l'arte di lavorare febbraio 2013

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RINNOVO DEL CCNL DELLE AGENZIE DI SOMMINISTRAZIONE: A CHE PUNTO SIAMO? IL PARADOSSO DEL LAVORO ALLA RICERCA DELLA VERA INNOVAZIONE GIOCARE CON IL BUSINESS COME SI CREA IL LAVORO

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Il magazine de L'arte di lavorare, mensile di approfondimento sul mondo dell'innovazione, dell'organizzazione e dello sviluppo.

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RINNOVO DEL CCNL DELLE AGENZIE

DI SOMMINISTRAZIONE: A CHE PUNTO SIAMO?

IL PARADOSSO DEL

LAVORO

ALLA RICERCA

DELLA VERA INNOVAZIONE

GIOCARE CON IL BUSINESS

COME SI CREA IL LAVORO

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In Italia, noi, viviamo in un gioiellino, fatto di tradizioni, cultura, arte e storia. Ma, allo stesso tempo, lo dico senza esitazioni, soffriamo di provincialismo.

Viviamo benissimo e siamo fortunatissimi: mangiamo bene, abbiamo relazioni sociali eccellenti, la nostra architettura e il nostro patrimonio artistico sono invidiati in tutto il resto del mondo. Ma, allo stesso tempo, siamo chiusi nella nostra piccola realtà. Senza confronti reali, senza dialogo vero; quasi in soggezione davanti al mercato internazionale!

Sì, qualcuno dei nostri concittadini ci ha provato; e alcuni hanno anche avuto successo. Nel 2012, 200mila aziende italiane hanno esportato all’estero, come ricordato dal ministro Passera in un recente intervento sull’export a Roma presso il redivivo ICE, l’Agenzia per la Promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.

Ma il Made in Italy, ha più la forza del prodotto tipico che del valore intrinseco. E’ lo stesso fascino che può avere per noi il vetro di Murano, piuttosto che il Nero d’Avola, la porcellana di Capodimonte piuttosto che la fontina valdostana. Tutto bellissimo e buonissimo… ma, come dicevo, più fascino del prodotto tipico che non di quello capace di imporsi sul mercato come Prodotto, con la P maiuscola. Tutto ciò perché i nostri esportatori sono mediamente piccoli e generalmente slegati tra di loro.Succede inoltre, che nel nostro Paese le politiche legate all’innovazione trovino attuazione a livello regionale; nel senso che ogni regione si occupa di piani e finanziamenti decisi a livello nazionale o europeo. E così quasi tutte le regioni hanno

IMPORTANZA E LIMITI DEL DIGITALE NELL'INNOVAZIONE

Stefano Magliole

“...adesso è il caso di sviluppare processi paralleli che incentivino l’internazionalizzazione, la comunicazione, la sostenibilità...”

5febbraio 2013

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realizzato piani per lo sviluppo del digitale.

E qui nasce il primo problema; perché digitale, ormai, è diventato sinonimo di rete internet perdendo tutta una connotazione culturale che trova nella frammentarietà e nella possibilità di semplificazione le sue caratteristiche fondamentali; un approccio che invece la cultura analogica (perché questo è il contrario di digitale) non ci permetteva. Ma questa è solo l’introduzione. Il problema centrale nasce esattamente da questo contesto.

Gran parte delle regioni, infatti, sono partite con bandi, finanziamenti e progetti per il libero internet. Libero nel senso che ogni cittadino, idealmente, può (e dovrebbe) avere accesso alla rete internet; indubbiamente questo restituisce ottimi risultati in termini di burocrazia e semplificazione (cosa che, tra l’altro, ancora non avviene) ma si dimostra non troppo efficace in chiave imprenditoriale. Infatti, e questo è il vero problema, la maggior parte delle regioni si è fermata qui. Come a dire, io ti do la rete libera, adesso tu facci quello che ti pare.

A che serve? Che ci faccio? Darmi la possibilità di mettermi in contatto con altri mercati (esteri e non) non significa automaticamente che questo dialogo avverrà. Devo cambiare il mio modo di pensare; devo avere la capacità di risultare interessante per un mercato che si muove a ritmi diversi e con caratteristiche diverse… devo imparare a vivere in un mondo diverso.

Internet libero è un ottimo punto di partenza; ma adesso è il caso di sviluppare processi paralleli che incentivino l’internazionalizzazione, la comunicazione, la sostenibilità… e tante altre cose che in altre epoche erano ben più difficili; perché l’innovazione non è solo digitale. L’innovazione è un salto mentale.

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Nella cultura passata e moderna le cerimonie sono sempre state le occasioni per aggiornare il proprio look e sfoderare l’abito nuovo e lustrato, per riunire persone e fare nuove conoscenze, per scambiare interessi e pareri, insomma occasioni da non perdere (ad esclusione dei matrimoni organizzati il 15 di agosto). Le cerimonie sono soprattutto le occasioni in cui si assiste alla celebrazione di “qualcosa”. E come da tradizione, quando si celebra “qualcosa” cresce in ognuno di noi l’aspettativa e l’attesa affinchè arrivi quell’evento.Da quando è stata scoperta l’America, gli americani – parliamo di statunitensi – hanno sempre trovato l’occasione per celebrare “qualcosa”: dall’avvento di Cristoforo Colombo agli Oscar per la cinematografia hollywoodiana, dai Music Awards all’All Star Game del basket made in USA. Un’abitudine e soprattutto una capacità, quella degli statunitensi, di creare grande attesa ed enfatizzare l’evento a tal punto da coinvolgere l’intero pianeta e far appassionare persone lontane, sia geograficamente sia culturalmente. Una capacità di far fermare gran parte del mondo partendo da un semplice presupposto: valorizzare qualsiasi cosa creando un “effetto

calamita”. Negli Stati Uniti da sei anni si celebra anche la tecnologia e l’innovazione in grande stile. Techcrunch, blog statunitense con più di 1.600.000 iscritti (mentre starai leggendo il dato potrebbe essersi già duplicato considerando la rapida crescita esponenzionale del blog) segue i trend evolutivi legati alla tecnologia e all’informatica. Dal 2005, anno della sua fondazione, rappresenta uno dei massimi punti di riferimento e informazione sul mondo del web. Negli ultimi anni è riuscito a sfruttare il cosiddetto “effetto calamita” garantendo spazio e voce a storie di successo della Silicon Valley, il polo tecnologico più sviluppato al mondo, e creando interesse e curiosità a livello mondiale.Lo scorso 31 gennaio si è conclusa la sesta edizione dei “Crunchies”, manifestazione organizzata da Techcrunch e finalizzata a premiare le migliori realtà imprenditoriali, innovative ed esordienti del panorama tecnologico internazionale: una sorta di “Oscar” della tecnologia. Più di 600.000 nomination vagliate dal comitato organizzativo per 20 diverse categorie (cinque in più rispetto allo scorso anno). La finale, avvenuta in grande stile come da tradizione, ha visto diverse conferme

SORPRESE DAI CRUNCHIES:L'INNOVAZIONE PU0' PARTIREDALLA FORMAZIONE?

Andrea Solimene

“...dare rilievo a tutte quelle iniziative imprenditoriali che promuovono strumenti e soluzioni per l’istruzione, l’educazione e la formazione.”

7febbraio 2013

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e qualche sorpresa per gli esperti del settore. Mark Zuckenberg, fondatore di Facebook, è stato eletto come miglior CEO del 2012, vincendo il confronto con Larry Page, CEO Google e Marissa Mayer CEO Yahoo. Google Maps, l’applicazione per la ricerca e la visualizzazione di mappe è stata votata come miglior applicazione mobile. Grande attenzione soprattutto alle startup con ben 8 categorie dedicate. Una su tutte è Soundcloud, soluzione web dedicata agli amanti della musica per condividere, collaborare, promuovere e distribuire i propri brani musicali, è stata premiata come migliore startup internazionale. Molti vincitori hanno rispettato le aspettative della vigilia ma ci sono state anche diverse novità. Ad esempio, a concorrere per la migliore startup “educativa” c’erano diverse proposte interessanti. La categoria “Best Education Startup”, introdotta per la prima volta quest’anno, ambisce a dare rilievo a tutte quelle iniziative imprenditoriali che promuovono strumenti e soluzioni per l’istruzione, l’educazione e la formazione. Codecademy, votata come miglior startup educativa, offre una soluzione web per imparare a programmare i linguaggi informatici più comuni (Javascript, Html, CSS). L’utente, attraverso un simpatico percorso guidato, ha la possibilità di apprendere in maniera semplice e gratuita le fondamenta e i linguaggi informatici per la creazione di pagine web o per la programmazione

basilare.Tutto ciò seduto sul proprio divano di casa davanti al pc. Codecademy porta avanti un trend che potrebbe rivoluzionare nel prossimo, e soprattutto breve, futuro il mondo della formazione e dell’istruzione. La virtualizzazione del business sta mettendo a dura prova i solidi piloni su cui si reggono numerose istituzioni e organizzazioni, ma soprattutto sta offrendo innumerevoli opportunità per chi ha la volontà o necessità di specializzarsi. Con l’abbattimento delle barriere strutturali e dei classici schemi logici, chiunque avrà la possibilità di disporre di soluzioni web o mobile per imparare e sviluppare nuove competenze. E pensare che Codecademy l’avevo sperimentato tempo fa quando avevo deciso di imparare a programmare. Piacevolmente sorpreso della facilità d’utilizzo e dell’impostazione grafica, purtroppo abbandonai dopo tre giorni, ma non per una complessità di contenuti, semplicemente preferii seguire altri percorsi formativi. Cosa significa? Che la programmazione è un ambito di specializzazione complesso? Potrebbe, ma non è così. I più grandi innovatori del tempo hanno sempre agito seguendo la filosofia del “yes, we can”. Ciò che risalta, è invece la crescente richiesta di personalizzazione della propria formazione. Il mercato l’ha capito e sta iniziando a offrire soluzioni per soddisfare questo bisogno. Vedremo l’evoluzione...

techcrunch.com/events/crunchies-2012/soundbites/?snapid=75328

VIDEO DELLA PREMIAZIONE

DELLA MIGLIORE EDUCATION STARTUP

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IL PARADOSSO DEL LAVOROGabriele Pillitteri

Lavoro qui, lavoro là, lavoro su, lavoro giù; tutti lo cercano, tutti lo vogliono, un lavoro di qualità, di qualità.

E’ sufficiente sostituire qualche parola al monologo di Figaro e abbiamo messo in musica le aspirazioni neglette di giovani e meno giovani.

Di lavoro ne parlano i partiti che promettono di creare posti di lavoro con ricette miracolistiche. In nessuna parte del mondo i partiti hanno la presunzione, come accade in Italia, di creare il lavoro con le leg gi. I partiti sono associazioni di privati che, nel nostro Paese, cercano di far eleggere nelle migliaia di cariche pubbliche che hanno generato dal dopoguerra in poi, politici di carriera, ex dipendenti della pubblica amministrazione, avvocati e ogni sorta di professionisti, ex pubblici ministeri, giornalisti, ex insegnanti, ex sindacalisti, parenti stretti dei leader e loro amici, figli, nipoti, mogli, di persone conosciute e magari decedute, con alone di eroismo.

A. Cristofaro

Made in Italy. Alla conquista del mondo: come le buone idee possono trasformarsi in grandi imprese

€ 12.70

“La crisi è una conseguenza della globalizzazione la quale costringe le aziende a innovare e cambiare.”

13febbraio 2013

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Tutte persone che alla domanda come si crea il lavoro risponderebbero dicendo che il lavoro è un diritto sancito dalla costituzione, pertanto nasce in Parlamento.

Di lavoro ne parlano i sindacalisti e con arcigna sicumera fanno le barricate ogni volta che bisogna difendere i posti di lavoro, anche quelli che sono già scomparsi, anziché motivare i lavoratori ad adeguare le loro competenze alle nuove esigenze delle imprese. Alla domanda come si crea il lavoro risponderebbero che il lavoro lo creano i lavoratori. Difficile trovare, anche nella stampa, chi, terra terra, ricordi di tanto in tanto come si crea il lavoro, quale ambiente sia ad esso congeniale, e perché talvolta sia necessario perfino distruggerlo.

Il lavoro si crea quando una o più persone costituiscono una società per realizzare e offrire prodotti e servizi ai clienti. Senza clienti, niente lavoro. Sono loro, i clienti, che creano il lavoro. Un principio che vale per tutte organizzazioni: profit, no profit, pubblica amministrazione. Va da sé che il cliente remunera il lavoro acquistandone i prodotti e i servizi, e va da sé che una buona gestione delle risorse economiche e umane rappresenti l’unica garanzia che il lavoro continui a generare lavoro.

Il nostro Paese ha sviluppato due grandi aree di attività: quella che ha incorporato nei prodotti il gusto aristocratico della bellezza, il senso artistico delle forme, la fragranza dell’agroalimentare; è nota e famosa nel mondo come made in Italy. Il new York Times riportava la settimana scorsa un dato strabiliante: i visitatori di Eataly, la formidabile struttura creata da Oscar Farinetti a New york, hanno raggiunto nel 2012 sette milioni di presenze, ben più del MOMA, della Statua della libertà, dell’Empire State Building, del museo Guggenheim. Un successo mondiale che nessun ministero sarebbe stato capace neppure di immaginare.

L’altra area di grande lavoro, dove l’ingegno italiano ha mostrato una forte attitudine è quello del me too. Vale a dire,

lo fanno gli altri lo facciamo anche noi. O con una strategia di prezzo o con una strategia di qualità, o con il combinato disposto dei due fattori concorrenziali, sono stati sviluppati in Italia un centinaio di distretti industriali matrice di una industria manifatturiera seconda in Europa solo dopo quella tedesca.

Mentre l’industria che fa riferimento al Made in Italy, ha ancora tassi di crescita, propiziati dal volano della tradizione italiana, nell’area del me too bisognerà che qualcuno cominci a pensare cosa fare delle imprese e soprattutto delle persone che vi lavorano, quando produzioni analoghe provenienti da ogni parte del mondo invaderanno ( già lo stanno facendo e già si vedono gli effetti) i mercati dove la bassa tecnologia tipica di alcune produzioni e l’assenza di servizi innovativi, nulla potranno contro gli attacchi concorrenziali di più vivaci imprenditori asiatici, africani, sudamericani, che in 5, 10 anni sterilizzeranno i mercati con produzioni di basso costo e li accompagneranno al declino con clienti e profitti sempre in diminuzione. Sopravviverà chi agirà prima degli altri e sarà capace di distruggere quei lavori per farli rinascere in modo

creativo.

Il quadro apparirà in tutta la sua drammatica evidenza nei prossimi due, tre anni. Alla favola che la crisi del 2008 era solo una crisi finanziaria, pochi scialbi individui credono ancora. La crisi è una conseguenza della globalizzazione la quale costringe le aziende a innovare e cambiare. E’ tempo che gli italiani inventino una classe dirigente che sia all’altezza della situazione. Ad essa si chiede di rispondere alle seguenti domande: come si crea il lavoro nell’era dell’economia globale, quali lavori bisogna distruggere per farli rinascere con nuove competenze, meglio essere i primi a distruggere o gli ultimi a raccogliere le briciole.

Se pensiamo che a queste domande possano rispondere degli impiegati regionali o i dirigenti di un ministero, o qualche volonteroso sindacalista, o i candidati di certe formazioni politiche, allora smetteremo anche di cantare il monologo di Figaro in versione “ Lavoro” perché anche la speme ultima dea ci avrà abbandonato.

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RINNOVO DEL CCNL DELLE AGENZIE DI SOMMINISTRAZIONE: A CHE PUNTO SIAMO?

Rossana Lonero A seguito della presentazione delle piattaforme sindacali nel mese di ottobre dello scorso anno, ha preso formalmente avvio il percorso di rinnovo del Contratto collettivo nazionale di lavoro delle Agenzie di somministrazione del 24 luglio 2008. Dopo oltre quattro anni di vigenza contrattuale, proseguono le trattative per il rinnovo che, come si legge nelle piattaforme dei tre sindacati di categoria, è mirato alla “manutenzione” del Ccnl, il quale, dunque, non subirà grandi stravolgimenti.

Prima di entrare nel merito di alcune delle principali proposte avanzate da parte sindacale, è importante sottolineare la visione d’insieme sulla somministrazione di lavoro che emerge dalla lettura delle piattaforme. Felsa-Cisl e UilTemp, che hanno presentato una piattaforma identica sotto tutti gli aspetti, sottolineano come la somministrazione abbia rappresentato in questi anni “l’unico esempio positivo di flessibilità contrattata”. Anche Nidil, il sindacato di categoria della Cgil, sebbene non adotti la medesima espressione usata dalle altre sigle sindacali, evidenzia comunque l’impianto fortemente innovativo del Ccnl del 2008 e la conseguente esigenza esclusivamente manutentiva dello stesso, partendo dall’esame della sua attuazione e dei risultati ottenuti finora.

Quattro i temi centrali del rinnovo: diritti e relazioni sindacali, diritti d’informazione, stabilizzazione e bilateralità. Nessuna richiesta di particolare rilievo è da segnalarsi, invece, per quanto riguarda la parità di trattamento dei lavoratori somministrati rispetto ai lavoratori “diretti”, principio ormai consolidato e

“Quattro i temi centrali del rinnovo: diritti e relazioni sindacali, diritti d’informazione, stabilizzazione e bilateralità.”

15febbraio 2013

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rafforzato dal d.lgs. n. 24/2012, attuativo della direttiva europea del 2008.

Con riferimento al primo tema, i sindacati propongono, in particolare, una regionalizzazione delle rappresentanze, attraverso la trasformazione della Rappresentanza Nazionale di Agenzia in Rappresentanza Regionale, oltre alla riduzione della soglia necessaria per la costituzione delle Rappresentanze Sindacali Aziendali dei lavoratori somministrati nelle aziende utilizzatrici (un RSA per ogni 15 lavoratori impegnati in missioni di almeno 2 mesi, invece che ogni 20 lavoratori somministrati per più di 3 mesi). Inoltre, al fine di rafforzare le relazioni sindacali, si propone che vengano organizzati, con cadenza semestrale, incontri tra i sindacati e le filiali delle Agenzie a livello provinciale sui temi dell’andamento occupazionale e del mercato. Il diritto d’informazione viene affrontato con una duplice finalità: maggiore trasparenza nei confronti del sindacato e maggiore consapevolezza dei propri diritti, anche economici, da parte dei lavoratori somministrati. Le tre sigle, infatti, chiedono che aumenti il flusso informativo di dati ai sindacati a livello territoriale e a livello nazionale e, con riguardo ai lavoratori somministrati, che venga consegnato loro, al momento dell’assunzione, un modulo informativo su tutti i loro diritti, inclusi il diritto di precedenza per le lavoratrici in maternità ed i premi aziendali eventualmente previsti dalla contrattazione di secondo livello dell’azienda utilizzatrice. La vera novità del rinnovo potrebbe riguardare l’abolizione dell’obbligo di stabilizzazione dei lavoratori somministrati assunti a tempo determinato, che verrebbe sostituito da un sistema incentivante: tale richiesta, avanzata da parte sindacale allo scopo di garantire ai lavoratori somministrati una maggiore continuità e stabilità, mira ad evitare che, prima della scadenza dei 36 (o 42) mesi, le Agenzie ricorrano ad altri lavoratori proprio per non incorrere nell’obbligo di assunzione a tempo indeterminato. Tale proposta sarà plausibilmente valutata positivamente da Assolavoro, la parte datoriale firmataria del Contratto, in quanto consentirebbe a lavoratori ed Agenzie di proseguire proficuamente e con maggiore stabilità la propria collaborazione, senza dover procedere a “sostituzioni forzate”. Con riferimento alle assunzioni a tempo indeterminato, inoltre, i sindacati di categoria chiedono l’aumento dell’indennità di disponibilità dagli attuali 700 a 1180 Euro mensili, pari

all’importo massimo dell’indennità ASpI, nonché la revisione della procedura c.d. Art. 23-bis, ossia della procedura di confronto sindacale diretta alla definizione di accordi per la promozione di percorsi di riqualificazione professionale in mancanza di occasioni di lavoro.

Con riguardo alla bilateralità, i sindacati chiedono l’aumento del contributo Ebitemp dall’attuale 0,20 allo 0,50 ed un aumento delle prestazioni in favore dei lavoratori somministrati (ad esempio, del contributo per asilo nido e dell’indennità sostitutiva di maternità).

La rivisitazione dell’Accordo sull’apprendistato in somministrazione del 5 aprile 2012, la costituzione di una banca dati con i nominativi ed i CV dei lavoratori somministrati, il rafforzamento del ruolo della formazione sono alcuni degli altri temi al centro del rinnovo del Contratto che, date le premesse, dovrebbe essere siglato entro il primo semestre di quest’anno. Comunque si concludano le trattative, l’auspicio è che il lavoro in somministrazione non ne esca appesantito, vedendo confermato il ruolo di flessibilità positiva che gli è, ormai, da tutti riconosciuto.

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L'EPOCA DELLE STARTUPAndrea Solimene

Era lo scorso aprile quando, alla ricerca di nuovi stimoli professionali, decisi di imbattermi in una delle più grandi sfide dell’uomo dell’ultimo millennio: la ricerca di nuove opportunità lavorative. Stavo valutando la possibilità di fare qualcosa di diverso dalla solita routine, volevo lavorare per qualcosa in cui credevo fermamente e finalmente risvegliare il mio istinto creativo, volevo gestire il mio tempo e dedicarlo alle mie passioni. Nel frattempo avevo sviluppato una mezza idea ma era rimasta lì… troppo ambiziosa. Poi un giorno mio padre mi spinse a fare una chiacchierata con una business manager di un grande gruppo bancario appassionata ed esperta di social media e startup che mi aiutò a decidere le sorti del mio futuro prossimo.

Da lì è iniziato il mio interesse verso il mondo delle startup. Fino ad allora avevo lavorato in una società di consulenza, anche essa in fase di startup, che offriva servizi di consulenza strategica e organizzativa ad altre startup. Ma cosa significa “startup”? Facciamo chiarezza su questo termine che rischia di diventare inflazionato ancor prima di essere compreso in Italia.

Per Startup si intende la fase di avvio di un’iniziativa d’impresa, quindi l’insieme di quelle attività e operazioni necessarie per avviare un business. Niente di particolarmente innovativo. Il termine è sempre esistito nel gergo imprenditoriale, abbiamo solo assistito al passaggio da “sto avviando un’impresa” a “sto creando una startup”. Il significato è praticamente lo stesso, cambiano solo i termini utilizzati. Tuttavia, secondo la dottrina manageriale, un’impresa orbita nella fase iniziale, appunto fase di startup, per circa tre anni. Proprio per questo motivo c’è molta confusione sulla definizione di startup anche tra gli addetti ai lavori ai quali il percorso di crescita che porta la trasformazione di una startup in un’impresa consolidata è ancora un territorio grigio.

In realtà “creare una startup” va oltre la mera costituzione di un’impresa, è qualcosa che si avvicina a una filosofia, a uno status, a uno stile di vita molto vicino alla cultura americana. Si, come sempre ci sono gli americani di mezzo. Probabilmente perché la prima vera startup creata è stata proprio l’America che è riuscita a sviluppare nelle persone una mentalità intraprendente, creativa e mai arrendevole.

“Il desiderio di ripartire,di mettersi in gioco,di credere in qualcosa di ambizioso: tutti valori di una generazione che sta vivendo un periodo di crisi quasi esistenziale.”

18febbraio 2013

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Le tre caratteristiche che connotano lo startupper, diventato ormai sinonimo di imprenditore.

In verità le startup in Italia, come nel Vecchio Continente, sono sempre esistite, ma il mito (nonostante sia una realtà più che consolidata) della Silicon Valley è penetrato intensamente nel nostro tessuto imprenditoriale. L’obiettivo è quello di cambiare, innovare, creare una nuova generazione di imprenditori che siano protagonisti del cambiamento. Molti accostano il termine startup a una moda passeggera, in realtà è un fenomeno che sta progressivamente entrando nella quotidianità di tutti noi, al punto tale da costituire uno dei temi fondanti dell’Agenda Digitale che ha avviato il processo di reale digitalizzazione del nostro Paese.

Un fenomeno accompagnato dalla creazione di un ecosistema, ancora giovane e immaturo per definirsi completo, ma intraprendente e pieno di buoni propositi. L’ecosistema di startup italiano, non ancora paragonabile a quello statunitense o israeliano per caratteristiche e volumi, si sta gradualmente estendendo: incubatori, acceleratori, investitori, media, governo e altri attori stanno contribuendo alla nascita di startup made in Italy che ambiscono a diventare realtà innovative oltre i confini nazionali.

Tutto ciò grazie alle nuove generazioni, i cosiddetti nativi digitali, nati e cresciuti nel periodo di massima estensione del web – conosciuto come Internet of Things – che stanno diffondendo un nuovo modo di vedere le cose, forse stufi di quanto è stato fatto, ben poco, dall’Italia negli ultimi 20 anni. Il desiderio di ripartire, di mettersi in gioco, di credere in qualcosa di ambizioso: tutti valori di una generazione che sta vivendo un periodo di crisi quasi esistenziale. Forse perché il lavoro non c’è, allora bisogna inventarselo! Quindi perché vedere la crisi come un punto d’arrivo e declino e non un punto di ripartenza? La crisi può realmente essere l’occasione per innovare, partendo dalla figura e l’essenza dell’imprenditore, tanto vicino a quello descritto nel codice civile all’art. 2082 e accostato al concetto di fare impresa familiare secondo un’impostazione tayloristica, quanto lontano dal mondo in cui viviamo. Forse definirsi startupper non è solo un modo diverso di chiamarsi.

G I O C A R E C O N I L B U S I N E S S

Abbiamo letto “For the win: How Game Thinking can Revolutionize Your Business” di Kevin Werbach e Dan Hunter.

Da bambini abbiamo tutti giocato. Chi ha la mia età tende ad associare il gioco con i videogame; i miei genitori invece avevano i più classici soldatini e bambole. Senza pensare ai miei nonni che invece avevano trottole e burattini. Quel che resta identico, in ogni epoca, è il piacere che ognuno di noi percepisce quando gioca. A qualsiasi età. Non è un piacere superficiale ma profondamente sincero: il gioco assorbe, coinvolge, emoziona. Ecco, il gioco, è la parte più coinvolgente della nostra vita.

Assorbire, coinvolgere, emozionare. Ma anche il desiderio di vincere, di superare l’ostacolo, di progredire di livello in livello. Sono tutti fattori associati al gioco; sono tutti fattori associati all’essere umano.

Allo stesso tempo sono tutti concetti molto distanti dal mondo del lavoro. Il desiderio di ogni direttore marketing è avere clienti coinvolti; così come ogni direttore del personale vuole dipendenti entusiasti. Desideri che spesso restano inappagati. Tanto per citare un dato, circa il 70% dei dipendenti occidentali (europei ed americani) non si sentono coinvolti nel proprio lavoro. Un dato che fa riflettere.

A qualcuno, tuttavia, è venuto in mente che, se si potessero usare le dinamiche del gioco anche nei processi aziendali, forse, sarebbe possibile ottenere lo stesso coinvolgimento anche in attività oggi considerate tediose. Marketing e Risorse Umane sono stati i primi settori ad essere affascinati da queste possibilità. In che modo? Basta pensare alla semplice raccolta punti al supermercato per capire come la dinamica di fondo sia esattamente la stessa del gioco a punti. Un esempio semplice, non c’è dubbio, che lascerà un po’ di amaro in bocca: ci aspettavamo ben altro… ma ben altro c’è. Il caso ha voluto che metre preparavo questo articolo, mi sia imbattuto in un video della Coca Cola. E’ un video in inglese su un’attività promozionale della famosa bevanda gasata a Hong Kong.

Il fatto di vincere premi partecipando al gioco (in altre parole agitando il proprio smartphone durante la trasmissione dello spot in televisione) è un modo per giocare con il brand. E’ un modo per coinvolgere, appassionare, emozionare il cliente. Che associa il marchio al divertimento… ed in caso, al premio.

Werbach e Hunter, nel loro libro, ci raccontano decine di casi di gamification (così si chiama l’idea di inserire le dinamiche di gioco in processi non di gioco); ma non si fermano qui. Ci accompagnano nel percorso per studiare i nostri processi aziendali, per identificare laddove la gamification potrebbe

tornarci utile. E infine ci descrivono le dinamiche, ci descrivono i passaggi da compiere e anche gli errori da evitare.

Un libro interessante che guarda al f u t u ro . Perché ogni gioco è sempre un modo diverso per guardare al futuro e alle difficoltà che dovremo affrontare.

Stefano Magliole

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Tutti noi nell’acquisto di un prodotto ci siamo trovati ad affrontare la complessa scelta tra un prodotto “collaudato”, che gode di una garanzia di affidabilità sancita dalle vendite e dal mercato, e uno “nuovo”, considerato tecnologicamente innovativo ma ancora poco diffuso. Il dilemma del “collaudato” e del “nuovo” si verifica sia nel piccolo, ad esempio nell’acquisto di un detersivo o di uno smartphone, sia in dimensioni più estese, ad esempio nell’acquisto di un automobile o di una casa. Questo dilemma si genera grazie a un semplice fenomeno: l’innovazione, intesa nella sua accezione originale del termine, ossia introduzione di qualcosa di nuovo.

Innovare significa “alterare l’ordine delle cose stabilite per fare cose nuove” e l’innovazione non è altro che l’azione che permette di creare un cambiamento, più o meno dirompente – solitamente in positivo – dei modi e degli schemi che caratterizzano un determinato stato. Tutto ciò, inevitabilmente, si riflette sul comportamento dell’essere umano. La cosa strana, per non dire “buffa”, è che l’uomo non accetta mai di buon grado il cambiamento, generato dall’innovazione che egli stesso ha creato. Possiamo riassumere in concetto con l’immagine di cane che si rincorre la coda.

Il rapporto con il cambiamento si connota per una grande percentuale di avversione e negazione, avvalorata principalmente dall’esistenza di preconcetti, regole, supposizioni e altro che spingono a preferire lo stato attuale delle cose piuttosto che il rischio e la prova di qualcosa di nuovo. Chi più, chi meno, è alla continua ricerca dell’innovazione ma è avverso al cambiamento.

Tale fenomeno si riflette anche nella realtà aziendale e rischia

ALLA RICERCA DELLA VERA INNOVAZIONE

Andrea Solimene

“Parlare di innovazione significa cambiare il modo di pensare, agire, svolgere un lavoro, e liberarsi da quelle catene che non hanno più motivo di esistere, perché vincolanti nel processo di evoluzione del management.”

febbraio 201325

InforgroupAGENZIA POLIFUNZIONALE DEL LAVORO

THE OUTSOURCING COMPANY

Progettolavoro

VALUE MAKER COMPANY

Sanmarco Consulting

GRUPPODePASQUALE

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di rappresentare una vera patologia. Le aziende, sempre pronte a osannare l’innovazione, sono spesso limitate dalla propria natura, dalla propria struttura, dalla burocrazia e dalle regole dettate dai fondatori. Si tratta di una realtà, ancora legata all’impostazione tayloristica, (F. Taylor è considerato uno dei padri fondatori dell’organizzazione aziendale e manageriale), basata su elementi chiave quali il controllo, la precisione, la stabilità, la disciplina e l’affidabilità, che rischia di non evolversi con gli scenari attuali. In un mondo che cambia rapidamente, dalla digitalizzazione alla socializzazione, come è possibile basarsi ancora su concetti che hanno oltre 90 anni e che non si sono mai evoluti? Come è possibile innovare usando un’impostazione obsoleta?

Qualcuno potrebbe ribadire che l’innovazione non si genera grazie a un’impostazione aziendale, ma sono le persone che la creano, con le loro caratteristiche e personalità. Perfetto. Tuttavia, l’apparato del management moderno obbliga gli esseri umani, per natura irritabili, caparbi e tendenzialmente indipendenti a conformarsi a regole e standard aziendali per la gestione delle attività (Ritorna l’immagine del cane che si rincorre la coda). I manager vengono selezionati, formati e ricompensati per la capacità di mantenere lo status quo, operando in modo più efficiente. Nessuno si aspetta che siano degli innovatori. Non vengono pagati per assumersi un rischio, ma piuttosto per evitarli. Come è possibile parlare di innovazione se nessuno vuole prendersi dei rischi?

Il tema dell’innovazione, dunque, è molto complesso e non si limita solo alla tecnologia. Parlare di innovazione

significa cambiare il modo di pensare, agire, svolgere un lavoro, e liberarsi da quelle catene che non hanno più motivo di esistere, perché vincolanti nel processo di evoluzione del management. Conoscete la storia di Apple? È un esempio di cambiamento e innovazione, non solo tecnologica, ma anche concettuale.

Steve Wozniak, cofondatore di Apple, negli anni 70 aveva il desiderio di creare un computer migliore di quelli esistenti, adatto per un uso personale e domestico: un obiettivo rivoluzionario e folle in quanto, a quei tempi, i computer erano destinati esclusivamente a un utilizzo aziendale. Si confrontò con i vertici della Hewlett-Packard (HP), società leader nel settore informatico in cui lavorava, per proporre l’idea, ma la risposta del suo manager fu: “Nessuno acquisterebbe mai un personal computer”. Wozniak, continuò per la sua strada, aveva Steve Jobs come partner. Il resto è a tutti noi noto. Apple ha introdotto un nuovo modo di pensare e concepire la tecnologia. Ha soprattutto creato una nuova filosofia e stile di vita per cui il possesso di un prodotto Apple, sia esso un computer, un iPod o un iPhone, significa acquisire uno status symbol. L’innovazione va oltre la tecnologia, l’innovazione è nel modo di pensare le cose. L’innovazione è nelle persone, perché limitarle? L’innovazione introduce il cambiamento. Perché non seguirlo?

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L’America degli anni ‘20 viveva nell’illusione che possedere carta (azioni) equivalesse a possedere ricchezza. Si è visto com’è andata a finire: dopo il crollo del ‘29, 15 anni di non crescita. Gli sboom, lo sgonfiamento degli aerostati pieni di carta del 1985, del 2001, e del 2008 sono stati la conseguenza del Credo che il mondo occidentale sia il migliore mondo possibile perché il suo destino sarebbe segnato dal segno +. Più crescita, più benessere, più ricchezza. Gli alchimisti della trasformazione della carta in benessere sono indubbiamente gli operatori dei mercati finanziari. Negli Stati Uniti il Credo è patologico: i cittadini si indebitano per comprare carta, le banche si indebitano per vendere carta, lo stato è la grande stamperia che stampa titoli di debito pubblico e poi se li compra. Ma sono gli Stati Uniti.

In Italia per non essere da meno abbiamo stampato obbligazioni Bot, Btp, Ctz in cambio di denaro ma invece di dirottarlo nei mercati finanziari per fare boom, lo abbiamo utilizzato per aumentare la spesa corrente. Così abbiamo raddoppiato il debito pubblico in 13 anni per costruire strade, centri polifunzionali, scuole, palestre, ospedali, opere

incompiute dopo 5, 10 anni dall’inizio dei lavori. Oltre al danno la beffa di deturpare il paesaggio. Non contenti, abbiamo creduto che i posti di lavoro si potessero ottenere facendo ripetere gli stessi processi di lavoro da diversi centri decisionali, in questo siamo maestri, e ci siamo riusciti. Con la devolution e il finto federalismo abbiamo accentuato gli effetti nefasti di una burocrazia infernale e costosa. Oltre al nobile scopo di assumere persone il cui impiego allunga i processi di lavoro, abbiamo moltiplicato i veti e i contro veti, col risultato di sottoporre le imprese, a tour de force micidiali per ottenere autorizzazioni che in Svizzera sono rilasciate via web con due giorni d’attesa.

Ma l’idrovora ”trangugia e divora” senza sosta, la bestia più la sfami e più chiede continuamente cibo; così una volta che la strada dell’indebitamento diventava sempre più difficile per via del parametro invalicabile debito pubblico / prodotto interno lordo che ci ha regalato l’ingresso nell’euro, ci siamo buttati con grande determinazione sulla tassazione degli asset delle famiglie: case, terreni, risparmi, auto ecc. Ci furono momenti di orgasmo contemplativo da parte

IL CREDO

Gabriele Pillitteri

“Il desiderio di ripartire,di mettersi in gioco,di credere in qualcosa di ambizioso: tutti valori di una generazione che sta vivendo un periodo di crisi quasi esistenziale.”

febbraio 201328

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di ministri che invocavano la dea della bellezza, a cui rendere omaggio, quando la gioia pervadeva i loro cuori nel pronunciare la fatidica formula di rito propiziatorio:” le tasse sono belle” Per mitigare l’odore di selvaggio proveniente dal motore del capitalismo le anime belle frequentatrici di sagrestie ed ex case del popolo, hanno messo nel carburante un additivo speciale: gli effluvi profumati della socialdemocrazia nordica. Tasse, imposte, gabelle.

Siamo arrivati alla crisi di sistema iniziata nel 2008 con il motore dell’economia che andava fuori giri al primo colpo di acceleratore. Oggi la società scricchiola da tutte le parti e potremmo assistere impotenti al crollo della struttura se non si interviene subito. Chi ha conseguito i master a Boston e a Chicago se ne stia a casa. Parli solo chi ha carisma e leadership. Gli altri stiano zitti per favore. I mediocri hanno già fatto abbastanza danni. La strada da seguire è già tracciata. Non è quella di aumentare la carta invocando Draghi. Bisogna fare il percorso a ritroso degli ultimi 13 anni, e rimettere mano alla spese corrente questa volta in senso contrario cercando di ridurre progressivamente la carta che

abbiamo emesso in cambio di denaro. La nostra economia è tornata ai livelli del 1999, pertanto bisogna ridurre i costi per tornare allo stesso livello di quegli anni. Ci vorrà tempo. Per questo bisogna cominciare subito.

Da che parte si comincia? Dai responsabili. Tagli ed eliminazione di istituzioni inutili o poco produttive: provincie, Tar, Corte dei Conti, effetti distorsivi delle devolution, tagli ai costi della politica e non dei futuri introiti ma retroattivi. Tagli drastici agli stipendi e alle pensioni dei superburocrati, tetto agli stipendi dei manager delle banche e delle società quotate. Privatizzazione delle 7000 società partecipate dagli enti locali. Riorganizzazione dei processi della burocrazia, accorpando funzioni, competenze, e centri decisionali. I tagli potranno permettere la riduzione delle tasse sugli asset dei ceti produttivi che potranno tornare a spendere e rivitalizzare la domanda di beni e servizi. L’alternativa è nel Credo di Grillo ed è il terzo punto del suo programma, dei dieci apparsi sul Sole 24: la ristrutturazione del debito. Una follia che solo chi ha sempre calcato palcoscenici teatrali e televisivi poteva pronunciare senza fare una

grossa risata. Ma forse il comico ancora inconsapevole del ruolo politico che dovrà assumere ha riso… di pancia.

http://youtu.be/DuNWkKBokts

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