jericho d

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Thriller psicologico

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Page 1: Jericho D

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Page 2: Jericho D

JERICHO D.

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Page 3: Jericho D

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Page 4: Jericho D

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Il primo ricordo fu l’odore morbido del terriccio umido.

Aroma di muschio e funghi che risaliva la corrente del

respiro.

Dicono che la memoria olfattiva sia legata alle nostre

reminiscenze più ancestrali, forse è per questo che il

secondo ricordo fu rendermi conto di essere ancora vivo.

Il viso era immerso in un cumulo di foglie secche,

schegge di corteccia e frammenti di fuscelli, poggiato

sulla terra bagnata dall’autunno. Il sapore di ciò che era

passato tra le mie labbra lo confermò. Aiutandomi con i

denti cercai di pulire la lingua e sputai tutto ciò che

potevo.

Il terzo ricordo fu l’armonia di improvvise folate che

suonavano le fronde degli alberi. Non avvertivo alcun

alito di vento sul mio corpo, forse perché lo stormire delle

foglie doveva avvenire in un posto più vicino al cielo che

a me. In quel momento, se avessi avuto un po’ di lucidità,

avrei solo potuto supporre che gli alberi erano alti e

numerosi.

Spalancai gli occhi che ero ancora riverso a terra. Mi si

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presentò il viscido microcosmo di un sottobosco appena

espulso dalla mia bocca. La testa pulsava come se il

cuore volesse farsi strada e sostituirsi al cervello nel suo

abituale alloggio. Mi voltai rotolando su un fianco e mi

accorsi della presenza di un piccolo zaino sulla schiena.

Cercai il cielo con lo sguardo e lo trovai: grigio e

nascosto dietro centinaia di rami non ancora del tutto

nudi.

Il dolore alla testa si fece più acuto. Portai una mano tra i

capelli con la speranza di afferrarlo e strapparlo via, ma

sopra la nuca trovai solo una lunga ferita. Le mie mani

erano fredde e pallide. La pelle bianca e pulita

contrastava con le dita che, carezzando il profondo

taglio, si erano macchiate di sangue raggrumato. Non ero

poi così certo che fosse solo il taglio a procurarmi tutto

quel dolore.

Fu in quell’istante che mi avvolse una sensazione di

pericolo e presto diventò quasi panico.

Fuggire. Dovevo fuggire!

Il primo tentativo di alzarmi non ebbe successo e non fu

affatto agevolato da un terreno in forte pendenza. La

testa, rivolta in giù, accentuava il tambureggiare dei battiti

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nella scatola cranica. Il secondo tentativo fu anche

peggio del primo. Mi bastò provare a far forza su braccio

sinistro e ginocchio destro, per capire che le fitte

provenivano da punti diversi del corpo. La manovra per

mettermi in piedi precipitò assieme al mio corpo lungo la

scarpata. Franai su un letto di foglie cercando inutili

appigli e aumentando regolarmente la velocità con la

quale scivolavo. Di forze per opporre anche un minimo di

resistenza non ce n'era traccia.

Alla fine mi limitai ad osservare gli alberi che mi

sfrecciavano accanto, come persone in attesa ad una

stazione vista dal finestrino di un treno che non fa

fermate.

Rami caduti, cespugli e rocce lacerarono il caban che

indossavo e mi scipparono il piccolo zaino.

Il quarto ricordo fu che esisteva il tempo e che questo

aveva una sua unità di misura, ma la dimensione di

quello che fu necessario per completare quella

miracolosa discesa non mi fu possibile stimarla.

L’ultimo tratto lo feci nel vuoto. Mi schiantai in una pozza

di fango che sembrò persino calda e accogliente. Il vicino

rumore di acqua corrente conciliò il mio deliquio.

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Non so quant’altro tempo trascorse da quando persi

conoscenza a quando la ritrovai. Le sensazioni di quei

momenti convulsi si susseguono nella mia mente ancora

adesso come una sorta di alternanza di frammenti

confusi.

Ricordo che mi svegliai grazie a rade gocce d’acqua che

mi cadevano sul viso. Dischiusi gli occhi, ma non vidi

nulla. Nero. Il buio scuro e il crescente picchiettare di

acqua sul mio corpo. Il primo pensiero: ho perso la

vista… il secondo pensiero: sono morto e questo è il mio

inferno.

All’inferno pioveva.

Nell’oscurità assoluta potevo tastare la fanghiglia in cui

mi trovavo e sentire la pioggia, ormai scrosciante,

drenata da quello che doveva essere un fitto bosco che

mi circondava. Un lampo mi proiettò nella mente

l’immagine inquietante di alberi che sembravano intimoriti

dalla mia presenza. Almeno la vista non mi aveva

abbandonato, mancava da capire se invece fossi morto.

Un tuono fragoroso riecheggiò per lunghi istanti. La

pioggia si intensificò. Lampi intermittenti mi raccontarono

che ero precipitato in un dirupo, che era notte fonda e un

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temporale allarmato per le mie condizioni si era preso la

briga di svegliarmi. Brancolai, arrancando verso quella

che sembrava una parete di roccia e lo sforzo fu

premiato con la scoperta di un angolo asciutto su cui

poter riversare un po’ di umidità.

Le ossa, forse non del tutto intere, erano certamente

bagnate. In quell’anfratto passai alcune ore di quella

interminabile notte, nella speranza di arrivare all’alba e

scoprirmi ancora vivo. Lampi e tuoni si susseguirono

tanto da non riuscir più a capire cosa fosse causa e cosa

effetto. L’avara ma intensa luce prodotta dai fulmini era

una benedizione che spezzava la monotonia di tenebre

che al contrario erano fin troppo generose. Il temporale

se ne andò lasciandomi in compagnia del gocciolare

delle piante. Poi arrivò un inatteso odore di bruciato. Vidi

del chiarore e sperai si trattasse dell’alba. Ma era molto

meglio di un’aurora acerba, si trattava di un albero che

bruciava dopo esser stato colpito da un fulmine. La

pioggia era cessata e tanto bastò per convincermi a

strisciare fino al tronco in fiamme.

Il quinto ricordo fu la sensazione di benessere innescata

da quel calore e il profondo senso di gratitudine nei

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confronti del fuoco crepitante. Mi sfiancai per togliermi il

cappotto caban. Molto di più per sfilarmi il maglione. Con

alcuni rami spezzati mi aiutai a stendere quei due

indumenti e avvicinarli il più possibile all’albero

incendiato. Tremavo mentre osservavo l’alone generato

dal vapore. Era un buon segnale e quando questo si

attenuò dissolvendosi del tutto, decisi che era giunto il

momento di consumare anche l’ultima energia rimasta

nel mio corpo.

Togliersi gli scarponi, i pantaloni, la camicia e tutto il

resto fu un’operazione talmente ardua da consumare le

mie ultime forze. Misi tutto ad asciugare e rimasi coperto

dal solo caban che mi fece da mantello.

Mentre mi spogliavo ero riuscito anche a scrutare le

condizioni del mio fisico. Le gambe avevano lividi ed

ematomi, graffi ed escoriazioni, ma sembravano ancora

intere. La caviglia destra era gonfia. Il torace era

ricoperto da numerose tumefazioni. A giudicare dal

dolore che provavo nel respirare, qualche costola doveva

essersi incrinata o forse addirittura rotta. Le mani erano

ricoperte da piccole lacerazioni provocate dagli inutili

sforzi compiuti nel tentativo di aggrapparmi a qualcosa

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che potesse rallentare la caduta. Sulla testa una ferita

gonfia e dolorante.

Avevo vissuto in maniera frenetica quegli eventi

angoscianti e fu uno strano istinto di sopravvivenza che

mi aiutò a trattenere nella mente i primi cinque eventi

significativi di quella giornata. Non ho più memoria di

quale fu la precisa sequenza temporale dei ricordi dopo il

sesto, ma quello lo rammento bene.

Il sesto ricordo furono tre domande: cosa ci faccio qui?

dove sono? e io… io chi sono?

Poi mi addormentai o forse persi ancora conoscenza.

***

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