tempo questi ambienti vengono resi agibili e adatti sia al contenimento del materiale che al relativo lavoro. Mons. Frattegiani per meglio indirizzare i fedeli della diocesi al dovere della carità verso i bisognosi (argomento costante delle sue lettere pastorali) e sostenere l’entusiasmo dei giovani nel loro impegno, invita colui che le cronache del tempo definiscono “il vagabondo della carità, e l’amico dei lebbrosi”, Raoul Follereau, che giunge a Camerino il 12 marzo 1969. In un teatro “Marchetti” stracolmo, presentato da dott. Luciano Claudi, Raoul Follereau inizia raccontando come venne a conoscenza della lebbra e del problema dei lebbrosi e termina dicendo: “Dite a voi stessi che la più grande disgrazia che vi possa capitare è di non essere utili a nessuno, di vivere una vita che non serve a niente”. Il discorso narrativo, colorito e incisivo appassiona l’uditorio, che commosso ed entusiasta applaude calorosamente e a lungo. Così mons. Frattegiani conclude l’incontro: “Chiedo solo la grazia da parte vostra di poter baciare a vostro nome, per voi, la mano di questo caro amico dei lebbrosi”. Quando poi il discorso di Raoul Follereau viene pubblicato, ecco il commento di mons. Frattegiani:

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«Siamo grati ai giovani del “movimento Emmaus” che hanno dato a Camerino l’ambitissimo onore e la gioia di ospitare Raoul Follereau. È stata una voce profetica che ci ha richiamati rudemente alla realtà della nostra vocazione cristiana; ci ha infatti ricordato che sarebbe illusione - se non addirittura tradimento - pretendere di elevarsi a Dio senza passare per la via crucis del prossimo povero e sofferente. Solo partecipando con amore operoso alle sofferenze del prossimo, alle sue angosce e ai suoi problemi, noi siamo in grado di compiere quanto da parte nostra manca alla passione del Signore e quindi alla salvezza del mondo. Che la parola di Dio così efficacemente tradotta dalla parola e dalla vita di Follereau, continui a ispirare l’opera dei nostri cari giovani e di tutti coloro che tra noi non possono non sentirsi e non dirsi cristiani». A Follereau, nella circostanza, furono consegnate, raccolte precedentemente dai fedeli della diocesi, 2.100.000 lire per il lebbrosario di Grajau e da parte sua l’operazione Emmaus aggiunse lire 901.800 134.

•L’Unitalsi

Mons. arcivescovo segue con molto interesse l’Unitalsi diocesana, e in più occasioni raggiunge Lourdes e Loreto col treno malati. Per designazione dell’Unitalsi regionale è chiamato anche a presiedere il pellegrinaggio regionale: “Il cuore dei camerinesi - afferma mons. Luigi Paoletti, allora assistente diocesano - deve gioire nel sapere che il padre delle nostre anime accompagnerà i figli all’incontro con la Madre nella terra da lei prediletta”. I suoi interventi “I segni di Lourdes” sono pubblicati dalla presidenza nazionale. Ecco un intervento pronunciato prima del pellegrinaggio del 20-26 agosto del 1968:

Al teatro “F. Marchetti” in un incontro della cittadinanza con Raoul Follerau.

In piedi il prof. Luciano Claudi

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«Cari pellegrini, l’anno scorso vi dissi che il nostro pellegrinaggio era un segno, azione sacramentale della Chiesa incamminata verso la casa del Padre. La differenza tra le due parole (segno e sacramento) non è trascurabile: in pratica il nostro pellegrinaggio è un sacramento in quanto non è un segno qualunque, ma un segno che realizza in qualche modo quello che vuole significare. Difatti ogni comunità cristiana guidata dal suo vescovo con la collaborazione dei fratelli sacerdoti, soprattutto se per mezzo della Vergine santissima si incentra sull’eucarestia, attua e incarna la realtà umana e divina della Chiesa. Noi quindi non rappresentiamo la Chiesa, ma siamo Chiesa pellegrinante. Gesù-eucarestia al centro del nostro convoglio, circondato dalla nostra povera fede e dal nostro povero amore è l’autentico Mosè che ci guida per le asperità del deserto (i nostri cari malati ne sottolineano il valore di croce). Lourdes sarà come un’oasi meravigliosa dove la carovana sosta per riprendere lena. Con Gesù e con Maria ci rimetteremo in cammino e impareremo a sentire e a provare al mondo che noi non siamo soli. Così sia con noi la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (2 Cor 13,13). Oggi e sempre. Amen» 135.

•Acli,SanVincenzode’Paoli,Cif,Avulssemovimentiecclesiali

Mons. Arcivescovo segue con grande interesse e partecipa vivacemente ai vari incontri dell’associazione Acli in modo particolare nel momento di crisi degli anni ‘70 dell’associazione nella confermata sede nel palazzo Toniolo. Come sempre incoraggia ed aiuta anche personalmente con propri contributi la benemerita associazione “San Vincenzo de’ Paoli”. Sollecita la nascita a Camerino del C.I.F. (Centro italiano femminile), invitando l’insegnante Lucia Riccioni Romaldi ad impegnarsi per costituirla e successivamente quella dell’Avulss, mettendo a disposizione delle due associazioni la sede al piano terra del palazzo arcivescovile. Contemporaneamente si mostra non solo disponibile, ma sinceramente favorevole ai vari movimenti ecclesiali che così iniziano a vivere e operare in diocesi. Favorisce in particolare il movimento dei focolarini di Chiara Lubich, quello dell’Oasi di padre Virginio Rotondi, Comunione e liberazione di mons. Luigi Giussani, i Cursillos di cristianità di Eduardo Bonin, i catecumenali di Kiko Arguello, il Rinnovamento nello spirito di Ralph Mastin e il Movimento giovanile dei francescani (Cifra). Questi gruppi, i cui aderenti spesso provengono dall’Azione cattolica, arricchiscono con la loro presenza la vita parrocchiale, inserendosi nei consigli pastorali e nelle attività di apostolato. Gli aderenti a Comunione e liberazione operano

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con molta efficacia a livello universitario, facendo sentire la voce di una presenza cristiana. Negli incontri con i vari movimenti mons. Frattegiani ripete spesso: «Amate gli altri movimenti come il vostro». Nel rinnovamento dei locali della curia arcivescovile mons. Frattegiani destina ai vari movimenti una degna sede.

•Iniziativeperigiovani

Mons. arcivescovo ripropone a Camerino un’iniziativa già da lui sperimentata a Perugia: vara settimane di formazione per la gioventù che, iterate negli anni, hanno molto successo e risonanza in città e in diocesi. I temi sono suggestivi: il primo “Di fronte al domani, alla vita, all’amore”. Introduce l’arcivescovo con la proposta: “A centocinquanta metri stop” e termina con la messa in cattedrale con “A Bethfage semaforo verde”. Come maestri sono chiamati grandi oratori. L’intervento di p. Virginio Rotondi è ascoltato e applaudito da oltre trecento ragazzi, che il grande salone dell’episcopio non riesce a contenere: molti sostano nell’ampio corridoio adiacente e nelle scale dell’episcopio. Altro intervento dell’arcivescovo

Con il gruppo camerinese di Comunione e liberazione

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molto seguito e approfondito è quello su “Libero amore o amore libero?”. Altre iniziative per la gioventù sono i corsi di cultura mensili tenuti dai professori della Università pontificia Gregoriana: p. Grasso, p. Magnani, p. Gentiloni... Mons. arcivescovo incoraggia i laici allo studio della teologia.

«Saluto con gioia l’iniziativa di un corso di teologia per laici (naturalmente non vietato… ai sacerdoti). Il pericolo più grave per la vita e la pratica religiosa di molti cristiani di oggi non è il moltiplicarsi di voci discordi e anche avverse alla fede (non per nulla la pur feconda stagione di santi fu il periodo delle persecuzioni dei primi tre secoli). Il pericolo più grave è il vuoto di solida cultura religiosa e, in conseguenza, la mancanza o la penuria di evangelizzatori e catechisti. L’ambizione unica della scuola di teologia è proprio quella di formare catechisti capaci e anche diplomati. Il Signore benedica l’iniziativa come io umilmente nel suo nome la benedico» 136.

Scuole di teologia per laici sono istituite, oltre che a Camerino, in altre vicarie. Sempre con più forza l’arcivescovo chiede un’ampia partecipazione attiva dei laici alla vita della Chiesa locale fino a farne un impegno preciso della sua attività pastorale. Così infatti scrive nel programma di attività per il quinquennio 1976-1980:

«L’arcivescovo ai confratelli. Il titolo, tutto proteso al futuro, suppone evidentemente una clausola che non dovrebbe essere la consueta formula prammatica, ma una chiara professione di fede: “a Dio piacendo”. Tutto infatti è legato alla mia vita, per la quale mi guarderei bene dal tracciare bilanci preventivi; se io cadessi – consentitemi il verbo militare per chi muore combattendo – è chiaro che tutto ricomincia da capo: hesterni sumus, come dice Giobbe 8,9; la Chiesa di Camerino invece – abbiamo ormai buoni motivi di crederlo – continua il suo combattimento per l’Evangelo fino al ritorno del Signore. Il quinquennio che abbiamo dinanzi suggerisce subito una meta da mettere, o meglio da rimettere, in programma già solo per il fatto che questa mia lettera non ha avuto il coraggio di rivolgersi anche ai laici. La meta è questa: che come siamo riusciti in maniera abbastanza soddisfacente per la “tre giorni” d’estate degli ultimi quattro anni, i nostri laici siano inseriti in maniera più vitale nel contesto della nostra Chiesa, che è anche la loro Chiesa. Dai consigli parrocchiali, ai consigli vicariali e zonali, al consiglio pastorale diocesano, i laici hanno il diritto di dire la loro parola e portare il loro contributo; meglio di noi potranno, oltretutto, aiutare il popolo di Dio a comprendere le difficoltà in cui ogni giorno in più verremo a trovarci dal punto di vista pastorale; il fatto che, nonostante queste

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difficoltà, non ci siamo astenuti dall’inviare manodopera sacerdotale (mi si passi la parola) là dove più si manifestava il bisogno (uffici e parrocchie di Roma, servizio pastorale nell’esercito; paesi del Terzo mondo) non può non essere d’aiuto – quando sia compreso dai laici – ad approfondire e prendere vivamente a cuore il problema delle vocazioni in dimensione cattolica e missionaria» 137.

•Conidiocesanilontani

Un’iniziativa portata avanti in passato da mons. D’Avack e da mons. Loreti viene poi assunta da mons. Frattegiani: gli incontri annuali con i cosiddetti diocesani lontani di Roma e Milano. Con mons. Frattegiani questi incontri sono estesi ai diocesani dimoranti nelle città vicine ai due centri maggiori. In questi incontri si rafforzano i vincoli, si trasmettono informazioni sulle realtà diocesane, si affrontano problemi pastorali, si elaborano iniziative per coloro che rientreranno in diocesi durante i mesi estivi. Il tutto si conclude con una solenne liturgia con larga partecipazione al sacramento della penitenza. In questi incontri matura l’esigenza di organizzare momenti di incontri di preghiere e di celebrare feste patronali fruttuose per i fedeli. A poco, a poco si uniscono al vescovo i sindaci e i rappresentanti delle più significative istituzioni, e in primo luogo il rettore dell’Università di Camerino. Da questi appuntamenti scaturisce la necessità di una migliore organizzazione d’un incontro annuale anche a Camerino, dove verranno affrontati i vari problemi della città.

•ConifiuminatesidelLussemburgo

L’incontro, voluto e organizzato dai parroci di Fiuminata, si svolge il 7-8 maggio 1977. L’arcivescovo, dopo un lungo viaggio in macchina e una sosta in Svizzera per incontrare il sacerdote don Elvio Sforza lì impegnato per la cura di emigranti italiani, giunge alla sera a Differdange, accolto calorosamente avanti la chiesa parrocchiale, dove appena si è conclusa la messa vespertina. Una bambina, dopo un breve discorso di benvenuto di un emigrante, offre all’arcivescovo un bel mazzo di rose. Questi, entrato in chiesa, lo depone davanti all’immagine della Madonna e rivolge un saluto in lingua tedesca. Il parroco lo raggiunge per avvertirlo che a Differdange si parla francese. Senza scomporsi si scusa e prosegue in lingua francese e così riceve un lungo caloroso applauso di simpatia. Il mattino seguente l’arcivescovo celebra la solenne messa nella grande chiesa, gremita di oltre

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duecento fiuminatesi, di emigranti di altre nazioni e di cattolici di Differdange. Al termine giunge anche l’arcivescovo del Granducato di Lussemburgo, che si congratula e ringrazia il presule camerte per l’amore che porta ai diocesani lontani. Nel pranzo sociale che segue l’arcivescovo, come suo solito, fraternizza con tutti e si unisce a loro cantando canzoni italiane, con grande entusiasmo e soddisfazione dei presenti. Al termine un emigrante di Castello di Fiuminata si avvicina al parroco don Egidio De Luca dicendosi meravigliato di come un vescovo così umano e simpatico approfitti dello Stato italiano riscuotendo congrue per parrocchie inesistenti. E gli mostra il settimanale “Vie nuove” del partito comunista

italiano, che il mattino è stato distribuito alle famiglie italiane. Don Egidio legge l’articolo e tra le parrocchie “inesistenti” scorge inserita anche quella di S. Cassiano di Fiuminata. L’emigrante rimane interdetto: conosce molto bene quella realtà e il lavoro pastorale che vi svolge don Luigi Bernabei, presente all’incontro insieme a don Egidio De Luca, don Rodolfo Antolini, don Mario Cardona e il Vicario generale della diocesi. La notizia delle falsità scritte sul settimanale “Vie nuove” si diffonde rapidamente e in coro i presenti si rivolgono all’arcivescovo per manifestare la loro solidarietà. Al ritorno a Camerino giunge all’arcivescovo la seguente lettera:

«Vengo a nome di tutti i fiuminatesi emigrati a Differdange, per ringraziarvi tanto della vostra gentile visita che è servita come una grande aratura in un campo molto lontano pieno di erbacce, dimenticato da tutti da oltre 70 anni. La vostra cordialità, la vostra parola, il vostro strapazzo di un così lungo viaggio servirà come seme per questo campo ripulito. La vostra presenza in mezzo a noi poveri emigranti ha riacceso una fiaccola di speranza in noi tutti. Mario Pesoni» 138.

In Lussemburgocon Mario Pesoni,

originario di Fiuminata

A pranzo con i fiuminatesi di Lussemburgo

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La Chiesa locale come istituzionepriMa visiTa pasToraLe

Negli anni 1965-1968 mons. Frattegiani compie la prima visita pastorale a tutte le 174 parrocchie dell’arcidiocesi, senza attenersi

a un calendario preordinato, ma seguendo richieste e opportunità. Di ogni visita, oltre ai regolari verbali redatti dai convisitatori, è lo stesso arcivescovo a esporre puntualmente su L’Appennino camerte lo svolgimento, le impressioni e le conclusioni. Così racconta la visita di alcune piccole parrocchie dell’allora vicaria di Casavecchia, dove vicino alla chiesa della minuscola frazione di Pomarolo vive soltanto una vecchietta. L’arcivescovo le chiede perché non va a vivere con i familiari, dato che è pericoloso vivere sola, lontana da tutti. «Non hai paura?». La signora anziana lo guarda sorridendo e risponde: «Ma io sotto il letto ho lo schioppo!». Annota l’arcivescovo nella sua relazione: “Pomarolo, donna con schioppo”. Le visite sono molto accurate e tali da consentire al presule una conoscenza perfetta dell’arcidiocesi. I fedeli esultano per l’amabilità del pastore. Eppure non mancano benevoli richiami ai vicari foranei che hanno fatto mancare l’aiuto ai confratelli in occasione delle visite pastorali:

«Alcuni casi di preparazione insufficiente (non escluso il doveroso rispetto esteriore di freschezza e di nitore, che ricordi almeno la cura che le nostre massaie mettono per la preparazione della benedizione pasquale e che dà il senso gioioso e sacramentale della “sancta novitas”) hanno dato all’arcivescovo la netta sensazione dell’assenza morale del vicario foraneo».

Nel febbraio del 1969 conclude la visita di tutte le parrocchie 139. Una testimonianza dal resoconto de L’Appennino camerte sulle piccole parrocchie di Statte, Pozzuolo e Letegge.

«Quando mons. arcivescovo giungeva nella frazione di Statte, una piccola folla guidata da don Albino Cardarelli lo accompagnava nella chiesa parrocchiale di S. Stefano. Tutti i fedeli partecipavano alla messa e ascoltavano la parola dell’arcivescovo, che metteva in rilievo la dignità regale del cristiano e l’importanza della messa domenicale: decidere sull’urgenza del lavoro in giorno di festa in alcuni periodi dell’anno non spetta tanto al sacerdote, quanto alla coscienza responsabile di ogni singolo fedele. Del resto aggiungeva l’arcivescovo: “Chi non desidererebbe riposarsi la domenica? Ma per quanto riguarda la santa messa il cristiano

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deve considerarla al di sopra e prima di ogni altra preoccupazione perché dà il tono soprannaturale a una settimana di attività; altrimenti sarebbe come rubare a Dio, a sé stessi, a tutta la famiglia umana, quanto di più prezioso l’uomo può avere per esercitare la fede e la carità”. Al termine l’arcivescovo lodava l’appropriatezza con cui erano eseguiti i canti, soprattutto per il saggio alternarsi alle voci tra la piccola schola e l’assemblea. Quindi guidava la processione al cimitero affrontando... il proverbiale vento di Statte che si era messo a soffiare con violenza. Erano ad attenderlo i fedeli delle altre due parrocchie che avevano gradito moltissimo il delicato pensiero. Al ricordo dei caduti trucidati a Capolapiaggia si è levata la preghiera per la pace e la lettura del Vangelo ha ravvivato la fede in Cristo resurrezione e vita di ogni cristiano. Si proseguiva poi a piedi per Pozzuolo, ammirando dall’alto la valle e il santuario di Pielapiaggia. Al suono festoso delle campane la popolazione e soprattutto i bambini si stringevano attorno all’arcivescovo e mentre egli rinnovava l’esortazione alla santificazione della festa tutti i fedeli si accostavano alla s. comunione. A mezzogiorno l’arcivescovo entrava nella chiesa di Letegge gremita di tutta la popolazione che si era preparata a questo incontro come a una di quelle circostanze destinate ad essere ricordate a lungo. Fin dalla sera precedente i fedeli si erano raccolti insieme e avevano pregato per il vescovo. Quando al momento della comunione si sono visti vuotare i banchi e accostarsi tutti all’altare si è potuto osservare come la gente aveva inteso questa visita; la gioia che traspariva dagli occhi di tutti faceva capire che mons. Frattegiani non comunicava soltanto la carica di una grande simpatia umana, ma donava qualcosa di soprannaturale che solo il vescovo può portare. L’arcivescovo si è accorto di ciò e ha mostrato la sua soddisfazione per l’atmosfera di festa data a questo incontro: si è compiaciuto per la devozione attenta con cui i fedeli hanno accompagnato la liturgia e ha osservato come tutti (compresi gli uomini) hanno dialogato e cantato e si sono accostati nella totalità alla comunione. Al termine della messa si sono raccolti intorno a mons. arcivescovo, oltre al parroco don Albino Cardarelli, don Natale Cucculelli, don Ludovico Ludovichetti e p. Gregorio guardiano del convento di Renacavata che spesso si prestavano aiuto reciproco nell’attività pastorale della zona. Con piacere si è visto mons. Marucci affiancare così don Ivo Gentili nell’ufficio di convisitatore. Simpatici e vivaci sono stati gli interventi dei bambini nell’incontro pomeridiano con il vescovo, mentre la popolazione si stringeva ancora attorno a lui per ricevere la benedizione e per salutarlo. Mons. arcivescovo si confondeva tra la gente e lasciava negli occhi di tutti il ricordo di un incontro gioioso» 140. Con don Albino Cardarelli

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L’isTiTuzione deL consiGLio presbiTeraLe

Durante la visita pastorale mons. Frattegiani sente la necessità di un piano di riforme per la struttura della diocesi e come aveva

scritto nella lettera “Ecce venio”, stabilisce di realizzarlo con l’apporto di sacerdoti e laici. Già nella prima settimana di studio sulle costituzioni e decreti del Concilio a Rocca di Papa, chiede ai partecipanti di studiare la composizione di un consiglio presbiterale diocesano e di eleggere uno di loro come componente del consiglio venturo. Così nel 1966 viene eletto ad experimentum il consiglio presbiterale secondo quanto stabilito dalla “Ecclesiae sanctae” in applicazione dei decreti “Christus Dominus” e “Presbiterorum ordinis”. Il consiglio è composto da cinque membri di diritto e undici eletti dai sacerdoti, più l’eletto dai partecipanti di Rocca di Papa. E nel 1968 dopo due anni di studio viene insediato il definitivo consiglio presbiterale diocesano 141.

aMMinisTraTore aposToLico di sanseverino MarcHe

Con decreto concistoriale del 7 gennaio 1967 mons. Frattegiani viene nominato amministratore apostolico della diocesi di Sanseverino

Marche, resa vacante per la rinuncia del vescovo mons. Ferdinando Longinotti. Egli proprio in quei giorni è in partenza per un pellegrinaggio in la Terra Santa. Scrive allora una lettera in cui considera unitariamente i sacerdoti e i fedeli delle due diocesi a lui affidate, rivelando il suo modo paterno di governo, così ricco di considerazione e d’amore per tutti i figli, sacerdoti e fedeli.

La piazza del Popolo a Sanseverino Marche

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«Ai fratelli sacerdoti e ai fedeli tutti di Camerino e Sanseverino Marche, in questa vigilia della mia partenza per la Terra Santa, in cui per venerato incarico del S. Padre assumo l’amministrazione apostolica di Sanseverino. Presentando al rev.mo capitolo di quella chiesa cattedrale il decreto concistoriale non mi è parso giusto dividervi nel saluto, dal momento che il Signore vi ha congiunti nel mio cuore. Mi piace riferirvi quello che ho scritto ieri all’em.za cardinale Confalonieri, prefetto della sacra congregazione concistoriale, appena ricevuta la notizia ufficiale. Espressa la mia accettazione, proseguivo confidenzialmente: “Mi consenta di dirle una cosa curiosa e a me tanto gradita. Il 14 gennaio si celebra a Camerino la festa della Vergine Santissima sotto il titolo di S. Maria in Via, festa assai solenne, ma che ovviamente non conoscevo, fino a tre anni fa. Ebbene la designazione a Camerino mi fu portata dal mio arcivescovo la mattina del 14 gennaio 1964 nell’ora che a Camerino si teneva il solenne pontificale. Ricordo che aprendo la Bibbia trovai le parole del salmo: Affida al Signore la tua via e spera in Lui e Lui farà... La lettera di Vostra Eminenza è partita da Roma il 14 gennaio. Decisamente S. Maria in via è... sulla mia strada. Ho quindi scherzato su certi pronostici che si dicevano nella scorsa settimana di mie probabili promozioni e quindi ho concluso: ora mi pare che la Madonna mi dice di stare saldo a Camerino, di lavorare di più (perché non siamo più soli). Ringrazio il Signore e ringrazio il Santo Padre, pregando V.E. di rendersi interprete dei miei sentimenti di devozione. Dopo domani porterò in Terra Santa le due diocesi racchiuse nel mio cuore e sigillate nel nome di S. Maria in Via”. Credo di non dover aggiungere molto a questa citazione. In osculo sancto saluto i nuovi fratelli e figli nel Signore, anche a nome dei camerinesi tutti. Credo che non ci sarà molto difficile volerci veramente bene e lavorare in armonia per il bene di ambedue le Chiese pellegrine insieme da secoli verso la casa del Padre, saldate come sono nel vincolo dell’unica fede e all’unico Signore Gesù, comunicanti nell’amore per il comune dono dello Spirito Santo vegliate dallo sguardo materno di Maria. Al venerato mons. Ferdinando Longinotti con la testimonianza affettuosa dell’attaccamento perenne dei suoi figli sanseverinati e con la considerazione riverente e devota del clero camerte, desidero che giunga l’assicurazione del mio impegno, nutrito di filiale devozione e amore a seguirne in umiltà e fiducia le tracce di un cammino luminoso di apostolo, di padre e di pastore. Camerinesi e sanseverinati, a Nazareth, a Betlemme, a Gerusalemme vi sentirò particolarmente vicini a chiedere la grazia di una particolare benedizione sul nostro comune cammino. Arrivederci a presto se il Signore vorrà. Intanto nel suo nome santo vi saluto» 142.

Le diocesi di Camerino e Sanseverino, già unite fino al 1586, apprendono con esultanza la notizia che premia lo zelo pastorale di mons. Frattegiani e la fede cristiana di Sanseverino.

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isTiTuzione deL consiGLio pasToraLe e nuovi vicariaTi

Nel 1969 viene costituito il consiglio pastorale diocesano che presto, al pari di quello presbiterale, diverrà interdiocesano. L’intelligenza

e la sensibilità di mons. Frattegiani rendono possibile e proficuo che fin dal primo momento della sua amministrazione apostolica di Sanseverino le due diocesi svolgano in sintonia il lavoro pastorale. I consiglieri saranno eletti in seguito tra i membri dei vari consigli vicariali e pastorali. La diminuzione impressionante della popolazione, soprattutto nella zona montana, induce a ridurre il numero dei vicariati della diocesi di Camerino da 19 a 12. Dopo aver sentito il consiglio presbiterale, l’arcivescovo sopprime i vicariati di Rocchetta, Murazzano, Casavecchia, S. Maroto, Serrapetrona, Pievefavera, Esanatoglia. Rimangono i seguenti vicariati: 1. urbano (le parrocchie del comune di Camerino); 2. di Serrasanquirico (le parrocchie dei comuni di Serrasanquirico, Mergo, Genga, Sassoferrato, Arcevia); 3. di Apiro (le parrocchie dei comuni di Apiro e Cingoli); 4. di Castelraimondo (le parrocchie dei comuni di Castelraimondo, Esanatoglia, Gagliole); 5. di Pioraco (le parrocchie dei comuni di Pioraco, Fiuminata, Sefro); 6. di Serravalle di Chienti (le parrocchie dei comuni di Serravalle di Chienti, Muccia); 7. di Fiastra (le parrocchie dei comuni di Fiastra, Acquacanina, Bolognola); 8. di Pieve Torina (le parrocchie dei comuni di Pieve Torina, Montecavallo); 9. di Pievebovigliana (le parrocchie dei comuni di Pievebovigliana, Fiordimonte); 10. di Caldarola (le parrocchie dei comuni di Caldarola, Serrapetrona, Camporotondo, Cessapalombo, Belforte); 11. di Sanginesio (le parrocchie dei comuni di Sanginesio, Ripe Sanginesio, Gualdo); 12. di Sarnano (le parrocchie del comune di Sarnano). Contemporaneamente le vicarie sono raggruppate in cinque zone pastorali: 1. zona urbana (vicariato urbano); 2. zona sud-ovest (vicarie di Serravalle di Chienti, Pieve Torina, Pievebovigliana, Fiastra); 3. zona sud-est (vicarie di Sanginesio, Sarnano, Caldarola); 4. zona nord (vicarie di Apiro, Serrasanquirico); 5. zona centro (vicarie di Castelraimondo, Pioraco) . A seguito di questa riforma strutturale il vescovo istituisce “i mercoledì di formazione sacerdotale” secondo un preciso calendario per le varie zone. Maestro è il prof. Tommaso Federici.

•Convegnidizona:disposizionidell’arcivescovo

«Il tema dei convegni sarà duplice e i vicari faranno bene e designare due relatori per avviare la conversazione sui due punti: applicazione pastorale dell’enciclica “Humanae vitae” e proposte concrete per una programmazione

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pastorale interdiocesana, diocesana e di zona (distribuzione del clero, rapporto tra viciniori, collaborazione zonale, assunzioni di impegni interdiocesani, avvio per un piano delle case canoniche raggruppate nei centri). Per la preparazione della seconda relazione (desiderabile collaborazione per ambedue) per non cadere nell’astratto si tenga presente l’enorme difficoltà che attualmente si frappone alla riunione giuridica delle parrocchie (per fare un esempio, altrove è possibile nei centri, trasferendone alcune in abitati che si stanno formando alla periferia o in nuove zone industriali: quid ad nos? In teoria ci si potrebbe ridurre a sessanta parrocchie per Camerino e a un massimo di trenta per Sanseverino. È auspicabile che un nuovo ordinamento delle contribuzioni pubbliche finisca per consentirlo. Ma per ora?... sarà segretario dei convegni don Giuseppe Tozzi. Le conclusioni saranno poi esaminate dal consiglio presbiterale interdiocesano».

E continua:

«Il bollettino ufficiale in corso di pubblicazione parlerà dell’enciclica “Humanae vitae” e della notificazione CEI I convegni del secondo bimestre saranno dedicati allo studio dell’enciclica. Sarebbe bene prepararli fin d’ora sia informandosi almeno sommariamente della valanga di reazioni di ogni tipo che il documento pontificio ha suscitato (diffidare però dei quotidiani e dei rotocalchi) e sia consultando persone serie e preparate del mondo laico. L’arcivescovo vorrebbe concludere lo studio comune con una lettera sull’argomento, lettera che – più che la solita pastorale – potrebbe essere un messaggio pasquale (non è necessario ricordare che non c’è Pasqua senza venerdì santo e che questo pensiero basilare dovrà orientare il nostro studio)» 144.

Nei convegni di zona, secondo le indicazioni dell’arcivescovo, si comincia a studiare la realtà delle piccolissime parrocchie e non essendo possibile suggerire la loro soppressione, perché legate alla congrua, la commissione consiglia e propone l’aggregazione di carattere pastorale in funzione dei comuni di appartenenza. Di fatto, pastoralmente parlando, per i comuni di non eccessiva grandezza territoriale si prevede una sola parrocchia, con compiti divisi tra i vari parroci e una sola programmazione a livello zona.

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noMina deL vicario pasToraLe e riforMa deLLa curia

Nell’ottobre del 1970 mons. arcivescovo chiede a tutti i sacerdoti diocesani che in via riservata gli indichino un confratello per l’ufficio

di vicario pastorale diocesano. Terminato lo spoglio delle indicazioni giunte, mons. Frattegiani con decreto del 7 dicembre 1970 nomina il vicario pastorale “con la mansione di collaboratore ordinario del vescovo nel suo ufficio di pastore della Chiesa locale”. Subito dopo la nomina, il nuovo vicario è mandato dal vescovo a far parte della commissione della CEI costituita per “la ristrutturazione della curia diocesana secondo la costituzione conciliare Christus Dominus” che al n. 27 recita: “La curia diocesana sia ordinata in modo tale da diventare un mezzo idoneo non solo per l’amministrazione della diocesi, ma anche per l’esercizio dell’apostolato”. Sulla scorta delle proposte conclusive della commissione anche in diocesi si elabora un documento che, sottoposto al consiglio presbiterale e da questo approvato, il vescovo fa proprio con decreto del 6 marzo 1971. Partendo dal triplice ufficio del vescovo, “profetico, sacerdotale, regale”, la curia si articola in tre uffici: 1. ufficio per la evangelizzazione, che comprende: catechesi, missioni, ecumenismo, comunicazioni sociali; 2. ufficio per il culto che comprende: liturgia, clero, religiosi, arte sacra; 3. ufficio per la vita cristiana che comprende: apostolato dei laici, Caritas, malati, emigranti. Ogni ufficio ha un direttore, e più commissioni secondo l’oggetto del lavoro, che studiano, propongono ed eseguono collaborando con il direttore. L’ufficio della cancelleria e l’ufficio amministrativo e statistico continuano ad avere i compiti loro assegnati dal diritto canonico. È altresì compito dell’ufficio amministrativo elaborare il bilancio preventivo e consuntivo di tutta la curia, tenendo presente le richieste dei vari uffici e le possibilità reali della diocesi. La struttura della curia è concepita nel segno del dialogo, della consultazione del popolo di Dio, nello stile di una corresponsabilità creatrice garantita dalle varie commissioni, che ricevono impulso dai consigli, presbiterale e pastorale, e si muove secondo le direttive del vescovo. Concretamente lo statuto prevede una riunione di tutti i direttori all’inizio dell’attività settimanale per la programmazione coordinata dei singoli uffici sotto la direzione del coordinatore di curia e richiede, secondo le esigenze, la presenza dei vicari e - quando possibile - dello stesso vescovo. Il vescovo afferma che non sempre la possibilità di agire risponde ai propri desideri e alla propria volontà, tuttavia dà sempre molta fiducia ai suoi collaboratori che stimola e lascia agire valutando ed approvando il loro lavoro, esigendo

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l’esecuzione dei deliberati dei vari consigli da lui approvati. La curia ha una nuova sede, ricavata nella ex cappella del seminario maggiore di via Bongiovanni e nei locali destinati in precedenza all’ufficio amministrativo. Ancora per disposizione dell’arcivescovo viene assegnato all’archivio storico della diocesi l’ampio locale già destinato a teatrino del seminario ed è garantita la presenza di un archivista. La ristrutturazione dell’archivio è resa possibile grazie anche ad un generoso lascito testamentario di p. Luciano Capacchietti. Mons. Antonio Bittarelli, nell’articolo dedicato ai ventidue anni di episcopio di mons. Frattegiani, scrive:

«La curia è ampliata, articolata, fornita di ufficiali scelti. Potrebbe guidare una più grande diocesi. È toccata ad essa mettere mano alla riforma delle parrocchie, alla liquidazione dei benefici parrocchiali, a soprintendere alla difficile nuova forma retributiva del clero, a guidare dall’alto e dal centro il restauro di centinaia di chiese e in altro settore, a organizzare il consiglio presbiterale e pastorale, la rinnovata forma delle “tre giorni”, la stessa vitalità della riforma liturgica, la consistenza caritativa in particolare verso il Terzo mondo» 145.

Grazie all’iniziativa e alla competenza di mons. Giacomo Boccanera, presidente della commissione di arte sacra, gli uffici di curia, avvalendosi dell’attività generosa di mons. Mariano Zampetti, realizzano un censimento, con documentazione fotografica, di tutte le opere delle varie chiese. Sempre mons. Boccanera, col beneplacito attivo di mons. Frattegiani, promuove la costituzione del museo diocesano, per il quale il vescovo mette a disposizione il grande salone e le adiacenti ampie aule dell’episcopio 146.

nuovo boLLeTTino eccLesiasTico

Su invito dell’arcivescovo e delibera del consiglio presbiterale interdiocesano, la curia trasforma il “Bollettino diocesano” in una

rivista mensile destinata ad accogliere, oltre ai decreti dell’ordinario e le iniziative e i suggerimenti dei vari uffici di curia, le disposizioni e i decreti relativi alla vita delle diocesi emanati dalla Santa Sede, dalla CEM, dalla CEI. Il “Bollettino”, inoltre, accetta e pubblica studi di vita pastorale. A proposito del “Bollettino ecclesiastico”, l’arcivescovo ricorda il decreto del sinodo diocesano che stabilisce: “Nessun sacerdote si ritenga dispensato dall’obbligo di abbonarsi agli atti della nostra curia, pubblicati dal Bollettino

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ecclesiastico diocesano, che i parroci hanno il dovere di conservare nell’archivio parrocchiale” 147.

La “Tre Giorni” diocesana

Mons. Frattegiani, giunto vescovo a Camerino, rileva che nei mesi estivi la diocesi organizza già da molti anni una “tre giorni” dedicata

all’aggiornamento dei sacerdoti. Vuole subito, partendo proprio dall’anno del suo ingresso in diocesi, farne uno strumento per lanciare il programma pastorale secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II: lo studio della Parola di Dio secondo la costituzione Dei Verbum, l’attuazione della riforma liturgica secondo la costituzione Christus Dominus e il rinnovamento della morale secondo l’Optatam totius e Gaudium et spes. Per questo chiama eminenti teologi: don Carlo Ghidelli, mons. Carlo Manziana, don Dionigi Tettamanzi e don Giorgio Tansini: 1964 la Sacra Scrittura; 1965 la liturgia; 1966 la teologia morale; 1967 Bibbia, liturgia e catechesi. Negli anni successivi gli argomenti sono “Azione cattolica”, 1968, con mons. Ferrari Toniolo (per la prima volta sono invitati anche i laici); 1969 è il convegno sui nuovi testi catechistici con mons. Maccari e il congresso eucaristico di Ascoli Piceno sull’eucarestia e nel 1970 sul tema della morale sociale e coniugale con don Enrico Chiavacci e nel 1971 sulla fraternità sacerdotale con mons. Giuseppe Lo Giudice, presidente dell’Unione apostolica. Nel frattempo, con l’apporto della nuova curia diocesana, la “tre giorni” viene trasformata: non più soltanto incontro di aggiornamento per il clero, ma riunione di studio e programmazione pastorale per sacerdoti e laici impegnati in diocesi, nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali. La “tre giorni”, trasferita ormai nella sala grande del seminario minore, prevede al mattino le lezioni, intorno al mezzogiorno una solenne concelebrazione del vescovo con tutti i sacerdoti e la partecipazione dei laici. Alla messa segue il pranzo comunitario; il pomeriggio è destinato allo studio di gruppi, le cui risultanze saranno discusse nell’assemblea plenaria con la conclusione del vescovo. In seguito

Mons. Carlo Maccari

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saranno i consigli pastorale e presbiterale ad elaborare direttive, che saranno fatte proprie e poi emanate dal vescovo per l’anno pastorale. In complesso i partecipanti oscilleranno tra le due-trecento presenze. Nella nuova impostazione gli argomenti sono stati: 1972, Eucarestia e Chiesa locale, relatore mons. Giuliano Agresti, vescovo di Spoleto; 1973, 1974, 1975, Evangelizzazione e sacramenti, relatore padre Adrien Nocent; 1976, Evangelizzazione e promozione umana, relatore mons. Cesare Pagani, arcivescovo di Perugia; 1977, Evangelizzazione e ministeri, relatore mons. Giovanni Benedetti, vescovo di Foligno; 1978, Evangelizzazione e comunità, relatore mons. Sandro Quadri, vescovo di Terni; 1979, Sacerdozio dei fedeli e ministeriale e vocazioni, relatore card. Michele Pellegrino; 1980, L’amore cristiano, coniugale e la vita di coppia, relatore mons. Ferdinando Lambruschini, arcivescovo di Perugia; 1981, Comunione e comunità, relatore padre Giordano Muraro; 1982, Rinnovamento della catechesi nella comunità cristiana relatori parroci della diocesi; 1983, La parrocchia per l’evangelizzazione dei lontani, relatore mons. Tarcisio Carboni, vescovo di Macerata; 1984, La liturgia nella comunità ecclesiale, relatore suor Cristina Cruciani; 1985, Liturgia in diocesi a vent’anni dal Concilio, inchiesta diocesana, relatrice la prof. Lina Brunelli; 1986, I laici, relatore Marcello Bedeschi, in cattedrale; 1987, presentazione del progetto diocesano per la pastorale liturgica “Mistero della fede” (mons. Ferdinando Cappelletti); 1988, Carità e rinnovamento delle parrocchie, relatore mons. Giuseppe Chiaretti, vescovo di Montalto e Ripatransone; 1989, La Chiesa locale: uniti verso l’umanità del 2000, relatore mons. Antonio Riboldi, vescovo di Acerra 148. A proposito della “tre giorni”, così domAdrienNocent scrive a mons. arcivescovo:

«Avrei voluto ringraziarla per il suo coraggio, inviando qui uno dei suoi sacerdoti che possono fare servizio nella diocesi (don Ferdinando Cappelletti). Ma sono sicuro che questa formazione sarà non soltanto per questo sacerdote, ma per tutti voi un aiuto benefico... e spero che altri avranno la stessa vocazione e lo stesso permesso di formarsi. Ma volevo anche dire come sono stato tanto felice durante il convegno di Camerino. Posso dire che la diocesi sia cambiata in un modo spettacolare in quattro anni. Tutto era veramente a punto, ben preparato e l’atmosfera tanto buona. Posso dire senza nessuna esagerazione che non avevo mai trovato in nessuna diocesi una preparazione così ben fatta e un lavoro condotto con qualità e serietà da parte di ciascun gruppo. Questo fa piacere in questo momento in cui ciascuno di noi rischia di essere tentato dal pessimismo. Posso dire che

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ho trovato una vera vita nella sua diocesi e un desiderio di conoscere e fare di tutto per sviluppare la vita cristiana. Ho avuto l’occasione di dire questo in altri posti e l’ho fatto senza pensare di mancare alla delicatezza. Questa verità è buona a dire. Grazie per il testo stampato. Evidentemente non era un corso e si doveva essere attenti ai diversi livelli degli uditori. Voglio dire anche la mia gioia per aver incontrato una diocesi così vivente, malgrado le difficoltà che sono sempre purtroppo esistite. Esprimo il mio rispettoso ringraziamento per il bene e la gioia che ho potuto ricevere in questi giorni e prego per Lei e per tutta la sua diocesi» 149.

un preciso caLendario per La visiTa pasToraLe

Mons. arcivescovo, dopo aver consultato i consigli presbiterale e pastorale, rende noto il calendario di una nuova visita pastorale

che così si articolerà: 1. aspetto vicariale, tutte le parrocchie di una vicaria saranno visitate dal vescovo in un arco di tempo continuato. La visita inizierà con una concelebrazione del vescovo con tutti i sacerdoti della vicaria. Al termine della visita ci sarà un’assemblea dei parroci e dei fedeli impegnati nella pastorale di tutte le parrocchie visitate con il vescovo per uno sguardo complessivo e con le indicazioni che ne derivano. Poi tutto si concluderà con una nuova concelebrazione e il saluto dell’arcivescovo; 2. aspetto parrocchiale, la visita sarà un vero e autentico incontro del vescovo con i fedeli; annuncia la parola di Dio, amministra i sacramenti, ascolta la comunità e i singoli fedeli che lo desiderano. Al centro sarà sempre la celebrazione eucaristica, la catechesi ai bambini e agli adulti, il pellegrinaggio al cimitero; 3. aspetto amministrativo, giuridico e statistico: sarà compito dei convisitatori che riferiranno all’ufficio amministrativo e alla cancelleria e infine il tutto sarà sottoposto al giudizio dell’arcivescovo: quello che poi di fatto emergerà in ogni momento della presenza del vescovo nelle comunità parrocchiali sarà il carattere ecclesiale e liturgico 150.

•PrigionieroinGermania-Vangeloadue

Un esempio della visita in una piccola parrocchia, con i suoi risvolti. Scrive l’arcivescovo:

«Nella graziosa chiesina di Vari in occasione della visita pastorale, l’arcivescovo stava spiegando la profezia di Geremia 31 (prima lettura domenica 30) e ha domandato se c’era qualcuno che potesse aiutarlo a

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far capire che cosa vuol dire per un deportato, supponiamo in Germania, una parola come questa: “Ecco li riconduco dal paese di settentrione… Erano partiti nel pianto e li riporterò nella consolazione”. S’è alzato un simpatico settantenne e ne è nato un commento a due, che è riuscito a far stare attenti perfino i bambini. Dopo la messa, nel quadro degli incontri a tu per tu, Ruggero Forti (è il nome dell’amico) ha chiesto all’arcivescovo se gradiva vedere un suo memoriale di guerra. Risposta naturalmente più che affermativa. Ecco come ci è stato possibile darvene qualche saggio. La partenza per la Germania. “Completata la tradotta e chiusi i sportelloni e bollati come se si fusse stati bestie feroci, si parte… tutti dritti come fussimo stati travetti di cemento, poiché si stava talmente stretti da non poter stare nemmeno un poco seduti; solo un poco rannicchiati sopra le ginocchia a turno. Questa prima tragedia dura quattro giorni e quattro notti senza nemmeno un boccone di pane e un sorso di acqua”. Un conforto nel campo. “Era domenica, mi sembra il 25 ottobre 1943 poiché il calendario si era alquanto imbrogliato. Un cappellano inglese celebra la messa; in queste circostanze di pratiche di fede ti sentivi riaprire il cuore, ma poi tornavi nell’abbattimento”. L’8 dicembre: “La festa dell’Immacolata. Piansi tutto il giorno invocando mamma mia, pane; i giorni erano lunghi come gli anni, il morale sempre sotto i piedi”. Pagine tanto umane sono quelle che descrivono l’incontro con donne ebree prigioniere e la buona volontà di “cancellare dal loro animo un attimo di tristezza”. Una morale sulla guerra: il nostro amico si sente i brividi “quando persone di governo ne parlano come fosse una battuta di caccia”. È tanto vero il giudizio che il Forti dà del suo scritto interessante: “una penna elementare, ma di grande sentimento”. Grazie, Ruggero» 151. L’arcivescovo poi scriverà un poscritto al resoconto pubblicato su L’Appennino camerte sulla visita pastorale di Vari dicendo: “Quella pubblicazione ha avuto un seguito”. «Caro Ruggero, è tutta colpa mia se l’articoletto “Prigioniero in Germania” del 30 ottobre ha provocato una messa a punto da Monaco (dove il giornale per merito delle ex regie poste è arrivato con quasi tre mesi di ritardo; mi si assicura però che di solito arriva abbastanza puntuale, forse prima che a Serrasanquirico!…). Mi hanno scritto che un “Vangelo in due” – così il sottotitolo – non doveva dimenticare esempi di bontà dati da tanta umile gente, rischiando anche la vita, per portare conforto ai prigionieri. Tutta colpa mia perché tu ne parli nel tuo diario. Ma forse una volta ci torneremo sopra e parleremo anche di questo stralciando dal tuo quaderno. Vuoi farlo tu stesso? Cari saluti a te e famiglia, il Signore vi benedica. Tuo ✠ Bruno» 152.

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La settimana dopo la risposta:

«Carissimo mons. Bruno, felicissimo della tua lettera aderisco contentissimo alla tua richiesta. Posso attestare che vi sono stati atti anche di carità e di fratellanza cristiana da parte di qualche persona tedesca, polacca o cecoslovacca. Veramente si vedeva la sincerità del loro cuore. Se potevano offrire qualche cosa per mangiare o avvicinarsi per qualche parola confortevole, mettevano in compromesso la loro vita… e la nostra. Anche loro tremavano di paura come tremavamo noi di fronte alle SS. Questo tra i civili. Tra i militari c’è stata pure qualche eccezione: a me personalmente un vice comandante del reparto mi faceva sentire alla radio il comunicato italiano sui fronti di guerra; alle volte mi allungava qualche cosa da mangiare e qualche sigaretta che io a mia volta davo ai miei compagni; anche tra le guardie posso affermare che vi era qualcuno di buon cuore. Pure tra noi non sono mancati atti di fratellanza quotidiani; io personalmente sono arrivato a dire che ‘il dolore affratella’. Se si vedeva un fratello più abbattuto degli altri, si cercava tutti insieme di confortarlo con tutta la carità che tutti possediamo. Ti salutiamo di cuore io e la mia famiglia e chiediamo la santa benedizione. Ruggero Forti» 153.

concLusioni deLLa visiTa pasToraLe

neLLa vicaria di caMerino

«Dalle adunanze preparatorie, tenute a cominciare dalla città (nell’ultima decade del 1979) a quelle conclusive di fine marzo, il calendario della visita ha abbracciato il considerevole ambito di tre mesi, tutti – grazie a Dio – discretamente impegnati. Il bilancio generale mi sembra abbastanza positivo; lo sarà veramente se quanto discusso nei vari incontri di sacerdoti, di comunità, indurrà ciascuno di noi a prodigarci ogni giorno più, in vista di una intesa sempre più piena e sempre più viva. Oltre che con le popolazioni sempre assai cortesi e accoglienti ho potuto ovunque prendere contatto con i gruppi ecclesiali (fra i quali è da auspicare una presenza più vasta e più viva dell’Azione cattolica), con i gruppi del catechismo, con le scolaresche delle elementari e delle medie inferiori (per le superiori è parso opportuno rispettare il parere negativo di alcuni alunni) – penso senza dubbio rimanendo agli altri la possibilità di incontrare il vescovo nelle assemblee parrocchiali o in eventuali incontri a tu per tu che restano sempre possibili a chiunque! –, con i malati dell’ospedale civico e della casa di riposo, con i malati a domicilio (nessuna porta ci risulta chiusa). All’ospitalità cordiale ha corrisposto ovunque la gara delle famiglie, impegnate in gruppi e serate

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collegiali in cui lo scambio di idee col vescovo termina d’obbligo ma (ne transeat in exemplum) con parate cordialissime e liete di squisiti dolci casalinghi e di schietti vini marchigiani. Ringrazio i parroci e i loro collaboratori sacerdoti e laici. Considero un delicato incoraggiamento il fatto che essi abbiano voluto sottolineare – riprendendo dai verbali – “l’ottima testimonianza data dal vescovo di fronte ai fedeli che ne sono rimasti entusiasti (mi sia lecita la glossa ‘addirittura!’) con la sua profonda carica di umanità, di bontà, semplicità e affabilità”. Forse alla glossa c’è da aggiungere un “cala, cala”. Ho confessato qualche volta – fin dalla mia prima lettera di saluto – che ho molto sofferto nella mia giovinezza quando ho visto allignare nel nostro mondo l’adulazione servile per i superiori: ho goduto tanto quando, una settimana prima di venire tra voi, il carissimo santo padre Paolo VI mi fece discretamente capire che conosceva un po’ della mia storia (“Tempi difficili” mi disse sorridendo; e fu una delle gioie più grandi della mia vita). Ma ai miei fratelli sacerdoti so di poter credere. E accetto le loro parole buone come incoraggiamento. Il Signore li ricompensi e aiuti me a spendermi con sempre maggiore generosità. Certo meno baldanzoso di sedici anni fa, provo qualche ritrosia di fronte al “superimpendar” di 2 Cor 12, 15. Aiutatemi voi con il vostro esempio e con la vostra preghiera. Pensate quanto vi debbo per quel vostro quotidiano memento per il nostro vescovo Bruno. Venendo alle osservazioni avanzate dai parroci nell’accurato esame delle carenze pastorali in città trovo impellente (e nello stesso tempo problematica per vari motivi) l’istanza per un sacerdote impegnato a tempo pieno nella pastorale giovanile, che al di fuori di Comunione e liberazione e del movimento scout presenta evidenti e dolorose lacune: trovo che non è così semplice (come potrebbe sembrare a prima vista) liberare qualcuno da tutto il resto, quando questo “resto” è pure richiesto da innegabili esigenze pastorali. Resto comunque disponibile ai suggerimenti concreti dei confratelli e in particolare dei tre parroci di città in ordine a eventuali precisazioni di compiti, anche se queste precisazioni dovessero comunque costar sacrificio a qualcuno. Altra cosa che mi sta a cuore è che sia ridotto il numero delle sante messe festive e che si instauri la buona abitudine di liturgia penitenziale e comunque una prassi stabile delle confessioni il sabato sera e la vigilia delle feste. Chiedo anche che mi si ricordi, nei limiti delle mie possibilità di calendario, che è gradita la collaborazione del vescovo particolarmente in questo ministero della riconciliazione. L’ideale è senz’altro giungere a evitare le confessioni durante la S. Messa. Urgente ancora di fronte alla progredente facilità di fare a meno della confessione pur rimanendo assidui alla comunione, richiamare il severo “probet seipsum homo” della 1 Cor 11, 28.

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Venendo così alle parrocchie extraurbane, dove la frequenza pare sia più buona, è bene vegliare (al parroco è più facile seguire caso per caso e, se occorre, mettere cortesemente e amorevolmente... sull’attenti). Meglio mantenere una buona pratica pasquale che accettare l’andazzo facilone introdottosi negli ambienti chic e non solo da noi (la lamentela o direi meglio l’allarme è generale e documentato anche in studi e riviste). I pii esercizi tradizionali (rosario, via crucis, benedizione eucaristica, tridui e processioni propiziatorie) siano mantenuti in uso e saggiamente guidati, non si tratta forse di ottime occasioni per insegnare anche agli adulti un po’ di catechismo? Lo stesso si dica delle feste tradizionali. Per le più solenni almeno si abbia cura di mettere in programma una predicazione straordinaria di preparazione, di animazione spirituale. A tutti dico il mio grazie più vivo per la cordiale e veramente incoraggiante accoglienza che ovunque mi è stata fatta. Posso assicurarvi che mi ha fatto bene. Riditelo ai vostri parrocchiani, ringraziateli per me e da parte mia benedite loro, come io cordialmente benedico voi nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Santa Maria in via vi accompagni sempre. Gratia vobis et pax» 154.

ricorso conTro iL prefeTTo di MaceraTa

Un grave e inatteso problema si trova ad affrontare mons. Frattegiani. Alcuni deputati del partito radicale presentano un’interpellanza

in parlamento al ministro dell’interno dichiarando che in alcune diocesi italiane vengono percepite ingiustamente le “congrue”, in quanto collegate a parrocchie non più esistenti o riferite a titolari non residenti in parrocchia. Tra le diocesi incorse nell’irregolarità viene segnalata anche quella di Camerino. Immediatamente il prefetto di Macerata emette un decreto di revoca di “congrue” su alcune parrocchie, ingiungendo il rimborso di somme in passato erogate, ma non dovute. Contro questo decreto mons. Frattegiani decide di ricorrere al tribunale amministrativo regionale delle Marche, affidando l’incarico all’avv. Giovanni Gaeta, assistito dalla consulenza del prof. Pio Ciprotti, allora ordinario di diritto ecclesiastico nell’Università di Camerino, e del prof. Pier Luigi Falaschi. Nello stesso tempo si reca personalmente presso la congregazione del clero per illustrare il proprio comportamento, ritenuto in apparenza non conforme a precise disposizione date – come allora si diceva – “dall’alto” (segreteria di Stato). Riceve l’approvazione piena del segretario della congregazione, del quale era stato prefetto al tempo del seminario Laterano. Contemporaneamente

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invia il vicario generale presso il presidente del fondo culto del ministero dell’interno, a cui chiedere spiegazioni sul decreto prefettizio e su quale norma di legge si basi: questi non sa dare risposta, pur appellandosi ad un parere dell’avvocatura dello Stato. Successivamente l’arcivescovo decide che lo stesso vicario si rechi al ministero dell’interno per un incontro con il sottosegretario alla giustizia, esigendo una spiegazione sull’agire del prefetto di Macerata che ha fondato il suo decreto su leggi e su fatti inesistenti, in quanto non c’è nessuna parrocchia fantasma né alcun sostituto che percepisca congrue. Il sottosegretario di fronte alla precisa documentazione presentata si interessa personalmente del caso, telefonando in presenza del vicario di Camerino al nuovo prefetto di Macerata dott. Alessandro Sfrappini, succeduto da pochi giorni al prefetto che ha emesso il decreto e che nel frattempo ha ricevuto una nuova destinazione. Il dott. Sfrappini, originario di Sanseverino Marche, ritiene pienamente convincente la documentazione presentata dalla diocesi. Il sottosegretario allora ripropone il caso al direttore del fondo culto, che interessa del problema il vice-direttore prefetto Giovanni Conforti, originario di Crispiero, laureato a Camerino. La precisa relazione da lui preparata è sottoposta dal sottosegretario al Consiglio di Stato, il quale, precedendo il responso del Tar marchigiano, esprime un parere di invalidità del decreto del prefetto di Macerata. Poco dopo anche il presidente del fondo culto viene rimosso dall’ufficio. Sulla erroneità del provvedimento del prefetto mons. Frattegiani ottiene piena soddisfazione. Tuttavia, volendo togliere ogni dubbio sulla onestà del suo agire, chiede ad alcuni canonici e beneficiati di rinunciare al canonicato per assumere il titolo e il servizio di parroci al posto di quelli molto anziani e inabili, i quali sono nominati canonici al loro posto, mantenendo così il diritto al sostentamento. Abolito il “sostituto parrocchiale”, viene rimosso ogni equivoco. Mons. Frattegiani ringrazia pubblicamente quelli che hanno accettato il cambiamento, lodando disponibilità e spirito di comunione.

risTruTTurazione deLLa diocesi

1960-1986. L’arcidiocesi di Camerino è presa in considerazione ai fini d’un eventuale provvedimento di soppressione o di accorpamento con

altre diocesi confinanti. Già nei primi anni del 1960 la CEI ha costituito una commissione per ridurre il numero delle diocesi italiane, alcune troppo piccole per poter sostenere strutture essenziali per un’adeguata attività

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pastorale. La prima proposta per la regione Marche consiste nel ridurre le diocesi a quattro, una per provincia, secondo gli accordi del Concordato del 1929. Una successiva proposta è di otto diocesi, due per provincia. Per la provincia di Macerata sarebbero rimaste Camerino e Macerata. Anche questa proposta non sarà poi realizzata. Subito dopo la chiusura del Concilio ecumenico la CEI istituisce una nuova commissione di quaranta vescovi ancora per la riduzione delle diocesi. Tra i quaranta è scelto mons. Frattegiani. Il lavoro della commissione si svolge negli anni 1966-1967. La proposta per Camerino è la ricongiunzione con Fabriano, il che avrebbe comportato la ricomposizione dell’antica diocesi, smembrata nel 1727. La proposta ottiene l’approvazione di mons. Frattegiani. A un certo momento, però, probabilmente per opposizione di Fabriano, la CEI, pur confermando la riunione per le strutture e le attività diocesane, propone di conservare il titolo al vescovo di Fabriano mons. Macario Tinti. Allora mons. Frattegiani si dichiara contrario, ritenendo anomala la titolarità di due vescovi per una diocesi. E così nulla succede. Mons. Frattegiani intitola con ironia la cartella che contiene l’intera documentazione della vicenda “Alì Babà e i quaranta ladroni” 155. Il 22 luglio 1972 mons. Frattegiani viene nominato amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis con tutti i diritti e doveri di vescovo diocesano per il territorio del comune di Sefro e parti dei comuni di Fiuminata e Serravalle di Chienti fino allora ascritte alla diocesi di Nocera Umbra e Gualdo 156. Ma nel marzo 1975 un nuovo cambiamento: mons. Tomassini, divenuto amministratore apostolico ad nutum Sanctae Sedis delle parrocchie che la diocesi di Nocera Umbra e Gualdo aveva nelle Marche, succede ai quattro amministratori apostolici. L’arcivescovo Frattegiani, come gli altri amministratori, è invitato a collaborare per la migliore soluzione definitiva della questione. Così le parrocchie, tolte alla diocesi di Camerino, tornano a Nocera Umbra 157.

vescovo di sanseverino MarcHe

Nel mese di marzo 1978 i sacerdoti di Sanseverino si rivolgono con una lettera ufficiale a mons. Cleto Bellucci, arcivescovo metropolita

di Fermo, perché faccia conoscere alla congregazione concistoriale il loro vivo desiderio perché mons. Frattegiani venga nominato vescovo di Sanseverino. E la congregazione a sua volta chiede a mons. Frattegiani l’eventuale consenso con queste parole:

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«È un apprezzamento di affettuosa riconoscenza e di profonda stima per l’attività pastorale da Lei svolta a loro favore, al quale mi unisco cordialmente, ben conoscendo lo zelo sagace e la generosità fattiva del suo ministero episcopale» 158.

Positiva la risposta di mons. Frattegiani:

«Riscontro la sua tanto buona e paterna del 3 c.m. e Le dico con animo grato che sono contento di essere nominato vescovo di Sanseverino, anche per stringere meglio la saldatura che si è venuta formando fra le due diocesi. Pertanto la mia risposta è “sì”, sono lieto di essere insieme successore di sant’Ansovino e di san Severino» 159.

In data 23 gennaio 1979 con bolla pontificia mons. Frattegiani è nominato vescovo anche di Sanseverino. Così mons. Frattegiani scrive ai nuovi diocesani:

«Arcivescovo vecchio e nuovo. Carissimi amici di Sanseverino. È usanza del vescovo chiamare figli i loro diocesani; ma preferisco chiamarvi amici, come ha fatto Gesù con i suoi discepoli. Lo so! Potrebbe essere un alibi in quanto la parola “figli” è tremendamente impegnativa (ogni papà sa quanto costa un figlio e cosa sarebbe capace di fare per lui), ma un alibi non è. Quello che un papà sa fare per naturale istinto, quello che una mamma sente vibrare in ogni fibra del suo cuore, io lo chiedo a Dio e voi pure chiedetelo per me come espressione di donazione totale. Chiedetelo per me e per tutti i fratelli sacerdoti, collaboratori diretti del vescovo e come lui tenuto a spendersi senza risparmio per l’avvento del regno di Dio. Non avendo mai desiderato di essere vescovo e tanto meno arcivescovo (che notate bene, dice nulla di sostanziale) ma per voi ho risposto precisamente agli organi della Santa Sede che desideravo che cadesse senz’altro il titolo provvisorio di amministratore, e fosse ridata a Sanseverino la sua dignità di diocesi “pleno iure”. Se poi domani sera, come spero, verrete alla solenne messa pontificale del mio possesso canonico, completerò questo discorso e... ci faremo a vicenda i rallegramenti. Perché la festa è insieme vostra e mia» 160.

MuTano i confini

Nel marzo del 1984 la congregazione dei vescovi emana il decreto “Camerinensis et aliarum de finium mutatione” e mons. Marcello

Morgante, vescovo di Ascoli Piceno e presidente della Conferenza episcopale

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marchigiana, secondo il mandato ricevuto dispone: 1. dall’archidiocesi di Camerino è separato il territorio delle parrocchie S. Stefano in Villa S. Stefano, San Salvatore in Valcarecce, S. Michele arcangelo in Castello, S. Giorgio in Castreccioni, S. Nicolò in Moscosi siti nel comune di Cingoli e vengono uniti alla diocesi di Cingoli; 2. S. Michele arcangelo in Rocchetta, S. Gregorio in Colleponi nel comune di Genga, S. Michele arcangelo in Murazzano, S. Pietro apostolo in Scorzano del comune di Sassoferrato vengono unite alla diocesi di Fabriano; 3. alla diocesi di Camerino vengono unite le parrocchie di S. Maria Assunta in Sefro, S. Biagio martire in Sorti nel comune di Sefro, S. Mauro abate in Copogna, San Lorenzo martire in Dignano, SS. Martino e Carlo in Castello nel comune di Serravalle di Chienti, S. Maria della Spina in Poggiosorifa, S. Carlo in Laverino nel comune di Fiuminata; 4. S. Maria collegiata di Visso, S. Giovanni e Fortunato in Aschio, S. Pietro in Chiusita, S. Stefano in Croce, S. Maria e S. Salvatore in Cupi, S. Maria Assunta in Fematre unita aeque principaliter a S. Lorenzo in Riofreddo, S. Maria in Mevale, S. Marco in Orvano, S. Andrea in Villa Sant’Antonio, S. Bartolomeo in villa Sant’Antonio, tutte nel comune di Visso; S. Stefano in Castelsantangelo sul Nera, S. Martino in Gualdo, S. Giovanni Battista in Macchie, S. Vittorino in Nocria, S. Lucia in Rapegna, S. Pietro in Vallinfante, tutte del comune di Castelsantangelo sul Nera; S. Maria della Pieve in Ussita, S. Andrea in Calcara, Santi Vincenzo e Anastasia in Casali, S. Placido in San Placido, S. Stefano in Sorbo, Santi Donato e Reparata in Vallestretta nel comune di Ussita. Dispone anche che insieme al territorio delle parrocchie siano annesse le chiese, gli oratori, le canoniche, i cimiteri e le pie fondazioni e qualsiasi altro bene ecclesiastico, diritti e oneri comunque annessi a quelle parrocchie e a quelle chiese.

«... per quanto riguarda il clero, all’atto dell’esecuzione del presente decreto, i sacerdoti siano annoverati in quella diocesi nel cui territorio detengono legittimamente il beneficio ecclesiastico e l’ufficio (...) il presente decreto sarà pubblicato nelle parrocchie interessate per la parte che le riguarda “inter missarum solemnia”, in una domenica non oltre il mese di giugno 1984, da stabilirsi dall’ecc.mo ordinario e avrà vigore dalla successiva domenica» 161.

Così mons. Frattegiani comunica il decreto 8.5.1984:

«Carissimi fratelli di Camerino e Sanseverino Marche, l’imminente riordinamento dei confini dell’arcidiocesi camerte – secondo il piano di riforme predisposto dalla CEI per l’Italia e dalla CEM per le nostre Marche

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– potrà certo costare un sacrificio tanto a chi viene come a chi va. A quelli che vanno diciamo che il nostro affetto fraterno continuerà a farceli sentire vicini, come i figli che restano sono vicino ai figli che la madre vede partire non senza dolore. A quelli che vengono dei quali sappiamo comprendere la pena (la pena stessa di quelli che vanno) possiamo assicurare fin d’ora la nostra comprensione, la nostra simpatia e la nostra caritas sacerdotalis. Ho intenzione di iniziare con loro una sommaria nuova visita pastorale. Dovrebbe essere anche l’ultima; senza per questo avanzare pronostici su quanto mi resta da vivere (il Signore sa e questo mi dà pace). Confido che anche voi – a suo tempo – saprete aiutarmi a compiere il dovere di mettermi da parte e scambiare con voi un arrivederci sereno. Comunque sarò molto contento se (oltre gli immancabili impegni pastorali di agenda) il Signore vorrà ancora un incontro con tutte le comunità parrocchiali, con i conventi, con i monasteri di clausura, con le altre comunità religiose. Ma non chiedo nulla. Ricordate il vecchio confratello don Nazzareno Starnadori, parroco di Rocchetta di Genga, al quale domandai se non avesse paura di vivere solo in una casa così grande e se gli fosse capitato qualcosa di notte? Mi guardò meravigliato e mi rispose: “Paura, perché? Il Signore el sa”. Non dimenticherò mai lo sguardo sereno con cui mi fissò. Ecco tutto il segreto della nostra vita. Siamo tutti nelle mani del Padre: “Nessuno muore per se stesso e nessuno vive per se stesso, se moriamo, moriamo per il Signore; se viviamo, viviamo per il Signore. Sia che viviamo sia che moriamo siamo dunque del Signore (Rom 14, 7-8). Affido me e voi alla benedizione di Dio e alla protezione materna di Maria» 162.

Fedele alla promessa, mons. arcivescovo desidera prima di tutto salutare i fedeli delle varie parrocchie che vengono distaccate dalla diocesi: è un incontro molto sentito dai fedeli che ammirano la sensibilità e l’umanità dell’arcivescovo; particolarmente emozionante si rivela l’incontro con i fedeli della piccola parrocchia di S. Pietro apostolo in Scorzano, il cui territorio è in parte ricompreso nella stessa città di Sassoferrato, e dove è anche situata la celebre abbazia di Santa Croce: quasi con le lacrime agli occhi salutano l’arcivescovo, professando il loro attaccamento alla diocesi di Camerino, che pur tanto lontani sentono e amano ancora come propria, dichiarando anche che nello Spirito rimangono sempre uniti alla loro antica istituzione. Ugualmente l’arcivescovo intende quanto prima incontrare singolarmente tutti i nuovi parroci provenienti dalla diocesi di Norcia e di Nocera Umbra e poi i fedeli delle singole parrocchie. Sacerdoti e fedeli rimangono sinceramente impressionati – come poi confesseranno – dall’attenzione, sensibilità e cordialità con cui sono stati accolti e soprattutto ascoltati. E subito si sentono insediati nella nuova diocesi.

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•Riduzionedelleparrocchie

Dopo il nuovo Concordato tra lo Stato italiano e la Santa Sede del 1984, il consiglio presbiterale riprende l’invito del vescovo e, in attuazione dei provvedimenti dell’autorità ecclesiastica del 1985, pone dei criteri per la riduzione delle parrocchie sia per la diocesi di Camerino che per quella di Sanseverino Marche. 1. Considerare il numero degli abitanti; 2. l’omogeneità della popolazione; 3. la distanza da un centro pastorale; 4. i confini comunali; 5. esigenze particolari. Il consiglio presbiterale, ancora interdiocesano, stabilisce anche che il progetto della soppressione o riunione delle parrocchie in un primo tempo dovrà essere studiato a livello vicariale con la presenza e l’assistenza del vicario generale. Le conclusioni saranno poi presentate e sottoposte al consiglio presbiterale che a sua volta, dopo averle discusse e approvate, le sottoporrà al giudizio dell’arcivescovo. Il lavoro difficile dura circa due anni: si cerca con pazienza di farlo accettare ai fedeli, superando radicati campanilismi. Il lavoro termina con i decreti di mons. Frattegiani per Sanseverino del 30.06.1986 e per Camerino del 30.08.1986 163. L’elenco completo delle parrocchie dopo l’unione delle due diocesi è in appendice.

isTiTuTo per iL sosTenTaMenTo deL cLero

Una riforma veramente epocale si realizza con il nuovo Concordato riguardo la retribuzione economica dei sacerdoti: cessa, infatti,

l’istituto della “congrua” con cui lo Stato italiano integrava il reddito misero dei benefici parrocchiali per il sostegno economico dei sacerdoti. Con la nuova legge tutti i benefici parrocchiali vengono sottratti alle parrocchie, riuniti e gestiti centralmente in un nuovo “Istituto per il sostentamento del clero”. Con decreto del 26 ottobre 1985 mons. Frattegiani istituisce l’Istituto interdiocesano per il sostentamento del clero, che dopo l’unione delle due diocesi diviene diocesano. Difficoltoso è il lavoro svolto dagli uffici di curia nel passaggio di gestione: complessa, in particolare, è l’individuazione dei beni che debbono essere trasferiti alle parrocchie per l’attività pastorale e ciò che deve essere destinato al nuovo Istituto per il sostentamento del clero. Lungo e difficile il lavoro dei responsabili della nuova gestione: per il numero dei benefici, per l’eterogeneità dei beni, per la frammentazione e dispersione in territori vastissimi, spesso marginali e spopolati. Nonostante

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tante difficoltà, tutto è realizzato nel migliore dei modi possibili per l’impegno e la competenza del presidente mons. Giancarlo Pesciotti, dei collaboratori dell’Istituto e soprattutto per la vigile ed equilibrata azione dell’arcivescovo, sempre comprensivo, ma anche vigile sulla gestione economica. Il risultato della riforma, con tanta preveggenza accarezzata da mons. D’Avack, è veramente soddisfacente per i sacerdoti, anche perché la nuova legge italiana permette a tutti i cittadini di destinare volontariamente sulla dichiarazione dei redditi l’8 per mille della tassazione a favore del sostentamento del clero. D’ora in poi tutti i sacerdoti diocesani in qualsiasi modo in cura d’anime dispongono della stessa remunerazione in base a un punteggio per le attività svolte. Terminano così le lunghe e animate discussioni sulla cosiddetta “perequazione” 164.

unione deLLa diocesi di sanseverino con caMerino

30 settembre 1986: un decreto della congregazione dei vescovi stabilisce l’unione della diocesi di Sanseverino Marche con

l’arcidiocesi di Camerino.

«L’arcidiocesi così ristrutturata sarà denominata: “Arcidiocesi di Camerino – Sanseverino Marche”. Avrà sede in Camerino dove l’attuale chiesa cattedrale conserva tale sua qualifica. L’attuale chiesa cattedrale di Sanseverino Marche assumerà il titolo di concattedrale. I santi patroni saranno S. Venanzio e S. Severino. La nuova arcidiocesi sarà suffraganea della chiesa metropolita di Fermo: l’arcivescovo di Camerino non avrà più il diritto di essere insignito del pallio» 165.

Nel governo della diocesi di Sanseverino Marche mons. Frattegiani con la sua grande umanità e saggezza ha conquistato il cuore dei sanseverinati e reso pressoché indolore la riunificazione. Come afferma più volte mons. arcivescovo, in questa fase è stato aiutato dall’illuminata e preziosa collaborazione di mons. Nello Paina, nominato, dopo la morte di mons. Domenico Martini, vicario generale, dall’apporto silenzioso, prudente e costante di mons. Quinto Domizi, dalla amabilità e dal prestigio di don Amedeo Gubinelli, dalla Don Amedeo Gubinelli

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competenza amministrativa di mons. Annibale Papa. All’inizio opera in modo tale da rendere sempre più unificata l’azione pastorale delle due diocesi con gli incontri culturali e spirituali dei sacerdoti di Sanseverino, aperti e disponibili a una piena collaborazione. Subito dopo mons. arcivescovo unifica di fatto i consigli pastorale e presbiterale, facendoli divenire diocesani, con i sacerdoti inseriti in uniche commissioni. Dopo l’unificazione mons. Frattegiani nomina mons. Paina pro-vicario generale della diocesi unificata, con speciale attenzione per il governo di Sanseverino, così come altri sacerdoti sono inseriti negli uffici dell’unica curia diocesana.

Mons. Frattegiani e Mons. Nello Paina in una celebrazione liturgica a Sanseverino

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Operedell’arcidiocesi“L’appennino caMerTe” e “La voce seTTeMpedana”

Mons. Frattegiani, vescovo con vocazione giornalistica, trova utile ed efficace comunicare con il clero e i laici attraverso il

settimanale diocesano L’Appennino camerte. Di fatto L’Appennino camerte, che all’epoca della sua nomina ad arcivescovo di Camerino conta più di quarant’anni di vita e ha già la pagina “Voce settempedana” dedicata a Sanseverino, è largamente diffuso sia tra i fedeli residenti nelle due diocesi, sia tra quelli, e sono molti, emigrati in altre città italiane, soprattutto Roma e Milano, e anche in città estere. L’Appennino è letto anche dai tanti missionari e missionarie delle due diocesi, sparsi nel Terzo mondo. Fin dai primi anni del suo episcopato informa attraverso il settimanale sacerdoti e fedeli sui problemi in discussione nel Concilio ecumenico a cui partecipa. Chiede poi al direttore di riservargli un angolo del settimanale per far conoscere e amare la Bibbia, che sarà un argomento primario della sua attività pastorale in diocesi. Così nella rubrica “Il quadrante” settimanalmente accompagna con puntuali, chiari e profondi commenti una corale lettura della Parola di Dio. Infine dà inizio, a partire dal febbraio 1967, a un altro appuntamento settimanale intitolato “Bollettino della diocesi”, quale supplemento al “Bollettino ecclesiastico” ufficiale. Questo angolo del giornale che da vari anni affratella le due diocesi sarà all’occorrenza riservato ai comunicati dell’arcivescovo e amministratore apostolico. «In tal modo – dice – funziona anche da cerniera ideale tra L’Appennino e la Voce settempedana in auspicio di un avvenire unitario», poiché già da ora «Kamars e Settempeda vi sono ormai anche campanilisticamente (e sempre più fraternamente) impegnati» (L’Appennino camerte, 4 febbraio 1967). La presenza settimanale su L’Appennino camerte consente all’arcivescovo di dialogare con continuità e senza riserve mentali con tutti, sacerdoti e laici, credenti e no, e per destinare alle due diocesi indirizzi precisi, programmi di iniziative, ammonimenti chiari e talvolta anche severi. Ogni proposta è aperta al dialogo e pretende che la scelta del dialogo sia fatta propria dal settimanale, con riferimento alla realtà religiosa, sociale, politica, culturale dell’area camerte e sanseverinate, come anche di quella regionale e nazionale. Avvia così un colloquio meritevole di attenzione e di risposta. La risposta può essere d’ogni tono, ma certo finisce per imporsi l’obiezione intelligente e costruttiva. Spesse volte il “Bollettino” si fa latore di proposte venute dalla

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base, da sacerdoti o da laici. Il dialogo è sempre strumento di unicità e organicità pastorale. In questa direzione sollecita l’abbonamento di tutte le parrocchie e di tutti gli istituti di ambedue le diocesi e mostra meraviglia e fa «una garbata tiratina d’orecchio» quando qualcuno lamenta mancanza di direttive di marcia in materie che L’Appennino

ha trattato espressamente. In occasione poi del Natale, nel ricambiare gli auguri, non tralascia mai di suggerire la sottoscrizione d’un abbonamento. L’Appennino è lo strumento attraverso cui comunica coi fedeli: «A me pare – afferma – che un vescovo che non ha modo di comunicare con i suoi fedeli è un mezzo vescovo. E a me piacerebbe di essere un vescovo intero» 166. Quando poi, per la ristrutturazione pastorale della curia diocesana, sente il dovere di riunire gli uffici in un’unica sede, non manca di estendere la sua sollecitudine alla direzione e redazione de L’Appennino camerte che colloca nel palazzo arcivescovile, nella sede ampia e luminosa che era stata già del vicario generale e della cancelleria arcivescovile, di facile accesso al pubblico. Oltre alle proposte e direttive riguardo alla vita diocesana, l’arcivescovo accetta pubblicamente anche le critiche a lui rivolte e sempre risponde, accogliendole o contrapponendosi ad esse con benevola ironia. Eccone alcuni esempi.

•DaisacerdotidiSarnano

«L’arcivescovo – scrive – ha molto apprezzato le osservazioni in calce al verbale delle elezioni vicariali di Sarnano, anche se l’ultima è una garbata tirata d’orecchi, che speriamo non inutile: “Valutando il quinquennio trascorso, abbiamo trovato molte cose positive: la riforma del la curia, la valida impostazione del la tre giorni diocesana, che ha fornito materia ampia per la programmazione pastorale; l’impostazione della visita pastorale, particolarmen te della nostra. Per il prossimo quinquennio ci permettiamo di esprimere qualche desiderio: più frequenti incontri vicariali o zonali con la presenza di mons. arcivescovo o del suo vicario pastorale: ci sembra un mez-zo valido per creare più comunione con il vescovo e tra di noi ed an che per

Don Antonio Bittarelli

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una maggiore assistenza nelle attività pastorali. Di più ci parrebbe di chiedere, ma con tutta umiltà, una maggiore decisione nell’affrontare i problemi sia su piano diocesano che vicariale e, una volta presa una decisione. una certa fermezza nel tirarla avanti”» 167.

•...l’uomodiAlcatraz L’arcivescovo risponde alla domanda circa un chiarimento autentico sul titolo giocatogli da Panorama: “Il solitario di Alcatraz”.

«Quando ho letto sono caduto dalle nuvole, non credevo davvero che fosse pericoloso essere cortesi con un giornalista. E così sono diventato “un prelato battagliero” (vorrei esserlo un po’ di più) e tenuto in odore di contestazione (quando ce ne vuole, chiedo al Signore di darmene il coraggio, salvo sempre – beninteso – il rispetto nutrito di fede per la Sede Apostolica). Non mi sento, grazie a Dio, un esiliato e prego di poter trascorrere il resto della mia vita a Camerino. Graziosa la battuta che ha l’aria di una barzelletta: “Vive appartato in un cadente edificio del 1500 in compagnia di un canarino” (ha dimenticato la gatta). Quando al gran solitario che fu l’uomo di Alcatraz (io mi sarei definito tale) debbo confessarvi che ho dovuto consultare le enciclopedie, peggio di don Abbondio per Carneade (onde sapere “chi era costui”). Quanto alla Dc ho riferito – è vero – un mio intervento su “Rocca” in occasione delle elezioni del ’68, con cui mi auguravo che il partito sapesse finalmente fare a meno di attaccarsi alle tonache dei preti (lo riportò anche L’Appennino camerte, segno che piacque!), ma non ho mancato di aggiungere che la situazione presente esige un’attenzione tutta particolare per sfatare il falso miraggio dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, ambedue indaffarate a minare l’unità dei cattolici. In compenso di ritorno dalla terra di Gesù ho avuto la gradita sorpresa di un giudizio straordinariamente lusinghiero delle mie povere “strade” (Emmaus, Gerusalemme, S. Paolo, sul numero di marzo di “Rivista del clero italiano”). Forse l’amicizia ha fatto velo al biblista don Ghidelli; ma per me s’è trattato di un incoraggiamento non indifferente. Comunque... prometto di non pubblicarne più... se ci riesco».

•...equellodiFiladelfia

«Consentitemi una piccola riflessione sul convegno fraterno di giovedì 16 marzo. Se ho capito bene la mia presunta autodefinizione, l’uomo di Alcatraz è il contrario preciso dell’uomo di Filadelfia e cioè dell’uomo che vive in comunione fraterna. In questo senso il giovane confratello che ha criticato l’operazione “perequazione” in quanto priva di nerbo legalistico

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(era necessario imporsi in nome della “vera communio” che non deve essere... sotto una sola specie; in fondo l’immagine era geniale!) si è messo in assoluta contraddizione con il concetto di comunione fraterna. Direi anzi che l’intervento mi ha aiutato a capire – me devotissimo di San Paolo e del suo irriducibile antilegalismo – come mai dal centro sia stata esclusa qualsiasi possibilità coattiva in questo campo. Proprio, direi, per la contraddizione che nol consente. Comunque l’intervento di don Giancarlo Sbarbati resta un invito ad esaminarci davanti a Dio e ai fratelli, un invito per me, per lui e per tutti i confratelli, un invito ad esaminarci davanti a Dio e ai fratelli, in specie i meglio provvisti. E soprattutto mi ha fatto piacere l’eco di consensi all’opera paziente (ma giovedì ero un pochino arrabbiato!) e infaticabile e cortese del buon don Cappelletti nel contesto della commissione perequativa e della nuova curia, della quale torno a ripetere che sono molto contento. Sempre ad meliora, con la collaborazione fraterna di tutti» 168.

•«Chiscriveilbollettino?»

«Signor direttore, mi spinge a scrivere la lettura del “Bollettino della diocesi” dell’ultimo numero del suo e del nostro Appennino camerte, il n. 12 del 22 marzo 1971. Mi levi una curiosità. La rubrica viene estesa di persona dall’arcivescovo o c’è un estensore del pensiero del vescovo? Perché, veda, se c’è una finzione, la forma diventa discutibile allorché l’arcivescovo viene in continuazione plagiato. Se c’è un estensore lo preghi di scrivere più aperto per informare chi non sa. Non può scrivere presupponendo che il lettore già sa tutto e va a leggere per gustare certe chiosature ermetiche e del tutto inutili. Gran parte dei lettori come me non sa chi è l’uomo di Alcatraz... e nemmeno quello di Filadelfia, non va a consultare enciclopedie, ma si domanda schietto schietto: “Ma che vorrà dire?” e passa oltre. A proposito del convegno “fraterno” del 16 marzo, non sarebbe stato utile mettere nel settimanale un ampio resoconto di cronaca? In fondo sono problemi che interessano tutta la Chiesa locale. D’altra parte una delle ragioni di vita del settimanale diocesano è quella di essere strumento di informazione sui problemi della Chiesa locale. Ero presente alla riunione, ho sentito l’intervento del giovane sacerdote – l’unico valido – ho assistito ai voli comunitari, incandescenti di don Tozzi e agli elogi dell’arcivescovo. Mi permetta due citazioni e poi tirerò conclusioni rapide che avrei dovuto dire in quella circostanza. “… E poi c’è un’altra cosa che ci fa bene e ci rende adulti, anche se amara per parecchi: è suonata con più forza l’ora della verità. E per tutti. Non possiamo nasconderci dietro paraventi delle idee preconcette, delle leggi fatte, dell’ordine costituito, delle tradizioni venerande. Tutto è rimesso in questione, ripensato, giudicato alla luce di una nuova presa di coscienza e di una fede adulta. In tal modo pane è il pane e dev’essere dato a tutti; il papa

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è il papa e non Dio in terra... la fede è la fede e non sentimento o ragione; il bene comune è il bene comune e non l’interesse di pochi; l’obbedienza non prepotere di autorità o menefreghismo dei sudditi, la Chiesa è la Chiesa non un gruppo d’intoccabili” (Carlo Carretto, “Il Dio che viene”). È più difficile cogliere anche schematicamente, il senso dei principali avvenimenti che hanno caratterizzato la vita della Chiesa italiana nel 1971. Sembra tuttavia che si possa parlare di un atteggiamento di sfiducia delle autorità nei confronti dei movimenti e delle comunità di base (La Chiesa nel mondo, n. 6 del 9 febbraio 1971). A mio giudizio nella nostra Chiesa locale si riflettono certi fenomeni di restaurazione. Ed è preoccupante. La comunione fraterna non può essere sotto un’unica specie: clericale e curiale. Ci deve essere comunione anche con l’altra specie: i laici che vengono tenuti fuori perché immaturi e dispersivi. Don Tozzi in quella occasione espresse il timore di una radicalizzazione di un clericalismo di preti. Ma non si è domandato se la sua curia rinnovata è tipica di clericalismo più pericoloso perché imborghesito. E non è questione di rappresentatività o meno. Il problema è come la rappresentatività viene espressa ed esercitata, con la scusa che i laici non sono maturi, perché non si fanno guidare ciecamente, e i preti della periferia non sono docili, si continua a relegare la Chiesa – popolo di Dio – in un infantilismo che diviene sempre più paurosamente deleterio. Mi scusi se sono inopportuno. Non ho pretese. Mi basterebbe essere un sassolino in uno stagno artificiale. DonVittorioGili» 169.

Risponde l’arcivescovo:

«Caro direttore, la ringrazio della delicatezza di avermi fatto conoscere subito il contenuto della lettera aperta di don Vittorio. Assicuri senz’altro il buon confratello che purtroppo il maldestro estensore del “Bollettino”, sono io e che cercherò di essere più chiaro e non riporterò mai più elogi riguardanti i miei libretti e tanto meno me, se per sbaglio capitasse. Per il resto con don Vittorio siamo già d’accordo sul fatto... di non essere sempre d’accordo. Ma vogliamo ugualmente essere buoni amici. Grazie. ✠ Bruno Frattegiani» 170.

•L’arcivescovoeABC

«“Sarà perché se lo sono passato per la circostanza – ci dice l’arcivescovo fra il divertito e il seccato –, ma parrebbe che sono molti a nutricarsene di questo famigerato ABC. Ho ricevuto telefonate da Milano ed epistole da Torino!” “Beh, lei capisce – replichiamo – non è una cosa di tutti i giorni il nome di un vescovo affiancato a una figurazione di Eva prima della

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foglia di fico!”. “Avete ragione. Ci sono cascato. L’intervistatore, un bravo professore cattolico anche se di impostazione socialista, presentatomi da una nota personalità ecclesiastica di Ascoli Piceno, mi disse solo in ritardo della scelta tutt’altro che felice. Strabuzzai gli occhi. Ma lui – e doveva esserne convinto – mi assicurò che un proclama solenne dal nuovo direttore garantiva un netto cambiamento di rotta. Mi è stato detto poi che nel primo numero di sua firma Ruggero Orlando diceva tutto il contrario. Si vede che il cambiamento di rotta era stata una trovata di Noschese (si sa che Orlando è il suo capolavoro di imitazione). Comunque avete ragione. Non è la prima volta che rimango scottato. Adesso però gli articoli – se ci ho tempo – anche per il diavolo, ma interviste mai più. Va bene così?” “Grazie – concludiamo – e ci perdoni l’intervista”» 171.

Con forza e parole dure e senza appello condanna, invece, gli autori di lettere anonime. Ecco tre esempi.

«1. “Con devozione si fa presente a sua Eminenza (sic) che nella parrocchia di Serravalle di Chienti si sta procedendo alla vendita di un appezzamento di terreno, località Fonte delle Mattinate, di proprietà della chiesa. La cittadinanza profondamente indignata reclama. Firmato: la cittadinanza”. A parte il fatto che le parrocchie di Serravalle sono parecchie, a parte il fatto che la località indicata per il corpo del reato non è in diocesi di Camerino, le lettere anonime sono sempre una cosa stupida e ignobile. Stupida: infatti, se l’arcivescovo volesse rispondere, a chi risponde? Ignobile perché si mette di mezzo una popolazione buona e distinta, nel caso quella di Serravalle (la quale sa benissimo che con l’arcivescovo si può parlare come a un padre e ad un amico) per coprire la propria mancanza di coraggio. C’è da deplorare l’uso non raro di questo mezzo che diventa ignominioso e gravemente peccaminoso quando è usato per calunniare il prossimo. Se chi si vuol colpire è un sacerdote il peccato riveste il carattere di sacrilegio» 172.

«2. “Contro la mia correttezza devo scrivere senza firmare: ho paura della rappresaglia clericale poco cristiana”. Così comincia una abominevole lettera anonima (molto più vile, se è lecito un paragone di attualità, della odiosa marcia su Praga) la quale investe il clero di un’intera zona. Il miserabile autore dice di scrivere “per il bene della diocesi, ed è sicuro” che Dio perdonerà l’anonimato. Una simile confidenza con Dio e con le cose sante aiuta a capire la genesi di certo ateismo e di certo anticlericalismo. Il peccato di calunnia per lettera anonima deve considerarsi tra i più vili e inqualificabili. Grazie a Dio, l’arcivescovo non deve denunziare che pochissimi casi, che è suo dovere primordiale di tenere in nessun conto. In

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passato le cose dovevano andare peggio se è vero che qui, come in molte diocesi d’Italia, tale tipo di calunnia era bollato e trattato come peccato riservato. Del resto essere cristiani non c’entra. Basterebbe essere uomini con un minimo di dignità» 173.

«3. Calunniatore coraggioso. «Rara, grazie a Dio, è nella nostra diocesi la pratica ignominiosa delle lettere anonime (peccato gravissimo che non si può rimettere se prima non si è riparato). Un recente “bravo” (ma con questo appellativo chi ci rimette sono i bravi di Don Rodrigo!) ha terminato così la sua “coraggiosa” lettera all’arcivescovo: “Lei è responsabile delle sue pecore come io sono responsabile delle mie accuse”. Un’altra perla: “Finora quando continuate a dire che sono calunniatori quelli che si ribellano (?) alla corruzione e allo scandalo?”. E dire che il piglio ciceroniano (quousque tandem) e l’ottima calligrafia in stampatello fanno supporre una persona quasi colta! Oh, se potesse leggerci e vergognarsi!» 174.

•Lapoliticaelagerarchia

Domanda a mons. Frattegiani sul mensile “Rocca”:

«Da quando la Democrazia cristiana sta al potere, abbiamo una serie di scandali, nei quali governo e uomini politici sono più o meno impegnati. Basta leggere il recente libro “I controlli del potere” (Vallecchi, Firenze 1967), soprattutto da pag. 41 a pag. 58, per restare piuttosto scandalizzati. Quello che fa più scandalo è la solidarietà dei vari partiti per negare l’autorizzazione a procedere, anche per reati comuni. Naturalmente la risposta, già pronta, è che la gerarchia non è la stessa cosa del partito democratico. Verissimo; ma è anche vero che quei deputati, senatori e ministri che hanno commesso quei reati, godono della inviolabilità perché sono stati eletti con voti consigliati – per non dire imposti – dalla gerarchia. La gerarchia, ossia i vescovi, perché non li hanno sconfessati? Tacendo, si sono fatti complici. E se nelle prossime elezioni li appoggeranno cosa dovremmo pensare del rinnovamento della gerarchia in Italia dopo il Concilio? Sarei curioso di leggere sulla “Rocca” una risposta a questo quesito. Paolo Mingazzini, Roma».

Risposta di mons. Frattegiani su “Rocca” – Domanda e risposta riportate anche ne L’Appennino camerte:

«Veramente non ho capito bene se l’interrogante fa una domanda o propone una sfida. Soprattutto per l’ipotesi di una sfida, sarebbe sommamente importante sapere quali sono le tendenze politiche del sig. Mingazzini,

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al quale in ogni caso esprimo la mia cordialità invitandolo – se lo ritiene opportuno – a continuare il dialogo a tu per tu. Però gli dico subito una cosa: se le sue simpatie fossero per una estrema destra o per una estrema sinistra (non facciamo i nomi dei partiti per non buttare la cosa in politica!) per quanto personalmente io sia come lui per una neutralità dell’episcopato, in linea di principio giudicherei saggio e responsabile un intervento inteso a scongiurare i cattolici a non votare in quelle due direzioni. Il rischio di fabbricare un’Italia di tipo Oltrecortina e quello di rifare un’Italia rivendicante l’impero sui colli fatali sono due rischi assolutamente equivalenti. II cristianesimo autentico è compromesso da una parte e dall’altra anche se una parte nega Dio e l’altra va magari a portare il baldacchino nelle processioni. E da una parte e dall’altra si finisce per prendere la strada di Caino. Basti pensare a due nomi sufficientemente rappresentativi, tanto diversi e tanto vicini: Stalin e Hitler. Oserei però, sperare a conforto dell’interrogante, che un simile passo non sia necessario da parte dell’episcopato. Dalle prime grandi elezioni per la costituente e per la repubblica alle prossime elezioni politiche i neonati hanno fatto in tempo a diventare maggiorenni. Come non dovrebbe esserlo diventata la Democrazia cristiana? Come non dovrebbe esserlo diventato il suo elettorato? Il laicato cattolico deve avere imparato a fare da sé e questo vale tanto per i candidati quanto per gli elettori. Perché attaccarsi alle nostre tonache (anche il clergyman parla d’aria nuova), perché puntare sui nostri conventi, perché tentare di ridurci al rango di clienti? Intendiamoci bene: è assai probabile che i miei sacerdoti, i miei conventi e io votiamo scudo crociato... Voteremo scudo crociato, perché da cattolici maggiorenni percepiamo con chiarezza un fatto: tutto sommato, sommati pure i difetti non sempre leggeri del partito di maggioranza, non esiste un’altra strada per mantenere un equilibrio stabile e dinamico e stornare l’Italia dalle seduzioni facili di un fronte popolare (possibile con i numeri) o di un fronte nazionale (assurdo con i numeri ma non impossibile con la sopraffazione che poi vorrebbe dire rivoluzione). Gli italiani questo ragionamento possono farlo tutti e ciò dovrebbe bastare a farli desistere da soluzioni estreme (naturalmente non parlo di quelli che vi sono direttamente interessati). Se non sono cattolici (per essere cattolici non basta l’anagrafe), hanno di che scegliere fra i partiti sinceramente democratici. Se sono cattolici consapevoli, soprattutto se la linea di demarcazione dovesse attestarsi sul terreno del divorzio, non dovrebbero esitare (tutto sommato!) a votare come noi. Vorrei quindi sperare, ripeto, che non ci sia bisogno di un intervento che senza dubbio (il sig. Mingazzini ha ragione) comporta una gravissima responsabilità. Soprattutto per via degli uomini. E qui vorrei scongiurare tutti i confratelli d’Italia, tutte le parrocchie e tutti i conventi di Italia a non farsi clienti di nessuno. Se la povertà ci spinge a chiedere (perché la povertà, grazie a Dio, non ci manca) ci diano quello che possono darci nel rispetto

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delle leggi, ma non pretendano di comprare i nostri voti.Quanto agli scandali, senza dire del malvezzo d’uno scandalismo incivile tipico di certa stampa e di certa propaganda politica, non capisco come possa esservi coinvolta la gerarchia, dal momento che è stata costretta a optare per la Democrazia cristiana a causa della colorazione ideologica niente affatto cristiana della maggior parte degli altri movimenti politici importanti. Laburisti e tories, democratici e repubblicani, non pongono alla gerarchia inglese e americana simili problemi. Ma gli scandali restano di chi li provoca, tanto in America quanto in Europa. Sconfessarli? Chi può farlo senza le prove? Ci documentiamo con i giornali? C’è un punto sul quale penso che potremmo metterci d’accordo col sig. Mingazzini: chiedere al parlamento (magari per iniziativa della Democrazia cristiana... maggiorenne) la promulgazione di due leggi. La prima dovrebbe essere per l’avvicendamento democratico delle candidature d’ogni tipo (lo scandalo più avvertito è “la corsa alla greppia” tipica di tutti i settori). La seconda dovrebbe portare a una duttilità maggiore della immunità parlamentare, nell’interesse della giustizia e della verità. ✠ Bruno Frattegiani» 175.

•Ilsamaritanocomunista

«Ci è stato fatto notare con molta delicatezza come la spericolata esegesi della parabola del buon samaritano apparsa nella controrisposta dell’arcivescovo a dom Franzoni avrebbe lasciato un certo disappunto in qualche anima buona. Il quadrantista si è azzardato a dirlo all’arcivescovo, il quale non ha avuto difficoltà di ammettere che i passaggi, in quel punto della lettera, andavano sfumati un po’ meglio. Così per esempio: il materialismo marxista è di per sé la negazione della concezione cristiana; ciò però non toglie che qualche marxista (e perché no molti marxisti?) possa essere un brav’uomo e dar dei punti a tanti cristiani.Se avessimo attuato il nostro cristianesimo, se lo attuassimo ogni giorno, non ci sarebbe stato bisogno del marxismo. Ricordate la parabola di Gesù: mentre gli uomini dormivano (e si tratta dei servi del Padrone unico) venne il nemico e seminò zizzania (Matteo 13, 25). Poiché zizzania è, e malefica, specialmente quando viene seminata dai preti. A questo punto andavano collocati gli esempi… dirompenti, perugino il primo e settempedano il secondo; è stato infatti ricordato che l’arcivescovo lo tradusse in quel modo a Sanseverino al monte e fu proprio per inculcare ai ragazzi della cresima che il cristianesimo impegna e dobbiamo guardarci bene dal farci sorpassare da chi – almeno in linea di principio – cristiano non è. È certissima del resto l’intenzione che dimostra Gesù di “scioccare” i suoi uditori (il brutto barbarismo può essere benissimo sostituito da “scandalizzare”) per portarli a uno sconvolgente esame di coscienza; non conta nulla la tua pratica,

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anzi nemmeno la tua posizione privilegiata di ministro del culto, se non metti il prossimo al primo posto. Puoi essere un sacerdote, o un levita del tempio, ma se non senti la preminenza dell’amore sul sacrificio (Mt 2,7) come citazione di Osea (6,6) tu conti zero di fronte all’eretico disprezzato samaritano che nell’amore compie la legge e trova la compiacenza di Dio. Perciò la versione settempedana (un vescovo, un dc, e un comunista) è un po’ più a tono che non quella perugina più pericolosa… per l’elettorato (un prete, un dc, e un comunista). Non dubito – soggiunge l’arcivescovo – che detta oggi, la parabola difficilmente potrebbe suonare in modo diverso. Quanto al vescovo, al prete e al cristiano uditore della parola, essi hanno semplicemente il dovere di adeguarsi. L’arcivescovo conclude confidandoci la gioia che ha provato quando si è vista testimoniata la gratitudine dei familiari per un discorso di congedo tenuto in occasione della morte di una nota personalità di Camerino appartenente al partito comunista, che pure mai aveva rotto con la fede. Poi soggiunge, mentre stiamo andandocene: un momento! Voglio farvi sentire le ultime parole che mi pare facciano molto bene al caso. Qualcuno ha avuto da ridire, ma vi confesso che casco dalle nuvole ogni volta che ci ripenso. Ecco qua. Dicevo di un nostro incontro: «accetto dei libri… sullo stato attuale degli studi biblici». Ma capimmo di avere della Bibbia il nucleo essenziale: il rispetto reciproco che del resto sgorgava dalla fede comune nel Dio che ama e che salva e il rispetto per chi non la pensa come noi (oggi aggiungerei: salvo i preti che prima hanno il dovere di uscire!) in cui non dobbiamo vedere il nemico e nemmeno un obiettivo di conquista, ma un fratello a cui far luce anche quando il nostro lucignolo – come dice Gesù – è fumigante. Ma è lui che è venuto ad accenderlo. Nella messa dei defunti non c’è il Credo. Vogliamo fare ugualmente un atto di fede, il solo che possa redimerci dalla nostra infedeltà? Eccolo: io credo che il nostro amico vive e si è incontrato con la bontà di Dio» 176.

A volte l’arcivescovo esprime liberamente le sue osservazioni o riserve e i suoi commenti sulla Chiesa universale, specie sui problemi posti dal Concilio Vaticano II, prendendo così posizione sulla vita sociale e politica. In tal caso i suoi articoli sono puntuali, documentati, a volte signorilmente ironici o fortemente polemici. Sono state altrove ricordate la forte polemica sulla Sacra Rota con l’on. Fortuna, le sue decise e puntuali posizioni sul divorzio e sull’aborto a difesa del vescovo di Prato mons. Fiordelli e del card. Benelli, la chiara posizione a favore dell’obiezione di coscienza del giovane Fabrizio Fabrini, gli atteggiamenti pieni di comprensione umana e chiarezza dottrinale ed ecclesiale sul caso dell’Isolotto di Firenze, la decisa difesa di don Milani per la “Lettera ai cappellani militari”. A questa lettera

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lo stesso don Milani dette grande importanza sia di fronte alla scuola che al popolo, e così scrive:

«Caro monsignore, nello scrivermi quel biglietto lei intendeva farmi piacere, ma certo non poteva immaginare che fame io avessi di un biglietto così e d’ogni altra manifestazione di solidarietà cattolica. I ragazzi vedono arrivare montagne di solidarietà atea, laica, protestante, anarchica, comunista e rare lettere di sacerdoti. Se questo rappresentasse la realtà non avrei nulla da ridire. Per brutta che sia voglio che la conoscano. Ma io resto con la certezza che esistano centinaia di preti che consentono con la nostra lettera e non lo manifestano solo perché non sono abituati a farlo, eppure il loro consenso è molto più completo e profondo di quello di tanti laicisti che scrivono. Così il campione del mondo che si presenta agli occhi dei miei ragazzi non è ben rappresentativo della realtà profonda. Pensi dunque quanto mi ha fatto piacere il suo biglietto, che è molto più di quanto non osassi sperare. Grazie di cuore da me e dai ragazzi. Con affetto filiale. Suo Lorenzo Milani, Barbiana 15.11.1965» 177.

È riportata in appendice la polemica sollevata dal discorso tenuto da dom Giovanni Franzoni nell’Università di Camerino, che ebbe grande risonanza nella stampa nazionale.

fondazione “don iGino cicconi”

Il sacerdote don Igino Cicconi dispone per testamento che “l’attività (attivo e passivo) della libreria ecclesiastica di sua proprietà dovrà

essere controllata una volta l’anno dai parroci di Castelraimondo, di Pioraco e di Muccia e che l’eventuale ricavato della gestione dovrà essere destinato dall’arcivescovo a favore delle opere diocesane”. L’arcivescovo in un apposito registro tiene personalmente puntuale e precisa trascrizione delle somme ricavate e la relativa distribuzione a singole specifiche attività. Quando poi lancia attraverso L’Appennino camerte la richiesta di un’offerta per una canna d’organo per la ristrutturazione dell’organo della cattedrale, stabilisce che una somma di danaro ricavata dalla libreria ecclesiastica venga devoluta per tale scopo, e a realizzazione compiuta fa apporre una targa alla memoria di don Igino, la cui carità sacerdotale ha permesso di metter mano all’opera tutt’altro che facile nelle previsioni iniziali. Contemporaneamente dà vita a una fondazione ecclesiastica con vero e proprio consiglio di amministrazione sotto la presidenza del direttore dell’ufficio amministrativo

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diocesano, e nomina mons. Ferruccio Loreti, don Giuseppe Tozzi e don Ferdinando Cappelletti consulenti bibliografici della libreria. Essi agiranno d’accordo col direttore e dovranno interpellare anche il delegato arcivescovile di Azione cattolica e il direttore dell’ufficio catechistico per la composizione di eventuali disparità di vedute. La fondazione verrà estinta al momento della fusione delle libreria ecclesiastica con la libreria “Loggia di Sisto V”, sorta successivamente 178.

Libreria “LoGGia di sisTo v”

Il 16 marzo 1970 mons. Frattegiani inaugura ufficialmente la libreria “Loggia di Sisto V”. L’iniziativa scaturisce da un colloquio del rettore

dell’Università prof. Pietro Perlingeri con l’arcivescovo, in cui il primo lamenta la mancanza in una città universitaria di una vera libreria. In realtà esistono già due piccole librerie in cui si vendono solo testi universitari e scolastici e – afferma mons. Bittarelli – un semi clandestino “Banco Ave”... che rifornisce alle associazioni cattoliche i testi organizzativi. Mons. Frattegiani, superando le perplessità e l’opposizione aperta di alcuni ambienti curiali (un tale afferma che si tratta di un’autentica follia perché non riuscirà a vendere più di 10/15 libri l’anno) ordina che si elabori un programma articolato per l’apertura di una vera libreria, cui pensa subito di destinare ampi spazi a piano terra del palazzo arcivescovile fine ad allora inutilizzati. Il progetto, messo presto ad esecuzione, produce una libreria spaziosa con scaffali capacissimi, una sala per mostre d’arte e un salone per conferenze. Il prof. Pier Luigi Falaschi, allora presidente di Azione cattolica e tra i maggiori sostenitori della libreria, propone il nome “Loggia di Sisto V”. L’istituzione si rivela una casa del libro elegante e moderna. Il programma viene così sintetizzato ne L’Appennino camerte del 18 aprile 1970:

«La libreria nasce dalla convinzione radicata che solo il torpore intellettuale, la mancanza di informazioni e di aggiornamento, l’assenza dialettica, rendono un pessimo servizio alla verità, ai valori morali, alla cultura. Per realizzare meglio il servizio di aggiornamento bibliografico e culturale la libreria aspira a divenire punto di riferimento e luogo abituale di incontro di tutti coloro che amano la lettura e sono sensibili ai valori culturali» 179.

Poco dopo la “Loggia” vara un proprio centro culturale intitolato a mons. Federico Sargolini. Nel salone al piano superiore vengono organizzate

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periodicamente conferenze e presentazioni di libro.

«È nostra aspirazione – scrive il prof. Luigi Marchegiani, responsabile del centro – promuovere incontri culturali di vario tipo: dalla presentazione di novità libraria, a conferenze su problemi di attualità, a mostre pittoriche di artisti locali...» 180.

La libreria acquisisce in breve la rappresentanza delle maggiori case editrici e riesce ad appagare le richieste di acquisto di tanti cittadini. Molte sono le presentazioni di libri: chi non ricorda le tante polemiche che seguirono il volume dei coniugi Sampaolo di Roma, oriundi di Matelica. Si è negli anni Settanta e gli “illuminati” di base pensano, contro quanto s’afferma nel libro sulla base di esperienze, che si debba dare la massima, assoluta libertà ai figli. Oppure la conferenza di p. Ortensio da Spinetoli sul peccato originale, che procura tanto disorientamento tra i cattolici nostrani? A tutte queste manifestazioni è sempre presente con il suo illuminato giudizio mons. Frattegiani, che sa dare risposte esaurienti e precise a tante domande. Così si protrae a lungo l’esistenza florida della libreria voluta dalla preveggenza e la fermezza di mons. Frattegiani 181.

radio c1

Nella “tre giorni” diocesana del 25-27 agosto 1976 su “Evangelizzazione e promozione umana”, il maestro mons. Cesare Pagani, arcivescovo

di Perugia, insiste molto sulla necessità per i cristiani di essere presenti nella società assumendo direttamente i problemi concreti della promozione umana: ciò significa per i cristiani assumere la responsabilità di giudicare le situazioni secondo i principi della fede e di manifestare pubblicamente i giudizi. Per questi motivi molta importanza è riconosciuta ai mezzi della comunicazione sociale. Il gruppo di studio “Evangelizzazione umana e mezzi della comunicazione sociale”, dopo aver analizzato e discusso il documento base e aver esaminato criticamente la realtà diocesana, formula le seguenti proposte: 1. Bollettino diocesano: passare da semplice strumento giuridico a strumento di studio e di lavoro; aggiungere agli argomenti tradizionali, scritti di teologia, pastorale, pedagogia, sociologia, inchieste...; 2. L’Appennino camerte: rimanga, così com’è, strumento fondamentale per la evangelizzazione e promozione umana; per questo sarà opportuno

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curare una precisa e agile presentazione della Parola. 3. Radio diocesana: costituzione di un centro radio con notevoli possibilità di penetrazione, soprattutto dando spazio ai giovani e investendo la comunità locale con servizi di cronaca e su problemi umani e religiosi 182. L’idea di fondare una radio

diocesana trova molto interesse soprattutto tra i giovani, ma ci si scontra subito con la spesa preventivata, ritenuta troppo alta per le possibilità della diocesi. Nondimeno, con tenacia e con l’apporto di esperti in radiofonia come il dott. Giuseppe Nobili, l’ing. Mario Pesciotti, il tecnico Lucio Amici, si dà inizio, coll’avallo fiducioso dell’arcivescovo, alla nuova radio diocesana denominata Radio Camerino Uno (RC 1) e varata nel settembre 1977. All’inizio l’area di ascolto è limitata alla zona di Camerino, Castelraimondo, Muccia, Fabriano, Sanseverino. Il successo è subito notevole: le trasmissioni sono molto ascoltate, i notiziari sono subito apprezzati; i collaboratori attivi sono circa cinquanta, per la maggior parte giovani entusiasti: si è creata una vera comunità. Sarebbe meritevole ricordare qui nominalmente i numerosi, coraggiosi e brillanti conduttori della prima ora di Radio C1, ma non è possibile in questo contesto. All’attività di Radio C1 danno apporto determinante don Luigi Cardarelli con i suoi servizi giornalistici molto seguiti, don Albino Cardarelli, con brillanti poetici intrattenimenti e riflessioni, e in seguito don Raimondo Monti con i pensieri religiosi; don Egidio De Luca cura con successo il settore della pubblicità. Dopo alcuni

Inaugurazione dei locali di “Radio C1” (1977)

Porticato del Palazzo arcivescovile,inaugurazione dei locali di “Radio C1” (1977)

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anni di attività, anche a seguito di un fallito tentativo di incendio doloso, viene avvertita l’urgenza di una ristrutturazione della sede, rivelatasi poco adeguata e sicura, e soprattutto si sente il bisogno di regolare con un contratto rispettoso della legge il lavoro dei conduttori di trasmissioni, che fino allora avevano usufruito della legge sull’apprendistato. Per questi motivi, su suggerimento del consigliere regionale avv. Gianfranco Formica, i collaboratori si costituiscono in cooperativa “Young coop”, con l’apporto particolare di Carlo Goretti e Alberto Casoni. Membri di movimenti cattolici, sollecitati da alcuni sacerdoti, esigono che la radio abbia un’impostazione strettamente religiosa. Mons. Frattegiani, dopo aver consultato alcuni vescovi delle Marche e alcuni esperti nazionali, conferma la sua fiducia alla conduzione di Radio C1 che così può continuare il suo lavoro, sempre più apprezzato anche in ambito regionale. L’erezione di una nuova antenna sulla sommità di Monte d’Aria, in terreno allora di proprietà della parrocchia di San Clemente in Serrapetrona, ora dell’Istituto diocesano sostentamento clero 183, consente di servire l’intera regione e oltre.

La fondazione opere di reLiGione arcidiocesi caMerino (o.r.a.c.)

Alla fine degli anni ’70 gli amministratori dei vari enti diocesani si trovano in grandi difficoltà al momento della dichiarazione dei redditi.

Gli enti ecclesiastici, infatti, dipendenti dalla diocesi non hanno una propria personalità giuridica né l’ha la diocesi a cui appartengono. Né possono allora averla automaticamente per qualche disposizione legislativa. Conseguenza di questa situazione è che i direttori dei vari enti si vedono costretti a sommare ai redditi personali quelli degli enti ecclesiastici di cui sono responsabili come se ne fossero proprietari. Di qui il grave inconveniente per i direttori di un aumento spropositato delle tasse e per la diocesi l’allentamento progressivo della proprietà. A questo punto l’arcivescovo Frattegiani decide di creare una fondazione di culto e religione, alla quale il presidente della repubblica, con decreto del 21 giugno 1980, concede il riconoscimento della personalità giuridica. Il provvedimento, che approva anche il relativo statuto, è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 26 agosto 1980, diventando così operativo. Per questo provvedimento L’Appennino camerte, la Loggia di Sisto V e Radio C1 vengono ad appartenere alla fondazione diocesana. Più tardi saranno uniti alla fondazione anche il collegio universitario di via

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Ugo Betti e quello di via Bongiovanni. La fondazione nel suo regolamento interno prevede l’autonomia gestionale e amministrativa dell’attività propria di ogni singolo ente. In caso di necessità temporanea di denaro un ente può attingere da un altro in attivo, con l’impegno di restituire il dovuto appena possibile. Così ogni amministratore è responsabile della sua gestione. Al termine dell’esercizio finanziario, tutti i bilanci sono riuniti, mantenendo distinte le varie attività, per confluire nell’unico bilancio dell’O.R.A.C. Una personalità ecclesiale così commenta: «Tale fondazione costituì un vero atto di coraggio e un’iniziativa d’avanguardia; altre diocesi marchigiane si sono ispirate all’O.R.A.C. per programmare il loro futuro economico...» 184.

La fondazione Maria sofia GiusTiniani bandini

(Ma.so.Gi.ba.)

Il 30 aprile 1977 muore a Roma la principessa MariaSofiaGiustinianiBandini, vedova Gravina, che con testamento olografo pubblicato in

Roma dal notaio Tito Staderini in data 12 maggio 1977 dispone vari legati, tra i quali uno a favore dell’arcivescovo di Camerino:

«Lascio e lego la cara Rocca di Lanciano, dove ho trascorso con il mio amato consorte i giorni più felici della mia vita, con tutta la proprietà rustica e immobiliare annessa, all’arcivescovo di Camerino, per farne un’oasi di raccoglimento e di studio per i sacerdoti e giovani studenti e laureati, e un pensionato per gli anziani sacerdoti secolari anche di altre diocesi... Questa oasi di convegni spirituali e di studio secondo le attuali esigenze e di riposo in Dio unirà le memoria della mia famiglia con la tomba del mio sempre rimpianto consorte Manfredi, dove con lui desidero essere sepolta fino alla resurrezione in Cristo. Quindi confido che i sacerdoti addetti e beneficati, suffraghino con le loro preghiere noi e i nostri estinti e abbiano cura della nostra tomba... Desidero che il mobilio della Rocca di Lanciano rimanga com’è con i ritratti di famiglia degli antenati Bandini all’opera di studio e di meditazione e riposo alla quale sarà dedicata la suddetta oasi. Desidero essere deposta con la massima semplicità di rito e di accompagno nella tomba del bosco di Lanciano accanto al mio impareggiabile e indimenticabile consorte Manfredi che voleva “essermi vicino in eterno”. Alla sua lapide vanno aggiunte con i medesimi caratteri le seguenti parole: “Secondo la volontà divina lo raggiunse la fedele consorte e compagna Maria Sofia Giustiniani Bandini, nata a Roma il 4 maggio 1889 e morta... Scenda su di noi o Signore la tua misericordia, poiché abbiamo sperato in te”» 185.

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C’è esitazione da parte di mons. Frattegiani ad accettare il lascito, poiché teme di arricchire (almeno nel giudizio della gente) una diocesi veramente povera. Supera tale incertezza perché di fatto alla diocesi non viene niente, ma si chiede ad essa solo un servizio. Il 16 settembre 1977 l’arcivescovo presenta al Presidente della repubblica un’istanza intesa ad accettare il legato disposto dalla contessa. Con decreto presidenziale dell’11 giugno 1979 il legale rappresentante della mensa arcivescovile di Camerino viene autorizzato ad accettare il legato “gravato di determinati oneri di culto”; “l’ente onerato destinerà i beni ereditati per istituire un’oasi di raccoglimento e di studio per sacerdoti e giovani studenti laureati e un pensionato per gli anziani sacerdoti secolari in conformità alla volontà della testatrice...”. Il 29 settembre 1979 mons. Frattegiani accetta davanti al notaio Paloni di Matelica il legato, obbligandosi di dare esecuzione all’onere impostogli. Il 26 ottobre 1979 viene operata regolare trascrizione alla conservatoria dei registri immobiliari. In data 6 novembre 1981 l’arcivescovo, atteso che il patrimonio del legato Maria Sofia Giustiniani Bandini non può far parte della dotazione della mensa arcivescovile, avendo una destinazione particolare, decreta l’istituzione canonica della fondazione di religione e di culto Maria Sofia Giustiniani Bandini (MA.SO.GI.BA.), con sede in Camerino, in piazza Cavour n. 12, e con il patrimonio formato dai beni pervenuti alla mensa arcivescovile dal lascito della nobildonna. Con decreto presidenziale del 3 giugno 1982 viene riconosciuta la personalità giuridica della fondazione 186.

A proposito del legato della contessa Bandini si registra una lettera di “Cristianiperilsocialismo”:

«Abbiamo letto sui giornali di questi giorni del tentato furto di un cancelliere prima e di altri poi, presso il castello di Lanciano, eredità lasciata all’arcivescovo di Camerino. Ci ha veramente sorpreso il fatto che un arcivescovo così buono e mite abbia a difendere negli ultimi anni della vita “il suo tesoro in terra”. Ci pensi un po’ se le conviene accettare tale eredità in un momento assai difficile della vita della Chiesa; mentre alcuni pastori si stanno spogliando dei beni temporali della Chiesa, lei invece... ci si veste. Noi “Cristiani per il socialismo” siamo intervenuti presso il vescovo di Macerata perché non avesse a costruire una chiesa spendendo oltre duecento milioni: insulto alla povertà ed uguaglianza sociale. Per il culto basta un capannone ove riunirsi... ci pensi un po’ seriamente... e sappia essere ancora da parte dei più bisognosi e non “a crescere” il potere temporale. Vuole essere questo solo un ammonimento perché si apprezzava la sua modesta persona di vescovo e il suo lavoro pastorale... Molti saluti. Sezione: “I cristiani per il

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socialismo, Macerata” (firmata a macchina e quindi non firmata)» 187.

Risposta dell’arcivescovo su L’Appennino camerte del 22.4.1978.

«Una lettera firmata “I cristiani per il socialismo” critica aspramente l’arcivescovo per aver accettato l’eredità della contessa Gravina, il castello di Lanciano. L’arcivescovo vorrebbe rispondere, ma come fare se non ha l’indirizzo? Vorrebbe ringraziare delle lodi che sarebbe lietissimo di meritare e delle esortazioni alla povertà, esortazioni che, grazie a Dio, la guida pastorale di una diocesi tanto povera hanno reso superflua. Intende peraltro chiarire (anche perché l’equivoco di una “eredità” è stato involontariamente avallato dai cronisti di Radio1) che non si tratta di eredità, ma di legato piuttosto pesante, allo stato dei mezzi a disposizione. Povero arcivescovo se si fosse trattato di eredità! Avrebbe perduto la “congrua” e avrebbe dovuto vivere delle pietre di Lanciano o dell’obolo dei cristiani per il socialismo, felicissimi di mantenere un vescovo povero e povero... vescovo. A parte gli scherzi è certo che la scorrettezza dell’anonimo non coinvolge gli amici (come si dice nel caso? amici o compagni?) di Macerata» 188.

Alcuni giorni dopo arriva all’arcivescovo la seguente lettera firmata da StefanoBenedetti a nome dei “Cristiani per il socialismo” di Macerata.

«Nessuno dei “cristiani per il socialismo” di Macerata ha scritto contestando questioni afferenti eredità o legati, oltretutto difetta di ogni documentazione; la lettera pubblicata sul n. 16 del settimanale di Camerino, ad onta della firma, non è nel modo più esplicito ed assoluto, di nostra paternità» 189.

Mons. arcivescovo convoca allora tutti i sacerdoti della diocesi nel salone del castello di Lanciano formulando la proposta, secondo le disposizioni testamentarie di istituire nello stesso castello una casa per il clero anziano. Dopo lunga discussione si conclude all’unanimità, su parere dello stesso arcivescovo, che non è possibile istituire nei locali del castello una casa per il clero anziano, sia per la stessa struttura del fortilizio, sia per la lontananza dai centri abitati, sia per il clima molto umido e freddo (è sito tra il fiume Potenza e un canale artificiale). Si comunica tale decisione agli esecutori testamentari, i quali vi convengono. Nel frattempo mons. arcivescovo, dietro forte pressione della popolazione di Camerino e di Castelraimondo e delle rispettive pubbliche amministrazioni, si vede costretto a vendere ai fratelli Antonio e Francesco Merloni circa 65 ettari del terreno del lascito per la costruzione di due

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fabbriche che avrebbero dovuto assicurare lavoro a circa cinquecento operai. Con il ricavato mons. arcivescovo decide di fare acquistare alla fondazione la villa di Esanatoglia di proprietà del seminario arcivescovile, che ha bisogno estremo di estinguere dei gravosi debiti. La villa è stata un tempo soggiorno estivo per i seminaristi, ma è divenuta ormai inabitabile: l’intenzione è ora quella di ricavarne un luogo di soggiorno e riposo per sacerdoti anziani, come già in passato era servita per cappuccini anziani e bisognosi di riposo dopo il ritorno dalle missioni, e inoltre di realizzarvi quella “oasi di studio” per sacerdoti e giovani studenti, laureati. E in realtà ad Esanatoglia saranno organizzate giornate di riposo per i sacerdoti e promossi molti convegni ed esercizi spirituali. Parte del ricavato dalla vendita ai fratelli Merloni è investita per rendere agibile il castello come sede di convegni: si rinnovano alcuni impianti tecnologici, si provvede al riscaldamento del piano nobile con energia elettrica prodotta dalla centrale del castello, si provvede a una revisione dei tetti e i locali sottostanti l’abitazione del custode, adibiti fino ad allora a stalle, vengono destinati a bar, ristorante, cucina, servizi igienici. È infine rammodernata e attivata la vecchia centrale elettrica, è asfaltato il viale d’ingresso, sono messi a dimora molti alberi e vengono sistemati alcuni prati. Desiderio principale del presule, oltre quello di destinare i suggestivi ambienti del castello a convegni, congressi, incontri culturali, è di consentire la visita dei medesimi alla popolazione che non ha mai avuto questa possibilità. Mons. Frattegiani invita poi a Lanciano tutti i vescovi delle Marche a tenervi una seduta della Conferenza al fine conoscere la bellezza del castello e le sue potenzialità per varie iniziative a carattere formativo. Alla visita segue il 24-25 settembre 1981 un importante seminario su “Le informazioni nelle Marche e le iniziative dell’area cattolica” organizzato dall’ufficio regionale per le comunicazioni sociali della conferenza episcopale marchigiana, dalle cooperative “Marche-cultura” e “Fede-cultura” nonché dalla stessa fondazione MA.SO.GI.BA. La Conferenza episcopale marchigiana sceglie Camerino per l’esito vincente dell’impostazione, a giudizio suo, de L’Appennino camerte e di Radio C1.

A un convegno a Castello di Lanciano

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Dà il via ai lavori l’arcivescovo di Ancona mons. Carlo Maccari, quale presidente della commissione della CEI e della CEM per le comunicazioni sociali; segue poi la lezione magistrale del prof. Luigi Pedrazzi, cattedratico e giornalista di Avvenire su “I cattolici e l’informazione” e poi la relazione del direttore delle comunicazioni sociali della CEI dott. Francesco Ceriotti su “I dieci anni dell’enciclica di Paolo VI Communio et progressio”. In serata seguono le comunicazioni dei direttori dei periodici di informazione delle diocesi marchigiane: L’Appennino camerte, L’azione di Fabriano, La voce misena di Fano, La voce della Vallesina di Jesi, Presenza di Ancona-Osimo, Nuovo amico di Pesaro, La voce di Urbino, La voce di Macerata, La vita picena di Ascoli, Cronache e documenti di Sassoferrato. Il giorno successivo, 25 settembre, si apre con un ampio e documentato intervento del direttore de Il giorno di Milano dott. Guglielmo Zucconi e si chiude con un’interessante tavola rotonda presieduta dal prof. Piergiorgio Grassi, docente di sociologia delle religioni nell’Università di Urbino, alla quale prendono parte gli on. Franco Foschi e Giuliano Silvestri, Domenico Compagnoni di Federcultura e Fabio Ciceroni, collaboratore del periodico marchigiano “Il Leopardi”. In precedenza sono stati affrontati anche temi riguardanti le nuove emittenti private, come Radio C1, le librerie di ispirazione cattolica, come la Loggia di Sisto V, e le sale cinematografiche gestite dalle parrocchie. Mons. Frattegiani conclude l’interessante seminario congratulandosi con organizzatori e partecipanti per l’ordinato e impegnativo lavoro svolto, soprattutto per le concrete proposte operative. Presiede poi la solenne concelebrazione con cui si conclude il convegno. Altri numerosi incontri interdiocesani a carattere pastorale si tengono negli anni nel castello, presieduti sempre da mons. arcivescovo 190. Tra i vari convegni e seminari tenuti nel castello di Lanciano grande risonanza ha quello organizzato dalla Società chimica italiana, divisione di chimica farmaceutica, e dall’Università di Camerino, dipartimento di scienze chimiche, il 2-4 settembre 1983. Maestri della “III scuola di chimica farmaceutica” sono professori di varie Università italiane tra cui Camerino, Milano, Firenze, Napoli, Bari, Padova, Pisa, Urbino, oltre a membri dell’istituto di cibernetica del Consiglio nazionale delle ricerche, di Farmitalia - Carlo Erba di Milano e Glaxo spa di Verona. Nello stesso castello di Lanciano l’Università di Camerino onora il premio Nobel per la fisica prof. Carlo Rubbia con un suntuoso banchetto tenuto nel grande salone delle feste.

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•Dueassociazioni

L’on. Franco Foschi, allora ministro del lavoro, a cui mons. arcivescovo si rivolge per consiglio e a cui affida l’incarico di dare concretezza e sviluppo alla nuova fondazione, partendo dalla disposizione testamentaria “Oasi di studio per giovani studenti e laureati secondo le attuali esigenze”, propone di dare vita a due associazioni che abbiano la possibilità di muoversi liberamente e in piena autonomia, vincolate solo per i progetti di spesa, che dovranno essere preventivamente approvati dalla fondazione. 1. L’Istituto marchigiano di studi e ricerche “La terra” che aderisce all’omonimo Istituto nazionale. L’ente “La terra” si propone di studiare il nostro territorio, dando ai giovani studiosi la possibilità di conoscerne la storia e i problemi sociali che dovranno essere affrontati e risolti. 2. Il Centro internazionale di cooperazione allo sviluppo (Cics) che si propone di far conoscere ai giovani studiosi le realtà del mondo intero, in particolare i problemi della povertà e del sottosviluppo, al fine di individuare soluzioni e strumenti concreti di aiuto. Entrambe le associazioni sono costituite l’8 ottobre 1982 presso il notaio Mario Fanti di Porto Recanati e per entrambe mons. Frattegiani propone presidente l’on. Foschi. L’Istituto marchigiano “La terra” organizza nel tempo alcuni convegni a carattere locale e nazionale: sulla “Civiltà contadina”, con il contributo della regione Marche; su “Città e territorio nella storia d’Italia”, con la partecipazione di numerosi professori di storia delle Università italiane. Sabatino Moscati cura e presiede il convegno “Le varie Marche e la regione Marche”; Onorato Bucci il convegno “Relazione tra storia dei comuni e la regione Marche”; il cardinale Pietro Palazzini presiede le giornate di studio sulla beata Battista da Varano; Flaminio Piccoli presiede il convegno “Sull’unità europea” 191. Tra i tanti seminari e convegni, organizzati dal Cics ricordiamo in particolare: 1. La conferenza di Louis Enrique Manus, segretario aggiunto della confederazione latino-americana dei lavoratori, tenuta il 28 agosto 1984 col titolo: “Bisogni e attese dei popoli latino-americani e progetti di sviluppo del governo in loro favore”. L’intervento ha grande risonanza sulla stampa italiana. 2. Un corso di formazione teorico-pratico per operatori zootecnici del Guatemala, della durata di quattro mesi, tenuto nella ex villa del seminario di Esanatoglia, si conclude con un incontro al castello di Lanciano su “Tematiche emergenti sulla cooperazione italo-centro americana: due civiltà a confronto per lo sviluppo delle problematiche agro-alimentari”. Al seminario, oltre ad esperti e docenti del corso partecipano

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Hetar Lopez, ambasciatore del Guatemala a Roma, il dott. Camillo De Falus, presidente del consiglio superiore del ministero italiano dell’agricoltura e foreste, il prof. Mario Giannella, rettore dell’Università di Camerino, l’on. Franco Foschi nella sua qualifica di presidente dell’Unione internazionale per la cooperazione allo sviluppo (Unicos). Al convegno fa seguito una mostra fotografica in collaborazione con l’Università di Camerino, allestita al piano terra del palazzo ducale, con interventi dell’ambasciatore Juan Domenico del Congo, dell’ambasciatore dell’Uruguay e del dott. Amedeo Piva, presidente della federazione organismi cattolici di volontariato. 3. Altro importante corso di formazione teorico-pratico per giovani della Nigeria si tiene ugualmente ad Esanatoglia per una durata di circa un mese, condotto da docenti universitari e tecnici del settore. Nel 1986 il Cics assume un nuovo ruolo: il ministero degli affari esteri affida al centro il progetto Tana-Beles per la gestione di un grande ospedale in Etiopia. Alla fondazione viene chiesto di collaborare rilasciando fideiussioni che sono concesse con l’approvazione di tutti i consigli economici previsti per diritto: MA.SO.GI.BA., enti diocesani, collegio dei consultori e infine con il permesso della Congregazione del clero alle seguenti condizioni: a) fideiussioni da rilasciare al ministero degli esteri cooperazione allo sviluppo, per denaro erogato dallo stesso per la realizzazione dei progetti; b) fideiussione alle banche per ritardato pagamento da parte dello stesso ministero per denaro già speso e rendicontato dal Cics e rendiconto approvato dallo stesso ministero. Queste le motivazioni espresse dalla Congregazione del clero nel concedere autorizzazione alle fideiussioni alla MA.SO.GI.BA.:

«Le fideiussioni concesse non sono quelle aventi a monte un’esposizione di debiti da contrarsi dal Cics per un’attività che offre a garanzia della soddisfazione dei medesimi solo un’aleatoria redditività da produzione di incerto mercato, bensì quelle garantite della certezza di crediti già determinati (quindi non senza limiti di somma) e in via di liquidazione da parte del ministero degli affari esteri per l’affidamento al Cics da parte di quest’ultimo di altrettanti progetti intervenuti a favore del Terzo mondo e pertanto necessarie a garantire per i burocratici ritardi di incasso dei menzionati crediti da parte del ministero le eventuali anticipazioni bancarie esistenti e mai superiori all’importo dei crediti medesimi e di sicura copertura» (lettera a mons. Gioia a firma del card. Ennio Innocenti del 7 maggio 1991).

Mons. Frattegiani è sempre molto preciso ed esigente in tutti i problemi di denaro e pertanto chiede che la fondazione proponga al ministero degli interni un cambiamento dello statuto del Cics per dare a questo maggiore

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autonomia e alla fondazione nessuna responsabilità economica. Così l’11 luglio 1987, con atto del notaio Sciapichetti Benedetto, viene sancita l’autonomia del Cics dalla MA.SO.GI.BA. e successivamente viene meglio precisata il 18 dicembre 1989 con rogito del notaio dott. Piergiorgio Mogetta. Al grande programma di intervento sanitario e nutrizionale nel distretto del Beles (Etiopia), dove il Cics svolge la sua attività nell’ospedale distrettuale e nei quarantotto villaggi del circondario provvedendo all’assistenza nutrizionale di circa 100.000 persone reinserite nell’area e provenienti da altre zone dell’Etiopia, segue il programma per il supporto della produzione, l’assistenza tecnica e la formazione alla cooperativa costituita per il settore della pesca nella costa nord-orientale del lago Victoria (Uganda).Seguono inoltre: 1. Il programma per migliorare l’inserimento degli ospedali italiani nel sistema sanitario argentino: l’ospedale di Buenos Aires, Santa Fé, Cordoba, Mendoza, Tandil, Bahia Blanca, la Plata e Rosario. 2. Il progetto sanitario per gli ustionati vittime di guerra nella provincia di Luanda (Angola). 3. Due progetti promossi dal Cics su proposta e partecipazione della fondazione MA.SO.GI.BA.: a) sistema idrico dell’insediamento “Pueblo Joven 7 de octobre” (Lima-Perù). L’intervento serve a migliorare in modo durevole le condizioni igieniche sanitarie di 30.000 persone che da ventisette anni vivono senza acqua corrente e senza sistema fognante. L’intervento è richiesto dai nostri sacerdoti della parrocchia locale “Nuestra Señora del camino”;b) centro di promozione femminile in Addis Abeba (Etiopia). Il progetto è finalizzato allo sviluppo di attività produttive autonome da parte di gruppi di artigiane formate presso il centro di promozione femminile che opera presso l’arcidiocesi di Addis Abeba. Il centro è frequentato da circa 120 donne appartenenti alle fasce povere della popolazione cittadina; c)numerosi convegni per illustrare i progetti e i modi di realizzarli con la partecipazione di importanti personalità internazionali sono tenuti al castello di Lanciano e ad Esanatoglia. 4. Grande risonanza nazionale e internazionale ha il simposio del 26-27 settembre 1988 su “Perspectives on occupational environsental health in developing countries in relation to primary care” organizzato dal Cics con la collaborazione della “Società italiana di medicina tropicale” e dal “New York medical college”. Al simposio intervengono con relazioni il dott. Guido Bertolaso, coordinatore per il settore sanitario della direzione generale della cooperazione allo sviluppo del ministero degli esteri italiano; il prof. J. Cimino, direttore di medicina preventiva e comunitaria del “New York

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medical college”, Djedje Madi, ministro della sanità della Costa d’Avorio; il dr. Chisanga, capo ispettore del ministero della salute dello Zambia; il dr. P. Erik, del ministero della salute dell’Uganda; il dr. Awash del ministero della salute dell’Etiopia e il ministro della sanità della Repubblica del Guatemala. Inoltre esperti del ministero degli esteri e vari docenti dell’Università italiana. Al termine il Cics premia tre personalità che hanno partecipato al convegno con la consegna di una medaglia d’oro ricordo: l’ambasciatore Patrizio Schundlin, il prof. Patanè e il prof. Cimino. 5. Seminario su “Orientamenti tecnici sulla cooperazione sanitaria nei paesi in via di sviluppo” tenuto a Esanatoglia nella ex villa del seminario il 28-29-30 settembre e il 1° ottobre 1989. Lo scopo del seminario è l’aggiornamento e la formazione di medici, attraverso lo scambio trasversale di esperienze e tecniche nuove sull’assistenza sanitaria necessaria al Terzo mondo. Prendono parte al seminario 65 medici provenienti dall’Italia e dall’estero che si propongono di svolgere il loro lavoro nei paesi in via di sviluppo. Introduce i lavori il dott. Guido Bertolaso, responsabile del reparto sanitario del ministero, con la relazione: “Le linee della politica sanitaria della cooperazione italiana nei paesi in via di sviluppo” e il dott. R. Montani, responsabile del reparto di medicina preventiva e comunitaria del “New York medical college”, con la relazione: “Primarie cure della salute in una visione generale dei problemi globali della salute”. Intervengono numerosi esperti sia del ministero italiano della sanità che professori e clinici di varie Università e numerosi medici che già operano nei vari paesi del Terzo mondo. Il convegno vede la partecipazione straordinaria del senatore Butini, sottosegretario al ministero degli esteri, del dr. Livi, direttore per i programmi sviluppo della CEE per l’Africa australe e del dr. Pasquinelli, responsabile del ministero degli esteri per le organizzazioni non governative 192.

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Progetto sanitario per gli ustionati vittimedi guerra nella provincia di Luanda (Angola)

Sistema idrico dell’insediamento “Pueblo Joven 7 de Octubre” (Lima - Perù)

Centro di promozione femminilein Addis Abeba (Etiopia)

Progetto per l’istruzione professionalenella pesca (Uganda)

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Sindaco di Lima accoltonel municipio di Camerino

Programma per migliorare l’inserimento degli ospedali italiani nel sistema sanitario argentino

Programma d’intervento sanitario e nutrizionale nel distretto del Beles (Etiopia)

Programma di riparazione e manutenzione della flotta camion donata dall’Italia alla

Mauritania

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•ProgettoCamerino-ProgettoMA.SO.GI.BA.

Un problema sempre dibattuto è come dare nuovo impulso all’attività agricola della fondazione che, a giudizio unanime degli esperti, non ha futuro senza sostanziali innovazioni. Il parco macchine da un valore iniziale di 50 milioni di lire viene portato a circa 200 milioni per ridurre la mano d’opera che costituisce gran parte della spesa. Dal convegno del 1982 della fondazione con la collaborazione dell’Ente per lo sviluppo agricolo nelle Marche “Sulla civiltà contadina” scaturisce l’esigenza di dare un volto nuovo all’attività agricola con nuove formule. Per questo si costituisce una nuova associazione denominata “Progetto Camerino”, con soci fondatori oltre alla MA.SO.GI.BA., il Cics, l’Università di Camerino, la Biep (una società per l’assistenza integrata per lo sviluppo), la EnerConsult, società sulle ricerche e applicazioni per il risparmio energetico. Si associano poi la comunità montana di Camerino, la Camera di commercio di Macerata, la fondazione Bandini di Fiastra e l’istituto Tecnology for policy in envelopement dell’Università di New York. Dopo un convegno tenuto all’abbadia di Fiastra e un altro al castello di Lanciano viene formulato il progetto per la costruzione di un impianto di serre, una nuova minicentrale elettrica sul terreno della fondazione, in località Torre del Parco, oltre a un ammodernamento della centrale del castello. Poiché l’associazione “Progetto Camerino”, cresciuta con la partecipazione di tanti enti e molto politicizzata, non riesce ad armonizzare il lavoro tra enti pubblici e privati, non ancora disciplinato per legge, né a concretizzare alcunché, su suggerimento degli organi regionali per lo sviluppo è la fondazione a far suo il progetto e a presentarlo alla regione, che lo finanzia per quel che riguarda l’energia alternativa: minicentrale e serre variamente riscaldate 193. Mons. Frattegiani dispone che il progetto venga realizzato. Di fronte a chi, ritenendo che il progetto sia troppo oneroso per le possibilità economiche della fondazione, addirittura un azzardo, si rivolge alla Santa Sede, così risponde la Congregazione per il clero, competente sull’argomento: «Pare che amministrativamente non si possa sostenere che gli impegni finanziari della MA.SO.GI.BA. per la costruzione delle serre siano da considerarsi una semplice esposizione di debiti non garantita da una sicura fonte di copertura; essi, invece, sembrano configurare amministrativamente, per la singolare interdipendenza decisa tra il contratto di appalto e quello di affitto, un vero e proprio piano di investimento, mirante a realizzare da una parte un consistente aumento del valore patrimoniale immobiliare e dall’altra, a rientro avvenuto delle somme anticipate, una

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cospicua redditività utilizzabile per i fini propri della fondazione».

La fondazione “beaTo rizzerio” e La cLinica orTopedica saGisc

Il prof. Cesare Lami, nato a Muccia il 20 maggio 1905, si laurea in medicina ed esercita a Perugia dove sposa la contessa Maria Pia Baglioni,

che ha ottenuto la dichiarazione di nullità delle prime nozze dal tribunale ecclesiastico regionale umbro presieduto da mons. Bruno Frattegiani. La dichiarazione di nullità viene confermata dal tribunale ecclesiastico di Firenze. Il prof. Lami rafforza la sua amicizia con mons. Frattegiani, accesa quando il primo era presidente della Fuci e, proseguita nell’associazione dei medici cattolici di Perugia assistita dal monsignore. L’8 novembre 1950 il prof. Lami fonda a Perugia la casa di cura “Madonna degli Angeli”, poi denominata anche “Centro ortopedico umbro”. Il 7 gennaio 1970 in un grave incidente stradale presso Spello perde la vita la contessa Maria Pia. Il prof. Lami ne esce sconvolto. Appena la notizia si diffonde, al prof. Lami giungono lettere di rimpianto per la grave perdita da varie parti del mondo, dove vengono ricordati con sua meraviglia i grandi e costanti aiuti inviati dalla contessa in favore dei poveri: dalla Corea del Sud, dove nel passato si è impegnata nella costruzione di otto case per lebbrosi, all’Egitto, all’India. Il professore decide allora di proseguire nelle opere di bene così a largo raggio e silenziosamente condotte dalla consorte. Nell’estate del 1971 si reca in Brasile, inserendosi in un’associazione di volontari di Trieste per operare come chirurgo in un lebbrosario di Campogrande, nel Mato Grosso. Qui costruisce un ospedale. Nasce così il centro ortopedico Mato Grosso di 200 posti letto. La prima pietra del nuovo ospedale viene posta nel giorno della festa dell’Assunta. I lavori della costruzione sono portati a termine nel 1977, ma proprio in quell’anno avviene un fatto nuovo e imprevisto. Lo Stato del Mato Grosso si divide in due: Mato Grosso del Nord, che mantiene la vecchia capitale, mentre come capitale del Sud è prescelta la città di Campogrande. Il nuovo Stato requisisce l’edificio del nuovo ospedale per farne la sede del governo e del parlamento. Una lapide ricorda che il 13 giugno 1979 l’assemblea costituente, riunita nell’edificio “Maria Pia Lami”, vota la prima costituzione dello Stato del Mato Grosso del Sud. Il governo quale compenso si impegna a versare un canone annuo da destinare all’assistenza degli indios.

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Chiusa l’attività in Brasile, il 6 settembre 1981 il prof. Lami chiede a mons. Frattegiani di erigere canonicamente la fondazione diocesana “Eremo santuario del beato Rizzerio”. Lo scopo della fondazione è quello di promuovere “un centro di spiritualità” in onore del beato Rizzerio – compagno di S. Francesco – nato a Muccia, con finalità anche di assistenza agli anziani soli e bisognosi, in particolare sacerdoti. Dota la fondazione di un vasto spazio, dove il Beato ha trascorso gli ultimi anni della sua vita e dove è morto in concetto di santità. Ricostruisce l’antica chiesetta ed edifica, unita ad essa, una casa per ritiri, soggiorni spirituali, convegni culturali. L’11 ottobre 1982 la fondazione ha il riconoscimento della personalità giuridica con decreto del presidente della repubblica. Con atto notarile del 30 marzo 1983 il prof. Cesare Lami dona alla fondazione il complesso immobiliare della casa di cura, con l’impegno di locarla in affitto alla società Sagisc, così da assicurare alla fondazione un sicuro apporto economico. La Sagisc (Società amministrazione, gestione istituti di soggiorno e cura) è stata istituita per la gestione della stessa casa di cura come società a responsabilità limitata, le cui azioni sono distribuite tra due soci, 100 azioni allo stesso prof. Lami e una alla prof.ssa Santa Chiumenti. Il 28 luglio 1985 il prof. Lami serenamente conclude la sua attività terrena. Per volontà testamentaria del fondatore la casa di cura viene lasciata in eredità alla Chiesa (due arcidiocesi: Camerino 48% delle azioni, Perugia 40% e fondazione beato Rizzerio 12%) con la disposizione che eventuali profitti dovranno essere distribuiti, attraverso le Caritas diocesane delle due diocesi, ai poveri del Terzo mondo. Nella elaborazione del testamento è evidente l’influenza di mons. Frattegiani, a cui continuamente il prof. Lami si rivolge per consigli: c’è molto dello spirito di povertà dell’arcivescovo nella scelta che l’eredità non debba servire ad arricchire la diocesi, ma a soccorrere i poveri. E sempre con chiarezza esemplare esegue interamente il testamento del prof. Lami. Quando le due diocesi entrano in possesso dell’eredità la “Sagisc” si trova in serie difficoltà economiche e di immagine. In realtà per gli impegni assunti negli ultimi anni – prima la costruzione dell’ospedale di Campogrande in Mato Grosso poi i lavori per la fondazione in Muccia “Eremo beato Rizerio” –, il prof. Lami non è stato molto presente nella clinica di Perugia, anche perché nutre seri dubbi sulla possibilità della medesima di continuare la sua attività serenamente, dato il crescente sfavore della regione umbra verso la sanità privata. Di conseguenza ha già donato l’immobile alla fondazione “eremo beato Rizerio”: ritiene che in caso di chiusura della clinica l’edificio possa essere convertito in albergo, di cui Perugia in quel momento ha bisogno o, in alternativa, possa essere locato

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all’Università di Perugia che ha nelle vicinanze le facoltà di agraria e di veterinaria ed è alla ricerca di altre costruzioni. Al contrario mons. Frattegiani, assicurato dall’arcivescovo di Perugia mons. Pagani, che crede molto nella presenza in città di una clinica gestita dalla Chiesa, dà nuovo impulso a questa istituzione. Concede subito al consiglio di amministrazione della fondazione “Eremo beato Rizerio” di devolvere per alcuni anni il ricavato dell’affitto nella ristrutturazione dell’edificio di sua proprietà. Nei primi anni si installa un vero cantiere e la clinica si rinnova: si ottengono camere doppie e singole con i relativi servizi, dotate di nuovi arredi. Migliorata la recettività, con l’impegno personale di mons. Pagani vengono scelti nuovi e valenti medici, da aggiungere ai chirurghi ortopedici già attivi e stimati e alcuni efficienti e preparati infermieri. In poco tempo la clinica ottiene la fiducia di numerosi nuovi pazienti, provenienti sia dalla regione umbra che da altre regioni e soprattutto ottiene un rinnovato appoggio dai responsabili della sanità regionale. Mons. Frattegiani chiama come amministratore delegato della Sagisc il professor Cesare Quattrocecere, molto stimato tra le autorità cittadine del capoluogo umbro. Così la clinica specialistica “Santa Maria degli angeli” diviene il centro ortopedico più apprezzato e richiesto di Perugia 194.

pensionaTo feMMiniLe universiTario “baTTisTa varano” - casa deLLa GiovenTù

Il 15 ottobre 1955, festa di S. Teresa d’Avila, l’arcivescovo mons. Giuseppe D’Avack inaugura il pensionato femminile universitario

“Battista Varano”, affidato per la gestione e la direzione all’istituzione teresiana, fondata in Spagna dal sacerdote d. Poveda, ora santo.

«Il “focolare” – così si esprime mons. D’Avack – si propone di formare umanamente e spiritualmente giovani universitarie di Camerino, augurandosi che la spiritualità e la protezione della grande Teresa d’Avila sia di arricchimento all’opera culturale della stessa Università» 195.

La sede del pensionato (“focolare”), sita in via Ugo Betti n. 47, fin dalla fine dell’800 è monastero delle monache domenicane, che lo lasciano nel 1948, essendo rimaste solo in tre e molto avanzate negli anni, per unirsi alle consorelle nel monastero di Castelbolognese in Emilia Romagna. Mons.

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D’Avack, in passato cappellano nella chiesa dell’Università “La sapienza” di Roma, è molto sensibile alla formazione cristiana degli universitari. Giovandosi del suo passato di collaboratore per la riorganizzazione dell’istituto per le opere di religione (Ior), mons. D’Avack si rivolge al card. Di Iorio, all’epoca presidente dello stesso, facendogli presente la possibilità di realizzare a Camerino un’opera importante nel campo dell’apostolato: l’assistenza e la formazione religiosa delle giovani universitarie. Lo Ior acquista il vecchio monastero e ne finanzia anche la ristrutturazione in funzione del nuovo uso. Per una ventina di anni le teresiane operano con signorile professionalità nella formazione delle ospiti, con profitto e soddisfazione delle stesse e delle famiglie. Contemporaneamente, dietro invito di mons. arcivescovo, collaborano attivamente nella associazione diocesana femminile di Azione cattolica. Dopo il Concilio Vaticano II l’istituzione teresiana decide di svolgere il suo apostolato non più con opere proprie della comunità, ma con iniziative lasciate alle scelte delle singole adepte inserite a tal fine in attività dello Stato e della società civile. Restano a Camerino due membri: le dottoresse Lucilla Rodriguez e Giovanna Liotta che, con l’aiuto volontario e prezioso di Carlotta Troini, si prodigano per giungere senza traumi alla definitiva chiusura del collegio camerte. Mons. Frattegiani nel 1981 stabilisce che i locali siano riaperti come “Casa della gioventù”, col compito di curare la pastorale giovanile in

Durante una cerimonia di benedizione.Sulla destra don Renzo Rossi

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collaborazione con le parrocchie della città di Camerino e ne affida la direzione a don Franco Gregori. Nelle stanze superiori vengono ospitati alcuni studenti che collaborano nell’attività pastorale e forniscono con il pagamento delle stanze di cui fruiscono gli aiuti economici necessari per riscaldamento, luce e manutenzione dei locali. La “Casa della gioventù” stenta tuttavia a decollare perché i parroci di Camerino ancora una volta preferiscono che i giovani frequentino corsi di formazione e pratichino l’apostolato in parrocchia. Quando poi don Gregori viene nominato direttore della Caritas diocesana, il pensionato continua la sua attività ospitando studenti stranieri, soprattutto di paesi in via di sviluppo, che sempre più numerosi si iscrivono alla Università di Camerino 196.

iL coLLeGio universiTario “bonGiovanni”

Dopo che i seminaristi teologi della diocesi vengono aggregati al seminario regionale di Fano e successivamente quelli liceali al

nuovo seminario diocesano fuori le mura, essendo il rettore mons. Quinto Martella nominato parroco di S. Maria in via e don Sandro Corradini chiamato a Roma presso la Congregazione per le cause dei santi, don Franco Gregori, l’unico rimasto nei locali lasciati vuoti, propone a mons. Frattegiani di poter destinare i locali a collegio universitario maschile, data la continua e pressante richiesta di adeguati alloggi da parte dei sempre più numerosi iscritti all’Università. A mons. Frattegiani piace molto la proposta e incoraggia don Franco a intraprendere il nuovo lavoro e lo segue da vicino consigliandolo di ospitare il primo anno, come esperimento, solo 24 studenti. Don Gregori nell’organizzazione cerca di adeguarsi il più possibile agli standard recettivi già adottati nei collegi universitari statali, perseguendo però in modo primario una solida formazione educativa degli ospiti. Mons. Frattegiani decide che l’ente seminario, proprietario dell’immobile, nulla esiga come compenso dall’amministrazione del collegio, ma che tutto l’eventuale profitto venga impiegato per migliorarne la recettività. Cosa che, di fatto, è gradatamente realizzata. Già nel secondo anno il numero degli studenti ospitati sale a sessanta e raggiungerà i cento nei primi anni ’70, fino ad escludere ogni ulteriore possibilità di espansione. Quando poi don Gregori è nominato parroco della collegiata di San Ginesio come successore di mons. Luigi Scuppa divenuto vescovo di Fabriano e Matelica, mons. Frattegiani chiama a dirigere il collegio don Giuseppe Bagazzoli, impegnato nel movimento di Comunione

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e liberazione e nell’apostolato tra gli studenti universitari. Don Bagazzoli continua il lavoro iniziato con profitto da don Gregori sia nella formazione educativa, sia nel miglioramento ricettivo. Così il collegio si afferma sempre più come importante istituzione ecclesiale e cittadina, contribuendo in modo notevole all’accoglienza e alla formazione degli studenti e giovando non poco alla immagine esterna dell’Università e della città 197.

isTiTuTo “francesco arsini” – sanTuario di MacereTo

Nel passaggio delle parrocchie della diocesi di Norcia a quella di Camerino anche gli enti religiosi appartenenti a quella diocesi

passano alla diocesi di Camerino: si tratta dell’istituto “Francesco Arsini” in Ussita e del santuario di Macereto di Visso.

•Istituto“FrancescoArsini”

Francesco Arsini nasce a Tempori di Ussita il 10 ottobre 1856. Sposa la signora Assunta Gasparri, cugina del card. Pietro Gasparri. Privo di figli, nel 1916 destina l’intera fortuna alla fondazione “Istituto orfanatrofio Francesco Arsini”, il cui scopo è accogliere ed educare bambini e bambine di Ussita e dintorni. Nomina amministratore mons. Giuseppe Luchenti - a cui nel tempo succederanno padre Rinaldi, mons. Leone Fiorelli e mons. Carlo Porfiri - e affida l’opera alla congregazione delle Figlie della Carità, cui appartiene anche una sua sorella suora. Le suore per più di 50 anni svolgono una triplice attività: scuola materna, scuola elementare, avviamento professionale con annesso laboratorio di maglieria. Nel corso degli anni centinaia di giovani vi sono accolte, educate e avviate alla vita familiare. Il cav. Arsini muore a Roma il 15 aprile 1921. Sulla facciata dell’edificio una lapide esprime la gratitudine dei beneficiati, con le parole tratte dall’Ecclesiaste: “Cognovit quod non esset melius nisi laetari et facere bene in vita sua” “Capì che non c’è nulla di meglio che godere e procurare felicità durante la sua vita”. La sposa, sopravvissuta al coniuge, ne continua l’opera arricchendola con propri lasciti alla sua morte. Nel testamento lega l’istituto “Arsini” alla diocesi di Norcia nella persona del vescovo dell’epoca mons. Alberto Scola. Questi, accettando l’eredità, costituisce un apposito consiglio di amministrazione per l’opera “Arsini” e, per regolarizzare la scuola, raggiunge un accordo con il provveditorato provinciale, così che esso diviene “Istituto scolastico Arsini”. Nel nuovo istituto scolastico il vescovo propone i membri

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del consiglio di amministrazione, poi nominati ufficialmente dal provveditorato. Al passaggio dell’istituto alla diocesi di Camerino, la congregazione delle suore delle Figlie della carità ha già ritirato, non senza contrasto e dolore, le suore addette alla cura dei bambini, mentre la scuola è stata chiusa per mancanza di alunni 198. L’istituto si limita ormai a ospitare nei mesi estivi gruppi di giovani ragazze delle parrocchie e dei movimenti ecclesiali. Lo Ior, cui la signora Gasparri ha affidato l’incarico di amministrare i beni perché l’opera continui dopo la sua morte, non si sente più in dovere di devolvere denari all’istituto, affermando che il testamento della signora Gasparri aveva destinato il lascito alla gioventù femminile di Ussita, finalità non più raggiungibile per mancanza di ragazze. Mons. Frattegiani, non convinto della soluzione adottata dallo Ior, affida alla curia diocesana lo studio della situazione partendo dalla interpretazione del testamento. E il testamento con chiarezza fissa che il lascito deve essere utilizzato per “l’educazione in Ussita della formazione della gioventù femminile”. È facile allora far rilevare allo Ior che il testamento non parla di gioventù femminile di Ussita, ma di formazione della gioventù femminile in Ussita e pertanto l’opera svolta attraverso i campi-scuola, le settimane di formazione di giovani della diocesi di Camerino e di altre delle Marche e dell’Umbria, ben risponde alle finalità previste. Lo Ior torna così ad erogare all’amministrazione dell’istituto scolastico “Francesco Arsini” gli interessi provenienti dal legato Gasparri 199.

•EntesantuariodiMacereto

Così è ricordata l’origine del santuario:

«Nell’anno 1359, ai 12 di agosto, alcuni mulattieri transitavano sull’altipiano di Macereto diretti verso il Regno di Napoli, portando una bella statua di legno della Madonna col Bambino in braccio. Giunti a un certo punto dell’altipiano un mulo che portava la statua della Madonna “inginocchiato si fermò, quale neanche a forza di battiture si poté più fare levare in piedi”. Il fatto singolare fece accorrere molta gente; si gridò al miracolo e in breve venne costruita una modesta chiesetta per custodirvi la venerata immagine che richiamò ben presto devoti e numerosi pellegrinaggi; con le elemosine di questi fu iniziato a costruire il tempio nel 1529 su iniziativa della comunità vissana dall’architetto G. Battista da Lugano, il quale nel 1539, quando l’opera era giunta al cornicione principale, vi perdé la vita. Presso il santuario sorsero alcuni fabbricati, il più grande detto “delle Guaite”. Adiacente è la casa dei pellegrini. Il palazzo delle Guaite e la casa dei pellegrini, come pure

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il porticato, i portali d’ingresso al piazzale e la casa del “corpo di guardia” furono fatti costruire dal comune di Visso negli anni 1571-1578. La fontana già costruita nel 1524, fu ricostruita e ingrandita nel 1555» 200.

Dell’ente santuario è patrimonio anche il convento di Sant’Agostino con l’annessa chiesa presso la collegiata di Visso. In occasione del Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede, il card. Pietro Gasparri, originario di Ussita, ottiene che la proprietà del santuario di Macereto con annessi edifici e terreni, insieme al convento di Sant’Agostino sito presso la collegiata, passi dal comune di Visso alla diocesi di Norcia. Nei primi anni ‘50, mons. Filippo Bernardini, segretario di “Propaganda fide”, anche lui cittadino di Ussita e devotissimo della Madonna di Macereto, fa restaurare a sue spese il palazzo delle guaite che mons. Ilario Rota, arcivescovo di Norcia, adibisce a colonia montana per i ragazzi gestiti dalla ODA (Opera diocesana di assistenza). In onore dell’insigne benefattore fa apporre una lapide sulla facciata del palazzo ed erigere un busto bronzeo posto a fianco dell’altare maggiore del tempio. Mons. Frattegiani, al trasferimento di proprietà del santuario alla diocesi di Camerino, dispone che il palazzo delle guaite venga adeguato, con notevoli spese, alle norme di sicurezza previste dalle nuove leggi dello Stato, per accogliere in campi scuola estivi gruppi di scout e di giovani delle parrocchie della diocesi e della vicina Umbria 201.

Macereto di Visso

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uno speciaLe sTiLe di Governo

Per comprendere lo stile di governo della diocesi di mons. Frattegiani è necessario tener presente le motivazioni che lo hanno portato alle

dimissioni da vicario generale dell’arcidiocesi di Perugia: stile autoritario e non sempre rispettoso delle persone di sacerdoti. Come intenda governare e di fatto governa è già chiaro nella sua lettera “Ecce venio”: servizio, rispetto delle persone e colloquio. Le sue direttive pastorali, sempre motivate teologicamente, sono inserite nel Bollettino ufficiale della diocesi, nelle frequenti lettere pastorali, in special modo in quelle elaborate per i “tempi forti” e le solennità dell’anno liturgico e dei santi della diocesi. Ma sue direttive si leggono soprattutto, nel “Bollettino della diocesi” o in “Squilli di campane”, rubriche de L’Appennino camerte, dove di regola settimanalmente propone, consiglia, indica, dispone le varie iniziative e mostra di accogliere suggerimenti e proposte.Come prima riforma istituisce i consigli presbiterale e pastorale diocesani e in seguito parrocchiali. Ai consigli sottopone lo studio di ogni iniziativa importante e sollecita libere e non generiche proposte, che accetta integralmente o eventualmente, dopo vero dialogo, modifica. Di animo umile, mite, sincero, è sempre disponibile all’ascolto, ricevendo in qualsiasi giorno e ora tutti i sacerdoti e fedeli che lo richiedono. È così che nel colloquio vero attua il governo della diocesi, chiedendo a tutti collaborazione e aiuto. Ma questo stile dialogico non sempre è compreso e apprezzato da tutti. Alcuni, sia tra i sacerdoti che tra i fedeli, vorrebbero il vescovo più deciso nelle direttive e più esigente nel farle osservare. Capita così che quando i consigli presbiterale e pastorale, accogliendo e facendo proprie le proposte di gruppi di studio di una tre giorni diocesana, decidono di renderle obbligatorie, il vescovo così si esprime:

«All’arcivescovo non resta che fare sua l’istanza di rendere obbliganti le indicazioni dei cinque documenti, auspicando che ogni vicariato ne adatti la lettura alle situazioni del rispettivo contesto pastorale. Ricorda peraltro che sarebbe vano cercare una “littera legis” (“ammazza” dice S. Paolo) se non si lascia affidare dallo Spirito che dà vita (c’è un giubileo anche per noi, con la grazia di una conversione o di una collaborazione più stretta)» 202.

Nel suo governo difficilmente fa ricorso a imposizioni o invoca il diritto canonico, di cui peraltro è conoscitore come pochi presuli, e che certo reputa necessario per la Chiesa, ma preferisce fare appello alla “lex nova” di S.

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Paolo. Solo in casi, già ricordati in queste pagine, cita il diritto canonico: quando si tratta del rispetto dell’eucaristia (messe binate e trinate sospette di devozioni… interessate) e del rispetto dei diritti di terze persone o della comunità (puntualità negli adempimenti finanziari per la diocesi, come negli adempimenti di curia) e quelli dovuti per la perequazione del clero. Si fa esigente quando constata l’attaccamento al denaro, ricordando con S. Paolo che è vera idolatria. Mons. Frattegiani accetta sempre le critiche, sia quando gli vengono rivolte sullo stesso settimanale diocesano, sia in pubblico dibattito e rende pubbliche quelle ricevute in privato. E risponde riconoscendo umilmente quelle fondate o contestando con garbo o con bonaria ironia quelle senza fondamento. Quando è il caso richiama all’obbedienza, ma… senza mai troncare il dialogo. Di fronte all’osservazione di alcuni sacerdoti di “avere il polso fiacco”, “Peccato – risponde – che il polso è parente di coraggio e il coraggio ci ricorda don Abbondio… Oremus pro antistite nostro Brunone”. Su alcuni giudizi negativi sul suo dispositivo per la perequazione del clero, espressi in una inchiesta voluta anonima da lui stesso, così risponde:

«Non vi nascondo che un buon numero di giudizi l’ho trovati crudi, un po’ unilaterali. Che proprio tutto dipenda dal manico, che stavolta sono io? Però ho gradito la sincerità e farò del mio meglio per contrastare il famoso proverbio biblico: “adolescens cum senuerit… non recedit”» 203.

«E… Patres non percussores! dice un’antica formula felice, che delinea l’atteggiamento del vescovo. Ma… se ci volesse, pregate che io sappia picchiare sodo, a cominciare da me» 204.

A conclusione dell’argomento due giudizi. Scrive mons. Antonio Bittarelli nell’articolo de L’Appennino camerte dell’11 ottobre 1986 “Ventidue anni dopo”:

«Quando Frattegiani venne, definì Camerino la sua terra promessa. Egli ha guidato con eccezionale discrezione un cammino più ardito di tutti gli altri tempi (più in vent’anni che in duecento anni)».

E l’allora sindaco di Camerino, l’avv.EmanueleGrifantini:

«Lei ha dato a tutti l’esempio dell’operosità silenziosa: quello di un messaggio cristiano sereno, anche se fermo. Quello di una cultura altissima in campo teologico, umanistico e giuridico, espressa e significata con tanta

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semplicità, e quello di una grande modestia unita a voler sentire i problemi della gente e viverli con essa» 205.

Le aMMinisTrazioni diocesane

Di tutte le amministrazioni degli enti diocesani mons. arcivescovo non si interessa personalmente. Dà sempre molta fiducia agli

amministratori, lasciando loro ampia libertà di decisione. Nello stesso tempo però segue con attenzione ogni loro delibera, soprattutto sotto l’aspetto giuridico e morale. Ripete spesso con una certa bonomia: “Attenti a non mandarmi in prigione!”. Insiste soprattutto sulla necessità di un vero distacco dal denaro, sottolineando in più occasioni le parole di S. Paolo: 1 Tim 9,10, l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali e Col 3,5… quell’avarizia insaziabile che è idolatria. Riformata la curia diocesana portando in primo piano le attività pastorali, esige che nella amministrazione della stessa e di tutti gli enti diocesani vi sia grande chiarezza e trasparenza.

Così come appare chiaramente anche da un breve brano stralciato dalla lettera di nomina di mons. Annibale Papa ad economo-amministratore della diocesi di San Severino Marche del 12 settembre 1984:

«Grato per il lavoro già svolto nell’amministrazione diocesana da oltre un ventennio, sentito il parere del Collegio dei Consultori e del Consiglio dio-cesano per gli affari economici, ho il piacere di conferirle, a norma del can. 494 del Nuovo Codice di Diritto Canonico, la nomina di ECONOMO per l’amministrazione dei beni degli enti ecclesiastici diocesani a San Severino Marche, per il quinquennio 1984 – 1989 a partire dalla data della presente».

«E’ necessario che l’amministrazione diocesana sia sempre uno “specchio di verità”, che tutti possano controllare in ogni momento. E’ necessario che i titolari dei benefici, la cui amministrazione hanno rimesso da tempo all’Uf-ficio diocesano, rimangano lo stesso vigili per poter essere interpellati nelle decisioni di particolare importanza amministrativa (come restauri, affitti, vendite, ecc.), come pure è bene che si sentano le commissioni parrocchiali e si facciano loro conoscere le eventuali decisioni, che si progettano sui beni che cadono nella sfera del loro interesse, per evitare il più possibile eventuali successive contestazioni».

Stabilisce che tutte le amministrazioni debbano presentare i bilanci

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preventivi e consuntivi, muniti dell’approvazione dai vari revisori dei conti, laici e sacerdoti che sono da lui scelti perché competenti in materia. Poi i bilanci sono illustrati per essere approvati anche dal consiglio presbiterale. Infine sono pubblicati e portati a conoscenza di tutti i sacerdoti convocati appositamente in assemblea generale. Dietro richiesta del nuovo vescovo diocesano, che ha manifestato dubbi sulla realtà economica della diocesi, la Congregazione del clero così risponde con lettera del 7 maggio 1991, prot. 190333/III, inviata all’arcivescovo Francesco Gioia a firma del prefetto card. Innocenti:

«In riferimento ai supposti debiti della diocesi, della MA.SO.GI.BA. e di altri enti, dall’intera documentazione in atti che in materia di bilanci si arresta al 31.12.1989, non sembrano concretarsi a quell’epoca i cennati vistosi debiti, peraltro da nessuna parte mai quantificati, né documentalmente provati. I dati invece, salvo a provare il contrario, sono in sintesi i seguenti: arcidiocesi spese a) ristrutturazione palazzo arcivescovile (sede assicurazione Ras, centro stampa, sede scout, casa del clero, riscaldamento) £. 212.965.250; b) ristrutturazione villa diocesana di Elcito £. 225.894.600. Copertura: att. bil. 1988: £. 144.100.200; att. bil. 1989: £. 226.217.240; contributo CEI 1989: £. 68.542.410. Totale in pareggio. O.R.A.C. – Opera di culto e religione: libreria “Loggia di Sisto V”, settimanale L’Appennino camerte, R.C1, centro stampa e Casa della gioventù: bilancio attivo £. 24.146.901. fondazione Ma.so.Gi.ba.: bilancio attivo £. 192.629.110. seMinario arcivescoviLe: bilancio attivo £. 10.000.000» 206.

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Renacavata, festa del primo maggio organizzata dalle Acli: mons. Frattegiani ascolta divertito

gli stornelli dialettali del duo “Santo’ e Pulicà”

Con colui che lo ha assistito nella malattia

Con il maestro Nelio Biondi (secondo da sinistra), promotore del dono di un armonium all’arcivescovo, e alcuni sacerdoti diocesani.Sulla destra don Felice Cambriani

Durante una conferenza a Collevalenza

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e venuta la sera…

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La malattia e il declino

Quando nel 1984 mons. Frattegiani comunica il decreto dell’imminente riordino dei confini dell’arcidiocesi, esprimendo il desiderio di una

nuova, ultima e rapida visita pastorale, ricorda lo sguardo e le parole più volte raccontate del vecchio parroco di Rocchetta di Genga don Nazareno Starnadori: “Lui el sa!” e conclude:

«Ecco il segreto della nostra vita: siamo tutti nelle mani del Padre»

e poi termina con le parole di S. Paolo:

«Sia che viviamo, sia che moriamo siamo dunque del Signore. Affido me e voi alla benedizione di Dio e alla materna protezione di Maria» 205.

E così per gli auguri di Natale 1984 scrive:

«La solennità del santo Natale mi unisce in maniera particolare a tutti coloro che il Signore mi ha affidato quando mi ha chiamato alla guida delle due carissime Chiese diocesane di Camerino e Sanseverino. Il tempo passa e mi incammino (ci incamminiamo) verso il definitivo incontro con Lui, che si è fatto bambino per noi. Non è questa (non vuole essere!) una mesta riflessione sulla caducità della vita; è solo una serena constatazione del tempo che corre e continuamente ci avvicina al compimento del mistero; ma non è caducità ciò che è strada all’incontro con Lui che si è dichiarato sola Via, sola Verità, sola Vita. Se ci piace la vita (la nostra modestissima vita con l’iniziale minuscola!) l’unica strada è Lui, il Dio che “si è fatto come noi per farci come Lui”. Da quando è venuto il Signore, la vita non può avere che un senso. S. Paolo che ce l’ha insegnato possa valerci da guida: “Per me vivere è Cristo”» 208.

E più volte torna a parlare della fine della vita e del ritorno al Padre celeste. E forse scosso per la dolorosa esperienza della mamma, colpita da grave arteriosclerosi, scrive:

«Vi raccomando, quando vedrete che non sono più in grado, aiutatemi a ritirarmi» 209.

E già appena dopo quattro anni di episcopato, augurando un buon riposo

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a mons. Raffaele Baratta che era stato suo arcivescovo di Perugia e che lascia la diocesi e si ritira a Città della Pieve, aggiunge scherzosamente:

«Padre puoi tenermi il posto alla Pieve fino al mio 75° anno? Diamo il “discessit” a mons. Frattegiani per il 1989, non un giorno di più» 210.

•L’ultimaletterapastorale “Sullasciadelcinquantesimo…gliauguridelNatale”,8dicembre1986

«Il mio augurio per il santo Natale 1986 è tutto caratterizzato dalle impressioni di questi giorni. All’indomani dell’incontro gioioso e fraterno dei partecipanti numerosissimi alla festa del vescovo nella mia nativa Migiana è mio dovere confessarvi l’emozione profonda che ho provato rivivendo un’infanzia serena; serena anche per i quattro chilometri a piedi d’ogni giorno per conquistare il diploma di quarta elementare. Al mio paese c’era solo la terza. Poi venne il ginnasio e il liceo, il seminario dell’amata Perugia, un anno di teologia nel seminario diocesano di Assisi e altri sei anni fra Laterano e Apollinare a Roma. Tutto e solo per obbedienza; infatti un grande desiderio rimane inappagato: l’Istituto biblico. In parte mi sono… vendicato, facendo della Bibbia – sia pure alla meglio – il pane quotidiano. Vi assicuro: con grande gioia. E vi dico – a voi particolarmente sacerdoti – di fare la prova: ogni giorno lectio divina, ogni anno il Nuovo Testamento, con un po’ di pazienza poi anche l’approccio (sia pure antologico) dell’Antico Testamento. Vi vorrei, anzi ci vorrei (me compreso) modesti ma appassionati lettori della Parola, per essere capaci di contemplare nel Natale la Parola che si fa carne. L’augurio mio e la benedizione del Signore su ogni comunità della nostra Chiesa locale» 211.

Poi rapidamente viene il declino. Sembra che un giorno dopo l’altro non gli interessi più nulla di ciò che una volta destava il suo vivo interesse: non giornali, o libri, o riviste e tanto meno la televisione. Solo interesse per le persone che incontra, il timore di non essere più adeguato al suo lavoro, il rammarico per il seminario vuoto. Solo la Bibbia è aperta sul suo tavolo e nella cappella dove come sempre si trattiene per molto tempo ancora con essa, il breviario e il rosario che continua a recitare anche quando si muove nella casa. La sua mente comincia progressivamente a offuscarsi: oscilla tra fasi in cui non ricorda più neppure le cose ordinarie, e quindi non è presente a sé stesso, e fasi di lucidità in cui avverte angosciato tutto il peso della

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malattia, vivendo una vera passione. Lo assiste in questi anni come segretario con mirabile attenzione e carità mons. Ferdinando Cappelletti. Lo seguono con competenza e amore l’on. Franco Foschi, nel suo ruolo di psichiatra e il dott. Angelo Quattrini del reparto neurologico di Torrette di Ancona. L’on. Franco Foschi chiede anche un consulto con il prof. Franco Angeleri, primario a Torrette e già rettore dell’Università di Ancona, molto conosciuto e stimato per le molteplici pubblicazioni scientifiche. Il professore accoglie mons. Frattegiani nel suo studio con tanta cortesia e rispetto. Conversando con lui amabilmente gli propone di risolvere alcune operazioni di aritmetica: mons. Frattegiani sorridendo replica che in matematica non è stato mai ferrato, ma poi risolve con disinvoltura le facili operazioni che gli sono state proposte. Poi il professore lo invita a scrivere un suo pensiero sull’incontro e Frattegiani scrive:

«Il professore mi fa domande come a un bambino, ma io so che lo fa per il mio bene: che il Signore lo ricompensi e lo benedica!».

Il professore guarda i presenti e si meraviglia di tanta momentanea lucidità. Ma alla fine il referto è purtroppo assolutamente negativo. Parla di alcuni esperimenti avanzati negli Stati Uniti, ma conclude che finora non ci sono risultati positivi. Di fatto non c’è alcuna terapia risolutiva e, purtroppo, la patologia si sarebbe aggravata. Mons. Frattegiani nella sua malattia ha forse presente la figura del padre di santa Teresa del Bambin Gesù. Nel libro “Iniziazione alla vera Teresa” di René Laurentin, sottolinea, con due nitide righe, le parole che lo scrittore mette sulle labbra del padre della santa di Lisieux in un momento di lucidità nella sua mente ottenebrata:

«Ma so perché il Signore mi ha mandato questa prova: non avevo mai avuto umiliazioni tanto grandi nella mia vita e ne avevo bisogno di una» 212.

Di santa Teresa di Gesù Bambino è molto devoto: per lui è un modello di abbandono fiducioso all’Amore misericordioso di Dio. Uno degli ultimi brevi scritti è l’annuncio di essere affiancato come coordinatore da mons. Tarcisio Carboni ed è certo di poter collaborare con lui. È del 12 settembre 1988 la sua ultima lettera.

«Carissimi, la terza età giunge anche per il vescovo, come per chiunque ha

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la fortuna di arrivarci. Essa qualche volta con gli acciacchi limita l’attività. Purtroppo questo è il mio caso e voi ve ne siete accorti e mi avete dimostrato tanta comprensione e cordialità. Ve ne ringrazio di cuore. Il Santo Padre ha voluto venirmi incontro dandomi un aiuto con la nomina dell’amministratore apostolico nella persona del carissimo mons. Tarcisio Carboni, vescovo di Macerata. Lo saluto e lo ringrazio. Continuiamo a camminare con fede nella nostra cara chiesa di Camerino – Sanseverino Marche, fiduciosi nell’aiuto di Maria Santissima e dei nostri Santi Protettori. Augurando un buon lavoro a mons. Tarcisio, insieme a lui cordialmente vi benedico» 213.

A 75 anni firma la rinuncia, che viene subito accettata, date le sue condizioni di salute. Poi, dopo la nomina del successore mons. Francesco Gioia, la sua mente si offusca con rapidità: il trasferimento nella casa del clero fa venir meno le poche coordinate ambientali nelle quali si è così a lungo mosso. Si aggrava ancora quando per necessità è trasferito in un ambiente seppur bene arredato per il tipo di malattia nel convento di S. Pacifico in Sanseverino Marche. Nonostante l’amore con cui i frati lo hanno accolto e le cure attente e premurose che gli prodiga la signora Ada Pallotto, non riconosce più alcuno ed è del tutto incontrollabile. Dopo sei anni di vera passione, affisso a quella croce più dura di cui tanto aveva parlato, il 26 luglio 1996 celebra definitivamente la Pasqua nell’incontro con il Signore e la Vergine santa che tanto ha amata e celebrata. La sua salma riposa nella cripta del duomo di Camerino, in una delle tombe da lui predisposte per i vescovi camerti, dove ha desiderato e chiesto di essere sepolto. Mons. Bruno Frattegiani è stato arcivescovo di Camerino dal 1964 al 1989, raggiungendo l’episcopato più lungo del secolo ventesimo.

«Non esiste – afferma mons. Bittarelli – alcuna era nella lunga storia della diocesi camerinese, quanto i venticinque anni di mons. Frattegiani. Il suo episcopato è coinciso con le sessioni conclusive del Concilio ecumenico Vaticano II e l’immediato post Concilio» 214.

Con mons. Carboni, vescovo di Macerata

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18 marzo 1991, Giovanni Paolo II celebra la messa nel duomo di Camerino.Mons. Frattegiani è seduto nel coro dei canonici alla sua sinistra

Abbracciato da Giovanni Paolo II

Con Giovanni Paolo II, a destra don Decio Cipolloni

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Alcune note sulla sua vita spirituale

Ha detto Paolo VI che il mondo ha bisogno di testimoni più che di maestri. Mons. Frattegiani sa governare e parlare con l’esempio

della sua vita. 1. Umiltà. Non ostenta e non fa pesare la sua eccezionale cultura. Solo coloro che lo frequentano da vicino scoprono e ammirano la sua profonda preparazione teologica, la notevolissima conoscenza biblica, la vasta cultura umanistica, la conoscenza sicura della scienza giuridica e anche la padronanza delle lingue latina, greca ed ebraica, oltre il francese, il tedesco, l’inglese e lo spagnolo. 2. Povertà. Vive da vescovo veramente povero. Più d’una volta mostra imbarazzo di vivere nel palazzo arcivescovile così imponente, anche se la sua residenza è in un angolo angusto e disadorno. Rispondendo a una lettera anonima firmata “Cristiani per il socialismo” in cui si rimprovera al vescovo di aver accettato l’eredità della principessa Maria Sofia Giustiniani Bandini del castello di Lanciano, l’arcivescovo prima precisa che non si tratta di eredità, ma di un gravoso legato. Risponde con semplicità che vive con il solo assegno di congrua dello Stato e la pensione della madre. Quando finalmente riesce tramite un avvocato amico di Perugia a vendere un immobile ereditato assieme alla madre e chiudere alcune pratiche sospese con la curia diocesana di Perugia, distribuisce l’intero ricavato tra il seminario diocesano, un asilo gestito dalla parrocchia di S. Venanzio e i missionari. Sulla facciata della cartella lasciata in curia, dopo un elenco puntuale di come ha distribuito l’intera somma ricevuta, scrive: «Deo gratias, ora posso veramente dire di essere povero». Il suo amore per la povertà lo porta ad abbracciare l’ordine francescano secolare con tanto di professione davanti all’urna della sua cara Camilla Battista 215. 3. Generosità. È di dominio pubblico anche fuori della diocesi la sua generosità. Ancora una testimonianza di mons. Bittarelli:

«Se la pensione a tutti ha fatto scomparire la figura dell’accattone, salgono le scale dell’episcopio i nuovi poveri. Per sfamare il primo bastava il tozzo di pane e pochi soldini, tanto per lui non esisteva prospettiva alcuna. I bisogni del nuovo povero sono senza fondo. Come sanare la situazione dell’ex carcerato o del disoccupato? La processione in episcopio è preoccupante

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perché l’arcivescovo non commisura la generosità ai propri risparmi, ma alle necessità altrui. Alla fine senza riuscire a soddisfare coloro che continuano a tornare, resta lui a mani vuote» 216.

E il buon segretario personale non ha altro mezzo per tutelare il vescovo che quello di dirottare a sua insaputa, non appena possibile, i richiedenti alla Caritas diocesana. Del resto solo il Signore conosce le famiglie indigenti o anche i sacerdoti in difficoltà che il vescovo segretamente aiuta con le sue povere risorse. 4. Preghiera. Così scrive sulla sua preghiera mons. Frattegiani nella “Rivista del clero” del 20 ottobre 1976 e ne L’Appennino camerte del 6 novembre 1976: «Anche un vescovo ha le sue distrazioni».

«Il binario della mia preghiera è la Bibbia. Senza la sua guida affogo nella distrazione. Sono distrattissimo; a scuola riuscivo a stare attento solo se prendevo appunti; ricordo dei condiscepoli che ci tenevano molto ai miei appunti. Con la Bibbia come riferimento e con la stessa “Liturgia horarum”, sottratta finalmente al dogma rubricistico della recitazione – potrei rimanere in cappella ore e giornate. Ed è tanta la gioia anche quando in concreto non mi resta che ascoltare il silenzio di Dio nella certezza assoluta del Suo amore e della Sua fedeltà, di cui trasudano le sacre pagine. Per me la Bibbia è indispensabile. Ma dovete consentirmi qualche confidenza. Fu un disastro autentico in teologia seguire il consiglio di leggerla tutta nella versione della “vulgata”; disillusione, aridità, incomprensione, perfino scandalo. Fu invece una provvidenza quando il direttore spirituale verso la fine degli studi mi consigliò di leggere ogni anno il Nuovo Testamento. Un suggerimento che bevvi alla lettera e che ho tanto spesso trasmesso ai giovani sacerdoti (ma non so con quanta fortuna!). Dal 1940 ad oggi sono rimasto fedelissimo. Se fossi meno duro a quest’ora dovrei sapere a memoria il Nuovo Testamento, a parte il fatto che dopo l’originale mi sono godute le migliori versioni accessibili al mio modesto orizzonte linguistico. Ma mi è impossibile esprimervi quanta gioia, quanta utilità mi ha portato questa pratica. Ovviamente essa mi costrinse a tornare al Vecchio Testamento. Però il frutto rimase ben scarso (un paradiso chiuso per colpa di canoni esegetici impossibili) finché non venne ma solo verso la fine degli anni Cinquanta – la meravigliosa “Bible de Jérusalem” che mi preparò alla responsabilità dell’episcopato e alla gioia del Concilio (io veramente ne godetti anche quando sentivo friggere coloro che temevano la collegialità: sono dispettoso per natura!). Adesso (torniamo al dunque) sul mio inginocchiatoio ci sono solo la Bibbia e il breviario. Altri libri ci passano solo per una capatina d’occasione, solo quando mi consta

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che servono a una migliore intelligenza della Bibbia. E prego come ho detto. Direi meglio: godo “la gioia del Signore” in cui sento l’unica mia forza (Nee 8,10) e adoro in silenzio il silenzio di Dio e... mi distraggo. Ma la mia distrazione è per lo più il riverbero del mio ministero, della mia incapacità, della mia stanchezza, dei miei scoraggiamenti, della mia voglia di scappar via. La mia distrazione è quel documento che devo preparare, quella parrocchia a cui non è facile provvedere, quel giovane prete che mi sfugge e che io non so inseguire, quel confratello malato di cui non ho notizia da tempo, quell’altro che devo ancora andare a visitare, quel giovane comunista che mi ha offeso, quel prete di sinistra che viene a parlare all’Università (tu l’hai attaccato – mi dice la distrazione, ma sento che non è più distrazione – ma l’hai fatto con distacco assoluto da te? o hai cercato te? Cosa fai adesso per lui?). Poi prendo le mie distrazioni (moltiplicatele pure: aggiungetevi angustie amministrative, il problema del seminario che diventa sempre meno un problema economico e sempre più un problema pastorale di emergenza, l’Azione cattolica che stenta a riprendere. “Comunione e liberazione”, che in quella parrocchia presenta segni di crisi, i sanculotti dell’Università che urlano slogan contro il boia tale o l’assassino tal altro, ecc...) le prendo per le orecchie e le porto ad inginocchiarsi con me, a far coro con me, a servirsi di me. E allora talvolta per grazia il silenzio di Dio – che è grazia – si fa voce, si fa luce, si fa conforto. Nella mia preghiera, insomma, c’è il mio mondo. Forse mi sono fermato molto sul mio mondo di fuori... Ma il mio mondo di dentro, così radicato nel mondo di fuori, lo dico solo a Dio e al mio confessore. Il quale sa che ogni volta comincio così: “Ho pregato troppo poco, ho pregato troppo distratto, ho pregato troppo ripiegato su di me. Mi aiuti; aiutatemi anche voi raccomandandomi alla Madonna”».

Oltre al tempo dedicato alla preghiera nella cappella al mattino, l’arcivescovo raccomanda ai sacerdoti che il tempo dev’essere Madonna della Fiducia

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santificato perché esso è stato santificato quando il Verbo incarnato lo ha scandito. E così con cura e precisione, quando è in sede, recita nelle ore stabilite il breviario. Ogni giorno recita il rosario con i quindici misteri, pratica l’esercizio della Via Crucis e spesso si ferma in preghiera nella lettura di libri spirituali o anche di studio.

Scrive il 18 ottobre 1986:

«Vi confido un’esperienza: tante volte interrompo la mia lettura biblica, dove ogni giorno ho cercato il volto del Signore e dico alla Vergine Madre: “voglio vedere Gesù”, o meglio, ricordandomi degli altri: “vogliamo vedere Gesù”. E lo ripeto tante volte con la corona» 217.

• Il suo abbandono all’Amore misericordioso e la devozione allaSantaVergine,aS.TeresadelBambinGesù,allabeataCamillaBattista

Alle radici della spiritualità di mons. Frattegiani c’è il suo pellegrinaggio a Loreto prima di iniziare il suo episcopato.

«Nella Santa Casa di Loreto – scrive – ripetei le parole con cui il Verbo incarnato entrando nel mondo e quindi all’unisono col fiat di Maria dichiara la sua totale dedizione alla dolce volontà di Dio: Ecce venio».

Così scrive nel libro “S. Maria in via”:

«C’è un particolare sorprendente su cui non ho mai sentito richiamare l’attenzione e su cui mi piace richiamarla ogni volta che posso. È la misteriosa consonanza del fiat di Maria con l’atto di oblazione del Verbo che s’incarna adesso nel suo purissimo grembo. È uno squarcio di cielo che ci si para dinnanzi nella lettera agli Ebrei: “Venendo nel mondo egli dice: Tu non hai voluto né sacrifici né oblazione (è una citazione del Salmo 40), ma mi hai formato un corpo. Tu non gradisci più olocausti e sacrifici per il peccato. E allora ho detto: Ecco, vengo io – perché così di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà (Ebr 10, 5-7). Dunque è un canto a due (due fiat in uno) che sigilla nell’offerta il destino di due vite segnate dal mistero. È ancora il mistero della Donna e della sua discendenza, è il segno della Vergine e dell’Emmanuele, sarà il canto di due cuori che battono all’unisono nei lunghi anni silenziosi di Nazareth e poi sul Calvario. È Maria accanto all’Amore misericordioso» 218.

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E ancora:

«Potrà parervi paradossale, ma sta di fatto che la creazione comincia con il fiat dell’Onnipotente, mentre l’Incarnazione è provvidenzialmente determinata dal fiat della fragilissima pura umile e santa. Il fiat di Gesù farà la redenzione dal Getsemani alla tomba. Il fiat di ognuno di noi, intonato al fiat del Creatore, al fiat del Redentore e al fiat che lo Spirito Santo ispira alla Vergine, farà nel dolore e nella gioia la nostra santificazione. Altra strada non c’è» 219.

«Ricordati di Abramo, dice Mosè allo spettacolo del popolo rinnegato (Esodo 32,13). Ricordati del tuo Amore misericordioso, Signore. Ricordati della tua bontà. Quante volte avremo occasione di dirlo pensando alla nostra miseria! Ma se non ci fosse la nostra miseria, Madonna del Magnificat, come avresti fatto a darci a Natale l’Amore misericordioso?» 220.

Nel libretto: “Le strade dell’Amore misericordioso” scrive:

«Vorrei segnalare una breve preghiera che ho raccolto da un libro caro alla Congregazione dei figli e delle ancelle dell’amore misericordioso. È tanto ricca di teologia e di pietà e ve la dico come è stata scritta, nella bella edizione spagnola, certo che piacerà anche a voi. Dice così: castigame, Jesus mio, por mis iniquitades; y salvame por tu Amor y misericordia. E cioè: castigami per le mie iniquità; e salvami per il tuo Amore e per la tua misericordia. C’è riassunta la storia dell’amore e l’esperienza di ogni anima che si accosta fiduciosa al Signore, via, verità e vita» 221.

E mons. Frattegiani veramente nell’Amore misericordioso di Gesù confida, a Lui si affida e nelle sue braccia aperte sulla croce si abbandona.

•LabeataVergine

Nella introduzione al volumetto “S. Maria in Via” scrive:

«Diceva don Orione che la Madonna ha un debole per i figli birichini: lo raccontava don Penco e aggiungeva che il Servo di Dio, tutto preso dalla sua certezza di fede, si metteva a ballare raggiante di gioia. Ecco perché ho l’ambizione di dire che Santa Maria in Via è un po’ la mia strada e quindi il titolo di quest’ultimo libretto è il più coraggioso, il più presuntuoso dei titoli. Santa Maria in via col Salmo 36 (37) segna la mia povera strada col segno della fiducia. Anzi: della Fiducia. Voglio dire della fiducia che illuminò la

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mia giovinezza al seminario romano. Santa Maria in via per l’esperienza che ne ho fatto nei momenti tristi e lieti della mia vita, è la strada più diretta per andare a Cristo e per trovare in Cristo – definitiva – la via e la verità e la vita» 222.

Nota nella “Ecce venio”:

«La gioia di essere abbandonati nelle braccia del Padre, non ci toglie alle tempeste e alle tentazioni della vita, ma nel mare in tempesta c’è la stella. Guarda la stella, invoca Maria (san Bernardo). Non ho altro da dirvi se non ad invitarvi a salutare insieme la Madonna “Mater nostra fiducia nostra”. In cammino per le strade di Abramo ho anch’io un posto di tappa, dove piantare la tenda. Nella mia strada c’è la Madonna, voi la chiamate S. Maria in via. Con lei non ci stancheremo mai di riprendere il cammino».

Dopo l’episcopato anche a Sanseverino, mons. Frattegiani aggiunge alla devozione e alla invocazione a S. Maria in via quella a S. Maria dei Lumi.

•S.TeresadelBambinGesù

Una grande e venerata santa, Teresa di Gesù Bambino, aiuta mons. Frattegiani ad abbandonarsi all’Amore misericordioso del Signore. Legge più volte e medita spesso – come racconta – “La storia di un’anima” e approfondisce la conoscenza e la spiritualità della santa con libri che ne parlano, di autori diversi, in bella evidenza nella sua libreria, come Jean Guitton, Marc Joulin, ma su due particolarmente si sofferma sottolineando e commentando con numerose annotazioni e riflessioni a margine di pagine, “Iniziazione alla vera Teresa di Lisieux” di René Laurentin e “Teresa di Lisieux, la verità è più bella” di Giovanni Gennari. Nel libro di Giovanni Gennari è riportato questo brano di S. Teresa del Bambin Gesù:

«Allora lasciamolo prendere e dare tutto quello che egli vorrà: la perfezione sta nel fare la sua volontà e l’anima che si abbandona integralmente a lui è chiamata da Gesù stesso sua madre, sua sorella...».

Mons. Frattegiani sottolinea con penna rossa queste parole e a margine commenta:

«Quindi per Teresa fare la volontà di Dio è abbandonarsi totalmente a Lui» 223.

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E ugualmente marcate con due righe rosse questo altro passo dal libro di Giovanni Gennari:

«Quel giorno (la prima comunione come Teresa la ricorda dopo diciannove anni) non era più uno sguardo, ma una fusione, essi (Gesù e Teresa) non erano più due, Teresa era sparita come una goccia d’acqua si perde in mezzo all’oceano. Gesù resta solo, Lui era il Padrone, il Re. Teresa non gli aveva forse domandato di toglierle la sua libertà perché la sua libertà gli faceva paura, elle si sentiva così debole, così fragile che voleva unirsi per sempre alla Forza divina?» 224.

Termina la lettura del libro con «S. Teresa ora pro me». Come a commentare e far proprie queste parole, mons. Frattegiani riporta sul frontespizio del libro “Introduzione alla vera Teresa di Laurentin” di proprio pugno un brano del “Catechismo di Heidelberg” del 1563:

«Dom.: In che cosa consiste la tua unica consolazione in vita e in morte? Risp.: Nel fatto che con il corpo e con l’anima in vita e in morte non sono più mio, ma appartengo al mio fedele salvatore Gesù Cristo, il quale col suo prezioso sangue ha pienamente pagato il prezzo di tutti i miei peccati e mi ha redento da ogni potere del diavolo e mi preserva così che neppure un capello può cadermi dal capo senza la volontà del Padre mio che è nei cieli» 225.

•LabeataBattista

Della ammirazione e devozione dell’arcivescovo per la beata (ora santa) Camilla Battista già molto è stato ricordato. Qui riportiamo quanto scrive nel libro “Santa Maria in via”, in riferimento ai “dolori mentali” di cui molto aveva parlato in tanti corsi e meditazioni ai sacerdoti e alle religiose.

«Gesù – annota la mia beata Camilla Battista di Varano – a sua volta soffre anche il dolore della madre: “ascolta, ascolta, figliola – così parla il Signore alla mistica camerte nella celebre rivelazione dei suoi dolori mentali – ché anche cose amarissime te ho da dire e maxime quello acuto coltello che passò e trafisse l’anima mia, cioè il dolore della mia pura et innocente matre, la quale per la mia sorte e passione doveva essere tanto afflitta et accorata che mai fò né sarà persona più penata de lei. E tanto me afflisse el suo dolore, che se al mio eterno Patre fosse piaciuto, molto me sarìa stata consolazione che tutti li dolori suoi fossero retornati sopra l’anima mia e lei fosse rimasta senza pene alcune”» 226.

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Abbandono in Dio, come la Vergine Maria, Teresa del Bambin Gesù, Santa Camilla Battista, anche nel dolore e nella prova. Perché Dio è Amore misericordioso anche quando è il Dio nascosto e sembra lasciarti solo a soffrire. A chiusura ecco due lettere di Giovanni Paolo II in occasione del cinquantesimo di sacerdozio e venticinquesimo di episcopato di mons. Bruno Frattegiani. Della seconda lettera riportiamo la parte che riguarda il suo episcopato e la gratitudine dei fedeli della Chiesa di Camerino e Sanseverino Marche.

«Al Venerabile fratello Bruno Frattegiani, arcivescovo di Camerino e vescovo di Sanseverino. Venerabile fratello, avvicinandosi il 50° anno del tuo sacerdozio è nostra consuetudine, secondo l’uso dei nostri Padri, indirizzarci a te per congratularci di così grande dono da parte del Signore, per ringraziarti di così lungo e assiduo lavoro e per augurarti tutti i favori, perché da essi sostenuto e fortificato, tu possa aspirare a più grandi vantaggi. E innanzitutto davvero ci rallegriamo del dono del sacerdozio, del quale nessun altro dono e più grande o simile sulla terra, perché per esso l’uomo, divenuto poco inferiore agli Angeli (Salmo 8,9) viene arricchito di tali virtù e poteri di cui non godono neppure i santi del cielo. In quel giorno ti fu data facoltà da Dio, come messaggero di Cristo, di rimettere i peccati, di ricondurre di nuovo gli uomini all’amicizia col Padre e di portarli dalle tenebre alla luce; di amministrare l’Eucaristia e con questo nutrimento divino confortare i credenti in Cristo nelle lotte della vita. In quel giorno ti fu data inoltre la facoltà di fornire agli uomini, attraverso i sacramenti, l’aiuto per superare il deserto di questo mondo e per raggiungere finalmente la dimora dei Santi. Venerabile fratello, quanti doni sono stati accumulati in una sola persona e quanto grande dignità ti è stata conferita dalla Chiesa! Tutti questi doni sono cresciuti davvero in sterminata misura quando al sacerdozio si è aggiunto l’episcopato: per esso sei stato aggregato al collegio dei successori degli apostoli, vale a dire tra i principi del popolo di Dio (cfr. Salmo 112,8): di essi impegno particolare è predicare il Vangelo e diffondere la legge divina, governare la Chiesa che è stata loro affidata, consacrare nuovi vescovi e sacerdoti per la diffusione della fede e partecipare ai Concili convocati dai sommi pontefici. Ci congratuliamo e ci rallegriamo con te, Venerabile Fratello, perché per dono di Dio ti sono toccate in sorte tutte queste prerogative. Ma oltre a ciò ti ringraziamo per il lavoro da te svolto in così lungo tratto di tempo. Dopo avere infatti disimpegnato per somma disposizione divina molti servizi del

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sacro ministero – superato con grande diligenza il corso degli studi, sei stato Vicario cooperatore, Canonico teologo, Vicario generale dell’Archidiocesi di Perugia, professore di Lettere al Seminario e Assistente di quasi tutte le branche dell’Azione cattolica – sei stato eletto arcivescovo di Camerino con aggiunta in seguito la giurisdizione sulla diocesi di Sanseverino. Tu però, Venerabile Fratello, non hai risparmiato alcuna fatica ed hai compiuto ciò che un buon pastore è solito fare a profitto del gregge che ama: hai offerto nutrimento ai figli, ed in abbondanza, quale studioso delle Sacre Scritture; con ogni mezzo hai promosso la tanto preziosa unità; hai trattato i sacerdoti come fratelli, i fedeli come figli; hai accolto i poveri con la più grande carità; con ogni tua possibilità sei andato incontro ai lontani dalla fede e dalla Chiesa. Di tante altre fatiche ti darà Iddio ricompensa nel cielo. Rallegrati dunque, Venerabile Fratello, ed accogli la festosa gioia di così fausto evento; confida soprattutto nel Signore che è bontà per essenza. Accogli finalmente di buon animo i voti, le preghiere, gli auguri. Per quanto ci riguarda, ti siamo vicini spiritualmente, come fratelli a fratello, come compagni di pellegrinaggio verso la patria e Ti impartiamo l’Apostolica Benedizione insieme al clero ed al popolo a noi carissimi e a tutti coloro che ti vogliono bene. Dal palazzo del Vaticano, il 9 ottobre 1986, ottavo del nostro pontificato».

E nella lettera inviatagli per il 25° del suo episcopato Giovanni Paolo II tra l’altro scrive:

«Venerabile fratello, … una volta passato al nuovo genere di attività che richiedeva un diverso metodo e al tempo stesso un più ardente zelo, non esitasti a dedicarti interamente al ministero pastorale. Ne dà chiara testimonianza l’archidiocesi di Camerino e successivamente di Camerino e Sanseverino Marche. Pertanto non senza ragione ti hanno dimostrato sincera stima ed affetto il clero ed i credenti in Cristo non solo per quanto hai operato ad utilità delle loro anime ma anche per le tue doti sacerdotali ed umane: come l’amorevolezza, la paternità con la quale sei andato incontro alle necessità di tutti, e quella sollecitudine che chiaramente esprimeva quanto affetto nutrivi per loro. I credenti che hanno beneficiato di tutta la tua attività episcopale fin da quando fosti dato loro come pastore e maestro certamente prenderanno parte alla gioia della tua festa e la gusteranno come cosa propria: essi certo ti esprimeranno a loro volta quell’affetto con cui tu stesso li hai amati … Dal Palazzo Vaticano, il 15 marzo del 1989, undicesimo del nostro pontificato. Ioannes Paulus pp. II».

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Il sindaco di Lima in visita a Camerino. Al centro il prof. Giannella,rettore dell’università, e a sinistra mons. Giuseppe Tozzi

Durante un convegno di argomento sociale

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appendice

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ECCE, VENIOLeTTera di saLuTo aL cLero e aL popoLo di caMerino

Venerati Confratelli e cari Figlioli, non senza trepidazione, vi mando il mio primo saluto ufficiale, la prima lettera pastorale. Sapete già,

dallo scambio di messaggi col venerato mio Predecessore, come vi ho nel cuore dal 14 gennaio quando seppi della mia designazione.Preciso: vi ho nel cuore con il vostro volto, sebbene non ancora noto; ma è da trent’anni che prego per le anime che un giorno il Signore mi avrebbe affidate. Anime che si son fatte via via carne e sangue e battito di cuori e restano incise - anche se con tonalità diverse nel più intimo del mio essere per l’eternità: dai compagni di Seminario a cui fui prefetto (qualcuno mi ha preceduto nel santo collegio dei cescovi) ai «baschi verdi», alle giovani, alle donne e agli uomini della mia Migiana; dai gruppi sparuti delle domeniche nell’agro romano alle folle di mezzogiorno nella cattedrale di Perugia dalle convittrici di S. Antonio prima e poi della SS. Annunziata (Conservatori Riuniti) ai fidanzati e agli sposi dei nostri incontri di Cana e di Nazareth; dai cuori sereni intravisti nel ministero quotidiano ai casi angosciosi sfilati in penosa rassegna davanti al Tribunale Ecclesiastico; dai discepoli del seminario di Perugia alle varie categorie di Suore collaboratrici con l’opera e con la preghiera, alle pazienti Suore alunne della scuola di teologia; dalle singole anime incontrate al confessionale ai gruppi degli ultimi anni: Rinascita, Vangelo, Giuristi e Medici Cattolici e finalmente la valorosa Gioventù Femminile. È, per il passato, una povera rassegna che il cuore completa con tutti i volti di amici e la trasforma in cantico nostalgico di addio. Ora è il vostro turno, cari figlioli di Camerino, che prendete il posto di tutti, senza scansare nessuno dal ricordo affettuoso e dalla preghiera ardente. Da trent’anni... Così sono trent’anni che prego per voi. Vi affidai al Signore nell’ordinazione sacerdotale e nella prima Messa ed ho continuato a portarvi nel mio memento ogni giorno, poveramente ma con tutta l’anima. Eravate ancora senza volto. Dal 14 gennaio procurai di darvelo a modo mio, cercando notizie di Camerino sulle enciclopedie e sugli annuari. E così, quando la mattina del 15 celebrai la mia prima messa in onore della Vergine Santissima «pro Camerino», sapevo di pregare per settantamila anime che il Signore mi affidava e che io mi affrettavo a mettere sotto il manto della Madonna (pensate che gioia quando poi vidi quel manto e, sotto, un gruppo simbolico di voi nella bella immagine della Mater Misericordiae!). Solo

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uno stringimento di cuore: avevo letto di trentacinque Seminaristi! Poi mi spiegarono che l’annuario pontificio conta solo i filosofi e i teologi e mi fu detto che a Camerino c’era un Seminario maggiore e un Seminario minore con un totale di centoventi seminaristi, e il cuore si allargò per questi «getti rigogliosi di olivo fioriti intorno alla mia mensa» (salmo 128), per accoglierli in me in nome di Dio «come pupilla dell’occhio» (salmo 17). Nelmesediattesa. Fino al 21 febbraio furono giorni raccolti, trepidanti e sereni (a proposito di dopo, con il comprensibile terremoto, vi dico subito una cosa: fatemi lavorare senza risparmio e siate esigenti con me, ma lasciatemi - per il vostro bene - il tempo per pregare e per studiare le cose di Dio, perché tutto il mio agire proceda dal mio incontro quotidiano con Lui per Spiritum Sanctum in Christo). Quei giorni continuai a cercarvi e a pregare per voi e a far pregare - con le debite cautele richieste dal grave segreto - per voi e per me. Pellegrinai al santuario dell’Amore misericordioso a Collevalenza e, quando il 18 febbraio il mio venerato arcivescovo mons. Raffaele Baratta mi avvertì che il 21 sarebbe avvenuta la pubblicazione, decisi di recarmi l’indomani a Loreto. Non vi dico quanto la mia buona mamma, che mi aveva seguito nel primo e fu invitata al secondo, si meravigliasse di questa improvvisa «smania» di pellegrinaggi: sarebbe stato così bello con il tempo buono a primavera! Ma la mia primavera cominciava a Camerino e volevo portarne le primizie alla Madonna di Loreto, dove celebrai nella Santa Casa dell’Annunciazione. Era per me l’inaugurazione ufficiale della nuova missione tra voi, era la partenza per la mia strada, quella strada di cui subito dopo il primo annuncio del 14 gennaio avevo letto quasi a caso nel libro dei salmi: «Affida al Signore la tua strada e confida in Lui, e Lui farà» (salmo 37). Nella Santa Casa ripetei le parole con cui il Verbo incarnato, entrando nel mondo e quindi all’unisono con il Fiat di Maria, dichiarava la sua totale dedizione alla dolce Volontà del Padre: «Ecco, io vengo» (Ebrei 10, 7). Camerino, Loreto, Nazareth. Ero passato per una fugace visita a Camerino e mi ero fermato a pregare nella Cattedrale. Solo da poco ho saputo che essa è dedicata al mistero soavissimo e augusto dell’Annunciazione: una delle gioie più belle di quante finora Camerino abbia potuto darmi. Perché nell’Annunciazione si concentrano, come fasci di luce convergenti in un nimbo di gloria, i più santi misteri della nostra fede. La storia di Israele vi trova il suo punto culminante nel messaggio del Padre all’autentica Figlia di Sion, cantata dai Profeti. Maria è nel momento sublime del Fiat la figura splendida e la rappresentante adeguata della Chiesa di cui porta nell’anima tutta la santità e nel grembo purissimo l’Autore stesso della

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santità. È lì che, prendendo umana carne, il Verbo di Dio celebra gli sponsali con l’umanità e inaugura l’era definitiva della salvezza. Ed è sulla scena dell’Annunciazione che, come all’alba del mondo, lo Spirito Santo aleggia sulla creazione nuova dei figli di Dio, Lui primizia e caparra del Regno e della vita eterna. Ho fatto menzione dei pellegrinaggi e non ho pensato di dirvi che la mia preparazione più bella a questa vocazione di Abramo, che mi invita a lasciar la mia terra per seguir voi nella vostra terra benedetta, è stato il pellegrinaggio nella patria di Gesù nello scorso settembre. Mi piace solo riaccostare adesso Nazareth a Loreto, e tutte e due alla cattedrale di Camerino. E sentir la Palestina palpitar nel Piceno e il palpito mariano «del mite - del forte Piceno» raccogliersi nel cuore di Camerino all’ombra della nostra cattedrale. Come vorrei che festeggiassimo insieme - solennissima ogni anno - la cara festa della Annunciazione e dell’Incarnazione! e che le campane di Camerino ridicessero al mondo ogni venticinque marzo il messaggio de «l’Angel che venne in terra col decreto - de la molt’anni lacrimata pace» (Dante, Purg. 10)! Un’esperienzadiquestigiorni. Vi ho detto del terremoto di questi giorni, placato solo dal raccoglimento assoluto della Settimana Santa a Prato (con al centro, riassorbita nella liturgia ma più che mai vibrante nello sfondo della Passione, la festa della SS. Annunziata!). Ora voglio dirvi un’esperienza e ricavarne un ammaestramento per voi e per me. L’esperienza è quella dei complimenti, delle lodi e delle celebrazioni. Tutte cose che fanno piacere alla natura, tanto più che dappertutto ho avvertito un timbro di schietta sincerità. Ma io so bene che anche chi è sincero può sbagliare e, conoscendomi alla luce di Dio, so di sicuro che il coro - pur non volendo, pur essendo composto di voci eccezionali - è un coro stonato. Gli amici piccoli e grandi mi perdonino, tanto più che son tanto sensibile e tanto riconoscente al loro affetto e alla loro simpatia; ma se dicessi che hanno ragione, non me lo perdonerebbe il Signore. Lui solo sa le mie miserie e a me non resta che «gloriarmi delle mie debolezze, perché abiti in me la forza di Cristo» (2 Cor. 12 9). Un insegnamento di S.Teresa diG. B. L’ammaestramento è quello stesso che ho annotato in una vecchia edizione dei Consigli e ricordi di S. Teresa di Gesù Bambino: «Ah! che veleno di lodi è servito giornalmente a coloro che tengono i primi posti! Che incenso funesto! e quanto è necessario che un’anima sia distaccata da sé per non averne del male!». Più drastico e più realista Pascal: «Un principe potrà essere la favola di tutta Europa, ed egli solo non saperne nulla. Non ne stupisco: il dire la verità torna utile a colui al quale vien detta, ma dannoso a chi la dice, perché esso si fa prendere

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in odio. Ora, coloro che vivono con i principi antepongono il loro interesse a quello del principe che servono; e così si guardan bene dal rendergli un servizio con il rischio di nuocere a se stessi» (Pens. 243, ed. Serini). Quanto viscido e quanto vero! Ma grazie a Dio il vescovo, oggi almeno, non è un principe e la benedetta pentecoste del Consiglio ecumenico Vaticano II sta approfondendo ogni giorno di più, tanto per il Successore di Pietro come per il collegio dei vescovi successori degli Apostoli, il concetto di servizio (dìakonia) nella comunità e per la comunità, cementata dalla comunione con Cristo (koinonia). «Così ci stimi ognuno: come ministri di Cristo e amministratori di misteri di Dio. Ora dagli amministratori si richiede che si dimostrino fedeli»: questo vi ripeterò con S. Paolo e dovrò soggiungere con lui che non mi è lecito tenere per metro il vostro giudizio, perché il Giudice è soltanto il Signore (1 Cor. 4, 1-3). Ma nello stesso tempo vi dico: non mettete mai, per amore di Dio, una cortina fumogena d’incenso fra voi e me. Non danneggiate la mia vista che deve scrutare sempre e solo la Volontà di Dio e la sua gloria e il suo amore. Ricordi della B. Camilla Battista. Ho imparato a conoscere con tanta gioia la nostra Beata Camilla Battista e voglio far mio, come rivolto a me, il suo settimo ricordo delle «Istruzioni al discepolo» : «che guardi di non essere ladro, che chi fura viene appeso alle forche della divina giustizia; ma l’anima che Cristo sagacemente fura, sarà attaccata alle forche della innamorata Croce... Non voglio che in modo alcuno furi l’onore, né l’amore dovuto a Dio, perché queste due cose egli le ha volute per se solo, et invero con somma ragione, poiché soli Deo honor et gloria» (ed. Boccanera, pag. 201). E pur timoroso - ben sapendo come posso caderci - faccio mia la sua virile preghiera: «Se mai dirò parole con intenzione che a me tornino in onore, tu, che ogni cosa puoi, fammele tornare in vergogna e confusione» (ib pag. 202). Ma tutti insieme, consapevoli che la nostra famiglia diocesana non è un feudo - né la curia una corte di principe - facciamo tesoro degli altri due ricordi della Beata: «Il secondo ricordo. Anima benedetta nel Signore, voglio che imiti tua madre in questa virtù a lei concessa, che d’ogni cosa che tu odi o vedi, ne cavi bene: piglia la rosa e lascia star la spina» (ib. pag. 179); e ancora, dal quarto: «Sappi, figliuol mio, che le mormorazioni e i giudizi che si fanno nella religione sono dal demonio coperti e fatti fare... Un demonio sta nella lingua di chi mormora, e uno all’orecchio di chi ascolta, e questi e quello ridono insieme, e si fanno beffe dello stolto religioso che mormora, e del pazzo e forsennato che ascolta (ib. pag. 187 seg.). Pascal è drastico, ma la nostra Battista intinge la penna nel fuoco. Là si parla di

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principi, noi diremmo di dittatura; ed è naturale che in tempo di dittatura ci si sfoghi a dir male nel buio. Qui si parla di religione e noi possiamo estendere alla Chiesa famiglia di Dio. Nonvengoperesserservito...Il vescovo (dico vescovo per dire l’istituto divino, e lascio stare per un pò l’arcivescovo che distingue la diocesi più che l’eletto, ma è puro frutto di contingenze storiche e forse ricorda i tempi meno belli del principe) viene a voi come Gesù, «non per essere servito, ma per servire e per dar la sua vita» (Marco 10,45). Viene a promuovere la comunità dell’amore ed ha bisogno di amore e di sincerità. Se c’è qualcosa in lui che vi turba, voi dovete dirglielo con tutta umiltà e carità. Umiltà, perché questo servo di Dio rappresenta tra voi ufficialmente il Signore. Carità, perché anche lui - come voi - porta il suo grande tesoro (e la sua responsabilità tremenda) in un vaso di coccio (cfr. 2 Cor., 4-7). È chiaro che egli non potrà misurare il suo servizio nel Signore sulla soddisfazione di tutti, e talvolta potrà non condividere le osservazioni e talaltra potrà sembrare che non ne tenga conto. Ma resta sempre il dovere dell’apertura filiale, che sventerà il pericolo delle lodi vili e delle nubi d’incenso estraliturgico. Non è detto che al vescovo - povera creatura di carne e di sangue anche lui - non possa far bene sapere che certe cose sono state gradite, che i suoi figlioli sono contenti. La strada non s’insegna soltanto dicendo che quella già presa è sbagliata e che pertanto bisogna cambiare, ma anche rassicurando il viandante sulla bontà dei passi fatti finora. Atmosfera di schiettezza cristiana. Quello che vorrei che insieme cancellassimo per sempre dal nostro stile è l’espressione cortigiana e servile, la pratica continua dei «tre tiri doppi», il donabbondiesco «petto forte e zelo imperterrito di Vossignoria Illustrissima». Lasciamo stare - mi riferisco soprattutto alle manifestazioni pubbliche - le proteste di obbedienza e cerchiamo di ubbidire semplicemente, lasciamo stare «l’entusiasmo spasmodico sempre pronto all’osanna» (H. Hahner) e approfondiamo nella preghiera il senso quasi sacramentale della gerarchia, lasciamo stare i «Parlate, eccellenza, noi siamo ai vostri piedi!» e ricordiamo che sua eccellenza ha avuto dal Signore il mandatum di lavarli quei piedi; ma ha bisogno della atmosfera serena dell’agape, della sincerità dei fratelli e dell’amore e della devozione meditata e riflessa dei figli, che poi sono suoi figli esclusivamente in relazione al Padre che è nei cieli, a cui deve condurli - fatemi ripetere la mia cara formula trinitaria - in Christo per Spiritum Sanctum. Vi meraviglierete che vi parli cosi e non vorrei che pensaste che io ritenga questo stile il vostro stile. Ma è un andazzo che pesa un pò dappertutto

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e risente di quella visione non del tutto soprannaturale del superiore, che richiama la descrizione fosca di Pascal. Se ne è parlato anche in Concilio ed è giusto che tutti ci prepariamo a raccogliere il vino nuovo del vangelo, da questa spumeggiante vendemmia, negli otri nuovi della semplicità e della purezza di cuore e della schietta carità. Per far festa con il pane azzimo della sincerità e della verità, direbbe S. Paolo (1 Cor. 5, 8). Il mio programma. Voi vorrete sapere qual’è il mio programma, ma io non ho altro programma che quello di fare la volontà di Dio e di volervi bene e di spendermi tutto per voi, e non ho altro appoggio che la sua grazia e la benedizione della Madonna Santissima. Ci sono certo, anche per questo, da fare dei piani, ma questi piani io debbo farli con voi. Con voi, fratelli sacerdoti, e perché no? attraverso l’articolazione delle parrocchie, delle associazioni, dei gruppi, attraverso gli stessi contatti diretti, anche con voi, figlioli carissimi del laicato camerinese (laico è un nome tanto profanato e tanto bistrattato, ma di per sé designa colui che appartiene al popolo santo di Dio - laòs - e all’assemblea degli eletti). S.IgnazioeS.Cipriano. È mio grande dovere ricordarvi le forti parole di S. Ignazio Martire: «Stando sottomessi al vescovo come a Gesù Cristo, voi dimostrate di non vivere secondo il mondo, ma secondo Gesù Cristo, che è morto per noi affinché, credendo alla morte sua, siate preservati dalla morte. È necessario dunque, come già fate, che non intraprendiate nulla, senza il vescovo» (Trall. 2, 1-2); «Chi onora il vescovo è onorato da Dio; chi opera a insaputa del vescovo serve al diavolo» (Smirn. 9, 1). Ma è anche mia premura, con tutta la prudenza e con l’occhio sempre rivolto alla Santa Sede Apostolica, tradurre in pratica con voi le parole del grande S. Cipriano ai suoi Preti: «Nulla senza il vostro consiglio e senza il beneplacito del mio popolo» (Lettere 14 e 32). È naturale che per popolo non può intendersi qui il popolo campanile, ma solo il popolo-chiesa. Un popolo, supponiamo, che fa rivoluzione perché non parta il parroco giudicato dal vescovo necessario altrove per il bene di tutti, non è un popolo - chiesa ma un popolo campanile. Anche i sacerdoti di Cipriano sono consiglio al loro vescovo solo in quanto presbiterio, nella comunione di carità che non cerca i propri interessi; ed io sogno così il collegio sacerdotale di Camerino - come S. Ignazio descrive quello di Efeso «armonicamente unito al vescovo come le corde alla cetra» (4, l). Quello che non è possibile alla natura egoistica, è possibile alla Grazia. Non è quindi una supposta ventata democratica dell’arcivescovo novello e... novellino che deve portarci, ma il soffio dello Spirito Santo. L’unione che, movendo dal popolo, attraverso il clero giunge a comporsi nel cuore del vescovo e che viceversa, movendo dalla sollecitudine del vescovo per la

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salvezza e per il bene di tutti, si imposta organicamente nelle attività del clero e nella vita cristiana del popolo: ecco la «cetra» di Ignazio, ecco il «concerto di lodi a Gesù Cristo» (l.c.), ecco l’ideale paolino vissuto: «Facendo la verità nella carità, sforziamoci di crescere sotto tutti i riguardi in Lui, che è il Capo, dal quale tutto il Corpo riceve armonia e compattezza... e attua la propria crescita per la edificazione di se stesso nell’amore» (Ef. E, 15-16). La mia fontana... Vorrei concludere, dicendovi qualcosa sull’idea che ho voluto esprimere nello stemma. Anche lo stemma non ha più senso nella sua funzione strettamente araldica e quindi nobiliare (qualche anno addietro una organizzazione spacciatrice di titoli e di storie cercò di appiccicarmi uno stemma di famiglia con tanto di leone rampante e di fortezza, insinuandomi lusinghiera che i miei buoni e solidi vecchi - boscaioli di razza e fabbricanti di calce - discendevano, magari per via non del tutto esemplare, da Ugo di Provenza re d’Italia..!). Di solito quindi lo stemma del vescovo contiene una idea madre, che il motto precisa. Ho scelto una fontana e non deve parervi strano che la mia attenzione si sia fermata sulla fontana maggiore di Perugia. ... e una tentazione. Il segno della patria, che il Signore mi invita a lasciare per la terra promessa che è Camerino e per la discendenza grande e benedetta che siete voi, non deve farvi pensare ad un attacco campanilistico non deve favorire la tentazione sottilissima contro la quale vi ha messo in guardia, con tanta saggezza e con tanta finezza di intuito psicologico, il mio venerato Predecessore nella pastorale «a Dio» : «L’amore alla propria diocesi (o, insomma l’amor proprio....?) può far si che il vescovo, senza che neppure ci se ne accorga, sia visto quasi come un estraneo, dinanzi al quale conviene difendere l’onore della Diocesi, magari con una minore sincerità; conviene seguirlo, si, ma più o meno nella misura che sembra conveniente a noi che nella Diocesi siamo nati e quindi la

La piazza centrale di Perugia, con al centrola fontana di Arnolfo di Cambio (sec. XIII), a sinistra

il palazzo dei consoli e a destra la cattedrale

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conosciamo e la comprendiamo meglio. Di eventuali guai gli si dice quanto è necessario perché decida così come noi riteniamo che sia bene». Egli vi ha messo in guardia dalla tentazione ed io posso assicurarvi che nella bella fontana di Perugia non ho visto che un simbolo splendido, certo il più alla mano per me, per tradurre l’immagine biblica della «sorgente d’acqua viva». Il carissimo amico P. Diego Donati, valentissimo intagliatore e insegnante nella scuola d’arte di Perugia, in un primo bozzetto dello stemma aveva effigiato anche il grifo, una bestia mitica discretamente artigliata che - in campo rosso (!) - è l’arme di Perugia. Era perplesso lui stesso, ma non ci è voluto molto per vincere le sue incertezze quando gli ho osservato: «Questo, per sua natura, rappresenta Perugia, ed io non son più Perugia; io sono... Camerino. E poi, francamente, un vescovo con le unghie non riesco a concepirlo». Era peggio del leone del mio presunto stemma! “InunitateSpiritusSancti”. Se questo può farvi sorridere, vorrei che poteste sorridere anche della tentazione di non sentirmi perfettamente uno di voi. Io sono uno di voi, uno con voi, uno per voi proprio per la realtà che la mia bella fontana vuoi ricordarci. «Egli diceva dello Spirito Santo che avrebbero ricevuto i credenti in Lui»: così commenta San Giovanni la presentazione del mio simbolo, fatta «gridando» da Gesù il giorno solenne dell’ultima festa dei tabernacoli della sua vita mortale: «Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me. Dall’intimo di Lui - così dice la Scrittura (a proposito del Messia) - sgorgheranno fiumi di acqua viva» (Giov. 7, 38-39, secondo l’antica punteggiatura oggi accettata dalle migliori versioni). La fontana maggiore, situata dalla parte del Vangelo dell’altare maggiore della Cattedrale, sembra realizzare alla lettera, plasticamente, la gioiosa antifona pasquale, che poi riassume il cap. 47 di Ezechiele, una delle profezie a cui Gesù allude nel passo ricordato: «Ho visto un’acqua che sgorgava dal tempio, dal lato destro, alleluia; e tutti quelli a cui è giunta quest’acqua sono stati salvati e dicono: alleluia alleluia». La fontana di Pasqua. La mia fontana vuole essere la fontana di Pasqua, la sorgente dello Spirito sgorga dal cuore squarciato di Cristo. Prima di Ezechiele l’aveva cantata Isaia: «Il Signore è la mia forza e il mio canto, egli è la mia salvezza. E voi attingerete acqua con gioia alle sorgenti del Salvatore» (12, 2-3); «Voi che avete sete, venite alle acque. Anche se non avete argento, venite... Ascoltatemi e venite a me, ascoltatemi e la vostra anima vivrà» (55, 1.3). E più tardi l’aveva cantata Zaccaria nell’impressionante visione del Trafitto, in un passo che - ispirandomi al racconto di S. Giovanni - vorrei intitolare «lo squarcio e la sorgente»: «In quel tempo io spanderò sulla casa

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di David uno spirito di benevolenza e di preghiera. Guarderanno a colui che hanno trafitto e lo piangeranno come si piange un figlio unico... E ci sarà una sorgente aperta per la casa di David e per gli abitanti di Gerusalemme, per il peccato e per l’impurità» (12, 10 e 13, l). La mia fontana scroscia in un canto di festa, che richiama l’exsultet e ripete al mondo, che non si accorge di morire di sete, la buona novella, l’amico vangelo della salvezza. L’anniversario del venerdì santo. Mentre termino di scrivere questi pensieri, mi ricordo che oggi è l’anniversario della più probabile data della morte di Gesù (7 aprile dell’anno 30). La morte, che ha sconfitto per sempre la morte, è il prezzo di quell’acqua che si prende senza argento (Isaia) e dona la vita vera. Giovanni evangelista contempla nella morte del Signore il preludio della Pentecoste quando annota che Egli «piegato il capo, emise lo Spirito» e poco dopo descrive, con parole ammirate e richiamanti con energia al dovere della meditazione, il colpo di lancia e l’acqua sgorgata dal sacro costato (Gìov. 19, 30.34-35). Par di sentirlo assorto nel canto del Vidi aquam, ricamato di alleluia. La fontana è Cristo Gesù. La mia fontana vuole essere il simbolo dell’Umanità di Cristo, strumento congiunto della divinità per il grande dono della Grazia, ed in particolare il simbolo del Cuore Sacratissimo, che nella funzione di sorgente dello Spirito Santo ha la più profonda e la più letificante giustificazione teologica. La mia fontana vuole essere il simbolo vivo della Santa Chiesa - «del Sangue incorruttibile conservatrice eterna» - continuatrice misteriosa dell’Incarnazione del Verbo e destinataria perenne della seconda missione trinitaria, quella del Paraclito che «resta con noi in eterno» (Giov. 14, 16), nascosto e vibrante nella Gerarchia della Chiesa e nell’intimo sacrario di ogni anima vivente nel Cristo. La vecchia fontana: la Chiesa. La Chiesa, aveva detto un giorno l’amatissimo Papa Giovanni, «è come la vecchia fontana del villaggio» e p. Ernesto Balducci ha commentato stupendamente: «L’acqua della vecchia fontana! La fontana è vecchia, ma vive, sempre nuova nel suo dono, e il villaggio vive di lei. I bambini la raggiungono trafelati, ricevono lo scroscio fresco sulla faccia riversa sotto la cannella e riprendono la corsa tergendosi la bocca; i vecchi fanno conca col palmo della mano e sorseggiano parcamente; le donne fan corona; con la brocche lucide, scambiandosi i progetti di cucina. Nel meriggio la fontana butta inutilmente, ma in realtà tutti, ciascuno a casa sua, vivono di lei. Anche la notte l’acqua canta e rende vivo il silenzio... I caffè e i bar spacciano intrugli di moda, che ieri non c’erano e domani non ci saranno, e attirano i clienti con luci e con suoni; la vecchia fontana non

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ha tutela contro la notte che scende; la sua nobiltà è la sua stessa natura. Di tanto in tanto qualcuno fa osservare (si tratta dei soliti pedanti!) che il tubo, di fuori ha la ruggine, che la vasca è sbrecciata, che il muschio, nel fondo, nasconde chi sa quali sporcizie. Osservazioni giuste, che trovano il consenso in tutti, ma non scuotono nessuno; basta che la fontana continui a buttare, come sempre. Così, seguendo il filo della memoria, mi racconto la parabola della Chiesa, della vecchia fontana di cui Cristo parlò, seduto al pozzo di Giacobbe, accanto ad una donna venuta con la brocca ad attingere l’acqua. «Chi beve di quest’acqua, Egli disse alla donna, avrà ancora sete; chi invece beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete». È Lui, Cristo, con la sua parola e la sua grazia, l’acqua di vita eterna. La Chiesa è la fontana, Cristo è l’acqua viva (preciserei: secondo Giov. 7, 38-39 Gesù è la fontana - che continua nella Chiesa - e il suo Spirito è l’acqua viva): Dio li ha pensati insieme, dall’eternità. Ogni uomo che viene in questo mondo ha sete di quest’acqua, alcuni vedono la fontana ma non conoscono la propria sete, altri conoscono la propria sete ma non vedono la fontana» (Testimonianze, 1963, p. 332 ). LafontanazampillantenellaVitaeterna. La mia fontana è il simbolo di ogni anima che beve alla sorgente del Cuore di Cristo e della sua Chiesa, perché Gesù ha detto: «Chi beve dell’acqua che io gli darò non avrà più sete, anzi l’acqua che io gli darò formerà in lui una fontana d’acqua zampillante nella vita eterna» ( Giov. 4, 14). E la vita eterna - ha definito Gesù stesso - è questa : «che conoscano Te, solo Dio vero, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Giov. 17, 3). Come vorrei che tutta la nostra catechesi, cari fratelli sacerdoti, fosse improntata alla semplicità del Vangelo e, passando attraverso l’elaborazione smagliante della liturgia, portasse il nostro popolo attraverso le devozioni (santissime! ) alla Devozione, la grande devozione del Padre celeste - che è solo Amore (1 Giov. 4, 4.16) - in Christo per Spiritum Sanctum. Credo che, se vivessi cent’anni fra voi, non saprei dirvi altro. Da tanti anni non dico altro: solo la gioia di abbandonarci nelle braccia del Padre, che in Gesù ci si è rivelato e ci ha manifestato il Suo amore (prima missione), che insieme a Gesù ci manda lo Spirito Santo - il Dono per eccellenza - che fa viver la Chiesa, comunione di Santi, in vista della risurrezione dei corpi e della vita eterna (seconda missione). La stella del mare. Non so dire altro. Cioè no: tutto questo non so dirlo se non ci metto la Vergine santa. Il Padre si è servito di Lei, preparata ab aeterno immacolata; il Verbo ne ha preso un volto umano, che dovette essere tutto Lei, e il Cuore di Cristo - fontana d’acqua viva - ha condizionato i suoi

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primi palpiti ai palpiti del cuore di Lei, e il Bimbo di Betlehem perseguitato non si è affidato alle legioni delle schiere celesti ma unicamente alle braccia di Lei, sua Mamma e sua Fiducia; la prima tempesta di gioia e di Spirito santo (una piccola pentecoste) l’ha provocata Lei portando Gesù ad Ain Karim nella casa di Elisabetta; sulla culla della Chiesa ha vegliato Lei, che ai piedi della croce l’aveva partorita nel dolore. Lei ne è scorta e madre e fiducia fino alla resurrezione e alla vita eterna. Potevo accontentarmi ancora della mia fontana. Penso alla fontana di Nazareth, soffusa di tanta dolcezza per il ricordo della Benedetta che vi attinse acqua; era per estinguere la sete umana del Figlio di Dio, Lui la sorgente. Penso alla fontana di Gihon, l’unica sorgente di Gerusalemme, che i cristiani arabi chiamano ain sitti Mariam (fontana della signora Maria). Nel piano attuale della Provvidenza, senza Maria non si concepisce Gesù. La prima vena della sorgente è Lei. Ma ho preferito - nello stemma, in alto - una immagine più piana e più tradizionale. La gioia d’essere abbandonati nelle braccia del Padre non ci toglie alle tempeste e alle tentazioni della vita. Ma sul mare in tempesta c’è la stella: «Guarda la stella, invoca Maria» (San Bernardo). Stavolta davvero faccio punto. Perché non ho altro da dire se non invitarvi a salutare insieme la Madonna Mater nostra, Fiducia nostra. SantaMariainvia. In cammino per la strada di Abramo, ho anch’io il mio posto di tappa dove piantare le tende. Nella mia strada c’è la Madonna. Voi la chiamate Santa Maria in via. Con Lei non ci stancheremo mai di riprendere il cammino. Con Lei invoco i Santi Patroni gloriosi: il giovane vittorioso Venanzio e il mio predecessore Ansovino. Con i nostri Angeli custodi, con i nostri patroni particolari (per conto mio in questi giorni ho aggiunto alla mia piccola litania la B. Camilla Battista), ci custodiscano, ci spronino, si dispongano ad accoglierci festosi nel cielo. Il mio saluto. Il mio saluto affettuoso a tutti. Prima d’ogni cosa peraltro voglio rinnovare i sensi della mia gratitudine e della mia fedeltà al Santo Padre. Al venerato predecessore ho già detto come lo penso: per me non è partito, ma è solo salito sul monte a pregare per il nostro combattimento spirituale. Lui farà da Mosè ed io cercherò d’essere il vostro Giosuè. L’interessante è che «ci sforziamo di entrare nella terra del riposo» (Ebrei 4, 11) faticando molto quaggiù. Un pensiero devoto al nostro antico Pastore mons. Umberto Malchiodi arcivescovo vescovo di Piacenza e ai vescovi, vanto e onore di Camerino, mons. Achille Salvucci di Molfetta Giovinazzo e Terlizzi, mons. Raffaele Campelli di Cagli e Pergola e mons. Federico Sargolini titolare di Lisiade, al quale non può non sentirsi particolarmente

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legato chi in qualche modo si è occupato della GIAC. Un abbraccio fraterno a tutti i miei sacerdoti, dall’attuale vicario capitolare mons. Giulio Splendiani al più povero e lontano parroco di montagna, dal più santo al più bisognoso del perdono di Dio (ma quale santo non ha bisogno del perdono di Dio?), dal fratello maggiore al figliol prodigo. Un abbraccio fraterno ai Religiosi tutti, che so per il presente e spero per il futuro di valido cordiale aiuto al clero diocesano. In mio primo abbraccio paterno va ai cari Seminaristi piccoli e grandi, con la più grande benedizione, quella del campo fertile cui ha benedetto il Signore (Gen. 27, 27). Un saluto grato e festoso alle Religiose e alle Signorine degli Istituti secolari in ogni campo del loro lavoro; un saluto particolarissimo alle Claustrali dei vari monasteri, ricchezza di riserve interiori per la archidiocesi tutta. Omaggioalleautorità.Il mio deferente cordiale saluto alle autorità di ogni grado della Provincia di Macerata, ai Parlamentari della circoscrizione, a tutti i sindaci e agli amministratori e alle altre autorità di tutti i comuni della archidiocesi, qualunque ne sia il colore politico. Nessun colore mi impedirà mai di rispettare e di amare le persone, anche quando la mia consacrazione mi vieterà di «chiamare il buio luce, e la luce buio» (rito della consacrazione). Questo saluto si colora di affetto - e, se mi permettono, di paternità - soprattutto quando si tratta della nostra piccola capitale dove il sindaco è il mio sindaco e le altre autorità sono le mie autorità. E dico autorità di ogni genere: civili, forensi, militari. E dico le autorità accademiche della gloriosa Università, in relazione alla quale mi si vorrà - spero - concedere di continuare nelle tradizioni di cordialità del mio caro predecessore. A tutti affettuosamente. Un saluto festoso a tutti gli studenti della scuola media e dell’Università - ai camerinesi e agli ospiti - che, mi si dice, sono la vita della città e credo non tanto come risorsa quanto come vivacità di espressione e di ritmo. Alle associazioni religiose, particolarmente alle associazioni di A.C., una dichiarazione di affetto speciale e una benedizione di incitamento a proseguire, a crescere, a fiorire nella unità. A tutti i camerinesi della città e dei vari comuni, dai bambini ai già nonni et ultra, dai giovani frementi di vita ai sofferenti, ai malati (penso con particolare tenerezza al carcere e all’ospedale civico), a tutti il mio saluto cordiale, paterno e la mia benedizione grande come il Cuore di Dio, da cui solo essa proviene per il mio ministero. Appena potremo, ricorderemo insieme i vostri morti - a cui vi chiedo la carità di aggregare i miei - e riaffermeremo davanti a loro la nostra fede in Gesù Resurrezione e Vita. La mia fontana è la sorgente, a cui essi hanno bevuto l’acqua zampillante nella vita eterna. Sono passati per il

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venerdì santo solo per entrare nello squarcio del Cuore di Cristo e riposano in attesa di riudire lo scroscio pieno nella vera grande mattina di Pasqua che non conosce tramonto. Il Signore ci conservi la gioia della fede nella carità. Questa è la mia benedizione con l’«arrivederci il 3 maggio». Intanto anche voi pregate molto per me. Vi benedica Iddio Onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo. Amen. Perugia, 7 aprile 1964. ✠ BRUNO FRATTEGIANI, arcivescovo La mia prima benedizione veramente episcopale è per voi, fratelli e figli carissimi. In nomine - Patris et + Filii et + Spiritus Sancti. Amen. Perugia, 19 aprile 1964. ✠ BRUNO, arcivescovo.

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CANTATEDOMINOCANTICUMNOVUMLeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1965

La visita pastorale come servizio per un rinnovamento liturgico della predicazione, del culto e della vita cristiana. Cari fratelli sacerdoti,

mi rivolgo soltanto a voi e vi dispenso dall’obbligo tradizionale di leggermi ai vostri fedeli, per i quali piuttosto è necessario che sentiamo tutti l’impegno dell’ora: rinnovarci per rinnovare. Rinnovarci nelle fonti della predicazione e della catechesi, per dare ogni giorno più schietta la Parola di Dio. Rinnovarci nell’approfondimento della nostra quotidiana espressione liturgica, concentrando tutto il nostro amore e la parte migliore della nostra meditazione sulla realtà misteriosa della messa e del breviario, che la Chiesa ufficialmente ci affida e che attraverso le altre pratiche di pietà innerva le nostre giornate, facendo di ogni alba un canticum novum e di ogni sera stanca un grazie al Signore quia viderunt oculi mei Salutem tuam; perché da noi, come da calici traboccanti, il senso del mistero operante si trasmetta alla comunità santa dei Figli di Dio affidati alle nostre cure pastorali. Rinnovarci nella vita per insegnare con l’esempio la retta impostazione dell’esistenza cristiana, troppo spesso paralizzata dalle pastoie di un moralismo legalistico e gretto, quando Cristo Signore ci invita a lanciarla per le piste animose della sua sequela e San Paolo ne scandisce i passaggi al ritmo della sacra azione liturgica: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia divina a offrire i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito al Signore, come culto spirituale» (Rom 12,1). Spirituale, nell’originale greco di Paolo, è logikos; e il teologo protestante Karl Barth preferisce tradurre proprio nel senso di logico: la logica cristiana di dare tutta la vita come offerta a Chi s’è dato tutto a noi nell’infinità dell’Amore. Vi dispenso dall’obbligo di leggermi, perché la mia poca esperienza mi insegna che la lettura corrente delle lettere pastorali provoca solo una discreta dose di sbadigli (si legge perché tocca e si legge perché non si vede l’ora di finire). Ma vi prego di dire ai fedeli il mio pensiero dopo averlo fatto vostro, dopo averlo sviluppato nella meditazione e nello studio (studio allargato dagli opportuni sussidi che oggi offre in abbondanza la letteratura biblica, liturgica e conciliare). E nella preghiera. Nella preghiera soprattutto: quia sine me, ci ammonisce il Signore, nihil potestis facere (Giov. 15, 5). Il rinnovamento della predicazione. La visita pastorale, ho detto nel titolo, vuole essere al servizio di un rinnovamento liturgico prima di tutto della predicazione. Rinnovamento liturgico in questo campo significa

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incamminarsi per la strada maestra della Bibbia e della Liturgia, impegnarsi a leggere e a meditare e a studiare la Bibbia sia nello scrigno prezioso dei libri santi e sia nell’ostensorio mirabile della Sacra Liturgia destinato a rifletter di quei Libri le luci più vive sul cammino del popolo di Dio, decidersi a far parte di quei tesori ai fedeli di ogni ceto con sapiente dosaggio e a ritirar fuori quell’ostensorio dal cumulo di sovrastrutture sotto il quale abbiamo tante volte sepolto la Verità e la Vita, limitandoci spesso a dare con il contagocce quello che la Chiesa, dal cuore di Cristo, rovesciava a fiumi (vorrei sempre ricordarvi il mio haurietis aquas cum gaudio). Le costituzioni dogmatiche sulla liturgia e sulla chiesa, promulgate dal Concilio Vaticano II, ci serviranno di guida essenziale. Il nostro popolo, nonostante le formulette imparate a memoria nel catechismo delle elementari, naviga in una spaventosa ignoranza in materia di religione. Né fanno eccezione - dobbiamo confessarlo a nostra confusione - quelli che hanno seguito i nostri corsi nella scuola media, nemmeno quelli che ci hanno dato una qualche soddisfazione quando hanno ripetuto a puntino certi schemi che erano il riassunto preciso dei vecchi trattati di teologia, quando hanno dato a vedere di aver capito la differenza fra attrizione e contrizione, fra coscienza vera e coscienza falsa, fra oggetto e fine e circostanze, tra merito de congruo e merito de condigno... Salvo magari non avere né contrizione né attrizione al momento della confessione, coltivare un guazzabuglio al posto della coscienza, perdere ogni discernimento nel comportamento morale e meritarsi l’unica scusa possibile: quella di una ignoranza crassa e supina. Il motivo è solo questo: che la nostra scuola è troppo spesso staccata dalla vita. Anzi dalla Vita, da quella Vita che è la Parola di Dio che «era da principio presso Dio ed era Dio... ed era la luce degli uomini... e si è fatta carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi» (Giov 1). Per aver la misura della lontananza spaventosa della nostra gente da questa sorgente genuina, basta riflettere un po’ sulle confessioni di massa. Chi di noi non sa dolorosamente che il novanta per cento degli uomini bestemmia dall’età di dieci anni fino alla decrepitezza e se ne confessa regolarmente come della cosa più naturale di questo mondo, nonostante la messa in scena di certi missionari («deh, l’audace lingua frena - scellerato peccator!», con tanto di fiaccolata per le vie del paese... Almeno nella mia parrocchia l’ultima volta fecero così, e non mi meravigliai affatto quando nelle confessioni successive sentii ripetere la penosa antifona). Ma io mi domando se il nostro popolo bestemmia il Dio d’amore che «ha dato il suo Figlio unigenito» (Giov 3, 16) per liberarci non certo dai mali di questo mondo (salva, beninteso, la prospettiva escatologica), ma dal peccato che ci

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danna. E sono convinto che il nostro popolo non bestemmia questo Dio che non conosce, non bestemmia il Dio della Bibbia che non gli è stato mai adeguatamente presentato. Bestemmia semmai il Dio dell’astrazione filosofica, cui non può arrivare, il «Padreterno» che comanda a capriccio come un don Rodrigo qualunque, che fa piovere come gli pare (che differenza di tono dal richiamo evangelico di Mt. 5, 45!), il Dio gendarme dispotico garante della legge morale che l’uomo non può osservare da solo, il Dio banchiere ingiusto che non rende gli interessi secondo i capitali di meriti versati nella sua banca perché la va meglio spesso ai birbanti matricolati che non «a noi galantuomini» (capovolgimento assoluto dei valori evangelici espressi nella parabola del fariseo e del pubblicano), il Dio esautorato dalla concorrenza dei vari Santantonio, Santeurosia, Santarita, fatti parte pro rata della relativa dose di bestemmie (1). Non dico per ridere; dico per piangere e per fare mea culpa. Il seguito delle confessioni non è certo più consolante. Rubare, non hanno rubato. Ammazzare, non hanno ammazzato. Altro non saprebbero. Ah si! c’è la faccenda della messa la domenica. Ma il Signore si dovrà accontentare... di grazia quello che si fa. C’è la faccenda del venerdì: devono pensarci le donne. Il sesto comandamento? Quello è un’altra cosa, e una grossa percentuale di penitenti ha tutta l’aria di domandarvi: «ma a lei di queste cose che gliene importa?». E dire che qualcuno all’esame aveva saputo ripetere per filo e per segno che ci si deve confessare di tutti i peccati mortali, secondo la specie e il numero e le circostanze...! Intendiamoci bene: io sono convintissimo che il Signore, nella sua infinita Bontà, si serve anche di queste confessioni per seminare la sua Grazia nelle anime che, nonostante le prospettive distorte e aberranti, conservano in sostanza il dono della Fede (cfr. Ebr. 11, 6). E godo immensamente di certe comunioni generali di uomini, che con il loro raccoglimento - spesso commovente - dicono di aver trovato, almeno per un po’, sulla loro strada il Dio dell’Amore. E il Dio dell’Amore non mancherà certo di prendere le loro tribolazioni, i loro sudori, le loro povere preghiere per custodirle nel suo cuore per l’eternità («nel suo otre» - dice il Salmo 56 con una nota di colore tutta beduina - «nel suo otre» il Dio vero, tanto lontano dal Dio «Padreterno», custodisce come pietre preziose le lacrime dei poveri; e chi più povero di colui che è stato defraudato del pane della vera dottrina?). Ma il bilancio, dal punto di vista nostro, non può non dirsi fallimentare. Che fare? In teoria è presto detto: sulla base della nostra buona formazione teologica, dalla quale - sia ben chiaro - non possiamo affatto prescindere, diamoci allo studio della s. scrittura, raccogliamo dalla liturgia che li attualizza i temi biblici più indicati per una

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sintesi cristiana vitale (il credo con la bibbia, i mezzi della grazia con la bibbia, la morale con la bibbia). In pratica è forse meno facile di quanto possa apparire. L’importante è di mettercisi con tutta l’anima, se non vogliamo tradire la nostra missione. E pensiamo subito al contatto vivo degli altri con la Parola di Dio. Diamo il vangelo a tutti, iniziamo alla bibbia i più preparati, mettiamola in mano ai più colti e guidiamoli. Non aspettiamo che vengano in parrocchia i testimoni di Geovah a erudire i nostri contadini (allora lo scandalo è questo: che gli «evangelizzati» non bestemmiano più, coltivano l’amore fraterno e si fanno apostoli del loro messaggio con uno zelo che sa di puntiglio ma non può non farci pensare). In pratica, abbiamo detto, non è così facile. Ma perché la visita pastorale apporti un contributo concreto, procuriamo subito di intenderci su un programma minimo. E prima di tutto per noi sacerdoti, per l’aggiornamento della nostra impostazione kerigmatica, ho il piacere di annunciarvi la “tre giorni” liturgica che sarà tenuta alla fine di luglio da s.e. mons. Carlo Manziana, vescovo di Crema. Proprio ieri il S. Padre lo ha ricordato come reduce da Dachau e compagno di «galera» dell’eroico card. Beran. Sono certo fin da ora della vostra plebiscitaria e attiva partecipazione. Dalla “tre giorni” potranno nascere idee e iniziative. Intanto però vi consiglio l’ottimo libro «Il mistero pasquale nella catechesi», che contiene gli atti del congresso catechistico di Ascoli Piceno del maggio 1963 (2). Le relazioni veramente eccellenti di don Massi, di padre Riva, di padre Grasso, di padre Haering e di altri danno un ottimo orientamento di base. Sarò molto lieto di vedere questo libro sulla vostra scrivania (non vorrei che qualche capo ameno organizzasse il classico tiro birbone di alcuni esemplari che fanno il giro di tutte le canoniche...!). Sarò molto lieto di ragionarne con voi. E vorrò senz’altro ragionarne con i più giovani tenuti ancora agli esami quinquennali. Di fatti dispongo che, in luogo delle materie fissate per gli esami del 1964 (che per vari motivi sono stati prorogati all’agosto di quest’anno), gli esaminandi -insieme alla Costituzione della S. Liturgia e alla Instructio esecutiva- preparino accuratamente gli argomenti di questo libro per riferirne con esaurienti recensioni di fronte agli esaminatori, fra i quali per l’occasione - vincendo una vecchia allergia per gli esami - mi metterò anch’io. Sarei molto contento se si organizzassero incontri vicariali, con vari relatori scelti fra i sacerdoti del vicariato, per studiare e discutere i temi della settimana ascolana. All’ultimo momento mons. vicario mi suggerisce una splendida idea, che si rifà ad esperienze già vissute nella nostra diocesi: «Il mistero pasquale nella catechesi» potrebbe essere libro di testo per la preparazione e la formazione

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dei catechisti in appositi corsi vicariali o intervicariali. Affido per ora la proposta allo zelo dei vicari foranei. Son più che certo che qualcosa ne nasce (o meglio ne rinasce) e che potrò conoscere degli esperimenti in occasione della prossima visita. Questo per noi Sacerdoti. Per i nostri fedeli (a parte l’élite dei catechisti che se ne faranno diffusori) la parola d’ordine è: vangelo, vangelo, vangelo. L’invito a Luca vale per tutto quest’anno. Siccome la visita pastorale, contro la mia prospettiva iniziale d’un giro rapido, comprenderà probabilmente più anni (anche se ridotte spesso a ben minuscola cosa, centosettantaquattro parrocchie esigono il loro tempo), studieremo insieme in seguito a quali libri sacri dedicare le nostre cure. In ogni caso il libro scelto è materia integrativa per la preparazione ai sacramenti e per il programma di catechismo di qualsiasi grado con gli adattamenti, le scelte, i sussidi e gli accorgimenti che ognuno riterrà opportuni e per cui potrà essere di valido aiuto l’ufficio catechistico diocesano. La cosa certa è che l’arcivescovo interrogherà tutti su questa materia, che considera essenziale complemento della preparazione catechistica. Il rinnovamento della liturgia. Stando al tema «per un rinnovamento liturgico», dovrei specificare questa seconda parte nel senso di «rinnovamento della liturgia propriamente detta». Difatti nella concezione delle costituzioni conciliari, il momento liturgico è al centro della vita della Chiesa, di cui è l’espressione più adeguata. È dal momento liturgico, dalla ripresentazione vitale del mistero pasquale che nasce, con il sacramento dell’ordine, il triplice potere-servizio del magistero e del ministero e del governo pastorale. Dalla liturgia propriamente detta nasce ogni espressione della vita della Chiesa, che non può non essere sempre espressione sacrale, non può non essere liturgia: liturgia della proclamazione della Parola di Dio e della predicazione e della risposta di fede del popolo di Dio, liturgia della celebrazione ministeriale e della offerta comunitaria dei divini misteri, liturgia di una guida che è luce sul candelabro ut luceat omnibus qui in domo sunt (Mt 5,15) in un clima di offerta intonata al testo citato da San Paolo. Lo stesso nome Ecclesia implica una suggestione liturgica, se è vero che ekklesia deriva da ekkaleo: il che vuoi dire che Chiesa non è di per sé il Popolo di Dio (comunità degli uomini nuovi che Dio si è preparato dall’eternità, attuandola a tappe lungo i secoli di storia della sua «pazienza» nel nuovo Adamo Cristo Gesù e nel dono dello Spirito Santo), ma la convocazione santa di questo Popolo, durante la quale la Parola di Dio proclamata solennemente provoca negli ascoltatori bene disposti la reazione salutare della Fede in vista della costituzione prima e in seguito della rinnovazione del Patto. Tutto è sigillato

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dal sacrificio e dal banchetto sacrificale, che porta alla comunione con Dio. Se leggete Esodo 24, trovate proprio questo: è la storia del patto antico, e probabilmente il racconto è costruito sulla trama di un rito che serviva talvolta alla rinnovazione del patto. Era l’ombra e la figura. La realtà luminosa la trovate leggendo il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, tenendo conto del rituale d’uso che contemplava il ricordo esplicito della prima Pasqua (la proclamazione). L’indomani c’è la Croce, poi c’è la Risurrezione e la Pentecoste: in una parola la Pasqua nel suo duplice aspetto di morte e di vita, la Pasqua che la Cena Santa anticipa e la Messa, cuore della Chiesa e sintesi della sua vita, incessantemente ripresenta. Mai la Chiesa (convocazione del Popolo di Dio) è così Chiesa come durante la Messa. Mai la vostra parrocchia così pienamente rappresenta la Chiesa cattolica, come quando ve la vedete radunata intorno all’altare (3). Oggi che nella Messa riprende il suo posto d’onore la proclamazione della Santa Scrittura, mi piace ricordare un intervento del vescovo melchita mons. Neofito Edelby che fu seguito con religiosa attenzione nella sessione conciliare del 5 ottobre scorso: «La Scrittura è una realtà liturgica e profetica, è una proclamazione prima di essere un libro, è la testimonianza dello Spirito Santo sull’avvento di Cristo, di cui il momento privilegiato è la liturgia eucaristica. È attraverso questa testimonianza dello Spirito che tutta l’economia del Verbo rivela il Padre. La controversia post-tridentina ha soprattutto visto nella Scrittura una norma scritta; le Chiese orientali vi vedono la consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana, ma inseparabilmente dalla consacrazione eucaristica in cui tutta la storia è ricapitolata nel corpo di Cristo» (4). Sono profondamente convinto che il Concilio Vaticano II ci autorizza a far nostra questa felice intuizione dell’anima orientale, tanto nutrita di Padri. Resta però vera una cosa: il Concilio mette in evidenza il fatto base di questa concezione liturgica integrale quando afferma che «dal costato di Cristo morente è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa» (5), ma ha cura di sottolineare il carattere specifico del momento liturgico: «la Liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado ne eguaglia l’efficacia. Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che

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viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio, quale ministro del santuario e del vero tabernacolo; insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria; ricordando con venerazione i santi speriamo di ottenere un qualche posto con essi, e aspettiamo quale Salvatore il Signor nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, nostra vita, e noi appariremo con lui nella gloria» (6). E al momento liturgico, in quest’ora delicatissima d’inaugurazione di una riforma che attende ulteriori sviluppi, io vi scongiuro di dedicare tutte le vostre premure e tutte le vostre attenzioni. Utilissima, per aiutare a far comprendere nel loro spirito i nuovi riti, potrà essere la Pastorale dell’arcivescovo di Bologna card. Lercaro, concepita in forma di piccolo catechismo (7). Ottimi orientamenti per la catechesi della messa e dei sacramenti troverete nel citato libro di Ascoli. Per il contributo concreto della visita pastorale, le circostanze mi dispensano - almeno per questi primi mesi - dal fissare qualche punto particolare. Il punto è quello che incombe ai pastori di tutta la Chiesa: educare il popolo a liturgie domenicali e festive, che siano piene di dignità e ricche di vitalità comunitaria, di raccoglimento, di preghiera, di canti. Il contributo concreto è questo: il vescovo viene a vedere il vostro lavoro e spera di potersene rallegrare con voi davanti al Signore. Non mancano difficoltà, comprese quelle pecuniarie indispensabili per l’acquisto di messali, lezionari, guide per il popolo, leggii. In seguito ci sarà da pensare agli altari, agli amboni, alla distribuzione più razionale dei posti. Ma il precetto dell’ora è questo: nulla manchi di quanto è prescritto, o comunque necessario, per una dignitosa esecuzione del servizio liturgico festivo. Il rinnovamento della vita cristiana. Anche qui c’è tutto da rifare nella impostazione della catechesi morale. Nel volume raccomandato, il redentorista P. Haering - dando prova di sereno distacco da quello che suol dirsi lo spirito di corpo e nello stesso tempo di garbatissima arguzia - rimette in discussione i nostri metodi di formazione morale e fa far le spese di tutto a due suoi famosi confratelli teologi: «Un manuale di morale del secolo scorso presenta questo personalismo (il personalismo aristotelico) con ingenuità. La frase di Gesù: «amatevi come io vi ho amato» è riportata secondo il testo dell’Antico Testamento «amate il prossimo come voi stessi»; cioè si deve amare sé stesso più che l’altro, e l’altro è amato solo in vista del perfezionamento di sé stesso. Quindi lo stesso manuale spiega l’affermazione con un esempio. Un tale passeggia su di un ponte e a un certo punto vede nel fiume una persona in estremo pericolo. Allora comincia a riflettere: «io devo

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amare me stesso più che l’altro e quindi non posso rischiare la mia vita, ma d’altra parte - pensa - se tento di salvarlo, acquisto dei meriti e mi perfeziono; così sarà salvaguardato il precetto della morale di amare se stesso più che gli altri» (cfr. Aertnys-Damen, Theologia moralis, I, n. 350, editio XVII, Torino 1956, p. 338). Ed allora inizia l’opera di salvataggio, ma arriva... troppo tardi» (8). Trovo giusto quanto Padre Haering fa notare di sfuggita sulle due diverse redazioni del precetto evangelico. È già senza dubbio di immensa portata il secondo precetto dell’amore nella formulazione dei Sinottici (9); e l’orribile latino dell’orribile adagio caritas incipit ab egone non ci ha assolutamente a che vedere. Ma si dimentica che la redazione dei Sinottici ci presenta Gesù a colloquio con gli Ebrei e precisamente in materia di Legge: le due tavole, vuoi dire Gesù, si riassumono nel «grande comandamento» e nel «secondo simile a questo». Però siamo sempre nella prospettiva dell’economia antica; per la nuova, inaugurata nel suo Sangue, Gesù ha qualcosa di più da chiedere ai suoi discepoli ed è il precetto dell’amore nella formulazione di Giovanni: Mandatum novum do vobis ut diligatis invicem sicut dilexi vos (Giov 13, 34) e nella proclamazione sconcertante: et nos dehemus pro fratribus animas ponere (I Giov 3, 16). Provate a leggere tutto S. Giovanni e non troverete, anche là dove parla di precetti al plurale, altro precetto che questo: amare i fratelli come Gesù ci ha amato (fra parentesi: San Giovanni ha una spiccata antipatia per la parola nomos che riserva alla legge giudaica, secondo la quale Gesù debet mori, e preferisce la parola entolé, il mandatum della Vulgata e del canto toccante del giovedì santo). Provate a leggere tutto San Paolo (esempio classico in Rom 13,8-10) e troverete che l’amore del prossimo compie da solo la legge. Pare strano che San Giovanni e San Paolo non accennino per nulla ad un precetto di amare Dio e dicano solo che l’amore di Dio dà prova di se stesso nell’amore del prossimo. L’amore di Dio, per i cristiani, non è oggetto di un comando. L’amore di Dio, per i cristiani, è il clima che respirano, perché è l’autentico dono di grazia: «l’amore di Dio (l’agape) è stato effuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rom 5, 5). È da questo amore, che vibra della voce dello Spirito sussurrante nei cuori l’Abba Pater (Gal 4, 6), che nasce l’offerta logica di tutta la vita cristiana a Dio per Dominum nostrum Jesum Christum. È da questo amore che sgorga il cantico di una vita spesa per i fratelli secondo le liriche espressioni di San Paolo nel celebre inno di I Cor 13. Peccato che la teologia morale e la nostra catechesi dei comandamenti abbiano scordato completamente San Tommaso, il quale dà i principi fondamentali per questa

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materia in un angolino tanto poco esplorato della prima secundae, in una trattazione di insospettabile modernità (dico modernità in quanto si potrebbe pensare che è stato lo studio più approfondito della S. Scrittura a ricondurci alle sorgenti, e dico insospettabile perché chi dice San Tommaso è tentato di pensare a stantio; ma non si dimentichi che San Tommaso - oltre che teologo formidabile - è stato un geniale esegeta e più che Aristotile ha avuto per maestro lo Spirito Santo). Mi limito ad alcune spigolature dalle pagine della Somma, integrate con i commentari a San Paolo: l) la legge nuova non è scritta ma è stampata nei cuori e consiste principalmente nella grazia dello Spirito Santo; come si deduce da Ger 31, 31-34 e Rom 8, 2 (10); 2) la legge nuova ha nello scritto solo un’espressione secondaria (si direbbe sussidiaria); si tratta di ciò che dispone alla Grazia o si riferisce al suo uso, dei documenta fidei, di alcuni precetti morali e sacramentali (11); 3) i precetti morali della legge antica continuano ad obbligare; l’obbligo però deriva non dal loro carattere legale positivo, ma dalla struttura stessa della natura umana di cui sono espressione come lex naturalis (12); 4) la legge nuova, in quanto precettiva, non giustifica; etiam littera Evangelii occideret nisi adesset interius gratia Dei sanans (13); 5) la legge nuova, in quanto legge dello Spirito Santo scritta nei cuori, libera l’uomo dal peccato e dalla morte (14); 6) la legge nuova facit in nobis caritatem (15); 7) la legge nuova è legge di libertà (II Cor 3, 17: ubi Spiritus Domini, ibi libertas). Sorprendenti le seguenti affermazioni: «chi evita il male non perché è male, ma per il comando di Dio, non è libero. Chi invece evita il male perché è male, è libero». Più su pareva Lutero, qui pare Kant. Ma subito c’è il colpo d’ala che si eleva all’infinito al di sopra della posizione gnostico-pessimistica dell’uno e di quella ottimistico-pelagiana dell’altro: «questo evitare il male perché è male è opera dello Spirito Santo, che interiormente perfeziona la mente con l’habitus buono così da fare operare per amore come se fosse la legge divina a comandare; e perciò è detto libero non in quanto soggetto alla legge divina, ma in quanto dall’habitus buono inclinato a fare spontaneamente ciò che la legge divina comanda» (16). Torna in mente un detto di Newmann: «Se la legge morale dentro di noi fa battere i nostri cuori, è perché riconosciamo il timbro di una voce tanto amata». Tutto qui: bisogna ripartire da dentro. Troppo spesso, da fuori, siamo stati i «geometri del peccato», Abbiamo dato i centimetri per le maniche e abbiamo calcolato il punto esatto in cui la messa comincia a non essere più

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«buona» e tocca ingegnarsi di ricostruirla con pezzi di un’altra messa se non si vuole incorrere nel peccato mortale. Questo non significa necessariamente che si possa fare a meno dei precetti generali della chiesa (qualcuno l’ha detto in Concilio e io non mi sono scandalizzato, perché anche in questo caso è vero che «la lettera uccide e lo Spirito dà vita»; nella requisitoria vibrata di quel simpaticissimo vegliardo che è il patriarca Massimo IV, ora cardinale, sentivo fremere l’esigenza di un ritorno allo Spirito che solo giustifica). Come di certo non si può fare a meno dei comandamenti di Dio, per cui tuttavia non sarebbe male che la catechesi adottasse la precisazione tomistica e una intonazione nettamente affermativa al posto della negativa: adesione appassionata al Dio dell’Alleanza e conformità filiale ai suoi disegni di Padre, gioiosa celebrazione della festa come allenamento alle fatiche e alle immancabili pene della settimana e come risorsa di grazia in vista del combattimento spirituale (che dire della distinzione prefeudale tra opere liberali e opere servili? Anche qui, via le misure per amore di Dio...! Anche qui è lo Spirito che conta), culto del nome santo di Dio (e, aggiungerei con S. Caterina, «di Gesù Cristo Crocefisso e di Maria dolce»), venerazione dignitosa dell’Autorità in quanto sacramento di Dio (ivi inclusa la partecipazione illuminata, cristiana e coerente, alla vita politica e all’attività sindacale), amore fraterno fino al sacrificio di sé, visione liturgica del corpo come membro di Cristo e dovere «pasquale» della mortificazione, culto generoso della povertà evangelica (settore impiego, settore casa, settore «superfluo», settore beneficenza e contributo al culto e alle opere cattoliche ecc.), attaccamento alla verità senza compromessi, purezza e semplicità di cuore nella sequela di Cristo Crocefisso (la domenica di Pasqua passa per il venerdì santo). La legge nuova è lo Spirito Santo; ma resta, se pure sussidiario, l’elemento positivo e scritto, perché il cristiano perfetto che possa procedere senza binario non esiste o per lo meno non esiste quaggiù. Il vino nuovo non tollera otri vecchi, ma non si conserva senza otri (Mc 2, 22). L’abolizione di ogni norma esige l’escatologia consumata; e la prospettiva profetica dell’Alleanza nuova avrà il suo pieno sviluppo solo nel compimento del Regno di Dio. «Sulla terra, scrive G. Salet, non c’è stato se non un cristiano perfetto e che sia appartenuto in pienezza al Nuovo Testamento, ed è Cristo; aggiungiamo una cristiana, la Vergine Santa così profondamente unita al mistero del suo Figlio» (17). E S. Agostino, di cui è caratteristica in proposito la dottrina delle quattro età (18), dice: Sicut enim in Sacramentis Veteris Testamenti vivebant quidam spirituales... sic et nunc in Sacramento Novi Testamenti... plerique vivunt animales (19). Quello che urge è che noi

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facciamo leva sull’interiorità, educhiamo all’interiorità e ricordiamo a tutti che solo la Grazia può farci superare il punto morto della Legge. E la Grazia, inseparabile dalla gioia pur nel bel mezzo delle tribolazioni, è frutto dello Spirito Santo (Gal 5, 22). Quando è Lui che muove, allora anche ciò che è penoso si trascolora nell’alba di Pasqua. «In mezzo alle spine, scriveva S. Caterina, sento il profumo della rosa che s’apre». Se non ci si lascia muovere da Lui, la Legge ci riporta in pieno Antico Testamento, è motivo di inciampo e, per quel misero poco che ci riesce, incentivo di orgoglio e di discriminazione farisaica. Certamente la dottrina dell’Amore non prospetta un idillio, ma un impegno e un rischio. All’esistenza umana minata dal Peccato (scrivo maiuscolo come è inequivocabilmente maiuscola he hamartia in San Paolo, che vede da questa realtà satanica minato tutto l’universo, spasimante come in un doloroso parto d’attesa verso la sua redenzione: (cfr. Rom 8, 19-22) si impone l’alternativa agostiniana del duplice amore. O si passa per la Croce negando l’io, o nell’affermazione dell’io ci si danna. La Liturgia ci ricorda anche questo all’Hanc igitur, nel cuore della grande preghiera, quando ci fa chiedere per noi e per il popolo santo che i nostri giorni siano disposti nella pace autentica e che le nostre anime siano strappate all’eterna dannazione. È il momento delle mani protese sulle oblate in un gesto di immenso abbandono. Il Signore è vicino. Il Signore è con noi. «Chi si farà accusatore degli eletti di Dio?» (Rom 8,33). È questo che urge anche per l’insegnamento morale. Spostare il centro. Dall’io fradicio a Dio, refugium nostrum et virtus (20). Per la pratica, per il contributo concreto che la visita pastorale deve portare in questo campo, oltre lo sforzo che - son certo - ognuno di voi porrà nel rinnovare la catechesi morale, mi limito a disporre due cose. La visita pastorale deve essere preceduta da almeno tre giorni di predicazione, la quale si ispiri alla tematica pasquale secondo le direttive del ricordato e raccomandato volume; questa è la prima cosa. La seconda è questa: in ogni parrocchia deve tornare o cominciare a fiorire l’Opera dei ritiri, per la quale si mettono a nostra disposizione dal loro centro di Foligno i PP. Gesuiti. Ut vitam habeant è l’insegna dell’Opera. Il che vuol dire: perché gli uomini vivano in grazia, vedano le cose di dentro e vivano da dentro le realtà meravigliose della fede e della liturgia e dell’esistenza cristiana protesa verso la casa del Padre, verso la Pasqua eterna. Non c’è parrocchia, per quanto piccola, che non possa avere l’Opera dei ritiri. Inoltre raccomando tanto che la comunità parrocchiale, stretta intorno al suo parroco, abbia le cure più delicate per i poveri e per i malati e mantenga contatti fraterni con gli emigrati. Omnia vestra in caritate fìant (I Cor.

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16, 14). È in questa prospettiva di amore che indico la mia prima visita pastorale. Ora che finalmente mi decido a chiudere, mi accorgo di aver detto tante cose, forse troppe cose, e tanto poco di quello che avevo nel cuore. Affido il poco alla Madonna, alla nostra Vergine Santa in via. Nella sua festa del 1964 - quando non conoscevo né festa né titolo... né Camerino - seppi della mia destinazione a vostro arcivescovo (la bolla ufficiale di nomina è datata un mese dopo preciso). Nella sua festa 1965 Le ho chiesto più che mai di guidarci per la strada che Ella stessa ci mostra in Gesù suo Figlio Via, Verità e Vita: Via alla Verità in cui ci si rivela e ci si dona la Vita. Sono i tre momenti del nostro rinnovamento. E sono nelle sue mani. Che la Vergine Santa le innalzi a benedirci tutti, come io cordialmente voi e le anime a voi affidate benedico con il saluto di San Paolo (II Cor. 13,13): «l’amore di Dio e la grazia di Gesù Cristo e la comunione del Santo Spirito sia con tutti voi». Amen. Camerino, 21 febbraio 1965. ✠ Bruno Frattegiani, arcivescovo.

(l) Vedi Rocca, 1° febbraio 1965, p. 14 (Moons. Elchinger). Uso volutamente la grafia Santantonio ecc., per dire che questi non sono i Santi veri (la nubes testium di Ebr. 12, 1), ma squallide divinità di un olimpo popolare che deve preoccuparci seriamente se vogliamo riportare ai nostri fedeli la gioia del Communicantes. (2) La bella veste tipografica della raccolta degli Atti del congresso di Ascoli meritava una più curata correzione di bozze tanto per il testo quanto per le note e specie per le citazioni in lingua straniera (forse non necessarie, attesa l’indole del lavoro). Il prof. don Massi, autore della pregevolissima introduzione sul mistero pasquale e di un ottimo schema di catechesi dei sacramenti, non avrebbe dovuto accettare - come purtroppo quasi tutti fanno in Italia - la grafia francese della parola parossitona AGAPE: a pag. 157 trovo agapè, che induce tanti ad una pronuncia scorretta. (3) Cfr. L. bouyer, Diction. Théol., voce Eglise, p. 218 ss.; J.M.R. TiLLard, L’ Eucharistie paque de l’Eglise, Paris 1964, p. 108 ss. (4) «L’Avvenire d’Italia», 6 ottobre 1964. (5) Const. de sacra Liturgia, 5. (6) Const. de sacra Liturgia, 7-8. (7) «L’Avvenire d’Italia», 4 febbraio 1965. (8) Il mistero pasquale nella catechesi, p. 169. (9) Mc 12, 30-31; Mt. 22, 37-39; Lc. 10, 27. (10) S. Th. l /2, 106, 1. (11) S. Th. 1/2, 106, 1 e 2. (12) S. Th. 1/2, 108, 1 e 3 ad 3; cfr. P. LaGranGe, Epitre aux Romains, Paris 1931, p. 181. (13) S. Th. 1/2, 106, 2. (14) Un accenno in S. Th. l.c.; più ampiamente nei Commentaria a S. Paolo, Torino (Marietti) 1929, I, p. 105 (sopra Rom 8, 2). (15) Commentaria I, p. 434 (sopra 2 Cor 3, 9). (16) Commentaria I, p. 438 (sopra 2 Cor 3, 17); cfr. anche S. Th. 1/2, 108, 1 ad 1 e Contra gentes 4, 22. (17) G. saLeT, La Loi dans nos coeurs in Nouvelle revue théologique, 89 (1957) p. 457. (18) Le quattro età sono: prima della Legge (si ignora e si pecca senza ritegno), sotto la Legge (si sa che è proibito ma la concupiscenza ci travolge), sotto la Grazia (si combatte e si vince), nella Pace (senza lotta ormai si gode il premio). Le quattro età non sono necessariamente successive,

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anche se vogliono essere una cronologia sommaria della storia dell’uomo. Le prime tre infatti possono coesistere e a volte addirittura invertirsi nella povera storia di ognuno di noi. Si può vedere De diversis quaestionibus LXXXIII, q. 66, 3 (.P.L. 40, 62-66). (19) De Baptismo contra Donatislas, I, 15 (P.L. 43, 122). La digressione tomistica, a cui non pensavo affatto da principio e poi m’è parsa così intonata alla materia, è tolta quasi di peso da uno studio modesto (ma tanto rivelatore per me), pubblicato con il titolo Nomos et Agape in Miscellanea francescana, 62 (1962) p. 205-223. Ho voluto dirvelo per spiegarvi in questa parte una precisione di note che forse non si armonizza del tutto con il resto della lettera, là soprattutto dove alcune reminiscenze non rimandano alla fonte. Un professore di metodologia dovrebbe farmi parecchi segni blù, ma so d’avere per soli giudici la vostra comprensione e la vostra bontà. (20) Un’opera di Morale consigliabile per una messa a punto della nostra impostazione, anche se considerata ancora insufficiente per il quadriennio di teologia, è quella di P.B. HaerinG, La Legge di Cristo, 3 voll. (Morcelliana).

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CONSIDERAZIONISULLAGRANDEPREGHIERAEUCARISTICALeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1968

Fratelli carissimi, con la santa quaresima si apre anche il quadrimestre conclusivo dell’anno della fede, a cui dedicheremo tutti insieme tre

grandi manifestazioni: la festa del vescovo e dell’unità diocesana nella solennità gaudiosa dell’Annunciazione di Maria titolare della nostra chiesa metropolitana, il pellegrinaggio diocesano a Roma il 25 aprile e la festa del Papa e dell’unità della Chiesa il 29 giugno a Sanseverino. In sede di parrocchie e di centri pluriparrocchiali affido l’iniziativa al vostro zelo e al vostro spirito di collaborazione fraterna (il biblico vae soli non è stato mai così evidente come oggi!). Preparate con opportune e adeguate catechesi, le manifestazioni locali valgano a incidere profondamente nell’animo dei nostri fedeli una visione più completa e più dinamica della nostra fede, un culto più religioso della Parola di Dio, un’attenzione più devota al magistero vivo, una più desta disposizione al dialogo, una partecipazione più appassionata ai problemi della Chiesa e del mondo visti nell’armonia del disegno dell’unico Dio e Padre che tutti chiama alla salvezza per mezzo del Signore Gesù nell’unità dello Spirito Santo. Dobbiamo preoccuparci seriamente di costruire nelle nostre parrocchie e nei nostri centri qualcosa che sia più valido delle benedette feste triennali («benedette» è solo un eufemismo, come nel libro di Giobbe, e potrebbe essere sostituito benissimo dall’aggettivo che San Bernardo non dubitava di applicare alle grandi occupazioni di un papa!). A questo proposito vi dico: più che promotori ardenti sappiate essere pedagoghi pazienti, concedendo da una parte per sforbiciare dall’altra. E di ogni circostanza approfittate per seminare, seminare, seminare. Semen est Verbum Dei. E la parola di Dio troppo spesso è mancata. Anno della fede, ultimo scorcio: buona semina, fratelli. Metto nel vostro cuore le tre iniziative diocesane. Non sto a ridirvi i motivi contingenti che ci spingono ad essere compatti. Motivo eterno resta il senso della Chiesa universale e della Chiesa locale che dobbiamo sviluppare ogni giorno più nei nostri fedeli. Per il pellegrinaggio penseranno a darvi norme più precise mons. Loreti e don Alberto Bernardini. Vi dico solo questo: a Roma vi attendo a migliaia (certo non è una gita di piacere e il traffico della giornata festiva non mancherà di addizionare sacrifici; ma è una manifestazione di fede). A Camerino e a Sanseverino poi le cattedrali non devono essere sufficienti a contenere le

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rappresentanze qualificate di tutte le parrocchie. Solo così cresce la Chiesa-chiesa e cala la chiesa-campanile. Per la s. quaresima ho preferito scrivere a voi piuttosto che a tutti i fedeli. Infatti questi difficilmente mi leggerebbero e d’altra parte non avrebbe più senso il tradizionale «obbligo» di leggere - magari a puntate - la lettera pastorale. Vorrei proporvi così alla buona, e soprattutto senza pretese scientifiche, alcuni pensieri sul canone. Il grande avvenimento di questa quaresima - dal 24 marzo - è l’inizio della lettura del canone in italiano. I pensieri che vi suggerisco vogliono essere un sussidio alla vostra meditazione personale e un avvio alla catechesi. Il martire San Giustino nella sua prima Apologia, scritta verso il 150, ci presenta così la liturgia domenicale: «Il giorno chiamato del sole si celebra una riunione di tutti quelli che dimorano nelle città e nelle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli e gli scritti dei profeti. Poi, quando il lettore termina, il presidente prende la parola per esortare e stimolare alla imitazione di tutti questi santi esempi. Quindi ci leviamo tutti in piedi e innalziamo suppliche. Terminate queste, viene offerto pane e vino con un po’ d’acqua e il presidente, a seconda delle sue capacità, innalza ugualmente preghiere e azioni di grazia (eucharistias) e il popolo vi si intona rispondendo Amen. Si procede quindi alla distribuzione e alla partecipazione di ciascuno agli alimenti consacrati nell’eucaristia, che agli assenti vengono mandati per mezzo dei diaconi» (cap. 67). Gli elementi essenziali d’una messa sono tutti riconoscibili alla prima lettura: la riunione, la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento, l’omelia, la preghiera dei fedeli, l’offerta, la grande preghiera eucaristica di consacrazione evidentemente affidata almeno in parte alla improvvisazione del celebrante, la comunione e perfino un avvio all’uso di conservare l’Eucarestia (l’invio dei diaconi infatti non si può pensare sempre immediatamente possibile o utile). «Gli alimenti consacrati nell’eucarestia» è solo una mia perifrasi e rende assai poco la violenza della nuova idea cristiana al vocabolario greco. Ta eucharistethenta sarebbe alla lettera «le cose eucaristiate», i sacri doni cioè che la grande prece di ringraziamento ha trasformato nel corpo e nel sangue del Signore. La grande prece è diventata il canone, cioè la regola, cioè la preghiera ben stabilita, perché in cosa tanto santa e tremenda la Chiesa non ha potuto più fidarsi di una improvvisazione. Ora la realtà è la stessa: o si chiami grande preghiera eucaristica o anafora (offerta) o semplicemente eucarestia (azione di grazia) o canone, è nel contesto di questa preghiera augustissima che il pane e il vino, i santi segni del convito, per opera dello Spirito Santo si trasformano nel sacrificio del corpo e del sangue del Signore a gloria del Padre celeste

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e per l’edificazione perenne del corpo di Cristo che è la Santa Chiesa. Gli orientali hanno dato enorme importanza alla invocazione dello Spirito Santo (epiclesi) che non si trova esplicita nel canone latino; ma noi siamo con loro quando, riaffermando con i loro e con i nostri Padri il valore delle parole consacratorie pronunciate in persona Christi, proclamiamo solennemente che sull’ara del sacrificio santo - come sul corpo della Purissima al momento dell’Incarnazione - incombe la nube della Presenza santificatrice e la Potenza dell’Altissimo (Lc 1, 35). Il canone è il contesto spirituale normale delle parole consacratorie. Strappare queste al loro contesto, sottrarle all’epiclesi che in ogni caso vibra nella grande preghiera prima e dopo la consacrazione, non è soltanto un sacrilegio ma anche un serio attentato alla validità di quella che per fede cattolica riteniamo essere la forma sacramentale dell’Eucaristia (cfr. decr. Pro Armenis in Denz. 698). È ovvio che la Chiesa, normalmente per iniziativa della Sede Apostolica, può dare al canone la forma che ritiene più opportuna, non importa se brevissima, e anche oggi siamo in attesa di nuovi formulari ispirati per lo più ad antiche liturgie. Ma come è possibile accettare la tesi, volgarizzata da un celebre film, che attribuisce valore al gesto dello spretato consacrante per sfregio un secchia di champagne? Vincolare la validità alla mera pronuncia delle sante parole è fare ingiuria all’ispirazione e all’intelligenza del magistero ecclesiastico. Ci sono dei modi tradizionali di esprimersi (mi riferisco a certi trattati di morale che hanno finito per creare una maniera nevrotica di pronunciare le parole della forma, quasi che l’effetto dipendesse dal nostro sforzo!) che non sono certo voce della Tradizione. La Tradizione, pure autenticamente dichiarata nel senso che sono necessarie e sufficienti le parole della consacrazione, giunge a noi cantando il messaggio evangelico della cena nel sacro contesto della celebrazione liturgica, degno simposio alla sobria ebriatas del Paraclito che consacra il vino nuovo della nuova ed eterna alleanza. Dalla Traditio Apostolica di S. Ippolito ripropongo alla vostra meditazione l’antichissima formula della prece eucaristica romana (verso il 220). Dopo le battute, che conserviamo tuttora, del Dominus vobiscun e del Sursum corda, la grande intonazione eucaristica - Gratias agamus Domino con la risposta come oggi - merita tutta la nostra attenzione come una vera e propria proposizione tematica. Il greco originale - io credo - doveva suonare: Eucharistesomen to Kyrio e ha qualcosa di più del semplice timbro originale di «ringraziamo il Signore». Qualcosa di più come «celebriamo l’Eucaristia», il che vuol dire: «sciogliamo il canto del ringraziamento, offriamo a Dio l’unico ringraziamento valido: il corpo e il sangue del

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Signore». Ricordiamocene nell’intonare il prefazio. Superfluo notare che la grande preghiera comincia col saluto all’assemblea. Il per omnia saecula con l’Amen, che precede, chiude l’offertorio. Sia detto fra noi: è affatto sconveniente far ricerche sul messale mentre si conclude la segreta (come in genere è sconveniente sovrapporre riti, imboccare scorciatoie, precipitare ecc.). Dopo l’Amen si cerca con calma il prefazio e si intona solenne «Il Signore sia con voi». Il celebrante doveva continuare così: «Ti rendiamo grazie, o Dio, per mezzo del tuo Figliolo diletto, Gesù Cristo, che nella pienezza dei tempi ci hai mandato come salvatore, redentore e messaggero della tua volontà. Egli è il tuo Verbo inseparabile, per mezzo del quale tu hai creato tutto, nel quale tu hai riposto le tue compiacenze. L’hai mandato dal Cielo nel seno di una Vergine, nel suo ventre Egli si è incarnato; si è manifestato come tuo figlio, nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine. Ha fatto la tua volontà e per acquistarsi un popolo santo ha steso le mani, mentre soffriva: per liberare dalla sofferenza coloro che hanno creduto in te. E allora abbandonandosi ad una sofferenza liberamente accettata, per distruggere la morte, calpestare l’inferno, illuminare i giusti, confermare il Testamento e manifestare la sua Risurrezione, Egli prese del pane, rese grazie e disse: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo che sarà spezzato per voi». Così pure per il calice, disse: «Questo è il mio sangue che è sparso per voi. Quando fate ciò, fatelo in memoria di me». Ricordandosi dunque della sua morte e della sua resurrezione, ti offriamo il pane e il calice, rendendoti grazie, perché ci hai giudicati degni di stare davanti a te e di servirti. Ti chiediamo (ecco l’epiclesi) di mandare il tuo Spirito sull’offerta della santa Chiesa, di raccogliere nell’unità tutti coloro che si comunicano, di colmarli dello Spirito Santo, per rafforzare la loro fede nella verità. Così vogliamo lodarti e glorificarti per mezzo del tuo figliolo, Gesù Cristo. Per Lui ti siano resi gloria ed onore, Padre e Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli! Amen» (A. HaMMan, Preghiera dei primi cristiani, Milano 1954, p. 133 s). Nelle sue eccellenti «Meditazioni sulla Messa» (vol. I, Roma 1956), Theodor Schnizler raggruppa le preghiere del canone romano in una serie di strofe armoniosamente convergenti verso la consacrazione. Atteso il carattere composito della grande preghiera, veneranda per antichità ma via via sottoposta a ritocchi e ad aggiunte, il suo schema può lasciarci perplessi. Del resto è lui il primo a rilevarne il carattere puramente pratico ed io ve lo ripropongo volentieri come sussidio eccellente a fissare l’attenzione e quindi favorire la devozione. Riproduciamo la tavola sinottica che va letta

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dal basso in alto e da sinistra a destra. Aiutandoci con la fantasia possiamo vedervi la pianta d’una cattedrale: entrati per la navata di sinistra e penetrati fino al Santuario, riusciamo dalla navata di destra. Naturalmente l’immagine è monca perché non tien conto della comunione, ma è abbastanza eloquente per esprimere la sacralità d’insieme della grande preghiera. Ecco lo schema (o. c. pag. 5O):

10. Consacrazione 9.11. Unde et memores12. Supra quae13. Supplices14. Memento15. Nobis quoque16. Per quem17. Per ipsum18. Pater noster

8. Quam oblationem7. Hanc igitur6. Communicantes5. Memento4. In primis3. Te igitur2. Sanctusl. Prefatio

Censuriamo senz’altro l’ultima voce, perché il Pater non appartiene al canone ma introduce la Comunione. Potremmo quindi modificare lo schema saldando il sanctus al prefazio. Per il resto riesce sorprendente la rispondenza concettuale delle coppie strofiche (Quam oblationem - Unde et memores ecc.) e noi ce ne serviremo per i brevissimi cenni di messa a fuoco più che di commento. Ma prima riascoltiamo lo Schnizler: «In otto strofe il cantico sale fino al vertice della consacrazione, le cui parole costituiscono la nona e la decima strofa, e in otto strofe ridiscende. Così dunque l’Eucarestia risuona in due serie di nove strofe, simili ai nove cori delle gerarchie angeliche. In chiamata e risposta, tesi e antitesi, primo coro e secondo coro, il grande inno della Chiesa si effonde in lode del Padre per mezzo di Cristo... Come in una basilica primitiva le colonne attirano e conducono all’altare e poi riportano di nuovo fuori nella vita, così le strofe attirano alla Mensa Domini, alla consacrazione, e nel tratto corrispondente se ne allontanano... Con quanto amore è stato elaborato questo testo così sobrio! L’amore ha cercato di attirarvi l’arte e le sue leggi. Ha riflettuto, ha limato e cesellato, come uno scultore si affatica in un incessante minuto lavoro alle sue opere d’arte. Niente esso reputa abbastanza per tessere la veste per il Signore che viene. Una melodia si aggiunge all’altra, affinché il grande sacrificium laudis risuoni come una sinfonia... Si conforma a questo l’orante del canone

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che osi fare il servizio della liturgia in comoda e tiepida mediocrità?» (o. c. pag. 52 segg.). Sulla traccia dunque delle coppie strofiche, avanzando dal prefazio e retrocedendo dalla dossologia finale, accontentiamoci di fissare qualche pensiero. Non perdiamo di vista, contro i facili apologisti del sacrum silentium e denigratori delle nuove provvidenziali disposizioni, che ‘’ le preghiere del canone sono state scritte, in origine, per essere declamate e cantate e intese dalla comunità» (M. N. denis- bouLeT in MarTiMorT, La Chiesa in preghiera, Roma 1963, p. 412). Quello che conta è che i cuori di tutti siano rivolti al Signore e che perciò il sacerdote senta più che mai vivo in quest’ora solenne l’imperativo d’imporsi alla coscienza dei fedeli per quello che è e deve essere ogni giorno più: «così ci consideri ognuno come ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio» (I Cor 4, 1). Digne, attente, devote nelle parole e nei gesti, come mai! Il prefazio col Sanctus (sempre meno sostenibile qui un canto che non sia del popolo!), spesso col ricordo del mistero del giorno o del tempo, vogliono metterci alla presenza dell’Altissimo nel clima di sacro tremore in cui il profeta contempla sbigottito e adorante la grande teofania (Is 6, 3). Il timore si stempera nell’entusiasmo per la venuta del Signore, Dio con noi, nel cantico del Benedictus. Compiuta la sacra azione, la dossologia trinitaria accompagnata dalla elevazione dell’ostia, ridirà la gioia dell’umanità peccatrice e redenta - redenta adesso nel mistero - per la gloria resa al Padre per Cristo e con Cristo e in Cristo nella rinata unità che lo Spirito cementa tra i fedeli e il Signore Gesù così come fra Lui e il Padre (Giov 17, 23). C’è chi pensa che «l’unità dello Spirito Santo» sia l’equivalente di «chiesa» con tutte le implicazioni cristologiche e trinitarie che ne conseguono. L’Amen che segue dovrebbe essere sentito dal popolo come uno dei momenti più importanti della Messa, quasi ratifica del populus sacerdotalis in un atto di fede che, ripetuto singolarmente e responsabilmente al momento del Corpus Christi (comunione), dice adesione formale alla rinnovata alleanza. Per la prassi: per impedire che la gente dica altri Amen non dovuti nel corso del canone, sarà bene che ci abituiamo ad abbassare il tono di voce ai diversi per Christum non ancora soppressi, a cominciare da quello del prefazio. Il Te igitur, proferito nel gesto dell’orante, prega il Padre clementissimo di gradire e di benedire i doni già scelti e messi da parte per la consacrazione (ad essi già si riferiva la secreta da secerno: orazione sulle oblate separate dalle altre offerte). Invece il per quem haec omnia, che precede la dossologia, si riferisce agli altri doni; possiamo vedervi il resto d’una benedizione e oggi

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che non vige più l’ampiezza dell’antico offertorio (però - diciamolo - l’offerta in denaro fatta a tempo debito conserva valore liturgico), possiamo sentirvi l’ansia della Chiesa che siano benedette le nostre povere cose, i frutti della terra, la casa, il lavoro, la vita. È Dio Padre che per Cristo crea, santifica, benedice e ci dona. Ricordo un bel pensiero di Rosmini (purtroppo non ho il testo) sulla benedizione eucaristica che dilaga nel mondo. Ottimismo cristiano e gioia francescana nascono dalla messa. E con la benedizione eucaristica investono in una onda di pace anche il dolore, anche lo strazio dei terremoti, anche la morte. Ma si rivoltano contro la guerra. In primis quae tibi offerimus è il memento ufficiale per la gerarchia (il Papa, il proprio vescovo, tutti i vescovi designati quali cultores della fede cattolica e apostolica) sentita come elemento di unità di tutta la Chiesa. Non può mancare una intonazione accorata alla preghiera sacerdotale di Gesù. Pensate: vescovi grandi e santi come Atenagora sono ufficialmente esclusi da questo memento. Ma il cuore non può non scavalcare l’ufficialità. L’abbraccio di Papa Paolo ha affrettato l’ora della pacificazione qui ardentemente implorata. Al memento per la gerarchia corrisponde, potremmo dire, l’«automemento» per il clero officiante: nobis quoque peccatoribus. Del resto anche il vescovo si è presentato come «indegno tuo servo». Come è vero che la liturgia è lo spazio più vitale della Chiesa! anche nella cornice più splendida non ha mai suono fesso di trionfalismo. Ambizione unica: una particina qualunque con i santi apostoli e martiri. Memento dei vivi e memento dei morti si corrispondono puntualmente. Le parole pro quibus tibi offerimus vel sono una aggiunta di Alcuino. Prima era detto semplicemente: sono essi che ti offrono. Questa idea va rivalutata. L’offerta è di tutto il popolo di Dio. La consacrazione è compiuta dal sacerdote, ministro di Cristo e rappresentante della Chiesa. Fate notare al popolo la serenità luminosa del memento dei morti. Volete poi farmi il piacere di mettere al bando quel brutto canto che dice: «sommersi nel fuoco d’un carcere orrendo ti gridan piangendo perdono, pietà»? Prima magari leggete il trattato sul Purgatorio di S. Caterina da Genova (è molto breve). Il comunicantes e il supplices, sia pure con tono diverso, ci trasportano nel cielo. La chiesa trionfante, schierata dinanzi al trono di Dio e dell’Agnello, partecipa nel gaudio al nostro sacrificio. È la terra che si trasferisce in cielo o il cielo che scende sulla terra? La teologia della transustanziazione, nella più pura interpretazione tomistica, ci fa propendere per la prima prospettiva: il luogo di Cristo è il cielo, il suo corpo glorioso è nel cielo. Ma è anche vera, nel mistero, la seconda prospettiva: il cielo discende sulla terra. Cristo

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Dio con noi fino alla fine del mondo (Mt 28,20) si fa nostro viatico nel pellegrinaggio alla Patria e per disporci alla Patria ci dona il suo Spirito (Gv 7, 37-39). Diceva S. Ignazio: «Sento l’acqua viva che mormora in me: Vieni al Padre» (Rom 7, 2). Ciclo e terra: l’acqua viva sgorga dal cuore di Cristo e scorre dal trono di Dio e dell’Agnello (Apoc 22, 1). È lassù che vuol trasportarci con le sante oblate il supplices, in cui alcuni hanno voluto vedere l’equivalente della epiclesi orientale.L’hanc igitur attribuisce di nuovo l’offerta a «noi tuoi servi» e a «tutta la tua famiglia». La famiglia di Dio! basterebbe approfondire questo concetto per avere una sintesi perfetta delle realtà cristiane, dottrina e morale. La preghiera a Dio che voglia accettare placato le nostre offerte ha riscontro nel supra quae dove, allargando lo sguardo all’estremo orizzonte della storia della salvezza, facciamo riferimento all’offerta di Abele, di Abramo e di Melchisedech. Così non è solo il cosmo universo, cielo e terra, che si schierano intorno all’altare, ma è tutta la storia che sfila sotto la Croce, dagli albori del mondo alla tragica possibilità d’una chiusura di maledizione: strappaci, Signore, dalla eterna dannazione. Se di epiclesi si può parlare (e strettamente non si può perché manca una esplicita menzione dello Spirito Santo, anche se il suo soffio scuote ogni parola), l’epliclesi romana si ha nel quam oblationem. «Per questo si domanda al Padre che l’offerta materiale riceva tutto il suo carattere spirituale: perché questo è veramente il senso di rationabilis che traduce il greco logikos» (Denis-Boulet, a.c. p. 428). Chiarissima invece l’anamnesi che nell’unde et memores si riallaccia al comando di Gesù di celebrare l’Eucarestia in sua memoria. L’epiclesi ha confortato le parole della consacrazione della loro carica spirituale transustanziante. Ora nel ricordo e nel gaudio, ancora insieme servi e popolo santo di Dio, torniamo a presentare con fiducia l’ostia pura, santa e immacolata. Siamo così giunti al cuore del mistero. Sostiamo nel Santo dei Santi. È interessante osservare come si tratti d’una proclamazione solenne della Parola parafrasata dalla Tradizione. Momento solenne della liturgia della Parola: il Vangelo del giorno. Momento solenne della liturgia eucaristica: il Vangelo della istituzione. Come si ravvivano davanti a questa realtà misteriosa le parole che aprono il cap. 6 della cost. Dei Verbum: «La Chiesa ha sempre venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di nutrirsi del pane della vita della mensa sia della Parola di Dio che del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli»! Chiudo con le ispirate parole del vescovo melchita Nunzio Edelby,

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vicario del venerato patriarca Massimo IV, nella congregazione conciliare del 5 ottobre 1964, proprio nel corso della discussione sullo schema tormentato «della divina rivelazione». Le Chiese orientali, disse mons. Edelby, vedono nella Scrittura «la consacrazione della storia della salvezza sotto le specie della parola umana, ma inseparabilmente dalla consacrazione eucaristica in cui tutta la storia è ricapitolata nel corpo di Cristo». Venite, adoremus! Il 24 marzo, fratelli carissimi, deve essere una data memorabile nella storia della nostra devozione (devotio) e del nostro servizio di pastori. Il 25 ci ritroveremo insieme per ridire al mondo, con la SS. Vergine annunziata, la grande certezza: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a Te, Dio Padre Onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli». Che la nostra vita sia tutta un Amen luminoso come il fiat di Maria. Perché la santa quaresima, in un rinnovato impegno di penitenza e di preghiera e di amore fraterno, vi disponga con i vostri fedeli a celebrare con gioia il Mistero Pasquale, vi benedico cordialmente. Restiamo uniti nella carità e nella preghiera. Vieni, Signore Gesù. 18 febbraio 1968, domenica di Sessagesima. ✠ Bruno, arcivescovo.

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ADIALOGOCONIDIVORZISTILeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1967

Cari fratelli sacerdoti di Camerino e Sanseverino, la lettera di quaresima vuole offrirvi più che altro una serie di spunti e di motivi

che vi aiutino ad approfondire con i vostri fedeli e soprattutto con i giovani delle vostre associazioni il tema del divorzio, tornato improvvisamente alla ribalta dell’attualità, dal punto di vista esclusivo del messaggio cristiano. Gli aspetti giuridici, che vi consiglio di non trascurare, sono stati trattati magistralmente dal prof. Pio Ciprotti della nostra Università in una conferenza stampa di lunedì 30 gennaio in Vaticano, conferenza riportata su L’Appennino camerte del 4 febbraio 1967. Mi si permetta solo una piccola aggiunta: costituzionalizzati o no, i Patti Lateranensi riceverebbero un colpo mortale da una iniziativa unilaterale; col suo fare sbrigativo, tale iniziativa sarebbe molto più vicina ai metodi bismarckiani e hitleriani (i trattati visti come chiffon de papier!) che non al buon costume giuridico italiano. Nove anni fa, proprio in questi giorni di febbraio, abilmente controllata e orchestrata dai grossi tromboni della stampa laica di ogni colore, stava avviandosi al termine la penosa vicenda giudiziaria del vescovo di Prato. All’indomani della sentenza che lo condannava, il 2 marzo 1958, fui presente alla commovente testimonianza di affetto che i fedeli di Prato dettero nella bella Cattedrale gremita al loro e mio carissimo mons. Fiordelli. Qual era stato il motivo della condanna di mons. Fiordelli? Si discuté e si potrà discutere ancora oggi sulla opportunità del suo operato, soprattutto sotto l’aspetto della pubblicità a mezzo stampa che peraltro non dipese da lui. Ma è indiscutibile il buon diritto del vescovo di mettere in guardia dei cristiani (nel caso la sposa proveniva da buona famiglia cattolica, anche se lo sposo era comunista militante) con la celebrazione del solo matrimonio civile. Per i cristiani non esiste matrimonio all’infuori del sacramento del matrimonio e i sacramenti Cristo li ha affidati alla Chiesa. Un cristiano che contrae al di fuori della forma prescritta dalla Chiesa non è sposato e, finché non sana la sua situazione, è pubblico peccatore e concubino. Se per caso ci si aggiungesse, come premessa, un divorzio da matrimonio vero, le spiacevoli qualifiche di pubblico peccatore e di concubino andrebbero aggiornate con quella ufficiale di adulterio. Nel caso di Prato naturalmente non era questione di divorzio. Riusciti vani i più paterni e accorati richiami, a cose avvenute, il vescovo di Prato si credette in dovere di agire con tutta fermezza allo scopo di illuminare i fedeli (oltre tutto pericolosamente sollecitati da una

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compiacente messa in scena del municipio comunista), disse pane al pane (meglio, come si espresse lui stesso nel discorso del 2 marzo ricordando gli impegni della sua consacrazione episcopale, disse «luce alla luce e buio al buio»), fu querelato, fu condannato. L’incredibile sentenza fu riformata in ottobre. Però l’opinione pubblica, concentrata sugli avvenimenti eccezionali della morte di Pio XII e dell’elezione di papa Giovanni, finì questa volta per non accorgersi del verdetto di assoluzione. A questo punto successe una cosa curiosa. Un professore perugino di notevole peso nel campo della cultura cosiddetta laica, assertore convinto della libertà e della non-violenza, un galantuomo a tutta prova ma crocianamente affetto da invincibile idiosincrasia nei confronti della Chiesa Cattolica, scrisse - mi pare su l’Espresso (assai bene scelto nel caso!) - una lettera aperta all’arcivescovo di Perugia, che era allora s.e. mons. Pietro Parente, chiedendo recisamente di essere cancellato per sempre dal libro dei battesimi. La richiesta era ispirata dalla motivazione della sentenza di appello. Se un vescovo ha il diritto di fare delle dichiarazioni pesanti a carico di cittadini italiani per il solo fatto che essi sono cattolici e quindi anche suoi sudditi, egli pretendeva di sottrarsi a tale giurisdizione e nutriva fiducia che il suo esempio avrebbe trascinato valanghe di lettori, di lettori almeno che - come quelli de l’Espresso - non dovevano apparirgli eccessivamente teneri nei confronti della giurisdizione episcopale. In realtà la petizione parve un po’ ingenua, a parte il fatto che era teologicamente assurda. Eppure oggi, a distanza di anni, mi è apparsa opportuna per chiarire un punto assai delicato dell’argomento del divorzio. Tutti, pare, si trovano d’accordo sull’improponibilità e l’insostenibilità del divorzio da parte dei cattolici. Ma c’è chi resta perplesso di fronte a una difficoltà: «Voi - si dice - non volete il divorzio. Ma chi... ve lo fa fare? Non lo fate e buonanotte! Però siate umani e dimostrate d’aver compreso l’insegnamento del Concilio sulla libertà religiosa. Lasciate liberi noi di fare divorzio se le circostanze lo richiedono. Perché volete tiranneggiare le nostre coscienze, imponendoci la vostra superiorità numerica?». L’obiezione è speciosa, e prendo atto che si riconosce ai cattolici il pieno buon diritto dell’avversione al divorzio. A parte tutte le considerazioni di carattere morale (subordinazione dell’istituto matrimoniale al bene comune) e di carattere sociologico (il divorzio e tutt’altro che un rimedio al malcostume), non solo i cattolici ma tutti i cristiani si trovano di fronte in proposito, inequivocabile, il semaforo rosso della Parola di Dio per bocca di Gesù stesso. Sarà bene aprire con i nostri fedeli e opportunamente commentare loro il Vangelo di Matteo al cap. 19, 3-9. La legge di Mosè, espressione tipica di uno stadio arretrato di costume tollerato

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da Dio («per la durezza del vostro cuore») in vista della lenta preparazione evangelica, aveva permesso il divorzio (Deut. 24, 1). La motivazione legale piuttosto vaga e generica («per motivo ripugnante») aveva dato luogo a due tipi di interpretazione: una stretta che riduceva il motivo al solo capo di infedeltà della donna e una larga, o meglio lassista, che lo estendeva a una svariata serie di casi. Ecco il senso della domanda posta a Gesù: «Si può ripudiare la propria moglie per qualsiasi causa?». In altre parole «Tu maestro, stai con la sentenza rigida o segui la scuola larga?». La risposta di Gesù è come se suonasse: «Non sto con nessuno. Sto solo con il Padre mio» e di fatto è una chiarissima esposizione del passo della Genesi (2,24) dov’è detta con parole inequivocabili l’istituzione divina del matrimonio (del matrimonio, si noti, come istituto di natura e non del matrimonio cristiano), matrimonio chiaramente monogamico e indissolubile. Si noti la forza dell’espressione ebraica «una sola carne» indebitamente intesa del solo aspetto sessuale. Carne, nella Bibbia, è sinonimo di creatura umana. Gesù conclude: «Non son più due creature ma una creatura sola. L’uomo non divida ciò che Dio ha congiunto». Per le note riserve del versetto 9, per cui sarà bene documentarsi, si ricordi che i testi paralleli (Mc 10, 11-12 e 1 Cor 7, 10-11) vietano assolutamente di pensare ad una eccezione. Per il cristiano la parola di Gesù è legge di vita. Se Gesù dichiara, come dichiara, l’immoralità del divorzio assolutamente contrario al disegno di Dio, è semplicemente assurdo che un cristiano possa accettare di esserne comunque promotore o sostenitore per una speciosa ragione di modernità. E questo vale sia per il matrimonio concordatario e sia per il semplice matrimonio civile, che per i non cristiani è pur sempre vero matrimonio. È tanto bella, nel seguito del racconto di Matteo, l’improvvisa irruzione dei bambini che vanno da Gesù (vv. 13-15). Sembra un anticipo della domenica delle palme! ma questa volta le creature innocenti cantano al Redentore un grazie vivo per aver difeso, a tutto loro vantaggio, l’amore dei loro papà e delle loro mamme. Ma allora l’obbiezione, di cui sopra, conserva qualche cosa di vero nei confronti della santa libertà dei figli di Dio, pronti al dialogo con tutti i fratelli di qualunque religione e di qualunque tendenza e di qualunque colore? Penso francamente che sì. Nulla che sia compromesso con la coscienza (votare per il divorzio), ma sempre con tutti l’amore che compatisce, perdona, avvicina (anche con i divorzisti e anche con i divorziati). «Nell’età contemporanea, leggiamo nella dichiarazione conciliare Dignitatis humanae, gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che

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esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive». E ancora: «Gli imperativi della legge divina l’uomo li coglie e li riconosce attraverso la sua coscienza che è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività». E ancora: «Lo stesso Iddio chiama gli esseri umani al suo servizio in spirito e verità, per cui essi sono vincolati in coscienza a rispondere alla loro vocazione ma non coartati… (Anche Cristo) rese testimonianza alla verità, però non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano. Il suo regno non si erige con la spada, ma si costituisce ascoltando la verità e rendendo ad esso testimonianza, e cresce in virtù dell’amore, con il quale Cristo esaltato in Croce trae a sé gli esseri umani». «La Chiesa pertanto, fedele alla verità evangelica, segue la via di Cristo e degli Apostoli quando riconosce come rispondente alla dignità dell’uomo e alla rivelazione di Dio la libertà religiosa e la favorisce. Essa ha custodito e tramandato, nel decorso dei secoli, la dottrina ricevuta da Cristo e dagli Apostoli. E quantunque nella vita del Popolo di Dio, pellegrinante attraverso le vicissitudini della storia umana, di quando in quando si siano avuti modi di agire meno conformi allo spirito evangelico, anzi ad esso contrari, tuttavia ha sempre perdurato la dottrina della Chiesa che nessuno può essere costretto con la forza ad abbracciare la fede». Pensando al domani, a un domani che includa la deprecata ipotesi di una legislazione favorevole al divorzio (sarebbe un brutto segno di cedimento e di decadenza della coscienza cattolica degli Italiani) io posso immaginare una cosa. Posso addirittura auspicarla. Posso cioè pensare che il diritto penale della Chiesa sia sottoposto a una profonda revisione, che siano soppresse determinate pene o per lo meno che non siano più applicate quando non conservassero il loro valore essenziale di medicina salutare. Così da poter dire al professore perugino: stia tranquillo! il suo nome sul registro dei battesimi dice per noi qualcosa di importante nei suoi rapporti con Dio e con Cristo, ma da parte nostra non le sarà occasione di disturbo. Così da poter dire alla ipotetica coppia di sposi in procinto di rinnovare un caso di Prato: state tranquilli! per la Chiesa, che vi fu e vi è sempre madre, voi purtroppo non sarete sposi: però il vescovo può fare solo una cosa: pregare e piangere per voi. Siamo così perfettamente intonati all’accorato dignitoso commento che il card. Heenan ha fatto seguire al clamoroso abbandono della Chiesa cattolica da parte del teologo e suo perito conciliare padre Charles Davis: «La sua coscienza e le sue relazioni professionali appartengono a lui. Non potremmo dimostrargli meglio la nostra amicizia che pregando Dio perché

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lo guidi nella strada che dovrà percorrere...». È così che potremo, in un disgraziato domani, rispondere anche a coloro che ci avrebbero voluto divorzisti per favorire il loro divorzio. Cercheremo di comprenderli nel loro atteggiamento ma saremo tranquilli sapendo di non esserne responsabili. Domani insomma potranno esserci dei fratelli cristiani che scelgono il divorzio. È più che chiaro che essi optano per una concezione di vita che non è cristiana, perché respinge la Croce e preferisce la parola degli uomini alla Parola di Dio. Sarà assurdo che essi richiedano i sacramenti di una chiesa che dimostrano di non credere e sarebbe un tradimento da parte mia il darglieli. Ma questo non vieterà che, come rispetto gli atei e accetto un dialogo con loro, io possa rispettare questi battezzati che – forse anche per mia colpa - non hanno approfondito l’esigenza del loro battesimo. Per me non saranno veramente sposati, eppure rispetterò la loro convinzione che forse è nata da un dramma, se essi stessi dimostreranno di assumere con severità gli impegni. Passerò accanto a loro con dolore, ma anche con amore tanto più consapevole e vero in quanto non avrò dato un contributo personale alla loro impostazione di vita che la mia fede continuerà a considerare in contrasto con i principi del Vangelo. E pregherò che il Vangelo continui a essere lievito e porti finalmente a fermentare tutta la massa nonostante la inadeguatezza dei cristiani. Qui sì che si potrà parlare di rispetto della libertà altrui, non là dove si tratta di concedere quello che la coscienza vieta ai cristiani di concedere. Ciò che in conclusione occorre ottenere in questo momento è un deciso atteggiamento dei nostri cristiani, una reazione cortese ma ferma al tentativo di introdurre il divorzio nella nostra legislazione. La fermezza non va disgiunta dalla serenità e dalla umiltà e questo deve valere anche per le discussioni. Il buon Dio non ha bisogno né di moschettieri né di avanguardisti. Il nostro aiuto è nel nome del Signore. Lavoriamo per la «legge di Cristo» e siamo convinti che l’arma più potente resta sempre la mitezza: «beati i miti, perché possederanno la terra» (Mt 5, 5). Fu la grande vittoria di Papa Giovanni. Ci guidi nel pacifico intento la Vergine Santissima, Madre amabile e Madre purissima, Regina delle famiglie cristiane. Chiudo, ricordando e raccomandando la crociata quaresimale per gli affamati e per i lebbrosi. Che sia per tutti carità fiorita dal sacrificio e nutrita dalla santa liturgia di quaresima. A voi e ai vostri fedeli, con particolare riguardo alle famiglie religiose specialmente claustrali alle cui preghiere affidiamo noi stessi e i nostri intenti, il mio saluto e la mia più cordiale benedizione. Mercoledì delle Ceneri, 1967. ✠ Bruno arcivescovo227.

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Polemiche giornalisticheiL divorzio

Modidiessereantidivorzisti(rispostaal“Corrieredellasera”)Egregio sig. direttore del Corriere della sera e p. c. sig. Enrico Altavilla. Nel Corriere della sera del 24 maggio 1969 è apparso un articolo di Enrico Altavilla (pag. 3: Le italiane divorziste fedeli). Nell’articolo è contenuta una grave offesa nei miei confronti, e l’offesa è basata sul falso. Riporto il passo incriminato nel suo contesto: «Scrivono decine di migliaia di donne infelici, condannate per legge all’ipocrisia e all’immoralità. È un’ipocrisia che gli antidivorzisti stanno cercando di cristallizzare pur di non tollerare il divorzio. Ed ecco alcuni sacerdoti dire alle coppie clandestine: “Ma restate insieme, figlioli, chi vi rimprovera?”. Ecco il vescovo di Camerino affermare: “Non dobbiamo chiamarli concubini, non dobbiamo entrare nelle loro coscienze come giudici, ma dobbiamo aiutarli spiritualmente”. Del vescovo di Prato chi ancora si ricorda?». Se per il vescovo di Camerino il sig. Altavilla non intende un ipotetico vescovo di Roccacannuccia (nel qual caso offende Camerino, che oltre tutto è sede arcivescovile), egli mi offende in solido con altri non identificati sacerdoti qualificandomi di ipocrita (il contesto è chiarissimo). Per la mia struttura mentale e per la mia formazione spirituale, considero l’ipocrisia una cosa lurida. Ciò serva a configurare l’offesa. Della quale esigo riparazione perché oltre tutto si basa su un distorcimento inaudito del mio pensiero, quale risulta dalla lettera pastorale per la quaresima 1967 alla quale si vuole alludere (la lettera infatti è stata citata più volte, per es. nel Corriere del 15 aprile scorso in un articolo di Fabrizio De Santis, tutt’altro che esatto nei miei confronti, ma per lo meno non offensivo). Per ristabilire secondo giustizia il mio pensiero è indispensabile riassumere brevemente la lettera. Davanti al divorzio, dicevo, i cristiani (tutti i cristiani, non solo i cattolici) hanno una indicazione precisa nella parola di Gesù riferita in maniera chiarissima nel cap. 19 di Matteo, come nel cap. 10 di Marco, come nel cap. 7 della prima lettera di San Paolo ai Corinti. Continuo a credere che non possono essere considerazioni sociologiche, tanto diversamente valutabili, a unire i cristiani nella questione del divorzio. Ma se sono cristiani, non può non unirli la Parola di Dio. Questa unione - che è sciocco qualificare come una crociata - non ha senso se non in quanto parte dalla fede: i cristiani devono semplicemente testimoniare e poi rimettersi a Dio che sa guidare la storia per tutte le strade. Nella lettera non

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mi occupavo delle coppie irregolari. Nemmeno a farlo apposta, ricordavo il caso del mio amico vescovo di Prato, ma proprio per dire: «Pensando al domani, a un domani che includa la deprecata ipotesi di una legislazione favorevole al divorzio (sarebbe un brutto segno di cedimento e di decadenza della coscienza cattolica degli italiani) io posso immaginare una cosa. Posso addirittura auspicarla. Posso cioè pensare che il diritto penale della Chiesa sia sottoposto a una profonda revisione, che siano soppresse determinate pene o per lo meno che non siano più applicate quando non conservassero il loro valore essenziale di medicina salutare... Così da poter dire all’ipotetica coppia di sposi in procinto di rinnovare un caso di Prato: stare tranquilli! per la Chiesa che vi fu e vi è sempre madre, voi purtroppo non sarete sposi; però il vescovo può fare una sola cosa: pregare e piangere per voi... È così che potremo, in un disgraziato domani, rispondere anche a coloro che ci avrebbero voluti divorzisti. Cercheremo di comprenderli nel loro atteggiamento, ma saremo tranquilli sapendo di non esserne responsabili. Domani insomma potranno esserci dei fratelli cristiani che scelgono il divorzio. È chiaro che essi optano per una concezione di vita che non è cristiana... Sarà assurdo che essi richiedano i sacramenti di una Chiesa che dimostrano di non credere e sarebbe un tradimento da parte mia il darglieli. Ma questo non vieterà che, come rispetto gli atei e accetto un dialogo con loro, io possa rispettare questi battezzati che - forse anche per mia colpa - non hanno approfondito l’esigenza del loro battesimo. Per me non saranno veramente sposati, eppure rispetterò la loro convinzione che forse è nata da un dramma, se essi stessi dimostreranno di assumerne con serietà gli impegni… Ciò che in conclusione occorre ottenere in questo momento è un deciso atteggiamento dei nostri cristiani, una reazione cortese ma ferma al tentativo di introdurre il divorzio nella nostra legislazione. La fermezza non va disgiunta dalla serenità e dalla umiltà e questo deve valere anche per le discussioni. Il buon Dio non ha bisogno né di moschettieri né di avanguardisti. Il nostro aiuto è nel nome del Signore. Lavoriamo per la “legge di Cristo” e siamo convinti che l’arma più potente resta la mitezza (cfr. Matteo 5, 5). Fu la grande vittoria di papa Giovanni».Fin qui, riassunti e stralci della mia lettera. Ciò posto, sig. direttore, resta chiaro a tutti quelli che sanno leggere che io non ho dato nessuna esortazione ipocrita alle coppie clandestine. Ho solo riaffermato, come era mio dovere, i principi cristiani di resistenza al divorzio e ho professato il massimo rispetto per coloro che la pensano diversamente. La lettera era intitolata infatti “A dialogo con i divorzisti” ed ebbe l’onore di parecchie adesioni. Riservandomi di pubblicare la presente sul settimanale L’Appennino camerte e su altri

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giornali e riviste che vorranno ospitarla chiedo che a norma delle vigenti leggi sulla stampa essa sia pubblicata integralmente col dovuto rilievo nel suo giornale, riservandomi in caso contrario di agire nel modo più adatto che mi sarà indicato dall’amico avvocato che si è preso gentilmente l’incarico di trasmetterLe la presente. Con stima e ossequio. ✠ Bruno Frattegiani arcivescovo228.

“Magis amica veritas” (Risposta alla rivista “Amica”). «La rivista “Amica” (n. 18 del 30 aprile) sotto il titolo “Il realismo e illuminato linguaggio di un vescovo e di una donna teologo” (Adriana Zarri) cita alcune righe della pastorale dell’arcivescovo per la quaresima 1967 “A dialogo con i divorzisti”, lodandone “il coraggio” e “il realismo” e concludendo: “Ecco un esempio, anche abbastanza raro in Italia, di misura ed equilibrio, di realismo e di giustizia, oltre che il linguaggio pastorale adeguato al problema”. Però l’arcivescovo ci tiene a ricordare alcuni passi della lettera che “Amica” ha passato sotto silenzio. Non è colpa dell’arcivescovo se, alla vigilia delle elezioni, questi brani acquistano un significato particolare. Ecco i passi che l’arcivescovo ci tiene a ricordare e a segnalare. Il primo si richiama alle celebri parole di Gesù in Matteo 19, 3 e Marco 10, 11-12: se Gesù dichiara – come dichiara – l’immoralità del divorzio assolutamente contrario ai disegni di Dio, è semplicemente assurdo che un cristiano possa accettare di esserne comunque promotore o sostenitore per una speciosa ragione di modernità. E questo vale sia per il matrimonio concordatario e sia per il semplice matrimonio civile che per i non cristiani è pur sempre un vero matrimonio. Il discorso dell’arcivescovo sulla comprensione che il cristiano deve avere nei confronti di chi ragiona e si comporta diversamente (a lui non pare che ci sia voluto tanto “coraggio” dal momento che si sentiva alle spalle il Concilio e Papa Giovanni e… il vangelo della mitezza di Cristo) si conclude con questo altro passo che non va trascurato: “è così che potremo in un disgraziato domani rispondere anche a coloro che ci avrebbero voluto divorzisti. Cercheremo di comprenderli nel loro atteggiamento, ma saremo tranquilli sapendo di non essere responsabili”. Purtroppo il “disgraziato domani” potrebbe essere molto vicino; i cristiani devono essere pronti ad affrontarlo con serenità, ma non possono fabbricarlo. Di chi è la colpa se ai cristiani non è data la possibilità di scelta?»229.

“Il Regno”, l’aborto e Camerino. «Ho voluto bene alla rivista dei dehoniani, che a suo tempo mi aiutò a leggere gli antefatti e i fatti del Concilio e a un certo punto mi rese perfino mezzo celebre e mezzo contestato

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pubblicando la pastorale quaresimale 1967 “A colloquio con i divorzisti”; e non mi è mai piaciuto che si pretendesse vietarne la lettura ai nostri studenti di teologia (non è con i paraocchi che si formano le coscienze, pur restando vero che l’educazione giovanile impone anche delle cautele; prova ne sia come una presentazione del marxismo, in parte acritica e in parte romantica, travolge tanta parte della nostra gioventù), ma stavolta sono rimasto di stucco. Ho davanti a me “Il Regno attualità” del 15 gennaio e trovo sull’informazione religiosa un punto di partenza suscettibile di serena discussione. “Per chi fa informazione religiosa in Italia è oggi importante capire come è stato gestito il post-concilio e perché la situazione ecclesiale attuale sia la frustrazione pratica della Chiesa partecipata dal basso”. Non c’è dubbio che la contestazione in Italia ha trovato meno fortuna che in Olanda. Ma come si può pretendere che la gerarchia non reagisca a certe manifestazioni abnormi di cui lo stesso numero ci dà un qualificatissimo esempio con l’intervista a J. M. Pohier? Si tratta di un domenicano che ci parla di una sua conversione all’aborto con una sicurezza che, francamente, rasenta il cinismo. Ed io non dovrei orientarmi per lo meno nel senso di sconsigliare ai miei confratelli la lettura di una rivista che, senza annotazioni di sorta, rovescia simili docce d’acqua fredda e per giunta avvelenata sulla compatta e massiccia posizione di dottrina da parte del Papa e di tutto l’episcopato? (Ai miei tempi, in questi casi, a prescindere da qualsiasi definizione solenne, si parlava di fede divina e cattolica: si veda il can. 1323 desunto dal Concilio Vaticano I)». L’arcivescovo poi nel caso discusso se si poteva all’inizio parlare già di essere umano, dice che tanto in passato si è discusso di ciò e cita Dante, gli scolastici e il suo professore mons. Antonio Lanza, poi continua: «Ma Dante e gli scolastici e mons. Lanza sapevano anche dubitare, e mi insegnavano che, quando io non so se dietro la siepe quello che si muove è un uomo o una lepre, io non posso sparare alla lepre. Pohier se la sbriga da cacciatore di fiuto: “Chi mi può far credere che si tratta dell’eliminazione di esseri umani?” Ma non mi dispensa dal dubbio che per me è tragico. L’intervistatore domanda: “L’obiezione principale di coloro che si oppongono all’aborto (par che dica: io non c’entro) è che nessuno ha diritto di uccidere. Come risponde a questa obiezione?”. Assai sprovveduto un teologo semplicemente così: “La Chiesa ha sempre ammesso che in certe occasioni si può uccidere” e cita la legittima difesa, la guerra giusta, e salta, bontà sua, la pena di morte (e perché no l’inquisizione?). Quello che più che la Chiesa han detto i teologi e rispecchia la mentalità del loro tempo. Oggi che, grazie a Dio, siamo tornati ad essere

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più sensibili al “nolite resistere malo” del discorso della montagna che non al “vim vi repellere licet” del diritto romano, siamo convinti che di questo tentativo di ispirarsi al Vangelo più che alla legge non può non risentire il tema dell’aborto con il rifiuto assoluto della strage degli innocenti. Macché! Per il nostro teologo (ironia della parola: colui che parla di Dio) “resta da dimostrare che l’aborto è un omicidio”. La parola del titolo “Camerino” riguarda un fatto di traffici d’armi, di cui si occupa lo stesso “Regno”, ma qui non c’interessa»230.

Sagra o strage degli innocenti? Permettetemi un ricordo personale. Era il 14 febbraio 1964. Era passato un mese preciso da quando il venerato arcivescovo mons. Baratta (Perugia) mi aveva portato in casa la notizia riservata della mia nomina a Camerino. Seppi solo molto più tardi che quel giorno era dedicato lassù (oggi… qui!) alla festa solenne della Madonna col titolo di S. Maria in via. Deve essere stata lei in quella specie di trigesimo (ancora segreto!) a condurre sulla mia strada un’anima in pena: un’ottima signora, che avevo conosciuto da ragazza come cristiana a tutta prova. La trovai sconvolta e compresi subito perché. Madre di due figli già grandi, da qualche settimana aspettava una nuova creatura. Per via d’una certa complicazione morbosa che mi spiegò, i medici le davano per certa la sua morte se non avesse interrotto la gravidanza. Due cose mi disse piangendo: lei non poteva in coscienza lasciar soli col marito i due figli e d’altra parte sapeva che il concilio dava segni di consolante apertura… Il suo sguardo mi interpellava angosciato e smarrito. Mi sentii disarmato. Come mi capita di fare quando mi trovo in circostanze difficili (per esempio in confessionale) mi serrai la faccia tra le mani e pregai la Madonna di assistermi e di aiutarmi ad essere semplicemente ministro della bontà del Padre e della verità di Cristo suo Amore misericordioso e della consolazione dello Spirito Santo. Poi fissai gli occhi che mi fissavano ansiosi e dissi con fermezza una battuta quasi banale (i medici mi perdonino, non fosse altro perché il buon Dio ha molte cose da perdonare anche a loro). Dissi: «Signora, non dia ascolto ai medici». Dall’altra parte del tavolo i suoi occhi mi guardavano meno tesi; si capiva comunque che il loro interrogativo tragico attendeva con ansia una risposta, ma una risposta di fede. Soggiunsi: «Domattina io celebro la santa messa per lei (ecco perché ricordo la data; una volta ogni prete passabile teneva con cura un registro di messe). Sia tranquilla. Il Signore l’aiuterà». A me parve un miracolo vederla alzarsi serena. «Continui a pregare per me» mi disse asciugandosi le lacrime; e mi salutò. Ho da qualche parte una sua

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lettera di ottobre con cui mi annuncia felice la nascita di una bella bambina. Più tardi me la portò a vedere. Il nome, un bel nome germanico di fioriture candide, non posso dirvelo, anche se mi risulta che la mamma stessa ne ha raccontato la storia a più d’uno. Perché ho cominciato da un episodio che molti medici considererebbero assurdo? Per loro si sarebbe trattato di una operazione semplicissima, consentita da qualsiasi legislazione civile (civile?). Ma è proprio per riaffermare, nel contesto ignominioso dell’odierna sconcia parata radical-femminista, che nessun codice può passar sopra alla legge di Dio. E per la legge di Dio la vita è sacra fin dal suo inizio. Proveremo a vederlo insieme, limitandoci alla Bibbia. Mi si dirà che quando si parla di bibbia, bisogna tener conto del genere letterario, della mentalità degli autori, del loro facile passaggio dalle cause seconde alla causa causarum, alla causa prima e cioè a Dio. Credo d’avere un’idea abbastanza chiara dei generi letterari e della mentalità semitica. Ma come gli autori semiti ispirati faccio a meno volentieri del linguaggio greco delle cause (ho imparato dalla vita che i teologi puri sono una autentica calamità) e sento la verità del popolarissimo «non cade foglia…» e dell’evangelico «nemmeno un capello cadrà…», pur consapevole dell’azione del vento che stacca la foglia e del lavoro degli anni che congiurano contro la mia pur modestissima chioma. Nel contesto evangelico del capello mi si riaffaccia alla memoria il limpido latino della versione volgata: Multis passeribus meliores estis vos e cioè: ciascuno di voi conta più di molti passeri. Anche ciascuno di voi, piccoli cuori palpitanti in grembo alle trepide mamme, frutto spesso di un amore benedetto, frutto a volte d’una passione torbida e incontrollata e perfino - più raro - di un’aggressione cinica e brutale. Anche ciascuno di voi è termine in ogni caso di un misterioso disegno di Dio che pure dalle macerie sa trarre protagonisti per la sua storia d’amore misericordioso. O grande veggente dei dolori mentali di Cristo nella sua passione, beata Camilla Battista di Varano, figlia illegittima del principe camerte, aiuta il tuo vescovo a seminare nei cuori, con l’orrore della strage degli innocenti, la passione per la vita e le meraviglie del piano di Dio nella storia tormentata degli uomini. Io però non voglio parlare d’aborto, ma di vita. Non mi interessa quindi disquisire sul celebre passo di Esodo 21, 22-25 dove si parla - agli effetti penali - d’un aborto provocato da rissa e dove semmai è interessante un confronto con la versione greca dei settanta, probabile colpevole dell’idea di una animazione ritardata. Un’idea che arrise agli scolastici e fu trasfigurata da Dante in un paio di terzine di luce (Purg. 25, 68-72): «… sì tosto come al feto / l’articolar del cerebro è perfetto, / lo Motor primo a lui si volge lieto / sopra tant’arte di natura, e spira / spirito nuovo di virtù repleto». Supponiamo che questa

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concezione sia vera (un mio caro maestro, mons. Antonio Lanza morto arcivescovo di Reggio Calabria, la illustrò in uno studio cui non mancò una vasta risonanza, aggiornatissima com’era anche ai dati dell’embriologia). Ma lo stadio anteriore alla animazione resta comunque un progetto di Dio che sgorga misterioso dal confluire di cause seconde. E un progetto di Dio non si tocca, quando è progetto per l’uomo. Lo stesso varrebbe a maggior ragione nell’ipotesi avanzata da certi teologi d’assalto secondo cui solo nella vita resa autonoma dal corpo materno si acquisirebbe la personalità (perché allora non dallo svezzamento?). È sperabile che tali teologi siano tanto teologi da saper dubitare delle proprie asserzioni e sappiano almeno accettare l’idea di un santo progetto di Dio. Progetto di Dio per l’uomo (questo è il punto) o persona umana? è una domanda molto meno rilevante di quest’altra: uomo o lepre? Non si spara dietro lo sfrascare di una siepe se non si è certi che si tratti d’una lepre. Ma il progetto di Dio non ha problemi di frasca. Il progetto di Dio non si tocca, quando segna l’abbozzo di un uomo. Se la Chiesa è dura, dimostra d’esser testimone del Crocifisso: non si tocca, e a costo della vita. Ma non è un progetto d’uomo il bambino nel seno materno. È un uomo. La saggezza del diritto romano sfiora qui la concretezza del vangelo, quando propone un principio accettato da tutte le legislazioni civili: conceptus pro jam nato habetur (il concepito si considera come già nato). Non è un progetto di Cristo futuro il bambino nel grembo di Maria. È Cristo. Avete tutti presente la scena della visitazione (Luca 1, 39-56). Rileggetela adesso con attenzione di fede. I protagonisti non sono né Elisabetta né la Vergine Maria. Loro seguono l’impulso di due creature (anche il Verbo s’è fatto creatura). Vedo i biblisti con i baffi atteggiarsi a un sorrisetto ironico, perché sto incappando… nel genere letterario! Non l’ho perso di vista, no, il genere letterario! Ma lo sento comunque coinvolto in una constatazione elementare. Protagonista è Cristo che anticipa il dono dello Spirito Santo. E Cristo è un embrione di pochi giorni (Maria ha lasciato Nazareth cum festinatione, in fretta, dopo la annunciazione) ed è Cristo che mobilita tutti: dal Battista che danza nel grembo materno (sì, certo! genere letterario! non gli ci scappa di sicuro lo spazio per un minuetto) a Elisabetta che acclama alla madre del suo Signore (il quale è adesso un embrioncino, che nessuna legge si azzarderebbe a proteggere più!) a Maria che intona il canto dell’autentica rivoluzione cristiana. Di quel piccolo Embrione l’autore della lettera agli Ebrei dice anche qualcosa di più toccante (10, 5-7). Dice che il Figlio di Dio entrando nel mondo (e ci entra nel momento della concezione verginale) canta il salmo del dono di sé: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta. Invece mi

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hai preparato un corpo... Io ho detto: Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà» (Salmo 40). Genere letterario? Dio benedica chi l’ha inventato, quando mi insegna a penetrare nel cuore delle Scritture, a scortecciar la lettera per trovarne lo spirito; quando, come adesso, mi insegna ad intonarmi al palpito del piccolo Embrione! Palpito: si fa per dire! il cuore ancora non c’è. Ma il Verbo si è fatto uomo. Madonna santa, Tu che lo senti battere anche se ancora non pulsa, per il palpito infinito dell’Amore misericordioso che portasti nel grembo purissimo, ispira alle mamme un santo istinto di rigetto per le leggi omicide e un Magnificat di esultanza per il dono santo della maternità. E chiedi perdono e rinascita per tutte quelle che ignorant et errant, non percepiscono l’orrore dell’abisso e possono sbagliare come tutti sbagliano. E a noi ottieni una profonda comprensione d’amore che nei singoli casi, poveri peccatori come siamo senza eccezione, ci intoni al precetto del Signore: «Non giudicate e non sarete giudicati» (Matteo 7, 2). La Bibbia non parla mai dell’assurdo d’un aborto voluto; conosce l’aborto spontaneo come disgrazia (si veda ad es. Num 12, 12 e Giobbe 3, 11). Poi parla solo del mistero della vita che l’amor di Dio tesse vicino al cuore della mamma. Il grande salmo della onniscienza e della tenerezza dell’Eterno, il salmo 138 (139) medita così il mistero del nostro divenire nel grembo materno: «Sei Tu che hai formato i miei reni / e mi hai impastato nel seno di mia madre... / Il mio essere non sfuggiva al tuo sguardo / quando ero formato nel buio, / quando fui ricamato nei penetrali della terra. / I tuoi occhi mi vedevano ancora informe / e nel tuo libro erano scritti tutti i miei giorni / quando ancora non ce n’era nessuno...».

Ricami di Dio. La mia vita come il ricamo di mamma che prepara il corredino. Ricordo d’aver visto in mano a mia madre una rivista di ricamo; il titolo era proprio la radice semitica che è nel salmo - RAKAM - da cui deriva evidentemente (forse attraverso l’arabo) anche il vocabolo italiano. Queste altre parole del salmo 93 (94) sembrano lo stop di Dio a uno di quegli autentici fenomeni di possessione diabolica collettiva che rispondono al nome di cortei radicalfemministi: «Riflettete, o cretini del popolo / e voi, stupidi, quando ragionerete? / Chi ha piantato l’orecchio non sentirà? / e chi ha formato l’occhio non vedrà?». Torni pure ad arridere l’idea del progetto di Dio. Si parla fra l’altro di progetti che parevan di troppo per le rispettive famiglie; ma quando furono attuati si chiamarono, putacaso, S. Caterina da Siena e Ludwig van Beethoven... Ricamati dall’amore! né più e né meno che i ragazzi spastici, precondannati a morte dal satanico codice radicalfemminista, ma uniti misteriosamente al sacrificio redentore

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dal codice santo dell’Amore misericordioso. È lui, per dare col salmo 32 (33) un ultimo tocco alla nostra rassegna, è Lui «che ha fatto ad uno ad uno i loro cuori». Contesto la versione CEI, anche se ottima per il nostro tema: «lui che, solo, ha plasmato il loro cuore». Proprio così. Lui solo. Per ognuno. Non insisto sul genere letterario delle vocazioni bibliche perché… è un genere letterario. Solo un accenno. Credo - con tutti i biblisti seri - che il genere letterario resta un veicolo santo della Parola. E la Parola si è incarnata nella mentalità d’un popolo prima che nella Vergine Maria. Deliziosa in proposito (certo da tradizione popolare) la storia di Esaù e Giacobbe che si azzuffano nel seno materno (Gen 25, 22-23); San Paolo ci legge dentro una storia d’elezione (Rom 9, 11-12). Israele è ancora solo un progetto, ma è già qualcuno ed è il Signore che lo ha impastato nel grembo (Isaia 44, 2). Al giovane Geremia titubante il Signore dice: «Fin da prima di formarti nel seno di tua madre, io ti conoscevo» (Ger 1, 5). Per il Battista è chiarissimo il riferimento all’evento della visitazione nelle parole dell’arcangelo Gabriele a Zaccaria: «Sarà ripieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre» (Luca 1, 15). San Paolo si riconosce «scelto fin dal grembo di mia madre» e solo più tardi «chiamato per la sua grazia» (Gal 1, 15). Consentitemi di concludere con la storia dei santi Innocenti. Il genere letterario (ancora lui!) viene adesso perfino battezzato! Si chiama haggada. Sarebbe una storia ricamata sulla trama di quella dei bambini ammazzati in Egitto quando Mosè si salvò… nel cestino. Una storia che ha un risvolto tanto bello; voglio dire il fatto delle ostetriche che «temettero Dio» più del Faraone (Es 1, 17). Ma a me della haggada non importa nulla. La strage degli innocenti sta diventando una strage di massa, che minaccia di farsi legale (legalité, beninteso, di marca nazista). Per gli Innocenti d’allora, che secondo l’antico inno liturgico giocano con le corone e le palme sotto l’altare di Gesù Bambino (aram sub ipsam simplices - palma et coronis luditis) abbiamo il dovere di serrare le file per la difesa degli Innocenti di oggi. Innocenti con la «I» maiuscola pure loro, anche quando non sono altro che piccoli grumi scaricati nel sacco dei rifiuti. Contro i faraoni smargiassi e le faraone sgualdrine («f» minuscola!) riaffermiamo sereni il primato della vita a costo della nostra. Poi preghiamo per questi disgraziati. Sono vittime del loro vuoto interiore. Amore misericordioso, fatto embrione per amore degli uomini, fatto bimbo per noi nel presepio, accogli la sagra festosa degli Innocenti d’allora e di sempre. Perché la tragedia lugubre degli Innocenti di oggi scuota i cristiani e li renda incrollabili nella difesa della vita. Dopo la strage, arrida al mondo cristiano la sagra degli Innocenti. (Da «L’Amore misericordioso», dicembre 1976) 231.

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LegattediNomadelfia. «Abbiamo letto una predicazione di don Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia, la città dell’amore fraterno, dove egli ha salvato tanta gioventù. Si tratta della predica nella festa dei Santi Innocenti. Dice tra l’altro don Zeno: “Non so se sia stato più boia Erode ad uccidere questi figli o tutti quelli che anche oggi stanno ammazzando i figli nell’utero materno! Se guardassimo almeno le bestie: non sono come noi, non fanno di queste cose. A Nomadelfia abbiamo visto un fatto che ho raccontato spesso nei miei discorsi al popolo: c’erano due gatte che dormivano sotto una delle nostre casette prefabbricate; una aveva fatto il nido da una parte e l’altra dalla parte opposta. Sono nati i gattini e una delle due gatte è morta; l’altra è andata a prendere i gattini ad uno ad uno, li ha portati nel suo nido e li ha allevati tutti”. Conclude don Zeno: “Fossimo almeno delle gatte!”. Ma forse la battuta più che a don Zeno si addice alle nostre femministe, il cui zelo (comunque degno di causa più pulita) ci comanda di non tacere. Alza la tua voce (ci invita Isaia 58,1) come una tromba. In nome della fede, al di fuori di ogni motivazione politica. Anche dall’altare? E perché no? È fra l’altro uno dei motivi ricorrenti nella visita pastorale» 232.

Ma le donne vinceranno. Le femministe in una manifestazione pubblica hanno sacrilegamente pregato la bestemmia: “Insegnaci a peccare senza concepire”. Offendendo la devozione mariana del popolo italiano, hanno ottenuto la licenza di uccidere. Perché l’aborto è l’uccisione di un innocente. Ma le donne cristiane vinceranno. Perché è giunta l’ora di essere e di professarsi cristiani sul serio. Anche un cristiano può sbagliare, può peccare, può tradire perfino le sue convinzioni più intime in un momento di smarrimento. Allora saprà di avere peccato e saprà che il Signore lo chiama e la chiama. Ricordare che per il peccato di aborto è prevista anche la pena della scomunica che si incorre sul fatto e preclude l’accesso ai sacramenti ove non ci sia il debito riconoscimento di colpa e la debita riparazione, è un aiuto materno della Chiesa che vuole spingerci ad approfondire nella fede il senso del peccato. È un aiuto materno anche per le femministe vittoriose per le quali, dopo le dure parole, abbiamo ancora il dovere di ricordare la bontà e la misericordia del Signore e il dovere di pregare. Sono nostre sorelle 233.

La polemica con Dom Franzoni. «Caro don Giovanni, quando pubblicasti “La terra di Dio”, sentii il bisogno di scriverti che c’erano molte cose sacrosante nella tua denuncia ma che qualcosa - e nella sostanza e nel tono - non quadrava; qualcosa che non sapevo definire e che poco dopo fu

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precisato magistralmente dal quel sant’uomo (per me veramente grande) che si chiama il card. Pellegrino; qualcosa che più tardi - perdonami se te lo dico - fu come fotografato nella tua condotta. Io ai profeti ho voluto sempre bene. Conservo come una reliquia -preciso che io sono un inesorabile cestinatore di posta - una lettera di don Primo Mazzolari a cui avevo scritto in occasione di un suo guaio grosso. “Caro don Bruno - mi dice e me lo sento ancora vicino - non importa vedere alla stessa maniera i problemi contingenti: importa sentire insieme l’unum necessarium ed esser disposti a “perder l’anima” per esso. La propria anima per esso. La prova rinsalderà il proposito se ci lasceremo da essa purificare. Non si è mai distaccati abbastanza per essere testimoni meno indegni di una verità che non può essere predicata senza la carità. Conto sul Suo fraterno memento e appoggio il cuore alla sua amicizia sacerdotale. Grazie. Suo ecc.” (Bozzolo, 4-4-1951). Conservo come una reliquia una lettera di don Milani che poi i suoi ragazzi vollero pubblicata sotto il pudico anonimo di “un vescovo dell’Italia meridionale” (sic!). Fu dopo “la lettera ai giudici”. Gli avevo scritto che non condividevo tutte le “sassate in piccionaia” ma che Dio lo benedicesse per la sua nobile lettera. Non credo che t’interessi; se mai la trovi a pag. 268 del libro. È anche consolante quel che mi scrissero i ragazzi quando mi restituirono l’originale che mi avevano chiesto: “La lettera del Priore... ci è sembrata molto importante e ci ha fatto capire che le dobbiamo essere grati anche per il bene che ha fatto a lui”. Sarei tanto contento se potessi fare del bene anche a te, come tu per esempio me ne hai fatto una volta in assemblea CEI quando a un confratello molto sicuro nell’asserire che il Papa non aveva bisogno di consigli rispondesti con un garbatissimo intervento: “Ho sempre creduto che il Papa a parte le consultazioni di cui non sa fare a meno, abbia il dovere di lasciarsi consigliare dallo Spirito santo”. Se il ricordo non è preciso, correggimi pure. So che verrai a parlarci di “Chiesa e potere” nella nostra compiacentissima Università, dove non ti saranno risparmiati applausi frenetici. Ho sempre apprezzato il tuo carisma della parola (te l’ho perfino un pochino invidiato, ma era solo per il desiderio di dire sempre con franchezza - con la parresia degli apostoli - la parola del regno che a volte soffre della mia timidezza congenita) e mi dispiace di saperlo insidiato dalla tentazione della piazza. Dovrei piangere con te se il banditore della Parola finisse per ridursi a tribuno del popolo. Scrivo oggi 9 aprile, trentesimo anniversario del martirio di Dietrich Bonhoeffer per cui nutro tanta venerazione. Ti ricordo di lui queste parole di Nachfolge: “La beatitudine di Gesù (quella dei poveri) si distingue

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assolutamente dalla sua caricatura nella forma di programmazione politico-sociale. Anche l’anticristo dichiara beati i poveri, ma lui non lo fa per amor della croce, in cui ogni povertà è inclusa ed è beata, ma proprio per il rifiuto della croce attraverso l’ideologia politico-sociale. Egli pretende addirittura gabellare di cristiano questa ideologia ed è proprio in questo che diventa nemico di Cristo”. E ancora: “È dal Golgota, dove il mitissimo morì, che la terra deve farsi nuova. Quando verrà il regno di Dio, allora saranno i miti a possedere la terra”. A Bonhoeffer nella grazia del martirio è stata risparmiata la disgrazia di vedere gli odierni sviluppi mostruosi dell’ideologia, di quella ideologia (lui è morto combattendo la diabolica ideologia nera del nazismo, ma non c’è dubbio che nel passo citato - e non lì solamente - intende stigmatizzre il marxismo). Sviluppi mostruosi, non c’è dubbio. Vedi il penultimo numero di “Rocca” dove il prof. Della Pergola (della nostra imperial-pontificia Università: scherzi della storia, pardon della Storia!) ci descrive vari tipi di cristiani per il socialismo, riconoscendosi lui fra i cristiani-atei. Grazie, professore; questo almeno significa parlar chiaro (capisco anche meglio perché ce l’ha così fitta con C e L!). Caro don Giovanni (dico sul serio questo “caro” - forse più caro di prima - anche se giovedì me ne andrò per essere sicuro di non vederti), il “perder l’anima” ricordatomi da don Primo è il “perder l’anima” di Gesù, è il vincere perdendo di anime grandi come padre Lagrange che tacendo e soffrendo ha concimato il campo di Dio per la mietitura del movimento biblico, come tutti i pionieri del movimento liturgico, ecumenico, teologico. Come aveva ragione p. Clerissac quando nel suo densissimo breviario su Le mistère de l’église spiegava che non basta souffrir pour l’église ma bisogna anche essere pronti a souffrir par l’église! È una cosa che costa quel par l’église (da parte della Chiesa). Ma la chiesa non sarebbe un mistero se non fosse fatta di uomini. Certo, don Giovanni, l’obbedienza alla Chiesa non va confusa con “l’entusiasmo spasmodico sempre pronto all’osanna” (Hugo Rahner). Il quale potrebbe essere anche buono se fosse entusiasmo; ma spesso è solo conformismo e sono certo anch’io che è assai più dannoso della disobbedienza aperta. Quella cara anima di p. De Lubac (debbo tanto a qualcuno dei suoi libri e a certi incontri in s. Pietro durante il concilio) distingueva molto bene l’obbediente dal conformista: il conformista prende dal di dentro anche le cose della lettera. È un po’ scomoda, ma non può non far testo nella chiesa, la preghiera di Newman: “che la debolezza umana dei tuoi rappresentanti non mi faccia mai scordare che sei tu che parli e operi per mezzo loro”. Ho

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detto che me ne vado. Per non vederti. Non è una fuga. Ti vedrei volentieri ma giovedì non posso e non voglio vederti. E l’unica arma che mi resta per dirti il mio disappunto di fronte alla grave scorrettezza (credo ancora nella tua fede e spero di non sbagliarmi) di venire nella chiesa di cui devo rispondere a Dio come vescovo senza nemmeno sentirmi. È doloroso che tu abbia dissensi con la Chiesa locale di Roma. Ma Camerino non ti ha fatto mai torto. Ci ho tenuto a dire che ai profeti ho voluto sempre bene. Ma se tu ti comporti così, tu non sei un profeta. Semini solo zizzania. Il Signore ci illumini ambedue. In questa preghiera è il mio saluto. Infatti essa contiene il desiderio di un abbraccio senza riserve. Per un’ora sarò il tuo vescovo. Per quell’ora - non felice - vorrei pure benedirti. Ma non so se posso. Prego. Bruno arcivescovo».

Risposta di dom Franzoni. «Carissimo Frattegiani, rispondo con gratitudine alla tua lettera aperta del 17 aprile, pubblicata su L’Appennino camerte, lettera che manifesta contemporaneamente dissenso, sofferenza e amicizia, che quindi considero positiva, anche se l’uso che alcuni ne hanno fatto è stato banalmente accusatorio, utilizzando solo la più dura delle tue espressioni a proposito di profezia e zizzania. Te ne sono quindi grato, anche perché è il segno che un certo metodo passa nella Chiesa. La battaglia dei pro-memoria, degli “appunti”, dei “canali qualificati” e dei contatti con persone “autorevoli”, non interessa più gli uomini che vivono con passione il loro “essere Chiesa”; oggi il dibattito ecclesiale si costruisce alla luce del sole, in quegli spazi battuti dal vento che sono i giornali, i pubblici dibattiti, i convegni fra cattolici e non. La Chiesa non ha panni sporchi che si debbano lavare in casa: i suoi panni sporchi sono di tutti e si lavano al lavatoio. Per questo mi meraviglia che tu consideri una “grave scorrettezza” non averti sentito prima di venire a Camerino. So che gli organizzatori ti hanno scritto e che tu hai loro risposto; era per informarti e non per chiederti il permesso, dato che l’Università di Camerino è un luogo di libertà ed autogestisce le sue decisioni. Qualsiasi ulteriore contatto privato fra di noi che non fosse puramente di amicizia personale, sarebbe stato alle spalle degli organizzatori e quindi poco corretto. L’ultima volta che parlai alla Conferenza episcopale italiana spiegai proprio questo, rispondendo a coloro che mi rimproveravano di ledere lo spirito della collettività. Allora ebbi a dire che non intendevo la “sollecitudine per tutte le chiese” come un consolidamento di legami corporativi fra vescovi: questo, infatti, avrebbe ulteriormente aggravato l’emarginazione

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dei laici e dei preti e cristallizzato la gratificazione nella Chiesa. Credo che il servizio agli uomini in lotta per la loro liberazione debba essere il centro della nostra attenzione, ed il luogo del nostro aggregarci anche con i non credenti, l’amicizia con Gesù, salvatore e liberatore, la molla del nostro essere Chiesa, non “chiesa in sé”, come direbbe Bonhoeffer, che tu hai voluto citare, ma quella Chiesa che “è Chiesa solo in quanto esiste per gli altri”. Così si chiarisce anche il rapporto fra chiesa e città. Tu dici infatti che io sono venuto “nella chiesa di cui devo rispondere a Dio come vescovo” senza neppure sentirti. Questo linguaggio in realtà manifesta il permanere di una ambiguità di fondo. Camerino, come qualsiasi altra città, non è una chiesa. Vi è, per usare un linguaggio antico ma ancora valido, una Chiesa che è “pellegrina a Camerino”, ma la città ha le sue autonomie: civica, culturale e politica. Una delle espressioni di questa autonomia è l’Università. Una censura sull’Università da parte del vescovo o, peggio, l’autocensura dei cattolici che prima di parlarvi si sottomettessero al placet del vescovo, sarebbe una menomazione all’autonomia della città e darebbe della Chiesa una immagine impropria e integrista. Ben altro discorso si farebbe se si cercasse insieme che cosa significa testimoniare il vangelo con la parola e con la vita nella comunità ecclesiale, di cui il vescovo con il suo ministero è una espressione fondamentale di unità: ma questo allora è il problema della mia comunità con la chiesa locale di Roma, problema aperto e cruciale, ma non ha niente a che vedere con i dibattiti tenuti in sedi culturali. Purtroppo l’anno scorso il Consiglio permanente di presidenza della CEI non seppe rinunciare a dare una valutazione della legge che regolamentava per lo stato italiano i casi di famiglie in stato di separazione. Dico “purtroppo”, perché ciò fu fatto non come pura e semplice manifestazione di opinione (in questo senso il Consiglio della CEI è libero di manifestare le sue opinioni in materia di legge civile), ma in nome del ministero apostolico. Molte autorità ecclesiastiche interpretarono, senza essere in ciò scoraggiate e dissuase, il documento come vincolante in coscienza e ritennero che preti e laici che ad esso si fossero opposti, fossero da considerare non solo come cattolici con opinioni diverse, ma come cattolici che ledevano la comunione ecclesiale. Fu così che, come ben sai, il regime della congregazione cassinese, mi colpì con una “sospensione a divinis” e con minacce di più gravi sanzioni. Molti altri preti sono rimasti censurati o emarginati nella chiesa italiana per questa vicenda. Da questo nodo non si sfugge: o il cattolico (prete o laico che sia) è tenuto in

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coscienza e pena la rottura della comunione a dipendere nella determinazione del voto dall’autorità gerarchica, ed allora la vita politica italiana diviene un burla; oppure il cattolico (prete o laico che sia) può discostarsi in segreto dalle indicazioni della gerarchia, ma non può discostarsene pubblicamente: questo è ambiguo e in contrasto sia con la natura aperta del dibattito preelettorale, sia con la trasparenza evangelica. In una terza ipotesi questa limitazione è riservata ai preti, ma questa obbedienza “a livelli” non ha fondamento né biblico né tradizionale. Infine il cattolico (laico o prete che stia) è autonomo nelle scelte politiche: in questa quarta ipotesi l’unità dei cristiani si ha nell’annuncio collettivo della resurrezione di “questo Gesù” (Atti 2, 32) e nell’individuazione di segni storici inequivocabili di salvezza, che siano indicazione per tutti. Ministri di questa comunione sono i vescovi “dispensatori dei misteri di Dio”, cioè guide nella Chiesa alla lettura dei segni dei tempi e proto-testimoni, con l’evangelicità della loro vita, della speranza pasquale. Non rispettata l’autonomia politica dei cattolici, si costruisce un’altra unità, ma mistificante, cioè “l’unità politica dei cattolici”. I cattolici si separano dagli altri uomini e si recintano, deducono una opzione storica da un messaggio rivelato, trasformano il patrimonio esperienziale e culturale della chiesa in ideologia, assumono l’esclusività della salvezza terrena invece di annunciare la speranza escatologica che attraversa il progetto umano e a questo non si riduce. In questi recinti, che non sono più gli ovili del Signore, i vescovi invece che servitori dei misteri di Dio, divengono dispensatori di false certezze umane che poi la storia puntualmente smentisce. Ne ho dati alcuni esempi storici nella lettera “Il mio regno non è di questo mondo” che rispondeva alla notificazione della CEI in occasione del referendum abrogativo della legge sul divorzio. Vorrei aggiungere all’elenco delle false certezze scientifiche e politiche date attraverso i secoli dalle autorità ecclesiastiche, un ultimo capitolo. Sul giornale L’Appennino camerte che pubblica la tua lettera aperta (Camerino, 12 aprile 1975, n. 15), accanto alla testata vedo una fotografia di profughi indocinesi con la didascalia: “In Sud Vietnam e Cambogia, sotto l’incalzare delle truppe corazzate comuniste circa due milioni di profughi fuggono disordinatamente; la guerra interminabile è all’ultimo atto della tragedia; poi l’ordine regnerà come a Varsavia, a Praga... e altrove”. Dimentichi dell’“ordine” che abbiamo coperto con la nostra benedizione a Madrid, a Lisbona, a Santiago o a Saigon,.. e altrove abbiamo predicato e stiamo predicando la certezza storica che i comunisti e solo i comunisti sono uccisori di ogni libertà e nemici inconciliabili della

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fede. In base a questa certezza, dal 1954 ad oggi, a ondate successive, le masse di cattolici vietnamiti sono fuggite per obbedire ai loro pastori, di fronte all’avanzata dei comunisti. Oggi questa certezza non c’è più. Leggo le dichiarazioni dei vescovi di Saigon e di Huè, la prima su “Paese sera”, l’altra su “Informations catholiques internationales” (15 maggio 1975, n.480). Vi si dice, fra l’altro: “La guerra è cessata su tutto il territorio della diocesi di Huè. Siamo infine arrivati alla realizzazione di quello scopo al quale abbiamo riservato in questi ultimi trenta anni tutti i nostri voti e le nostre preghiere. Bisogna ringraziare insieme Dio... È tempo che siamo pronti a collaborare con tutti gli uomini di buona volontà per ricostruire la patria… e questo sotto la guida del Grp (governo rivoluzionario provvisorio)... Cancelliamo le colpe, i sospetti e i sentimenti di odio ed evitiamo le occasioni di fare paura agli altri. Abbiamo sempre confidenza nella bontà degli altri, perché tutti possano vivere nel benessere, nella gioia, nella felicità, nella vita comune con tutti gli altri cittadini sotto un regime di libertà, di democrazia, di prosperità, di pace. E questo, per l’unica ragione che tutti gli uomini sono fratelli e hanno un medesimo Signore”. Ti sentiresti di accusare questi tuoi confratelli di opportunismo? Dunque oggi i cattolici possono e debbono collaborare con il Grp? E perché non ventuno anni fa? Non sarebbe valsa la pena di puntare su una ipotesi storica diversa da altre conosciute, fondata sulla fiducia, evitando tanto sterminio? Ma poiché è sterilmente antistorico porsi degli interrogativi sul passato, il discorso va fatto per quei paesi dove ancora comunisti e cattolici sono divisi dal pregiudizio e dall’intolleranza ideologica. Non varrebbe la pena, anche per noi in Italia, di abbandonare la predicazione di una certezza storica che designa la democrazia cristiana come la soluzione collaudata positivamente dalla Chiesa, l’involuzione a destra come una “dolorosa soluzione di ricambio” - accettata, ad esempio, in Cile e altrove - ed il socialismo e comunismo come l’unica soluzione inconciliabile con la fede? Non ti sembra che la nostra adesione ai valori della Resistenza antifascista, di cui celebriamo il trentennale, sia indebolita dal nostro anticomunismo, dal momento che storicamente il fascismo è sorto proprio per reprimere il movimento operaio ed il socialismo? Non sarebbe giunto il momento di lasciare liberi i cattolici - senza coinvolgere con questo la Chiesa in quanto tale - di partecipare con i non credenti al progetto di una società senza classi? Perdonami per i tanti interrogativi che mi vengono sulla penna, spero che avrai modo di rispondermi. Circa il dilemma - seminatore di zizzania o profeta - che tu ponevi nella tua lettera e che è rimbalzato con grave mio

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danno personale su tutti i giornali, ti confesso che mi è scomodo. Il card. Pellegrino, nella lettera aperta che tu rammenti ma della quale non hai colto il fondamentale consenso sui contenuti per vedervi soltanto alcuni interrogativi (ai quali, d’altronde, ho risposto - credo esaurientemente nel numero del 25 novembre 1973 del settimanale COM), mi considera soltanto “uomo di buona volontà, perché la Chiesa, rispondendo umilmente e sinceramente all’azione dello Spirito, possa recare al mondo, in maniera più autentica e credibile, il messaggio di riconciliazione nella giustizia e nell’amore, preludio e via alla salvezza”. Lasciando dunque da parte e il profeta e il seminatore di zizzania, da questa umile posizione di uomo di buona volontà mi rivolgo a te, uomo di buona volontà, perché tu mi aiuti nel momento più difficile della mia vita. Si tratta per te, per me e per tutti i cattolici di vedere che cosa il Cristo dica oggi nel nostro mondo travagliato e attraversato da contraddizioni apparentemente insanabili. Si tratta di conoscere quali speranze storiche ed escatologiche l’annuncio del Cristo risorto porti ai poveri e agli oppressi. Si tratta di individuare fra gli eventi storici quali siano segni di salvezza per tutti e quali di involuzione e di morte. In questa ricerca a che giova la censura, l’intimidazione, la riduzione al silenzio delle voci diverse? Confido dunque che anche tu, con la tua preghiera e con la pubblica testimonianza, voglia aiutare tutti coloro che nelle comunità di base e in tutta la Chiesa partecipano ad una ricerca di fede seria, pagandone i costi con la propria vita, a restare fedeli al cammino intrapreso e nello stesso modo a trovare i modi ed i tempi del dialogo con i vescovi che nella Chiesa “presiedono all’amore”. Ti abbraccio con affetto. Don Giovanni Franzoni 234».

Controrisposta dell’arcivescovo «Caro don Franzoni, scusami se non rinuncio al don; d’altra parte trovo un po’ lezioso in Italia il dom di tradizione benedettina franco-belga; è vero che rende meglio il dominus che c’è dietro, ma il don ha in compenso il vantaggio di sgonfiare bonariamente l’originaria boria spagnolesca un po’ classista, del resto così saggiamente ridimensionata dall’humor dei vari don Ciccillo dell’ambito partenopeo. Io per esempio digerisco con fastidio l’eccellenza che molti non riescono a liquidare (e mi parrebbe sproporzionato alla res pubblicarci sopra una grida); invece ci tengo molto al “don Bruno” che da quaranta anni mia madre mi dà con popolana fierezza e ti assicuro che non ha mai creato in me complessi padronali (del resto le reminiscenze melodiche del “placido Don” possono renderlo digeribile anche ai preti di

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sinistra). Gli amici dell’Università (gentilissimi con me il rettore Labruna e il preside Caravale) si sono un po’ dispiaciuti della mia battuta sulla “compiacentissima Università di Camerino”. Sarò molto contento se mi aiuteranno a ritirarla con convinzione profonda. Non pretendevo certo (oh, non ritenermi così ottusamente clericale!) non pretendevo che essi o il comm. Sabalich presidente del tribunale implorassero da me, per invitarti, la licentia delli superiori. Avvertendomi della tua venuta e partecipandomi cortese invito (che cortesemente rifiutai) essi dimostrarono una delicatezza che tu non hai avuto. Non è che questo mi faccia meraviglia dal momento che tu hai dimostrato, con la tristemente celebre messa di pasqua, di non tenere in nessun conto l’autorità della tua chiesa che è la chiesa di Roma o, se a te più piace, la chiesa che è in Roma, la chiesa di Pietro. Il mio disappunto è più che giustificato ed è carico di pena per la tua ribellione, che giustifica purtroppo ogni giorno più la sospensione a divinis dell’anno scorso (debbo sottolineare che l’ordine benedettino, la cui regola ispirata sottolinea in maniera così viva il senso sacrale della obbedienza monastica, mi è sempre apparso alieno da gesti clamorosi). Oh, sta tranquillo a proposito di mie nostalgie trionfalistiche! tanto per farti un esempio, se un ente qualsiasi prendesse l’iniziativa di invitare - supponiamo! - lo Spadaccia o la Faccio a immunizzare le donne camerti contro inveterate concezioni riguardanti l’aborto, è molto probabile che dall’altare chiederei in prestito le parole al profeta Amos; ma disappunto per non essere stato interpellato, questo no - ti assicuro - non me lo sognerei. Se però nel tuo canone biblico ci sono ancora le lettere pastorali (lasciamo andare la lettura cattolica del Tu es Petrus e dell’euntes docete) tu avevi il dovere di sentirmi. Adele Faccio no. Tu sì. Altrimenti - devo insistere - tu semini zizzania. Non ti è mancato l’afflato profetico. Torna a pregare nell’unità della chiesa, torna a ubbidire come ti insegna la tua regola. Forse il Signore ti metterà ancora in bocca le parole giuste, come quelle che Caterina da Siena nella potenza dello Spirito Santo indirizzava al papa e ai cardinali senza peli sulla lingua, ma senza metter confusione tra la gente. Ho detto: nella potenza dello Spirito. Già! perché non si può, non si deve confondere la buona, la vasta cultura, la ricchezza e la facilità dell’eloquio, la perfino simpatica irruenza tribunizia con la potenza dello Spirito. Ho ascoltato parte del tuo discorso camerte e per intero le brillanti risposte agli interventi. Me ne hanno portato la registrazione i ragazzi di comunione e liberazione che tu, con lo stesso piglio profetico di padre Turoldo, hai solennemente dichiarati arretrati di quattro

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secoli naturalmente in buona compagnia con la chiesa ufficiale (ottima una risposta di p. Gheddo al Turoldo e quindi anche a te; non ricordo dove l’ho letta, ma forse è tempo perso a consigliartela). Ho dunque ascoltato i nastri e ti riconosco il merito di essere stato abbastanza sostenuto e te ne ringrazio per Camerino. Ma poi ho letto il discorso all’Università di Macerata del 13 marzo, “ciclostilato in proprio dai cristiani per il socialismo” di quella città. Vastissima cultura - vien fatto ancora di dire - e soprattutto inesauribile vena di parola; ma quale tentazione! Quando ti sento trascinato a parlare di tutto - dall’economia alla mariologia, dall’esegesi biblica alla storia universale - riesco meglio a misurare la tua enorme responsabilità di “guastatore” dell’opera di Dio nella sua chiesa. Le banalità “femministe” che hai detto a Macerata sulla teologia e sul culto della Madonna santissima, gettando in pasto a una folla che sottolinea con risate sonore e con applausi esaltanti la liquidazione lepida di delicatissimi problemi di esegesi biblica e di storia e di patristica, consacrano alla fama il tribuno del popolo, ma avviliscono il teologo al rango di orecchiante e dimostrano da sole la ragionevolezza delle censure ecclesiastiche. Tu vuoi l’esodo (è l’esodo del Vietnam che ti fa da paradigma, un paradigma meglio leggibile di quello del Portogallo) ma intendi affidarne l’impresa al faraone. Io voglio l’esodo, ma non voglio il faraone. Alla storia della salvezza serve anche il marxismo, ma non sarà il marxismo a rendere gli uomini liberi e fratelli nel Cristo. Rispetto i marxisti ma non ne accetto i compromessi demagogici. Quando ero a Perugia - e i cristiani per il socialismo non mi avevano ancora evangelizzato - ho tradotto così la parabola del buon samaritano alla messa di mezzogiorno affollatissima: “Passò un prete, ma aveva la messa d’orario e tirò dritto. Passò un democristiano ma aveva il comizio e tirò via. Passò un comunista e si fermò”. La stragrande maggioranza gradì. Qualcuno però (non so se fu un prete o un democristiano!) ricorse all’arcivescovo il quale - Dio lo perdoni - poco dopo mi fece arcivescovo anche me! Qui, non ricordo in quale parrocchia, ho sottolineato lo stridore dei contrasti: «Passò un vescovo, ma aveva le cresime… Passò un prete (così ho risparmiato la Dc...!). Passò un comunista”. Nessun ricorso alla santa sede. I camerinesi sono intelligenti anche quando sono marxisti (a proposito: i cristiani per il socialismo mi si sono presentati solo una volta, per le scale dell’Università; diglielo anche tu che, se sono cristiani, non devono avere paura del vescovo). Voglio l’esodo, ma non voglio il faraone. Né bianco, né nero, né rosso. C’è qualcosa di vero nei proclami di ognuno di essi: di quello bianco che

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ostenta devozione e porta il baldacchino per la processione del Corpus Domini, di quello nero che predica la necessità dell’ordine e la garantisce con il manganello, di quello rosso che proclama il monopolio della giustizia sociale (il rosso crociato ci aggiunge le beatitudini e il Maqnificat!). O bianco o rosso o nero, sempre faraone è; e valgono per lui (ancora una volta scusa) le parole di Bonhoeffer: “Peggio dell’azione cattiva è l’essere cattivo. È peggio se un mentitore dice la verità che se mente un amico della verità. È peggio se uno che ha in odio gli uomini esercita l’amore fraterno che se un amante degli uomini viene travolto una volta dall’odio. Meglio della verità nella bocca del mentitore resta la bugia e meglio che l’atto d’amore fraterno compiuto dal nemico dell’uomo resta l’odio” (cfr. Bonhoeffer, Brevier, p.281). Le due bestie del cap. 13 dell’Apocalisse sono da una parte il faraone di sempre (dall’oppressore d’Egitto all’impero romano, da Nerone a Hitler a Stalin) e dall’altra l’intellighentzia di sempre votata al suo servizio (dai maghi di corte al sincretismo asservito alla religione di stato, dal mito nazista di Rosemberg al materialismo marxista). Avrai letto su Regno Doc del maggio scorso la lettera di Solgenitzin alla chiesa ortodossa. Mi riferisco a un dettaglio, un po’ maligno se vuoi: mi riferisco ai “calcoli ottenebranti” di quegli ecclesiastici che pensano di rafforzare il corpo di Cristo “portando sul petto onoreficenze con il conio dell’anticristo”. Ma io ti auguro di restare, se sarà necessario, dalla parte dei martiri. Penso a un mio compagno di Università cecoslovacco che, dopo dodici anni di lavoro coatto, riabilitato durante la primavera di Praga, è sottoposto di nuovo alle vessazioni del governo comunista. Dalla tua parte, Josef. Contro il faraone per l’avvento dell’esodo di Dio. Exsurgat Deus et dissipentur inimici eius. Don Giovanni, basta di contristare la Chiesa. C’è sempre posto e c’è sempre lavoro per te. Quanto a me, sarò lietissimo di aiutarti. Tuo don Bruno 235».

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ElENCO dEfINItIVO dEllE parrOCChIE dEll’arCIdIOCEsI dI CamErINO - saNsEVErINO marChE

Provincia di Ancona1. Comune di Arcevia: parrocchia di S. Lorenzo in Avacelli.2. Comune di Mergo: parrocchia di S. Lorenzo.3. Comune di Serrasanquirico: parrocchia di S. Lorenzo in Castellaro.4. Comune di Serrasanquirico: parrocchia di S. Pietro apostolo in Sasso.5. Comune di Serrasanquirico: parrocchia di S. Maria del Mercato.6. Comune di Serrasanquirico: parrocchia di S. Quirico (che comprende le ex parrocchie di S. Lucia e di S. Angelo del Pino).

Provincia di Macerata7. Comune di Acquacanina: parrocchia di S. Maria di Rio Sacro.8. Comune di Apiro: parrocchia dei Ss. Michele arcangelo e Urbano (che comprende la ex parrocchia di S. Michele arcangelo).9. Comune di Apiro: parrocchia di S. Anna in Frontale.10. Comune di Belforte del Chienti: parrocchia di S. Eustachio.11. Comune di Belforte del Chienti: parrocchia di S. Pietro.12. Comune di Bolognola: parrocchia di S. Michele arcangelo (che comprende la parrocchia di S. Nicolò).13. Comune di Caldarola: parrocchia di Ss. Martino e Gregorio che comprende le parrocchie di S. Gregorio, Pievefavera, Croce e Vestignano).14. Comune di Camerino: parrocchia cattedrale S. Annunziata (che comprende la ex parrocchia di S. Maria Criptina in Madonna delle Carceri).15. Comune di Camerino: parrocchia S. Maria in Via (che comprende la ex parrocchia di S. Giovanni Battista in S. Anna).16. Comune di Camerino: parrocchia S. Venanzio martire (che comprende la ex parrocchia di S. Elena in S. Maria delle Grazie).17. Comune di Camerino: parrocchia S. Gregorio in Torrone.18. Comune di Camerino: parrocchia S. Maria assunta in Letegge (che comprende le ex parrocchie di S. Martino in Pozzuolo e di S. Stefano in Statte).19. Comune di Camerino: parrocchia S. Pietro in Mergnano (che comprende le ex parrocchie di S. Palazia in Agnano, S. Biagio in Rocca d’Ajello e S. Savino in Mergnano).20. Comune di Camerino: parrocchia S. Biagio in Morro (che comprende la ex parrocchia di S. Cristoforo in Arnano).

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21. Comune di Camerino: parrocchia SS.mo Crocifisso in Piampalente.22. Comune di Camerino: parrocchia S. Lorenzo in Polverina.23. Comune di Camerino: parrocchia S. Erasmo in S. Erasmo (che comprende la ex parrocchia di S. Cristoforo in Selvazzano).24. Comune di Camerino: parrocchia S. Marcello (che comprende la ex parrocchia di S. Pietro in Cignano).25. Comune di Camerino: parrocchia S. Nicolò in Sentino (che comprende la ex parrocchia di S. Maria del Rosario in Colle Altino).26. Comune di Camerino: parrocchia S. Michele arcangelo in Tuseggia (che comprende le ex parrocchie di S. Salvatore in Sabbieta e S. Lorenzo in Valle Vegenana).27. Comune di Camerino: parrocchia S. Croce in Valdiea (che comprende le ex parrocchie di S. Lucia in Varano, di S. Silvestro in Campolarzo, di S. Giovanni di Fiungo).28. Comune di Camporotondo di Fiastrone: parrocchia S. Marco.29. Comune di Castelraimondo: parrocchia Ss. Martino e Lorenzo in Rustano (che comprende la ex parrocchia di S. Lorenzo in Brondoleto).30. Comune di Castelraimondo: parrocchia S. Biagio (che comprende la ex parrocchia di S. Maria Assunta in Collina).31. Comune di Castelraimondo: S. Maria Assunta in Castelsantamaria (che comprende la ex parrocchia di S. Michele arcangelo in Santangelo).32. Comune di Castelraimondo: parrocchia S. Barbara in Crispiero.33. Comune di Castelsantangelo sul Nera: parrocchia S. Stefano (che comprende le ex parrocchie di S. Vittorino in Nocria e S. Lucia in Rapegna).34. Comune di Castelsantangelo sul Nera: parrocchia Ss. Pietro e Martino in Gualdo (che comprende le ex parrocchie di S. Pietro in Vallinfante e di S. Giovanni Battista in Macchie).35. Comune di Cessapalombo: parrocchia S. Andrea (che comprende le ex parrocchie di S. Benedetto in Montalto e di S. Giacomo in Morico).36. Comune di Cessapalombo: parrocchia S. Salvatore in Monastero.37. Comune di Esanatoglia: parrocchia Ss. Anatolia e Martino (che comprende le ex parrocchie di S. Anatolia, S. Martino, Ss. Giovanni e Andrea e di S. Salvatore in Palazzo).38. Comune di Fiastra: parrocchia S. Marco (che comprende le ex parrocchie di S. Maria Assunta in Canonica e di S. Ilario).39. Comune di Fiastra: parrocchia Ss. Lorenzo e Paolo (che comprende le ex parrocchie di S. Lorenzo in Fiume e di S. Croce in Podalla).40. Comune di Fiastra: parrocchia S. Martino e Beato Ugolino in Fiegni

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(che comprende le ex parrocchie di S. Martino in Tedico e di S. Salvatore in Collemese).41. Comune di Fiordimonte: parrocchia S. Maria (che comprende le ex parrocchie di S. Marco in Alfi e Orciano, S. Maria Assunta in Nemi, S. Biagio in Lotaro, S. Croce e S. Gregorio in Vico e Petrignano).42. Comune di Fiuminata: parrocchia S. Giovanni Battista in Castello.43. Comune di Fiuminata: parrocchia S. Maria Assunta (che comprende le ex parrocchie di S. Pietro in Pontile e S. Cassiano in S. Cassiano).44. Comune di Fiuminata: parrocchia Ss. Martino e Carlo in Laverino (che comprende la ex parrocchia di S. Maria della Spina in Poggiosorifa).45. Comune di Gagliole: parrocchia S. Michele Arcangelo (che comprende le ex parrocchie di S. Giovanni Battista in Acquosi e S. Lorenzo in Torreto).46. Comune di Gualdo di Macerata: parrocchia S. Maria Maddalena.47. Comune di Montecavallo: parrocchia S. Benedetto (che comprende le ex parrocchie di S. Giovanni evangelista in Cerreto, S. Stefano in Cesure, S. Pietro apostolo in Collattoni, S. Lorenzo in Pantaneto, S. Michele Arcangelo in Piandellanoce, S. Cristoforo in Selvapiana, S. Nicolò in Valcaldara).48. Comune di Muccia: parrocchia S. Biagio (che comprende le ex parrocchie di S. Nicolò in Giove e Costafiore, S. Andrea apostolo in Massaprofoglio, S. Sebastiano in Piandigiove, S. Lucia in Vallicchio).49. Comune di Pievebovigliana: parrocchia S. Maria Assunta (che comprende le ex parrocchie di S. Sebastiano in Frontillo e S. Sebastiano di Roccamaia).50. Comune di Pievebovigliana: parrocchia S. Giusto in S. Maroto (che comprende la ex parrocchia di S. Mauro in Villarella).51. Comune di Pievebovigliana: parrocchia S. Giovanni evangelista in Isola.52. Comune di Pieve Torina: parrocchia Ss. Pietro e Oreste in Casavecchia (che comprende le ex parrocchie di S. Pietro in Appennino, S. Biagio in Capriglia, S. Ilario in Colle Torricchio, Ss. Cosma e Damiano in Tazza).53. Comune di Pieve Torina: parrocchia S. Maria Assunta (che comprende le ex parrocchie di S. Agostino, S. Paterniano in Antico, S. Michele arcangelo in Colle Antico S. Marina in Piecollina, S. Andrea in Seggiole a Lucciano).54. Comune di Pieve Torina: parrocchia S. Vito in Valsantangelo (che comprende le ex parrocchie di S. Michele arcangelo in Fiume e S. Savino in Giulo).55. Comune di Pioraco: parrocchia S. Vittorino.56. Comune di Pioraco: parrocchia S. Maria delle lacrime in Seppio (che comprende le ex parrocchie di S. Michele arcangelo in Perito e dei Ss. Vincenzo e Martino in Valle San Martino – nel comune di Camerino –).

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57. Comune di Poggio San Vicino: parrocchia S. Maria Assunta.58. Comune di Ripe San Ginesio: parrocchia S. Michele arcangelo.59. Comune di San Ginesio: parrocchia S. Maria d’Altocielo.60. Comune di San Ginesio: parrocchia S. Michele arcangelo in Passo San Ginesio.61. Comune di San Ginesio: parrocchia S. Maria Assunta in Piandipieca (che comprende la ex parrocchia di S. Gregorio Magno in Cerreto).62. Comune di San Ginesio: parrocchia Ss.ma Annunziata (che comprende le ex parrocchie di S. Francesco e S. Maria in Vepretis).63. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria Assunta (che comprende le ex parrocchie di S. Maria in Corsciano e di S. Paterniano in Ugliano).64. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Pietro apostolo in Biagi (che comprende le ex parrocchie di S. Giovanni a Porta Latina in Cagnore, S. Lucia vergine e martire in Serrone e S. Giovanni Battista in Stigliano).65. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Antonio abate in Castelsanpietro (che comprende le ex parrocchie di S. Rocco in Elcito e di S. Savino in Chigiano).66. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria Assunta in Cesolo.67. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Giovanni Battista in Colleluce.68. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Giovanni Battista e S. Maria in Granali-Glorioso.69. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Giorgio martire in Isola.70. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria Immacolata e S. Croce in Marciano (che comprende la ex parrocchia di S. Croce in Gaglianvecchio).71. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia Sant’Anna in Parolito.72. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria della Pietà in Pitino.73. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Raffaele arcangelo in Rocchetta.74. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Agostino concattedrale (che comprende la ex parrocchia di S. Pietro apostolo in Serripola).75. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Elena imperatrice in Sant’Elena (che comprende la ex parrocchia di S. Maria in Patrignolo).76. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Giuseppe.77. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Lorenzo in Doliolo.

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78. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria della Pieve.79. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Severino vescovo.80. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Apollinare in Serralta.81. Comune di Sanseverino Marche: parrocchia S. Maria madre di Dio in Taccoli.82. Comune di Sarnano: parrocchia S. Biagio in Piobbico (che comprende le ex parrocchie dei Ss. Lorenzo e Carlo di Giampereto e S. Michele arcangelo in Bisio).83. Comune di Sarnano: parrocchia S. Maria di Piazza (che comprende le ex parrocchie di S. Michele in Sant’Agostino, S. Pietro, S. Giovanni Battista in Cardagnano, S. Giovanni Battista in Collicelli, S. Cassiano in San Cassiano, S. Costanzo in San Costanzo, S. Maria superiore in Schito, S. Salvatore in Terro).84. Comune di Sefro: parrocchia S. Maria Assunta (che comprende le parrocchie di S. Biagio in Sorti e S. Tommaso in Agolla).85. Comune di Serrapetrona: parrocchia S. Paolo in Borgiano.86. Comune di Serrapetrona: parrocchia S. Clemente (che comprende la ex parrocchia di S. Lorenzo in Castel San Venanzio).87. Comune di Serravalle di Chienti: parrocchia S. Salvatore in Acquapagana (che comprende le ex parrocchie di S. Callisto in Cesi, S. Egidio in Civitella, S. Michele arcangelo in Corgneto, S. Giovanni Battista in Forcella, S. Croce in Percanestro).88. Comune di Serravalle di Chienti: parrocchia S. Lorenzo in Dignano.89. Comune di Serravalle di Chienti: parrocchia S. Lucia (che comprende la ex parrocchia di S. Caterina in Bavareto e di S. Biagio in Gelagna).90. Comune di Serravalle di Chienti: parrocchia Ss. Martino e Mauro in Castello (che comprende la ex parrocchia di S. Mauro in Copogna).91. Comune di Ussita: parrocchia S. Andrea apostolo in Calcara (che comprende le ex parrocchie di S. Stefano in Sorbo e di S. Placido in San Placido).92. Comune di Ussita: parrocchia S. Maria Assunta in Pieve (che comprende le ex parrocchie dei Ss. Vincenzo e Anastasio in Casali e dei Ss. Donato e Reparata in Vallestretta).93. Comune di Visso: parrocchia S. Maria Assunta in Fematre (che comprende le ex parrocchie di S. Pietro in Chiusita, S. Stefano in Croce, S. Maria in Mevale, S. Marco in Orvano, S. Lorenzo in Riofreddo e Rasenna).94. Comune di Visso: parrocchia Ss. Andrea e Bartolomeo in Villa Sant’Antonio (che comprende le ex parrocchie dei Ss. Giovanni e Fortunato

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in Aschio, S. Maria in San Salvatore in Cupi, S. Bartolomeo in Villa Sant’Antonio).95. Comune di Visso: parrocchia S. Maria 236.

lE NuOVE dEfINItIVE VICarIE

La ristrutturazione e la conseguente diminuzione delle parrocchie dell’arcidiocesi e la nuova conformazione diocesana in seguito all’avvenuta fusione di Camerino e Sanseverino Marche pone, tra l’altro, il problema della revisione delle vicarie foranee e del loro corretto funzionamento. Pertanto, sentito il parere del consiglio presbiterale in data 11 dicembre 1986, a norma del canone 374, § 2, vengono stabiliti nuovi vicariati che sostituiscono le zone pastorali e le vicarie precedenti. Tali vicariati sono:- vicaria di Camerino, comprende le parrocchie del comune di Camerino;- vicaria di Sanseverino Marche, comprende le parrocchie dei comuni di Sanseverino Marche, Apiro, Poggio Sanvicino;- vicaria di Castelraimondo, comprende le parrocchie dei comuni di Castelraimondo, Esanatoglia, Fiuminata, Gagliole, Pioraco, Sefro;- vicaria di Pieve Torina, comprende le parrocchie dei comuni di Acquacanina, Bolognola, Castelsantangelo sul Nera, Fiastra, Fiordimonte, Montecavallo, Muccia, Pievebovigliana, Pieve Torina, Serravalle di Chienti, Ussita, Visso;- vicaria di San Ginesio, comprende le parrocchie dei comuni di Belforte del Chienti, Caldarola, Camporotondo, Cessapalombo, Gualdo di Macerata, Ripe San Ginesio, Sarnano, Serrapetrona.- vicaria di Serrasanquirico, comprende le parrocchie dei comuni di Arcevia, Mergo, Serrasanquirico 237.

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note

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1. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio-marzo

1964, pag. 3 ss. La congregazione concistoriale in data 15.2.1964 comunica di ac-

cogliere il desiderio di mons. Giuseppe D’Avack di essere esonerato dal governo

dell’Arcidiocesi di Camerino per motivi di salute e annuncia la nomina del succes-

sore nella persona di mons. Bruno Frattegiani dell’arcidiocesi di Perugia, eleggendo

mons. Giuseppe D’Avack alla sede titolare della Chiesa arcivescovile di Leontopoli

di Panfilia.

2. Ivi, aprile - maggio 1964, pag. 30 e seguenti: “Arcidiocesi e città salutano

mons. Giuseppe D’Avack”.

3. Lettera pastorale “A Dio” di mons. G. D’Avack del 3 marzo 1964, tip. Savini-

Mercuri.

4. Lettera pastorale “Ecce venio” di mons. Bruno Frattegiani. L’intera lettera è

riportata in appendice.

5. Le notizie sulla vita e l’attività di mons. Bruno Frattegiani prima della nomina

ad arcivescovo di Camerino sono tratte dalla “Voce di Perugia” n. 6 del 19.4.1964

e dal libro di Remo Bistoni “Mons. Bruno Frattegiani”, ed. La Voce, tip. artigiana,

Perugia 2010.

6. Lettera di mons. Frattegiani pubblicata ne “L’Appennino camerte” dell’8 di-

cembre 1986.

7. “Mons. Bruno Frattegiani” di Remo Bistoni, pag. 92. “L’Appennino camerte”,

5 maggio 1973.

8. Articolo di mons. Bruno Frattegiani, “L’Appennino camerte”, 20 aprile 1974.

9. Archivio storico diocesano di Camerino, fascicolo Frattegiani: dimissioni da

vicario generale della diocesi di Perugia.

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10. “L’Appennino camerte”, 5 dicembre 1981 e “Le strade dell’Amore misericor-

dioso”, prefazione, Collevalenza 15 febbraio 1967, Poligrafico Alterocca, Terni.

11. Bollettino della diocesi, 7 aprile 1964.

12. Archivio Curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Frattegiani, testamento.

13. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, aprile - maggio

1964, pag. 24.

14. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, aprile - maggio

1964, pag. 34 e seguenti.

15. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Frattegiani.

16. “L’Appennino camerte”, 19 settembre 1964: “Dal Concilio”.

17. “Il vescovo” di mons. Antonio Bittarelli, “L’Appennino camerte”, 10 maggio

1969.

18. Ivi, 26 settembre 1964.

19. Ivi, 24 novembre 1973.

20. Ivi, 2 ottobre 1965.

21. Intervista a mons. Frattegiani di Adriana Zarri per il quotidiano “La Stampa”,

ne “L’Appennino camerte”, 1 novembre 1979.

22. “Resoconti” in Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino,

secondo gli anni.

23. “L’Appennino camerte”, 10 maggio 1969.

24. Ivi, 15 aprile 1967.

25. Ivi, 28 giugno 1969.

26. Lettera pastorale per la quaresima 1965, riportata per intero in appendice.

27.“L’Appennino camerte”, 11 luglio 1964.

28. Ivi, 1 agosto 1964.

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29. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, agosto 1964,

pag. 67 - Commento della “tre giorni” 3-5 agosto 1964.

30. Ivi, agosto 1964, lettera di mons. Bruno Frattegiani.

31. “L’Appennino camerte” , 13 marzo 1976.

32. Ivi, 20 dicembre 1979.

33. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio - giu-

gno 1976, pag. 13.

34. “L’Appennino camerte”, 18 gennaio 1969.

35. Ivi, 27 novembre 1970.

36. La Rivista del clero, marzo 1972.

37. L’Osservatore romano, 1 novembre 1972.

38. “Settimana del clero”, riportata ne “L’Appennino camerte” , 16 luglio 1977.

39. “L’Appennino camerte”, 22 gennaio 1972.

40. Ivi, 31 dicembre 1975.

41. Ivi, 12 luglio 1975.

42. Opuscolo “Appunti e disegni” della prof. Anna Santancini, con prefazione di

mons. Frattegiani, donato a tutti i partecipanti al pellegrinaggio.

43.“L’Appennino camerte”, 10 luglio 1965.

44. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, dicembre

1965, pag. 84.

45. “L’Appennino camerte”, 8 novembre 1969.

46. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio - feb-

braio 1968, pag. 10.

47. Ivi, novembre - dicembre 1976, pg. 99.

48. Ivi, maggio - agosto 1966, pag. 47.

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49. “L’Appennino camerte”, 16 dicembre 1967.

50. Ivi, 4 ottobre 1975.

51. Ivi, 7 novembre 1970.

52. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, novembre - di-

cembre 1972, pag. 3.

53. Ivi, gennaio - marzo 1973, “Lettera di Pasqua”, pag. 3.

54. “L’Appennino camerte”, 13 gennaio 1973.

55. “Mons. Bruno Frattegiani” di Remo Bistoni, ed. La Voce, pag. 88.

56. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio - feb-

braio 1965.

57. Ivi, gennaio - aprile 1967, pag. 9.

58. “L’Appennino camerte”, 11 marzo 1967.

59. Ivi, 16 marzo 1967.

60. Ivi, 9 marzo 1974.

61. Ivi, 16 marzo 1974, “Immanu-El … e l’on. Fortuna”.

62. Ivi, 27 aprile 1974.

63. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, aprile - giugno

1974, pag. 49.

64. “L’Appennino camerte”, 26 luglio 1975.

65. Ivi, 2 novembre 1968.

66. Ivi, 16 dicembre 1972.

67. Ivi, 1 luglio 1978.

68. Ivi, 8 luglio 1978.

69. Ivi, 27 gennaio 1979.

70. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, ottobre - di-

Page 299: Lieti attingerete alla sorgente

295

cembre 1986, pag. 61.

71. “L’Appennino camerte”, 19 settembre 1970.

72. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, novembre-

dicembre 1976, pag. 101.

73. Archivio curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Frattegiani.

74. “L’Appennino camerte”, 28 marzo 1970.

75. Ivi, 28 marzo 1970.

76. Ivi, 8 luglio 1967.

77. Ivi, 5 giugno 1971.

78. Ivi, 8 marzo 1969. “La strada di Gerusalemme”, ed. Trevigiana, 1969,

pag. 81.

79. Ivi, 27 gennaio 1973.

80. Ivi, 23 gennaio 1971.

81. Ivi, 13 febbraio 1971.

82. Ivi, 13 novembre 1982.

83. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Frattegiani.

84. “L’Appennino camerte”, 13 febbraio 1971.

85. Ivi, 27 febbraio 1971.

86. Ivi, 12 febbraio 1977.

87. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, settembre - di-

cembre 1965, pag. 71.

88. Ivi, gennaio - marzo 1972, pag. 11.

89. Ivi, novembre - dicembre 1972, pag. 2.

90. Lettera pastorale “Ecce venio”, vedi in appendice.

91. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, giugno - ago-

Page 300: Lieti attingerete alla sorgente

296

sto 1964, pag. 66.

92. “L’Appennino camerte”, 5 dicembre 1964.

93. Ivi, 21 agosto 1965.

94. Ivi, 18 dicembre 1965.

95. Ivi, 12 marzo 1966.

96. Ivi, 17 dicembre 1966.

97. Ivi, 2 luglio 1966.

98. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, fascicolo “seminario - Fratte-

giani”.

99. “L’Appennino camerte”, 10 agosto 1968.

100. Ivi, 7 febbraio 1970.

101. Ivi, 18 febbraio 1970.

102. Ivi, 4 aprile 1970.

103. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio -

marzo 1974, pag. 11.

104. Ivi, gennaio - giugno 1975, pag. 19.

105. Ivi, novembre - dicembre 1976, pag. 102.

106. Ivi, aprile 1985, pag. 71.

107. “L’Appennino camerte”, 31 agosto 1968.

108. Ivi, 5 agosto 1972.

109. Ivi, 11 settembre 1976.

110. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, settembre -

dicembre 1966, pag. 63.

111. “L’Appennino camerte”, 8 novembre 1979.

112. Ivi, 17 marzo 1973.

Page 301: Lieti attingerete alla sorgente

297

113. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, settembre -

dicembre 1965, pag. 85.

114. Ivi, luglio - settembre 1973, pag. 101.

115. Ivi, novembre - dicembre 1976, pag. 102.

116. “L’Appennino camerte”, 24 agosto 1968.

117. Ivi, 24 agosto 1968.

118. “L’Appennino camerte”, 19 gennaio 1974.

119. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio -

marzo 1971, pag. 23.

120. “L’Appennino camerte”, 23 settembre 1972.

121. Ivi, 23 settembre 1972.

122. Ivi, 24 giugno 1972.

123. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio -

marzo 1972, pag. 24.

124. “Camilla Battista da Varano di Camerino” di Picciafoco U., Tipolito Idem-

graf, Centobuchi 1983 (prefazione di mons. Frattegiani).

125. “Camilla Battista da Varano e il suo tempo”, Atti del convegno di studi nel

V centenario della clarissa di Camerino, Castello di Lanciano, palazzo ducale e Cat-

tedrale, Centrostampa ORAC.

126. “L’Appennino camerte”, 10 giugno 1967.

127. Ivi, 3 novembre 1979.

128. Ivi, 9 marzo 1968.

129. Cartolina conservata nel monastero delle domenicane in Castelbologne-

se.

130. Lettera delle monache domenicane di Castelbolognese, archivio cancelleria

della curia arcivescovile di Camerino.

Page 302: Lieti attingerete alla sorgente

298

131. “L’Appennino camerte”, 3 agosto 1968.

132. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, marzo - di-

cembre 1968, pag. 66.

133. Ivi, pag. 63 e “L’Appennino camerte”, 10 agosto 1968.

134. “Ho amato i lebbrosi”, discorso di Raoul Follereau, ne “I quaderni de L’Ap-

pennino camerte”, III serie, tipogr. Savini-Mercuri, Camerino 1970.

135. “L’Appennino camerte”, 10 agosto 1968.

136. Ivi, 4 novembre 1978.

137. Ivi, 11 ottobre 1975

138. Ivi, 11 giugno 1977.

139. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, settembre -

dicembre 1966, pag. 11.

140. “L’Appennino camerte”, 18 novembre 1967.

141. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, settembre -

dicembre 1966, pag. 62.

142. “L’Appennino camerte”, 21 gennaio 1967.

143. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, maggio 1969

- febbraio 1970, pag. 24.

144. “L’Appennino camerte”, 18 gennaio 1969.

145. “Camerino anni 70” di A. Bittarelli, tip. Savini-Mercuri, Camerino

1971.

146. “L’Appennino camerte”, 12 agosto 1967.

147. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, ottobre - di-

cembre 1971, pag. 23.

148. Ivi, secondo gli anni della “tre giorni”.

Page 303: Lieti attingerete alla sorgente

299

149. “L’Appennino camerte”, 10 novembre 1973.

150. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio -

maggio 1971, pagg. 38-39.

151. “L’Appennino camerte”, 30 ottobre 1976.

152. Ivi, 5 febbraio 1977.

153. Ivi, 19 febbraio 1977.

154. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, cancelleria, visite pastora-

li.

155. Archivio storico della curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Frattegia-

ni.

156. “L’Appennino camerte”, 12 luglio 1972.

157. Ivi, 4 gennaio 1975.

158. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, cancelleria, fascicolo Frat-

tegiani.

159. Ivi.

160. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, maggio - ot-

tobre 1979, pag. 140.

161. Ivi, giugno 1984, pag. 142 e seguenti.

162. Ivi, maggio 1984, pag. 102.

163. Ivi, agosto - settembre 1986, pag. 115 e 151.

164. Ivi, ottobre - dicembre 1986, pag. 170.

165. Ivi, gennaio 1987, pag. 33.

166. “L’Appennino camerte”, 30 dicembre 1967.

167. Ivi, 4 ottobre 1975.

168. Ivi, 23 marzo 1972.

Page 304: Lieti attingerete alla sorgente

300

169. Ivi, 1 aprile 1972.

170. Ivi, 25 marzo 1972.

171. Ivi, 13 ottobre 1973.

172. Ivi, 15 giugno 1968.

173. Ivi, 31 agosto 1968.

174. Ivi, 8 aprile 1978.

175. Ivi, 11 novembre 1967.

176. Ivi, 5 luglio 1975.

177. “Lettere di don Lorenzo Milani”, pag. 208, A. Mondadori ed., Milano

1970.

178. “L’Appennino camerte”, 23 marzo 1968.

179. “Camerino anni 70” di A. Bittarelli, pag. 32, tip. Savini-Mercuri, Camerino

1971.

180. Ivi, pag. 37.

181. “L’Appennino camerte”, 23 maggio 1970.

182. Bollettino Ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, luglio - otto-

bre 1976, pag. 89.

183. Archivio di Radio C1, Camerino.

184. Sede fondazione Orac, presso curia arcivescovile di Camerino.

185. Archivio fondazione MA.SO.GI.BA., Camerino.

186. Ivi, Camerino.

187. “L’Appennino camerte”, 22 aprile 1978.

188. Ivi.

189. “L’Appennino camerte”, 6 maggio 1978.

190. Archivio fondazione MA.SO.GI.BA., Camerino.

Page 305: Lieti attingerete alla sorgente

301

191. Ivi, piazza Cavour 7, Camerino, sezione Istituto marchigiano “La terra”.

192. Ivi.

193. Ivi, Camerino, “Progetto Camerino”.

194. Archivio Sagisc, Perugia.

195. “L’Appennino camerte”, 22 ottobre 1955.

196. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, posizione “Casa della gio-

ventù”.

197. Ivi, posizione “Collegio Bongiovanni”.

198. “Ussita, terra di uomini illustri” di Leone Fiorelli, Roma 1962, pag. 225.

199. Archivio della curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Ussita - Istituto

Arsini.

200. “Ussita, terra di uomini illustri” di Leone Fiorelli, Roma 1962, pag. 260.

201. Archivio curia arcivescovile di Camerino, fascicolo Macereto.

202. “L’Appennino camerte”, 17 novembre 1973.

203. Ivi, 23 settembre 1972.

204. Ivi, 11 ottobre 1986.

205. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, maggio - di-

cembre 1977, pag. 59.

206. Archivio cancelleria della curia arcivescovile di Camerino.

207. “L’Appennino camerte”, 8 novembre 1984.

208. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, dicembre

1984, pag. 220.

209. “L’Appennino camerte”, 24 marzo 1984.

210. Ivi, 31 dicembre 1968.

211. Bollettino ecclesiatico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, ottobre - di-

Page 306: Lieti attingerete alla sorgente

302

cembre 1986, pag. 167.

212. “Iniziazione alla vera Teresa di Lisieux” di René Laurentin, ed. Queriniana,

Brescia, pag. 72.

213. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, giugno - ago-

sto 1988, pag. 87.

214. “22 anni dopo” di A. Bittarelli ne “L’Appennino camerte” n. 4/1986.

215. Archivio storico dell’arcidiocesi di Camerino, fascicolo Frattegiani.

216. “L’Appennino camerte”, 6 novembre 1976.

217. Ivi, 18 ottobre 1986.

218. “S. Maria in via” di Bruno Frattegiani, pag. 20.

219. Ivi, pag. 24.

220. Ivi, pag. 26.

221. “Le strade dell’Amore misericordioso” di Bruno Frattegiani, pag. 32.

222. “S. Maria in via” di Bruno Frattegiani, introduzione.

223. “Teresa di Lisieux: la verità è più bella”. Giovanni Gennari. Ed. Ancora.

Milano 1974, pag. 164.

224. Ivi, pag.162.

225. “Introduzione alla vera Teresa di Lisieux” di René Laurentin, ed. Querinia-

na 1973. Frontespizio.

226. “S. Maria in Via” di Bruno Frattegiani, pag. 39.

227. “L’Appennino camerte”, 11 febbraio 1966.

228. Ivi, 14 giugno 1969.

229. Ivi, 6 luglio 1968.

230. Ivi, 10 febbraio 1973.

231. Ivi, 31 dicembre 1976.

Page 307: Lieti attingerete alla sorgente

303

232. Ivi, 27 marzo 1976.

233. Ivi, 10 giugno 1978.

234. Ivi, 21 giugno 1975.

235. Ivi, 21 giugno 1975.

236. Bollettino ecclesiastico ufficiale dell’arcidiocesi di Camerino, gennaio 1987,

pag. 5.

237. Ivi, febbraio 1987, pag. 33.

Page 308: Lieti attingerete alla sorgente

304

Page 309: Lieti attingerete alla sorgente

305

Abbè, Pierre, 132

Abele, 256

Ablondi, Alberto, 85

Abramo, 19, 22, 69, 214, 215, 225,

233, 256

Aertny - Damen, 243

Agostino, 245

Agostino d’Ippona, 113, 114

Agresti, Giuliano, 148

Alcuino, 255

Alessandro VI, 93

Alighieri, Dante, 65, 268

Almirante, Giorgio, 60

Altavilla, Enrico, 263

Ambrogi, Gregorio, 140

Amici, Lucio, 175

Amos, 65, 280

Angeleri, Franco, 207

Antolini, Rodolfo, 138

Arguello, Kiko, 134

Aristofane, 81

Aristotele, 244

Arsenio, Luigi, 16

Arsini, Francesco, 194, 195

Atenagora, 80, 255

Awash, 185

Bagazzoli, Giuseppe, 110, 193, 194

INDICEDEINOMI

Baglioni, M. Pia, 189

Balducci, Ernesto, 56, 231

Balducci, Giuliana, 109

Banetta, Enzo, 118

Baratta, Raffaele, 9, 12, 18, 19,

206, 224, 267

Barth, Karl, 30, 236

Bedeschi, Marcello, 148

Beethoven, Ludwig, 270

Bellini, Giovanni, 82

Bellucci, Cleto, 155

Benedetti, Giovanni, 148

Benedetti, Stefano, 179

Benelli, Carlo, 39, 67, 171

Beni, Adriano, 26, 55

Beran, Joseph, 239

Berbardini, Filippo, 196

Bernabei, Luigi, 138

Bernacchia, Francesco, 11

Bernardini, Alberto, 249

Bernardo, santo, 22, 215, 233, 249

Bertalot , Renzo, 70

Bertolaso, Guido, 184, 185

Bettazzi, Luigi, 73

Betti, Ugo, 191

Bevilacqua, Giulio, 42

Bistoni, Remo, 10, 11

Page 310: Lieti attingerete alla sorgente

306

Bittarelli, Angelo Antonio, 25, 40,

105, 106, 146, 173, 198, 208, 210

Blanchi, Ascenzo Mariano, 4, 109,

110

Boccanera, Giacomo, 19, 52, 125,

126, 146, 226

Boldrini, Luigi, 124

Bongiovanni, Bernardo, 99, 109,

131, 146, 177

Bonhoeffer, Dietrich, 282

Bonin, Eduardo, 134

Borman, Frank, 85

Bosoni, Ugo, 118

Bouyer, Louis, 247

Brandolini, Luca, 52

Brunelli, Lina, 148

Bruno, Giuseppe, 121

Bucari, Remo, 118, 119

Bucci, Onorato, 182

Butini, Ivo, 185

Caino, 169

Camilla Battista, 20, 36, 44, 76, 87,

124, 125, 126, 191, 210, 213, 216,

217, 226, 227, 233, 268

Campelli, Raffaele, 19, 233

Capacchietti, Luciano, 146

Capitini, Aldo, 14

Cappelletti, Ferdinando, 53, 100,

148, 165, 173, 207

Caravale, Mario, 280

Carboni, Tarcisio, 52, 105, 148,

207, 208

Cardarelli, Albino, 139, 140, 175

Cardarelli, Luigi, 175

Cardona, Mario, 138

Carneade, 164

Carpiceci, Lucio, 41

Carretto, Carlo, 60, 78, 166

Casoni, Alberto, 176

Castiglioni, Renata, 11

Caterina da Genova, 255

Caterina da Siena, 93, 127, 270,

245, 246

Caterina II, 82

Ceccarini, Anna, 9, 10, 17

Ceriotti, Francesco, 181

Chiaretti, Giuseppe, 148

Chiavacci, Enrico, 55, 147

Chisanga, 185

Chiumenti, Santa, 190

Cicconi, Igino, 171

Ciceroni, Fabio, 181

Cimino, J, 185

Cipolloni, Decio, 36

Cipriano, 21, 92 e seguenti, 112,

202, 228, 238

Ciprotti, Pio, 153, 258

Claudi, Luciano, 132

Claudia delle Marienschwestern, 78

Clerissac, Humbert, 274

Page 311: Lieti attingerete alla sorgente

307

Colombo, Carlo, 28

Compagnoni, Domenico, 181

Confalonieri, Carlo, 142

Conforti, Giovanni, 154

Corradini, Sandro, 193

Corvini, Filiberto, 118, 119

Cruciani, Cristina, 148

Cubero, Juan Pedro, 28, 46

Cucculelli, Natale, 140

Culman, Oscar, 34

Cuminetti, Mario, 28

D’Aquino, Tommaso, 9, 243, 244

d’Ars, curato, 63, 130

D’Avack, Giuseppe, 7, 8, 19, 20,

24, 39, 44, 109, 120, 131, 137, 160,

191,192

Danielou, Jean, 63

De Falus, Camillo, 183

De La Potterie, Ignazio, 37

De Lubac, Henri, 38, 57, 60, 274

De Luca, Egidio, 137, 175

De Rosa, Giuseppe, 4, 37

De Santis, Fabrizio, 263

Del Monte, Juan Domenico, 183

Della Costa, Elia, 26

Della Pergola, Antonio, 274

Denis, M.N. Baulet, 254, 256

Di Francia, Annibale, 109

Di Iorio, Alberto, 192

Domizi, Quinto, 160

Don Abbondio, 101, 164, 198

Don Camillo, 84

Don Rodrigo, 168, 238

Donati, Diego, 230

Edelby, Neofito, 241

Edelby, Nuzio, 256

Elchinger, Léon-Arthur, 247

Erik, P., 185

Erotodo, 10

Esaù, 271

Etienne, Pierre, 77, 78, 79

Eusebia delle Marienschwestern, 78

Ezechiele, 21, 204, 230

Fabbrizi, Giovanni, 36, 118

Fabrini, Fabrizio, 171

Faccio, Adele, 280

Falaschi, Pierluigi, 4, 7, 130, 153,

173

Fanti, Mario, 182

Faucault, Carlo, 14

Fedeli, Giulio, 115

Federici, Tommaso, 28, 39, 143

Ferrari Toniolo, Agostino, 62, 129,

147

Finocchio, Vincenzo, 36

Fiordelli, Pietro, 19, 125, 171, 258

Fiorelli, Leone, 194

Flick, Maurizio, 35

Fo, Dario, 66

Follereau, Raoul, 132, 133

Page 312: Lieti attingerete alla sorgente

308

Fondati, Vincenza, 79

Formica, Gianfranco, 176

Forti, Ruggero, 150, 151

Fortino, Eleuterio, 80

Fortuna, Loris, 13, 58, 59, 71, 171

Foschi, Franco, 181, 182, 183, 207

Franzoni, Giovanni, 3, 170, 272,

274, 275, 279

Frattegiani, Eusebio, 9

Frittelloni, Angelo, 36

Fucari, Remo, 118

Furiassi, Pietro, 48

G. Battista da Lugano, 195

Gabriella delle Marienschwestern,

78

Gaeta, Giovanni, 153

Galassi, Adalberto, 118

Garofalo, Salvatore, 118

Gasparri, Assunta, 194,195

Gasparri, Pietro, 194, 196

Gennari, Giovanni, 215, 216

Gentili, Ivo, 106, 140

Gentili, Serafino, 132

Gentiloni, Filippo, 136

Geremia, 271

Gheddo, Pietro, 280, 281

Ghidelli, Carlo, 34, 38, 42, 147, 164

Giacobbe, 69, 232, 271

Giannella, Mario, 183

Giardini, Cherubino, 36, 118, 119

Gili, Vittorio, 166

Giobbe, 136

Gioia, Francesco, 183, 200, 208

Giosué, 8, 233

Giovanni Battista da Lugano, 195

Giovanni della Croce, 75

Giovanni Paolo II, 16, 17, 217, 218

Giovanni XXIII, 21, 33, 56, 58, 69,

73, 262, 264, 265

Giussani, Luigi, 134

Giustiniani Bandini, Maria Sofia

120, 177, 178, 179, 182, 210

Giustino, 250

Goretti, Assunta, 11

Goretti, Carlo, 176

Goretti, Maria, 11

Grasselli, Cesare, 118

Grassi, Piergiorgio, 181

Grasso, Domenico, 239

Grasso, Sebastiano, 35, 136

Gravina, Manfredi, 177

Gregori, Franco, 193, 194

Gregorio XI, 93

Greich, Agostino, 118

Grifantini, Emanuele, 105, 198

Gubinelli, Amedeo, 160

Guitton, Jean, 215

Hahner, H., 227

Hamman, Adalbert, 252

Haring, Bernard, 57, 239, 242, 243,

Page 313: Lieti attingerete alla sorgente

309

247

Hetar, Lopez, 183

Hitler, Adolfo, 65, 169, 282

Ignazio d’Antiochia, 21, 92 e

seguenti, 112, 202, 228, 229, 256

Innocenti, Ennio, 183, 200

Ippolito, 44, 254

Isacco, 69

Isaia, 66

Jaulin, Marc, 215

Kant, Immanuel, 244

Kruscev, Nikita, 84

La Valle, Raniero, 26

Labruna, Luigi, 280, 282

Lagrange, Marie Joseph, 247, 274

Lajoli, Vincenzo, 19

Lambruschini, Ferdinando, 148

Lami, Cesare, 120, 189, 190

Lanza, Antonio, 266, 269

Laurentin, René, 26, 207, 215, 216

Leonardo da Vinci, 82

Lercaro, Giacomo, 52, 242

Lesti, Mario, 118

Liberti, Alberto, 127

Liotta, Giovanna, 192

Livi, 185

Lo Giudice, Giuseppe, 147

Lombardi, Riccardo, 28

Longinotti, Ferdinando, 141, 142

Loreti, Ferruccio, 7, 47, 100, 123,

130, 137, 173, 249

Lubich, Chiara, 134

Luchenti, Giuseppe, 194

Ludovichetti, Ludovico, 140,

Lutero, Martin, 75, 244

Macario, Muzio, 99

Maccari, Carlo, 147, 181

Maccari, Marino, 48

Madi, Djedje, 185

Madre Speranza, 16, 17

Magnani, Giovanni, 136

Malchiodi, Umberto, 24, 208, 233

Malpiedi, Mosè, 130

Manus, Louis Enrique, 182

Manziana, Carlo, 42, 74, 147, 239

Maponi, Paris, 118

Maranzini, Alfredo, 72

Marchegiani, Luigi, 174

Marchetti Selvagianni, Francesco, 9

Marchetti, Filippo, 7, 139

Marchionni, Emilio, 52, 118

Mari, Luigi, 28

Marinangeli, Attilio, 118

Marinozzi, Costantino Domenico,

118

Marshall, Bruce, 71, 72

Marsili, Elio, 28

Martella, Quinto, 105, 106, 107,

193

Martini, Domenico, 160

Page 314: Lieti attingerete alla sorgente

310

Martiria delle Marienschwestern,

76

Marucci, Alfredo, 52, 140

Massi, Osvaldo, 130

Massi, Pacifico, 239, 247

Massimo IV, 244, 257

Massucci, Antonio, 109

Mastin, Ralph, 134

Mattia, Giuseppe, 12

Mazzolari, Primo, 97, 119, 273, 274

Melchisedech, 256

Merloni, Antonio, 179, 180

Merloni, Francesco, 179, 180

Michelangeli, Onorio, 127

Milani, Lorenzo, 171, 172

Mingazzini, Paolo, 168, 169, 170

Mitchell, Edgar Dean, 85

Mogetta, Piergiorgio, 184

Molinelli, Luigi, 52

Monica, 113

Monti, Giovanni, 118

Monti, Raimondo, 175

Montani, R., 185

Morganti, Marcello, 156

Moscati, Sabatino, 182

Mosciatti, Giuseppe, 110

Mosé, 8, 134, 214, 233, 271

Muraro, Giordano, 28, 148

Murillo, Bartolomé Estaban, 82

Nagalalekumtwa, Tarcisio, 115

Nerone, 282

Newman, John-Henry, 244, 274

Nicoletta delle Marienschwestern,

78

Nobili, Giuseppe, 175

Nocent, Adrien, 28, 45, 62, 148

Noé, Virgilio, 52

Noldin, Hieronymus, 104

Noschese, Alighiero, 167

Oberlin, Federico, 72

Ogino-Knaus, 64

Orazi, Secondo, 118, 119

Orione, Luigi, 124, 214

Ortensio da Spinetoli, 35, 174

Osea, 171

Pagani, Cesare, 148, 174, 191

Paglioni, Fabio, 36

Paina, Nello, 108, 109, 160, 161

Palazzi, Pietro, 182

Pallotta, Ada, 208

Paloni, Gianfrancesco, 120

Paludet, Giampaolo, 28

Paoletti, Luigi, 133

Paolo VI, 7, 17, 33, 43,44, 46, 55,

58, 62, 63, 64, 69, 119, 152, 181,

255

Papa, Annibale, 160, 199

Parente, Pietro, 15, 259

Pascal, Blaisè, 20, 225, 226, 228

Pasquinelli, 185

Page 315: Lieti attingerete alla sorgente

311

Patané, 185

Pattaro, Germano, 28

Pedrazzi, Luigi, 181

Pellegrino, Michele, 57, 148, 279

Peppone, 84

Peradotto, Franco, 56

Perlingieri, Pietro, 173

Persicorossi, Biagio, 87

Pesciotti, Giancarlo, 160

Pesciotti, Mario, 175

Pesoni, Mario, 138

Picciafoco, Umberto, 124

Piccoli, Flaminio, 182

Pilato, Ponzio, 94

Pio XII, 27, 121, 259

Pittori, Eraldo, 36

Piva, Amedeo, 183

Pizzoni, Canzio, 15

Pohier, S. M., 266

Poletti, Ugo, 59

Policarpo da Smirne, 97

Poloni, Gianfrancesco, 120, 178

Polzonetti, Libero, 7, 22

Porfiri, Carlo, 194

Portoghesi, Anna, 72

Poveda, Pietro, 191

Pronti, Giuseppe, 19

Quadri, Sandro, 148

Quattrini, Angelo, 207

Quattrocecere, Cesare, 191

Raffaello Sanzio, 82

Rahner, Ugo, 274

Ranner, Karl, 72

Riboldi, Antonio, 148

Riccioni-Romaldi, Lucia, 134

Rinaldi, 194

Riva, Silvio, 239

Rodriguez, Lucilla, 192

Rosmini-Serbati, Antonio, 255

Rossi, Renzo, 87, 132

Rossi, Sergio, 11

Rota, Ilario, 196

Rotondi, Virgilio, 28, 134, 135

Rubbia, Carlo, 181

Ruggero, Orlando, 167

Sabalich, Giovanni, 280

Salet, Gaston, 245, 247

Saltini, Zeno, 272

Salvucci, Achille, 233

Sampaolo, Pietro, 174

Santancini, Anna, 40

Sargolini, Federico, 233

Sargolini, Federico, 173

Savonarola, 93

Sbarbati, Giancarlo, 36, 165

Scatolon, Gioacchino, 34, 42

Scheen, Fulton, 82

Schlink, Klara (madre Basilea), 72,

75, 76, 77

Schnizler, Theodor, 45, 252, 253

Page 316: Lieti attingerete alla sorgente

312

Schubert, Franz Joseph, 61

Schundlin, Patrizio, 185

Sciapichetti, Benedetto, 184

Scoccia, Italo, 118

Scola, Alberto, 194

Scuppa, Giuseppe, 120

Scuppa, Luigi, 193

Scuppa, Mario, 108, 111

Sensi, Mario, 3

Sforza, Elvio, 137

Sfrappini, Alessandro, 154

Sgreccia, Elio, 108

Silvestri, Giuliano, 181

Sisto V, 181

Solgenitsin, Aleksandr, 282

Spadaccia, Giorgio, 280

Sparvoli, Fulvio, 132

Splendiani, Giulio, 22, 234

Staderini, Tito, 177

Stalin, Giuseppe, 84, 169, 282

Starnadori, Nazzareno, 158, 205

Stelvio, 80

Taggi, Massimo, 28

Tanzini, Giorgio, 36, 51, 147

Tedeschi, Guido, 7

Teresa d’Avila, 191

Teresa del Bambin Gesù, 127, 207,

213, 215, 216, 217, 225

Tettamanzi, Dionigi, 55, 147

Tiepolo, Giovanni Battista, 82

Tillard, Jean Marie, 247

Timperi, Augusto, 106, 123

Tinti, Macario, 155

Tintori, Guido, 17

Tiziano Vecellio, 82

Toaf, Elio, 83

Tomassini, Dino, 155

Tordini, Ottaviano, 36

Tozzi, Giuseppe, 52, 144, 165, 166,

173

Traiano, 93

Troini, Carlotta, 192

Turoldo, David Maria, 280, 281

Ubaldi, Beniamino, 9, 19

Ugo di Provenza, 229

Valsecchi, Ambrogio, 35

Vannucci, Atto, 84

Velasquez, Diego, 82

Venanzi, Viviano, 127

Verolini, Luigi, 36

Vitali, Francesco, 118

Viviani, Maria Cristina, 4

Wojtyla, Karol, 23

Zaccaria, 230, 271

Zampetti, Mariano, 146

Zampetti, Mario, 63, 64

Zarri, Adriana, 27, 72, 265

Zerwich, Maximiliam, 35

Zucconi, Guglielmo, 181

Page 317: Lieti attingerete alla sorgente

313

indice

Page 318: Lieti attingerete alla sorgente

314

Page 319: Lieti attingerete alla sorgente

315

Introduzione 3

L’alba di un nuovo giorno 5

Le diMissioni di Mons. d’avack 7

da peruGia aLL’episcopaTo caMerTe 9

Le associazioni di Azione cattolica a Migiana 11

Presidente del Tribunale ecclesiastico regionale umbro 12

Il giornalista Penna nera 14

Assistente ecclesiastico di Azione cattolica e di altre associazioni 15

Vicario generale di Perugia 15

Incontri con Madre Speranza 16

La nomina ad arcivescovo di Camerino 18

La consacrazione episcopale 19

La prima lettera pastorale 20

L’ingresso in diocesi 22

Il Concilio ecumenico e l’aggiornamento dei sacerdoti 24

Il programma pastorale 29

Dal Concilio quattro lineedi programmazione pastorale 31

La paroLa di dio 33

Testimonianze di esperti biblisti e teologi 37

Pellegrinaggio in Terra Santa (3-12 settembre 1978) 40

La riforMa deLLa LiTurGia 42

Page 320: Lieti attingerete alla sorgente

316

La cena del Signore 43

Ai sacerdoti sulla celebrazione della messa 49

rinnovaMenTo deLLa viTa crisTiana 54

Divorzio, Humanae vitae, aborto 55

ecuMenisMo 69

I protestanti 71

Gli ortodossi 80

Gli ebrei 83

I non credenti 84

Dimissioni dalla commissione della CEI per l’ecumenismo 85

La Chiesa locale 89

Le persone 99

Seminaristi e seminario 99

Il vescovo, il clero e il popolo fedele 112

I religiosi 123

I laici 129

La cHiesa LocaLe coMe isTiTuzione 139

Prima visita pastorale 139

L’istituzione del consiglio presbiterale 141

Amministratore apostolico di Sanseverino Marche 141

Istituzione del consiglio pastorale e nuovi vicariati 143

Nomina del vicario pastorale e riforma della curia 145

Nuovo Bollettino ecclesiastico 146

La “tre giorni” diocesana 147

Un preciso calendario per la visita pastorale 149

Conclusioni della visita pastorale nella vicaria di Camerino 151

Page 321: Lieti attingerete alla sorgente

317

Ricorso contro il prefetto di Macerata 153

Ristrutturazione della diocesi 154

Vescovo di Sanseverino Marche 155

Mutano i confini 156

Istituto per il sostentamento del clero 159

Unione della diocesi di Sanseverino con Camerino 160

opere deLL’arcidiocesi 162

“L’Appennino camerte” e “La Voce settempedana” 162

Fondazione “Don Igino Cicconi” 172

Libreria “Loggia di Sisto V” 173

Radio C1 174

La fondazione opere di religione arcidiocesi Camerino (o.r.a.c.) 176

La fondazione Maria Sofia Giustiniani Bandini (ma.so.gi.ba.) 177

La fondazione “Beato Rizzerio” e la clinica ortopedica Sagisc 189

Pensionato femminile universitario “Battista Varano”- Casa della

gioventù 191

Il collegio universitario “Bongiovanni” 193

Istituto “Francesco Arsini” – Santuario di Macereto 194

Uno speciale stile di governo 197

Le amministrazioni diocesane 199

e venuta la sera… 203

La MaLaTTia e iL decLino 205

aLcune noTe suLLa sua viTa spiriTuaLe 210

appendice 221

ecce, venio

Page 322: Lieti attingerete alla sorgente

318

LeTTera di saLuTo aL cLero e aL popoLo di caMerino 223

canTaTe doMino canTicuM novuM

LeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1965 236

considerazioni suLLa Grande preGHiera eucarisTica

LeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1968 249

a diaLoGo con i divorzisTi

LeTTera pasToraLe per La QuaresiMa 1967 258

poLeMicHe GiornaLisTicHe 263

Il divorzio 263

eLenco definiTivo deLLe parroccHie deLL’arcidiocesi

di caMerino - sanseverino MarcHe (1984) 283

note 289

indice dei nomi 305

Page 323: Lieti attingerete alla sorgente

319

Finito di stamparedalla tipolitografia “La nuova stampa” di Camerino

nel mese di aprile 2013

Page 324: Lieti attingerete alla sorgente

320