jericho d
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Thriller psicologicoTRANSCRIPT
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JERICHO D.
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Il primo ricordo fu l’odore morbido del terriccio umido.
Aroma di muschio e funghi che risaliva la corrente del
respiro.
Dicono che la memoria olfattiva sia legata alle nostre
reminiscenze più ancestrali, forse è per questo che il
secondo ricordo fu rendermi conto di essere ancora vivo.
Il viso era immerso in un cumulo di foglie secche,
schegge di corteccia e frammenti di fuscelli, poggiato
sulla terra bagnata dall’autunno. Il sapore di ciò che era
passato tra le mie labbra lo confermò. Aiutandomi con i
denti cercai di pulire la lingua e sputai tutto ciò che
potevo.
Il terzo ricordo fu l’armonia di improvvise folate che
suonavano le fronde degli alberi. Non avvertivo alcun
alito di vento sul mio corpo, forse perché lo stormire delle
foglie doveva avvenire in un posto più vicino al cielo che
a me. In quel momento, se avessi avuto un po’ di lucidità,
avrei solo potuto supporre che gli alberi erano alti e
numerosi.
Spalancai gli occhi che ero ancora riverso a terra. Mi si
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presentò il viscido microcosmo di un sottobosco appena
espulso dalla mia bocca. La testa pulsava come se il
cuore volesse farsi strada e sostituirsi al cervello nel suo
abituale alloggio. Mi voltai rotolando su un fianco e mi
accorsi della presenza di un piccolo zaino sulla schiena.
Cercai il cielo con lo sguardo e lo trovai: grigio e
nascosto dietro centinaia di rami non ancora del tutto
nudi.
Il dolore alla testa si fece più acuto. Portai una mano tra i
capelli con la speranza di afferrarlo e strapparlo via, ma
sopra la nuca trovai solo una lunga ferita. Le mie mani
erano fredde e pallide. La pelle bianca e pulita
contrastava con le dita che, carezzando il profondo
taglio, si erano macchiate di sangue raggrumato. Non ero
poi così certo che fosse solo il taglio a procurarmi tutto
quel dolore.
Fu in quell’istante che mi avvolse una sensazione di
pericolo e presto diventò quasi panico.
Fuggire. Dovevo fuggire!
Il primo tentativo di alzarmi non ebbe successo e non fu
affatto agevolato da un terreno in forte pendenza. La
testa, rivolta in giù, accentuava il tambureggiare dei battiti
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nella scatola cranica. Il secondo tentativo fu anche
peggio del primo. Mi bastò provare a far forza su braccio
sinistro e ginocchio destro, per capire che le fitte
provenivano da punti diversi del corpo. La manovra per
mettermi in piedi precipitò assieme al mio corpo lungo la
scarpata. Franai su un letto di foglie cercando inutili
appigli e aumentando regolarmente la velocità con la
quale scivolavo. Di forze per opporre anche un minimo di
resistenza non ce n'era traccia.
Alla fine mi limitai ad osservare gli alberi che mi
sfrecciavano accanto, come persone in attesa ad una
stazione vista dal finestrino di un treno che non fa
fermate.
Rami caduti, cespugli e rocce lacerarono il caban che
indossavo e mi scipparono il piccolo zaino.
Il quarto ricordo fu che esisteva il tempo e che questo
aveva una sua unità di misura, ma la dimensione di
quello che fu necessario per completare quella
miracolosa discesa non mi fu possibile stimarla.
L’ultimo tratto lo feci nel vuoto. Mi schiantai in una pozza
di fango che sembrò persino calda e accogliente. Il vicino
rumore di acqua corrente conciliò il mio deliquio.
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Non so quant’altro tempo trascorse da quando persi
conoscenza a quando la ritrovai. Le sensazioni di quei
momenti convulsi si susseguono nella mia mente ancora
adesso come una sorta di alternanza di frammenti
confusi.
Ricordo che mi svegliai grazie a rade gocce d’acqua che
mi cadevano sul viso. Dischiusi gli occhi, ma non vidi
nulla. Nero. Il buio scuro e il crescente picchiettare di
acqua sul mio corpo. Il primo pensiero: ho perso la
vista… il secondo pensiero: sono morto e questo è il mio
inferno.
All’inferno pioveva.
Nell’oscurità assoluta potevo tastare la fanghiglia in cui
mi trovavo e sentire la pioggia, ormai scrosciante,
drenata da quello che doveva essere un fitto bosco che
mi circondava. Un lampo mi proiettò nella mente
l’immagine inquietante di alberi che sembravano intimoriti
dalla mia presenza. Almeno la vista non mi aveva
abbandonato, mancava da capire se invece fossi morto.
Un tuono fragoroso riecheggiò per lunghi istanti. La
pioggia si intensificò. Lampi intermittenti mi raccontarono
che ero precipitato in un dirupo, che era notte fonda e un
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temporale allarmato per le mie condizioni si era preso la
briga di svegliarmi. Brancolai, arrancando verso quella
che sembrava una parete di roccia e lo sforzo fu
premiato con la scoperta di un angolo asciutto su cui
poter riversare un po’ di umidità.
Le ossa, forse non del tutto intere, erano certamente
bagnate. In quell’anfratto passai alcune ore di quella
interminabile notte, nella speranza di arrivare all’alba e
scoprirmi ancora vivo. Lampi e tuoni si susseguirono
tanto da non riuscir più a capire cosa fosse causa e cosa
effetto. L’avara ma intensa luce prodotta dai fulmini era
una benedizione che spezzava la monotonia di tenebre
che al contrario erano fin troppo generose. Il temporale
se ne andò lasciandomi in compagnia del gocciolare
delle piante. Poi arrivò un inatteso odore di bruciato. Vidi
del chiarore e sperai si trattasse dell’alba. Ma era molto
meglio di un’aurora acerba, si trattava di un albero che
bruciava dopo esser stato colpito da un fulmine. La
pioggia era cessata e tanto bastò per convincermi a
strisciare fino al tronco in fiamme.
Il quinto ricordo fu la sensazione di benessere innescata
da quel calore e il profondo senso di gratitudine nei
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confronti del fuoco crepitante. Mi sfiancai per togliermi il
cappotto caban. Molto di più per sfilarmi il maglione. Con
alcuni rami spezzati mi aiutai a stendere quei due
indumenti e avvicinarli il più possibile all’albero
incendiato. Tremavo mentre osservavo l’alone generato
dal vapore. Era un buon segnale e quando questo si
attenuò dissolvendosi del tutto, decisi che era giunto il
momento di consumare anche l’ultima energia rimasta
nel mio corpo.
Togliersi gli scarponi, i pantaloni, la camicia e tutto il
resto fu un’operazione talmente ardua da consumare le
mie ultime forze. Misi tutto ad asciugare e rimasi coperto
dal solo caban che mi fece da mantello.
Mentre mi spogliavo ero riuscito anche a scrutare le
condizioni del mio fisico. Le gambe avevano lividi ed
ematomi, graffi ed escoriazioni, ma sembravano ancora
intere. La caviglia destra era gonfia. Il torace era
ricoperto da numerose tumefazioni. A giudicare dal
dolore che provavo nel respirare, qualche costola doveva
essersi incrinata o forse addirittura rotta. Le mani erano
ricoperte da piccole lacerazioni provocate dagli inutili
sforzi compiuti nel tentativo di aggrapparmi a qualcosa
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che potesse rallentare la caduta. Sulla testa una ferita
gonfia e dolorante.
Avevo vissuto in maniera frenetica quegli eventi
angoscianti e fu uno strano istinto di sopravvivenza che
mi aiutò a trattenere nella mente i primi cinque eventi
significativi di quella giornata. Non ho più memoria di
quale fu la precisa sequenza temporale dei ricordi dopo il
sesto, ma quello lo rammento bene.
Il sesto ricordo furono tre domande: cosa ci faccio qui?
dove sono? e io… io chi sono?
Poi mi addormentai o forse persi ancora conoscenza.
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