il calendario del popolo - periferie fisiche periferie mentali

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News & Politics


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Il Calendario è una rivista di cultura fondata nel 1945. Questo numero (il 757) tratta delle periferie: non solo urbane ma anche mentali, sociali ed economiche. Questo numero comprende l'articolo di Barbara Meo-Evoli: "Venezuela, 3 milioni di case in sei anni", un'intervista al ministro per la Trasformazione rivoluzionaria di Caracas, Francisco “Farruco” Sesto. L’obiettivo della “Missione Casa” descritta nell'articolo è quella di costruire migliaia di abitazioni per le classi disagiate e ristrutturare i quartieri popolari venezuelani. Con il 50 per cento della popolazione che vive in case precarie costruite dagli stessi abitanti, il Venezuela ha molta strada da percorrere per permettere una vita dignitosa a tutti i suoi cittadini. Con questo chiaro obiettivo il governo socialista di Hugo Chávez ha creato nel 2011 un piano nazionale di edilizia popolare con lo slogan: “Missione Abitazione: il diritto di vivere davvero”.

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di Alexandra Petrova

il crocevia

È difficile non essere d’accordo con čechov: «Senza la conoscenza delle lingue ci si sente come senza passapor-to». Ma l’attuale fase del multilinguismo improvviso, che ricorda la biblica divisione delle lingue, non sembra tanto rosea: le persone hanno smesso di capirsi. Si è sco-perto che per lo stesso concetto si possono usare parole completamente diverse. E si è scoperto anche che se per un concetto c’è una parola in una lingua, può non esiste-re in un’altra, perché è il concetto stesso a mancare. La differenza fra le culture non sta solo nelle parole, ma nell’idea del mondo che riflettono. Tuttavia an-che due persone che parlano la stessa lingua possono avere una memoria diversa e quindi avere difficoltà di comunicazione.J.M. Lotman parla di qualsiasi comunicazione come della traduzione del testo dalla lingua del mio “Io” alla lingua del tuo “Tu”. La traduzione è possibile perché, nonostante la non coincidenza, i codici “dell’Io e del Tu” formano delle moltitudini incrociate. Avete mai fatto caso all’enorme quantità di libri recenti che in un modo o in un altro parlano di traduzione? Il linguaggio dei gesti, Cosa dice il nostro corpo, La lin-gua del cinema, Capire il proprio cane, i dizionari felini: ebbene sì, ormai sappiamo che anche la flora parla, e in un futuro vicino probabilmente avremo vocabolari dal “fiordalisiano” e dal “camomilliano” all’umano. “L’Io”, come fosse un’isola, è circondato dalle altre isole e terreferme del “Tu”, “Voi”, “Loro”, che parlano lingue estranee, a volte allettanti, ma difficilmente compren-sibili. La vita isolana, seppur romantica, è poco sana e porta alla circolarità, all’impoverimento mentale e alla stagnazione. Non a caso il declino dell’economia di alcu-ni paesi è legato alla loro chiusura politica e al divieto di attraversare i confini.

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Torre Vecchia,

Roma 2010

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Siamo costretti a intraprendere il pericoloso viaggio della traduzione ogni giorno. Qualsiasi traduzione non meccanica, però, stimola in noi il potenziale creativo, e più lontana è una certa lingua o cultura dalla nostra, più forte e fertile può essere l’apprendimento di questa lin-gua e la sua traduzione nella nostra. Se “l’Io” rappresenta una specie di centro del mondo, “Tu”, “Voi” e “Loro” ne sono la periferia. Il confine fra noi è fatto anche di lingue e di codici culturali. Il confine del nostro essere fisico è la pelle. Ci difende e allo stesso tempo rappresenta un trasmettitore del mondo esterno. La lingua e la traduzione possono essere paragonate a un confine simile, ma esclusivamente mentale. Stanno dentro e fuori di noi. Sono quello che diamo e quello che, trasformato dagli altri, assorbiamo. Se un abitante del Medioevo inglese venisse trasportato nelle strade dell’Iowa, sarebbe costretto a adattarsi non solo alla lingua inglese moderna, ma anche al linguaggio dei semafori e a mille piccoli dettagli quotidiani, per noi insignificanti. Immaginiamolo al supermercato o in ban-ca. Probabilmente a ognuno di noi è capitato di diventare almeno una volta un abitante del genere, quando ci sia-mo trovati in un Paese o in un posto straniero, con codici diversi dai nostri. Immaginiamo di ritrovarci nel Medioevo o, senza torna-re così indietro, nell’Ottocento. Pur conoscendo la storia, inciamperemmo subito, già dovendo chiamare qualcuno. Fino a poco tempo fa esistevano dei titoli rituali, basati ri-gorosamente sul rango sociale e sull’origine. Nella Russia zarista il funzionario di quarto rango doveva essere chia-mato diversamente da quello dell’ottavo, e ancora più diversamente da quello del quattordicesimo. L’archiman-drita, il vescovo e il parroco non venivano chiamati nel-lo stesso modo. Per rivolgersi a un conte o a un principe bisognava usare una formula diversa da quella usata per il semplice nobile. Gli stessi russi ormai non avvertono nes-suna differenza, le sottili sfumature sociali sono sparite col tempo e hanno quindi bisogno di precisazioni, che sono una specie di traduzione. Ma come tradurre realtà simili in altre lingue, dove queste gradazioni non esistevano? L’incomprensione dei codici porta a errori grossolani, a svarioni e a gaffe. Può portare perfino a uno scandalo o alla guerra. Anni fa – ero da poco arrivata in Israele e lavoravo come segretaria in uno studio medico – ho dovuto trascrivere i risultati delle analisi di un paziente. Studiavo l’ebraico all’università e cercavo di parlarlo il più possibile. Ma ascoltavo anche le mie figlie piccole e i loro amici. Nel re-ferto ho scritto: «La merda del paziente è nella norma».

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Non siamo arrivati alla guerra, ma il dottore si è dovuto scusare spiegando a un anziano impiegato di qualche ministero che ero una nuova immigrata, ola hadasha. I sinonimi non sono sempre intercambiabili. Quanti errori grossolani sono stati ammessi nelle tra-duzioni della letteratura classica e di quella cosiddetta sacra! Un traduttore o uno scrivano stanco o semplice-mente ignorante si è sbagliato sulla pergamena, e l’er-rore è arrivato fino ai giorni nostri sui libri e sul web, deformando la nostra comprensione, anche se poi ci adattiamo perfettamente all’oscurità del testo, innestan-dolo nella nostra cultura. Al punto che l’esistenza senza questo errore, che insieme alle altre traduzioni è diven-tato parte del nostro contesto, sembra impensabile: «È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago

che un ricco entri nel regno dei cieli», si legge nel vangelo secondo Marco. Sembra però che il traduttore abbia con-fuso gamla (cammello) e gamta (fune). Una sola lettera in aramaico e una sola in greco: kamelos e kamilos. Cer-tamente una fune non può passare nella cruna di un ago, ma se ci provasse un cammello, lo incontreremmo nel mondo di una fiaba e non della logica quotidiana. Invece abbiamo tutti accettato questa frase, che fra l’altro è una delle più citate. Circa 100 errori simili sono stati pubbli-cati nell’Enciclopedia degli errori della bibbia (2003) da Walter-Jörg Langbein, che conosce l’ebraico antico, l’aramaico, il greco e il latino.E se fossero simili anche le nostre traduzioni mentali di altre visioni o luoghi lontani da noi? Chi decide cosa en-trerà nel canone e cosa sarà lasciato all’apocrifo?

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Un giorno un apocrifo diventerà centrale e un canone perderà importanza per poi, frammentandosi e mi-schiandosi, dividersi e polarizzarsi di nuovo.Lasciando quasi 20 anni fa la Russia, distanziandomi dal nostro egocentrismo culturale, quindi da una specie di provincialismo, sono scappata in una piccola e strana cit-tà, considerata, come si sa, la capitale del mondo, rispet-to alla quale tutti gli altri punti dello spazio geografico culturale possono essere visti come province. «Così dice il Signore Dio: Questa è Gerusalemme! Io l’avevo collo-cata in mezzo alle genti e circondata di paesi stranieri». Nel XIII secolo sulle mappe del mondo disegnate in Europa, al centro del cerchio che rappresenta le terre conosciute se ne vede un altro, piccolo ma vivido come il sole: Gerusalemme. Nelle mappe del XVI secolo, Ge-

rusalemme, come il cuore di un fiore, è circondata dai petali dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. E anche se il centro del mondo cristiano si è spostato rispetto a quello ebraico, di un chilometro a Ovest, Gerusalemme non ha ancora ceduto la sua posizione.Il paradosso, però, sta nel fatto che Gerusalemme è una provincia nel senso originario della parola, che veniva usata per indicare esattamente il territorio conquistato dagli antichi romani e comandato dal governatore roma-no. Colonia Aeliae Capitolina fu il nuovo nome datole dall’imperatore Publio Elio Adriano, che aveva costruito sulle sue rovine, lasciate dai conquistatori, una città più adatta ai suoi gusti: le strade dritte, il castro, il palazzo pretoriale e una statua che lo ritraeva a cavallo, al posto del Secondo Tempio. A quei tempi esisteva già qualche Adrianopoli, il cambiamento del nome era una proce-dura di routine. Ma i giudei ingrati si impuntarono e fu necessario adottare un’altra tradizione: la distruzione totale, la cancellazione senza tracce. Dopo questo evento Gerusalemme passò in altre mani. A causa di questa du-plicità la città, che è diventata la capitale non solo celeste ma anche amministrativa di un Paese risuscitato dopo 2.000 anni, si trasforma di continuo da terra promessa a luogo accessibile e all’improvviso anche banale, lontano e periferico. Per la maggior parte della popolazione Ge-rusalemme rimane una provincia, spostata dal punto di vista della patria fisica, non storica. Si può abitare qui, ammirando la vista dal Monte di Sion o da quello degli Ulivi, ma guadagnarsi da vivere restan-do legati al nostro Paese di origine, vendendo il caffè brasiliano o pubblicando una rivista russa. Sul piano dell’eternità (terrestre) Gerusalemme è un cardine, su quello contemporaneo è una città polverosa del Medio Oriente, che si affanna a rincorrere i ritmi dell’America e dell’Etiopia, della Russia e del Libano o dell’Egitto. Ogni persona qui ha un doppio o triplo fondo. Al tempo stesso periferia e centro, questa città si ribella contro sé stessa. Le sue lingue si dispiegano nello spazio confuso dell’intraducibilità: a volte trovano la strada centrale del dialogo, ma poi deviano e riprendono a ignorarsi l’un l’altra. Proprio qui si accentua l’instabilità delle incrolla-bili tradizioni: due Golgota, due luoghi dell’Assunzione di Maria, due luoghi dell’Ultima Cena. Questo non è un imbroglio, non è una profanazione, ma uno spazio uni-co dell’unione della Gerusalemme Celeste e della Geru-salemme Terrestre, dove il motore dell’idea accesa una volta gira come un perpetuum mobile. A Gerusalemme inevitabilmente nasce la curiosità verso Roma, che un tempo ha segnato il suo destino. A Roma però trovi la

Torre Vecchia,

Roma 2010

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Times Literary Supplement e ha scritto il saggio L’im-migrazione come procedimento artistico, una volta si è definito un Homo Duplex. Un immigrato, originario del Nord Africa, ha detto di sé e di chi è come lui: «Siamo gli uomini della duplice assenza». Bisogna fare uno sforzo enorme per rimanere sull’asticella dell’Homo Duplex: anche se è psicologicamente sdoppiato, è sempre meglio che essere un uomo della duplice assenza. Gli scienziati dicono che entro il 2040 un miliardo di persone lascerà il luogo d’origine per motivi economici, politici o climatici. Grazie alla tecnica ci sentiamo dap-pertutto a casa già adesso. Ma forse i rifugiati, pur aven-do il cellulare, non si sentono a casa in nessun luogo. La persona che vive in un crocevia culturale può avere tutte e due le sensazioni. Ha la ricchezza di due o più mondi e a volte ha la sensazione di non averne nessuno. A volte gli è più facile rispondere alla domanda “dove sono?” che a “chi sono?”.Ogni giorno si spegne qualche dialetto o lingua, ma allo stesso tempo nascono lingue nuove. Quelle dei gruppi chiusi, le lingue artificiali, le lingue fantastiche. A volte le lingue morte o moribonde risuscitano, com’è capitato all’ebraico e forse capiterà allo yiddish. Il traduttore che ha dovuto far “parlare” i bancomat del Vaticano in latino aveva sicuramente un buon senso dell’umorismo.La coesistenza fra varie lingue e culture rimarrà sempre una cosa attuale, e sempre ci sarà bisogno di persone che armoniosamente o drammaticamente vivono al crocevia delle tradizioni, nell’intersezione del proprio centro e della periferia dell’altro, come Filone di Alessandria, che ha tradotto non solo le unità linguistiche ma un organi-smo intellettuale, come nei secoli grazie a Roma sono state “tradotte” Gerusalemme e Atene.Gli antichi romani, che s’intendevano di spostamenti, per indicare il concetto di traduzione usavano la parola traducere, che letteralmente significa trasportare, ma più spesso usavano vertere, che vuol dire girare, volgere. Questa capacità di assimilazione ha creato un’esplosione culturale, le cui schegge girano ancora nel campo della nostra memoria collettiva. Proprio loro hanno permesso a Borges – che ha letto la Divina Commedia in un tram di Buenos Aires mentre andava al lavoro, prima nella traduzione di Chaucer e Longfellow e poi nella versione originale – di scrivere nel saggio Il mio primo incontro con Dante: «Si dice che tutte le strade portino a Roma; sarebbe meglio dire che Roma è senza confine e che, sot-to qualsiasi latitudine, siamo a Roma».

stessa Gerusalemme, solo tradotta e adattata, come una volta erano adattati i culti di Iside, Serapide o Mitra, nei templi in cui si può scendere ancora oggi, abituandosi al buio dei secoli nascosti. Roma ha ingoiato Gerusalemme come un vincitore cannibale mangia la carne del nemico, per sentirsi più potente dopo aver digerito la sua forza. Arrivata a Roma da poco, un giorno ho detto a una vec-chietta devota al culto di san Pietro, mai uscita dalla sua città, che in Israele ero stata nel luogo dove Pietro aveva rinnegato Gesù. «Incredibile!», ha esclamato. «Anche da voi lo conoscono?» Possibile che quella signora, pur ignorante, ma che come minimo tutte le domeniche an-dava in chiesa, avesse dimenticato la provenienza dell’a-postolo? Forse l’aveva semplicemente adottato, come un orfanello scalzo del Sud, trasformandolo in figlio pro-prio, così familiare da potergli toccare i piedi anche ogni giorno. Roma è un altro centro che ha perso e al tempo stesso conservato la sua centralità, anche se nel tentativo di riprodurla a volte ha raggiunto l’eccellenza artistica, a volte è caduta nel ridicolo. Quel centro, un tempo temuto dagli altri popoli, mischiandosi con Gerusalemme otten-ne un doppio potere, imponendo la sua volontà urbi et orbi e difendendo la sua unica verità, congelata nel co-dice. La ribellione delle province cattoliche rimpicciolì il suo centro, creando ai suoi margini centri nuovi.La scelta dei protestanti di tradurre la bibbia non dal latino ma direttamente dall’ebraico e dal greco si basò senz’altro su una decisione politica. Il loro coraggio nello sconfiggere il vecchio padre troppo autoritario è ancora più ammire-vole se consideriamo che la chiesa cattolica romana non incoraggiava le traduzioni della vulgata, e che in un cer-to periodo per leggere la traduzione bisognava chiedere il permesso all’Inquisizione. L’influenza esplosiva della traduzione fatta da William Tyndall nella lingua e per la chiesa inglese fu tale che presto l’autore finì dietro le sbar-re. Lì continuò il suo lavoro sulla traduzione del vecchio testamento, finché non fu messo al rogo come eretico. Le persone che nascono, si trovano o si mettono al croce-via delle culture hanno un ruolo speciale. E non solo gli eroi come Tyndall, gli avventurieri come Casanova e Ca-gliostro o gli scrittori bilingui, ma anche i semplici osser-vatori dell’altra realtà, che trasmettono alla propria lingua e cultura nuovi geni e che, grazie alla convivenza fra due realtà, versano concetti nuovi nella propria cultura. È un destino a volte duro, soprattutto quando non è lega-to alla nascita. Zinovij Zinik, uno scrittore russo-inglese che abita da più di 30 anni a Londra, collabora con The

Bufalotta,

Roma 2011

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SoMMario

di Alexandra Petrova

di Sandro Teti

di Laura Peretti

di Salvatore Settis

di Angela Barbanente

di Edoardo Salzano

di Laura Peretti

di Giovanni Caudo

di Paola Di Biagi

di Giulia Fortunato

di Daniel Modigliani

di G. Biondillo (e M. Monina)

di K. Bermann e I.C. Marinaro

di Francesco Marullo

di A. Cecchini e V. Talu

di Barbara Meo Evoli

di Monica A.G. Scanu

di Sara Basso

di R. Vecchi e M. Mancini

di Ludovico Ciferri

di Cesare Moreno

di Armando Punzo

di Fulvio Rizzo

di Cristiana Martinelli

di Sebastiano Costanzo

di Aanchal Anand

di Flora Albarano

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Il crocevia

Editoriale

Leggere luoghi, mentali e fisici

Paesaggio, Costituzione, degrado

Paesaggio e spazi periferici

Territorio globale Scrivere a margine del centro -intervista a Eduardo Souto de Moura

Dalla borgata alla nebulosa

Spazio pubblico e periferia

Il nuovo centro (commerciale)

Il tempo della metropoli

Passeggiando in tangenziale

Segregazione / Dezingarizzazione

Strategie dell’incerto

Contro la sparizione della città

Venezuela: 3 milioni di case in 6 anni -intervista a “Farruco” Sesto

Da Super Barrio Gòmez a Guerriglia Gardening

Da casa dormitorio all’housing sociale

Le mille voci residuali delle favelas

Tokio e gli anziani di centro città

Maestri di strada

Il teatro apre il carcere

Libertà provvisoria

Immagini di periferia

Fotografie

Cinque motivi per ringraziare l’URSS

Recensioni

Elenco Sostenitori / Librerie

Novità in libreria

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Proprietà editorialeTeti S.r.l.

Direzione, RedazioneAmministrazionePiazza di Sant’Egidio, 9 Roma 00153C.F. / P. IVA 06449211009Tel.: 06.5817905606.58334070Fax: [email protected] info@sandrotetieditore.itwww.calendariodelpopolo.itwww.sandrotetieditore.it

ISSN: 0393-374Distribuzione: JOO DistribuzioneStampa: Tipografia Facciotti

Prezzo: € 9,00Rivista Periodica Registrata presso il tribunale di Milanon.159 del 9/7/1948

N. ROC 22386

Modalità pagamento: BOllETTINO POSTAlEVersamento su c.c.p. n. 1005911076intestato a Teti s.r.l.

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Direttore ResponsabileSandro Teti

Art Directorlaura Peretti

Curatrice laura Peretti

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Ufficio StampaFederica la RosaKatrine Melis

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Blog e Social NetworkTommaso Sabatini

Archivio Digitale Piero Beldì

Comitato dei GarantiZhores Alferov

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Sergio Bellucci

luciano Canfora

Franco Cardini

luciana Castellina

Dario Coletti

Guido Fanti

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Carlo Ghezzi

Margherita Hack

Emilio Isgrò

Milly Moratti

Diego Novelli

Piergiorgio Odifreddi

Mauro Olivi

leoluca Orlando

Moni Ovadia

Valentino Parlato

Piercarlo Ravasio

Guido Rossi

Sergio Serafini

Nichi VendolaFranco della Perutadal 1977 al 2010

Giulio Trevisani dal 1945 al 1969

Direttori

Carlo Salinari dal 1969 al 1977

Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie, anche non professionali, volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni, eccetera). Cerchiamo anche vecchi volumi delle Edizioni del Calendario. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca lendario e soprattutto degli Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio della rivista.

Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie, anche non professionali, volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni, eccetera). Cerchiamo anche vecchi volumi delle Edizioni del Calendario. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca lendario e soprattutto degli Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio della rivista.

Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie – anche non professionali – volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni ecc.). Cerchiamo anche vecchi volumi delle Edizioni del Calendario. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca lendario e soprattutto degli Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio della rivista.

in copertina Sebastiano CostanzoBufalotta, Roma 2010

FotografieSebastiano Costanzo

RingraziamentiAngela BarbanenteGiulia FortunatoMonica ScanuMarisa MinolettiEmiliano Chiusa

Il Calendario del Popolo èsocio del CoordinamentoRiviste Italiane di Cultura

Periodico associatoall’Unione Stampa Periodica Italiana

Cari abbonati e cari lettori,stiamo cercando di contattarvi tutti telefonicamente, ma abbiamo difficoltà a reperire i vostri contatti.Comunicateceli per favore ai numeri 06.58334070 - 06.58179056, al fax 06.233236789 oppure via e-mail a: [email protected]@sandrotetieditore.it

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di Sandro Teti

editoriale

Questo è stato un anno difficilissimo – se non tragi-co – per i lavoratori e l’economia del Paese. La crisi ha colpito duramente anche il settore dell’editoria e in particolare le riviste: molte sono state costrette a chiudere definitivamente, altre sono riuscite a so-pravvivere solo passando a una versione elettronica, rinunciando all’edizione cartacea.Il Calendario del Popolo, anche grazie ai suoi abbo-nati, è riuscito a resistere e continua a essere stam-pato su carta. La versione elettronica comporterebbe un notevole risparmio per l’editore, ma non vogliamo e non pos-siamo sottrarre ai nostri lettori il piacere e l’abitudine di sfogliare una rivista che viene da molti anche col-lezionata.Questo è il penultimo numero del 2012, l’ultimo sarà costretto quindi a slittare all’inizio dell’anno entrante; siamo in ritardo e ce ne scusiamo, facciamo tutto il possibile per continuare le pubblicazioni ma le diffi-coltà sono tante. Come promesso, confermiamo che in futuro la parte non monografica della rivista sarà molto ampia – in questo numero è ridotta esclusivamente per la grande abbondanza di materiali raccolti dalla curatrice Laura Peretti. Non abbiamo voluto sacrificare l’argomento di questo Calendario, poiché non solo è importante e delicato ma soprattutto è di grande attualità. Si tratta del tema delle Periferie: non solo urbane, ma anche mentali, sociali, economiche; l’argomento è molto più vasto di ciò che il vocabolo “periferia” su-scita nell’immaginario collettivo.

L’approccio interdisciplinare con cui viene affrontato l’argomento apre al lettore nuovi orizzonti e nuove interpretazioni. Il dibattito sulla riforma delle perife-rie, che da molti anni coinvolge architetti, urbanisti, psicologi, economisti, giornalisti e sociologi, trova in queste pagine un importante momento di riflessione. Dalle nostre periferie alle grandi periferie del mondo, attraverso studi, interviste ed esperienze viene foto-grafata una realtà che, pur riguardando da vicino la maggioranza della popolazione, spesso viene margi-nalizzata anche da chi la vive, lasciando spazio alle speculazioni economiche e sociali.Le elezioni primarie del centrosinistra hanno dimo-strato come la partecipazione può riavvicinare le persone alla politica. Partecipazione che, allo stesso modo, è una premessa indispensabile a buone prati-che di gestione del territorio, poiché esso è un bene comune di primaria importanza. Capire quali sono le reali dinamiche che sottostanno ai fenomeni urbani è infatti fondamentale non solo per gli specialisti del settore ma per ogni singolo cittadino.Le pagine de l’altro Calendario, pur ridotte, ospitano la rubrica di recensioni librarie e un articolo a firma della studiosa indiana Aanchal Anand. La Anand, che non è comunista e lavora presso la Scuola di stu-di internazionali di Washington, dedica il suo scritto all’Unione Sovietica e riporta cinque incontrovertibili motivazioni per cui l’umanità dovrebbe essere grata a quel grande Paese.

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di Laura Peretti

leggere luoghi, Mentali e fiSici

Provando a immaginare un mondo migliore, mi pre-figuro alle volte che questo avvenga in luoghi che co-nosco. Ricordo molti luoghi della mia infanzia, un’età in cui ho avuto la fortuna di annusare i profumi della campagna, di correre con la bicicletta in sentieri aperti fra gli alberi e di incontrare qualche animale sconosciu-to nella terra e fra i cespugli. Da grande, poi, ho vissuto in diversi paesi e città, ma quell’esperienza di vivere a margine di una città che cresceva e di scoprire il mondo attraverso la geografia ancora leggibile di un luogo, di riconoscere “posti” particolari, fossero essi un angolo di casa, un albero, una collina o una strada, è un im-printing di cui ho perseguito le tracce come sinonimo di autenticità e felicità. L’atlante geografico-emotivo della mia infanzia è un modus vivendi da cui non riesco a prescindere quando, come architetto, devo pensare a ciò che quel luogo diverrà – poiché l’architettura opera una trasformazione di un sito e può perciò anche detur-parlo per sempre – e, per mia colpa, qualche bambino dopo di me potrebbe non trovare più traccia alcuna di quell’unicità che quella geografia ascriveva a quel luogo. Sebbene il parametro esperenziale sia soggettivo, è pur vero che persino buona parte della filosofia ha dibattuto per secoli sulla verità della percezione come fonte di un sistema di pensiero: senza questa pretesa, ma dovendo parlare di quel terreno di mezzo che mi appare essere la periferia, non posso che far riferimento a una ricerca di identità, che è sempre più essenziale laddove le nostre città e il nostro paesaggio offrono costantemente pano-rami poco edificanti e soprattutto chiedono con urgen-za di definire strategie e visioni che possano aiutarci a chiarire che fare del nostro ambiente circostante, natu-rale e urbano, vasto o ristretto che sia.

è così che questo numero de Il Calendario del Popolo si è composto cercando di ascoltare molte voci, senza pretendere la coerenza di tutto il coro, ma soprattutto per comprendere le molte dimensioni e ambiti di rife-rimento che la periferia coinvolge: da subito ci è parso che periferia non sia solo un modo del territorio, ma an-che specularmente un modo di pensare noi stessi come

cittadini e abitanti di questa terra. Le periferie mentali perciò non riguardano solo quei brani di racconto che stanno ai lati della vita attiva – la prigione, la malattia, la vecchiaia o l’emarginazione sociale in generale – ma hanno anche a che fare con l’energia di una specifica regione informe e poco definita in cui sorgono fermenti, nascono nuove forme di comportamento nella società e, quasi in contraddizione con la loro apparente minori-tà e marginalità – assieme a quelle fisiche – divengono luoghi centrali e protagonisti degli sviluppi futuri. Raggi di periferia in piena città – con cui si chiude il numero, è cioè il telaio di riferimento, un tema che vie-ne sviluppato nei testi-testimonianza di Cesare Moreno (Maestri di Strada) Armando Punzo, Fulvio Rizzo (l’e-sperienza del teatro in carcere), Roberto Vecchi e Mar-tina Mancini (le favelas brasiliane) e Ludovico Ciferri (Tokio e gli anziani di centro città) – con cui si chiude il numero, è la tela di riferimento che ribalta la prospet-tiva negativa con cui si guarda normalmente alla peri-feria. Testimonianze che dimostrano che laddove più forte è l’esigenza di centralità della persona tanto più si addensano le reali “riqualificazioni” e avvengono vitali spostamenti di prospettiva anche nello spazio fisico.

Il testo con cui inizia questo numero del Calendario, Il crocevia, della poetessa russa Alexandra Petrova, intro-duce il tema della lingua delle periferie: ibrido per eccel-lenza, l’essere senza passaporto, corrisponde a colui che non sa parlare le lingue. Spesso la traduzione non è pos-sibile, manca l’omologazione dei concetti e questo parla-re diversamente corrisponde esattamente a quel terreno ambiguo che è il teatro della rappresentazione: non più campagna, non ancora città, la periferia resta sospesa al crocevia di un’identità a mezzo cammino, ricca tuttavia di uno spazio creativo che è la sua fondamentale risorsa.

Nella sezione paesaggi e periferia, Salvatore Settis ci introduce a una concezione culturalmente ampia di paesaggio e ne appunta il valore di bene comune, sot-tolineando come dal locale al nazionale niente debba essere considerato periferia. Angela Barbanente, asses-

Enrico Mitrovich, olio, acrilici e pastelli su tela

Rotatoria dell’Albera (o del Villaggio del Sole)

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sore al territorio, trasforma in progetti concreti il piano paesaggistico e ci racconta la sua esperienza in Puglia.La sezione la città infinita/centri e periferie tenta di inquadrare il fenomeno di una città che si allarga inde-finitamente senza limiti, in cui la dinamica centro-pe-riferia è sempre meno chiara e sufficiente a spiegarne i contorni. Edoardo Salzano, urbanista, ne fa una sin-tesi completa, dalla questione della rendita fondiaria alla globalizzazione, e ci fa intravedere come non sia la distanza dal centro il problema principale. Un po’ di-versamente la pensa Eduardo Souto de Moura, archi-tetto premio Pritziker, che di questo rapporto mette a fuoco l’invariata qualità attraverso i secoli: è da qui che bisogna ripartire per una nuova modernità dopo le teorie che hanno spinto alla separazione delle parti, specializzandone alcune a scapito di altre. Giovanni Caudo ci descrive, dati alla mano, la relatività del con-cetto di periferia: oggi la Roma delle borgate è divenuta una nebulosa le cui direttrici di espansione travalicano persino i confini regionali, mentre Paola Di Biagi vede lo spazio pubblico come un riscatto possibile delle no-stre periferie-dormitorio. Sempre all’interno della dia-lettica centro-periferia, avvengono strani ribaltamenti: Giulia Fortunato ci racconta l’evoluzione di un centro commerciale americano che ritorna alla città e viene ristrutturato separando le parti del grande contenitore indifferenziato fino a farlo divenire un insieme di edifi-ci aperti su una strada, elemento generatore per eccel-lenza del tessuto urbano; Daniel Modigliani affronta il tema della mobilità e del tempo di ognuno di noi dentro allo spazio modificato della metropoli, raccontandoci anche la Roma che ha provato a immaginare nel 2008 con il nuovo piano regolatore.

è il racconto di un grande camminatore ad aprire la sezione riguardante le strade e i vuoti della periferia, quello dello scrittore-architetto Gianni Biondillo che, con Michele Molina, ha descritto il paesaggio lungo la tangenziale milanese con la curiosità dell’esploratore di un nuovo mondo: intorno a questa arteria di grande scorrimento emerge la periferia in ebollizione, nella sua espressione più viscerale e brutale, ma anche la poeti-cità di frammenti di campagna casualmente rimasti al loro posto.A dare un nome appropriato all’apparente segregazio-ne di alcune aree della città ci pensano Karen Bermann e Isabella Clough Marinaro, anche loro abituate a sco-prire luoghi e a cercarne le logiche insediative: la lunga frequentazione con la comunità Rom ha loro permesso di spiegare il rapporto che intercorre fra la segregazione

di aree urbane e l’emarginazione di alcune fasce socia-li; il testo di Francesco Marullo puntualizza poi come queste dinamiche legate agli spazi vuoti non siano ca-suali ma piuttosto frutto di un pianificato procedere del capitalismo che si riserva sacche di rendita potenziale all’interno dei contesti urbani. Arnaldo Cecchini e Va-lentina Talu, constatato l’autoisolamento e la localizza-zione sempre meno individuabile dei quartieri-fortino

dei ricchi più ricchi, propongono strategie per ridare potere a fasce di cittadinanza emarginate dall’urbani-stica recente, per evitare la progressiva sparizione delle città e della loro vita urbana.

Nella sezione la casa per tutti/abitar partecipando, ospitiamo l’intervista a Francisco “Farruco” Sesto, Mi-nistro per “la trasformazione rivoluzionaria di Caracas”, che descrive come il governo venezuelano sta affron-tando la crescita selvaggia attraverso la “missione abi-tazione”. Questo programma è stato peraltro premiato nell’ultima Biennale di Architettura a Venezia. Monica Scanu ci racconta di quella ribellione civile che assu-me forme inconsuete e creative di tutela del territorio: Super Barrio, un moderno e molteplice Robin Hood difensore dei cittadini messicani minacciati di espro-prio e il movimento di occupazione verde di Guerriglia Gardening, sono sfaccettature della stessa volontà di partecipazione riappropriazione popolare della città. Sara Basso, infine, descrive i punti salienti della lunga e composita storia dell’edilizia popolare, dall’evoluzione teorica alle buone pratiche di housing sociale odierne.

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di Salvatore Settis

paeSaggio, coStituzione, degrado

«Una quercia che cade fa molto rumore; ma una gran-de foresta cresce in silenzio». Questo proverbio cinese descrive bene lo scenario italiano che stiamo attraver-sando. Guardiamo increduli il crescente degrado delle nostre città e del nostro paesaggio, e ci sdegnamo ogni giorno per il cinismo dei (pochi) colpevoli, per l’indiffe-renza dei (molti) spettatori, per le alleanze e compro-missioni di fatto fra chi devasta i nostri orizzonti di vita e amministratori pubblici di ogni livello e di ogni par-tito. Se manifestiamo la nostra indignazione, veniamo spesso accolti da commenti infastiditi, accusati di inuti-le pessimismo, invitati a rassegnarci e a pensare ad al-tro. È vero il contrario: «sa indignarsi solo chi è capace di speranza» (Seneca). Ma se talora abbiamo la trista impressione d’esser rimasti soli a difendere i valori del paesaggio e della Costituzione, è perché non sappiamo ascoltare l’inarrestabile fruscio della foresta che cresce. Il nostro sdegno è assai più condiviso e diffuso di quel che crediamo, anzi ogni nuovo delitto contro ambien-te e paesaggio spinge altri cittadini a prender coscienza dell’abisso entro il quale stiamo rotolando. Il rapporto fra la dimensione nazionale e quella locale è sotto que-sto aspetto assolutamente essenziale: in una nazione che merita questo nome, nulla è periferia; ogni cittadi-no, ogni comune, ogni paesaggio deve essere degno di rappresentare l’insieme del Paese.Il degrado a cui assistiamo non riguarda solo la forma del paesaggio o dell’ambiente, gli inquinamenti, i veleni, le sofferenze che ne nascono e ci affliggono. Riguarda un complessivo declino della società italiana, della vita politica, delle regole del vivere comune. Riguarda la corruzione diffusa, l’uso disinvolto delle leggi, l’enorme evasione fiscale tollerata – cioè autorizzata – da governi d’ogni segno, il ruolo delle mafie nella vita pubblica e nell’economia. Riguarda la manipolazione delle notizie e la monetizzazione d’ogni valore, gli slogan perversi sui “giacimenti di petrolio” dell’Italia, sul nostro patrimo-nio visto come un serbatoio da svuotarsi in fretta per far cassa, senza nulla lasciare alle generazioni future. Riguarda la bassa sicurezza sui luoghi di lavoro, la crisi

della sanità, le differenze sempre più marcate da Regio-ne a Regione che violano l’egual diritto alla salute di tutti i cittadini (art. 32 Cost.). Ma questo vastissimo orizzon-te di crisi non è una buona ragione per rinunciare a un discorso specifico sull’ambiente e sul paesaggio. Anzi, è oggi più che mai necessario parlare di paesaggio, perché il paesaggio è «un entre deux fra la sfera dell’individuo e la sfera della vita collettiva» (M. Quaini), e dunque rappresenta una straordinaria cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive sé stesso in rela-zione all’ambiente che lo circonda e alla comunità in cui vive. Quale importanza annette alla propria salute fisica e mentale, quale ruolo assegna alla storia, alla cultura, all’identità dei propri luoghi e del Paese, in qual modo interpreta la gerarchia fra l’immediato vantaggio del singolo e il pubblico interesse della collettività, fra i tem-pi corti degli affaristi senza scrupoli e la lungimiranza della Costituzione. Se è in grado di comprendere che i danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come cittadinanza ma anche come individui: uno per uno.Oggi è più che mai necessario fare mente locale. Gli ita-liani hanno già cominciato, e la foresta di chi ha a cuore il paesaggio e il tema dei beni pubblici cresce senza rumo-re: lo provano le firme (un milione e 400 mila) raccolte dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua per un referendum che ha avuto poi un travolgente successo.Ci sono da anni le grandi associazioni (per citare solo le maggiori, Italia Nostra e il FAI, Legambiente e il WWF). Ma queste associazioni nazionali funzionano ancor me-glio a livello locale. Spesso i nuovi iscritti – e/o i più im-pegnati – trovano nella propria città, nei propri spazi di vita una forte motivazione, l’impulso a scendere in pri-ma linea. Non sempre vedono tutte le implicazioni sto-riche, giuridiche, politiche a livello nazionale, ma sanno indignarsi davanti a edifici storici svuotati e svenduti, a spiagge cementificate, a parcheggi sotto sant’Ambrogio o nel cuore del Pincio. È di moda bollare queste sensibi-lità con l’acronimo NIMBY (not in my backyard): pro-testare contro le nefandezze che vediamo sarebbe prova di meschinità, ma non è così. Il cittadino che per caso

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vede dalla finestra una rapina dovrebbe allora ben guar-darsi dal chiamare la polizia?È vero l’opposto: partire dalla propria diretta esperien-za, per quanto limitata e occasionale, può e deve esse-re il primo passo per una più vasta presa di coscienza. Facendo mente locale, si può ben giungere a una con-siderazione più globale dei problemi. Ci sono oggi in Italia moltissimi altri esempi che mostrano come dal microcosmo di un problema locale possa nascere, gra-zie all’associazionismo, alle discussioni, al confronto di cittadini fra loro, all’uso accorto della comunicazione via Web, l’acuta coscienza che il paesaggio è il grande malato d’Italia. Perciò questi comitati sorgono ogni giorno in ogni cantuccio d’Italia: sul traballante scena-rio italiano del 2012 sono un fatto nuovo molto impor-tante perché capillare, ramificato, massiccio. Perché è la prova lampante della distanza crescente fra i pochi che gestiscono il territorio tra menzogne e furbizie e la mol-titudine dei cittadini che non ne possono più. Insomma, è necessario, anzi urgente, sviluppare una rete di mille conoscenze locali di disastri e di problemi, costruendo una rete nazionale, che vincerà la sua battaglia se saprà far leva sull’azione civica come iniziativa volontaria, gratuita, una sorta di legittima difesa di sé stessi fatta in nome del bene comune. Non è impossibile, e lo mostra in Italia la diffusione e l’efficacia del volontariato, per esempio in occasione di calamità naturali.«L’attività del vivere e del conoscere uno spazio è un tipo speciale di attività cognitiva», anzi è al centro stes-so delle attività della mente. «Il processo di adattamen-to tra un individuo, un gruppo e un luogo» genera una forma di «territorialità umana» che «ha a che fare con la sopravvivenza, sociale e culturale oltre che fisica, con l’apprendimento e la cognizione» (La Cecla). Ma c’è una ragione in più per far leva sulla conoscenza locale par-lando di paesaggio. È una ragione molto importante: la nostra salute, del corpo e della mente. Ci sono infatti cose che non solo è utile sapere, ma è necessario non tenere per sé: chiunque si accorga di un pernicioso in-quinamento, per esempio di un fiume che passa in città

o di una discarica nei prati dietro casa, non può limitarsi a organizzare il proprio trasloco – ammesso che possa permetterselo – ma ha il dovere di avvertire i concitta-dini e le autorità che possono intervenire e rimediare. La lotta all’inquinamento ambientale fa parte ormai di una sensibilità molto diffusa, perciò chi pratica cinica-mente il business dell’inquinamento deve far di tutto per nasconderlo – così è accaduto con i rifiuti tossici nel mare della Maddalena. Ma dovremmo essere molto più consapevoli che l’invasione di scorie velenose e illecite nelle nostre campagne e nelle nostre città si accompa-gna spessissimo a speculazioni edilizie ai danni (anche) del paesaggio e dell’ambiente urbano. Salute del corpo, salute della mente: se riusciamo a cogliere il rischio che le devastazioni del paesaggio e dell’ambiente comportano per ciascuno di noi, oggi e nelle generazioni future, la nostra percezione, anche se inizialmente isolata e locale, potrà tradursi in impegno collettivo per la legittima difesa di noi stessi, cioè del pubblico interesse contro il cinismo di pochi profittatori. La nostra Costituzione offre il più alto quadro di riferi-mento, poiché essa tutela «il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione», e cioè prescrive un iden-tico livello di tutela, con identici criteri, in tutto il Paese. Se non vogliamo un drammatico affievolirsi del nostro orizzonte dei diritti, facciamo mente locale, orientando il nostro impegno sullo spirito della Costituzione.

estratto da: Paesaggio Costituzione Cemento.La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Torino, Einaudi 2010,edizione tascabile Torino, Einaudi 2012.

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di Angela Barbanente

paeSaggio e Spazi periferici

Le periferie, in queste note, sono intese non solo in sen-so geografico ma anche in una prospettiva multidimen-sionale, quali spazi che possono essere definiti di volta in volta in modo diverso, in rapporto alle dinamiche economiche e sociali dominanti: spazi della marginalità, dell’abbandono, della disattenzione, della disfunzionali-tà. Le periferie sono qui intese non solo con riferimento alla città o alle sue parti ma al più vasto territorio; non solo come entità materiale, ma come condizione men-tale. Riconoscere un ambito territoriale come periferico significa misurarne la distanza che lo separa dai centri che propagano valori e norme dominanti della società. In quest’accezione, la periferia è un luogo – non importa se geograficamente collocato nel cuore di una città o di una regione o in posizione decentrata – che è percepito (e percepisce sé stesso) come dissonante rispetto a que-sti valori e norme. Le periferie si fondano su relazioni di dominanza/dipendenza fra una parte centrale e parti da questa lontane, che sono perimetrate in base al re-ciproco legame di subordinazione, non solo economica ma anche culturale. Possono essere definiti periferie del territorio contemporaneo i nuclei antichi delle città in-teressati da processi di abbandono e degrado, quartieri di edilizia pubblica non più collocati nella parte estrema del territorio urbanizzato, borghi storici rurali occupati temporaneamente da migranti stagionali impiegati in agricoltura. Possono invece essere indicate come spazi periferici vaste aree considerate inutili, marginali, non funzionali, poiché l’unico criterio di giudizio è basato su indicatori economici e non vi è coscienza della ricchezza di biodiversità, di patrimonio culturale, di bellezza che le connota, neppure in chi in quelle aree vive e lavora. Le regioni del Sud fanno parte di un’unica grande re-gione, il Mezzogiorno, considerata dapprima periferia d’Italia e oggi periferia d’Europa. Noi pugliesi, in parti-colare, sappiamo bene cosa significa tentare di colmare la distanza che separa una regione periferica in ritardo di sviluppo da un centro sviluppato, perché tale tenta-tivo ha caratterizzato l’intero percorso di moderniz-zazione accelerata compiuto dalla Puglia nel secondo

dopoguerra. Un percorso accompagnato da processi di urbanizzazione e sfruttamento di risorse senza prece-denti, che ha pervaso profondamente e capillarmente territori e società. Nel tentativo, rivelatosi poi vano, di colmare i divari tra gli indici di ricchezza che lo separa-vano dal Centro-Nord d’Italia, nel corso della sua storia recente, il Mezzogiorno ha inseguito traguardi di cresci-ta economica fondati su interventi di origine esogena, ha promosso o più spesso subito i limiti di un modello di sviluppo eterodiretto e statocentrico, ha assistito con senso di impotenza o con complicità alla cancellazione di patrimoni di conoscenze, esperienze e capacità locali e all’omologazione e all’appiattimento delle proprie cul-ture materiali e immateriali. L’irruzione della modernità di fronte alla debolezza dei presidi culturali e istituzionali ha largamente manca-to di fondersi, o anche solo intrecciarsi con tradizioni, istituti e mentalità di tipo collettivo nell’uso del territo-rio. Per ragioni storiche, economiche e socio-culturali che non è possibile approfondire in queste note, al Sud più che altrove l’individualismo nell’uso delle risorse è emerso in tutta la sua forza di agente sociale senza re-gole e senza limiti. La debolezza strutturale, peraltro, ha teso a rafforzare la legittimazione politica e sociale di risposte private (spesso illegali) a problemi collettivi. Ne sono dimostrazione l’abusivismo edilizio, le prassi derogatorie, la difficoltà di darsi e di seguire regole con-divise e di adeguare quelle obsolete alle nuove domande sociali, l’elevato tasso di contenzioso. Ne consegue che la difesa dei beni comuni da distruzione, abbandono, spre-co, ignoranza è avvertita anche da prospettive per molti aspetti differenti, come presupposto essenziale per pro-muovere uno sviluppo sostenibile e durevole.

Il piano paesaggistico in Puglia – In Puglia, forse più che altrove, si è però diffusa la consapevolezza delle pro-messe deluse e dei guasti prodotti da una crescita senza progresso e dagli orizzonti precari, fondata sulle politiche delle grandi opere e dell’industrializzazione per poli pro-mosse dall’Intervento straordinario per il Mezzogiorno,

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inducendo a interrogarsi sulla possibilità di costruire per-corsi diversi da quelli delineati dai modelli di crescita e modernizzazione di carattere esogeno a lungo inseguiti. La stessa sorpresa suscitata, nel 2005, dall’elezione di Nichi Vendola a presidente della Giunta di una regione mai guidata dalla sinistra, rivela quanto fuorviante possa essere la reductio ad unum delle sfaccettate realtà e dina-miche del Mezzogiorno e in particolare della Puglia. Apre la speranza alla possibilità di non considerare la propria perifericità – fatta di arretratezze, ritardi, inseguimento di irraggiungibili modelli di sviluppo e di vita – come uno stato di fatto, come una condizione irremovibile. Quel che è importante è assumere consapevolezza che anche la pe-riferia è una costruzione sociale, che quindi può essere rimossa e trasformata in altro, purché la consapevolezza dei diversi valori che si celano in queste parti di città e di territori sia fatta propria da chi vi abita.La presa di distanza dal cosiddetto “paradigma emulati-vo”, ossia dall’accettazione del modello di sviluppo domi-nante quale inevitabile itinerario di crescita, è certamente favorita da alcune realtà di fatto: fra tutte, le devastanti conseguenze dell’intreccio di cattivo uso dei beni naturali, delle specifiche rappresentazioni del benessere individua-le e sociale e dei costi sempre più insostenibili dei “mira-coli della crescita”. Non solo nei ristretti circoli dell’acca-demia, ma anche nel dibattito pubblico, si afferma l’idea che nel Sud occorra ripensare lo sviluppo, tutelando le

voci che esprimono una critica nei riguardi di alcuni limiti del nostro modo di vivere, così condizionato dalla centra-lità del Nord-Ovest del mondo, e promuovere una solida cultura civica, fondata sulla difesa dei beni comuni. In una regione che comprende ben tre aree dichiarate a elevato rischio di crisi ambientale, Taranto, Brindisi e Manfredonia, il governo è chiamato a una coraggiosa assunzione di responsabilità nei confronti del futuro dei propri territori nel momento in cui «la questione ecolo-gica mette in discussione la razionalità formale, calcola-trice, “individualista”, che sta al cuore della modernità», mostrando i limiti di un modello di sviluppo a lungo rincorso o subito. Alcuni fattori che tante analisi econo-miche meridionaliste individuavano quali indicatori di “ritardo di sviluppo” possono ora essere colti come van-taggi. Alcune parti di territorio considerate inutili, non funzionali, difficilmente accessibili, emarginate dai pro-cessi insediativi di lunga durata, possono diventare de-gne di attenzione proprio perché escluse dai tumultuosi e omologanti cambiamenti indotti dalla modernizzazio-ne accelerata. Le aree escluse dall’industrializzazione per poli o dei distretti, caratterizzate da più deboli ritmi di urbanizzazione, emarginate dall’espansione dell’agri-coltura intensiva e del suo carico inquinante, mostrano oggi paesaggi che affascinano, proprio per la distanza che li separa dalle forme insediative dominanti negli scorsi decenni e che attraggono popolazioni capaci di

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apprezzarne i valori e l’elevata qualità della vita che of-frono. La fase attuale è assai delicata: occorre difendere questi paesaggi dalle promesse di qualche immediato ri-storo economico e diffondere la consapevolezza dell’im-portanza del valore della loro esistenza per il benessere collettivo. Per queste ragioni tanti sforzi sono stati dedi-cati dal governo regionale all’elaborazione di un nuovo piano paesaggistico, volto innanzi tutto a far penetrare nella comunità regionale l’idea che il paesaggio è il pa-trimonio (fisico, sociale e culturale) più consistente che sia stato costruito dalle genti che hanno abitato e per-corso il nostro Paese nei tempi lunghi della storia. Un patrimonio che va conservato e valorizzato per accresce-re il benessere collettivo piuttosto che distrutto, com’è accaduto negli ultimi decenni, in nome di un’astratta e illusoria crescita economica di breve termine. Lo sviluppo locale autosostenibile, prospettato dal nuo-vo piano, mira a sottrarre il futuro della comunità re-gionale all’inesorabile destino al quale la condanna il paradigma degli squilibri regionali, con tutto il peso di impronta ecologica e di centralizzazione dei sistemi di comando tecnico, finanziario e politico che esso com-porta nell’era della globalizzazione. L’enfasi è sull’auto-sostenibilità, per mettere in luce quanto consistente sia la ricchezza del patrimonio regionale se si sposta lo

sguardo dagli indicatori e sottesi valori economico-fi-nanziari, ai beni comuni, e quante potenzialità di svilup-po siano dischiuse dalla conservazione, valorizzazione e riqualificazione di questi ultimi. Le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di tale visione, non sono certo sottovalutate. Si è consapevoli, anche se non è facile, che in una realtà del Mezzogiorno dove povertà e disoccupazione tendono a giustificare il

dominio dell’economia su ogni altro sistema di valori, la distruzione di beni comuni (come il paesaggio, la valuta-zione dei benefici e dei costi sociali) va operata anche in termini di sottrazione di valori non economici, incom-mensurabili e di perdita di ulteriori future opportunità, oggi inimmaginabili. Non è facile indirizzare verso il lungo termine della responsabilità intergenerazionale le prospettive di sviluppo, in un contesto nel quale la crisi economica rende precari gli orizzonti di brevissimo ter-mine di imprese, famiglie, individui e il discorso pub-blico è dominato “dall’incubo del contabile” di Keynes, opportunamente richiamato da Settis per sostenere l’importanza di battere sul terreno dei valori la tendenza a privilegiare l’economia e il denaro su ogni altro valore civile, culturale e sociale. Proprio per queste ragioni, il Piano paesaggistico territoriale regionale (PPTR) attri-buisce cruciale importanza a processi e strumenti per la costruzione sociale del piano e del paesaggio. Ed è per questo che lo scenario strategico, nella sua articolazio-ne in azioni, progetti e politiche, fornisce così ricche in-dicazioni per la creazione di nuove economie e sistemi produttivi a base locale e per l’integrazione fra politiche di tutela del paesaggio e politiche urbane, di sviluppo rurale, di mobilità e trasporto, energetiche, di sostegno alle attività produttive e alla promozione del turismo. È in questo modo che si cerca di re-orientare i grandi e mi-nuti interessi in gioco verso la riqualificazione della città e dei territori, il potenziamento della mobilità dolce, la diffusione di modelli distribuiti e integrati di produzio-ne energetica, la valorizzazione culturale e naturalistica delle aree interne, la multifunzionalità dell’agricoltura. Non si tratta di dare impulso “dall’alto”, in modo un po’ illuministico e un po’ pedagogico, a una nuova prospet-tiva di sviluppo: il nuovo piano paesaggistico intercetta una serie di processi attivati “dal basso”, differenti per origine, motivazione, finalità, che presentano elementi comuni e rafforzano la messa in opera del piano. Sono diversi i luoghi che in Puglia, negli anni recenti, da spazi considerati inutili, non funzionali, difficilmente ac-cessibili ed emarginati stanno trasformando la propria condizione di perifericità grazie alla crescita di consa-pevolezza locale dell’elevato valore del proprio patrimo-nio naturale, culturale e paesaggistico: dall’alta Murgia all’appennino dauno, da piane olivetate a solchi carsici di lame e gravine, zone umide, borghi e centri storici “mi-nori”. Non si tratta di ridistribuire centralità proponen-do saperi e pratiche “tradizionali” a un turismo di massa che, peraltro, forse mai privilegerebbe questi contesti rispetto a quelli offerti dai media e dal marketing territo-

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riale. L’inattualità di questi luoghi può essere riaffermata come opportunità, valorizzandola dentro una concezio-ne allargata del concetto di risorsa, che vi includa anche quelle non suscettibili di sfruttamento economico. Un caso interessante in questa prospettiva riguarda l’area rurale dei Paduli, un paesaggio pianeggiante di 5.500 ettari racchiuso tra undici centri urbani del basso Salento, oggi dominato dai grandiosi uliveti che alla fine dell’Ottocento sostituirono il bosco di querce. L’area ha subito un processo di progressiva marginalizzazione anche a seguito degli ispessimenti degli assi viari che la lambiscono e della forte attrattività esercitata dai centri urbani e dalle zone costiere. Dalla scomparsa del bosco alla sua sostituzione con colture prevalentemente arbo-ree, l’area è stata progressivamente “dimenticata”, an-che perché soggetta ad allagamenti e poco adatta all’e-dificazione. L’attività agricola, che aveva svolto per un paio di secoli un ruolo importante nella conservazione del paesaggio e della biodiversità (con la costruzione di muretti a secco per delimitare le proprietà, “pagghiare” per il ricovero degli attrezzi agricoli, canali per l’irriga-zione, masserie per la conduzione dei fondi), di fronte a un’agricoltura sempre più competitiva, ha subito un processo di lento, inesorabile declino. Quegli stessi caratteri naturali, economici e sociali, che sino a un recente passato facevano includere questo ter-

ritorio fra le “aree depresse”, lo hanno reso attraente per chi ha provato a immaginare diversi scenari di sviluppo, fondati sulla conoscenza e tutela del patrimonio ambien-tale e culturale. È questo il caso delle attività avviate nel 2003 con il Laboratorio urbano aperto (LUA) nell’area dei Paduli per riannodare, attraverso la partecipazione attiva della comunità locale aperta ad apporti esterni, i fili di un dialogo interrotto fra natura e storia dei luoghi e attribuirvi nuovi significati in relazione alle specifiche qualità ambientali, paesaggistiche, culturali, nella pro-spettiva di uno sviluppo fondato proprio sulla tutela e valorizzazione di tali qualità. Queste attività sono state incluse, nel 2007, fra i progetti Pilota del PPTR: la Re-gione le ha colte quali opportunità per indicare ad altri territori tracce di lavoro mirate a mobilitare le comuni-tà insediate nell’attribuzione di nuovi significati a parti del paesaggio regionale, per contrastarne la marginali-tà e delineare per esse nuovi orizzonti di possibilità. In questo caso, tali orizzonti si fondano sulla salvaguardia ambientale e la promozione di una multifunzionalità in agricoltura che renda le aree rurali produttrici di servizi ambientali, culturali, enogastronomici, ricreativi, ga-rantendo la conservazione della biodiversità del territo-rio e la vitalità socio-economica indispensabile perché le comunità insediate possano prendersene cura.

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di Edoardo Salzano

territorio globale

Che significa per noi “periferia” – Quando parliamo di “periferia” ci riferiamo generalmente a una situazio-ne – a una città o a una sua parte – che giudichiamo o raccontiamo in termini negativi. Mi domando: che cosa rende negativa una situazione periferica? La parola ci suggerirebbe che la negatività deriva dalla distanza dal centro, e forse è questo concetto rigidamente geome-trico che prevale nel pensiero corrente. Ma ragiono da urbanista, quindi ho una visione complessa dello spazio, perché sono realtà complesse sia il territorio in sé sia la città (l’habitat dell’uomo). Mi viene subito in mente che esistono in molte città, europee e non, quartieri fisica-mente distanti dal centro ma bellissimi, dove abitare è gradevole; parti di città dotate di verde, di servizi e spazi comuni e pubblici, ben collegate alle altre aree urbane – quindi anche al centro – da comodi, veloci e frequenti vettori come la bicicletta, il tram e il treno. Le socialde-mocrazie Centro e Nord europee sono state maestre nel progettare, realizzare e far vivere quartieri così.Non è perciò la distanza dal centro che rende la peri-fericità un problema. È invece una situazione fisica di marginalità cui è collegata una situazione economica e sociale di povertà, disagio, carenza e rischio. Quando ragioniamo di periferie in Italia e in Europa, ci riferiamo a un particolare tipo di situazioni urbane, a quartieri realizzati da un’attività urbanistica ed edilizia finalizzata alla mera valorizzazione economica di aree ac-caparrate da spregiudicate società immobiliari. Aree de-stinate a ospitare famiglie e persone espulse dai quartieri centrali, perché dotate di redditi insufficienti ad acquisi-re la proprietà o l’uso delle abitazioni, o richiamate nella città dalla miseria delle campagne. Oppure ci riferiamo a insediamenti realizzati con finalità positive – fornire situazioni abitative di buona qualità a prezzi contenuti, grazie all’intervento pubblico, a determinate categorie di abitanti – ma non completati nelle loro dotazioni essen-ziali – scuole, verde, trasporti ecc. –; oppure a insedia-menti non gestiti con sufficiente attenzione alle esigenze dei destinatari, o ancora abbandonati senza la necessaria manutenzione delle parti comuni e di quelle private.

In termini più generali possiamo dire che le periferie sono i luoghi dell’habitat dell’uomo in cui gli abitanti soffrono un disagio derivante dall’assenza, più o meno estesa e pronunciata, delle condizioni che rendono la “città” un luogo nel quale abitare è piacevole, comodo e servito di tutto ciò che da una città è possibile ottenere.Se vediamo le periferie alla luce di questa definizione è facile comprendere qual è oggi la nuova dimensione della questione. Ci rendiamo conto che il concetto di “periferia” copre molte più situazioni di quelle che si po-tevano immaginare 30 o 50 anni fa. E ci rendiamo conto delle sue cause.

Le periferie nella città globale – Sollevando lo sguardo da una limitata visione eurocentrica, abbiamo imparato che esistono immani “periferie” nei paesi che una volta si chiamavano “sottosviluppati” e poi, in un impeto di buo-ne intenzioni, sono stati definiti “in via di sviluppo”: gli slums, le favelas e le baraccopoli, dove è racchiusa parte consistente, spesso maggioritaria, dei grandi agglomera-ti dei paesi del Sud del mondo. Poi ci siamo accorti che i Sud del mondo erano anche nelle nostre città: il colo-nialismo dei decenni ruggenti dell’espansione capitalisti-ca – che aveva provocato gli slums e le favelas nei paesi dell’Africa, del Sudamerica e dell’Asia – aveva causato un’incontenibile migrazione dal Terzo al Primo mondo; le “coree” e le “borgate” provocate dai conflitti interni dei nostri sistemi urbani si erano diffuse ed estese.Abbiamo compreso che l’habitat dell’uomo non poteva essere valutato prescindendo dal carattere globale che aveva assunto. Appariva sempre più come una realtà composta da tre grandi insiemi, legati tra loro come nel-le società feudali il castello, la residenza del signore, è legata alla casupola o al villaggio dove risiedono i suoi servi, i “servi della gleba”. Un’analisi convincente è quel-la che hanno effettuato studiosi come Saskia Sassen e Mike Davis. Dai loro lavori emergono due condizioni estreme: da un lato “l’infrastruttura globale” – cioè l’in-sieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita

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e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere –; dall’altro gli slums, i luoghi destinati a ospitare i flussi dei popoli e dei gruppi sociali a cui la miseria ha tolto la possibilità di risiedere nei luoghi d’origine, riducendoli così a mera forza lavoro disponibile, idonei perciò a es-sere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.Tra “l’infrastruttura globale” e il “pianeta degli slums”, tra l’insediamento del “signore” e quello del “servo”, si colloca un terzo e intermedio strato sociale – una terza condizione urbana. È costituito da quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla “cultura dei padroni”, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici conces-si agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle cri-si ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo un avanzamento di carriera o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione dal-la moltitudine dei deboli e degli sfruttati, e da una loro possibile insorgenza.In relazione agli anni più recenti, quelli della crisi inizia-ta nel 2008, l’aumento generale della povertà – dovuto al crescente dislivello tra redditi alti e redditi bassi, alla riduzione del welfare e alla privatizzazione dei servizi pubblici – tende a spostare verso il basso quote rilevanti dello strato intermedio, o comunque ad accrescere gli elementi di disagio che ne caratterizza l’esistenza. La globalizzazione, insomma, tende ad aumentare il peso della periferia – se a questa diamo il significato propo-sto all’inizio –; le varie parti dell’habitat dell’uomo sono sempre più interconnesse, ma al loro interno aumenta-no le situazioni di disagio.

La finanziarizzazione dell’economia e il trionfo della rendita – Nel mondo anglosassone si è coniato il termi-ne gentrification – adoperato per la prima volta in rela-zione alle trasformazioni sociali che avvenivano a Lon-dra negli anni Sessanta – per indicare l’appropriazione, da parte dei proprietari stessi dei terreni, del maggior valore derivante dall’utilizzazione urbana di un’area, provocando così l’aumento dei prezzi d’uso e la conse-guente espulsione degli abitanti verso aree economica-mente più marginali. Questo fenomeno si è intensificato ed esteso negli ultimi decenni. La crescente espansione urbana rende centrali le vecchie periferie, dove il degra-do – fisico e sociale – costituisce l’occasione, o il prete-

sto, per operazioni di “riqualificazione”, “risanamento” e “ristrutturazione”. A seguito di tali interventi, le aree “riqualificate” sono trasformate in quartieri dove il mi-glioramento dell’habitat si traduce in prezzi d’acquisto e d’uso più elevati, costringendo gli abitanti originari a spostarsi verso periferie più lontane. Ciò è ampiamente successo in Italia, grazie all’introduzione – negli anni Ot-tanta – di strumenti che consentivano la ristrutturazio-ne urbanistica promossa e gestita da privati senza ade-guati controlli a priori della pubblica amministrazione, anche in deroga agli strumenti ordinari dell’urbanistica.Abbiamo assistito al dilagare dell’edificazione sul ter-ritorio e – soprattutto in Italia – è divampato un feno-meno denominato sprawl che indica, a seconda delle lingue e delle interpretazioni, il consumo di suolo, la diffusione urbana e la città diffusa. Benché, a causa della mancanza di criteri generalizzati di analisi, non ci siano ancora dati inequivocabili, è certo che il motore dello sprawl è costituito da un radicale mutamento della fi-nalità dell’edificazione. Una volta il processo di edificazione era regolato dalla pianificazione urbanistica sulla base di ragionevoli sti-

me del fabbisogno di abitazioni e di altri usi antropici del suolo; negli ultimi decenni, invece, l’utilizzazione edilizia del territorio è stata finalizzata alla mera “valo-rizzazione” economica delle proprietà fondiarie: si tratta di un processo correlato alla finanziarizzazione dell’eco-nomia capitalistica. Il sistema economico si è sempre più disancorato dalla produzione di beni reali, si è rivolto invece all’aumento di valore derivante dalle più alte quotazioni raggiunte da un determinato bene – un titolo finanziario o un’area –

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nel periodo intercorrente tra il momento dell’acquisto e quello della vendita. Un economista classico direbbe che l’interesse del capitalista dal profitto si è spostato alla rendita. Sulla rendita, sugli effetti che essa esercita sulla città e sul suo ruolo di “produttrice di periferie” occorre soffermarsi. La finanziarizzazione dell’economia aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insie-me del sistema economico. L’appropriazione privata di rendite – finanziarie e immobiliari – divenne la compo-nente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale, intrecciandosi strettamente al profitto. Del resto, il peso del salario poteva essere via via ridotto dall’innovazione tecnologica. Nella medesima fase della nostra storia è avvenuto un altro fenomeno: l’appiattimento della politica sull’eco-nomia. Questo ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori un aiuto considerevole, derivante dalla loro possibilità di promuovere o permet-tere la sistematica espansione del territorio. Il valore di scambio delle aree passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edi-lizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’eco-nomia, spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi. Si è manifesta-ta una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determi-nando così un balzo in avanti della valorizzazione del-la rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diven-tata sempre di più una macchina, costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività, usata per accre-scere le ricchezze private. La pianificazione urbanistica e territoriale è stata smantellata, poiché considerata un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (della ren-dita) del territorio.Il territorio è stato devastato da un consumo di suolo impressionante, risorse essenziali di naturalità sono sta-te sottratte ai cicli vitali della biosfera, le aree malamente rese edificabili sono aumentate a dismisura. Si è forma-ta una nuova periferia con la quale domani bisognerà fare i conti.

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Veduta del quartiere Corviale,

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Scrivere a Margine del centro - intervista a eduardo Souto de Moura

di Laura Peretti

Eduardo Souto de Moura è un architetto portoghese, di-venuto importante e famoso a livello internazionale per la sua straordinaria capacità di inserire armonicamente l’architettura moderna in contesti molto delicati, sia na-turalistici che storici. In totale controtendenza rispetto alla figura dell’architetto archistar e all’architettura grif-fata, sostiene l’anonimato dell’architettura ritenendo sia una qualità essenziale per costruire la città contempora-nea. Riceve nel 2011, a soli 59 anni, il premo Pritziker, massimo riconoscimento alla carriera di un architetto. Con Alvaro Siza – portoghese anch’egli, suo maestro e amico e a sua volta premio Pritziker nel 1992 – Eduardo Souto de Moura ha dato un contributo essenziale alla storia dell’architettura contemporanea nel ripensare l’e-dificio in rapporto al sito e al luogo di appartenenza, mi-surando e calibrando sempre l’intervento architettonico alle preesistenze, «di qualsiasi tipo esse siano, buone o cattive, tutto questo è un materiale con cui dobbiamo confrontarci e al quale dobbiamo rispondere».

D: Credo che un tema importante per le nostre perife-rie sia quello del vuoto e delle reti: fra questi due ambi-ti c’è ancora una partita molto aperta. In realtà tra il vuoto e la strada – intesa come generatore di periferia – non esiste ancora un modello innovativo di svilup-po di nuove urbanità. Paesaggio periferico, paesaggio residuale e paesaggio vero e proprio sono sempre su-bordinati a un’idea di città che si è sviluppata in tempi molto diversi da quelli attuali… Secondo il tuo punto di vista, esiste una progettualità differente che si può svi-luppare su questo tema oppure la città storica è sempre il modello di riferimento?R: Per prima cosa non sono un’urbanista, sono un ar-chitetto. So che ci sono teorie diverse su questi temi, ma continuo a credere che il problema delle periferie dipenda ancora da dov’è il centro, perlomeno nelle città occidentali.Possiamo vedere la storia urbana come un processo si-gnificativo: la città romana era organizzata attorno al foro e quella greca attorno all’agorà, ciò che era costruito

alla loro periferia era architettura transitoria. Il Medioe-vo consolida la città romana e la chiude dentro mura più spesse: fuori restavano la vita del ceto sociale più povero e nuclei di monasteri e chiese. Lentamente ogni punto periferico della città diventa un centro che in seguito si sviluppa attraverso un’evoluzione radiale, che diviene pienamente cosciente nel Barocco. Nel XIX secolo, le manzanas1 raccolgono e organizzano la vita produttiva di chi viene da fuori città e costruisce una sorta di città nuova: è la periferia che diventa centro, una vera e pro-pria rivoluzione.I problemi divengono seri quando arriva il fenomeno della metropoli con il suo tempo frenetico, i suoi flus-si incontrollati di genti e le grandi speculazioni urbane al seguito. Il suolo inedificato intorno o dentro alla cit-tà acquisisce un valore economico altissimo solo per la sua posizione. Non c’è più controllo e non c’è mai tempo sufficiente: la città avanza, rispondendo più alla specu-lazione economico-edilizia che ai reali bisogni e “l’urbs” non è più riconducibile a un’unità, piuttosto è divenuta un fenomeno che dobbiamo cercare di controllare. Che fare di fronte alla mancanza di controllo?Mi pare evidente, anche se posso sembrare un po’ con-servatore, che la gente preferisce abitare nel centro stori-co piuttosto che nella periferia moderna, perché lì c’è più qualità. Quindi, il problema per noi architetti è quello di trasformare le periferie in “centri storici”, o meglio, or-ganizzare la periferia con la stessa qualità e attenzione che riserviamo al centro. Per parte loro, i politici devono decidere che il palazzo dei congressi non si fa nel centro ma in periferia, attorno diverrà perciò logico costruire una bella piazza, edifici importanti e strutture di servizio, e questo può far sì che la periferia cominci a cambiare… Ciò che mi pare più necessario è capire profondamente le qualità della città storica e riprodurre il meccanismo per trovare queste identità. Riprodurre la città storica non significa copiarne le forme – che sarebbe ridicolo – ma ricercarne l’identità al di là dei formalismi e degli stili.È un problema di gerarchia ma anche di volontà politica e se questo non accade è perché al potere e alla specula-

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zione fa molto comodo mantenere un campo aperto che si espande a macchia d’olio, un territorio informe di cui può disporre senza limiti e senza regole troppo restrit-tive. Il nostro compito è quindi di aumentare la qualità delle aree periferiche portandole al pari dei centri stori-ci; non è facile, ma si deve fare questo sforzo economico e politico, e noi architetti dobbiamo dare il meglio delle nostre capacità, perché nessun altro può farlo al nostro posto.Frammenti isolati, che a volte divengono ghetti, pos-sono successivamente divenire città: a New York, per esempio, la parte industriale del porto, prima abbando-nata, è stata adesso trasformata in un centro culturale importante con musei, giardini, hotel ecc. Quelli che un tempo erano frammenti urbani isolati hanno trovato ora un’identità che non avevano mai avuto in preceden-za: la periferia diviene città, appunto. Ciò è ben visibile anche a Città del Messico – una metropoli che è un con-glomerato di piccole città assorbite in un grande organi-smo, città che però hanno conservato la loro identità o che ne hanno acquisita una nuova grazie alla differente dimensione – dove il passaggio dal centro alla periferia è ragionato e graduale. Pensi di stare fuori dalla città e invece arrivi in un altro centro a 20 km dal centro stori-co, l’identità delle parti, che hanno tutto per essere au-tosufficienti, resiste e quindi non hai mai la sensazione di essere in un suburbio o in “qualcosa” che dipende da altro.

D: La parola periferia in greco vuol dire “regione” e questo mi pare ponga l’accento sull’identità della ge-ografia, del paesaggio. Se la periferia ha ancora una chance importante è forse quella di caratterizzare brani di territorio ancora aperto con elementi speci-fici, in cui possa riconoscersi e che rispettino l’identità e il carattere dei luoghi. Riguardo a questo tema, che, Le Corbusier, il razionalista moderno per eccellenza, aveva intuito nella nuova città di Chandigarh in India, tu e Siza avete sempre avuto un approccio di grande umiltà e rispetto. Un atteggiamento molto diverso da quello praticato in Italia, dove il “positivo” del costruito è sempre calato sul “negativo” del vuoto da costruire e dove la progettazione è molto più autoreferenziale e non desume le proprie leggi dai luoghi in cui si insedia, non rispettandone i caratteri specifici.R: Credo che questo dipenda da diversi fattori: per pri-ma cosa, noi portoghesi non abbiamo conosciuto il disa-stro della guerra, abbiamo avuto invece una rivoluzione pacifica e, inoltre, abbiamo cominciato dopo gli altri.

Facciamo gli stessi errori, ma qualcosa si è fatto anche un po’ meglio, per esempio non abbiamo riproposto di nuovo la periferia come la specializzazione di una sola funzione – i quartieri dormitorio per intenderci.Quando Siza cominciò il progetto di Evora2 subito dopo la rivoluzione – lavorandoci per oltre 25 anni – si pre-occupò di produrre una struttura urbana con un centro storico, un acquedotto, una grande piazza. Le case sono il fabbisogno maggiore da soddisfare, ma l’impianto non viola la topografia e il paesaggio: le case e le strade si adattano alla natura del terreno e raccolgono le pree-sistenze (i mulini, le case coloniche ecc.) ricollocandole in un nuovo testo, una nuova identità appunto. Il punto di partenza è non pensare che la periferia sia una cosa peggiorativa e secondaria e questo è anche e soprattutto un problema culturale. Negli ultimi anni del XX secolo si è capito che non si deve più fare ideologia: non c’è più questo “manicheismo” del buono/cattivo. All’indeboli-mento o al relativismo dell’ideologia, hanno contribu-ito filosofi, architetti, artisti e cineasti, questo viene da un’attenzione alla periferia come a una fonte di nuove proposte. Lavoriamo con quello che c’è: non prendiamo sempre e solo il marmo per fare un edificio o la seta per fare un vestito, ma facciamo lavorare un’arte povera.Questa concezione viene dalla lezione moderna di es-senzialità – riduzione degli elementi che i grandi maestri hanno praticato – e si deve al fatto che sempre più spes-so esiste una cultura periferica alimentata da nuovi fer-menti: il jazz, per esempio, nasce nelle periferie, gli artisti vanno ad abitare fuori dalle città e lentamente i paesi più periferici divengono portatori di nuova modernità.

D: In realtà, la periferia è il luogo del futuro. Questo accade perché c’è un’urgenza, una necessità, che spinge non solo i bisogni reali ma anche le nuove visioni del mondo: il bisogno di identità e rappresentazione.R: Giusto, perché la periferia vuole divenire centro. An-che se lo hanno fatto prima gli artisti, noi come archi-tetti abbiamo quasi l’obbligo di partecipare. Continua-re a trasformare la periferia in un centro è, infatti, una sorta di missione culturale alla ricerca di nuova identità, succede spesso però che tutto questo si trasformi in una moda, una tendenza, come è avvenuto a Barcellona.

D. C’è una parola molto utilizzata, anzi direi inflazio-nata: “riqualificazione”. A me non piace perché è un concetto molto generico e non si sa se questa strategia conduca realmente da qualche parte, tuttavia periferia e riqualificazione vanno quasi di pari passo.

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R: Sono d’accordo. Spesso riqualificare significa “utiliz-zare un disegno superficiale”, un involucro esterno per ricostruire un nuovo aspetto. Non voglio trasferire il linguaggio capitalista tipico della classe dominante sulla periferia; intendo dire che quello che fa la società capi-talista è trasformare il proletario in piccolo borghese, il piccolo borghese in borghese. Il problema è scoprire le qualità della stessa periferia perché lì ci sono altri valori. Mi spiego meglio: non farei mai una chiesa come una cattedrale, diventerebbe subito ridicola… nella riqualifi-cazione questo accade spesso.

D: Da ciò che hai detto emerge che il rapporto fra le parti della città è un tema cruciale, perché momenti storici diversi fissano nello spazio urbano reale stili e figure diverse; quindi, alla fine, la città presente è an-che il rapporto che il nostro tempo ha con il passato e il futuro.R: Infatti il problema è che queste periferie – dai paesi nordici, all’Italia, a tutto il Mediterraneo – si sono co-struite secondo lo stile del movimento moderno, che era molto pragmatico, perché la struttura costruttiva a domino era veloce e si pensava ancora che la carta di Atene3 fosse la bibbia.Ci si prefigurava che la città sarebbe stata così: un bloc-co A, un blocco B e in mezzo tre alberi, con la gente sui terrazzi che giocava a box, come nei disegni di Le Corbu-sier; un prototipo anche antropologico che non esisteva veramente e che era piuttosto un’utopia. In seguito si è capito che la città moderna è piena di erro-ri perché ha creato una discontinuità con la città storica. Io difendo l’architettura moderna, ma confesso che la città moderna da sola mi mette un po’ d’ansia! Guarda per esempio Brasilia: c’è solo la periferia e non c’è il centro… La città è costruita come un insieme di mi-crocosmi autosufficienti, senza tensione, perché non c’è un vero centro: o Lucio Costa l’ha ideata troppo estesa o Niemeyer4 l’ha fatta troppo piccola. Penso che questa idea di inventare la città del futuro sia un po’ ridicola, perché in fondo la società è cambiata poco: le case, le istituzioni, i materiali e il sistema costruttivo, ma l’idea stessa di città è quasi sempre la griglia, il centro, più o meno deformato, quasi tutto il repertorio proviene dalla Grecia e da Roma; non c’è quindi molto di più da in-ventare. Va fatto, invece, lo sforzo di scoprire un’altra città e di trasformare l’idea che abbiamo della periferia, non considerandola come una cosa fatta ad arte, ma il suo contrario, scoprendo qualcosa che oggi può essere la fonte da cui sorge un’altra cultura.

In questo senso è molto importante quello che ha fatto Jacques Derrida, un filosofo: nell'affermare che la meta-fisica è finita, (e non è una sua scoperta) rafforza questo concetto e lo afferma scrivendo nei margini. E in realtà si rivelano più importanti le note sul tema che il tema stesso, su cui si è dibattuto durante i secoli, cioè le note (glosse) di approssimazione allo studio. Derrida co-struisce questo sistema di frammentare, di scrivere nei margini in Glas – un libro che confesso di non aver letto completamente – dove si percepisce che il tema non è la questione principale ma solo il punto di partenza; dopo, si sviluppa un dialogo sul tema, che è il vero nuovo li-

Bufalotta,

Roma 2010

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bro. È un testo quindi che non prescinde dai precedenti ma li integra e avvolge. Questo concetto è un qualcosa può essere trasferito anche alla città: una buona città è fatta di sommatorie d’identità che stanno insieme, dove la continuità è identità nelle differenze; in fondo è un sistema di convivenza, di sopravvivenza: e da qui, dalla riscrittura, da una cultura del margine, forse si può cer-care di raccontare una nuova città.

1 Quartieri che successivamente si sono sviluppati come isolati urbani; 2 Una zona di ampliamento molto grande, quasi un raddoppio della città storica di Evora in Por-togallo; 3 La Carta di Atene è un documento prodotto a seguito del quarto CIAM (Congresso internazionale di architettura mondiale). Il documento tenta di fissare, in 95 punti, i principi fondamentali della città contempo-ranea ed è riconosciuta come un documento fondativo del Movimento Moderno e della sua visione dell’Urba-nistica; 4 Brasiliano, Oscar Niemeyer è uno dei più noti ar-chitetti a livello internazionale. Ha lavorato con l’urbanista Lucio Costa alla progettazione e realizzazione di Brasilia.

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di Giovanni Caudo

dalla borgata alla nebuloSa

La periferia, intesa come condizione geografica, punto distante da un centro, non può più essere l’argomento dal quale partire. Il corpo della città, fatto di lamiere, baracche, sentieri sterrati e marrane, era più sempli-ce da spiegare guardandolo dal centro: ci restituiva una geografia degli opposti, che per questo era di per sé chiara. C’era il fronte della città che avanzava per frammenti ed eruzioni, ferite che si aprivano nel suo-lo di una campagna romana ancora integra. Negli anni Cinquanta c’erano i tuguri e le coree, la cui inconsisten-za fisica è stata riscattata dalle storie neorealiste che ne hanno consolidato l’immagine, tanto che ancora oggi si possono attraversare e guardare. Così Pasolini poteva invitare il turista o il cittadino borghese a prendere un autobus per spostarsi dal centro verso i margini della città. Poi, le borgate abusive: lottizzate da imprendito-ri “mascherati” dietro nomi di società che vendevano i lotti da edificare incassando il plusvalore e lasciando agli sventurati il compito di effettuare l’abuso: «Sorto il Paese, è nato con esso il problema umano di rendere la vita possibile agli abitanti della nuova borgata. Il Co-mune è sollecitato da ogni parte all’esecuzione di tutte le opere necessarie che mancano completamente: non esistono né strade, né fogne, né luce, né scuole, niente […]». Sono almeno novecentomila i vani ormai ex abu-sivi dove ancora oggi il comune insegue le sollecitazioni degli abitanti che ora, riuniti in consorzi per l’attuazione delle opere di urbanizzazione, sono diventati operatori e protagonisti nella costruzione della città.L’emergenza abitativa e le lotte per il caro affitti diede-ro avvio a Roma, alla fine degli anni Sessanta, alla rea-lizzazione del più grande piano di edilizia economica e popolare (PEEP) del Paese,(tre volte quello della città di Milano). Complessivamente erano previsti alloggi per una popolazione pari a quella dell’allora Regione Um-bria: 711.909 stanze su 5.200 ettari, ridotte a 674 mila dal Ministero in fase di approvazione. Tra il 1965 e il 1987 (anni d’oro per l’edilizia pubblica a Roma) furo-no realizzati 452.436 vani in 83 diversi interventi, dal più piccolo, poco più di venti vani, al più grande di ol-

tre 37 mila vani. Il secondo PEEP fu approvato nell’a-prile del 1985, dopo che del primo era ormai scaduta anche la proroga di due anni sui diciotto della durata regolamentare prevista. Di dimensioni più ridotte, cir-ca 2.400 ettari per 200 mila stanze, il secondo PEEP si differenzia dal primo soprattutto per la filosofia proget-tuale: non più grandi interventi edilizi caratterizzati da una forte impronta modernista nelle soluzioni architet-toniche, bensì modelli morfologici e tipologici più vicini alla città tradizionale. Nello stesso tempo però, il nuovo piano si fa carico di dotare di servizi le parti di città, per lo più abusive, che costituivano la periferia romana. Per questo motivo la localizzazione dei nuovi quartieri è adiacente agli insediamenti abusivi e i servizi previ-sti dal piano risultano sovradimensionati rispetto agli abitanti insediati, in modo da compensarne la carenza nelle borgate adiacenti.La città pubblica e le borgate, queste sono state e per molti sono ancora la periferia romana. Ma bisogna te-nere in conto che oggi il fronte della città si è spezzato, che non esiste più come limite fisico esterno che avan-za verso la campagna: oggi l’attraversa dall’interno, evidenziandone il groviglio di frammenti in cui essa è esplosa. Il fronte si insinua nelle discontinuità di questa geografia interrotta, confondendo i concetti di centro e di periferia. La periferia è allora anche al centro, ad esempio a Roma lungo il Tevere, o negli edifici abban-donati, nei terrains vagues, negli interstizi e in tutti quei luoghi che ci restituiscono la porosità della città e nei quali nuove opportunità e spazi di vita per migranti si possono determinare. La periferia è nella compres-sione diffusa delle forme dell’abitare, determinata da un mercato immobiliare sempre più squilibrato cui corrispondono esperienze di resistenza creativa, gene-ralmente assenti nelle rappresentazioni comuni. La pe-riferia è infine iscritta sul corpo dei soggetti che abitano la dimensione urbana, nei termini di una condizione di rischio generalizzato. È così che traiettorie differenti hanno consolidato il corpo dell’ultima città.

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Ma a questa periferia se ne è aggiunta una di diver-sa consistenza. La città di Roma è oggi il centro di un territorio/città che ormai travalica non solo il confine comunale e provinciale ma, in alcune direttrici, anche quello regionale. Si sta componendo una nuova figura del territorio romano, alimentata dagli spostamenti re-sidenziali, dai flussi pendolari, e dalle “infrastrutture” tipiche dei territori dell’urbanizzazione diffusa.

Tra il 2003 e il 2010 gli incrementi di popolazione dei comuni, uguali o superiori al 5%, disegnano un territorio vasto attorno alla città di Roma che interessa quasi tut-ti i comuni della provincia e che tracima non solo nelle altre province, ma anche verso i comuni di altre regioni, ad esempio quelli della provincia di Terni. Guardando nella sua complessità questo insieme di relazioni demo-grafiche emerge un insediamento territoriale piuttosto significativo, la “nebulosa residenziale romana”, che si colloca tra la città di Roma e le altre provincie. Se si guardano i dati sul pendolarismo, si trovano strette re-lazioni di dipendenza con le aree di Terni e de L’Aquila, che vanno ben oltre le relazioni tradizionali con i comu-ni contermini al polo romano. Uno degli indicatori più significativi è quello dei trasferimenti di residenza. Nel periodo 2003-2010 il totale degli emigrati dal comune di Roma verso quelli della provincia ammonta a 162 mila persone. I flussi in uscita si orientano in prevalenza verso Fiumicino, Guidonia, Pomezia, Anzio, Cerveteri, Ladispoli, Monterotondo, ma nella graduatoria dei pri-mi trenta comuni compaiono anche alcuni comuni che si collocano su direttrici meno tradizionali. Sono i co-muni di Fiano Romano, Anguillara Sabazia, Bracciano, San Cesareo, Riano, Capena, Labico, Rignano Falminio che segnalano come ormai il processo di diffusione re-sidenziale in uscita da Roma interessi la cintura dei co-muni esterna a quella tradizionale dei Castelli e dell’area costiera. Sono i comuni nella direttrice verso Orte, verso Bracciano e quelli verso San Cesareo, che definiscono le nuove direttrici di espansione residenziale dell’area ro-mana. La rilevanza che hanno i fenomeni di diffusione territoriale è testimoniata dalla presenza nella classifica dei primi cento comuni italiani per crescita demografi-ca di ben undici comuni della provincia di Roma, con Fiano Romano e Capena che sono tra i primi venti, con percentuali di crescita annua nel periodo 2006-2009 superiori al 20%.

La strutturazione della nebulosa residenziale romana è al momento affidata alla casualità delle scelte dei singoli

attori, della popolazione che si sposta o delle imprese che si localizzano dove è possibile; procede, in breve, in assenza di politiche consapevoli ed è affidata allo “spontaneismo del territorio” e dei singoli. Una moda-lità di formazione che rischia di produrre inefficienze, costi aggiuntivi e squilibri che peseranno sulle possibi-lità di sviluppo del nostro territorio e dei suoi abitan-ti. Ma ancora prima di queste considerazioni, come si abitano oggi questi territori? A quale idea di utenti me-tropolitani si riferisce (o propone) l’offerta dei servizi che danno corpo a queste centralità del commercio e dell’entertainment? A quali elementi simbolici ricorre la comunicazione di questi servizi per svolgere un ruolo di surrogato di quelli “veri”, tradizionalmente indivi-duati con il centro storico? Siamo sicuri che questi con-tenitori sono solo luoghi di destinazione per il consumo o assolvono in modo non previsto a funzioni di servizio, anche di tipo sociale?

La “periferia” oggi ha la consistenza delle luci, dei mar-mi e dei timpani di un Outlet unico, in molti casi, luogo “centrale” in quella nebulosa di case che è abitata anche dagli espulsi da Roma. E se poi in uno di questi luoghi ci trovi un festival di musica che si chiama Urban mu-sic dove si esibiscono delle band del territorio, il ribal-tamento di significato, come di quello di luogo, è tanto profondo che rischia di passare inosservato.

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di Paola Di Biagi

Spazio pubblico e periferia

Leggere le periferie – «Lebbra», «immensa malattia», «flora parassitaria», «immondezzaio», «pattumiera della città», «sordida anticamera», «inondazione», «oceano», «patchwork», «foresta»: con queste e altre metafore ur-banisti e architetti, tra i quali Le Corbusier, Tafuri e Porto-ghesi, hanno nominato la periferia fin dai primi decenni e lungo tutto il secolo scorso, dichiarando così i propri timori per un suo incontrollato allargamento e rivelando anche in questo modo un imbarazzo verso quella città che in parte contribuiranno a costruire.Le difficoltà nel definire in modo diretto e preciso il mul-tiforme spazio periferico hanno portato a descriverlo non solo attraverso metafore, ma anche a indicarlo per negazione: la periferia non è più campagna ma non è ancora città; o a parlarne come di un luogo dell’assenza: di storia, di regole, di significato, di qualità, di identità; o come di un luogo della perdita: qui la città perde l’arti-colazione degli spazi aperti e del suolo, perde lo storico rapporto tra tipo edilizio e forma urbana, la coerenza dei tessuti, la chiarezza del passaggio tra funzioni e regole di-verse, perde il suo limite e la sua forma. In queste descri-zioni la periferia risulta una “linea d’ombra”, qualcosa che sta al di là, della ferrovia, del fiume, dell’autostrada; una “soffitta” dove, a partire dallo sviluppo della città moderna, si è depositato in modo confuso ciò che la città ha via via scartato ed espulso; un “magazzino” di progetti e idee che si sono accostate senza mai consolidarsi per di-venire pervasive; un “posto di frontiera” tra città e cam-pagna, senza radici ma nemmeno prospettive. Cosicché lo stesso termine “periferia”, con la densità di significati negativi che ha accumulato su di sé e sulla “città nuova”, è trasformato in aggettivo per indicare una condizione più che rappresentare un luogo fisico. La periferia è dive-nuta un punto di vista. Sguardi esclusivamente critici sulle periferie hanno pro-dotto nel tempo uno strato opaco di pre-giudizi vaghi e ridotti, uno strato che ha impedito non solo di vederne e leggerne con attenzione i diversificati caratteri e le poten-zialità ma anche di alimentare le aspirazioni al cambia-mento di consistenti parti della città (e della società) con-

temporanea. «La periferia è la città del nostro tempo» ci ricorda Giancarlo De Carlo; una semplice affermazione che dovrebbe farci «pensare alla costruzione del proget-to in aree periferiche in maniera subordinata alla com-prensione del funzionamento di queste parti di città» e suggerirci quanto sia importante «imparare a “leggere” le periferie». Imparare a leggere il “palinsesto” periferico significa an-che svolgere e stratificare operazioni diverse e puntuali; la descrizione dello spazio fisico non può prescindere dall’a-scolto dello spazio sociale e nemmeno dalla rilettura del-lo spazio delle idee. Descrivere, ascoltare e rileggere aiuta a esplorare la superficie dello spazio periferico e a elabo-rarne una più profonda conoscenza, necessaria premessa alla sua trasformazione. Evitando di schiacciare un piano di lettura sull’altro, diventa più facile riconoscere i diversi processi che han-no portato alla formazione di consistenti parti urbane e distinguere storie differenti. Quando al contrario i piani sono stati confusi, l’accelerazione di giudizi critici sullo spazio fisico e sociale della periferia che ne è derivata si è deduttivamente riflessa anche su quei programmi di ricerca che hanno indirettamente contribuito a dare forma a quello stesso spazio; riflessi che hanno prodot-to una sorta di delegittimazione di idee significative per la definizione della modernità nelle nostre aree discipli-nari, una modernità che ha inseguito un fondamentale obiettivo: il diffuso miglioramento delle condizioni di abitabilità delle città europee. Tra i diversi e stratificati segni che compongono lo spazio urbano contemporaneo, quelli lasciati nella città nuova, in espansione da idee di città e di spazio abitabile elabo-rate e sperimentate nel Novecento – seppure resi opachi da cattive interpretazioni – appaiono ancora oggi densi di significati da rileggere e reinterpretare anche attraverso il progetto.

Periferia e città pubblica – Pazienti letture aiutano a ve-dere uno spazio periferico composito, articolato da mor-fologie fisiche e sociali differenti, da luoghi con diverse

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criticità, qualità e possibilità di trasformazione. Semplici letture portano anche a riconoscere parti “formalmen-te compiute”, l’unitarietà delle quali risulta innanzitut-to dal rapporto tra pieni e vuoti, dalla scala e dai tipi del costruito e dall’ampiezza e dalla forma degli spazi aperti. A spiccare con evidenza, come isole nella marea dell’ur-banizzazione che negli ultimi 50 anni, “casa dopo casa”, ha invaso le città europee, sono soprattutto i quartieri di iniziativa pubblica, realizzati lungo tutto il secolo passato per rispondere ai fabbisogni abitativi dei ceti sociali più disagiati; quartieri che sono andati a comporre e a far cre-scere negli spazi delle periferie una “città pubblica”. Una città nata dalla “questione abitativa” che, seppure posta in tutta la sua gravità già nell’Ottocento, è dive-nuta centrale col secolo successivo, quando si è diffusa e codificata la convinzione che fosse compito della collet-tività e delle istituzioni pubbliche che la rappresentano occuparsi del miglioramento delle condizioni di abitabi-lità delle famiglie meno favorite. Il Novecento è quindi il secolo che ha visto nascere, svilupparsi e infine anche esaurirsi questa forma urbana, programmata e realizza-ta da diverse amministrazioni (comuni, Iacp, ministeri, enti statali ecc.), sorta su terreni solitamente esterni alla città, acquisiti e urbanizzati allo scopo di offrire alloggi, servizi e spazi aperti a coloro che non potevano accedere al “bene casa” attraverso le regole del mercato. Nel XX secolo la casa economica e il quartiere popolare sono così divenuti consistenti materiali di costruzione delle perife-rie urbane, imponendosi anche come grande tema per la riflessione e la sperimentazione progettuale di archi-tetti, urbanisti, ingegneri. Un tema che, portando questi progettisti a lavorare sulla “casa per tutti” e per un’ampia committenza, per certi versi “invisibile”, li ha stimolati a riflettere sulle loro responsabilità nei confronti della so-cietà e in particolare dei suoi strati più deboli, un tema che ha dunque assunto non solo un carattere di natura tecnica ma anche morale.Le reciproche relazioni tra questa forma urbana novecen-tesca e la periferia sono evidenti. È la città non consoli-data, quella in espansione a rendere disponibili le grandi quantità di aree necessarie, l’ampiezza e i costi delle quali si sono prestati alla realizzazione dei consistenti quartieri di edilizia a basso costo.Periferia e città pubblica rappresentano anche gli ambiti nei quali con maggiore libertà si è tentato di dare forma alle idee di città espresse dal movimento moderno. Una città fatta di quartieri, simbolo dell’integrazione tra resi-denza e attrezzature primarie: spazi aperti, giardini, asili, scuole, negozi ecc. Qui lo spazio abitabile si è specificato

nell’articolazione tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra individuale e collettivo; a esso è stato affidato il ruolo di strutturare la parte urbana e di contribuire a dar vita e forma a comunità di cittadini. Con il “materiale” del quartiere gli urbanisti hanno anche tentato di attribuire una forma alle periferie in espansio-ne, con l’obiettivo di arginare l’inondazione della “città degli individui” sui nostri territori, plasmandola in parti unitarie e coerenti. Eppure periferia e città pubblica sono accomunate dagli stessi giudizi critici che hanno reso i quartieri simbolo di una generica cattiva qualità della periferia e, viceversa, una presunta diffusa condizione di marginalità della pe-riferia si è indistintamente riverberata sui quartieri. Così come la periferia, nemmeno la città pubblica può essere letta come un unitario e indifferenziato insieme, asso-ciabile e riconoscibile per il suo primo carattere di luogo dell’edilizia residenziale economica e popolare. Come lo spazio periferico, la città pubblica si compone di parti dalle articolate forme e qualità e dai diversi stati di cri-ticità; parti costruite in stagioni differenti del Novecen-to, esito di diversificate politiche abitative, urbanistiche e sociali e di ipotesi sull’abitare susseguenti nel tempo e accostate nello spazio. La messa in campo di letture che non si limitino alla sola superficie del suolo conduce a riconoscere e valorizzare le differenze, porta anche a quello spostamento del punto di vista che consente di far emergere la periferia pubblica come un “laboratorio di modernità”; un laboratorio che nel Novecento ha rappresentato un importante ambito di sperimentazione per le politiche pubbliche, per la ricer-ca progettuale di urbanisti e architetti, per lo studio del miglioramento dello spazio abitabile. Prive di un simile laboratorio, la città contemporanea da una parte e le no-stre discipline dall’altra, sarebbero oggi certamente meno articolate e fertili.Una volta ampliato lo sguardo, i quartieri potranno emergere anche in quanto esito e “deposito” di diverse storie: di idee di città, di spazio, di politiche abitative, di processi e metodi di edificazione, di comunità di cittadini e dei loro differenti modi d’uso degli spazi individuali e collettivi. Dalla capacità di riconoscere lo spessore di que-ste storie intrecciate possono derivare non solo rinnovate interpretazioni delle periferie, ma anche più consapevoli e solidi progetti orientati alla loro riqualificazione.

La periferia pubblica come laboratorio per nuove pro-gettualità – Se la costruzione della città pubblica, con l’affievolirsi dei fabbisogni abitativi più consistenti e con

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l’esaurimento del suo ruolo nella crescita della città, è un’esperienza da considerare conclusa col Novecento e se essa è stata, seppure contraddittoriamente, un “labo-ratorio di modernità”, i quartieri depositati sul suolo del-le nostre periferie possono essere interpretati oggi anche come “un’eredità del moderno”, un’eredità che racchiu-de un valore documentario e patrimoniale. Una questio-ne non semplice, dato il carattere per certi versi proble-matico di un simile patrimonio. Infatti, seppure nati con l’intento di dare risposta ai bisogni delle comunità locali, molti quartieri, soprattutto tra quelli costruiti nella se-conda metà del secolo scorso, appaiono caratterizzati da una condizione di marginalità sociale e funzionale, spesso associate a un degrado ambientale, urbanistico, edilizio. L’addensarsi di queste caratteristiche richiede programmi di intervento articolati e integrati. Il progetto di riqualificazione tuttavia – non solo nelle si-tuazioni di maggior interesse, come nei quartieri realizza-ti negli anni Cinquanta col piano Ina-Casa – deve anche sapersi coniugare con la tutela di un simile “patrimonio del moderno”, mostrando anche la capacità di valorizzare elementi costitutivi della memoria locale, come le “tracce” lasciate nel tempo dalle comunità che hanno abitato e che abitano questi spazi.L’attuale problematicità delle periferie pubbliche è data anche da una loro condizione di “non finitezza”, soprat-tutto nella conformazione e negli usi degli spazi aperti e delle attrezzature collettive. È proprio questa caratteristi-ca di parti di città (società) non finite, insieme ai valori di modernità espressi dai loro spazi – seppure non sempre presenti ed evidenti – a rivelare le capacità di trasforma-zione di questi luoghi, mostrandoli in grado di rigenerar-si e trasformarsi in risorsa attiva per il futuro della città. Una trasformazione resa probabile e possibile da nu-merosi sforzi progettuali fondati su interpretazioni che sappiano coglierne le potenzialità grazie al superamento di quella identificazione negativa che troppo spesso li ha accompagnati, un’identificazione divenuta talvolta «vera e propria stigmatizzazione territoriale […] un handicap che il soggetto deve ogni volta superare, instaurando così un circolo vizioso tra marginalità sociale, visibilità del di-sagio e ostilità del resto della città».L’emergere di una crescente attenzione per le valenze ambientali e sociali che in questi contesti il progetto urba-nistico può assumere è d’altra parte testimoniato da nu-merose esperienze avviate nel corso degli ultimi decenni in Europa e in Italia. Alcuni interventi di riqualificazione in corso sottolineano l’esigenza di avviare nuovi percor-si progettuali improntati all’interazione tra differenti

approcci e alla costruzione di processi che siano in gra-do di delineare reti di cooperazione tra abitanti e istitu-zioni locali. Essi mettono in luce la necessità di attivare l’integrazione tra diversi apporti disciplinari, il dialogo tra progettisti, tecnici, operatori, cittadini, tra coloro che abitano e fruiscono gli spazi della città pubblica e coloro che costruiscono e governano i processi urbanistici. Simili approcci, stimolandoli a uscire dalla propria autoreferen-zialità, conducono architetti e urbanisti ad aprirsi verso una concezione processuale degli interventi di riqualifi-cazione delle periferie e dei quartieri, una riqualificazione

Centro direzionale Alitalia

Fiumicino, Roma 2011

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orientata a promuovere forme di coinvolgimento delle comunità locali. La partecipazione attiva degli abitanti nella definizione, realizzazione, gestione di operazioni ri-volte soprattutto al ridisegno degli spazi comuni e delle attrezzature di uso collettivo può essere strumento utile in questo senso. Ecco allora che la città pubblica oggi torna ad assumere un ruolo di laboratorio per progettualità innovative, dove diversi percorsi di ricerca, oltrepassando rigidi steccati disciplinari, sperimentano progetti e strategie capaci di avviare una più ampia rigenerazione urbana e di dise-

gnare nuovi equilibri territoriali e sociali. Dopo la quan-tità rilevante di nuove idee di spazio che lungo il secolo passato ha introdotto nelle periferie in formazione, la città pubblica può divenire oggi un fertile dispositivo per la riqualificazione dei territori della nostra contempora-neità, assumendosi, per la sua densità tematica e pro-gettuale, il compito di guidare ricerca e sperimentazione di approcci inediti al progetto urbanistico, ritrovando in tal modo la possibilità di ripensare ai rapporti tra spazio e società, come è stato nelle sue migliori esperienze del Novecento.

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di Giulia Fortunato

il nuovo centro (coMMerciale)

Negli Stati Uniti la sfida tra grandi catene commerciali sembra conclusa una volta per tutte e, per la prima vol-ta dopo decenni, il modello del commercio all’ingrosso subisce una profonda revisione. La competizione si ba-sava innanzitutto su una questione di metri quadrati: più sono grande e più clienti potrò accogliere. Questa rincorsa per aggiudicarsi il primato della grandezza si svolge parallelamente all’evoluzione della città america-na, e ne accompagna la progressiva espansione verso i territori suburbani. Se nella città storica europea le case erano piuttosto piccole ma gli spazi della città grandi ab-bastanza da poter ospitare praticamente tutte le attività quotidiane, la proprietà diffusa dell’automobile privata dà forma alla periferia a bassa densità statunitense in-vertendo questo rapporto: case quanto più comode pos-sibile e spazi pubblici inesistenti, ma grandi strade capaci di soddisfare la libertà personale dei cittadini, permet-tendo loro il viaggio in automobile verso gli innumerevo-li e sempre nuovi beni materiali del consumismo. L’evoluzione dei centri commerciali si può leggere pro-prio nello sviluppo della loro relazione con la strada. Fino agli anni Cinquanta del secolo scorso il rapporto è ancora di tipo diretto: gli edifici commerciali sono situati su piccoli lotti a cui si accede direttamente dal marciapiede, e le automobili parcheggiano lungo i bor-di della carreggiata; mano a mano che la città si espan-de, e aumenta il traffico dei veicoli da e verso le case dei suburbi, aumentano anche le superfici di vendita, che si fanno sempre più grandi per essere visibili dalle au-tomobili che passano. Il boom economico statunitense degli anni Sessanta fa raddoppiare i centri commerciali, nel 1972 ce ne sono già 13.174; questa esplosione pro-voca la rottura definitiva, sia fisica che simbolica, della relazione già labile tra commercio e città: da un lato i nuclei commerciali, sempre più grandi, includono ban-che, ristoranti, uffici postali, diventando una vera e pro-pria alternativa al centro città normalmente designato come tale; dall’altro la separazione tra strada ed edificio commerciale è sancita da una sempre maggiore area di rispetto interposta tra loro, necessaria sia come prote-

zione dal rumore e dall’inquinamento sia per ospitare i parcheggi. A partire dagli anni Ottanta le grandi superfici com-merciali saranno sempre più dedicate a un solo tipo di prodotto, provocando un ulteriore aumento dei viaggi in automobile per spostarsi da un tipo di merce a un’altra. Il risultato è la definitiva sovrapposizione tra tempo libe-ro e tempo trascorso in automobile, e un’ulteriore segre-gazione generazionale e di interessi, che contribuisce al declino delle relazioni sociali. Proprio per questo alcune catene incoraggiano le persone a sedersi e socializzare, offrendo un ambiente confortevole e accogliente. L’ultima forma di commercio suburbano sono i con-temporanei factory outlet, specializzati in beni delle passate stagioni e collocati di solito in postazioni ancora più remote. Nell’estensione esponenziale delle proprie superfici di vendita, le catene commerciali hanno di volta in volta abbandonato gli edifici più “piccoli” che non erano più capaci di soddisfare le loro necessità, producendo scarti dell’ordine di 10 mila m2. Sono dei reperti del consumi-smo che punteggiano le strade dei suburbi, per i quali negli Stati Uniti è stato coniato il termine specifico di ghost boxes: scatoloni vuoti. Ovunque nel Paese sono in atto strategie all’avanguardia di riqualificazione e re-cupero per convertire gli scatoloni in edifici con un alto potenziale comunitario e un certo grado di complessità urbana. Alla scala dell’edificio le operazioni condotte fino a oggi si sono basate su un principio molto semplice: resta lo scheletro, cambia la funzione. Alcuni sono diventati luo-ghi significativi, finalmente capaci di diventare dei punti di riferimento riconoscibili dagli abitanti della zona, di contribuire alla crescita del capitale sociale e di aumenta-re il senso di appartenenza al luogo. Molte volte l’interno dei contenitori è stato riciclato come luogo di culto, gli ampi spazi esterni sono divenuti un contemporaneo sa-grato dove la vita collettiva trova occasione di costruirsi e manifestarsi, soprattutto nei fine settimana. Due esempi di recupero sembrano essere i più interes-

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33caso di Phalen, in Minnesota: al posto del centro com-merciale e del suo enorme parcheggio c’è ora un par-co con diversi tipi di aree verdi e un lago artificiale. Un esperimento che ristabilisce l’equilibrio avifaunistico dell’area e ricerca un nuovo dialogo con le preesistenze dell’ambiente naturale attraverso sistemi di recupero e filtraggio dell’acqua piovana. Certo più aumenta la scala degli interventi più le cose si complicano. Perché una biblioteca, una chiesa o una scuola occupano uno spazio molto inferiore alle su-perfici che la dismissione ha reso disponibili, che sono dell’ordine dei 50 mila metri quadrati. È pur vero però che, quando le aree a disposizione sono più grandi, aumentano le possibilità di riconvertirle non soltanto come edificio, ma come sistema di edifici e quindi come brano di città. È una grande opportunità di recupero funzionale, e una possibilità di creare nuovi social net-work. Quando la superficie a disposizione lo consen-

santi: a Denton, in Texas, al posto di un ex supermarket c’è ora una biblioteca pubblica: la facciata dell’edificio, un tempo muta e senza finestre, è stata sostituita da una superficie continua di vetri colorati, un espedien-te visivo per confermare la presenza civica del manu-fatto e renderlo visibile. Gli spazi adiacenti, in passato adibiti a parcheggio, sono diventati un giardino che ospita specie vegetali di vario tipo ed è attrezzato con percorsi pedonali e aree per la sosta e il gioco all’aperto. A Los Angeles, nell’area di Camino Nuevo, un edificio commerciale su due livelli il cui utilizzo era decaduto in poco tempo è diventato una scuola, che si distingue dagli edifici circostanti per i colori accessi e caldi delle facciate in intonaco. In molti altri casi poi le superfici un tempo adibite a centro commerciale e parcheggio sono state smantel-late del tutto, per essere riconvertite in terreno vegetale e restituite alla città come infrastruttura ecologica. È il

Torrevecchia,

Roma 2010

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assume le forme del boulevard urbano, con tutti i suoi precedenti figurativi e storici, e come tale integra diver-si tipi di mobilità, ospita linee di trasporto pubblico che garantiscono l’accessibilità a tutta l’area, favorisce la compresenza di più usi e velocità nello spazio stradale.Giusto per fare un ultimo esempio, la strada è l’anima di Belmar, un centro commerciale rigenerato a La-kewood, in Colorado. Il nuovo nome dell’insediamen-to è Bella Italia, al suo interno si trovano una grande piazza pubblica e un sistema di spazi pubblici aperti che ricordano il nostro Paese. Ogni anno a Belmar si tiene l’Annual Italian Festival, un’occasione imperdibile per conoscere da vicino la cultura italiana.

te, il centro commerciale viene affettato, smembrato e separato: in luogo di un unico, immenso volume se ne possono ricavare 10, forse 20, che ospitano fun-zioni diverse, a prevalenza comunque commerciale, e che sono uniti da un sistema di strade, piazze e spazi pubblici. Difficilmente lo scheletro dell’edificio pree-sistente si può recuperare, anzi spesso viene demolito del tutto, un’operazione che implica investimenti di un ordine molto maggiore a quelli richiesti per edificare una chiesa o una scuola. Il risultato è però accattivan-te: un frammento di tessuto urbano compatto, fatto di isolati e strade, che ricorda da lontano le nostre città in Europa, anche se in una forma controllata e forse sem-plificata, meno autentica. È importante notare come la strada torni però a giocare un ruolo fondamentale, perché incorporata come elemento costituente. Spesso

Bufalotta,

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di Daniel Modigliani

il teMpo della Metropoli

La mobilità e le reti di comunicazione hanno cambiato l’uso e la percezione delle nostre città. Le città sono i cen-tri di vita polifunzionali delle comunità, ancora di più se fanno parte di una metropoli. Una metropoli è infatti un agglomerato di insediamenti urbani, ciascuno con un suo nome, una sua identità, una comunità che vive; è un in-sieme di luoghi di residenza, di commercio, di produzio-ne, di servizi e di spazi collettivi.Un tempo si poteva andare a piedi da un capo all’altro della città e nell’andare se ne percepiva la varietà, la complessità e la bellezza. Ogni cittadino avrebbe voluto la sua città più ricca e più bella, perché fosse lo specchio collettivo della sua esistenza individuale: la sua identità era confermata dall’appartenenza alla sua città. Oggi la percezione della città e della metropoli è profondamen-te cambiata. I singoli quartieri (la parola latina indica un “quarto” della città murata) hanno una dimensione de-mografica contenuta e sempre inferiore ai 30 mila abi-tanti. A Roma, una ricerca del CRESME individuò, alla fine degli anni Novanta, circa 200 piccole città che chia-mò “microcittà”; tanti piccoli “paesi”, ognuno con la sua piazza, la sua chiesa, i suoi negozi di vicinato, le sue scuo-le dell’obbligo e i suoi giardinetti pubblici. Queste piccole parti di città non comunicano tra loro, non si integrano: uno dei problemi più rilevanti di un agglomerato metro-politano è proprio l’isolamento dei singoli quartieri.Le persone vanno da uno spazio a un altro, conosciuto o ignoto, e in mezzo non si riconosce nulla, si percepisce solo il tempo del passaggio stesso. Ci si immerge sottoter-ra in una stazione della metropolitana, si accetta un vago-ne come spazio di una piccola comunità casuale, si emer-ge in un altro mondo. Non è molto diverso se si monta in automobile, si guida nel traffico sempre per lo stesso percorso, si parcheggia. Anche da quel punto di appro-do si cambia mondo. Nel viaggio si è alienati. Gli abitanti della metropoli conoscono i loro quartieri di residenza, meno i contesti urbani dei luoghi di lavoro, meno ancora i luoghi dei servizi che la metropoli comunque offre. La percezione della metropoli quindi è assai parziale e quasi sempre un’altra microcittà, pur essendo nella stessa città,

è totalmente ignota e la relazione tra due luoghi si crea solo in modo casuale. Oggi le reti di comunicazione di massa permettono di individuare nuovi obiettivi, maga-ri per lo svago o per le attività sportive, rassicurano gli utenti guidandoli per percorsi certi, mostrano mappe e foto aeree di mondi sconosciuti. Si determinano quindi migrazioni di massa, ad esempio verso i grandi centri commerciali nei giorni di festa, e aumentano considere-volmente gli spostamenti non sistematici, specialmente dei giovani, spinti dalle mode, dalla sete di conoscenze e di esperienze. Per fortuna questi spostamenti avvengono o nei giorni festivi, o nelle ore notturne, cioè quando non si lavora, altrimenti avremmo conseguenze insostenibili sulle reti di mobilità, già oggi al collasso. E tuttavia questo modo di vivere e usare la metropoli è normale in tutto il mondo. Le differenze ci sono, e sostanziali, quando si ap-profondisce il tema della capacità delle metropoli di ren-dere disponibili al massimo i servizi più importanti per tutta la popolazione. La possibilità di spostamento con un mezzo pubblico veloce ed efficiente, del quale è nota la disponibilità in termini di orari e di frequenze, distingue una metropoli moderna da una arretrata. Le possibilità offerte dalle città, senza le connessioni di rete, soprattut-to quelle della mobilità fisica delle persone e delle merci, sono drasticamente ridotte. Il nodo del traffico, che toglie tempo ed energie alle co-munità, è ordinariamente percepito come il problema principale. I fattori negativi indotti da un sistema di in-frastrutture inadeguato sono molti: la diseconomicità, l’alienazione individuale e collettiva sempre più spesso si trasformano in aggressività. Il fattore negativo princi-pale però è il costante attentato alla salute portato dalle emissioni inquinanti dei motori. Se, come sembra dai dati demografici a livello nazionale, europeo e mondiale, la po-polazione urbana e metropolitana aumenterà da oggi al 2050, passando dall’attuale 27% al 50%, le città dovran-no affrontare i problemi della sostenibilità ambientale con una determinazione che ancora oggi manca. D’altra parte si conferma che le città sono il motore economico del mondo e per questo cresce la loro popolazione. Il caso

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dell’area metropolitana romana ha delle sue proprie pecu-liarità. La storia urbanistica del secolo passato ha segnato uno dei livelli più bassi nella capacità politica e tecnica di governo di una città sempre e comunque in crescita.La Roma dell’unità d’Italia ridisegnata dai piemontesi alla fine dell’Ottocento ha rispettato le previsioni di al-lora, sia in termini quantitativi (piani regolatori ben di-mensionati) sia in termini qualitativi (la produzione di città compatta ma con spazi pubblici). Su questa linea ha anche positivamente proseguito la nascente borghesia industriale indirizzata dal sindaco Ernesto Nathan, che ha incaricato l’ingegnere Edmondo Saintjust di Teulada di elaborare il piano regolatore poi approvato nel 1909. E qui finisce la buona urbanistica. Il piano del 1909 pre-vedeva, ad esempio, una rete tramviaria completa per l’intera città.Negli anni Venti, con il fascismo nascente, inizia una fase negativa che ancora oggi riverbera i suoi effetti. Prima sono state aumentate le quantità edificabili del piano del 1909 (dalle palazzine agli intensivi), poi è stato approvato un piano (iniziato nel 1935 ma il cui completamento si è trascinato fino a pochi anni fa) con alte densità, senza forma, senza disegno dei quartieri, che ha condizionato tutta l’urbanistica successiva.Poi il vero disastro del dopoguerra. L’immigrazione do-vuta all’inurbamento cambia la struttura economica, de-mografica e sociale della capitale. Il piano regolatore del 1965, che doveva essere un nuovo modello, fallisce in pie-no. È un modello utopico di forma urbana, non ricono-sciuto dalle forze economiche della città, che propone un dimensionamento assolutamente oltre ogni ragionevole crescita e – determinando altri guai – non prevede linee di trasporto pubblico di massa né per abbattere il deficit di servizio della città esistente, né per servire la costella-zione dei nuovi quartieri previsti. Un piano spacciato per moderno, che di moderno non aveva nulla. L’incapacità della politica di affrontare i temi di un nuo-vo piano ha determinato altri fenomeni che ancora oggi paghiamo. L’inurbamento travolgente degli anni tra il ’50 e il ’70 ha visto i politici di allora girare la testa per non vedere. In pochi anni si sono occupati migliaia di ettari agricoli con lottizzazioni abusive. Si è consentito di realizzare molte decine di migliaia di alloggi – si di-ceva costruiti “spontaneamente per necessità” – senza alcun controllo urbanistico né pubblico. La scelta politica di lasciar fare per incapacità di governo, che è stata co-munque una scelta, ha condizionato e condiziona ancora gravemente tutta la città e tutta l’area metropolitana. Un terzo degli abitanti di Roma (800 mila) vivono nella cit-

tà spontanea, costruita senza piano. Tutti i romani però pagano le opere di urbanizzazione più urgenti, le strade, l’acqua, le fognature, la luce, le scuole. I condoni hanno santificato questo disastro. Una città però costruita soli-damente, non affetta da degrado edilizio, una città attiva, che si è arricchita nel tempo e che oggi ospita gran parte della nuova middle class romana. Gli ex abusivi hanno sfruttato a pieno la rendita diffusa determinata dall’inter-vento pubblico di risanamento.Le amministrazioni di sinistra, appena elette, sono co-strette a fare, in affanno, due interventi determinanti, ma non risolutivi. Il primo con il recupero urbanistico degli insediamenti ex abusivi, il secondo nel programmare e re-alizzare un imponente programma di edilizia residenziale pubblica, che non ha eguali in Italia per quantità e qualità. (100 mila alloggi di edilizia pubblica e convenzionata re-alizzati in pochi anni con un esemplare accordo tra dire-zione politica e imprenditori del mondo delle costruzioni. L’edilizia residenziale pubblica di quegli anni, realizzata nel mito del progresso tecnologico e della industrializza-zione edilizia, sconta oggi tutti i limiti della velocità di re-alizzazione, dell’uso di materiali scadenti e della mancata previsione di accorgimenti per la sicurezza e il risparmio energetico.Nel frattempo si costruiva anche l’edilizia privata secon-do le previsioni urbanistiche vigenti. Tutte e tre le componenti, l’edilizia privata legale, l’edili-zia residenziale pubblica e l’edilizia abusiva, non vedono alcuna rete progettata di mobilità. Solo piccoli interventi, l’unico con un disegno è dovuto agli interventi preparato-ri per le olimpiadi del 1960. La città, che è stata soffocata dalla crescita nella mancanza di infrastrutture, non ha ripreso il tema dell’adeguamento infrastrutturale se non con la progettazione delle linee A e B e poi, finalmente, con il programma per le infrastrutture della mobilità, sul quale si sono basate le scelte di razionalizzazione del pia-no regolatore vigente, iniziato nel 1994 e approvato nel 2008.Tuttavia le infrastrutture costano e quelle iniziate restano a metà. La linea metropolitana C ancora non è arrivata alla realizzazione della prima metà e sono finiti i soldi. L’ade-guamento delle infrastrutture a Roma diventa sempre più problematico man mano che diminuiscono le risorse eco-nomiche. Una prospettiva non confortante che tuttavia va affrontata con concretezza scegliendo con attenzione solo quello che si può fare con le risorse disponibili.Il quadro dell’incapacità di governo si completa uscendo dal racconto della situazione del Comune di Roma per entrare in quella dell’area metropolitana. Le città e le loro

Bufalotta,

Roma 2010

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economie non vivono nei limiti dei confini amministrati-vi tradizionali ma, di volta in volta, a seconda dei sistemi urbani di appartenenza, piccoli o grandi che siano, hanno necessità di integrazioni con i contesti territoriali per la programmazione e la gestione delle infrastrutture e dei servizi rispetto ai bacini d’utenza, oltre naturalmente alla necessità di condividere la difesa e la promozione soste-nibile del patrimonio ambientale e culturale. La città metropolitana romana è geograficamente definita tra il mare, l’appennino e i vulcani sabatino e laziale. Ha un centro nella città storica e diverse corone di comuni che la circondano. Si può comunque accettare che i confi-ni della provincia (che comprende 121 comuni) siano an-che i confini della città metropolitana.Siamo nel tempo della metropoli da decenni, ma solo ora lo Stato abolisce d’autorità la Provincia di Roma e isti-tuisce l’area metropolitana. Ma il sindaco metropolitano dovrebbe essere eletto non dai cittadini ma dai sindaci di tutti i comuni e la sua autorità verrebbe meno. Sarà soggetta a ogni ricatto locale. Un passo avanti sicuramen-te l’istituzione della città metropolitana, ma tanto timido

da sembrare un passo indietro rispetto al ruolo storico della Provincia. Non si affronta il nodo del conflitto tra Roma e la Regione Lazio. Il conflitto esisteva già prima dell’istituzione della città metropolitana (Roma 2,7 milio-ni di abitanti e Lazio 5,8 milioni di abitanti), ora diven-ta ancora più marcato (città metropolitana 4,1 milioni di abitanti e Lazio 5,8 milioni di abitanti). Se il motore economico della regione è l’area metropolitana perché il potere legislativo resta in capo a un ente che non rappre-senta il territorio della maggior parte dei suoi cittadini? E ancora, Il Comune di Roma che oggi si è trasformato in Roma Capitale, ha una legge speciale solo per sé. Un canale diretto di finanziamento dallo Stato che non passa per la Regione. Una risposta va data a questa situazione confusa, nella quale la Regione trovi il suo corretto ruolo di ente programmatore e di ente legiferante come la costi-tuzione prevede, ma sciolga con legge regionale il metodo di governo, assumendo copianificazione e sussidiarietà verticale e orizzontale e regoli ruoli e competenze degli enti territoriali.

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di Gianni Biondillo (e Michele Monina)

paSSeggiando in tangenziale

La fermata della metropolitana di Cascina Gobba è un’astronave – di un film di fantascienza di cui ho per-duto la memoria – parcheggiata su piloni di cemento armato. La linea corre finalmente sopraelevata, dopo che si è snodata in un lungo percorso sotterraneo e ha viaggiato sul ciglio della strada per tutto viale Pal-manova; alla fine, con uno scatto di reni liberatorio, sembra prendere il volo verso la Gobba, l’astrona-ve. Da lì si divide: un ramo si incunea nei palazzoni di Cologno Monzese, l’altro insegue la Brianza fino a Gessate. La Gobba è il confine amministrativo di Mila-no, ma è anche un nodo fondamentale per la viabilità dell’area metropolitana, quella che esiste nella realtà di tutti i giorni al di là della farragine amministrativa nazionale – un’amministrazione che continua a pre-vedere decine e decine di comuni, amministratori e assessori all’urbanistica le cui scelte territoriali spesso non tengono conto l’una dell’altra. Dalla Gobba parte anche una metropolitana leggera, di una sola fermata, che collega la città con l’ospedale san Raffaele, eccel-lenza della scienza medica meneghina e cattolica. Lo vediamo di lontano, io e Michele, mentre gli indico una scorciatoia che di straforo ci porterà sul ciglio della tangenziale Est. Attraversiamo un parcheggio coperto, ne costeggiamo uno all’aperto, ci muoviamo per svincoli che non prevedono la pedonalità. Co-nosco questi percorsi da anni, li ho battuti nella mia vita precedente, quando facevo i lavori più oscuri per mantenermi gli studi. Fra sottopassi, svincoli e nastri d’asfalto, dovremmo essere corpi estranei, inadeguati senza l’esoscheletro metallico che ricopre tutti i viag-giatori autostradali. Michele, in effetti, si guarda intor-no circospetto, come l’avessi portato a passeggiare in un paesaggio lunare dove non è prevista la presenza dell’uomo. Ma non è così. Basta seguire i solchi nel mezzo del tappeto erboso delle rotatorie per capire che questi sono sentieri più che mai praticati. Non certo a quest’ora del mattino. Prima, molto prima. All’alba, o di sera tardi. «Guarda i solchi» insisto a dirgli. Sembro una guida indiana che cerca nei pochi

segni sul terreno – un ramo spezzato, lo scorrere di una roggia, un ciuffo di fili d’erba – il percorso più adeguato. Anche questo è fare trekking, gli dico, e lui mi prende in giro: «Che c’entra?», mi chiede «Non siamo mica in mezzo alla natura!»Cos’è la natura? Cos’è un paesaggio naturale? Mai dare nulla per scontato. Se ci rendessimo conto che quello che noi chiamiamo “natura”, “paesaggio naturale”, non esi-ste, se avessimo coscienza come tutta la comunità dei ge-ografi che tutto il paesaggio è antropico, cioè modificato dall’uomo, avremmo chiara l’idea che anche questo è un paesaggio, con i suoi segni da decrittare, con le sue storie e leggende, tutte da attraversare e da leggere. «Guarda i solchi», gli dico. «Non perdere di vista l’origine etimolo-gica della parola trek, che ha a che fare col solco dei carri in viaggio». C’è un errore di comunicazione mediatica a riguardo della disciplina del trekking: non è uno sport estremo, ha una filosofia ben differente. Chi intraprende questa attività sa che non è importante la meta, o l’arri-vare prima: quello che conta è il percorso di conoscenza, sensoriale e interiore. «Cosa ci leggi in questi solchi?», mi chiede Michele. Storie di migranti. Quelle che ho visto con i miei occhi. Extracomunitari che alle cinque del mattino – all’ora che era del risveglio dei nostri nonni contadini – arrivati chissà da che parte della città, attraversano il parcheggio, la rotatoria, superano lo svincolo, scavalcano il guardrail – proprio come stiamo facendo noi ora – e aspettano i furgoni dei caporali che li porteranno nei can-tieri meneghini, a fare più bella e più moderna una città che di giorno non li vuole fra i piedi, ma di notte chiede loro di svegliarsi e di scendere dalla branda per venire qui al mercato delle braccia. Storie di lavoro nero, di lavoro occultato. Come i corpi dei manovali che cadono dalle im-palcature e vengono abbandonati sul ciglio di una strada: basta una chiamata al pronto soccorso e poi la coscienza del caporale è a posto. Chissà quante telefonate hanno ri-cevuto lì, dico e indico verso la scala spiraliforme che sale sulla cupola trasparente del san Raffaele. Certe volte non riesco a dare del tutto torto al mio com-pagno di viaggio. Come si sia riusciti a deturpare il terri-

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torio durante il boom economico lo so, e so pure darmi una spiegazione. Ma come ancora oggi si riesca a perse-verare nella progettazione di assurdità edilizie mi taglia il fiato. Siamo la nazione che ha il più alto numero di lau-reati in architettura. Tutti gli architetti d’Europa, messi assieme, non raggiungono i nostri. Se poi ci aggiungete altre figure professionali – i geometri, gli ingegneri, gli agronomi – abbiamo in Italia un esercito di mezzo mi-lione di persone che mettono materialmente le mani sul territorio: dovremmo preservarlo come un gioiello di fa-miglia e invece lo usiamo come campo di battaglia, come spazzatura delle nostre pulsioni estetiche, come preda da razziare. L’ho detto e non ho problemi a ripeterlo: in Ita-lia nove edifici su dieci non sono stati progettati da archi-tetti, non abbiamo tutte le colpe, ma questo non mi basta più. Quello che stanno facendo gli architetti oggi è così deprimente, così prono alle leggi del mercato, senza più nessun desiderio di un autentico progetto del futuro, che mi nausea. Quanti siamo? 150, 180 mila? Esistiamo ma non siamo coscienti di essere una categoria, un gruppo. Pronti come siamo a rubarci il lavoro, ferini, pronti a fare tutto quello che ci viene richiesto dai committenti, dalle istituzioni, dalle amministrazioni, pur di portare il lavoro a casa. Ha ragione Gianluca, il mio amico trekker. Ma an-che compagno dalle scuole superiori, collega architetto, socio di studio, amico sincero: «Ormai noi architetti», mi ha detto una volta «ci siamo trasformati in parrucchie-ri». Ha ragione, ragione da vendere! Forse è anche per questo che ultimamente mi sto convertendo sempre più alla scrittura. Sento di avere un maggiore spazio critico scrivendo, spazio che la professione pare avere defini-tivamente precluso. L’architettura non è più critica del contesto, ma la sua spettacolarizzazione. Ormai il fare ar-chitettonico si è dimenticato della triade vitruviana, quel-la che ha organizzato da sempre la regola professionale. Della firmitas, la solidità della struttura e la conoscenza dei materiali, pare non interessi più a nessuno, così come della utilitas, l’utilità del manufatto architettonico, la sua ragion d’essere, il suo modo di rispondere a un problema dato attraverso un disegno funzionale. Tutta la nostra professione sembra schiacciata sulla venustas, sul fare architettura bella, gradevole all’occhio, spesso solo spet-tacolare, che stupisca, che sia inimmaginabile, fantasiosa e che faccia scalpore. È una logica che avvicina l’architettura alla moda, all’e-vento, alla performance. E in fondo la sovrapposizione che si fa fra architetto, designer, stilista è ormai cosa del sentito quotidiano. Ma come si può pensare che manufatti edili che mutano il nostro panorama urba-

no possano essere concepiti con la logica dell’effimero? Architetture spesso così avulse dal contesto da stridere, fare a pugni col territorio, umiliandolo, banalizzandolo per eccesso di originalità? L’architettura non ha il dove-re di essere originale a tutti i costi, non sopporto questa assurda tirannia del bello. Dobbiamo tornare a pensare l’architettura come la risultante delle tre categorie vi-truviane, pena il suo dissolversi nel banale. Anche per-ché i tempi dell’edilizia sono lunghi, molto più lunghi dei rendering di progetto fatti al computer. Se non si costruisce pensando agli anni che si depositeranno sui muri dei nostri sogni architettonici, edificheremo case destinate a essere continuamente “fuori moda” e male-dettamente scomode.Il mondo della moda sa che gli tocca vivere nell’imme-diato, nella obsolescenza delle forme. Su questo ha co-struito la sua filosofia. Ma la disciplina architettonica, presa com’era dal trasformarsi in un mondo di archistar, non ha capito che la moda non esiste solo nelle sue ma-nifestazioni effimere. La moda non è solo sfilate, eventi mondani, pierre, gossip. L’universo della moda è ben oltre l’immagine festaiola che dà di sé sulle riviste pati-nate. Quella è strategia, è marketing. Ma è il know how del lavoro silenzioso della moda, quello fuori dai riflettori televisivi, la vera struttura portante dell’intero sistema. Dovremmo spostare il fuoco della nostra attenzione dalle “grandi firme” al mondo degli artigiani – quelli che la-vorano qui, nelle loro officine abbarbicate attorno alla tangenziale – che, con sapienza certosina, producono, pezzo dopo pezzo, manufatti che sono piccoli capolavori. La ricchezza, la tradizione sapienziale del nostro artigia-nato dovrebbe essere il modello di molti miei colleghi architetti. Più umiltà, insomma. Impariamo dalla moda, ma dal basso. Tiriamoci su le maniche e sporchiamoci le mani. Non può che farci bene.Stiamo costeggiando il nastro della tangenziale, elevato di un paio di metri rispetto al piano di campagna. Cam-miniamo inclinati, nell’erba, con le macchine che ci sfrecciano accanto, appena al di là del guardrail. Siamo in una terra di nessuno, se passasse un tecnico dell’A-NAS probabilmente ci multerebbe. È vietato cammi-nare su questa scarpata, e infatti stiamo cercando un varco che ci faccia attraversare la rete metallica che ci separa dal parco Lambro. Oltre la rete vedo la cascina gestita da don Mazzi, poi campi coltivati, file d’alberi, una casa immersa nel verde con le finestre che guar-dano la tangenziale, poi finalmente il varco. Attraver-siamo la rete piegata dall’uso dei vari pellegrini oscuri notturni, senza cittadinanza, e veniamo accolti da un

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paio di persone che fanno jogging lungo i viali del par-co. Sembra di entrare in casa di qualcun altro dalla fi-nestra, come se entrassimo nella scena di un film non convocati, come se salissimo sul palco del teatro dalla platea, non invitati, non voluti.Lambrate è uno dei quartieri simbolo della cintura mi-lanese. Ci sono notizie, tracce, fin dall’antica Roma. Qui vennero accolti i milanesi dopo che il Barbarossa distrus-se Milano: qui passò Renzo Tramaglino, in fuga verso Trezzo d’Adda, qui la Innocenti, dal secondo dopoguerra, produsse un numero spropositato di Lambrette. Se gi-rassimo per via Feltre vedremmo uno dei più bei quar-tieri popolari di Milano ma noi decidiamo di passare sotto la tangenziale e di costeggiarla dall’altro lato, dove incontriamo il cimitero, il primo di una lunga serie. Non è strano. I cimiteri, per normativa e tradizione, vengono posti ai limiti della città, lontano dai tormenti della frene-tica vita urbana. È al confine di tutto, alla periferia delle periferie. Inevitabilmente, ponendo i cimiteri il più lon-tano possibile dai nuclei storici dei vari borghi e quartieri, come perle di una collana infilate l’una dietro l’altra nel filo della tangenziale, troveremo lungo il nostro cammino lapicidi, marmoristi, pompe funebri e fiorai. L’economia della morte. Incrociamo anche una cascina abbandonata, piena di graffiti, senza più serramenti, col tetto perico-

lante. Una delle tante che costellano la corona di Milano. Autentici monumenti in sfacelo, sembra stiano attuando un suicidio collettivo come se si stessero lasciando andare per mancanza d’amore. E così è: la città tumultuosa pre-ferisce costruire in “pseudocascinale brianzolo”, degno del più allucinato Gadda, che preservare questi segni mil-lenari che il territorio ci ha affidato. Ogni tanto qualcuno

ci pensa, ogni tanto qualcuno ha idee sensate su questo patrimonio. Stefano Boeri, ad esempio, ha fatto una pro-posta: che almeno 21 delle 46 cascine storiche, quelle di proprietà comunale, vengano convertite, riqualificate. Con la prossimità dell’Expo si potrebbe pensare di tra-sformarle in residenze temporanee, ostelli, centri d’acco-glienza. Farli tornare a essere luoghi, farli tornare in vita. Un modo di fare della memoria un’opportunità. Riattraversiamo la tangenziale e ci inoltriamo in via Sbodio, area ex industriale e ora riconvertita a loft, gal-lerie d’arte, librerie, uffici. C’è anche la scuola araba. Un quartiere ex operaio che, con un colpo di coda, sta rina-scendo a nuove funzioni. È giusto così, le città non sono massi inamovibili, eterni. «Le città fatte di soli capola-vori sarebbero mostruose», diceva Giovanni Micheluc-ci. Le città non sono musei congelati nell’azoto liquido. Le città sono organismi viventi. Mutano pelle, svuotano gli intestini, crescono, decrescono, amputano arti, pro-ducono scarti che diventano a loro volta materia prima di nuove idee dell’abitare. Michele non apprezza appieno questi miei ragionamen-ti. Per uno scrittore come lui, lo capisco. Siamo legati ai paesaggi della nostra infanzia, convinti che siano eterni solo perché sono a noi precedenti. Odiamo vederli mu-tare perché è come se dovessimo ammettere la caducità dei nostri punti di riferimento privati, come se perdes-simo pezzi della nostra identità. Ma occorre non cadere nell’equivoco, nella confusione fra memoria e nostalgia. Il passato spesso vive di un’autorità che non si merita; persino le architetture naziste, staliniste e fasciste, per il semplice fatto che hanno ormai addosso la patina del tempo, ci paiono migliori. Eppure, insisto; tanto quanto abbiamo il dovere della memoria, altrettanto dobbiamo rifiutare la nostalgia per un passato ideale che non è mai esistito. L’identità di un popolo, così come il paesaggio di una nazione, sono sempre in divenire, in movimento; ridefiniscono i confini, ogni giorno si rimettono in gio-co e patteggiano il loro essere nel mondo. Le città sono luoghi dove l’economia si fa segno, evidenza. Produco-no bubboni gonfi e purulenti, come il nuovo quartiere Rubattino, con una densità edilizia spaventosa – da speculazione d’altri tempi – e con una resa architettoni-ca davvero modesta, ma anche piccoli interventi natu-ralistici là dove neppure te lo aspetti, sotto i piloni della tangenziale alti e imponenti come i pilastri di una catte-drale. Ci ha pensato Andreas Kipar a fare di un luogo di scarto un piccolo giardino zen, appoggiando i piloni di calcestruzzo in uno specchio d’acqua, quasi sorgessero come fiori di loto.

Bufalotta,

Roma 2011

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Camminiamo per un po’ sotto la pancia del pachiderma viario, poi ci inoltriamo di nuovo verso la città. Il nostro percorso quotidiano è quasi terminato, ancora un ulti-mo sforzo. In via Pitteri riconosco la sede dei martinitt. Lo dico con entusiasmo, emozionato, quasi. Il volto ine-spressivo di Michele mi lascia senza parole. «Cosa sono i martinitt?» mi chiede. Come cosa sono? I martinitt sono la storia di Milano, la storia dell’Italia intera. Michele è di Ancona, e non smette di ricordarmelo. «Voi milanesi» mi dice «avete la tendenza a credere che tutto quello che vi riguardi sia di patrimonio nazionale. Non è così». Ma i martinitt sono i martinitt, santo cielo. È più di uno sto-rico istituto di assistenza per gli orfanelli. È la prova che davvero, una volta, Milano ha avuto el coeur in man. È la storia di bambini umili, poveri, analfabeti, che sono cre-sciuti nell’istituto e hanno trovato la loro strada là fuori nelle strade di Milano. È la storia di Edoardo Bianchi, il creatore della bicicletta moderna, l’inventore dei nostri centauri infantili, produttore di una mobilità ecologica e ancora modernissima. È la storia di Angelo Rizzoli, orfa-no di un ciabattino analfabeta, editore che per primo ha messo in tasca di milioni di italiani edizioni economiche dei classici della letteratura. È la storia di Leonardo Del Vecchio, presidente della più grande azienda di occhiali di lusso e da sole del mondo. Come si fa a non sapere cosa sono i martinitt? Un giorno ti porterò al museo dei martinitt e delle stelline, gli dico. «Cosa sono le stelline?»

chiede. Un nome che è la poesia stessa del dialetto mila-nese. Le orfanelle venivano chiamate “stelline”. C’è an-che un Palazzo delle Stelline in corso Magenta, l’antica sede dell’istituto.Lo spiccato della ferrovia ci obbliga a girare a sinistra. Se-guiamo via Cima, vicino al ponte pedonale che scavalca il piano del ferro. Siamo all’Ortica, altro storico quartiere operaio. Gettiamo uno sguardo verso la tangenziale, poi riscendiamo le scale dall’altro lato. Di fronte ai nostri oc-chi in tutta la loro arroganza, troneggiano le tronfie “torri di Ligresti”. Sì, lui, Salvatore Ligresti. L’imprenditore che fino agli anni Ottanta ha distribuito identici, orribili, inu-tilizzati cubi vetrati per tutta la città. Don Salvatore, che ancora oggi, dopo la buriana di Tangentopoli, come un giunco piegato dal vento ma non spezzato, ha rialzato il capo e ha preso in mano uno degli affari più succulenti della Milano prossima ventura, i tre grattacieli della ex fiera. Uno al quale dovremo dedicare nel futuro prossi-mo il titolo di Ridi segnatore urbano. Colui che ha avuto Milano in mano per oltre 30 anni, roba da fare invidia pure a Ludovico il Moro. Il contrario di quei martinitt, di quelle stelline della mia personale mitologia, quella che mi fa intimamente amare questa città.

Estratto da: Gianni Biondillo, Michele Molina, Passeggiando in tangenziale, Guanda editore 2010.

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di Karen Bermann e Isabella Clough Marinaro

Segregazione / dezingarizzazione

In risposta ai crescenti timori nei confronti dell’immi-grazione e della criminalità urbana, negli ultimi 20 anni l’assemblea capitolina ha sviluppato un sistema all’avan-guardia di enclavi residenziali suburbane: mega-campi isolati nella periferia di Roma creati con fondi pubbli-ci per alloggiare la tanto disprezzata minoranza Rom. Queste enclavi sono state promosse dal recente governo Berlusconi (2008-2011) come un modello, da esportare, per la gestione efficace di una minoranza a cui spesso è attribuita la criminalità e l’insicurezza in ambito urbano. I mega-campi sono un’immagine speculare delle gated communities – enclavi private residenziali ad alta sicu-rezza – che si stanno sviluppando nei sobborghi delle cit-tà in altre parti d’Europa e in Nord America. Entrambe esistono per isolare gruppi sociali, i privilegiati e gli in-desiderati, così da creare un senso immaginato di ordine e sicurezza in città. Queste enclavi condividono lo status di “non-luoghi”, spazi dove le persone non entrano vera-mente in relazione: esse non si sviluppano organicamen-te dal contesto sociale in cui si trovano e permettono solo una limitata interazione con quest’ultimo. Poiché anche altri governi dell’Europa occidentale faticano a gestire l’aumento nel numero di Rom che migrano dai nuovi paesi membri della Comunità europea, questi campi po-trebbero benissimo diffondersi ulteriormente. I dibattiti sulle gated communities forniscono una lente utile attraverso cui osservare lo sviluppo di questi campi in Italia. Come sostenuto da Van Houtum e Pijpers, l’U-nione europea stessa somiglia sempre più a una gated community che dedica notevoli risorse per tener fuori immigranti poveri, spinta dalla paura che questi abbas-sino lo standard di vita dei suoi membri aumentando la criminalità, mentre accoglie gli stranieri più ricchi e altamente qualificati che ritiene funzionali al proprio benessere. L’emigrazione da paesi non comunitari e, in misura crescente, movimenti da stati poveri a stati ricchi all’in-terno dell’UE è uno dei temi ricorrenti nei discorsi sulla messa in sicurezza, tanto in politica quanto nei media. L’Italia, spesso considerata il ventre molle attraverso cui

immigrati indesiderati si intrufolano facilmente dentro l’Unione, è sotto pressione particolare per dimostrare di poter proteggere la sua parte della metaforica recinzione. Il governo Berlusconi vinse le elezioni del 2008 in par-te impegnandosi su questo tema; altri politici di destra continuano a focalizzare fortemente il collegamento tra immigrazione e volontà di far sentire più sicuri i cittadini.È all’interno di questo contesto di diffusione di complessi residenziali fortezza che i mega-campi, creati con fondi pubblici, dovrebbero essere letti. Questi spazi funzionano simultaneamente come gated communities e come loro antitesi; esistono per fornire una barriera che protegge gli abitanti della città dai nemici percepiti, ma lo fanno chiudendo e isolando la fonte della paura, non i romani. Naturalmente tali recinti non sono una novità; Roma fu sede del ghetto ebraico più longevo (1555-1870), dove una comunità intera veniva delimitata con la forza per proteggere la popolazione cristiana dalla contaminazione mentre ufficialmente si sosteneva di voler così protegge-re la cultura ebraica e i suoi membri da attacchi esterni. Come il ghetto, i campi di oggi servono da strutture per la sorveglianza di un presunto gruppo sovversivo. Nono-stante i campi non siano formalmente coercitivi, i Rom non hanno molte alternative al risiedervi che non siano il vivere in perpetuo movimento. In una città dalla cro-nica scarsità di alloggi pubblici e dove il razzismo verso i Rom si mescola con i loro livelli spesso critici di povertà, ottenere una sistemazione standard è sovente impossibi-le per loro. Le autorità municipali hanno dichiarato che quando esisteranno campi attrezzati sufficienti ad acco-gliere 6.000 Rom nessun altro accampamento verrà più tollerato, ignorando il fatto che la reale popolazione Rom a Roma si avvicina alle 12.000 persone. In altre parole, tali campi servono alla “de-zingarizzazione” del resto della città. Una differenza cruciale, però, tra i campi e il ghetto è che quest’ultimo era localizzato centralmente, agendo sulla sua popolazione come memento del potere cattolico, ma permettendo allo stesso tempo agli ebrei di continuare a svolgere nel resto della città gli importanti ruoli economici a loro assegnati. I mega-campi odierni in-

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vece sono posizionati al di fuori del raccordo anulare, per impedire l’interazione sociale ed economica con il resto della popolazione. Le due sezioni che seguono esaminano un accampamen-to tollerato presente da decenni ma che la giunta comuna-le ora prevede di sgomberare, Menina, e un mega-campo già in funzione, Castel Romano, prestando attenzione ai loro rispettivi gradi di gatedness (fortificazione e chiusu-ra). Ubicazione geografica, opzioni di trasporto e metodi di sorveglianza sono tutti fattori che costituiscono il gate metaforico unito alle recinzioni vere che cingono ognu-no di questi insediamenti. La condizione di gatedness (chiusura) o della sua mancanza sollevano quesiti circa le possibilità di scambio sociale ed economico tra interno ed esterno. Si può valutare il livello di efficacia delle gated communities in base a quanto i loro residenti riescono a controllare le dinamiche di tale scambio. I mega-campi riducono quasi a zero la possibilità di scambio che è in-vece presente nei campi informali tollerati, mentre am-plificano drasticamente e intenzionalmente le condizioni di esclusione.

Menina – Al limite della città di Roma, oltre il raccordo anulare, è sito un pezzo triangolare di terra bordato da traffico sui tre lati. Lo svincolo autostradale è un “non-luogo” per eccellenza: piccolo, apparentemente senza una rilevanza culturale, senza valore fondiario e teorica-mente inabitabile. È qui che una comunità di circa 100 Rom, membri di una famiglia estesa della ex Jugoslavia, vive dal 1995. Il campo della Menina è stato costruito, è gestito ed è mantenuto dai suoi abitanti. Le persone vi-vono in roulotte e in piccole case di legno costruite con materiali spesso trovati in giro e riciclati. Le autorità e i media lo definiscono “spontaneo” o “improvvisato” ma in realtà negli anni si è sviluppata una logica complessa, non evidente nell’immediato, che riflette parentele e affinità nell’organizzazione degli spazi, nell’orientamento di fine-stre e porte, nella rete di tubi da giardino che serpeggia attraverso il sito. Poco dopo l’insediamento del campo, la città fornì ba-gni chimici e un’alta recinzione di metallo lungo tutto il perimetro. Dopo alcuni anni venne istallato un punto di approvvigionamento idrico. Questi contributi infrastrut-turali dimostrano la complessa e ambivalente relazione tra campo e amministrazione comunale che ben si può esprimere nel termine “tollerato.” Non ci sono cancel-li nella recinzione; questa è interrotta da aperture per il passaggio pedonale in diversi punti e un varco sufficien-temente largo per i veicoli funziona da ingresso principale

ufficioso. Qui si trova il rubinetto dell’unica fonte d’acqua di tutto l’insediamento. La recinzione non serve per tenere le persone dentro, ma scoraggia i bambini ad andare in mezzo al traffico. Fun-ziona come muro, creando un senso positivo di interiori-tà, chiusura e sicurezza. Viene usata dagli abitanti come sostegno per fiori e rampicanti, per appoggiarci panni, pentole e padelle o per far prendere aria ai tappeti. Ci sono punti dove la recinzione permette di vedere dentro e punti dove inveceè visivamente impenetrabile. La vista agli automobilisti curiosi che rallentano per dare un’oc-chiata agli “zingari” viene in tutti i modi oscurata; l’op-pressivo, assurdo fatto di vivere su uno svincolo autostra-dale, e la condizione di vulnerabilità e isolamento che ciò comporta viene nascosta . Il senso di essere “fuori” dalla società italiana contemporanea è controbilanciato da una forte sensazione di essere “dentro”, un sensazione che è alimentato dalla recinzione e dal fatto che essa sia stata addomesticata e resa parte dell’ornamento del campo. Questa descrizione comunque non dovrebbe fare ignora-re la povertà estrema e i pericoli che minacciano i resi-denti di Menina. Se una bomba molotov venisse lanciata da un veicolo di passaggio – come successe in un altro campo a Roma nel 2007 e su scala più ampia a Napoli nel 2008 – la recinzione non sarebbe di alcun aiuto. Quando la polizia arriva all’alba con cani e megafoni per controlla-re i documenti, il senso di intimità creato dalla recinzione sparisce in un solo momento.La recinzione non tiene le persone fuori in senso letterale, ma indica comunque un confine; protegge dal traffico più efficacemente di un marciapiede e limita i punti di ingres-so. Essa esprime chiaramente il fatto che Menina non è completamente aperta, non è completamente pubblica. Le sue “strade” interne – vialetti sterrati o con ghiaia – tecnicamente si trovano dentro i limiti della città, eppure non sono strade urbane. Non tutti sono i benvenuti, non tutti vi possono risiedere. La stessa ubicazione di Menina funziona metaforicamente da recinzione, da meccanismo di distanziamento. Il senso di isolamento nel campo, tuttavia, è parziale, fluttuante. La Menina non è come una prigione; c’è un continuo via vai. Negozi, bar e benzinai sono facilmente raggiungibili in auto o a circa 20 minuti a piedi, l’autobus si ferma lì vicino, i bambini giocano in strada, gli adole-scenti passano il tempo presso la recinzione, gli amici vengono a far visita. I contributi infrastrutturali dati dalla città, che sono surrogati della sua presenza – rubinetto dell’acqua, bagni chimici, e recinzione – definiscono essi stessi il confine.

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Menina, dunque, può essere pensata come una gated community parziale. Tale ambivalenza fa parte della sua stessa identità. È contemporaneamente improvvi-sata e di lunga durata, abusiva e tollerata, luogo e non luogo. L’ambivalenza caratterizza la sua relazione con la comunità circostante; i suoi abitanti sono ben conosciuti nel quartiere eppure vivono in condizioni dimarginalità. Come gli abitanti benestanti di una gated community esclusiva, essi fanno e non fanno parte del giro locale. Sia la chiusura sia la porosità contribuiscono a definire il senso di luogo secondo i termini antropologico-culturali definiti da Marc Augé. Dal 2009, tuttavia, Menina è nella lista dei primi cinque campi che la città vuole demolire. Dove andranno a vivere le sue famiglie dopo che le case in cui hanno vissuto per 17 anni verranno rase al suolo non si sa, ma è probabile che molti siano poi trasferiti in un mega-campo simile a Castel Romano.

Castel Romano – La posizione del mega-campo di Castel Romano sembra appropriata, desiderabile, perfino per una gated community: fuori Roma, accessibile con l’au-to, vicino a una strada importante, a una riserva naturale, e a un enorme outlet dallo stesso nome. Visto su Google Maps, dall’alto, lo si nota subito come una forte interru-zione tra i campi coltivati: due rettangoli che paiono di terra nuda, al margine di una delle arterie di traffico più veloci e pericolose (la via Pontina), punteggiati di rettan-goli allineati su una griglia, tutti container metallici del tipo usati per alloggi di emergenza. Castel Romano, che ospita fino a 1.000 persone, è uno dei primi mega-campi costruiti dall’amministrazione comunale per alloggiare i Rom. Walter Veltroni, il sindaco di sinistra che ne sovrin-tese la costruzione, lo chiamò “villaggio della solidarietà”. L’ironia del termine è evidente dato che c’è tutto tranne solidarietà per e tra i vari gruppi etnici che ci vivono. Il mega-campo stipa insieme molteplici gruppi di Rom che provengono da paesi e culture diverse e che sono molto restii a vivere insieme. Costringerli a tale convivenza au-menta non solo i livelli di tensione ma anche la sensazio-ne di isolamento.Dalla via Pontina, Castel Romano si presenta per mezzo di una recinzione di rete metallica molto alta che, nono-stante sia il simbolo più letterale del campo, è alla fine la meno significativa delle tattiche di contenimento, su-perata da metodi psicologici, economici e pratici. L’iso-lamento è il primo di questi metodi. Il campo si trova a 20 km dal centro della città e dalle scuole che i bambini frequentavano prima del trasferimento. Qualche resi-dente ha un auto, ma molti altri no. Il prezzo della benzi-

na è alto e nessuna strada di accesso è stata costruita per permettere ai veicoli di uscire dalla via Pontina o immet-tervisi. A questa difficoltà contribuisce il frequente e tal-volta arbitrario sequestro delle automobili da parte della polizia. Le microeconomie da cui dipendono i redditi di molti Rom – trasporti di piccolo raggio, carico e scarico di materiali di scarto, recupero e rivendita metalli, com-mercio ambulante, lavorazione del metallo – richiedono veicoli. Per gli abitanti senza automobili, muoversi da e per le zone residenziali e commerciali diventa arduo; con i mezzi pubblici ci si impiega almeno un’ora, a vol-te anche due ore e mezza, per arrivare nel loro vecchio quartiere.

Bufalotta,

Roma 2011

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Quindi se la prima fase di “de-zingarizzazione” ha rimos-so i Rom dal centro città spostandoli nei sobborghi più prossimi, oggi significa spostarli ancora più in là e toglie-re gli accampamenti da dove, nonostante una segrega-zione de facto e condizioni di vita spesso difficili, hanno un qualche grado di autonomia e libertà di movimento e dove un’interazione con i non-residenti del campo esiste. La “de-zingarizzazione” oggi cioè significa sempre più spostare i Rom in “non-luoghi” fuori città, come Castel Romano, caratterizzati soprattutto da separazione a mol-teplici livelli. I nuovi mega-campi, teoricamente, rendono le gated communities non necessarie perché ne svolgono la stessa funzione. La politica di segregazione forzata e

controllata da parte dell’amministrazione comunale in-coraggia la percezione che il centro città sia pulito e sicu-ro, reso tale a vantaggio di chi può permettersi di viverci e visitarlo. Quindi non sono più soltanto le gated commu-nities benestanti, ma anche il centro città, a essere gated. Il commento di Jane Jacobs riguardo alla città americana si può applicare altrettanto bene al nostro contesto: «le città hanno la capacità di fornire qualcosa per tutti solo perché, e solo se, sono create da tutti».

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di Francesco Marullo

Strategie dell’incerto

L’espressione terrain vague è un ossimoro. Terrain definisce la consistenza arida e solida della terra, in op-posizione alla liquidità indistinta dell’acqua. La doppia origine latina del termine vague, invece, indica sia il vuoto, l’assenza di attività o la mancata presenza di un pieno, sia l’indeterminato, l’impreciso, lo sfumato che ne permette una perenne mobilità e oscillazione, grazie alla forma non confinata e senza destinazione. Nonostante l’ambivalente conflittualità implicita nello stesso campo semantico, nella recente letteratura urbanistica sembra che il terrain vague sia sempre stato considerato per via negativa: uno spazio esterno, sinonimo di tutto ciò che non costituisse propriamente “città”, placato perché fuori dai circuiti effettivi della città e delle sue strutture produttive, escluso dalla vita civile, dagli usi tradizionali o dai processi di sviluppo urbano. All’interno di un piano operante per zone, separazioni e negazioni, il vago non poteva che rappresentarne l’alter ego, dentro e contro l’ordine funzionale della città: i vuoti, i luoghi mancanti di una configurazione appropriata e dunque inutili, ab-bandonati, solitamente relegati in zone marginali o in-terstiziali perennemente “da riqualificare”.In realtà, più che rappresentarne un’eccezione, il terrain vague incarna uno dei principi generatori della metro-poli moderna, di cui le attuali tendenze del capitalismo cognitivo ne hanno propriamente messo a lavoro le ca-ratteristiche fisiche, psicologiche e politiche all’interno di un apparato di produzione omnicomprensivo. In una coincidenza quasi paradossale tra spazio e natura umana, tra caratteristiche contingenti e costanti biologi-che, maggiore è la precarietà di un luogo e più evidente ne risulta l’inerente potenzialità, l’apertura alla diffe-renza e alla divergenza, la permeabilità, la flessibilità e le capacità di ricomposizione ma, soprattutto, l’ampia possibilità di azione. Costituendosi di volta in volta rispetto alle energie e le in-tensità che vi convergono, il terrain vague si pone dun-que come importante sorgente produttiva e come fonte di organizzazione di nuove soggettività; al punto che la città non si sviluppa più attraverso sistemi di “pieni” e

semplici leggi di profitto, quanto piuttosto attraverso il progetto di “vuoti” e un’astuta organizzazione di “assen-ze”, per gestire regimi di rendita potenziale.L’essere umano è vago per natura. Nasce sprovvisto di istinti specializzati, privo di un ambiente preciso in cui svilupparsi. A differenza degli altri animali, legati a un particolare contesto ecologico, in uno scambio mutevole di stimoli e reazioni senza il quale non potrebbero so-pravvivere, l’uomo è costretto a confrontarsi continua-mente con la totalità di un contesto indifferente, il mon-do nella sua interezza. Mentre l’animale è tutt’uno con la sua attività vitale, non distinguendo sé stesso dai propri istinti, l’uomo fa della sua azione produttiva la ragione profonda della propria autocoscienza. Esplicitando le comuni facoltà fisiche e intellettuali attraverso il lavoro e progettando “habitat” temporanei, o “pseudoambienti”, l’uomo prova continuamente a sé stesso la natura della sua specie, rendendo produttiva l’angoscia per le proprie carenze biologiche.Più che di istinti, è dotato di potenzialità, ovvero l’insie-me di facoltà generiche, mentali e fisiche, che gli permet-tono di agire sul mondo e che Marx riuniva nella defini-zione di forza lavoro. “Generiche”, perché appartenenti a un sostrato comune della specie umana che precede la particolare unicità di ogni singolo individuo. Non è un caso che Marx stesso, ad esempio, consideri l’uomo quale insieme di relazioni sociali definendolo individuo sociale. Nel passato lo sfruttamento della forza lavoro avveniva per via indiretta, attraverso lo sfruttamento del corpo fisico del lavoratore, razionalizzandone i mo-vimenti in energia calcolabile per spazio e tempo, per poi tradurli in salario e profitto; oggi invece, per il capitali-smo cognitivo, lo sviluppo produttivo non è più legato al capitale fisso, alla “fabbrica”, quanto piuttosto al capita-le umano e all’innata vaghezza potenziale, allo scambio d’informazioni, all’intelligenza collettiva e alla scienza in generale. Tutto ciò ha generato una progressiva inde-terminazione della tradizionale dicotomia tra ambiente lavorativo pubblico e ambiente domestico privato, com-penetrati l’uno nell’altro in un ibrido territorio abitativo

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della produzione. Il tempo di lavoro, il tempo libero e il tempo di riposo, sono combinati nella vaghezza di un continuo presente privo di sospensioni e regolamenta-zioni. Il tempo, e il mondo, che accadeva oltre le otto ore retribuite – fatto di conoscenze tacite, affetti e prestazio-ni personali – è stato sempre più assorbito all’interno del ciclo produttivo, aumentando la progressiva alienazione dell’uomo da sé stesso, oltre che dal lavoro e dal contesto delle proprie azioni. Al regime salariale – che comun-que garantiva una seppur miserevole riproduzione della forza lavoro e la possibilità di lotta sindacale: più soldi, meno lavoro – è subentrata la frammentazione della contrattazione individuale e la schiavitù delle prestazio-ni occasionali, che nella retribuzione del prodotto finale non considerano né l’intensità dei processi produttivi, dei quali si appropriano gratuitamente, né la sussistenza della forza lavoro, eliminando qualsiasi prospettiva esi-stenziale del lavoratore.Similmente, se nel passato si limitavano le incongruen-ze e le irregolarità del piano produttivo e del territorio attraverso una rigida pianificazione e un ordinamento minuto e standardizzato dello spazio, nel regime di pro-duzione attuale, ogni eccessiva regolazione delle facoltà intellettive risulterebbe d’ostacolo allo sviluppo del capi-tale stesso. Per questo si è passati da un sistema chiuso di sfruttamento e profitto ad aperti meccanismi di rendita, dove il capitale rimane essenzialmente esterno, svolgen-do soprattutto funzioni di coordinamento e gestione, generando una parallela evoluzione dello spazio produt-tivo verso regimi regolati di indeterminazione, in terrain vague ad aria condizionata ed energia elettrica. L’impresa postfordista ha gradualmente introiettato spa-zi e programmi un tempo al di fuori dei limiti canonici del rapporto di produzione, gestendo anche le offerte del tempo libero, organizzando corsi di formazione e coor-dinando attività di supporto alla dimensione domestica del lavoratore. All’esclusività dello spazio aziendale, fatto di precise proporzioni e relazioni calcolate, è subentrata la vaghezza di un’architettura senza qualità: più la forza lavoro è sfruttata nella sua forma generica, come pura

“attività” mentale ed emozionale, più l’apparato capita-listico è costretto a svuotarsi e semplificarsi, trasforman-dosi in pura infrastruttura produttiva. Un’infrastruttura fatta soprattutto di vuoti in affitto, volontariamente non pianificati in modo da assorbire quanto più valore possi-bile dai contesti, dalle attività e dai soggetti con cui inte-ragiscono, trasformando il contenere e il circolare della forza lavoro in valore, la rendita in profitto. Al massimo dello sfruttamento, il capitale ritrova la radice indetermi-nata della capacità produttiva umana, capovolgendone l’implicito sradicamento ambientale in fonte di profitto. L’azione e gli sforzi di una moltitudine di soggetti, che del vago fanno una risorsa per costruire istituzioni comuni, progetti di solidarietà e lotta collettiva, organizzazione e resistenza, diventano terreno fertile per strategie liberiste di valorizzazione. La neutralizzazione politica di centri sociali e occupazioni, comunità artistiche e aree dismesse trasformate da epicentri di controculture underground a creative factories, divengono utili a rilanciare il mercato dei suoli e a riqualificare le diverse economie in zone me-tropolitane depresse: in realtà questa non è che una delle principali conseguenze di tali ri-appropriazioni urbane, spesso ampiamente pubblicizzate o perfino sponsorizza-te da istituzioni pubbliche. Indulgere ancora in una definizione di terrain vague quale dimensione “autonoma”, in un’idea di città più giusta e meglio progettata o in una dialettica di centri e periferie, porta soltanto a delle rappresentazioni ridut-tive e mistificate di una realtà che è invece omogenea e ramificata, uniforme in qualità e soltanto differente in quantità. Più che accrescerne l’estetizzazione, è necessa-rio difendere l’azione collettiva e la cura per un tempo e uno spazio comune che il terrain vague è capace di ge-nerare, che è come dire la volontà di negare la negazione del piano attraverso la costruzione di strategie di esodo e tumulto.

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di Arnaldo Cecchini e Valentina Talu

contro la Sparizione della città

In un fortunato, documentato e un po’ contraddittorio libro, Robert Frank descrive il mondo del Richistan, l’enclave pervasiva che in ogni paese del mondo radu-na i ricchi estremi e il loro vasto intorno di cortigiani e ciambellani. Si è ricchi sempre in relazione agli altri e nella stessa epoca; di ricchissimi ce ne sono stati sempre, ma “così ricchissimi” e così tanto lontani per ricchezza e potere dalla grande maggioranza degli altri viventi non ve ne erano più stati quasi certamente dopo l’epoca, pe-raltro mitologica, dei semidei.Il fatto è che oggi i potenti della terra sono come i semidei della mitologia – come essi legibus soluti, ma anche sen-za legge, anomoi, ultrapotenti e visibili – condividendo con gli altri esseri umani solo la condizione mortale; i mo-derni semidei non condividono con noi mortali neppure i luoghi – cosa che quelli antichi spesso facevano – essi vivono nei loro “olimpi” o negli spazi separati dentro o tra le città degli uomini; anche quelli tra loro o tra i loro ciam-bellani, che debbono fermarsi nelle città con una qualche frequenza, si costruiscono come casta separata, come Ro-drigo Pla racconta nel suo film del 2008 La Zona.Questo fatto ha conseguenze enormi per la città.Vi è stata un’epoca nella storia recente dell’umanità in cui le cose non sono andate così; epoca di conflitti fred-di e caldi, del rischio della mutua distruzione, di poten-zialmente catastrofiche brinkmanship (danza sull’orlo dell’abisso), di asperrimi conflitti internazionali, delle guerre di liberazione dal colonialismo e di regimi totalita-ri al potere in mezza Europa. Epoca, però, di crescita del benessere collettivo, un periodo lungo più di 25 anni di prosperità e progresso. Conflitti razziali, povertà, emar-ginazione, appetiti sfrenati della speculazione, stagna-zione economica e squilibri regionali – che pure erano presenti – sembravano poter esser parte di un passato che doveva e poteva essere “superato” e riformato.In Europa e in moltissimi paesi del Terzo mondo, vi era anche un forte conflitto sociale e una sinistra organizza-ta e influente, una sinistra che a volte contestava quelle scelte riformiste come strumentali alla sopravvivenza del capitalismo ma che – insieme con il quadro interna-

zionale – costringeva quei capitalismi a essere riformisti loro malgrado, a costruire lo stato sociale, a difendere gli spazi pubblici, a ridurre le disuguaglianze: il grande mo-vimento di massa del ’68, il momento in cui il pendolo politico ha raggiunto un suo estremo.

Quella di oggi è una globalizzazione speciale, permette una delocalizzazione rapidissima delle attività produt-tive e determina la fine dell’esigenza della contiguità spaziale; in quest’epoca i semidei possono per la prima volta fare a meno di essere parte della città di prender-si cura della sua parte pubblica, possono vivere in una città globale fatta di frammenti dispersi e di piccole en-clave in tutto il mondo.Questa globalizzazione, basata sulla deregolamentazione e sul liberismo, ha effetti devastanti sulla città.Questi fattori sono decisivi per comprendere cosa sono e cosa rappresentano le periferie contemporanee.Parti di città – ma anche di territorio – possono essere periferiche non solo o necessariamente in senso stret-tamente fisico, in quanto lontane dal centro geometrico della città, come era in passato; la loro perifericità è lega-ta, piuttosto, alla simultanea presenza di fattori negativi sotto il profilo architettonico, urbanistico, economico e culturale, nonché penalizzanti in termini di opportunità e prospettive di promozione sociale.Nonostante questo le periferie non devono essere lette esclusivamente come un problema della città contem-poranea; infatti esse possono rappresentarne anche una risorsa: così come le enclave dei semidei sono collegate a potenti reti internazionali che ne fanno una “nazione” delocalizzata, così molte periferie sono luoghi di feno-meni culturali ricchi e innovativi, di vita sociale densa e articolata, di pratiche eversive e insorgenti, di domande ed esercizi di cittadinanza che entrano in relazione con luoghi simili in tutte le parti del mondo.Le periferie, proprio perché distanti dai centri della città – intesi come centri soprattutto del potere eco-nomico e del potere politico-decisionale, che sempre più spesso convergono e si confondono – sono luoghi

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generatori di “gradiente urbano” perché è al loro in-terno che si formano e prendono corpo le strategie di sopravvivenza delle disempowered communities che le abitano.Promuovere la qualità della vita urbana e insieme l’em-powerment, il trasferimento di potere alle popolazioni marginali attraverso processi di trasformazione urbana può favorire la costruzione di una nuova socialità proprio a partire dai luoghi, contribuendo così a rinsaldare il le-game tra urbs e civitas.La città è un bene comune, averlo dimenticato ha portato alla crisi delle città. Averlo dimenticato ha determinato il prodursi delle periferie, che diventano banlieue, luoghi del bando. La grande opera che occorre a tutti i paesi europei è un piano generale di riqualificazione urbana e di ricostruzione della città – dell’urbs e della civica – a partire dai suoi luoghi “di scarto”, dalle periferie; questa opera assicurerebbe sostenibilità ambientale, sviluppo qualificato, crescita del capitale sociale, miglioramento della qualità della vita e della qualità estetica delle città.L’attivazione delle energie sociali, la definizione di obietti-vi concreti di sostenibilità ambientale – concreti vuol dire radicali, soprattutto per quanto riguarda trasporti, rifiu-ti e consumi energetici – e l’attenzione al contesto sono aspetti necessari di ogni strategia di “salvezza” della città.In generale le linee guida che potrebbero essere conside-rate dovrebbero tener conto di:1. Controllo della rendita fondiaria;2. Empowerment/rispetto;3. Lavoro/lavori;4. Un’economia non solo di merci;5. Mobilità da, per e verso non solo per lavoro;6. Diradamento;7. Funzioni centrali;8. Eventi, anche architettonici;9. Spazi pubblici;10. Risanamento/sostenibilità;11. Riorganizzazione/riequilibrio territoriale;12. Educazione;13. Autogoverno;14. Mixité/Métissage.Le prime tre linee sono strutturali:1. Controllo della rendita fondiaria: solo se il controllo delle dinamiche di sviluppo è sottratto al dominio della rendita fondiaria e viene governato, sulla base dei rap-porti di forza fra le classi, dal potere pubblico, vi è la pos-sibilità di costruire una “forma” della città.2. Empowerment/rispetto: solo se i protagonisti delle trasformazioni sono gli abitanti – tutti gli abitanti dei

quartieri, cittadini e non cittadini, cittadini attuali e po-tenziali – e se la ricchezza delle loro espressioni culturali e artistiche (che, tra l’altro, i “padroni delle mode” sac-cheggiano, senza pagare dazio), le loro necessità e i loro desideri trovano finalmente possibilità di espressione, riconoscimento e interlocuzione, costruendo una nuova civitas.3. Lavoro/lavori: solo se il lavoro è una dimensione con-sistente e ricca di prospettive, proiettata al futuro, garan-zia di riconoscimento e di promozione, di reddito e di valore si ha costruzione di nuova socialità, integrazione (chi mai riconosce a sé stesso dignità nella prospettiva di lavori precari o nel friggere polpette, per tutta la vita?).I punti seguenti della lista delineano il “come fare”:4. Un’economia non solo di merci: la costruzione di op-portunità di lavoro e la realizzazione di servizi anche im-portanti non può passare soltanto per l’economia delle merci; esistono esperienze, solide anche se minoritarie, di economie alternative, come ad esempio quelle basate sulle “banche del tempo” o sull’economia partecipativa o sul cosiddetto “microcredito”.5. Mobilità da, per e verso non solo per lavoro: l’organiz-zazione moderna della mobilità ha permesso la nascita delle periferie e il loro diffondersi nel territorio; quell’or-ganizzazione è divenuta sempre più inadeguata con il modificarsi delle modalità della produzione e degli stili di vita: quelle che erano località raggiungibili e “comode” per il trasporto di massa – almeno nelle periferie piani-ficate – sono divenute località separate e irraggiungibili, sempre più lontane dalle città e senza legami tra loro;6. Diradamento: la logica del bulldozer è sbagliata per di-verse ragioni, soprattutto perché implica ri-dislocazione forzata delle persone e, come sappiamo, anche le perife-rie peggiori non sono buchi neri sociali; il che non vuol dire che non siano possibili e utili diradamenti e rior-ganizzazione degli edifici, che possono essere accompa-gnati da nuove edificazioni in loco e dallo spostamento volontario delle persone e dei gruppi che dovessero pre-ferire una nuova localizzazione.7. Funzioni centrali: se una mobilità efficiente è possi-bile su tutto il territorio urbano, è utile e necessario che funzioni sovralocali e centrali siano diffuse anche nelle periferie e non concentrate in zone dedicate; devono essere funzioni di qualità, che offrano opportunità di rivitalizzazione economica.8. Eventi, anche architettonici: così come le funzioni an-che gli eventi e gli interventi importanti di design archi-tettonico devono essere distribuiti; anche essi possono essere leva di crescita economica, sociale e culturale.

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9. Spazi pubblici: la scarsa qualità e la banalizzazione de-gli spazi pubblici riguardano tutta la città, spesso anche le zone centrali piegate al consumo, turistico e no; una città è definita dalla qualità dell’abitare, qualità delle case e qualità degli spazi pubblici: ogni sua parte deve tenden-zialmente avere case e luoghi pubblici di qualità.10. Risanamento e sostenibilità: a partire dalle periferie, in cui interventi di ristrutturazione, rifacimento e nuova costruzione hanno meno vincoli, si può pensare a un pro-gramma di risanamento, che si estenda a tutta la città e al territorio degli insediamenti sparsi; 11. Riorganizzazione e riequilibrio territoriale: il riequili-brio territoriale è fatto di molti passi, ma serve anche un intervento sullo sprawl (città diffusa) che compatti la cit-tà quando è possibile, ne fermi l’esplosione, renda meno insostenibile la sua diffusione, anche con la forte prote-zione del territorio non urbanizzato, che deve diventare parte delle occasioni di vita urbana. 12. Educazione: il tema dell’educazione ha a che fare strettamente con quello del lavoro: spesso nei quartie-ri periferici la scuola è l’unico presidio dello stato de-mocratico. Spesso la scuola primaria e la scuola media riescono, anche per “l’eroismo” delle maestre e delle professoresse a dare qualche speranza di promozione sociale. Il fatto che siano l’unico presidio dello stato de-mocratico carica le scuole di compiti impropri e supe-riori alle loro forze, ma ne può fare l’asse di una politica locale di riqualificazione delle aree urbane e dei territori marginali.13. Autogoverno: la questione dell’autogoverno è stret-tamente collegata al tema della partecipazione, della de-mocrazia e dell’empowerment ed è una condizione e una conseguenza rispetto alla garanzia del riconoscere la di-gnità delle persone e di permettere a ciascuno di costruire il rispetto per sé stessi e degli altri.14. Mixité/Métissage: la questione della varietà sociale. Gioverà dire che deve trattarsi di una varietà anche di classe e di razza, non solo di una varietà interna all’insie-me dell’underclass; come è ovvio non si può costringere nessuno ad abitare da qualche parte o a non abitare da qualche altra, ma buone politiche sociali, urbanistiche, della mobilità ed economiche – che tengano sotto con-trollo la rendita fondiaria – sono in grado di favorire, an-che nel breve periodo, la mescolanza di persone e gruppi sociali diversi.Le trasformazioni a scala urbana e nazionale sono par-ticolarmente importanti per una riqualificazione vera, durevole, sostenibile e partecipata delle aree urbane mar-ginali, che sia affiancata a un processo – anch’esso vero,

durevole, sostenibile e partecipato – di empowerment di coloro che le abitano. Ma vi anche sono le trasformazioni a “scala di quartiere”, che comprendono: il miglioramen-to della microaccessibilità del quartiere, con particolare attenzione all’accessibilità pedonale e ciclabile, nonché ai luoghi sensibili e quotidiani del quartiere (scuole, giar-dini, piazze, strutture sportive, servizi ecc.); la riqualifi-cazione degli spazi pubblici e degli spazi “ibridi” – semi-pubblici o privati a uso collettivo – anche e soprattutto di quelli più marginali, meno visibili e dimenticati come i cortili scolastici, i cortili condominiali, i marciapiedi del-le strade secondarie e dei vicoli ciechi, gli “scampoli” di terra circondati da strade ed edifici; la promozione della “gradevolezza” urbana, ad esempio attraverso il poten-

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ziamento e la diffusione dell’illuminazione pubblica. Queste microtrasformazioni potrebbero essere pensate, promosse e governate coinvolgendo in primo luogo le scuole pubbliche.Il coinvolgimento delle scuole ci sembra opportuno e utile per molte e diverse ragioni: le scuole sono i luoghi dell’apprendimento, anche dell’apprendimento dei dirit-ti, potendo quindi diventare – in molti casi lo sono già – luoghi dell’apprendimento del diritto alla città e degli strumenti necessari per rivendicarlo e per esercitarlo consapevolmente e responsabilmente, non solo per i bambini e i ragazzi; i bambini e i ragazzi che frequenta-no le scuole sono un gruppo – e un gruppo importan-te, non solo numericamente – di abitanti generatori di

“gradiente urbano” capace di produrre un’energia pro-gettuale straordinaria; è possibile pensare che gli spazi della scuola si aprano alla città, andando a colmare in parte la carenza di spazi pubblici di qualità di quartiere; parallelamente si può prevedere che la scuola utilizzi e “curi” alcuni spazi pubblici e alcune strade del quartiere, andando a colmarne in parte le carenze in termini di uso e manutenzione.Serve una grande opera a livello urbano e di politica economica, nonché numerosi interventi di quartiere che diano valore alla reti esistenti, al farsi città dell’a-zione dei gruppi, al ruolo della scuola e dell’educazione, sottraendo così le periferie – e quindi le città – dal loro destino di crisi.

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Con il 50% della popolazione che vive in case precarie co-struite dagli stessi abitanti, il Venezuela ha molta strada davanti a sé da percorrere per permettere una vita dignito-sa a tutti i cittadini. Con questo chiaro obiettivo il governo socialista di Hugo Chávez ha così creato nel 2011 un piano nazionale di edilizia popolare con lo slogan: “Missione abi-tazione: il diritto di vivere davvero”. L’opposizione ha criti-cato, da un lato, la costruzione di appartamenti in zone di difficile accesso e lontane dalle fonti di lavoro e, dall’altro, la carenza di piani urbanistici per i quartieri poveri delle città che portino servizi e prevedano la realizzazione di in-frastrutture, reti elettriche, piazze e vie di accesso sicure. L’assessore all’urbanistica del Comune di Caracas Marco Negrón dell’opposizione ha inoltre puntato il dito sul sus-sidio statale alla benzina che, ammontando a 15 mila mi-liardi di dollari all’anno, impedirebbe di investire in altri settori come nei trasporti pubblici.Abbiamo intervistato il ministro per “la trasformazione ri-voluzionaria di Caracas” Francisco “Farruco” Sesto, archi-tetto, poeta e pittore di origini galiziane, già ministro della cultura del presidente Chávez.

D: Come immagina che sarà Caracas fra 20 anni se il governo bolivariano prosegue con la missione che ha intrapreso per costruire migliaia di case e rinnovare le periferie della città?R: Per capire Caracas oggi bisogna conoscere la sua sto-ria. La capitale venezuelana, nata cinque secoli fa, prima della scoperta del petrolio viveva dell’agricoltura e aveva circa 25 mila abitanti. Con l’apparizione dell’oro nero nel XX secolo Caracas fa un salto incredibile passando da una popolazione di 85 mila abitanti a circa 5 milioni, ma cresce in un modo sbagliato copiando il modello degli slums sta-tunitensi. La gente ha così costruito casette che occupano estese superfici nella vallata e poi, quando già non vi era più spazio nella parte pianeggiante, ha continuato a edifi-care ranchitos ammassandosi sulle pendici delle monta-gne fino a 1.700 m. Caracas è cresciuta molto rapidamen-te senza un piano regolatore e ciò ha determinato molti problemi di viabilità. Con il boom del petrolio negli anni

Cinquanta sono arrivate nella capitale migliaia di persone dalle campagne e da altri paesi latinoamericani, caraibici ed europei – principalmente da Italia, Spagna e Portogallo. Le masse popolari povere non solo hanno costruito le pro-prie case senza pensare agli spazi pubblici, ma si sono con-centrate in zone a rischio. I governi populisti, che si sono alternati prima dell’attuale presidente Hugo Chávez, non hanno ostacolato l’edilizia popolare spontanea poiché dan-do le concessioni per costruire si assicuravano i voti delle classi umili. I governi socialdemocratici e democristiani precedenti al 1998 compravano le coscienze del popolo.Diversamente dal passato, oggi il Venezuela ha un governo popolare (non populista) che, tra i molteplici programmi sociali diretti a far sviluppare il Paese in una forma equi-librata, ha creato anche la “Missione abitazione”. Nell’am-bito di questo piano nazionale è stato realizzato un censi-mento delle famiglie povere che avevano bisogno di una casa o di un suo ampliamento, così sono state registrate 3 milioni 700 mila famiglie in tutto il Paese, di cui 670 mila a Caracas. Visto che con buone politiche si può favorire lo spostamento di una parte delle famiglie che hanno fatto ri-chiesta di una casa nelle campagne, il governo bolivariano ha promesso di costruire 500 mila abitazioni a Caracas in sette anni a partire dall’inizio del 2011.L’esecutivo ha deciso di sfruttare questo piano di costruzio-ne di migliaia di case per trasformare tutte le città del Pae-se, compresa Caracas che, trovandosi a 1.000 m d’altezza, è caratterizzata da gravi problemi strutturali. In Venezuela ci sono 6 milioni e 800 mila case, di queste 3 milioni 800 mila sono ranchos, ovvero strutture principalmente di mattoni con tetto in lamiera che sono state costruite dalla popolazione, e i rimanenti 3 milioni sono alloggi costrui-ti dallo Stato o da imprese private. La sfida del governo è di costruire nei prossimi sei anni non solo i 3 milioni di case di cui la popolazione ha bisogno, ma anche di edifi-care scuole, ospedali, centri culturali, centri sportivi e per farlo c’è bisogno di industrializzare l’edilizia. L’urbanismo rispecchia la composizione sociale e Caracas è una città con fortissime disuguaglianze. L’obiettivo del piano è cambiare il volto della capitale, come si è iniziato a fare nel 2011 edi-

venezuela: 3 Milioni di caSe in 6 anni - intervista a “farruco” Sesto

di Barbara Meo Evoli

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ficando 12 mila abitazioni, facendo in modo che scompa-iano le grandi differenze sociali e che le diverse fasce della popolazione si integrino fra loro. Cosicché agli sfollati, che l’anno scorso hanno perso le proprie case precarie a cau-sa delle forti piogge, sono stati consegnati degli alloggi in pieno centro, in luoghi dove non avrebbero mai sognato di poter vivere.

D: La “Missione abitazione” ha come obiettivo di spostare gli abitanti dei quartieri popolari in altre zone della città o di costruire servizi in queste zone per migliorare la qua-lità di vita della gente?R: Bisogna considerare che i quartieri popolari sono nati grazie allo sforzo della gente che li ha costruiti, anche se sono privi di una progettazione urbanistica riflettono le re-lazioni umane della gente che li abita. Visto che non voglia-mo distruggere questa coesione sociale, abbiamo deciso di spostare unicamente le persone che vivono in zone consi-derate a rischio in caso di sisma o di frane. Non vogliamo far scomparire i quartieri popolari ma solo trasformarli rendendoli sicuri per gli abitanti.

D: In molti paesi del mondo, come per esempio in Euro-pa dopo la Seconda guerra mondiale, sono stati portati avanti piani pubblici di edilizia popolare. Il Venezuela ha assunto come modello un’esperienza di un Paese?R: Tutti i piani urbanistici che sono stati attuati non hanno messo in discussione la strutturazione in classi sociali delle città, in Venezuela non vogliamo applicare questo concet-to: il nostro obiettivo è riuscire a far fondere le classi sociali e la nostra sfida è democratizzare gli spazi urbani e far in-tegrare gli abitanti.Il popolo è diventato il protagonista del cambiamento delle città poiché i tecnici non impongono i progetti urbanistici ma li concordano con gli abitanti. Con l’obiettivo di miglio-rare la vita delle classi umili attraverso l’utilizzazione della tecnologia abbiamo costruito il Metrocable (Metrocavo), ovvero una funivia che collega una stazione della metropo-litana di Caracas con un quartiere povero di difficile acces-so che si trova sulle pendici di una collina. Realizzando il

Metrocable abbiamo voluto evitare che gli abitanti doves-sero salire l’equivalente di 20 piani a piedi ogni giorno per arrivare nella propria casa, dovendo trasportare anche in spalla oggetti pesanti.

D: A Cuba nell’ambito del piano di edilizia popolare sono stati realizzati degli studi psicologici e sociologici delle fa-miglie poi trasferite in altre zone della città, in Venezuela sono state condotte delle analisi simili?R: Dopo la tragedia delle frane di Vargas nel 2000 e le inondazioni dello scorso anno in cui migliaia di persone hanno perso la propria casa, il governo ha dato un tetto agli sfollati offrendo loro delle stanze nelle istituzioni pubbli-che, negli uffici, negli stadi e nei musei. L’esecutivo non ha voluto lasciare delle persone per la strada e così per esem-pio nel Ministero della Presidenza, nel cosiddetto Palazzo Bianco, il primo e secondo piano sono occupati ancora oggi dagli sfollati.Tutte le famiglie sfollate che si trovano in un determina-to centro di accoglienza provengono dalla stessa zona e, quando gli edifici nuovi sono terminati, sono trasferite tut-te insieme dal centro di accoglienza ai nuovi appartamenti. Quindi la “Missione abitazione” prende in considerazione la coesione sociale e le relazioni umane che si sono svilup-pate in una zona e cerca, nei limiti del possibile, di preser-vare i valori comunitari.Sulle pendici delle colline vicino all’autostrada che unisce Caracas al porto de La Guaira, il governo sta costruendo una nuova città progettata nel rispetto dello spirito comu-nitario. “Città Caribia”, che oggi ospita 1.500 famiglie e in futuro 20 mila, non sarà un quartiere periferico dormitorio perché disporrà di tutti i servizi. Sebbene Caracas si trovi in una zona sismica che presenta difficoltà topografiche per la costruzione, non si può non tenere conto della volontà della popolazione che ha deciso di vivere in questo luogo per le sue caratteristiche positive: il clima, la vicinanza al mare e al principale porto, la posizione centrale nel Paese. D: L’opposizione ha criticato duramente la politica go-vernativa che mira a spostare la popolazione dalle gran-di città verso le campagne e le zone a bassa densità del

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54Paese, qual è la sua opinione a riguardo?R: Bisogna tenere in considerazione che vi sono zone del Venezuela che si stanno sviluppando economicamente e socialmente grazie allo sfruttamento dei giacimenti petro-liferi, come è il caso dell’asse centro-settentrionale del Lla-no e del Sud dello stato Anzoategui. Immagino che a poco a poco che queste regioni si svilupperanno e si creeranno opportunità di lavoro, vi saranno giovani che decideranno di trasferirsi lì volontariamente. Non esiste nessuna politi-ca governativa messa in atto per obbligare la popolazione a lasciare Caracas.

D: Uno dei problemi principali del Venezuela è la delin-quenza, da un anno il governo ha deciso di impegnarsi implementando vari piani diretti a debellare questa piaga. Nell’ambito della lotta alla criminalità, cosa si do-vrebbe fare a livello urbanistico?R: La delinquenza è un problema strutturale, non solo del

Venezuela ma di molti paesi del mondo, ed è una manife-stazione del fatto che la società di tutto il pianeta non sta vi-vendo un buon momento storico. Negli ultimi decenni nel mondo, anche se la tecnologia ha registrato uno sviluppo incredibile, si sono acutizzate le crisi sociali perché il siste-ma in cui viviamo è strutturalmente ingiusto. Il Venezuela è solo uno dei tanti paesi colpiti dalle ingiusti-zie che producono violenza. Bisogna sapere che il Venezue-la ha vissuto dei proventi del petrolio fino agli anni Ottan-ta. In quegli anni il Paese era gravato da un enorme debito pubblico e il numero di persone che vivevano in stato di miseria era molto elevato. Quando Chávez vinse le elezio-ni nel 1998, la povertà colpiva il 70% della popolazione, la metà dei bambini non frequentava la scuola elementare, non aveva una buona alimentazione e non riceveva cure mediche. Questi bambini nati negli anni Ottanta e Novan-ta oggi hanno 20 e 30 anni e sono gli attuali malandros (delinquenti). I bambini nati a partire dal 2000 hanno fre-

Corviale, androne di ingresso,

Roma 2011

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55quentato la scuola primaria, secondaria e stanno frequen-tando l’università, hanno ricevuto cure mediche e hanno potuto partecipare a eventi culturali e artistici: grazie a tutti i benefici di cui hanno goduto, la probabilità che diventino dei delinquenti è infinitamente minore rispetto al passato.Un altro grave problema che genera violenza è la droga. Il micro-traffico di stupefacenti e il narcotraffico in gene-rale hanno sviluppato un’economia molto redditizia della quale vivono la maggior parte dei giovani delinquenti or-ganizzati in bande nei quartieri poveri. La diffusione della criminalità è una disgrazia per il Venezuela poiché, a causa di questa spirale di violenza, stanno morendo tantissimi giovani e stiamo perdendo tante potenzialità.Per combattere contro l’insicurezza il governo ha adottato diverse misure: ha eliminato la corrotta Polizia metropoli-tana, ha creato la nuova Polizia nazionale bolivariana, ha posto in essere il piano di disarmo e di lotta contro il cri-mine organizzato. Nei nuclei urbani della “Missione abita-

zione” costruiamo, oltre alle residenze, anche locali socio-produttivi dando così la possibilità agli abitanti di produrre ricchezza nello spazio in cui vivono. Non abbiamo costrui-to delle città dormitorio, al contrario abbiamo previsto che attraverso i locali commerciali e artigianali gli abitanti pos-sano creare una base economica per la propria famiglia e riuscire anche a conservare gli edifici donati o venduti dallo stato. Così insieme ai 12 mila nuovi appartamenti edificati a Caracas sono stati costruiti 500 locali socio-produttivi che offrono possibilità di lavoro senza produrre inquina-mento chimico o acustico, come per esempio officine di fabbricazione di componenti per l’orologeria, stabilimenti tessili, zuccherifici, panetterie e negozi.

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di Monica A.G. Scanu

da Super barrio gòMez a guerriglia gardening

Nel corso della storia sono stati molti i personaggi che si sono distinti per aver lottato a favore dei poveri e degli emarginati; uomini con un’identità nascosta e, spesso, dal volto mascherato. A partire da Robin Hood, il personaggio realmente esistito raccontato nel XVI secolo da Alexandre Dumas come «colui che ruba ai ricchi per dare ai poveri», dipinto come cava-liere abilissimo nel tiro con l’arco che lotta in difesa dei poveri contro Prince John – Giovanni Senzaterra – e lo Sceriffo di Nottingham. Passando per Zorro, il personaggio di Johnston Mc Cully, le cui gesta si svol-gono a Los Angeles nel periodo messicano, che pare faccia riferimento a un personaggio realmente vissu-to nel Messico del XVII secolo. Anche Super Barrio è messicano come Zorro. È un supereroe della vita reale dal volto e dal corpo mascherati – indossa una sor-ta di costume da wrestling con mantello rosso e uno scudo con una grande scritta SB sul petto – che ha cominciato ad apparire sin dal 2000 nelle periferie di Città del Messico. Com-batte i corrotti e i crimi-nali con un suo metodo pacifico: organizza radu-ni di lavoratori, proteste organizzate, petizioni, e anche incontri di lucha libre, il wrestling locale, in cui sfida di volta in volta i politici corrotti e tutti coloro che ledono i diritti dei cittadini. Com-pare a sorpresa anche contemporaneamente in più luoghi dove sono in corso lotte in difesa del territorio, contro la speculazione edilizia oppure per il diritto alla casa. Non un solo uomo, ma un’idea ge-niale che ha dato corpo e voce ai cittadini su questioni sociali e temi ambientali irrisolti, e che è arrivato ad assumere un ruolo simbolico ma anche organizzativo per l’Asamblea de Barrìos di Città del Messico. Na-

turalmente come gli altri supereroi, quelli della Mar-vel, ad esempio, ha una nascita fuori dall’ordinario e leggendaria: una luce rossa e gialla penetrata dalla finestra gli affida il compito di difendere gli inquili-ni e i cittadini poveri e di diventare il fustigatore dei corrotti, incarnando la volontà popolare di giustizia. Il contesto in cui nasce il fenomeno Super Barrio è Mexico City qualche anno dopo il terremoto del 1985, città metropolitana che ha oggi 24 milioni di abitan-ti. Il terremoto del 1985 aveva distrutto buona parte della città, e durante la ricostruzione cominciò a ma-turare una coscienza civile attiva e si moltiplicarono le manifestazioni di lotta per la casa e per la difesa dei diritti dei cittadini, soprattutto a fronte del fatto che la politica sembrava non essere in grado di affrontare in maniera organica il tema della casa. La presenza di Super Barrio sin dall’inizio sconvolse i politici e an-che gli stessi partecipanti alle manifestazioni, colpiti in particolare dal fatto che fosse mascherato; tuttavia

migliaia di abitanti dei quartieri messicani si sentirono rappresentati e protetti e lo appoggia-rono sin da subito. Forte del fatto di non essere una sola persona, aveva quasi il dono dell’ubiqui-tà, potendo comparire contemporaneamente in più luoghi: sgomberi e sfratti, manifestazioni di lavoratori, ecologisti, campesinos, campagne

contro l’AIDS e l’omofobia, per la pace nel Chiapas. Super Barrio, che ha fatto dell’atteggiamento ironico la sua arma, fra il 1987 e il 2000, gli anni in cui ha por-tato avanti la sua lotta anche organizzando incontri di lucha libre contro lottatori simbolici come El Se-nador No, El Casero Culero o i Porci del sistema, ha contribuito alla realizzazione di migliaia di nuove case

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consentendo l’accesso a crediti facilitati, e alla lotta contro alcune grandi multinazionali per impedire lo sfruttamento dei paesi latino-americani e del Terzo mondo. Ancora oggi gli inquilini di alcuni quartieri di Città del Messico dipingono lo scudo con la sigla di SB a protezione degli edifici. Paradossalmente con l’arrivo della sinistra al potere la figura di SB, che pro-muoveva l’auto organizzazione e l’indipendenza dei movimenti, è andata affievolendosi. Sempre a Mexico City nello stesso periodo, nel 2007, esce il film Super Amigos, un divertente documentario di un regista di origine messicana ma residente in Canada. La storia narra le vicende di cinque supereroi campioni di lu-cha libre, che combattono idealmente contro le ingiu-stizie della capitale messicana, difendendo i diritti di alcune categorie sociali, degli animali e dell’ambiente. Super Animal combatte contro le corride, Ecologista Universal va da solo in giro per il mondo per difen-dere l’ambiente, Super Gay per tutelare i diritti del-le minoranze gay, Fray Tormenta, ex lottatore, è un prete che cerca di educare ragazzi trascurati dalle fa-miglie, e naturalmente Super Barrio. Super Barrio e i suoi colleghi supereroi sono tutti fenomeni culturali e sociali che denunciano il malessere di una società, quella messicana dell’epoca, in cui i cittadini non si sentono né rappresentati né difesi dai loro rappresen-tanti al governo, e dal basso nasce una reazione fanta-siosa e ironica, ma tuttavia efficace, contro uno stato di cose che non funziona e contro modalità di tra-sformazione delle città non condivise. A tratti fantasiose, a tratti poetiche, sempre caratterizzate da una partecipazione forte e sentita da parte dei citta-dini, le principali forme di resistenza urbana sia alla speculazione, come nel caso di Super Barrio, sia più in generale al mal funzionamento delle città e della vita organizzata si esprimono attraverso fenomeni che vanno da Guer-riglia Gardening sino agli attuali movimenti Occupy Wall Street e Indignados. In effetti, le città hanno su-bito nel corso degli ultimi decenni forti cambiamenti: in particolare, le nuove strategie di crescita economi-ca hanno determinato un accrescimento del prota-

gonismo politico ed economico delle città, che sono oggi il luogo in cui si sviluppano i rapporti di forza tra spazi e gruppi sociali in costante evoluzione, generan-do esclusioni e ingiustizie socio spaziali e dando dato vita a forme di resistenza e di rivendicazione di “diritti della città” da parte di cittadini anche molto diversa-mente connotati, con ricadute pesanti sullo sviluppo generale. Oggi è sempre più diffusa nel mondo la sen-sazione che le città siano troppo grandi e inospitali. Si è creato un forte e generalizzato fenomeno di reazione al tradizionale approccio top-down di intervento sulle città. Sempre più spesso piccoli gruppi o organizza-zioni danno vita a forme di azione diretta sulla città, atti di micro-urbanistica o di progettazione urbana informale, che portano a dei piccoli cambiamenti nelle strade, nei quartieri, negli edifici, il cui portato maggiore è nel loro impatto e nel dare nuovo signifi-cato ai luoghi. Gli interventi sono caratterizzati dalla temporaneità e dalla piccola scala, in piena contraddi-zione con i caratteri tradizionali del buon design delle città. Forme di reazione e di resistenza allo sviluppo imposto e non condiviso della città si sono sviluppate in molte grandi città del mondo, a partire dai primi interventi del gruppo green guerriglia che inventa e propone negli anni Settanta una resistenza basata su piccoli interventi spontanei e non violenti di trasfor-mazione urbana. Piccole azioni, come piantare fiori o alberi in zone degradate della città per dare nuove

funzioni e nuovo valo-re a spazi urbani gene-ralmente ignorati dalla pubblica amministra-zione. Poi, condivisione con i cittadini e autoge-stione. Azioni non vio-lente che generalmente avvengono di notte, più o meno in un regime di segretezza, oppure du-rante il giorno, con l’o-biettivo di coinvolgere direttamente i cittadini

che nella maggior parte dei casi poi si occupano della manutenzione del verde impiantato. Dal primo inter-vento di green guerriglia il fenomeno si è evoluto e in alcuni casi punta a dare una nuova configurazione alle città, pur continuando a intervenire su piccola scala. Ad esempio Steve Wheen – The Pothole Gardener – dal 2010 opera a Londra sulle pericolosissime buche

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Super Barrio Gòmez,

Mexico city 1998

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delle strade cittadine, trasformandole con opera cer-tosina in giardini in miniatura. Sean Martindale e Eric Cheung, due guerriglia gardener canadesi, lavorano invece sui manifesti pubblicitari rovinati e strappati e li utilizzano come non convenzionali vasi per piante all’aria aperta, creando delle opere a metà tra il giar-dinaggio e l’arte postmoderna. In Italia, il collettivo di azione metropolitana orizzontale cerca di innescare processi di riattivazione urbana partendo dallo scarto, materiale e immateriale. Nel loro primo intervento del 2010, Le orecchie di Giussano, realizzato a Roma nel quartiere Pigneto per riqualificarne un marciapiede dimenticato dall’intervento generale nell’area, hanno realizzato con cartoni dismessi un nuovo elemento di arredo urbano, l’installazione Work-Watching: una gradinata rossa per ammirare l’opera pubblica realizzata o assistere all’inaugurazione del cantiere Penestrello 2.0. Quest’anno, alla tredicesima Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Vene-zia, il Padiglione degli Stati Uniti ospita un’installa-zione, SpontaneousIntervention. Design actions for the common good, interamente dedicata alla rappre-sentazione della tendenza contemporanea a creare nuovi progetti di rivitalizzazione urbana di iniziativa esclusiva dei cittadini, indagando il passaggio da idee radicali circoscritte a strategie urbane ampiamente condivise. La mostra individua una serie di soluzio-ni diverse e più accettabili per i cittadini rispetto a quanto attualmente a disposizione nelle grandi città americane: parklets, piccole comunità agricole, piste ciclabili abusive, squadre autogestite di integrazione urbana, salotti all’aperto, mercati temporanei, reti di condivisione, architetture provvisorie. Spontaneou-sInterventions è una fotografia di una realtà delle cit-tà americane, ma soprattutto si propone come visione per un futuro possibile e conferma l’esistenza di una sempre più forte e generalizzata tendenza nelle città agli interventi di riqualificazione urbana bottom-up, nati spontaneamente dai cittadini e basati sulla soste-nibilità e sulla condivisione.

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Prima Valle,

Roma 2011

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di Sara Basso

da caSa dorMitorio all’houSing Sociale

Nel corso del Novecento, l’edilizia sociale ha rappresen-tato – e rappresenta tuttora – uno dei modi attraverso cui l’urbanistica ha assolto alla sua funzione pubblica, rispondendo alla domanda di gruppi sociali impossibi-litati ad accedere al mercato privato delle abitazioni. Nel tempo, alle forme di ridistribuzione del reddito – attua-te tramite agevolazioni al credito, affitti moderati ecc. – si è sostituito un approccio più articolato; “politiche” abitative che vanno oltre la mera produzione di spazi costruiti. Edilizia residenziale pubblica, edilizia sociale, abitare sociale, housing sociale o, più brevemente, hou-sing sono parole che accolgono così, nel senso che viene loro attribuito, l’evoluzione dell’approccio alla dimen-sione collettiva e sociale dell’urbanistica, riflettendo al contempo l’inevitabile mutamento delle popolazioni portatrici di domande in continua evoluzione, tanto nelle caratteristiche quanto nella composizione. L’edilizia sociale però non è solo questo. Essa ha offerto ad architetti e urbanisti importanti occasioni di ricerca, divenendo campo di sperimentazione, dove ci si è pe-riodicamente confrontati, attraverso il tema dell’abita-zione, con le questioni e i problemi posti dall’urbaniz-zazione della città e del territorio. La sfida delle origini, a partire dal primo dopoguerra, svolta sul piano delle quantità – l’obiettivo era quello di assicurare una “casa per tutti” – ha portato alla formazione di consistenti “parti” urbane che hanno progressivamente ampliato i confini di una città in espansione, contribuendo alla co-struzione della relativa periferia, più o meno qualificata.Oggi, invece, l’edilizia sociale pone il tema di una nuova complessità, dovuta alla necessità di valutare con rinno-vata attenzione i rapporti tra lo spazio e le differenti po-polazioni, ma anche le nuove e urgenti questioni urbane connesse ai temi ambientali, alle nuove povertà ecc. Il problema, dunque, non è più solo residenziale: estenden-dosi oltre i luoghi dell’intimità domestica, nella sfera delle prossimità e delle comunanze che incidono sulla configu-razione degli spazi e sulla loro trasformazione, impone un nuovo approccio tanto nei processi di riqualificazione dell’esistente, quanto in quelli di nuova costruzione.

Ripercorrendo alcune tappe della storia dell’edilizia sociale, si cerca di seguito di descrivere atteggiamenti esemplificativi dei modi attraverso cui l’urbanistica ha affrontato, nei diversi momenti storici, la questione re-sidenziale. Sono alcuni episodi della lunga e composita storia dell’edilizia sociale che danno ragione di una mo-dificazione significativa nell’approccio alla questione casa, e della ridefinizione del campo operativo e teorico che l’accompagna.

La sfida delle quantità. Edilizia sociale, quartieri, città nuova – Francoforte, 1926-31. Ernst May, architetto, è a capo dell’ufficio tecnico della città: spetta a lui vi-sionare tutti i progetti comunali e occuparsi del piano che deve guidare l’espansione della città. Questa espe-rienza renderà Ernst May protagonista di un’impor-tante processo di trasformazione urbana, esito di un progetto che, prima ancora di essere urbanistico, si può definire sociale. L’intenso lavoro promosso dal settore urbanistica e guidato da May porterà alla realizzazione di numerose siedlungen, abitazioni in linea/a schiera, di media altezza, studiate per dare alloggi confortevoli alle classi meno abbienti. Dotate di servizi, ma anche di spazi verdi direttamente fruibili dalle singole unità, e disposte generalmente su file parallele adeguata-mente distanziate per garantire il passaggio della luce e dell’aria negli alloggi, le siedlungen rompono con la tradizione. Fisicamente, perché oppongono al tessuto denso degli isolati chiusi, insalubri e sovraffollati, tipici della città ottocentesca, un tessuto dilatato e aperto, a bassa densità. Ma anche simbolicamente, perché offro-no un modello di residenza, esito di un nuovo processo costruttivo, facilitato dalla prefabbricazione edilizia che permette di produrre in serie elementi modulari com-posti in loco. La tipologia edilizia della siedlung ha, nella messa a punto di questo processo, un ruolo fondamen-tale e decisivo. Rappresenta, infatti, il principale campo di sperimentazione della standardizzazione, attraverso cui verrà data risposta al “problema delle abitazioni ac-cessibili alle grandi masse dei lavoratori”; il principio è

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quello della razionalità. Razionalità nella composizione degli spazi, nella disposizione degli alloggi, nel dimen-sionamento: l’obiettivo è assicurare un “minimo vitale”, una “razione di alloggio” – come scriverà lo stesso May – a tutti i bisognosi commisurandone l’affitto allo sti-pendio percepito. La razione di alloggio viene determi-nata sulla base delle esigenze biologiche, psicologiche e fisiche; il fine ultimo è il benessere collettivo perseguito attraverso il benessere del singolo, qui tipizzato e “nor-malizzato”: nelle esigenze, nei bisogni fondamentali, nelle abitudini quotidiane.Ma per May la costruzione delle siedlungen è parte di un più ampio piano urbanistico per la città di Franco-forte. I nuovi interventi si collocano nelle zone urbane periferiche: nel cercare una relazione più diretta con la natura circostante, così da «ristabilire condizioni di vita naturali per gli uomini che vivono nelle grandi metropoli», queste localizzazioni divengono occasione per sviluppare una strategia di espansione della città nel territorio di tipo estensivo, per mezzo di «sobborghi come elementi satelliti della città». Lo sviluppo ipotiz-zato da May è per grappoli indipendenti, entità autono-me ma autosufficienti, dotate di tutti i servizi necessari e opportunamente collegate al centro attraverso i mezzi di trasporto pubblico (autobus, tram e ferrovie urbane).L’ampio respiro del programma urbanistico studiato da May diverrà esempio per gli altri paesi. Il luogo di condivisione di questa esperienza saranno i CIAM, i congressi internazionali di architettura moderna. Nel primo CIAM, tenutosi nel 1929 non a caso proprio a Francoforte, gli studi sullo “spazio abitabile” sperimen-tati nella stessa città – attraverso l’individuazione del minimo, la standardizzazione, i processi di costruzione seriale – daranno avvio alla lunga ricerca che culmine-rà nella faticosa costruzione della Carta d’Atene. Do-cumento fondativo dell’urbanistica moderna, la Carta concorrerà in maniera decisiva all’affermazione della zonizzazione funzionale, base di impostazione dei piani regolatori che per decenni hanno guidato l’espansione urbana delle nostre città.

Una declinazione italiana: case per favorire l’occupa-zione e offrire spazi abitabili – Roma, 1948. Aminto-re Fanfani, rappresentante di spicco della Democrazia cristiana, ministro del lavoro e della previdenza sociale, presenta al Consiglio dei ministri il suo disegno di legge «per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori». Diventerà legge nel 1949, dando avvio a un primo settennio di intensa attività sul territorio nazionale – attraverso l’Ina-Casa – che porterà alla costruzione di consistenti parti di città, più o meno periferiche, dove nuove abitazioni venivano concesse ad affitti moderati ai lavoratori.Lontana nei tempi e nei modi dalla storia di Francofor-te, la vicenda italiana mostra ulteriori aspetti dell’edili-zia sovvenzionata, non privi di un certo interesse, tanto nelle pratiche di attuazione quanto negli esiti proget-tuali. Un’accurata e approfondita ricostruzione critica ha restituito dignità e valore alla storia dell’edilizia resi-denziale pubblica italiana, mettendone in evidenza luci – la funzione politica e sociale, l’occasione per i giovani architetti, la costruzione di parti di città, pubblica, rico-noscibile e dalle potenziali risorse – ma anche ombre. Il divario che separa l’esperienza più alta dell’Ina-Casa dalle realizzazioni della “folla oscura” degli architetti è enorme, ma lo è ancor di più forte dall’assenza di una ri-flessione sulla forma della città, contrariamente a quan-to era accaduto a Francoforte qualche decennio prima. La localizzazione degli interventi, infatti, nella maggior parte dei casi non risponde a una strategia di espansione urbana funzionale a una nuova forma di città, quanto piuttosto a valutazioni di tipo economico che spingono a privilegiare i terreni meno costosi e, dunque, più perife-rici. Con il risultato che, spesso, questa “città pubblica” rimane avulsa dal suo contesto, con inevitabili conse-guenze sul piano fisico ma, soprattutto, sociale. Questo non ci impedisce oggi di riconoscere, con la giusta di-stanza che ci separa dall’esperienza, il valore di alcuni progetti e l’importanza, per la storia dell’architettura e dell’urbanistica, delle idee che li accompagnano. Tusco-lano e Tiburtino a Roma, s. Marco a Mestre, Falchera a

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Torino, Villaggio del Sole a Udine, o Borgo san Sergio a Trieste, sono alcune delle realizzazioni attraverso cui progettisti più e meno giovani si sono misurati con l’i-dea del quartiere e le sue declinazioni, dando concreta attuazione a un programma di sviluppo e alle relative indicazioni e suggerimenti che aspiravano a garantirne l’unitarietà negli intenti e negli esiti.

Una nuova prospettiva: l’attenzione agli abitanti e la sfida della qualità dell’abitare nelle periferie urbane – Parigi, 2005. Le rivolte nelle periferie della metro-poli francese riportano prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica il problema dei grandi quar-tieri di edilizia residenziale e delle periferie urbane. O meglio, della sfera sociale legata alle popolazioni che ne costituiscono parte integrante. Amplificata da una congiuntura di fattori economici, politici e sociali, la “ri-volta delle periferie” ha infatti interessato soprattutto i quartieri classificati come ZUS (Zone urbaine sensi-ble) e in particolare, quelli dove si registrano situazio-ni ancor più disagiate. Si tratta in prevalenza di grandi interventi di edilizia residenziale pubblica, meglio noti come grands ensembles. I disagi che li hanno segnati rimandano in prevalenza agli abitanti giovani, di origi-ne sudafricana, e sono prioritariamente legati ai temi

occupazionali. Tuttavia, il sociologo Huges Lagrange, nell’analizzare questi fenomeni, avanza l’ipotesi che le rivolte non siano estranee ai programmi di “demolizio-ne/ricostruzione” promosse dall’ANRU (Agence natio-nal pour la rénovation urbaine) che, pur avendo tra i propri obiettivi la ristrutturazione dei quartieri “sen-sibili” al fine di promuovere mixité sociale e sviluppo

sostenibile, si è di fatto tradotta nell’espulsione delle famiglie più disagiate. Questi e altri episodi hanno im-posto una seria riflessione su come intervenire in luoghi connotati dalla presenza di situazioni limite, fragili e precarie, riaccendendo il dibattito sulle forme possibili del modo attraverso cui l’urbanistica può esplicitare la sua funzione sociale, specie in questi ambiti. Indagini, ricerche, progetti e politiche urbane in rispo-sta al problema hanno decretato l’avvio di un generale processo di riconcettualizzazione del campo, testimo-niato in primis da una sua ridefinizione nei termini di edilizia sociale o housing sociale, a dimostrare come abitanti, popolazioni – soprattutto i relativi modi di vita e abitare – rappresentino una variabile ineludibile e decisiva nell’impostazione dei progetti, tanto in quelli di riqualificazione quanto in quelli di nuova costruzio-ne. Nuovi orientamenti, nelle riflessioni teoriche come negli interventi, partono così da un comune terreno di ricerche sull’abitare contemporaneo. L’edilizia sociale diventa campo di una nuova sfida, dove confrontarsi con uno dei temi più rilevanti dei no-stri tempi: l’emergere del singolo versus una sfera col-lettiva che tende sempre più a scomparire, sopraffatta da una moltitudine di individualità spesso conflittuali ed estremamente diversificate. Una sfida che trova de-clinazioni diverse sul piano della ricerca di una nuova qualità progettuale, connessa prioritariamente alla ne-cessità di rinnovare la tradizione nel progetto della casa. Gli orientamenti prevalenti sembrano essere due: la ri-cerca di sostenibilità nelle azioni, da un lato, e, dall’al-tro, la riformulazione del rapporto individuale/colletti-vo o pubblico/privato negli ambiti di una quotidianità domestica allargata, estesa oltre l’alloggio. Il primo ha avuto il pregio di portare l’attenzione sulle dimensioni dell’efficienza dell’involucro, della flessibilità dell’allog-gio ecc. ma anche sull’opportunità di predisporre gli spazi aperti a usi molteplici, da parte di utenti diversi. Il secondo ha dato luogo a ricerche progettuali che, perse-guendo l’obiettivo di una riqualificazione complessiva dei quartieri, propongono una loro ricollocazione alla scala urbana, affrancandoli dalla condizione di perife-ricità. Così, Ariella Mausboungi coordina le riflessioni di architetti, urbanisti e paesaggisti per rigenerare i grands ensembles, offrendo esempi di riqualificazione criticamente ordinati secondo precise strategie di inter-vento; Frédéric Druot, Anne Lacaton & Jean-Philippe Vassal decompongono e riarticolano gli spazi comuni e degli alloggi dei grands ensembles, dimostrando come vi possa essere un’alternativa alla demolizione integrale

Casa popolare il Trullo,

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attraverso la loro trasformazione sostenibile, ricorren-do a dispositivi e strategie facilmente adattabili a situa-zioni diverse. In Italia, il Laboratorio città pubbliche – gruppo eterogeneo di ricercatori provenienti da diverse università italiane – si è occupato di studiare strategie per processi di riqualificazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica realizzati nel secondo dopoguer-ra, con indagini multiple e trasversali, intrecciando osservazioni dirette, momenti di condivisione con gli abitanti, studi ed esplorazioni progettuali.

Riqualificazione e nuova costruzione nell’edilizia so-ciale oggi. Alcuni esempi – Il primo esempio è quello di un quartiere di edilizia sociale, La Caravelle, situato a Villeneuve La Garenne, a Nord di Parigi. Il quartiere risulta composto da edifici in linea alti e uniformi (le “barre” che connotano il paesaggio dei grands ensem-bles francesi); accoglie 1.700 alloggi, per un totale di 6.500 persone. La riqualificazione ha interessato tanto gli edifici, quanto gli spazi aperti, il progetto dei quali è stato affidato allo studio di paesaggisti HYL. I quasi 10 ettari di terreno hanno riacquistato nuova funzionalità divenendo terra di conquista degli usi e delle pratiche quotidiane degli abitanti. L’interramento dei parcheggi,

liberando lo spazio, ha permesso il ridisegno del suo-lo con nuove piazze, aree gioco, passeggiate pedonali. Piantumazioni e alberature segnano prospettive e pun-ti di vista, delineando margini, soglie e attraversamenti che conferiscono nuova identità a luoghi prima senza nome. La caratterizzazione dello spazio si muove tra la scala del quartiere e quella domestica: dal ridisegno de-gli orizzonti sino alla definizione di ambiti più protetti, estensione possibile dell’intimità privata e protetta del-la casa. A occuparsi della ristrutturazione degli edifici è invece lo studio Castro e Denissof: intervenendo sulle barre con demolizioni, aggiunte, sopraelevazioni e su-perfetazioni ne stemperano la rudezza, concorrendo, con il disegno degli spazi aperti, ad addolcire il paesag-gio smussandone le originarie asperità. Il secondo caso è esemplificativo di un approccio inte-grato all’edilizia sociale, trattata non più come mera politica edilizia, bensì come parte di una politica abita-tiva dove “casa” e “servizi” si integrano rispondendo in maniera adeguata ai nuovi modi di abitare, facendosi carico anche delle questioni legate ai temi della sosteni-bilità degli interventi.“Abitare a Milano” è un concorso indetto dal Comune di Milano. Il carattere innovativo è evidente sin dalle

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procedure: un concorso internazionale di progettazio-ne, supportato dalla predisposizione di documenti pre-liminari che offrono indicazioni sulle strategie da segui-re in relazione ai rapporti con la città, all’articolazione degli spazi, alla predisposizione dei servizi. Il progetto del quartiere Gallarate è esito della prima edizione del concorso: in un’area di 33.860 m2 sono stati realizzati 184 alloggi (per una superficie di 28.000 m2) assegnati, a canone sociale o moderato, ad anziani, persone sole con minori, famiglie di nuova formazione ecc., garan-tendo in questo modo un mix sociale che dovrebbe evitare processi di segregazione e ghettizzazione. Come da indicazioni del bando, i progettisti (il gruppo MBA) hanno elaborato un piano che contempla la presenza nel quartiere di un micro nido, di un centro diurno per anziani, di spazi per attività commerciali, di un centro di orientamento alla casa per stranieri e di ulteriori spazi per associazioni. Gli edifici sono realizzati, nei materiali e nell’organizzazione, in modo da ottenere il miglior ri-sparmio energetico e ridurre le spese di manutenzione. Sono inoltre circondati da un parco pubblico di 28.000 m2, le cui immagini fanno presagire un luogo giocoso, accogliente, aperto.L’ultimo esempio raggruppa alcuni nuovi progetti di housing sociale che lavorano nuovamente sull’idea di “spazio abitabile”, a partire dagli interni e relativi ac-cessori, riaccendendo al contempo l’interesse per la di-mensione del quartiere. In Francia Manuelle Gautrand propone degli alloggi collettivi ecosostenibili, a Lubiana gli Ofis lavorano sulla diversificazione tipologica degli alloggi, in Olanda Laura Weeber scompone l’abitazio-ne sperimentando le possibili combinazioni degli ele-menti; in Italia Amaca Architetti progetta nuovi PEEP rinverdendo la tradizione del quartiere e lavorando sul rapporto con la città contemporanea.Sono questi alcuni degli esempi che segnalano l’affer-mazione positiva della periferia come nuovo luogo di sperimentazione per la città contemporanea.

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le Mille voci reSiduali delle favelaS

di Roberto Vecchi e Martina Mancini

A chi si fosse accorto delle periferie delle metropoli del Sud del mondo soltanto dopo avere letto il libro, bello e apocalittico, di Mike Davis Il pianeta degli slums va ri-cordato che la periferia esiste e resiste, nella sua storia di esclusione rispetto alla città moderna, e costituisce oggi, in alcuni lembi di mondo, un magmatico spazio di crea-zione e azione variegate. Si può osservare, a proposito della cultura brasiliana degli ultimi anni, che proprio le produzioni culturali delle periferie hanno assunto di-mensioni e visibilità tali da costituire probabilmente il fenomeno nuovo più rilevante nella storia culturale de-gli ultimi 10 o 15 anni. In Brasile, come è noto, bidonvil-les e slums hanno assunto un designativo proprio, fave-las, così forte da diventare un prodotto nominale di esportazione planetaria. Non molti tuttavia conoscono la storia di questo termine. Nella città resistente di Ca-nudos – nello stato della Bahia nel Nordest brasiliano – distrutta nel 1897 dall’esercito della Repubblica perché ritenuta il covo di una comunità messianica di serta-nejos insorti, una baraccopoli si anni-dava su una collina. Vista da lontano, appariva come il favo labirintico di un alveare di api e dunque alla collina venne dato il nome di Morro da Fave-la. Dopo il massacro i reduci vittoriosi e poveri ritornati a Rio de Janeiro si stabilirono su un morro (collina) di periferia che ridenominarono, per so-miglianza, Morro da Favela. La nasci-ta nominale del termine dunque si collega a uno dei bagni di sangue lu-strali della storia moderna del Brasile. Intorno ai primi anni Sessanta, però, vi sono i primi timidi accenni di una presa diretta della parola da parte “dell’altro del morro”, come nel caso del diario di una favelada, Carolina de Jesus, la cui pubblicazione non a caso conosce uno stra-ordinario successo. Ma è negli anni Novanta, nel cuore dunque di una delle crisi più profonde del progetto di nazione, che la periferia si prende la parola, che il subal-

terno inizia a parlare. Le nuove tecnologie di masterizza-zione a basso costo, le radio libere, l’Hip Hop come con-trocultura della fratellanza nera (le favelas, per il fenomeno storico della stretta correlazione tra razza e classe, sono popolate prevalentemente da popolazione nera o nordestina o comunque si direbbe di colore) di-ventano il primo segnale di un cambiamento di paradig-ma negli ordini della rappresentazione: “l’altro” fa senti-re la sua voce e rovescia la direzione del funzionamento del circuito culturale. Alla musica si affianca poi una contropartita letteraria, cinematografica, figurativa, non meno interessante, se pensiamo anche al successo che Paulo Lins riscuote con Cidade de Deus (dal quale si ri-cava anche una originale versione cinematografica) o la nascita anche dottrinaria di una literatura marginal con esponenti di straordinario vigore e dal forte taglio stilistico, come Ferréz (Capão pecado, tr. it. Manuale

pratico dell’odio). Ma che cultura è la cul-tura di periferia? Si tratta di una cultura che, se vista in modo meno estemporaneo, mostra la sua connessione con il cuore del-la modernità culturale brasiliana. Una cul-tura che fa del riciclaggio di tutte le altre culture – basse o alte, codificate o pure, elitarie o di massa – le parti di un tutto che attraverso la pratica del bricolage, del montaggio, dà luogo a nuove, impensabili creazioni. Del resto, la favela è anche una discarica della “città dell’asfalto”, dunque il riuso diventa una forma di resistenza e at-tacco dei valori fondanti la società esclu-dente che la produce come sacca o deposi-

to dei suoi rifiuti. Di seguito si racconta la storia di questo processo dai molteplici snodi, ricostruendone l’inizio e il punto, sia pure temporaneo, di approdo. Si tratta di due storie di marginalità che conoscono tuttavia un’esposi-zione massima. Il punto di partenza è il diario di Caroli-na de Jesus che, appunto, inaugura un modo immediato (nel senso di diretto) di rappresentazione del periferico. Il secondo punto di comparazione è il documentario di

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Marcos Prado, Estamira, che descrive la vita di una ca-tadora di immondizia nella maggiore discarica di rifiuti dell’ America Latina, a Rio de Janeiro. Dietro l’analisi delle due opere, la cui combinazione in sé già offre un punto di vista straordinario su una storia esclusa che al-trimenti non si potrebbe raccontare, vi è l’elaborazione di un progetto dedicato alla cultura del resto, dove la pratica creativa del riciclaggio viene studiata come il tratto fondante di una nuova storia culturale, scritta però dal punto di vista periferico dell’escluso. Non è fa-cile raccontare la storia di un paese grande come il Bra-sile. Gigantesco, come i suoi conflitti. Soprattutto se la narrativa vuole raccontare storie non egemoni, ma si sforza al contrario di dare cittadinanza culturale a coloro che forse una cittadinanza reale non la hanno mai pos-seduta. In alcune fasi, pensiamo ad esempio al Novecen-to, gli scrittori hanno tentato anche con una ludica co-scienza critica di dare voce a tutta la realtà polimorfa e contraddittoria del Brasile. Con gli autori dei romanzi del cosiddetto postmodernismo, tra cui spunta João Guimarães Rosa con il monologo fiume del jagunço in Grande sertão Veredas – ma si potrebbe citare anche Quarup di Antônio Callado – la letteratura diviene il luogo privilegiato di costruzione di una memoria anche dei subalterni. Ma per venire all’oggi, dentro la vita, una quiete apparente maschera la disgregazione sociale e la violenza nelle città, soprattutto nelle periferie dove si as-sembrano i conflitti più acuti. Nella letteratura – meglio, nella cultura come un insieme complesso, mobile e moderno – la voce dell’escluso è ciò che di più originale si possa udire, poi-ché ha trovato la via per potersi fare sentire. Gli esclusi, questa è la novità, prendono la parola di-rettamente, senza più dipende-re dalla mediazione di un artista o di un intellettuale come pote-va avvenire nel Modernismo anche di più forte impegno ideologico. Se a tale fenomeno si vuole trovare un inizio, si può osservare che già negli anni Sessanta la favelada e scrittrice nera Carolina Maria de Jesus rappresenta un antecedente importante, tanto che può essere conside-rata il ponte di unione tra gli intellettuali e gli artisti da cui dipendeva la mediazione, dunque la possibilità di rappresentazione, degli esclusi. Questi ultimi continua-no a dar voce a ciò che non è ancora cambiato dai tempi dell’autrice, nell’eterno presente della trasformazione sociale che ancora stenta a venire. La sua esperienza nel-

la favela si collocava nello sviluppo economico del pro-gramma sociale. Era il 1960 quando il libro di Carolina M. de Jesus venne pubblicato dalla libreria Francisco Alves, all’epoca una delle più importanti editrici brasilia-ne. Costantemente biografico, funzionò come documen-to di esperienze fino allora mai comunicate da chi pativa una vita miserabile. L’autrice conquistò una fama inter-nazionale sorprendente (l’edizione italiana ha una pre-fazione di Alberto Moravia). Quarto de Despejo è un diario in apparenza scritto in modo semplice eppure molto difficile da leggere e da interpretare. La scrittura per Carolina Maria de Jesus assume una funzione vitale. È una dimensione del suo vissuto, una traccia della sua personale esperienza. Attraverso le storie che racconta, esamina sé stessa, mette a nudo ciò che prima era invisi-bile agli occhi della élite. Nella sua condizione di donna nera, catadora de lixo (raccoglitrice di spazzatura), abi-tante della favela, fa ciò che nessuno ha mai fatto in una simile condizione: si racconta in un diario. L’autrice par-la alla coscienza con un linguaggio universale capace di agire nel profondo. Affronta numerose tematiche che riflettono una comprensione sempre più profonda della propria e dell’altrui condizione umana. La ripetitività dei fatti, inesorabilmente desolanti, dà forza al racconto e ne chiarisce l’intensità poiché, riproponendosi in ma-niera ciclica, mettono in evidenza una realtà che sembra non poter mutare, nonostante gli sforzi. Il lavoro di Ca-rolina M. de Jesus riscatta la sua esistenza, rendendola

dignitosa e, pur trattandosi di un lavoro molto umile, ne è or-gogliosa: «Faccio tutto quello che bisogna fare senza ritenerlo un sacrificio». Quello fu l’inizio. Attualmente, in Brasile, molte delle manifestazioni culturali sono associate alla popolazione nera. Il samba, il maracatu, il caboclinho, la capoeira e molte

altre sono ricordate come parte dell’ingente contributo dei neri alla cultura nazionale. Nella diversità culturale, il movimento Hip Hop occupa una posizione di rilievo e attrae molti giovani, soprattutto quelli che vivono nelle periferie. È un Hip Hop cosciente, un movimento radi-cato nelle esperienze di giovani che vivono nella perife-ria e sperano in un miglioramento delle condizioni di vita, è una forma culturale di resistenza e di trasforma-zione della realtà. Oltre a ricercare la costruzione di una identità nera, che si schiera contro il preconcetto di colo-re, viene data enfasi anche all’emarginato che vive nella

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la riqualificazione delle favelas,

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periferia. La “letteratura marginale”, che testimonia an-cora una volta il degrado delle periferie, incontra l’inte-resse delle classi colte in opere come Cabeça de porco, Capão Decado; ma di questo impegno si avverte l’eco anche in romanzi più noti come Cidade de Deus. Il pro-blema della periferia però è ancora aperto e lacerante. In essa ancora troppe “Caroline” vivono la loro drammati-ca condizione esistenziale. Nulla sembra essere cambia-to. Non a caso, il documentario diretto da Marcos Prado, Estamira, che ha ricevuto premi nazionali e internazio-nali, ci riporta ai quaderni della scrittrice che sembrano tradotti in immagini cinematografiche, confermando in modo indiretto ancora una volta l’efficacia della scrittu-ra del diario, poiché abbiamo la prova che esso ha susci-tato nel lettore immagini molto forti e riconoscibili della realtà di cui ci ha parlato. Il confronto con il film fa risal-tare ancora l’aspetto psicologico, particolarmente inte-ressante, che sta alla base delle sue opere letterarie (oltre a Quarto de Despejo Carolina scrisse anche altri diari, un romanzo e poesie), attraverso il quale conduce il let-tore a immaginare gli spazi, i luoghi, le situazioni fino a farlo calare e immedesimare nella sua stessa realtà, su-scitando la possibilità di riflettere sui valori esistenziali in gioco. Il film Estamira racconta la storia di una donna mulatta di 63 anni che da 20 lavora nel lixão do Rio, la discarica municipale che ogni giorno riceve più di 8.000 tonnellate di rifiuti. Dopo essere passata attraverso mol-teplici esperienze traumatiche, Estamira trova nel lixão il rispetto e l’amicizia che non ha mai avuto nella vita. Marcos Prado riferisce che incontrò Estamira nel 2000 mentre stava lavorando al suo progetto di realizzare un servizio fotografico sui catadores de lixo; Estamira gli rivelò di «abitare in un castello tutto infettato di oggetti raccolti nei rifiuti e di vivere in funzione della sua mis-sione: rivelare e esigere la verità», quella verità che lui, a sua volta, avrebbe dovuto rivelare. La storia di Estamira è raccontata attraverso i suoi ricordi, i racconti dei figli, fotografie, ma soprattutto lo scenario che il documenta-rio pone sempre davanti ai nostri occhi rappresenta l’immagine del degrado che la civilizzazione ha prodot-to. Ciò porta lo spettatore a riflettere, a indagare il mon-do fuori dalla discarica e a interrogarsi con spavento sul confine fra “normalità” e follia. In quel vissuto racconta-to attraverso immagini schiaccianti e allo stesso tempo rivelatrici di una verità altrimenti sfuggente, si coglie la portata della grande tensione emotiva a cui Estamira è stata esposta durante la sua vita. Anche per lei, come per Carolina Maria de Jesus, la vita è stata la principale ma-estra. È catadora de lixo, con la differenza di svolgere il

lavoro in una discarica anziché per le vie della città. Svol-ge il lavoro umile, ma tutt’altro che inutile, di chi racco-glie, ricicla e riutilizza. La sua voce è quella interdetta degli esclusi. Citando le sue stesse parole, Estamira non è “comune”. Parla con saggezza; non è solo testimone di una realtà, ma di valori molte volte dimenticati dalla so-cietà che rimandano a questioni di interesse più genera-le. Dà voce a un concetto di grande importanza che ci chiama tutti in causa; è come un grido di denuncia: «Questo è un deposito di resti. A volte è solo resto, altre volte è anche menefreghismo […]. Economizzare le cose è meraviglioso, chi economizza le cose le possiede. Chi

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non le ha, soffre». Il successo di Carolina ed Estamira rafforza l’idea che la cultura del resto è un’occasione cre-ativa superiore alla cultura del consumo. Mostrandoci una realtà che nel suo modo è straordinaria e straordi-nariamente causata dall’uomo, ci toccano nel profondo poiché, raccontando sé stesse, raccontano la storia dell’umanità. Tutti i catadores sono, in un certo senso, il simbolo di una cultura residuale. La stessa cultura brasi-liana moderna si costruisce a partire dalla centralità che in essa occupa la pratica del riuso, ma al di là del presup-posto culturale, va osservato che il riciclaggio implica una cultura del recupero che possiede molteplici valori,

in particolare nel contesto delle periferie. Il primo e più immediato è quello ecologico, che si collega a un’idea alternativa di sviluppo e di consumo sostenibili. Non meno importante è il valore sociale del riciclaggio che, promosso da associazioni pubbliche o non governative, svolge una funzione di integrazione della cittadinanza; il valore economico che può derivarne producendo reddi-to in aree disagiate e, non ultimo, il valore culturale nell’ambito di un contesto come quello brasiliano abi-tuato a pensarsi come prodotto composito di molteplici riusi di culture, proprie ed esterne.

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di Ludovico Ciferri

tokio e gli anziani di centro città

La periferia, intesa come “zona esterna, vicina al margine di una regione come di una città”, è una metafora della condizione degli anziani, quella vasta coorte che sempre più sembra spaventare le nostre economie e le nostre so-cietà. Una periferia che, nel caso degli anziani, è biologi-ca, sociale e fisica. Con la senilità, o in ogni modo si voglia chiamare l’ultimo segmento del ciclo vitale umano, si en-tra, infatti, nella periferia della vita biologica. Con l’uscita dal mondo del lavoro, ma anche solo con la perdita di un ruolo familiare, si entra in una periferia relazionale e so-ciale. Con il trascorrere degli ultimi anni di vita, pochi o tanti che siano, in spazi abitativi e urbanistici che spesso non sono il centro della vita, si entra infine in una periferia fisica, quella cui qui più interessa accennare. Una risposta messa in campo per evitare agli anziani di consumare l’at-tesa, perché di tale si tratta in ogni modo la si voglia vivere, nel chiuso della loro periferia fisica, mentale o sociale che sia, è quella del cosiddetto invecchiamento attivo. L’idea, che risale a una definizione proposta negli anni Settanta dall’Organizzazione mondiale della sanità, è stata cristal-lizzata recentemente nelle parole dell’Unione europea, che ha fatto del 2012 “l’Anno europeo dell’invecchiamento at-tivo e della solidarietà tra le generazioni”, secondo cui in-vecchiamento attivo significa “avere di più” – e non certo di meno – dalla vita quando si va su con gli anni, sia sul lavoro, che a casa, che all’interno della propria comunità locale. I vantaggi non sono soltanto individuali, ma riguar-dano la società nel suo complesso.Buono il proposito, ma quali sono questi vantaggi? Anche se a oggi nessuno sembra aver trovato la giusta ricetta per far fronte ai problemi e ai costi legati all’invecchiamento della popolazione, va segnalato un contesto, quello urba-no, in cui parrebbe possibile una sintesi. La tesi è ripresa da Ietri e Kresl nel recente libro Buone notizie per le città. Impatti economici positivi dell’invecchiamento della po-polazione, secondo cui mentre l’impatto del costo dell’in-vecchiamento della popolazione sui governi nazionali sarà certamente negativo, «se si considera ciò che accadrà alle città e alle economie urbane, il quadro che si prospetta è decisamente diverso», al punto che «alla scala urbana, a

certe condizioni, si potranno trarre benefici dall’invecchia-mento della popolazione». Tali benefici deriverebbero da tre tipologie di comportamenti posti in essere da «senior in salute, benestanti, istruiti e mobili»: lo spostamento di residenza verso il centro della città; il consumo di beni e servizi del settore artistico e culturale; il consumo d’attività d’istruzione e formazione.L’esperienza di una quarantina di città fra Stati Uniti e Europa, Italia inclusa, sembra evidenziare che grazie a questi benefici sono possibili, indirettamente, effetti posi-tivi come: la riqualificazione dei centri cittadini, in alcuni casi, anche l’aumento del valore immobiliare; la possibilità per gruppi d’anziani di vivere più in salute e più a lungo; il sostentamento delle istituzioni culturali grazie alla parteci-pazione e al finanziamento del settore pubblico; il miglio-ramento della competitività urbana; l’ampliamento della partecipazione della cittadinanza all’economia della cono-scenza; lo stimolo della vitalità della città; il miglioramento dell’attrattiva e dell’immagine della città.La tesi è affascinante, ma la crisi economica attuale met-te in discussione l’idea di fondo – cioè che «i senior del futuro saranno più in salute, più benestanti e più istruiti, ma anche più mobili» – basata com’era su una stima del-la capacità di spesa degli anziani superiore a quella che ci si aspetta invece oggi. Un recente studio sulla situazione pensionistica inglese delinea, ad esempio, un quadro di mancata corrispondenza tra il comportamento di rispar-mio delle famiglie e le aspettative riguardanti il futuro stile di vita delle persone che hanno risparmiato per la propria pensione. Una situazione che è facile immaginare possa espandersi dai sistemi anglosassoni, basati tipicamente sulla previdenza privata, a quelli continentali, sostanzial-mente pubblici e universali. Inoltre, anche se tardivamen-te, ci si comincia a rendere conto che le traiettorie di consu-mo immaginate per gli anziani sono sbagliate. L’attesa che con il pensionamento dei baby boomer, quella generazio-ne di persone nate all’incirca tra il 1945 e il 1964, le dina-miche dei consumi sarebbero cambiate significativamente grazie alla loro maggior capacità di spesa, sarebbe valsa, infatti, se non fosse subentrata la crisi economica, soprat-

Piccola storia, Roma 2011

Ogni giorno da più di 20 anni questo

robivecchi scende fino alle sponde del

fiume Tevere, per raccogliere tutto

ciò che le acque abbandonano.

Parte degli oggetti vengono da lui

rivenduti, parte conservati nella sua

baracca a Venanzio, vicino alla

stazione ferroviaria di s. Pietro

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tutto per gli anziani degli Stati Uniti, Regno Unito, Canada o Australia. In paesi come l’Italia e il Giappone, usciti dalla Seconda guerra mondiale in condizioni di forte povertà e in cui il boom economico è arrivato tardi, il ricordo della guerra – non solo nei racconti degli anziani di allora ma anche nelle pratiche quotidiane dei loro figli – rende gli attuali baby boomer, che pure la guerra non l’hanno vis-suta, più immuni dei loro coetanei anglosassoni alle sirene consumistiche. Molte delle esperienze alla base di “que-ste buone notizie per la città”, come di diversi altri casi di successo che vediamo emergere nel mondo, sono risposte concrete, che nascono dal basso, non il risultato di politi-che nazionali. Il problema abitativo, che resta forse uno dei più delicati, ne è il paradigma: permettere agli anziani di rimanere nelle proprie abitazioni, ma soprattutto come farlo, è il banco di prova per la nostra società, a maggior ragione quando ciò non è più possibile e si deve cercare ac-coglienza in strutture dedicate, più o meno rispettose della dignità umana. Luoghi che sono la periferia della società, oltre che, spesso, alla periferia delle città.L’esempio dell’Italia, in cui circa l’80% della popolazione possiede la casa in cui vive ma il cui livello medio di ma-nutenzione, come un po’ di tutto lo stock fisico italiano, è a dir poco basso, ci interroga su come sia possibile rendere queste abitazioni, se non a misura d’anziano – come peral-

tro sarebbe auspicabile replicando il modello delle case a prova di bambino – meno ostili verso le limitazioni, più o meno naturali, che l’invecchiamento porta. L’elenco sareb-be lungo, dalle vasche da bagno che permettono di entrarvi senza sollevare i piedi, agli utensili con impugnature adat-te a chi ha una presa meno salda, alle tapparelle – spesso pesanti perché ancora in legno – azionabili utilizzando un perno che riduce lo sforzo fisico necessario; senza di-menticare tutta la tecnologia, ad esempio della domotica come pure della robotica di assistenza, che permetterebbe di monitorare a distanza in caso di bisogno, ma anche di sfruttare in modo migliore gli spazi e gli oggetti a disposi-zione per l’uso quotidiano.L’esperienza giapponese, che origina in un contesto mol-to diverso – le case, per la maggior parte costruite anco-ra in legno, hanno una vita media di 30 anni, dopo di che vengono abbattute e ricostruite, secondo normative ag-giornate e sfruttando tecnologie innovative – non è facil-mente riproducibile in paesi come l’Italia dove il vincolo storico urbanistico, oltre che quello di spesa, rende non proponibile l’idea dell’abbattere per ricostruire. Abbattere per ricostruire significa tuttavia conservare e tramandare le tecniche di costruzione originali, sempre miglioran-dole anche all’insegna della funzionalità; al contrario, il limitarsi a conservare l’esistente perfeziona le tecniche di

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conservazione e restauro, ma rappresenta un blocco verso l’innovazione. Un blocco analogo, in questo caso di natura quasi psicologica, s’incontra, peraltro comprensibilmente, quando si propone a una persona anziana di cambiare la propria casa, lasciandone una in cui magari si è trascorsa grande parte della propria vita relazionale, per muoversi verso una più adatta alle limitazioni fisiche che il progre-dire dell’età comporta. Al netto delle implicazioni affettive, che certo hanno grande importanza e di cui si deve asso-lutamente tener conto, bisognerebbe domandarsi se non sia il caso di entrare in una mentalità diversa, di capire che la manutenzione della casa rappresenta un investimento importante per il presente come per il futuro nostro e di chi seguirà. Per questo bisogna forse ripensare il tipo di consumi cui si è abituati, privilegiando quelli destinati a ri-verberare effetti positivi negli anni a venire; diversamente, anche quando fosse al centro della città, la casa rischia di diventare una periferia della vita.Il problema abitativo – ancora irrisolto – si colloca in un contesto più ampio e parimenti complesso, quello urbani-stico, che certo non impatta solo sulla popolazione anzia-na, ma che su questa, e sulla sua mobilità, misura grande parte del proprio grado di successo. Con la pubblicazione nel 2007 del Global Age-friendly Cities: A Guide da par-te dell’Organizzazione mondiale della sanità, è aumentata l’attenzione al tema della qualità degli ambienti urbani, in-cludendo in ciò anche tutti i sistemi di trasporto che vanno concepiti per permettere la mobilità anche agli anziani. In una città come Tokyo, ad esempio, più dell’80% delle qua-si 300 stazioni della metropolitana ha almeno un accesso con ascensore, dal piano strada alla banchina di transito dei treni. Più della metà degli autobus urbani che circolano in città hanno il pianale ribassato: i cosiddetti non-step bus permettono l’accesso anche alle carrozzelle. È ovvio che ciò abbia portato anche a un ripensamento delle linee di su-perficie che, sebbene già fossero uno snodo importante per una distribuzione più capillare dei passeggeri rispetto a quanto consentito dalla rete metropolitana, ora si sono ulteriormente differenziate. I community bus, con tragitti spesso circolari e vicinali, aiutano le persone anziane ad an-dare, ad esempio, a fare la spesa quasi sotto casa. Le altre linee raccolgono passeggeri che convogliano alle fermate delle metropolitane, da cui si raggiunge agevolmente tutta la città. I tempi di percorrenza delle linee di superficie sono naturalmente cambiati: i community bus impiegano molto tempo per fare tragitti brevissimi, con fermate ravvicinate e tempi di attesa per il carico e lo scarico delle persone molto lunghi – un autobus, di regola, a Tokyo non si muove se la persona anziana salita non ha preso ancora posto e, qua-

lora non si fosse creato posto a sedere, se l’autista non si è sincerato che il passeggero sembri ben ancorato a un mezzo di sostegno. Gli autobus, che servono da raccordo fra i com-munity bus e le fermate delle metropolitane o dei treni di superficie, hanno visto allungarsi la percorrenza – sempre per via del dilatarsi dei tempi per il carico e scarico dei pas-seggeri – pur mantenendo buoni livelli di puntualità.Il modello applicato a Tokyo, un’elaborazione dello hub-and-spoke che l’industria aeronautica ha perseguito a partire dalla deregulation nell’aviazione civile commercia-le statunitense nel 1978, non è isolato: ad altre latitudini, anche in diverse realtà italiane, si perseguono pianificazioni analoghe. Quel che è interessante notare è come 20 anni fa a Tokyo non ci fosse traccia di tutto ciò: la sensibilità per questo genere di problemi, includendo l’attenzione alle barriere architettoniche, era pressoché inesistente. Pre-vedendo l’aumento della popolazione anziana, la munici-palità e gli operatori dei trasporti pubblici e privati hanno insieme dato vita a un piano di interventi che hanno fatto di Tokyo una città abbastanza a misura di anziano, quanto meno se si considera il punto di partenza.Alla base di questo tipo d’interventi, tanto nel contesto abitativo come in quello della mobilità, sembra celarsi, non si sa quanto scientemente, una volontà di recupero del senso del passato, di una dimensione intergenera-zionale, tanto fisica quanto sociale, in parte obliatasi con l’affermarsi della famiglia mono-nucleare, che vede riav-vicinare generazioni diverse in contesti urbani comuni. In una realtà come Tokyo, megalopoli abitata da decine di milioni di persone, il fenomeno del riavvicinamento fisico è evidentissimo, ma, curiosamente, si esplica in due modi affatto opposti. Da una parte si assiste al rientro in città di persone anziane che lasciano periferie, spesso situate anche a più di un’ora di treno dal centro di Tokyo, dove hanno vissuto per decenni; dall’altra, diverse persone an-ziane, che in Tokyo hanno vissuto per decenni, lasciano la metropoli per trasferirsi in piccoli centri, recuperati o costruiti ex novo, dove si rincorre l’intergenerazionalità in un contesto ambientale in genere più naturale. Il dato demografico urbano del 2011 ci diceva che a Tokyo il saldo fra popolazione entrante e uscente era a favore dell’inur-bamento: rientravano più persone di quante uscivano, componente anziana inclusa. All’indomani del terremoto del marzo 2011 e della crisi nucleare di Fukushima, che hanno portato a un sostanziale ripensamento della scelta di Tokyo come città per vivere, il dato sembra essere ne-gativo per tutta la popolazione: sono uscite più persone di quante ne siano entrate. La contingenza legata al doppio disastro del marzo 2011 impone di sospendere il giudizio

Piccola storia,

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sul dato quantitativo, limitandosi, per ora, a sottolineare le caratteristiche qualitative del fenomeno.Il recupero di una dimensione intergenerazionale sociale passa anche attraverso la rivalutazione del ruolo degli an-ziani, del contributo che possono fornire alla collettività. Moltissimi sono i casi, ovunque nel mondo, di anziani che trovano una propria ragion d’essere all’interno delle odier-ne collettività. Nelle scuole pubbliche di quartiere di Tok-yo – i gangli della rete di periferia costituita dai 23 grandi quartieri che formano la megalopoli giapponese, città che non a caso manca di un vero centro – alcuni giorni l’anno le persone anziane si ritrovano per condividere, soprattut-to con i giovani, particolari competenze. L’esempio cui si accenna spesso, anche se un po’ sorridendo tanto sembra poco significativo, è quello di come riparare la camera d’a-ria di una bicicletta, qualcosa che oggi sembra sconosciuto ai più, abituati come si è a cambiarla al primo buco. Tutti i giorni, quegli stessi anziani, insieme a diversi altri, muniti di bandierina e pettorina gialla, presidiano le strade per-corse dai bambini delle scuole elementari per aiutarli agli incroci e nei luoghi pericolosi che li separano nel tragitto fra casa e scuola. I flussi migratori degli anziani, in uscita come in entrata dalle grandi città, in movimento da una pe-riferia verso un centro e viceversa, o anche da una periferia

a un’altra, mostrano tratti comuni a qualsiasi latitudine. Sono motivati dal bisogno di trovare un ambiente di vita più tranquillo, il che significa disponibilità di servizi a mi-sura d’uomo, come la possibilità di andare nelle vicinanze a fare la spesa, dal medico curante, al tempio o in chiesa, il tutto spostandosi con i mezzi pubblici; la possibilità di con-dividere, all’interno di un caseggiato, un punto di appoggio da chiamare in caso di bisogno, come una persona che aiuti nelle faccende domestiche o che svolga piccole pratiche in-fermieristiche. Gestire queste dinamiche è il punto, il banco di prova per la nostra società. Quel che pare evidente è che un po’ dappertutto esistono buone pratiche, bottom-up o top-down che siano, per aiutare a affrontare in modo po-sitivo la realtà dell’invecchiamento della popolazione. Un fatto che, di per sé, andrebbe vissuto come una grandissima conquista di civiltà – non dimentichiamo mai che dal do-poguerra a oggi l’aspettativa di vita per molte popolazioni, e fra queste quelle italiana e giapponese, è quasi raddoppia-ta! – oltre che come una grande opportunità, l’ultima forse, per ricreare quella coesione sociale necessaria ad affrontare la crisi economica che si profila nei decenni a venire.

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di Cesare Moreno

MaeStri di Strada

Periferie dell’animo, delle città del mondo sono tra loro collegate. Nella riflessione dei maestri di strada che ac-compagna il lavoro educativo come momento importante di crescita professionale e di ricerca intorno ai temi dell’e-ducazione, il concetto di periferia ha subito successive evoluzioni dall’essere considerato sede dell’emarginazio-ne e del degrado a essere considerato luogo creativo edu-cativamente importante.Il nostro lavoro educativo infatti si svolge nelle periferie dell’animo, in quelle zone della psiche in cui non voglia-mo o non possiamo guardare e che sono quelle da cui hanno origine gli agiti, ossia quei comportamenti umani che non derivano da decisioni consapevoli ma da emo-zioni incontrollate, rabbia, paura, invidia, gelosia, dolori. Le emozioni appartengono a tutti gli uomini, ma sono i giovani e gli adolescenti in particolare a essere da loro agi-ti nella maniera più oscillante; sono quindi quella parte di “umanità periferica”, perché non ancora inserita in un “modo di vita” in cui le emozioni vengono elaborate e rese socialmente accettabili. Le periferie delle città sono quindi luoghi adolescenti ri-spetto alla città: luoghi in cui la moneta corrente di scam-bio umano è di carattere emozionale, dove i caratteri ele-mentari e originari del nostro essere uomini si presentano in gran parte così come la natura li ha costituiti. Proprio per questo la periferia è insieme più autentica e più sel-vaggia, ma è anche il luogo in cui si misura la nostra ca-pacità di essere città, ossia di essere il luogo in cui il “farsi uomo”, il processo di ominizzazione riceve la sua princi-pale legittimazione.I giovani che vivono nelle periferie, che sono per note cau-se demografiche sempre percentualmente più numerosi che non nei centri, si trovano ad affrontare il processo di educazione delle emozioni in un ambiente che a sua volta è un campo emozionale denso e complesso.Il resto del territorio urbano sviluppa nei confronti di que-sto territorio della città un atteggiamento ambivalente: da un lato una specie di nostalgia romantica nei confronti di uno stato di natura, un’ammirazione sentimentale per la spontaneità selvaggia di cui è piena la letteratura e che

non manca di esercitare il proprio fascino su persone la cui buona educazione ha sepolto le emozioni piuttosto che elaborarle; dall’altro, in modo molto più diffuso, su-scita paura ed estraneità, la paura di emozioni incontrol-late che non possono essere ridotte se non attraverso la forza e la violenza. Una paura che rispecchia in modo di-verso ciò che in altri suscita fascino: la paura che si risvegli in noi “la bestia” emozionale che mette a soqquadro l’in-tero edificio razionale costruito con fatica e dolore. Questi atteggiamenti sono proprio gli stessi che si hanno verso le periferie del mondo, quelle che nelle antiche carte geo-grafiche avevano un cartiglio con la scritta hic sunt leones, zone in cui i bisogni elementari e le emozioni violente la fanno da padroni: fame, sete, malattie, odio e violenza. Dunque, se guardiamo le periferie in questa ottica, esse sono anche il luogo di una frontiera fluida tra ciò che è civile e razionale e ciò che è selvaggio ed emozionale, una frontiera che esiste dentro ciascun uomo e che solo una ragione continuamente esercitata riesce a regolare come luogo di scambio fecondo piuttosto che come luogo di violenza e sopraffazione. Il lavoro dei maestri di strada è quello di collocarsi in questa zona di periferia e cercare di stabilire un sistema di confini che potremmo chiamare come in biologia di membrana semipermeabile, in grado di assorbire quanto di nutriente si trova fuori e di tratte-nerlo al suo interno come nutrimento.Inclusione sociale è sinonimo di istituzione; istituzione è semplicemente stabilire un confine tra ciò che è regolato e ciò che non lo è. Sotto questo aspetto l’inclusione sociale pone a tutti il problema di ridefinire le istituzioni che non sono solo gli uffici, ma i pilastri su cui si fonda una società: istituzione è la bandiera nazionale e l’inno, la storia con-divisa, i miti di fondazione, la lingua, i principi giuridici e tutto ciò che rende un gruppo umano comunità, ossia regolato da obbligazioni reciproche. La questione che si pone è quindi fino a che punto le istituzioni siano perme-abili e fino a che punto esse abbiano capacità di tenuta rispetto a nuovi ingressi. Il dilemma che si ripete è sem-pre lo stesso: chiudersi significa essere posti sotto assedio, aprirsi rischia una distruzione dall’interno dell’identità e

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della storia del gruppo preesistente. Paura atavica di esse-re spodestati dai giovani, paura atavica di un’alleanza tra i giovani e le madri per uccidere il padre.L’istituzione che per definizione si trova in frontiera è la scuola, qui in sostanza si decidono i criteri di ammissione nel consorzio civile, qui si rilasciano patenti di umanità, attestati di maturità che decretano l’ingresso o meno nella città, se sei condannato a vivere una vita marginale e sel-vaggia o una vita urbana e civile.Ma la scuola è nata e opera nella consapevolezza di que-sta missione? Storicamente la scuola occidentale, che è sostanzialmente la stessa dai tempi di Comenio, è nata dando un’interpretazione particolare di questa missione: occorreva sottrarre i giovani all’influsso della vita selvag-gia, rinchiuderli in un chiostro – ambiente di vita reale altra e chiuso da mura – e riformarli. Non a caso questa operazione diventa possibile e necessaria quando i ragaz-zi orfani o sostanzialmente abbandonati sono milioni e stanno diventando un pericolo pubblico: siamo alla fine della Guerra dei Cent’anni che ha devastato l’Europa, sconvolto le frontiere degli stati ma soprattutto quelle del-le coscienze.

Rousseau, padre non rinnegato della pedagogia moder-na ma insieme anche tra gli ispiratori della Rivoluzione francese, ha capovolto solo in apparenza l’assioma degli educatori precedenti secondo i quali occorreva emenda-re i giovani dalla vita selvaggia, raccontando che l’uomo in origine è buono, trasformando la nostalgia per lo stato di natura in assioma pedagogico tanto infondato quanto foriero di violenza verso coloro che non interpretano ade-guatamente l’intrinseca bontà umana. Ancora oggi noi oscilliamo in modo pauroso tra l’idea di una gioventù pura e corrotta solo dalla televisione e i cat-

tivi esempi e l’idea di una età selvaggia da mettere sotto controllo attraverso l’umiliazione della carne e dell’orgo-glio. Ciò che ci è difficile accettare è proprio il lavoro di frontiera, quel continuo scambio tra ciò che è nei confini e ciò che sta fuori, che fa di noi degli uomini non perché stiamo dietro una linea trincerata ma perché siamo capa-ci di riconoscerci nell’altro soprattutto quando sta ancora fuori dei confini.Dunque maestri di strada significa saper essere sé stessi mentre si attraversano le frontiere tra zone sicure e zone incerte della città e delle coscienze, perché è attraverso l’essere che si curano le relazioni e i legami piuttosto che attraverso ciò che si dice. Un sapere che non si incarni in un essere non è niente e i giovani sono i primi a smasche-rarne la falsità. Macchine da guerra capaci di distruggere ogni supponenza. Come possiamo attardare il pericolo restando noi stessi, senza farsi prendere dalla paura e da altre emozioni in modo devastante? Per descrivere il nostro metodo userò una metafora antica perché forse si può intendere meglio dei complessi linguaggi psicologici, quella di Mitridate, che per non morire avvelenato prendeva il veleno a pic-cole dosi crescenti fino a diventare resistente al veleno stesso. Come se la gestione controllata del veleno pos-sa combattere il veleno stesso. Così la principale azione che noi cerchiamo di realizzare è stabilire una funzione di pensiero all’interno dei gruppi di lavoro che affron-tano realtà difficili. Pensare è ciò che trasforma gli agiti, le emozioni e gli accadimenti in esperienza, in ciò che si conosce in quanto esperito messo in lavorazione nella propria coscienza. Noi abbiamo una continua manuten-zione delle nostre frontiere interne che ci consente di non spaventarci quando incontriamo i nostri fantasmi nella realtà. Ed è assolutamente essenziale che questo lavoro si faccia in gruppo. Il pensiero non è mai solitario anche quando pretende di essere; il pensiero e la parola sono inestricabilmente legati e sono in funzione dell’altro an-che quando l’altro non è presente. Nel gruppo abbiamo modo di realizzare la condivisione emozionale che mostra a ciascuno come il pensare serva a sviluppare legami e ciò che realizziamo tra noi possiamo realizzarlo tra i giovani, anzi con i giovani. La caratteristica di questo pensiero condiviso è di svi-lupparsi fuori delle frontiere, di essere messo all’esterno di ciascuno di noi per essere poi ripreso da tutti in una nuova forma. Da questo punto di vista il lavoro in grup-po riproduce una situazione onirica, ossia una situazione di confusione dei confini, dei significati, dei colori, delle emozioni e solo dentro questa confusione nascono insie-

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me idee nuove e una più forte coesione tra le persone, per-ché è nel pericolo che si collaudano i legami.Ma anche questo è periferia; che altro è il sogno se non l’e-splorazione libera della periferia della coscienza, un modo di rivelare a noi stessi ciò che la coscienza tarda a vedere? E qui voglio riflettere su due altre dimensioni del sogno e del pensiero, quelle che lo connettono alla fondazione della città e alla nascita dei desideri. Il sogno è connesso al mito di fondazione, ossia a un’idea mitica dei motivi dello stare insieme che si manifesta innanzitutto come nostal-gia di uno stato interno, di un legame con l’altro che pree-siste al pensiero. Nei miti antichi questo era l’eroe eponi-mo, quello che aveva dato origine alla discendenza o che aveva fondato con un gesto importante la città. In epoca moderna forse sono diventate più importanti le imprese collettive: lo sbarco della Mayflower, lo sbarco dei Mille, la Resistenza e quant’altro a testimonianza del bisogno di ancorare in un passato mitico le ragioni dello stare in-sieme. Essere ammessi a far parte di questo mito è parte integrante del diritto di cittadinanza che non può realiz-zarsi se non attraverso la trasformazione del mito che si realizza ogni volta che i nuovi arrivati devono trovare posto. E qui il mito si mescola necessariamente al sogno: bisogna sognare che il bianco sieda affianco al nero, che i paria siano cittadini come gli altri, che gli abitanti delle periferie abbiamo la stessa dignità degli altri se vogliamo riorganizzare i nostri miti di fondazione. Nel nostro caso il sogno verte necessariamente intorno ai giovani che ab-biamo incontrato nel nostro lavoro, consiste nell’immagi-narli come oggi non sono e intraprendere un cammino di conoscenza che è un cammino iniziatico, in quanto inizia ciascuno alla conoscenza di sé e del proprio sogno.Il cambiamento di sé, il progetto di educarsi, di uscire fuori dallo stato di cose esistenti non può nascere per imposizione esterna, da un tentativo di riformare l’esse-re sviluppatosi in modo anomalo, ma può nascere solo dall’interno e dal desiderio di cambiamento.L’educazione non deriva dal bisogno, dalla oggettiva ne-cessità di cambiamento in condizioni dure e difficili, ma dal desiderio di cambiare la propria condizione, dall’as-sunzione di un ruolo attivo nei confronti del mondo ester-no e della propria realtà interiore. Senza di questo non c’è educazione ma addestramento canino, fosse anche a danzare il valzer. E la mobilitazione delle energie inermi, la passibilità di desiderare proviene solo dal fatto che altri condividono il tuo sogno, che il sogno personale sia soste-nuto da un gruppo umano che ti sostiene.La dimensione della cura amorevole, la dimensione dell’amore pedagogico sono quindi essenziali all’impre-

sa educativa non come sdolcinatura, sentimentalismo, romantica ammirazione per il naif, ma come scienza in grado di trovare nei meandri delle coscienze la strada dei sogni e del progetto. Tutto questo infatti si incarna in precisi istituti che rappresentano l’essenza della metodo-logia: i rituali di ingresso e di transizione, i momenti di riflessione in cerchio, i momenti di ascolto e di restituzio-ne, la costruzione di momenti narrativi di gruppo e indi-viduali. Sono momenti fondanti in quanto consentono ai giovani e ai loro educatori di mantenere una molteplicità di connessioni: tra emozioni e ragione, tra gruppo e indi-viduo, tra sogni e progetti, tra apprendimenti informali e loro formalizzazione, tra alleanza e contratto. Questo è anche un modello di sapere e di scuola che non è affatto nuovo o speciale dei maestri di strada, è il modello di sa-pere e cultura aperti, di città e società aperte, e di scuola aperta, capace di accogliere e trasformare in sapere per tutti quello che viene dalla vitalità delle periferie. L’espe-rienza dei maestri di strada ha trasformato queste idee praticate in ambienti speciali e ristretti in un’esperienza reale nei luoghi in cui certi principi dovevano misurarsi per dimostrare la propria validità. 11 anni di esperienza

continuata su scala cittadina e un nucleo che continua l’opera in una grande area periferica costituiscono mol-to più che una testimonianza: sono la validazione di un metodo. Aspettiamo che la città e la società ne prendano atto. Ristabilire le connessioni interiori significa pertan-to ristabilire anche l’integrazione sociale, consentendo da un lato a chi è socialmente emarginato di riprendersi la parola e di dare voce ai propri desideri e, dall'altro a chi è mentalmente scisso di riprendere contatto con il proprio sé autentico.

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di Armando Punzo

il teatro apre il carcere

Contro il pensiero comune – Da quasi 25 anni dedico la mia vita alla costruzione di un teatro e di una compagnia stabile nel carcere di Volterra. Una fortezza medicea che è sempre stata adibita a carcere. La mia idea di teatro, o meglio la mia reazione al teatro, mi ha portato lì. È stato un approdo na-turale, quasi obbligato. Nessuno aveva mai pensato prima di trasformare un carcere in un teatro. Nessuno ci aveva mai pensato in una forma così compiuta, immaginando in modo strutturato che la fabbrica del male, la fossa dei ser-penti, il pozzo infernale, la galera, o comunque si voglia de-finire un carcere, potesse avere un’altra faccia che contrad-dicesse e mettesse in discussione il pensiero comune sulla funzione e le finalità di un istituto di pena.

Promuovere l’innovazione – E qui si apre la prima intuizio-ne pratica, che può dar fastidio a molti trattandosi di carce-re: un’Istituzione non è immutabile e, come una persona, può cambiare, mutare, trasformarsi, crescere, evolvere.

Può non essere sempre uguale a sé stessa, può non ripetersi all’infinito, può felicemente tradire la concezione comune e migliorarsi. Farsi promotrice di innovazione. Per far questo non deve arroccarsi su posizioni conservatrici, deve attuare un processo di minor-azione, deve crescere riducendo in sé quelle parti che impedirebbero questo processo, deve dialo-gare con l’altro da sé. Gli uomini che la abitano, la reggono e la giustificano, devono mettere in atto questo processo virtuoso. Questo è quello che è accaduto a Volterra, in fase sperimentale, con l’arrivo del teatro. Un percorso molto dif-ficile e lungo, ma che una volta avviato non si è più potuto arrestare.

Il palcoscenico di un mondo imprigionato – Per capire la portata di questo progetto, bisogna pensare a una vera e propria trasformazione del carcere in un teatro. Un teatro che sia il palcoscenico (privilegiato) di un mondo imprigio-nato e che ci racconti le contraddizioni della nostra realtà.

Marat-Sade di Pierpaolo Pasolini

rappresentazione teatrale alla

Casa di Reclusione di Volterra

(Teatro della Fortezza)

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Uno straordinario punto di osservazione sull’uomo e sulle sue azioni. Penso a quella che sarebbe una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire e vivere il carcere e il te-atro. Penso, come nella cel animation (la tecnica di anima-zione secondo la quale gli animatori disegnano i personaggi e gli oggetti da animare su una carta speciale in acetato tra-sparente), al carcere che sarebbe lo sfondo su cui far vivere e animare il teatro con tutte le sue attività e potenzialità.

Uscire fuori dal mondo – Io penso alla costruzione di un teatro in un carcere, Genet pensava e auspicava che i teatri dovessero essere costruiti nei cimiteri. Due luoghi accomu-nati, per diversi motivi, da un destino di estraneità e dalla rimozione dal contesto sociale. Il tutto potrebbe essere riassunto nell’azione e nella neces-sità di uscire fuori dal mondo così come è immaginato, in un momento storico dove invece tutti cercano di starci den-tro, trovare il proprio posto, di avere protezione e rassicu-razione, questo movimento contrario può solo aiutare ad aprire gli occhi sulla realtà che viviamo.

Il carcere e la prigione velata – Il carcere è per me luogo del reale e allo stesso tempo metafora della prigione velata in cui siamo rinchiusi. Il luogo in cui “edificare” questo teatro d’eccezione, in questo senso, non sarebbe un aspetto secon-dario o insignificante. Basti pensare alla funzione acritica, conservatrice e di intrattenimento in cui si sono attualmen-te ridotti la maggior parte dei teatri.Il carcere, come comunemente inteso, è solo un luogo inu-tile e distruttivo per le persone recluse e per tutti noi. Il mio ruolo è stato anche quello di stimolare, promuovere e ac-compagnare la sua quotidiana trasformazione. La stragran-de maggioranza di queste persone viene dal Sud dell’Italia e del mondo, proviene da storie di povertà e ignoranza. La violenza, la coercizione non combattono la violenza, l’igno-ranza e l’esclusione. Le alimentano. Le persone comuni, indotte alla paura, chiedono più sicu-rezza, carcere più duro, senza capire invece che è proprio aiutando queste persone a fare un’esperienza diversa che c’è la possibilità di aiutarli a scegliere una vita migliore, mai conosciuta, a trovare un’alternativa.

Una scuola di teatro aperta all’esterno – Volterra, per la sua storia recente, dovrebbe diventare un istituto speri-mentale dedicato al teatro e alla cultura. Dal 1988 lavoria-mo tutti i giorni lì dentro per produrre spettacoli, mostrarli al pubblico. Formiamo attori e tecnici e la nostra è diventa-ta una scuola di teatro per i detenuti e per persone esterne. Sempre più gli attori della nostra compagnia sono richiesti

in altre produzioni teatrali e cinematografiche, ma sembra ancora che, per la pubblica opinione, si possa uscire dal car-cere solo per fare i camerieri e gli operai.

Successi ottenuti e progetti futuri – La nostra esperienza ha una funzione pubblica. Ha prodotto spettacoli premiati più volte, eventi culturali di livello internazionale, ha creato un rapporto con il territorio come dovrebbe fare un teatro stabile, fa formazione, promuove il Festival Volterra Teatro che è cresciuto intorno a questi temi. I nostri spettacoli van-no in tournée in Italia e all’estero nei teatri e nei festival più importanti. Si tratterebbe di realizzare con più mezzi e con una prospettiva più solida, organizzata e visibile quello che abbiamo fatto in modo del tutto pionieristico. Si potrebbe arrivare a selezionare, tra la popolazione detenuta nazio-nale, i più dotati come attori, cantanti, ballerini, musicisti, drammaturghi, quelli interessati alla regia, quelli a cui inte-ressano le altre arti legate alla scena come scenografia, illu-minotecnica, costumi, quelli con propensione verso i lavori tecnici, organizzativi, amministrativi, di promozione. Una

compagnia formata in questo modo potrebbe lavorare tutto l’anno e produrre più spettacoli. Oggi, a 25 anni di distanza, si sono fatti molti importanti passi avanti, ma non sono an-cora sufficienti. Io continuo a sperare che qualcuno arrivi a vedere, ad avere una visione chiara e consapevole di questa possibilità e che mi aiuti a realizzarla. In fondo è solo una questione di investimenti economici e di volontà. Non pen-so ci sia qualcuno disposto a credere che il teatro e la cultu-ra non possono cambiare le persone e la nostra vita solo in meglio. Ci sono tanti teatri stabili in Italia, perché non pen-sare che se ne possa fare nascere uno in un carcere? Perché sembra impossibile? Con la Compagnia della Fortezza ho dimostrato che questa è una strada concreta e percorribile.

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libertà provviSoria

di Fulvio Rizzo

L’incontro col teatro “scatena”, per certi aspetti, le stes-se emozioni di quando si incontra una persona che, sin dal primo momento, capisci che può cambiarti la vita. Il rapporto con il teatro è quello di un amore. Un amore che non annulla niente di te, anzi aggiunge!Se questo avviene in un luogo che, per sua indole, è teso ad annullare l’uomo e i suoi spazi naturali, qual è il carcere, allora il teatro diventa importante, quasi indispensabile. In carcere molto probabilmente i suoi benefici non si avvertono in toto. Infatti, i preparativi di uno spettacolo avvengono all’interno di un sistema e di una struttura poco incline ai rapporti sociali “norma-li”. Un attore lavora col proprio corpo. In carcere però cose naturali, come un semplice contatto fisico o un abbraccio, vengono percepite come una sorta di infra-zione. Le distanze fra esseri umani sono regola, per non parlare dei problemi che sorgerebbero se una messin-scena prevedesse una presenza femminile. In carcere non è ammesso alcun tipo di socialità col sesso opposto (già questo basta a far capire la civiltà della pena). Per cui,bisognerebbe affrontare un primo, grosso proble-ma: farsi “prestare” dalla società esterna un’attrice.Se si riuscisse a risolvere il primo problema, bisogne-rebbe affrontarne un altro: evitare, durante la prepara-zione dello spettacolo e al momento della rappresen-tazione, qualsiasi tipo di contatto fisico con la propria compagna di lavoro. Ovviamente non mi riferisco ad abbracci d’amore o baci passionali, che durante la mes-sinscena sono impensabili. È come se in carcere coabi-tassero persone nate in cattività, che devono muoversi, parlare e agire (sin nei gesti più quotidiani e semplici) facendo i conti con pesanti limitazioni. Tuttavia, la preparazione di uno spettacolo è vitale, perché rende possibile vivere insieme momenti importanti, scrivere e recitare pezzi di vita ti consente di dire delle verità che senza il mezzo-teatro non “dovresti” mai dire. Due ver-bi apparentemente inconciliabili, come dovere e desi-derare, col teatro possono abbracciarsi.Poi arriva il giorno della rappresentazione e le distanze, in quelle due ore, si annullano. Comunichi liberamente

Enrico Mitrovich, olio su tela

La periferia avanza

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con i tuoi compagni e col pubblico. Il pubblico intera-gisce con te con i gesti e gli sguardi e i suoi assensi o dissensi perfezionano la terapia per guarire da quell’a-troce patologia chiamata solitudine vergognosa. Io e il mio amico Nicola, unitamente ad altri compagni, chia-miamo quelle due ore “libertà provvisoria”. Quelle due ore, per noi, sono paragonabili a un anno di vita fuori da queste mura. Sono vissute pienamente e questo – da parte di persone che spesso calpestano ciò che hanno perché egoisticamente vogliono ciò che non possono avere – non è poco. Il mio motto è: guarda con amore ciò che hai, fallo con gli stessi occhi di ciò che vorresti. Questo è il teatro in carcere per me.

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Il progetto di questo numero nasce dalla volontà di in-dagare la periferia. Periferia come vuoto, marginalità e disagio. Periferia come identità, specificità e socialità. A differenza di quanto ci si potrebbe attendere, l’autore decide di evitare i soliti cliché tradizionalmente legati al tema. Rifiutando un catalogo didascalico di immagini tipiche, decide di concentrarsi sullo spazio urbano – spazio spesso poco inclusivo, alienante e ostile – in cui rimane però il segno della presenza di chi lo ha abitato e lo abita tutt’ora. Un gesto o solo un oggetto lasciato riescono a trasformare proprio quello stesso spazio in un luogo conosciuto, posseduto, vissuto.La città prescelta è Roma e le immagini sono state scat-tate tutte tra il 2010-2011. Ed ecco che vediamo il lot-to n. 8 del Trullo con i suoi cortili trasformati in orti, Corviale, la Bufalotta ancora in costruzione. Si viaggia dal passato all’oggi, da periferie ormai storiche sino all’ennesimo esempio di quartiere dormitorio in cui più chiara è la difficoltà dell’abitare il luogo. Ma lad-dove questo senso di impotenza emerge, si vedono al-trettanti segni di umanità. Segni di riappropriazione di un vuoto contenitore di storie umane. è proprio questa dinamica abitato-abitare che viene indagata attraverso un racconto che sospende la cronaca storico-sociale per proporci una serie di immagini in cui l’attenzione è ri-portata su alcuni oggetti significativi di un processo di riappropriazione forte, che in periferia avviene in ma-niera del tutto insolita rispetto a quartieri più centrali, dove il controllo degli spazi pubblici è più rigido. Acca-de allora che un giardino è trasformato in un orto, che un pezzo di terra degradato diventa un luogo d’incontro recintato con una rete da pollaio e chiuso con una porta di legno. Ancora, che piccoli oggetti quotidiani appaia-no e scompaiano qua e là per le strade del quartiere.

Bufalotta – Il quartiere Bufalotta sorge a ridosso del Grande Raccordo Anulare, vicino alla via Salaria, a Nord di Roma. In origine il quartiere sarebbe dovuto diventa-re una zona multifunzionale dotata di servizi e in grado di alleggerire la pressione urbana che gravava sul centro

della capitale. A oggi è solo l'ennesimo esempio di quar-tiere dormitorio. Priva dei servizi essenziali e carente di collegamenti metropolitani, la Bufalotta si sviluppa lun-go un’unica strada principale a quattro corsie che collega il vicino centro commerciale alle aree residenziali.

Corviale – Corviale, o meglio noto ai romani come “Il Serpentone”, è un unico palazzone che sorge nelle vici-nanze della via Portuense e che conta 1200 appartamen-ti. Di proprietà dell’Istituto Autonomo Case Popolari è stato progettato nel 1972. L'idea era quella di realizzare un progetto abitativo innovativo rispetto all'edilizia ti-pica degli anni Sessanta, anni del boom edilizio e della nascita dei quartieri dormitorio. I lavori durarono 10 anni. Nel 1982 iniziarono le prime occupazioni abusi-ve che andarono avanti per tutti gli anni Novanta. Oggi cittadini e comitati civici combattono contro il degrado e la criminalità.

Trullo – Il Trullo sorge intorno al 1940 su iniziativa dell’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari. Borga-ta ormai storica fu voluta da Mussolini all’indomani dell’imminente scoppio della guerra in previsione di un ritorno imminente in patria degli italiani emigrati all'estero. Collocato tra la via Portuense e via della Ma-gliana, il Trullo è stato edificato in fretta e secondo re-gole rigorose. La struttura abitativa è pensata come un insieme integrato di abitazioni, verde e servizi. Il Trullo è stato uno dei primissimi esempi di edilizia intensiva con tutti i problemi che questo reca con sé.

Primavalle/Torre Vecchia – Primavalle è una delle 12 borgate ufficiali edificate insieme al Trullo durante il periodo fascista. Sorge tra la via di Boccea e via Trion-fale. Il quartiere accolse all’epoca dell'inaugurazione nel 1939 gli abitati, costretti a uno spostamento forzato, che vivevano nelle zone dove oggi sorgono via della Conci-liazione e via dei Fori Imperiali.

iMMagini di periferia

di Cristiana Martinelli

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A 20 anni dal crollo dell’Unione Sovietica va nuovamente di moda parlare di quando atroce fosse quel sistema. Mi domando fino a che punto questo atteggiamento sia il prodotto dei mezzi di comunicazione occidentali. Non voglio iniziare un dibattito su ciò che era il comunismo classico puro e ciò che risultò essere lo stalinismo; voglio invece ricordare alcune cose di cui dobbiamo essere grati all’URSS e che mai le vengono riconosciute.

1. Diritti della donna – Mentre in alcuni paesi il diritto di voto era ri-conosciuto alle donne già nel XIX secolo, la prima vera ondata di cam-biamenti avvenne nel XX secolo. Nell’anno 1917 solo quattro grandi paesi (Australia, Finlandia, Norvegia e Danimarca) avevano adottato il suffragio femminile. La Rivoluzione russa del 1917, che difendeva la parità di diritti, diffuse il timore che le femministe potessero trovare il co-munismo un sistema più attraente e pertanto cospirare assieme ai bolsce-vichi al fine di importarlo nei paesi occidentali. Il miglior modo per tron-care alla radice una minaccia simile era concedere alle donne il diritto di voto. Gran Bretagna e Germania lo legalizzarono nel 1918, seguite dagli Stati Uniti nel 1920 e da altri suc-cessivamente. La Francia fu l’unica grande potenza ad aspettare fino al 1944 per riconoscerlo.

2. Legislazione sul lavoro – Questo punto è piuttosto ovvio. Abbiamo una settimana lavorativa di cinque giorni, dalle due alle quattro settimane di ferie pagate, congedo di maternità, copertura sanitaria, standard di sicu-rezza per gli operai e così via; questo grazie alla pressione che il comuni-smo esercitò sul capitalismo. Non siamo mai riusciti a vedere il volto umano del comunismo, ma grazie all’URSS abbiamo almeno intravisto il lato più umano del capitalismo. 3. La Seconda guerra mondiale e la ricostruzione postbellica – L’Unione Sovietica svolse un ruolo cruciale nella sconfitta della Germania nazi-sta. Stalingrado è il famoso campo di battaglia che riuscì a mandare all’a-ria il progetto nazista di una guerra lampo (blitzrieg), ribaltando le sorti della guerra. L’URSS soffrì la perdita di 23,4 milioni di persone (più della Germania e 26 volte il numero dei morti di Stati Uniti e Regno Unito). Al termine del conflitto, fu delineato il Piano Marshall, poiché i paesi alle-ati dell’Occidente non volevano che l’Europa cadesse vittima di comuni-smo, morte, fame e desolazione. Di fatto, il piano venne attuato solo a condizione che i comunisti fossero esclusi dai parlamenti dei paesi che ricevevano gli aiuti. Che democrazia! 4. Il cammino anticolonialista – Men-tre l’imperialismo alimentava il tes-suto industriale e capitalista, il Bloc-

co sovietico difendeva la causa delle colonie sottoposte allo sfruttamento. Forniva il suo aiuto ai due paesi che lottavano per la loro liberazione e a quelli che avevano da poco raggiunto l’indipendenza. L’appoggio sovietico alla lotta per la liberazione indiana non è un segreto; l’ideologia comuni-sta risultava naturalmente allettante per un Paese povero che lottava per alzarsi in piedi. 5. Scoperte scientifiche – I sovietici inviarono il primo satellite e in segui-to il primo cane, il primo uomo e la prima donna nello spazio. Inoltre svi-lupparono diversi progetti televisivi. In breve, oggi non ci sarebbe un Tata Sky (un sistema di diffusione diretta via satellite), se non fosse stato per la perizia dei sovietici, ai quali va inoltre riconosciuto il merito di aver realizzato organi artificiali, il primo elicottero, la xerografia e il tristemen-te celebre fucile d’assalto AK-47.Quando parlo di queste cose con i miei amici russi, questi ci tengo-no a precisare che le conseguenze positive dell’Unione Sovietica non derivano dal fatto che sia stato un buon sistema, bensì dal suo modo di realizzare cambiamenti a mo’ di “spauracchi”. Senza dubbio, questa puntualizzazione è vera, tuttavia, è ugualmente importante essere in-tellettualmente onesti e riconoscere, anche se solo per una volta, i meriti di ciascuno.

di Aanchal Anand

cinQue Motivi per ringraziare l’urSS

Page 87: Il Calendario del Popolo - Periferie fisiche periferie mentali

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Tommaso De Lorenzis e Mauro Favale, L’a-

spra stagione, Einaudi Stile Libero Extra,

Roma, 2012. Pp. 268, € 18.

«L’Italia non sogna più. Ha smesso di farlo un mattino di maggio del 1978. Da allora ha imparato a ingur-gitare di tutto pur di restare con gli occhi sbarrati. Non lucida. Soltanto sveglia. Un Paese senza sonno. E senza sogni». Questo è l’incipit de L’aspra stagione di Tommaso De Lo-renzis e Mauro Favale, che ci cata-pultano in una storia che va da metà degli anni Settanta ai primi anni Ot-tanta, fino agli anni della Transizio-ne, in quel decennio “che è durato quasi un trentennio”, quella “stagio-ne aspra” dal 1973 fino ai Mondiali di Spagna del 1982, in cui il nostro Paese si trasforma tumultuosamen-te, fino a quel ribaltamento di pesi e valori da cui sorge il nostro oggi. La storia è quella di Carlo Rivolta, giovane giornalista d’inchiesta, che muove i suoi primi passi nella reda-zione di Paese Sera per poi assumere un ruolo cruciale per La Repubblica, di cui aiuta a creare il Dna: cronista della vita e della morte del movi-mento, si divide tra strade, partito e giornale; è un grande interprete di

Massimiliano Smeriglio, Suk Ovest. Banditi a

Roma, Fazi Editore, Roma, 2012. Pp. 256,

€ 15.

ro di telefono digitato poco prima di morire. Nel suo quartiere ritrova Mario, Nicche, Panettone, Papella ma soprattutto Brancaleone, hacker geniale e Victor, diventato poliziotto di zona.Con il loro aiuto, Valerio compren-de che dietro l’omicidio ci sono dei mandanti che muovono i fili del ric-co business dello smaltimento dei rifiuti, un giro brutale e attuale, che attanaglia la sua città. Sullo sfondo la storia di suo nonno, partigiano; anche lui, nella Roma del 1944, aveva sofferto per non essere riusci-to a salvare un caro amico. E infatti due sono i piani temporali su cui si muove la storia, gli anni 2008-2009 e gli anni della Resistenza romana, dominati dalla feroce banda Koch, i fatti tristemente noti di via Tasso e dell’occupazione. Anche in questo libro, Massimiliano Smeriglio, as-sessore al lavoro e alla formazione della provincia di Roma guidata da Nicola Zingaretti, già autore di Gar-batella Combat Zone (Voland Edizio-ni), ricrea il contesto urbano di quel quadrante Sud-Ovest della Capitale, da Ostiense alla Garbatella. Il terri-torio è terra di conquista di grande e piccola criminalità, quest’ultima rappresentata da un esercito di schegge impazzite, tossicodipen-denti, writers e sbirri corrotti, che lottano tra loro per il controllo del quartiere. Si tratta di una Roma che non è né centro né periferia, sempre più feroce e dispersa. E, anche se si tratta di fantasia, siamo di fronte a uno di quei casi in cui la finzione narra meglio di una cronaca.

Chi ha ucciso “Er Gatto”? Da questo interrogativo prende avvio l’intreccio di un intrigante noir che si muove tra finzione e personaggi inventati sullo sfondo di una Roma anarchica, rea-le, cruenta, e disperata. Il protago-nista, il bandito Valerio Natali, dopo una lunga latitanza in Messico, tor-na nel luogo della sua infanzia, la sua Garbatella, che lo accoglie con il più grande dolore da metaboliz-zare e “vendicare”: il suo amico di sempre, Massimo Giunti detto “Er Gatto”, è stato ucciso a coltellate alla fontana di Carlotta. Non si co-noscono le cause dell’assassinio ma Valerio cerca vendetta e così inizia le sue indagini a partire dall’unico indizio a disposizione, quel nume-

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di Flora Albarano

recenSioni

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Haidi Gaggio Giuliani e Paola Staccioli, Non

per odio ma per amore. Storie di donne in-

ternazionaliste, DeriveApprodi, Roma, 2012.

Pp. 240, € 15.

Buenos Aires. L’Avana. Berlino. Vado del Yeso. Milano. Atene. Mo-naco di Baviera. La Paz. Zurigo. Tunceli. Çatak. Olympia. Rafah. Da un estremo all’altro del pianeta, sei donne vissute dalla seconda metà del secolo scorso a oggi. Sei storie diverse. Sei vite lontane ma paral-lele. Un solo filo conduttore che le attraversa. Cosa accomuna le loro vicende?Haidi Gaggio Giuliani e Paola Stac-cioli ripercorrono le esistenze di Ta-mara Bunke, Elena Angeloni, Moni-ka Ertl, Barbara Kistler, Andrea Wolf e Rachel Corrie, soffermandosi sulle ragioni, le spinte, le forti motivazioni che hanno condotto queste donne, di diversa provenienza e formazione, ad abbandonare la propria vita fami-liare, occidentale, quotidiana, per combattere a sostegno di cause di-verse, di altri paesi, di altre rivoluzio-ni, in fondo per un unico fine, quello di una società più giusta e libera. Il tentativo è quello di testimoniare l’atto di amore alla base della scelta

di queste donne comuniste, pacifi-ste, internazionaliste che diventano militanti, superando anche i limiti da sempre attribuiti al genere fem-minile, in barba agli stereotipi della cultura maschile, non per assecon-dare o seguire le strade di uomini entrati nelle loro vite ma per una volontà forte, consapevole e matura, un ideale di libertà e rivoluzione che le lega, pur non conoscendosi, fino alla morte, tragica per ognuna del-le sei protagoniste. Chi in Bolivia al seguito del Che, chi in Grecia, chi sulle montagne del Kurdistan turco, chi nella striscia di Gaza, ciascuna di queste donne, va incontro al pro-prio destino con quella determina-zione ferma propria dei combattenti. Non pensate però che l’intento del libro sia quello di creare nuove eroi-ne. Anzi, è proprio quello che Paola Staccioli dichiara nell’incipit di voler evitare. Lo scopo è quello di raccon-tare, per confutare, per far uscire dal cassetto racconti troppo a lungo sep-pelliti o mistificati, per ridare dignità a vicende colpevolmente ignorate. Ma non solo. Non è un caso se la formula scelta non è quella saggi-stica bensì quella narrativa: viene violentemente a galla da ogni rigo di queste pagine il desiderio impellen-te di dare spazio, oltre ai fatti, alle emozioni che si possono nascondere dietro una militanza da perseguire a ogni costo. Dopo la successione dei racconti, le autrici ci consegnano an-che schede biografiche dettagliate per inserire le narrazioni nel giusto inquadramento storico e politico. Di forte impatto le parole di Haidi Gag-gio Giuliani, madre di Carlo Giuliani e cognata di Elena Angeloni, che, a proposito delle donne del libro, ci ricorda che «Possiamo non con-dividere tutte le loro scelte ma non possiamo, onestamente, sottrarci al confronto».

quel giornalismo on the road che sa cogliere le voci e i sommovimenti di una Roma inquieta. Ma le sue crona-che spesso non sono gradite né alle frange più chiuse dell’Autonomia, né agli organi del PCI. In redazione è visto con sospetto e nel post-Moro, ha davanti a sé un triangolo vorace: riflusso, siringhe, armi. Rivolta pas-sa a Lotta continua, allora diretto da Enrico Deaglio. Rivolge il suo sguar-do premonitore ai problemi del Sud. Colleziona «cronache di resistenza» ma intanto sprofonda. L’eroina inva-de le strade e diventa una presenza stabile anche nella sua vita. Muore a 32 anni cadendo dal davanzale di una finestra durante una crisi di asti-nenza. Ciò che affascina nella trepi-dante evoluzione della lettura non è solo la scoperta della vita esemplare di un uomo che ha vissuto in prima persona tutti gli avvenimenti fonda-mentali di quegli anni e che ce li ha raccontati con pezzi giornalistici di rara bravura, ma soprattutto il mix di lucidità analitica e lungimiran-za che trapela da quelle cronache. Leggi 1978 e vedi oggi. La scrittura degli autori è rapida e fluida e i loro stili sono uniformati alla perfezio-ne, al punto da rendere impossibile capire dove finisce uno e dove inizi l’altro. La narrazione sperimenta tutti i dispositivi tipici della crime story, svelandoci i vari passaggi e i suoi protagonisti in un climax ascendente che ci travolge. Continui e avvincenti sono i salti temporali, le anticipazio-ni, gli svelamenti, all’interno di una struttura complessa come quella montata ad arte con le tecniche pro-prie del linguaggio cinematografico fino a costituire un libro impossibile da etichettare, a metà strada tra un saggio e un romanzo, tra reportage, biografia e fiction; un ibrido, o come gli stessi autori lo considerano, un “oggetto narrativo non identificato”.

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Angelin Gastone, Mestre (VE) 15 €

Angiolini Antonio, Piombino (lI) 15 €

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L’Azerbaigian affonda le sue ra-dici nell'antichità più remota e si affaccia con vigoroso slancio sul-la scena internazionale del terzo millennio, forte di un’economia in impetuosa crescita. Questo testo, riccamente illustrato, co-stituisce un importante punto di partenza per avvicinare il lettore non solo all'economia, ma anche alla cultura, arte, storia e geogra-fia del Paese caucasico. Un viag-gio avvincente, anche attraverso l’artigianato, la musica e i pae-saggi mozzafiato di uno Stato al tempo stesso islamico e laico, dove molte religioni convivono pacificamente e la Costituzione garantisce piena parità di diritti tra uomo e donna.

L’opera ci introduce allo zoroa-strismo – nato proprio in quella regione – e al cristianesimo della Chiesa albanica; ci fa conosce-re gli “ebrei delle montagne” e quelli ashkenaziti, l’islam – lar-gamente maggioritario nel Paese – con le sue peculiarità e le due “nuove religioni” nate nell’Ot-tocento – baba’i e baha’i – per finire con le piccole comunità cristiane ortodosse, cattoliche e protestanti. Si tratta di un con-testo politico di cui uno degli aspetti più positivi è senz’altro la tolleranza religiosa, che riguarda anche atei e non credenti. La Costituzione azerbaigiana separa nettamente lo Stato dalla religio-ne e pone tutte le confessioni su un piano di parità.

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Sfogliando un qualsiasi vocabo-lario, cercate il verbo “scontare” e l’aggettivo “scontato”: non sorprendetevi se i significati vi condurranno dentro il carcere. In carcere tutto è scontato e niente lo è. Partono da questo appa-rente paradosso le riflessioni di un gruppo di studiosi – direttori penitenziari, educatori, docenti universitari, esperti europei, giu-risti e non – che tentano di inter-pretare la questione di fondo: la presenza di un corpo incarcerato, prigioniero di un’istituzione tota-le, burocratica, contraddittoria e ipocrita che si prefigge l’obiettivo di punire senza infliggere soffe-renza. Il libro è accompagnato dal DVD di Germano Maccioni, con la partecipazione del magi-strato Francesco Maisto. Le pri-gioni misurano la civiltà di un Paese. E l’Italia che Paese è?

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a leningrado con il preMio nobel zhoreS alferov

Nell’ambito del meeting di premi Nobel svoltosi a Leningrado – San Pietroburgo l’11-12 ottobre 2012, il premio Nobel Zho-res Alferov (a destra nella foto), rettore dell’Università dell’Ac-cademia delle Scienze di San Pietroburgo, decano della Duma e vicepresidente dell’Accademia Russa delle Scienze, ha ricevuto dall’editore Sandro Teti una copia di un numero del 1949 de Il Calendario del Popolo, la cui copertina era dedicata a Jean Jaurès, grande leader socialista francese as-sassinato nel 1914, particolarmente caro al professore poiché ne porta il nome (“Zhores” è la traslitterazione della versione in cirillico di Jaurés). Suo padre difatti, rivoluzionario bolscevi-co, diede ai propri due figli i nomi di Zhores (la traslitterazione russa di Jaurès) e Marx. La copia incorniciata della rivista si trova ora in bella mostra nel suo ufficio.

Nei giorni 3 e 4 maggio 2012 l’ambasciatore della Repub-blica Bolivariana di Venezuela Isaias Rodriguez Diaz e l’am-basciatrice della Repubblica di Cuba Carina Soto Aguero (ri-spettivamente all’estrema sinistra e in primo piano a destra nella foto) hanno effettuato un’importante visita congiunta in Sardegna organizzata da Il Calendario del Popolo. Gli amba-sciatori si sono recati a Ghilarza per rendere omaggio presso Casa Gramsci alla figura del grande intellettuale sardo. Con l’occasione Il Calendario del Popolo ha donato a Casa Gramsci un prezioso reprint rilegato de L’Ordine Nuovo 1919-1920 e 1924-1925. Il programma ha previsto anche lo svolgimento di una incontro presso la Torre aragonese di Ghilarza, dedicato all’Alleanza Bolivariana per le Americhe (ALBA), organizzazio-ne economica, commerciale e politica di cui sia Cuba che il Venezuela fanno parte assieme ad altri paesi dell’America Latina.

a caSa graMSci con gli aMbaSciatori di cuba e venezuela

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