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Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare NATO Seminario annuale, Roma 27-28 giugno 2010 Servizio Affari Internazionali n. 20 dicembre 2010 Quaderni europei e internazionali Senato della Repubblica Camera dei Deputati

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Ultimi Quaderni europei e internazionali pubblicati dal Servizio Affari internazionali del Senato

4. Rapporti atlantici e Scenari mediterranei. Analisi e riflessioni a partire dall'attualità, luglio 2005 5. Le relazioni transatlantiche e l’agenda

politica internazionale. Seminario internazionale,

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Coordina la collanadei Quaderni europei e internazionaliMaria Valeria Agostinidirettore del Servizio Affari Internazionali del Senato.

La presente pubblicazione è stata curata dall’Ufficio rapporti con gli Organismi internazionali.

Traduzioni a cura dell’Unità operativa Attività ditraduzioni e interpretariato.

Gli aspetti editoriali del volumesono stati curati dall'Ufficio delle informazioni parlamentari, dell'archivio e delle pubblicazioni del Senato.

Le pubblicazioni del Senatopossono essere richieste alla Libreria del Senato- per posta: via della Maddalena 27, 00186 Roma- per posta elettronica: [email protected] per telefono: n. 0667062505- per fax: n. 0667063398

© 2010 - Senato della Repubblica

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Indice I. ATTI Interventi introduttivi 3

• Vahit ERDEM, Presidente del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente (GSM) dell’Assemblea parlamentare Nato, Turchia 3

• Sergio DE GREGORIO, Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato 4

• Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione 8

Discussione 15

Prima Sessione: Panoramica sulla regione del Golfo: come democratizzazione e state building in Iraq influenzano i futuri scenari nel Golfo 41

• Reidar VISSER, Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI) 42

• Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici 49

Discussione 57

Seconda Sessione: Sicurezza marittima e pirateria 73

I

• Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli 74

• Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia 80

Discussione 89

Terza Sessione: L'interdipendenza energetica nel Mediterraneo: l'uso a fini civili dell'energia nucleare 105

• Lorenzo TROMBETTA, esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente 105

Discussione 119

Quarta Sessione: Immigrazione e sicurezza: cooperazione tra i paesi mediterranei 133

• Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei 134

• Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia 141

Discussione 147

II. ALLEGATI Programma 165

Lista dei partecipanti 169

II

III

Biografie 177

INDICE DEGLI INTERVENTI 195

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I

ATTI

Seminario del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea Nato - Roma, 27-28 giugno 2010

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INTERVENTI INTRODUTTIVI

Vahit ERDEM,  Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Buongiorno colleghi e benvenuti al Seminario di Roma del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente. Desidero ringraziare in special modo la Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato per l’ospitalità. Questo seminario è stato organizzato e cosponsorizzato dal Parlamento italiano e non sarebbe stato possibile senza il generoso sostegno dei colleghi italiani.

Come ricorderete, la Nato ha avviato nel 1994 il Dialogo Mediterraneo e nel 2005 l’Iniziativa di Cooperazione di Istanbul al fine di rafforzare il dialogo e la cooperazione tra i paesi delle regioni del Mediterraneo e del Golfo. Tali regioni offrono opportunità incredibili grazie al grande potenziale per il turismo e per le risorse energetiche. Il 30% degli scambi commerciali mondiali avviene attraverso il Mar Mediterraneo. In questa regione, però, si annidano anche grandi sfide quali la migrazione, il crimine organizzato, il terrorismo, i traffici illeciti e il conflitto israelo-palestinese.

Il conflitto mediorientale costituisce la principale preoccupazione di sicurezza per la regione. Esso, infatti, crea un ambiente non favorevole oltre che per la regione anche per l’intera area euro-atlantica. La recente aggressione israeliana alla flottiglia di navi che trasportavano aiuti umanitari verso il blocco della Striscia di Gaza ha ulteriormente aumentato il livello di tensione. Purtroppo, nel corso dell’attacco nove persone sono state uccise e molte ferite. Colgo quest’occasione per condannare questo incidente aggressivo, come è stato già fatto presso altre organizzazioni internazionali.

L’attuale status quo è insostenibile se non si raggiungeranno progressi verso una pace durevole in Medio

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Oriente. È difficile astenersi dall’estremismo nella regione. Gli Stati Uniti si sono impegnati molto affinché si potesse arrivare ad un processo di pace e questo impegno ha portato risultati positivi in passato. Perché si possa creare una nuova atmosfera per i negoziati di pace, credo che Israele dovrebbe porre fine alla propria politica espansionistica verso i Territori palestinesi e rimuovere il blocco di Gaza. I palestinesi, dal canto loro, dovrebbero porre fine al dualismo sul fronte palestinese. Hamas deve cessare di attaccare obiettivi civili. Ritengo che questi siano i prerequisiti essenziali affinché si possa dare inizio ad un nuovo processo di pace.

Cari colleghi, questo Seminario ha vari temi che vertono su alcune delle questioni cruciali oggi per la regione del Mediterraneo, quali il processo di pace in Medio Oriente, la situazione nel Golfo, la sicurezza marittima, l’indipendenza energetica nel Mediterraneo e la migrazione. La relazione preparata dal mio collega Antonello Cabras, relatore del GSM, verterà sulle tendenze demografiche della regione. Ne discuteremo diffusamente in questi due giorni.

Grazie a tutti per la vostra partecipazione a questo Seminario. Dopo questa introduzione generale vorrei ora dare la parola al senatore Sergio De Gregorio, Presidente della Delegazione italiana.

Sergio De GREGORIO, Presidente della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare Nato. Presidente Erdem, colleghi, signore e signori. Permettetemi di rivolgere a mia volta un caloroso benvenuto a tutti voi a Roma, presso il Senato della Repubblica, all’ormai abituale seminario annuale del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente che si riunisce sotto l’autorevole guida dell’amico presidente Vahit Erdem.

La vostra preziosa testimonianza e la vostra presenza vuol dire che tutti noi parlamentari dell’Assemblea della Nato attribuiamo una importanza particolare alla discussione sulle problematiche aperte nell’area del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Golfo.

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Saluto la Signora Elisabeth Dibble, vice capo missione dell’Ambasciata degli Stati Uniti qui a Roma, che ci onora della sua presenza e della sua partecipazione ai nostri lavori e che svolgerà la relazione principale.

Saluto gli oratori e gli osservatori che sono intervenuti stamane e consentitemi anche un ringraziamento al Presidente del Senato della Repubblica che ci consente, insieme agli staff e ai funzionari dell’area tecnica, di svolgere i nostri lavori in questa straordinaria sede.

I confini geografici meridionali dell’Alleanza Atlantica sono una frontiera "calda", e non solo nel senso meteorologico. Sappiamo bene che il bacino del Mediterraneo è il luogo in cui vengono in contatto tradizioni, religioni, culture antiche e radicate nei popoli che le coltivano.

Sappiamo inoltre che nell’area mediterranea, fra Nord e Sud, vi sono anche rilevanti squilibri demografici ed economici che potrebbero dare luogo a gravi difficoltà per ambo le sponde nei prossimi decenni.

È chiaro infine che la grande e irrisolta questione israelo-palestinese, con i suoi numerosi corollari di instabilità, condiziona in modo significativo qualunque politica e prospettiva economica la regione voglia darsi ed è anche, assai probabilmente, uno dei principali fattori di instabilità a livello globale.

Ebbene, problemi che hanno una rilevanza globale possono essere risolti solo con una grande mobilitazione della comunità internazionale e con la massima responsabilizzazione politica di tutti gli attori internazionali coinvolti.

Per questo, rivolgendomi in modo particolare alla signora Dibble, nutro profonda fiducia nel rinnovato e generoso impulso che l’Amministrazione americana ha voluto dare, fin dall’inizio del mandato del presidente Obama, al dossier mediorientale.

Certo, la strada non è priva di ostacoli o di incidenti; ma la direzione è stata tracciata con grande determinazione e siamo tutti chiamati a contribuire. In mezzo a segnali contraddittori e a

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gravi incidenti, vi sono comunque elementi, alcuni recentissimi, che inducono a sperare. È di pochi giorni fa, come sappiamo, un allentamento del blocco di Gaza da parte israeliana; inoltre, il rapporto di giugno dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nei Territori occupati palestinesi testimonia di un miglioramento della libertà di movimento per i palestinesi tra i maggiori centri urbani della Cisgiordania.

Anche noi parlamentari abbiamo il dovere di fare la nostra parte. Noi rappresentiamo i nostri popoli, ne siamo eletti e possiamo fare molto per far avanzare nelle nostre pubbliche opinioni la consapevolezza che la questione mediorientale – come gli altri grandi dossier di politica estera di questa fase – richiede senso di responsabilità da tutte le parti e ferma volontà di pace.

Noi membri del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente siamo qui, in Italia, come ogni anno dal 2003, e non ci stanchiamo di porre l’accento su tutte le problematiche di questa ampia e importante regione. Siamo insieme oggi a ricercare il dialogo, per far progredire la politica dei partenariati, un elemento che avrà un ruolo centrale anche – ne sono certo – nel futuro concetto strategico dell’Alleanza. La Nato non è solo un’Alleanza militare, è ancor prima un’alleanza politica che si rafforza quanto più salda è la qualità dei legami politici fra gli alleati e i loro paesi partner.

Noi componenti del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea Nato vogliamo quindi, come e più dei nostri governi, utilizzare questi Seminari e tutti i nostri programmi di outreach, per costruire saldi legami politici nella dimensione parlamentare dell’Alleanza.

Proprio in questi giorni i grandi della terra si riuniscono a Toronto per il G8 e per il G20. Lo sforzo, anche lì, è quello di trovare risposte collettive e globali a questioni che ormai trascendono le possibilità e le capacità dei singoli stati. Un elemento di preoccupazione, la percezione testimoniata – e ne discuteremo dopo con la dottoressa Dibble – da alcuni capi di stato che sia arrivato il momento in cui Israele per esempio, ed è

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motivo di grande riflessione, comincia ad immaginare un’azione solitaria contro l’Iran. È una preoccupazione che serpeggiava nei colloqui di ieri, un elemento di attualità di cui potremo discutere.

Proprio in questi giorni, a Washington, la presidenza Obama ha colto però un grande successo politico: il Congresso ha raggiunto l’accordo su una importantissima riforma finanziaria che, come sappiamo, introdurrà controlli più incisivi su banche e istituzioni finanziarie, riducendo la possibilità che esse si espongano a rischiose speculazioni sui mercati, fenomeni che sono stati all’origine dell’immane crisi che il mondo sta ancora attraversando. Speriamo dunque che molti paesi e soprattutto le economie emergenti e le stesse istituzioni finanziarie globali seguano questo esempio, anche se dal vertice del G8 ci vengono segnali diversi e contrastanti.

La crisi economica mondiale, infatti, aggrava ovunque le tensioni esistenti, limitando altresì le risorse da destinare agli sforzi di pace.

Quest’anno, forse anche a causa della crisi che ha colpito tutte le economie mondiali, i dati di partecipazione dei colleghi parlamentari della sponda sud sono più ridotti del solito. Questo dovrà farci riflettere e ricercare adeguate soluzioni per il futuro nel corso della riunione a porte chiuse che affronteremo qui per il Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente. Non ho dubbi che con l’impegno di noi tutti saremo capaci di trovare le risposte necessarie ad andare avanti con l’efficacia e la concretezza di sempre.

Grazie della vostra attenzione e, ancora una volta, benvenuti in Italia e benvenuti al Senato della Repubblica. Buon lavoro.

Vahit ERDEM,  Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie senatore. Cari colleghi, il nostro relatore principale di questa mattina è la dottoressa Elizabeth Dibble. È un piacere per me presentarvi la dottoressa Dibble che nel 2008 è diventata Vice Capo Missione presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma. Dal 2006 al 2008 ella ha

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ricoperto l’incarico di Vice assistente del Segretario del Dipartimento per l’economia, l’energia e le finanze.

La dottoressa Dibble ha molta esperienza di lavoro sui temi chiavi del Medio Oriente e della regione del Mediterraneo. Dal 2004 al 2006 è stata Vice assistente del Segretario dell’Ufficio per gli affari del Vicino Oriente, con l’incarico di gestire le relazioni statunitensi con Israele, l’Autorità Palestinese, Egitto, Giordania, Libano e Siria. Ha anche prestato servizio in qualità di Direttore dell’Ufficio per il processo di pace e gli affari regionali, all’interno dell’Ufficio per gli affari del Vicino Oriente. I suoi precedenti incarichi internazionali includono Damasco, Islamabad, Tunisi e Londra. La sua presentazione si intitola “Il processo di pace in Medio Oriente: la visione USA per la regione”.

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice capo missione. La ringrazio molto, signor Presidente e ringrazio il senatore De Gregorio per avermi invitato qui oggi.

È per me un vero piacere e un onore essere qui, in questa splendida domenica, a parlare di un argomento che è importante per tutti noi, un argomento del quale, per un verso o per l'altro, mi sono occupata per gran parte della mia carriera professionale. Ciò nonostante, ci tengo a far notare che, ora che la mia sede è Roma, io non sono attivamente coinvolta nella formulazione della politica statunitense rispetto al Medio Oriente.

So che alcuni rappresentanti del vostro gruppo sono appena tornati dal Medio Oriente e che state seguendo molto da vicino il susseguirsi degli eventi. Viviamo un momento difficile che, però, è anche un momento di grande impegno da parte di molti e, quindi, un momento di speranza. Ciò non vuol dire che le sfide non siano importanti. A quanto pare il proverbiale “un passo avanti e due indietro” si ripropone molto spesso.

Non voglio certo dire che l’attuale stato delle cose sia ideale, ma ci tengo a ribadire che l'amministrazione Obama ha impresso rinnovato vigore alla ricerca di una soluzione pacifica in Medio Oriente e che, personalmente, ho un’enorme fiducia

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nella squadra che il Presidente ha composto e sono convinta che, nel tempo, ci siano buone possibilità di una svolta importante. Sin dal primo giorno nelle sue funzioni, il presidente Obama ha fatto della ricerca della pace in Medio Oriente una priorità. Nel primo mese ha chiesto al senatore George Mitchell di assumere l’incarico di inviato speciale per la pace in Medio Oriente. Il senatore Mitchell ha trascorso gli ultimi 18 mesi lavorando per rilanciare negoziati "in buona fede" tra le parti e prospettare la soluzione di due Stati che vivano fianco a fianco in pace e sicurezza.

La visione degli Stati Uniti per la regione è ben nota. Una pace globale in Medio Oriente, tra israeliani e palestinesi, tra Israele e Siria e tra Israele e Libano, nonché la piena normalizzazione delle relazioni tra Israele e tutti i paesi della regione. Ecco quello che il presidente Obama è determinato a perseguire. I recenti tragici fatti di Gaza ci ricordano l'urgenza e l'importanza di questo compito. Gli Stati Uniti, insieme ai partner del Quartetto, hanno accolto con favore la nuova politica del governo israeliano nei confronti di Gaza. Attendiamo con impazienza di vedere attuata questa politica nei prossimi giorni e settimane. Allo stesso tempo, il Quartetto ha ribadito che l'attuale situazione a Gaza è “insostenibile, inaccettabile e non è nell'interesse di nessuna delle parti coinvolte”. Ha sollecitato una soluzione che possa, da un lato, rispondere alle legittime esigenze di sicurezza di Israele, ivi compresa la fine dei traffici per introdurre a Gaza armi di contrabbando, e, dall’altro, garantire il libero flusso da e per Gaza di aiuti umanitari, merci e persone.

Il presidente Obama, come ho detto, ha fatto della risoluzione del conflitto israelo-palestinese uno dei suoi obiettivi primari in politica estera. Egli ha riconosciuto che la risoluzione del conflitto israelo-palestinese è importante non solo per le parti direttamente interessate, ma è anche di vitale importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Infatti ha detto: “Risolvere questi conflitti è nell'interesse di ciascuna delle parti, ma è anche nell'interesse degli Stati Uniti. Ridurre questi conflitti è di vitale importanza per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti perché, che ci piaccia o no, noi rimaniamo una superpotenza militare dominante e quando scoppiano i conflitti, in un modo o nell'altro,

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noi ne siamo coinvolti.” Definendolo di interesse per la sicurezza nazionale, il Presidente ha anche accresciuto l’attenzione del governo degli Stati Uniti sul questo conflitto e la determinazione a collaborare con le parti per individuare possibili soluzioni.

Parallelamente, il Presidente riconosce che, anche se la necessità di una pace tra israeliani e palestinesi rimane sempre un fattore cruciale, gli Stati Uniti non possono imporre soluzioni, a meno che coloro che sono parte attiva in questi conflitti non siano disposti a rompere i vecchi schemi di antagonismo. Come ha ben detto l'ex ministro degli Esteri, James Baker: “Noi non possiamo volerlo più di loro”. Spetta alle parti stesse negoziare direttamente, giungere a un compromesso e, infine, risolvere il conflitto con il sostegno costante della comunità internazionale.

Pur essendo un politico e, come sapete, i politici agiscono secondo un orologio politico, il Presidente riconosce questo come un conflitto che trascende le scadenze politiche. Il Presidente ha avanzato dure richieste a entrambe le parti, a volte anche a suo proprio rischio e pericolo politico. Il Presidente si rende anche conto che è necessario avere pazienza e affronta questo processo in modo realistico. Per dirla con le sue parole: “Ci vorrà tempo e i progressi saranno discontinui (...) E non saranno eventi che vedremo tra gli aggiornamenti delle notizie lampo. Tuttavia, se sapremo perseverare, se avremo il giusto approccio, allora, col passare del tempo, penso che potremo fare progressi”.

La strategia del Presidente è stata duplice: da un lato, negoziati tra le parti volti a raggiungere la soluzione dei due stati; dall'altro, la creazione di un'istituzione che getti le basi necessarie per un futuro stato palestinese. Uno stato in grado di assicurare opportunità economiche al popolo palestinese e, allo stesso tempo, di garantire la sicurezza dello stato di Israele, di modo che gli israeliani possano vivere in pace senza la minaccia di violenze o attacchi.

Sul fronte dei negoziati, i vostri paesi svolgono un ruolo fondamentale, in primo luogo attraverso il Quartetto, ma anche mediante il sostegno, che potrete offrire con molte delle vostre

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iniziative bilaterali, e l'incoraggiamento alle parti interessate nella regione.

Sul secondo fronte, abbiamo la grande fortuna di poter lavorare con partner palestinesi impegnati, quali il presidente Abbas e il primo ministro Fayyad, che hanno dimostrato grande forza e competenza nel loro tentativo di costruire istituzioni. Il piano biennale dell'Autorità palestinese prevede uno stato basato sul pluralismo, l'uguaglianza, la tolleranza religiosa e lo Stato di diritto, in grado di soddisfare le esigenze dei suoi cittadini e di sostenere una pace duratura. Decisamente, l'Autorità palestinese si sta muovendo nella giusta direzione. Le sue politiche fiscali vigorose e trasparenti, sostenute, negli ultimi due anni, da oltre 3 miliardi di dollari di assistenza diretta, e il suo impegno in materia di sicurezza e stato di diritto in Cisgiordania hanno contribuito a generare crescita economica e speranza per il futuro.

Lo sforzo è condiviso. La recente Palestine Investment Conference, che si è svolta all'inizio di questo mese, è stata solo l'ultima di una serie di iniziative atte a sostenere l’azione di questa dirigenza palestinese. Nel corso della Conferenza, la Francia, l’Italia e gli Stati Uniti si sono impegnati a mettere insieme 655 milioni dollari per lo sviluppo del settore privato palestinese.

Nel contempo, il blocco Commissione europea - Stati membri dell'Ue, nella sua qualità di principale donatore, si è mostrato indispensabile. Negli ultimi anni, il contributo complessivo della Commissione e degli Stati membri dell'Ue ha raggiunto un miliardo di euro. Si tratta di una somma considerevole che ha assistito i palestinesi in svariati settori, dalla risposta umanitaria al rafforzamento della sicurezza, ai controlli doganali e alle frontiere, fino allo sviluppo delle attività economiche e della società civile.

Designando il senatore Mitchell alla guida dell’azione degli Stati Uniti nella regione, il Presidente ha nominato una persona che non solo possiede una profonda conoscenza della regione e una eccezionale capacità di mediatore di pace, come ci ha dimostrato nel caso del processo di pace nell’Irlanda del Nord

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con il Good Friday Agreement, ma è anche un consapevole ottimista. Il senatore Mitchell ha detto che: “Non esiste un conflitto che non possa terminare. I conflitti sono generati, gestiti e sostenuti da esseri umani. Quindi, gli esseri umani possono porvi fine. Non importa quanto avversata, non importa quanto dolorosa, la pace può prevalere”.

Recentemente, il senatore Mitchell ha manifestato il suo pensiero sulla pace, e ho ritenuto opportuno riportare convinta che alcune delle sue parole vadano ribadite, perché sono essenziali per il suo approccio, per l'approccio degli Stati Uniti e per la creazione di un ambiente favorevole alla pace. Le sue osservazioni pongono in evidenza, in modo piuttosto categorico, la necessità di una leadership politica, qualcosa che tutti noi possiamo fornire.

Partendo dal presupposto fondamentale che si può porre fine a qualsiasi conflitto, il senatore Mitchell ravvisa l'importanza di un atteggiamento positivo, di un atteggiamento vincente che, osserva, si richiede in particolare ai leader politici da cui molti prendono poi le mosse. È importante trasmettere la convinzione che le cose possano andare meglio. Non in modo poco realistico, bensì in un modo che infonda speranza e fiducia.

Una seconda esigenza è quella di una politica chiara e determinata, che non ceda alla violenza. La violenza e l'estremismo uccidono la speranza. Se, a coloro che ricorrono alla violenza, permettiamo di uccidere i negoziati, di fatto trasferiamo il potere “dalla maggioranza pacifica alla minoranza violenta”.

Il terzo punto evidenziato dal senatore Mitchell, è che “gli individui e le società intere corrono gravissimi rischi in tempo di guerra”, mentre raramente si assumono i rischi indispensabili per la pace. La pace richiede una certa disponibilità al compromesso. “Se deve esserci una speranza per la pace, bisogna chiedere ai leader politici di assumersene i rischi ed essi devono rispondere”.

Il quarto punto è che dare esecuzione a un accordo è importante e spesso è più difficile di quanto non sia raggiungere l'accordo stesso. Anche in questo caso, sono necessarie pazienza e perseveranza. Realisticamente l’unica strada praticabile è quella

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che conduce a due stati distinti; e l’unico modo per pervenire a due stati è di progredire parallelamente in materia di politica, economia e sicurezza, perché tutti e tre questi fattori sono fondamentali per una buona riuscita.

Il senatore Mitchell ha sottolineato l'esigenza di un orizzonte politico chiaro per stimolare lo sviluppo economico, la riforma della sicurezza e lo sviluppo delle capacità di uno stato palestinese. Sul versante politico, abbiamo bisogno di essere sicuri che, una volta raggiunto il risultato di un negoziato, le istituzioni necessarie per l’amministrazione di quello stato siano pronte a farlo e che la sua economia funzioni. Queste due componenti, politica ed economica, non solo sono tra loro interconnesse, ma si rafforzano reciprocamente e l’una non può avere successo senza l'altra.

Qui entrano in gioco le speciali qualità del presidente Obama, di cui ho parlato precedentemente: l'impegno, la visione a lungo termine e l’individuazione delle difficoltà che ci attendono. Inoltre, come il senatore Mitchell ha osservato, quando stava lavorando al conflitto in Irlanda del Nord, a Belfast c'era una forte correlazione tra disoccupazione e violenza. Come sappiamo, la disperazione alimenta l'instabilità. Questo è il motivo per cui i contributi finanziari per la costruzione delle istituzioni e la creazione di opportunità economiche per i palestinesi, che ho citato prima, sono così cruciali.

Credo che possa essere utile fare un passo indietro e ricordare che nel momento in cui il presidente Obama si è insediato, poco più di un anno fa, sembrava che la cultura della pace fosse praticamente introvabile. La guerra a Gaza si era appena conclusa. I palestinesi erano profondamente divisi e in pochi credevano che ci fossero possibilità di riavviare i negoziati di pace.

Da allora ci sono stati segni di progresso. In Israele, un governo di destra ha appoggiato la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania e Gaza, quale possibilità per risolvere il conflitto. Israele ha congelato per dieci mesi l’inizio della costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. L'Autorità palestinese si sforza energicamente di prevenire attacchi violenti

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contro Israele, dimostrando nella pratica la convinzione che, come dichiarato pubblicamente, la violenza non aiuta a promuovere la causa palestinese.

In Cisgiordania, si sono avuti miglioramenti sostanziali e continui in materia di sicurezza e ordine pubblico e nello sviluppo economico. L'Autorità palestinese è impegnata ad affrontare il problema della corruzione e a costruire istituzioni trasparenti e responsabili. Questo è il risultato di uno sforzo per sviluppare, dalla base, la capacità di funzionare efficacemente come stato dal momento della sua istituzione.

Ciò comporta un’ampia collaborazione tra Israele e l'Autorità palestinese, con il forte sostegno degli Stati Uniti, degli Stati europei, delle Nazioni Unite e di gli altri alleati. In circostanze molto difficili per entrambi, Israele e l'Autorità palestinese si stanno adoperando per combattere i sobillatori e per astenersi da azioni provocatorie che possano minare ulteriormente la fiducia e la speranza.

La Lega araba ha manifestato il proprio appoggio ai negoziati; ne consegue che gli stati arabi hanno tutto l’interesse a che si pervenga a un esito positivo e, in questo senso, possono svolgere un ruolo importante. Infine, abbiamo avviato colloqui indiretti con i leader israeliani e palestinesi con l'obiettivo di stabilire trattative dirette.

In conclusione, ci sono buone ragioni per essere ottimisti e dobbiamo esserlo. Allo stesso tempo, però, mentre continuiamo a fare tutto il possibile, dobbiamo essere pazienti e perseveranti. Come il senatore Mitchell ha detto di recente: “Nel misurare la distanza percorsa, ci rendiamo conto della distanza che resta da percorrere”. È indiscutibile che per vedere dei progressi ci vorrà tempo, ma siamo convinti di essere sulla strada giusta.

Come la storia ci insegna, il ristabilimento della pace richiede azioni coraggiose e fermezza nel contrastare i suoi molti nemici. Dobbiamo adoperarci per dare maggior forza ai moderati. Il ristabilimento della pace pretende anche una dirigenza adeguata e gli Stati Uniti sono fermamente convinti del fatto che il primo ministro Netanyahu e il presidente Abbas possano essere i leader che, finalmente, porteranno la pace ai loro popoli e che

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saranno disposti a correre i rischi necessari per ottenerla. Ciò richiede un'azione coraggiosa e coerente.

Il presidente Obama si è impegnato a essere un partner attivo in tutte le fasi del percorso al fianco di tutti voi. Pronto a sostenere quei leader coraggiosi che siano disposti a non ascoltare le voci oltranziste e a correre dei rischi per il bene del loro popolo e per creare un futuro di sicurezza e dignità per tutti.

Vi ringrazio molto per l'attenzione.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie dottoressa Dibble per le sue considerazioni su questi temi molto importanti. Apro ora la discussione.

Mehmet CEYLAN, Grande Assemblea Nazionale, Turchia. Grazie, signor Presidente. Prima di tutto, a nome di tutti i partecipanti, desidero ringraziare la Delegazione italiana per l’ospitalità. In secondo luogo ringrazio la dottoressa Dibble per la sua presentazione. Prima di formulare le mie domande, se me lo consentite, vorrei esprimere una rapida valutazione e un breve commento sul conflitto in Medio Oriente.

Come ha detto il signor Presidente, e come ha sottolineato la dottoressa Dibble durante la sua presentazione, la questione nodale in Medio Oriente continua a essere il conflitto arabo-israeliano, al centro di questo conflitto c’è il problema israelo-palestinese. In effetti, com’è ampiamente riconosciuto, fino a quando rimarrà insoluto, questo problema continuerà ad alimentare ulteriori motivi di conflitto nella regione.

Innanzitutto, la situazione nella Striscia di Gaza, che continua a essere oggetto di un embargo disumano e illegittimo da parte di Israele, in violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite in materia, ha bisogno di particolare attenzione. Nessun membro responsabile della comunità internazionale può fingere di non vedere la grave situazione umanitaria in questa regione.

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In questa ottica, come molti di voi ricorderanno e come ha detto il Presidente nel discorso di apertura, quasi un mese fa rappresentanti della società civile, provenienti da oltre 30 paesi, hanno organizzato una flottiglia di aiuti al fine di fornire alla popolazione immiserita della Striscia di Gaza l’assistenza umanitaria assolutamente necessaria. Il 31 maggio, però, Israele ha condotto un raid militare contro il convoglio di aiuti umanitari per Gaza, in acque internazionali. In totale, nove persone innocenti sono state uccise, otto cittadini turchi e un cittadino statunitense, e molte altre sono rimaste ferite in palese violazione del diritto internazionale.

In primo luogo, quale delegazione turca, ancora una volta noi condanniamo con forza questo attacco da parte delle forze israeliane contro il convoglio di aiuti umanitari per Gaza e ne deploriamo le conseguenze in termini di morti e feriti civili. In secondo luogo, con questo attacco odioso, Israele ha ancora una volta dimostrato la sua politica irresponsabile, che continua a minare la pace e la stabilità nella regione.

Noi crediamo che la comunità internazionale debba porre fine alle politiche arbitrarie di Israele ed esortare vivamente il governo israeliano ad adottare misure che conducano a stabilire nella regione una pace da tanto desiderata. Dopo questa valutazione, vorrei porre tre brevi domande.

La prima: gli Stati Uniti hanno un piano B nel caso in cui i colloqui indiretti non dovessero riuscire a produrre risultati positivi per creare un terreno favorevole ad avviare colloqui diretti tra le parti?

La seconda domanda è: quale sarà la reazione degli Stati Uniti se Israele dovesse riprendere la propria attività di insediamento quando, a settembre, scadrà il periodo di 10 mesi di moratoria?

La terza e ultima: quale sarà la reazione degli Stati Uniti, se la parte palestinese dovesse sottoporre la questione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, nel caso in cui i colloqui fallissero? Grazie molte.

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Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Grazie. In risposta ai suoi commenti sulla situazione a Gaza, ritengo che la comunità internazionale abbia affermato che l'attuale situazione a Gaza è insostenibile e siamo lieti che il Governo israeliano abbia recentemente annunciato un cambiamento nella propria politica. Attendiamo con impazienza che ciò si realizzi pienamente. Come probabilmente sapete, il primo ministro Netanyahu si recherà a Washington fra due settimane e speriamo di poterne discutere con lui direttamente, quando sarà là.

In merito alla sua domanda su un eventuale piano B: questa Amministrazione ha posto molta attenzione al fatto che i colloqui di prossimità riescano a portare a colloqui diretti. Instaurare negoziati diretti tra le parti stesse è l'unica strada percorribile per arrivare a una risoluzione di questo conflitto. Questo rimane l'obiettivo di riferimento, il nostro obiettivo politico.

In risposta alla domanda relativa a quale sarà la nostra reazione se Israele dovesse riprendere le attività di insediamento, credo che sia prematuro per me fare congetture su un’ipotetica eventualità futura. Abbiamo esplicitato al massimo la nostra opinione sugli insediamenti, lo hanno fatto il Presidente, il segretario di Stato e il senatore Mitchell. Ed è risultata ben chiara non solo agli israeliani, ma anche alla comunità internazionale.

Quanto detto vale anche in risposta a quale sarebbe la reazione se i palestinesi dovessero portare la questione al Consiglio di Sicurezza. Ancora una volta, è prematuro speculare su una situazione ipotetica. La nostra attenzione è concentrata sul tentativo di riavvicinare le parti, cercando di risolvere questi problemi. In fin dei conti, saranno loro stessi a doverlo fare, con il sostegno di tutti noi, con il sostegno della comunità internazionale.

José LELLO, Assemblea della Repubblica, Portogallo. In primo luogo desidero ringraziare la Delegazione italiana per la fantastica ospitalità che abbiamo ricevuto.

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Dottoressa Dibble, l’ho ascoltata con attenzione e sono d'accordo con molto di ciò che ha detto, specialmente quando ha affermato che la soluzione da perseguire è quella dei due stati. Concordo sul fatto che tutto ciò debba essere conseguito con i negoziati, non c’è dubbio.

Non molto tempo fa, se non erro il mese scorso, siamo stati in Israele. Ci siamo resi conto di molte cose, cioè abbiamo notato lo stato d'animo di entrambe le parti, palestinesi e israeliani. Gli israeliani hanno un governo duro, con alcuni elementi, come Lieberman e altri, che non possono prendere parte alla soluzione, perché non vogliono una soluzione. Sono dei fondamentalisti, più ancora di quelli dall'altra parte della barricata.

Il punto è: chi vincerà? I fondamentalisti, i radicali o i moderati? Perché ci sono moderati da entrambe le parti. Penso che il nostro dovere sia quello di incrementare le probabilità che i moderati possano gestire la situazione. Non significa gettare benzina sul fuoco, bensì cercare di accentuare la posizione di moderati in quella situazione. Si deve pervenire a un risultato attraverso negoziati, perché le decisioni unilaterali assunte da Israele sono sempre cattive soluzioni.

Quando lasciò il Sinai, Israele aveva concluso un accordo con l'Egitto in seguito a negoziati efficaci che hanno portato a risultati veri. Altrettanto buoni furono i risultati raggiunti con la Giordania sul Mar Morto. Ogniqualvolta gli israeliani hanno preso decisioni unilaterali, senza aver definito la situazione, come quando hanno lasciato il Libano e quando unilateralmente hanno deciso di lasciare Gaza, i risultati sono stati negativi. Andando via da Gaza hanno lasciato un vuoto. In effetti, anche adesso, i fermenti sono contro Israele, ma anche tra palestinesi.

Non possiamo dimenticare che Ramallah ha un atteggiamento nei confronti di Gaza che è molto simile a quello israeliano. Ci rendiamo conto che gli israeliani si sentono vessati. Essi temono che l'Iran stia fornendo a Hezbollah missili terra-aria a corto raggio. Indubbiamente la situazione è complessa. Non concordo con coloro i quali dicono che la soluzione del conflitto

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tra il mondo occidentale, compresa la Turchia che naturalmente fa parte del mondo occidentale, e i fondamentalisti islamici arriverà quando sarà risolto il conflitto tra Israele e Palestina. Non sono d'accordo perché la questione è molto più complessa di così.

Per quanto riguarda questo conflitto, sono d'accordo sui negoziati. Purtroppo, al giorno d'oggi, la pace non deriva solo da negoziati tra le due parti, anche se sponsorizzati dagli Stati Uniti, Unione europea e Nazioni Unite. Ci sono degli altri aventi causa. Alcuni di loro sono paesi arabi cinici che fanno grandi affari con Israele e che minano la situazione dall'altra parte sostenendo Hamas, come i sauditi. Noi non possiamo evitarlo, perché i sauditi sono i cosiddetti amici del mondo occidentale. Israele invia armi e componenti per gli F18 all'Arabia Saudita e i sauditi sostengono Hamas a Gaza con l'invio di missili a corto raggio contro Israele.

Quello che chiedo è: lei pensa che le soluzioni che verranno fuori dai negoziati tra le due parti, con misure che creino fiducia e trasparenza, dovranno riguardare solo le due parti in causa e i mediatori internazionali, oppure si dovranno coinvolgere altre potenze della regione che, per certi versi, rappresentano una fonte di difficoltà tra le due parti? Grazie.

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Innanzitutto, voglio sottolineare che stiamo parlando di un conflitto di lunga data che ha radici profonde. Risolverlo non sarà facile. Se fosse stato facile, lo avremmo già risolto. Trovo molto importante l’idea di appoggiare i moderati e di fare di tutto affinché la loro voce in entrambi i campi venga possa essere ascoltata. Questa è una delle cose che attualmente stiamo cercando di fare con i palestinesi. Per creare uno stato non basta girare un interruttore; stiamo dedicando molto impegno alla costruzione dell'assetto istituzionale, lo sviluppo di capacità e delle istituzioni necessarie per un futuro stato.

Concordo, poi, pienamente sul fatto che le decisioni unilaterali portano a cattive soluzioni. Lo abbiamo detto più

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volte. Noi non vogliamo che si dica o si faccia nulla che possa anche apparentemente pregiudicare l'esito dei negoziati.

Infine, è evidente che le due parti debbano trovare un accordo. Questo è chiaro. Per farlo, però, hanno bisogno che la comunità in senso lato le sostenga e non certo che le indebolisca. Per questo motivo il ruolo della Lega araba e degli stati arabi è importantissimo, perché, in fin dei conti, se si vuole che l’accordo raggiunto, qualunque esso sia, sia valido e sostenibile, entrambe le parti hanno bisogno del sostegno degli attori regionali nel senso più ampio.

È quasi come se avessimo dei cerchi concentrici. Ci sono le parti direttamente interessate, ci sono gli attori regionali, c’è la comunità internazionale e ci troviamo tutti a dover affrontare insieme il problema. Quello che intendo dire è che io sono d'accordo con ciò che lei dice, ma, come ho illustrato nel mio intervento, credo che non dobbiamo pensare che sarà facile. Siamo ottimisti, ma siamo anche realistici: ci vorrà molto lavoro e moltissimo impegno da parte di molte persone.

Doru Claudian FRUNZULICA, Vice Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Romania. La ringrazio molto, signor Presidente. Prima di tutto ringrazio il senatore De Gregorio e la Delegazione italiana per aver organizzato a Roma questo ottimo incontro del nostro Gruppo Speciale Mediterraneo.

Cari colleghi, come sapete, alcuni giorni prima che iniziassero i colloqui indiretti tra le due parti, abbiamo effettuato una visita in Israele e nei territori palestinesi. Abbiamo valutato la situazione sul campo, incontrando sia le autorità palestinesi sia quelle israeliane. La situazione è molto complicata e le due parti si trovano a dover affrontare sei vecchie questioni. Mi riferisco alle frontiere, alla sicurezza, al diritto al ritorno, alle risorse, compresa l'acqua, alla questione di Gerusalemme Est e agli insediamenti israeliani.

Questi sono i temi principali in discussione tra le due parti, Israele da un lato e la Palestina dall'altro. Siamo di fronte a 62 anni di conflitto, dal 1948 fino ad oggi. Probabilmente ci

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vorranno molti anni perché questi problemi si possano dire risolti. È mia opinione personale che nessuna delle due parti abbia fretta di risolvere la situazione in tempi brevi. Sul versante palestinese, Al-Fatah e Hamas di Gaza, soprattutto Hamas di Gaza, dovrebbero raggiungere un accordo tra loro in modo da avere una rappresentanza comune ai negoziati. D’altronde, entrambe le parti, dovranno accettare dei compromessi, altrimenti sarà tutto molto difficile. Per quanto riguarda i sei temi principali, alcuni di essi potrebbero essere più facili da affrontare, mentre per altri potrebbe essere più difficile. Probabilmente, al momento, sono concentrati su quelli di più facile soluzione.

Signore e signori, è importante che le due parti raggiungano un accordo sulla base della Road map del Quartetto e dell’Iniziativa di pace araba. Non vi è altra via per una definitiva composizione del conflitto israelo-palestinese. In effetti, penso che la situazione sia tale da rendere indispensabile esercitare pressioni su entrambe le parti, pressioni da parte degli attori internazionali, compresi il Quartetto e i paesi arabi, ma anche incentivi. Le pressioni internazionali, da un lato, e gli incentivi, dall'altro, sono l’unica via di uscita per entrambe le parti.

I palestinesi hanno bisogno di molto sostegno per creare un’amministrazione migliore, per portare avanti la lotta contro la corruzione, per combattere contro ogni forma di terrorismo o di disordine nei loro territori. Parimenti, hanno bisogno di sostegno allo sviluppo economico e sociale per realizzare uno stato indipendente con confini ben definiti; e, cosa assolutamente importante, dal carattere democratico che viva fianco a fianco con Israele, poiché quest'ultimo ha il diritto di vivere in pace, nella sicurezza e nello sviluppo.

Per Israele, una composizione definitiva potrebbe portare a un fantastico sviluppo economico, perché città come Tel Aviv o Gerusalemme potrebbero diventare importanti nodi commerciali, economici e finanziari per tutto il Medio Oriente.

Signore e signori, il presidente Obama ha dichiarato, se non ricordo male, che se i colloqui di prossimità non dovessero raggiungere un qualche progresso nel giro di quattro mesi,

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potrebbe anche convocare un vertice internazionale sulla questione israelo-palestinese e sul Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono ancora di questa idea? Pensano ancora a un futuro vertice internazionale per affrontare le problematiche del Medio Oriente? Questa è la mia domanda. Grazie tante.

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Il presidente Abbas è stato recentemente a Washington. Il primo ministro Netanyahu ci sarà, come ho detto, fra due settimane. Penso che questo evidenzi l'impegno degli Stati Uniti a fare tutto il necessario, tutto il possibile, qualsiasi cosa sia in nostro potere per riconciliare le parti.

Anche in questo caso, penso che, prima della visita del primo ministro Netanyahu, sia un poco prematuro parlare di che cosa potrà accadere. Certamente, però, come ha dichiarato il presidente Obama, faremo tutto il possibile per aiutare le parti a riavvicinarsi. Come è stato appena detto, entrambe le parti hanno bisogno di incoraggiamento, di incentivi e del sostegno della comunità internazionale per restare concentrate su questo obiettivo. Lei ha parlato della lotta alla corruzione che i palestinesi stanno conducendo e dei loro sforzi per promuovere lo sviluppo economico e sociale. Proprio questo è stato lo scopo della recente Palestine Investment Conference: offrire all'Autorità palestinese un sostegno internazionale sul fronte economico e illustrare quali siano i benefici a lungo temine del proseguire sulla strada intrapresa e, per i palestinesi, del continuare a mettere ordine in casa propria con la lotta alla corruzione, i miglioramenti in materia di sicurezza, la creazione delle istituzioni e lo Stato di diritto.

Quello che vorrei dire è che dobbiamo andare avanti su tutti questi fronti contemporaneamente e questo è il difficile. Si possono fare più progressi in un campo e, forse, meno in un altro. Dobbiamo continuare a spingere su tutti i fronti, perché se vogliamo che questo sia un accordo fattibile c’è bisogno di tutte queste componenti.

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Arieh ELDAD, Unione nazionale, Israele. Grazie, signor Presidente. Voglio esprimere alla Delegazione italiana il mio profondo ringraziamento per la splendida ospitalità e desidero altresì esprimere il mio cordoglio per le vite perdute nell'incidente della flottiglia. Lo dico non solo come politico, ma anche come medico. Io sono un chirurgo, quindi qualsiasi perdita umana mi addolora. Io sono per la medicina preventiva. Sapete, quella preventiva è il miglior tipo di medicina da praticare. Se si dispone di 100 euro, meglio spenderli per le vaccinazioni invece che per gli antibiotici. Prevenire le malattie è molto meglio che curarne le vittime.

Pertanto, sono a favore di azioni che impediscano il contrabbando di materiali militari verso la Striscia di Gaza, perché 10.000 missili sono già stati lanciati contro Israele. E abbiamo perso centinaia di civili in attacchi terroristici. Questa, secondo me, è medicina preventiva: prevenire gli attacchi piuttosto che curarne le vittime.

Mi chiedo, come reagirebbe uno qualsiasi dei vostri paesi, se migliaia di missili fossero lanciati sul suo territorio da un’entità statale vicina. Si deve reagire. Si devono prevenire i combattimenti che vanno avanti, non solo dagli ultimi 62 anni, ma da 100 anni o giù di lì. Il conflitto è lungo. Ecco perché Israele ha il diritto – e qualcuno qui ha parlato del nostro diritto all’autodifesa, in conformità con il diritto internazionale – di impedire che materiali militari siano introdotti di contrabbando nella Striscia di Gaza, che noi abbiamo abbandonato più di cinque anni fa. Ce ne siamo andati dopo enormi pressioni internazionali affinché lasciassimo quel territorio, e così abbiamo fatto.

Ce ne siamo andati e, poi, siamo stati accusati di esserci avvalsi del nostro diritto all'autodifesa quando abbiamo fermato la flottiglia chiedendo di esaminare il carico trasportato sulle navi. I nostri soldati sono stati attaccati con coltelli e scuri. Hanno sparato per proteggere le loro vite. Ancora una volta esprimo il mio dispiacere per le vite che sono andate perse sulle navi, ma questa è la reazione naturale di qualsiasi stato normale che voglia difendersi.

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Mi chiedo che cosa farebbe la Turchia se una flottiglia, che trasporti aiuti umanitari per la minoranza curda in Turchia, cercasse di raggiungere la costa turca e scaricare il proprio carico. Sono sicuro che vorrebbe proteggersi e molto probabilmente utilizzerebbe alcune delle dotazioni militari che Israele le ha venduto negli ultimi anni. La Turchia ha acquistato enormi quantità di armi israeliane, per poter combattere, e nel pieno diritto di farlo, la resistenza curda, l'organizzazione terroristica curda. Tuttavia, nega a Israele quello stesso diritto: difendere i nostri cittadini e combattere per i nostri cittadini.

Questa è la questione della flottiglia e mi dispiacerebbe se passassimo troppo tempo a parlarne – e potremmo occupare per intero queste due giornate discutendo dell’argomento, ci potremmo intrattenere ad attaccare, difendere o comprendere Israele – e non ci occupassimo degli importanti temi che dovremmo trattare.

Voglio fare riferimento al discorso che abbiamo ascoltato questa mattina circa l'ottimismo del senatore Mitchell. È bello essere ottimisti quando si promuovono negoziati. Noi siamo così frustrati perché, nella questione israelo-palestinese, non si è ottenuto nessun risultato positivo negli ultimi 60 anni, come qualcuno sostiene. Io credo che sia da più tempo. Se sei un medico, curi un paziente per un mal di gola e gli prescrivi un antibiotico, ti aspetti che si rimetta entro una settimana. Se ciò non accade, provi a cambiare antibiotico. Forse i batteri non sono sensibili agli antibiotici prescritti. Se il paziente continua a star male e i vari antibiotici che cambi di volta in volta non risolvono il disturbo, allora, forse, hai sbagliato diagnosi. Forse non è un mal di gola. Forse è qualcos’altro.

La mia domanda è: cosa succederebbe se diagnosticassimo male la malattia? Che cosa accadrebbe se la diagnosi del conflitto fosse sbagliata? Se non si tratta di un conflitto territoriale, la soluzione dei due stati è una cura che non servirà. Se non è un conflitto territoriale, un confine tra Israele e Palestina non servirà. Se è una guerra di religione non potremo risolverla con dei confini.

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Nel 2000, nel suo Lo scontro delle civiltà, Samuel Huntington ha scritto: “Ci sono 130 conflitti armati, conflitti militari, in tutto il mondo. 125 su 130 sono tra musulmani e non-musulmani di tutto il mondo”. Pensate che una cura per il conflitto locale tra Israele e Palestina potrà curare la malattia globale, o ci troviamo di fronte a qualcosa che è molto più vasto di un conflitto locale? Il conflitto locale tra Israele e Palestina è soltanto un sintomo locale di una malattia molto più estesa. Se ci concentreremo solo sul conflitto israelo-palestinese, finiremo per non cogliere il grosso del problema e non riusciremo a trovare una soluzione per il conflitto.

Per tanti musulmani, la terra di Israele sarà per sempre una terra Waqf, una terra santa musulmana, sulla quale non si accetterà mai un’amministrazione ebraica. Non importa quanto possa essere piccolo lo Stato ebraico, non importa che si vada via dalla Giudea e dalla Samaria, che si esca da Gaza, o che si faccia qualsiasi altra cosa, il fatto stesso che degli infedeli, ebrei o cristiani che siano, possano governare su quella che è considerata una terra musulmana è inaccettabile. Se questo è il problema centrale del conflitto, non saremo in grado di risolverlo disegnando un confine sulla mappa. Ecco perché siamo così frustrati quando continuiamo a provare a risolverlo con la divisione del territorio. Grazie molte.

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Se la domanda è se gli Stati Uniti ritengono che si tratti di un conflitto religioso, che affonda le proprie radici nella religione, la risposta sarà: no. Ovviamente, gli elementi religiosi ci sono, ma, come ha detto lei, stiamo trattando – e non voglio usare la parola malattia – il problema come un conflitto per cui c’è ancora una soluzione possibile. Non è una soluzione facile. Quando ho detto che il senatore Mitchell è ottimista, ho anche detto che è realista. Ovviamente, la soluzione non è facile o l’avremmo già raggiunta. Personalmente, penso che sarebbe un errore cercare di intenderlo o trasformarlo in quello che, come lo ha definito lei, in fondo sarebbe un conflitto religioso. Io sono

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davvero convinta che sia un conflitto che ha una soluzione, che non è facile, ma verso la quale continueremo a lavorare.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Nella mia qualità di Presidente, non dovrei intervenire su ciò che è stato detto, ma devo ribadire che questa non è una guerra di religione, questo è un conflitto tra Palestina e Israele a causa di un problema territoriale, se interpretassimo diversamente il problema non riusciremmo a trovare una soluzione. Questa è la mia prima osservazione.

La seconda è che non credo ci sia alcuna giustificazione per l'uccisione di nove persone, perché la flottiglia non trasportava né merci di contrabbando né armi, niente di simile. Israele non è riuscita a trovare nulla. Che farebbe la Turchia se una nave tentasse di portare qualcosa al PKK? Fermerebbe la nave, la condurrebbe fino a un porto e la evacuerebbe, senza uccidere nessuno. Penso che le Nazioni Unite studieranno la questione e arriveranno a una soluzione e a conclusioni ragionevoli. A quel punto la Turchia potrà attenersi a quanto scoperto dalle Nazioni Unite. Non credo che si dovrebbe continuare a discutere di questo argomento

Raynell ANDREYCHUK, Senato, Canada. Grazie. Il mio non è un intervento, è una domanda che desidero porre alla dottoressa Dibble. Ho ascoltato i commenti di chi mi ha preceduto, quindi non voglio ripetere quanto già osservato. Si è detto che la strada da seguire sarebbe quella di ascoltare i moderati. Essendo stata in Israele e avendo avuto anche l'onore di essere presente all'ultimo vertice arabo, mi sono resa conto del fatto che ci sono i moderati, ma ci sono anche quelli, come lei ha sottolineato, che hanno qualcosa da guadagnare a mantenere la questione in sospeso. Si tratta di una lotta di potere.

Come facciamo a coinvolgere le forze delle due regioni, delle due parti? Come facciamo a sostenere i moderati, senza intervenire in un contesto politico che non saremo in grado di controllare? Ogni volta che dialoghiamo con i moderati finiamo per suscitare in

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qualche modo l'ostilità della popolazione, trattandosi di ciò che si dice politica interna. Penso che lei comprenda dove voglio arrivare.

Come possiamo intervenire senza intervenire nella politica locale? Come facciamo a sostenere la politica locale, visto che, così facendo, in passato abbiamo aggravato il problema?

In secondo luogo, al momento sembra esserci, come è apparso anche alla Lega Araba, una certa fiducia rispetto a questi colloqui con il senatore Mitchell. C'è anche la sensazione che l'Iran, e il modo in cui lo si affronta, possa avere un notevole impatto su questo futuro dibattito. Come state tenendo conto delle recenti difficoltà, della situazione che di recente si è creata con l'Iran, in tutto questo?

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Sul primo punto, penso che quando si parla di sostenere i moderati, ciò significhi, per molti versi, dare alla popolazione di entrambe le parti in conflitto un senso di speranza che le cose possono cambiare e che miglioreranno e che le future generazioni di israeliani non dovranno vivere con la paura di attentati. Le future generazioni di palestinesi avranno la speranza che la loro economia, la politica, la vita quotidiana miglioreranno. Parte di questo è ciò che la comunità internazionale sta cercando di fare, fornendo assistenza sul versante palestinese per sviluppare le istituzioni, per dimostrare al popolo palestinese che l'Autorità palestinese, sotto il presidente Abbas e il primo ministro Fayyad, sta cambiando le cose in concreto. Che la situazione è migliorata in termini di sicurezza, in termini di posti di lavoro, in termini di speranza, francamente.

Tutto questo non si può creare in una notte. Si tratta di creare la percezione, di creare la sensazione. Si deve farlo in entrambe le parti, direi. Da entrambi i lati, la popolazione ha bisogno di sentire e credere che il futuro sarà più brillante se si segue questo percorso. Non è un compito facile e ci vuole tempo perché cominci a mettere radici. Questo è una parte di ciò che

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noi, la comunità internazionale, e gli Stati Uniti in particolare, stiamo cercando di fare.

Per quanto riguarda la seconda domanda sull’Iran, l’argomento è tale che potrebbe, di per se stesso, essere oggetto unico di discussione per due intere giornate. La comunità internazionale si è espressa attraverso la Risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, indicando ciò che deve fare l'Iran e ciò che si deve fare nei confronti dell'Iran. La questione, naturalmente, sta andando avanti su un binario separato, tuttavia, come qualcun altro detto, tutti questi non sono problemi o conflitti isolati, vi è una certa contaminazione tra loro.

Ovviamente, l'Iran è un attore regionale in Medio Oriente, quindi, quel che succede con l'Iran sarà valutato da coloro che stanno cercando di risolvere il conflitto israelo-palestinese e viceversa, presumibilmente. Il sostegno a Hezbollah da parte dell'Iran e il ruolo destabilizzante di Hezbollah nella regione sono ambedue ben noti. Quello che vorrei dire è che, mentre proseguiamo con determinazione sul versante del conflitto israelo-palestinese, seguiamo con molta attenzione l'evoluzione della situazione con l'Iran.

Jean-Michel BOUCHERON, Assemblea nazionale, Francia. Grazie, Signor Presidente. Desidero a mia volta ringraziare la Delegazione italiana: storicamente, il Gruppo Speciale Mediterraneo le deve molto. Cari colleghi, quella del conflitto israelo-palestinese è una questione estremamente grave, per due motivi.

Il primo è che quasi tutti i conflitti di questa immensa regione vengono acutizzati da tale questione. Bin Laden se ne infischia altamente della sorte dei palestinesi, ma utilizza il conflitto palestinese per raccogliere simpatizzanti nell'opinione pubblica araba, per reclutare militanti. Ovunque si vada, anche là dove Bin Laden non è presente – penso per esempio al Maghreb – il conflitto israelo-palestinese inquina tutte le relazioni internazionali. Questo è il primo fatto grave.

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Il secondo attiene alla politica del governo israeliano. Dopo la morte di Rabin, dopo il suo assassinio ad opera di estremisti ebrei, si è verificato un cambiamento nell'atteggiamento del governo israeliano. Non si tratta più del fallimento di un processo di pace, ma di mancanza di volontà di arrivare alla pace. Se è possibile spiegare la ragione per cui si costruiscono abitazioni in Cisgiordania, o a Gerusalemme Est, bisognerebbe che qualcuno mi dicesse come si può decidere tali insediamenti e, al tempo stesso, desiderare di giungere un giorno alla pace. Gli insediamenti impediscono la pace ed è questo il loro scopo. Gli insediamenti a Gerusalemme Est servono a rendere impossibile la creazione di uno Stato palestinese. Peraltro, ciò significa che, in mancanza di uno Stato palestinese, questa grande zona verrebbe gestita come in regime di apartheid. Ritengo che oggi il governo israeliano sia il peggior nemico di Israele poiché, prima o poi, se non ci saranno due Stati, ma uno solo, gli ebrei finiranno per essere una minoranza in casa propria. La conseguenza sarà uno Stato di apartheid o la scomparsa dello Stato ebraico. Io credo che siano molti gli intellettuali ebrei che tentano di convincere di ciò il governo israeliano senza riuscirvi.

Torniamo al punto essenziale: manca una volontà di pace. Il pretesto che viene accampato è quello della sicurezza, ma nessuno obbliga Israele a occupare la Palestina. Esiste un dato numerico, cari colleghi, che viene tenuto ben segreto, di cui non si parla mai, di cui è vietato parlare. Io invece voglio che venga citato: le migliaia di razzi che sono stati lanciati su Israele, da Gaza o dal Libano, in 10 anni hanno fatto 10 morti. Sono senz'altro 10 morti di troppo, ma dall'altra parte ci sono state più di 3000 vittime. È la verità e non temo di essere smentito. L'ho detto 8 giorni fa in presenza del Ministro degli Esteri israeliano che non ha smentito questa cifra. 10 morti in 10 anni, ecco il pretesto. Sono 10 morti di troppo, lo ribadisco, ma che non si dica che Israele vive sotto una pioggia quotidiana di missili. Si tratta di un pretesto. Il secondo fatto grave che volevo sottolineare, che rimprovero al governo israeliano - in quanto contro la pace e contro l'umanità - è il tentativo di trasformare questo conflitto, che mira all'annessione territoriale in una guerra di religione. Lo dico gentilmente al nostro collega israeliano qui presente: non ci coinvolgerete, noi paesi occidentali, in uno

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scontro di civiltà e di religione con il mondo musulmano per annettervi la Palestina. Noi non vi seguiremo in una guerra globale contro i musulmani. Non siete i rappresentanti dell'Occidente in Medio Oriente; siete Israele, con una vostra politica, con la quale non concordiamo. Voi non rappresentate l'Occidente in Medio Oriente. Mi spiace, ma l'Occidente ha altri valori che non sono uccidere nove persone disarmate. Ben nove persone. Una, può succedere, ma nove vuol dire che «si è sparato nel mucchio». Ecco quel che è successo.

Abbiamo, quindi, una questione difficile da risolvere, tanto più che, stando alle informazioni in mio possesso, l'esercito israeliano ha acquisito una certa autonomia rispetto al proprio governo. All'interno dell'esercito israeliano esistono gruppi di ebraici estremisti e di immigrati russi, altrettanto estremisti, che iniziano ad acquisire una loro autonomia. Sembrerebbe che il governo israeliano non controlli tutto ciò che avviene all'interno del proprio esercito, ed è per questo motivo che si verificano gli sbandamenti cui ho fatto allusione.

Questa è la situazione. L'unica possibilità evidentemente è di fare pressione sul governo israeliano perché emerga un nuovo Yitzhak Rabin. C'è bisogno in quel paese di un nuovo Rabin, di un uomo di pace. La chiave della questione è ovviamente in larga misura nelle mani degli Stati Uniti e del governo americano. So che negli Stati Uniti ci sono molti intellettuali ebrei che stanno cominciando ad appoggiare il governo americano affinché vengano esercitate pressioni sul governo israeliano e si riprenda un processo di pace. Oggi il mondo degli ebrei americani è diviso. Alcuni anni or sono non lo era. È positivo il fatto che le forze di pace comincino ad acquisire maggior potere, ma tutto ciò richiede ovviamente molto tempo, nel corso del quale, l'odio nei confronti dell'Occidente si infiltra in moltissimi paesi con i quali vorremmo vivere in pace.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. La ringrazio, onorevole Boucheron per la sua dichiarazione molto importante. Vuole rispondere?

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Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione. Sì, grazie, voglio dire una cosa. Noi non siamo d'accordo sul fatto che da parte del Governo israeliano non ci sia la volontà di fare la pace. Non concordo con la sua affermazione secondo cui dopo Yitzhak Rabin non c'è e non c’è stato più nessuno determinato a fare la pace. Dissento totalmente. Sia nella parte israeliana sia in quella palestinese vi è un panorama variegato. Non credo che la situazione sia senza speranza come lei sembra percepire. Può darsi che il nostro sia il tipico ottimismo americano, ma è anche vero che il mio governo e il mio Presidente sentono che dall'altra parte c’è un partner. Stiamo sollecitando entrambe le parti molto di più di quanto abbia fatto la precedente Amministrazione. È rischioso. Questo è certo. È un rischio che siamo disposti ad assumerci.

Sergio De GREGORIO, Presidente della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare Nato. Grazie Presidente. Sul conflitto israelo-palestinese incombe certamente lo scenario di criticità determinato dal dibattito sul programma nucleare iraniano. L’Iran sostiene l’Hezbollah, anche concretamente, lo sappiamo. L’ultimo conflitto contro l’Hezbollah in Libano e l’intervento militare israeliano è stato provocato da una forte iniziativa, anche quella molto provocatoria, dell’Hezbollah.

L’Iran ha migliorato i suoi rapporti diplomatici e politici perfino con un paese moderato come la Turchia che l’Unione Europea non ha saputo integrare per tempo nel suo consesso politico commettendo, a mio giudizio, un grandissimo errore.

L’Iran incide sulla comunità sciita che è forte in Libano come in Iraq. L’Iran è una delle guide spirituali dell’Islam, una sorta di Vaticano di quella cultura. L’Iran infiamma con le sue posizioni gli animi degli integralisti di tutto il Medio Oriente contro Israele e questo è il dato nuovo sul quale ci dobbiamo confrontare. Una importante potenza politica, militare e regionale che assume la guida di questa azione contro Israele alzando i toni al massimo e a volte anche in maniera incomprensibile per noi

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occidentali quando sentiamo parlare di annullamento della potenza e anche della presenza fisica di Israele.

Ebbene, dopo i primi incontri del G8 in Canada, una conferenza stampa del nostro Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sviluppato una percezione che definirei da brivido perché ci ha detto che si avvicinerebbe un’accelerazione di una decisione israeliana per un intervento anche solitario – e parlo di un intervento militare – contro gli impianti nucleari iraniani.

Questo annuncio non mi è apparso stupefacente perché in questo Senato della Repubblica lo scorso anno il ministro israeliano Lieberman è venuto ad incontrare alcuni senatori delle commissioni che ci occupano di difesa e di sicurezza. Lieberman è venuto a dirci con molta decisione e senza alcuno scandalo che il tempo delle discussioni è terminato, che Israele non ha più tempo, che Israele non vuole più ragionare sul nucleare iraniano ma intende compiere azioni concrete perché l’Iran non possa dotarsi di un ordigno nucleare. Gli Israeliani danno per imminente la capacità nucleare iraniana dal punto di vista militare e su questo, come sapete, si alternano le posizioni anche dell’amministrazione americana e anche dei militari americani che però vanno in questa direzione. Alcuni importanti capi militari statunitensi hanno sostenuto che forse la preoccupazione che siamo a un passo dal nucleare iraniano, e non certo da quello civile, è una preoccupazione sensata.

E allora, ciò di cui stiamo discutendo, la stabilità del Mediterraneo e del Medio Oriente, si inserisce in un quadro più generale e quando il collega Boucheron alzava i toni dicendo: “Noi non vi seguiremo”, forse intendeva anche segnalare l’accelerazione delle decisioni che Israele assumerà nei confronti dell’Iran e del suo programma nucleare.

Credo che mentre costruiamo il processo di pace fra Israele e Palestina, mentre l’amministrazione Obama se ne occupa con tanta intensità e la comunità internazionale fa sentire la sua voce, incombe su questa discussione una minaccia più grande. Di fronte a questa minaccia, ebbene, poco credo possiamo fare se non tutto ciò che abbiamo fatto da questo punto di vista: le sanzioni, le ingiunzioni al rallentamento del

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programma, le ispezioni internazionali. Ma di fronte a una decisione israeliana di taglio diverso, che sviluppo potrebbe avere il conflitto? Lo scenario è sicuramente agghiacciante. Ne vogliamo discutere?

Ahmed ISSAAD, Assembela nazionale, Algeria. Innanzitutto, a nome della Delegazione algerina, desidero ringraziare la Delegazione italiana per aver organizzato questo Seminario. Ringrazio altresì la dottoressa Dibble che ha presentato sinteticamente le posizioni americane in ordine all'eterno conflitto tra palestinesi e israeliani. Tali posizioni danno chiaramente prova, una di volta di più, dell'indefettibile sostegno degli Stati Uniti al loro amico e alleato di sempre: Israele. Altrimenti, come si spiegherebbe il lungo silenzio dell'Amministrazione americana di fronte al disumano blocco aereo, terrestre e navale imposto a più di un milione e mezzo di palestinesi, costretti a vivere in un carcere a cielo aperto da più di 4 anni? Oggi Israele sembra mostrare qualche segno di umanità nei confronti dei palestinesi, alleggerendo – o piuttosto dichiarando di voler alleggerire – l'embargo, intenzione che resta naturalmente tutta da confermare sul terreno. Purtroppo, ciò è avvenuto solo dopo la strage a bordo di una flottiglia umanitaria in acque internazionali, atto che noi fermamente condanniamo mentre gli Stati Uniti non hanno fatto altrettanto. Ne è prova il rifiuto di approvare la costituzione di una commissione internazionale indipendente d'inchiesta proposta dal Consiglio di Sicurezza e dalla comunità internazionale.

La mia domanda è la seguente: lei ritiene che, in quanto americani, siate voi i più adatti a trovare una soluzione equa al problema palestinese, quando le vostre posizioni tendono piuttosto ad essere molto pro-israeliane a scapito dei palestinesi? Grazie.

 

Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice capo missione. Per cominciare, non credo che gli Stati Uniti siano rimasti in silenzio di fronte alla situazione a Gaza. Lo stesso presidente Obama l’ha definita insostenibile e

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indifendibile. Noi, come parte del Quartetto, come parte del Consiglio di Sicurezza, abbiamo lavorato per convincere il Governo israeliano ad allentare il blocco, per migliorare la situazione umanitaria. La settimana scorsa, il Quartetto si è riunito e ha rilasciato una dichiarazione molto forte in proposito. Quindi non sono d'accordo con la sua descrizione degli Stati Uniti e del loro preteso silenzio. Gli Stati Uniti come stato amico e partner di entrambe le parti di questo conflitto, stanno lavorando con entrambi e, in tutta franchezza, sono stati critici con tutte e due le parti per le rispettive azioni.

In risposta alla sua domanda se pensiamo che questa sia la via da seguire, la risposta è sì. Non sarà facile. Sarà difficile. Con il presidente Obama questa Amministrazione non si è limitata a parlare, ma ha tradotto le parole in fatti e ha investito una quantità di tempo, energie e risorse in uno sforzo sincero per cercare di fare progressi in merito a questo conflitto.

Mehmet CEYLAN, Grande Assemblea Nazionale, Turchia. A dire il vero, non voglio farvi perdere del tempo, ma il rappresentante israeliano ha lanciato accuse contro la flottiglia umanitaria e contro la Turchia. Deploriamo davvero profondamente e non accettiamo questa spiegazione al posto delle scuse che sarebbero invece dovute alla Turchia e alla comunità internazionale.

Il collega ha spiegato l’incursione come un atto di auto-difesa. Questo non è vero, cari colleghi. L'obiettivo della flottiglia era quello di portare aiuti umanitari alla Striscia di Gaza, che è sottoposta da parte di Israele a un blocco illegale in violazione della Risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Le imbarcazioni trasportavano aiuti umanitari, in particolare: cibo, medicine, attrezzature mediche, indumenti ecc., non attrezzature militari. Non c'erano armi di sorta a bordo. L’attacco è stato lanciato contro civili, in acque internazionali. Per questo motivo, appare assolutamente chiaro che si stato in violazione del diritto internazionale. Avrebbero potuto facilmente accompagnare il convoglio in un porto israeliano, invece di farlo attaccare dai militari.

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Disgraziatamente, la maggior parte delle vittime è stata colpita da distanza ravvicinata. Ad alcuni è stato sparato alla testa. È stato anche stabilito che il cittadino americano che è stato ucciso è stato colpito alla testa cinque volte. Il Governo israeliano ha dato medaglie a questi assassini. Dover giustificare questo attacco come auto-difesa è fuori luogo. Grazie molte.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Non credo che dovremmo prolungare ulteriormente questa discussione. Il modo migliore è lasciare che le Nazioni Unite esaminino il caso e poi comunichino le risultanze. L'onorevole Eldad, ha nuovamente la parola. La prego di essere breve e di non soffermarsi troppo sulla questione specifica. Grazie. Arieh ELDAD, Unione nazionale, Israele. Grazie. Una breve osservazione al rappresentante francese, l'onorevole Boucheron, che ha detto: “Chi vi ha dato il diritto di costruire a Gerusalemme?” Mi spiace ricordargli che re David costruì a Gerusalemme Est, 3.000 anni fa, quando Parigi non era ancora stata fondata, e questo ci dà il diritto di costruire a Gerusalemme Est. Quella è la nostra capitale.

La seconda osservazione riguarda la flottiglia. Qualche mese fa, è stata fermata un’imbarcazione che aveva a bordo 500 tonnellate di missili. Si è calcolato che durante la seconda guerra del Libano l'intero quantitativo di missili lanciati su Israele fosse di 1.500 tonnellate. Ora, su un’unica imbarcazione c’erano 500 tonnellate di missili. Prima di esaminare una barca, non si sa cosa può esserci dentro. Quando qualcuno ha dichiarato di trasportare aiuti umanitari e gli è stato proposto di raggiungere il porto di Ashdod e di scaricare là tutto ciò che trasportava e Israele si è offerto di portare a Gaza tutte le merci, dopo averle esaminate, loro si sono rifiutati. Israele ha dovuto fermarli.

È vero, alcune delle vittime sono state colpite da distanza ravvicinata, ma è altrettanto vero che i soldati sono stati presi a coltellate da vicino. Due soldati saliti a bordo sono stati sequestrati, privati delle loro pistole e tenuti in ostaggio, i loro

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colleghi li hanno liberati, sparando. Non c'è nessun esercito al mondo che, vedendo due dei suoi soldati minacciati e colpiti a coltellate, non cercherebbe di liberarli immediatamente.

Abbiamo un soldato che è a Gaza da quattro anni, Gilad Shalit, lo tengono là prigioniero e non può nemmeno ricevere le visite di rappresentanti della Croce Rossa. Non ho sentito una parola di condanna del suo rapimento, né saputo di un qualsivoglia tentativo da parte della cosiddetta assistenza umanitaria di fargli visita, di far sì che, a parte i suoi carcerieri di Hamas, qualcun altro potesse vederlo. Questa è una forma di ipocrisia. Io voglio affermare il diritto di Israele all'autodifesa. Qualsiasi tentativo di forzare il blocco senza l’autorizzazione di Israele, senza sottoporre tutto il carico al preventivo controllo israeliano, che si assicurerà che nessuno introduca armi, sarà fermato. Fermeremo qualsiasi flottiglia del genere in futuro. Grazie.

Ivar KRISTIANSEN, Storting, Norvegia. La ringrazio molto signor Presidente e grazie per l’ottima introduzione, molto interessante. Credo che il dibattito finora ci abbia dimostrato che ci sono molti conflitti all'interno del conflitto. Penso anche che non sia possibile limitare questo conflitto alla questione israelo-palestinese. Il titolo dell’introduzione di Elizabeth Dibble è la visione degli Stati Uniti per la regione.

La mia domanda è semplice: è possibile creare per la regione una visione internazionale allargata? La mia domanda si fonda sul fatto che abbiamo più di 60 anni di esperienza con i conflitti. Le varie problematiche religiose fanno parte del conflitto. La questione iraniana fa parte del conflitto. Perché non coinvolgere gli altri importanti attori internazionali come l'Unione europea, i russi, l'ONU? Sempre che siano in grado di fare qualcosa di importante. C'è stata l'esperienza dell'inviato del Quartetto, Tony Blair, quindi le sarei grato se potesse darci la sua opinione: è possibile coinvolgere gli altri importanti soggetti mondiali affinché lavorino insieme con le parti interessate in Medio Oriente e, naturalmente, con gli Stati Uniti? Grazie.

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Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice capo missione. Grazie. Mi è stato chiesto di parlare della visione degli Stati Uniti, di conseguenza la mia presentazione ha preso quel titolo. Sì, abbiamo il Quartetto, che, da parecchi anni a questa parte, rappresenta la voce della comunità internazionale. È composto dalla Federazione russa, dalle Nazioni Unite, dall'Unione europea e dagli Stati Uniti. Tony Blair è l'inviato speciale del Quartetto e ha avuto una squadra sul campo, che ha lavorato sia con gli israeliani sia con i palestinesi per progredire in settori quali la politica di sicurezza e l’economia. È imperativo che gli israeliani e i palestinesi abbiano il sostegno della più ampia comunità internazionale. Al di là del Quartetto, vi sono i paesi arabi. Se n’è già accennato precedentemente: quand’anche le due parti dovessero raggiungere un accordo, questo non potrà essere né sostenuto né attuato senza il sostegno dei paesi arabi vicini.

Penso che non ci sia bisogno di dirlo, la Norvegia ha svolto un ruolo chiave nel conflitto israelo-palestinese per molti anni e continua tuttora a farlo. Abbiamo numerosi attori sul campo che, in sordina e lontani dai riflettori dei media internazionali, stanno facendo la loro parte. Credo che questo sia ciò che gli israeliani e i palestinesi devono sapere e devono continuare a sentire. Essi hanno il sostegno della più ampia comunità internazionale, perché, come ho detto nel mio intervento, raggiungere un accordo sarà abbastanza difficile, ma attuarlo e sostenerlo sarà, a mio avviso, una sfida ancora maggiore.

Daniel BACQUELAINE, Camera dei Rappresentanti, Belgio. A mio avviso, perché vi sia una possibilità di accordo in relazione a questo conflitto, è ovvio che i due protagonisti principali, i palestinesi come gli israeliani, debbano avere la volontà di giungere ad un accordo. A me sembra che la comunità internazionale non possa forzare un accordo fintanto che non vi sia, da parte dei soggetti interessati, una volontà di andare in direzione di un accordo. È evidente che non siamo noi a dover scegliere gli interlocutori in questo ambito: esistono già. La particolarità di Israele è di essere una democrazia. I suoi

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dirigenti, i membri del suo governo, sono designati dagli elettori. Possiamo anche auspicare che Yitzhak Rabin rinasca dalle sue ceneri, ma in definitiva sono gli elettori e i cittadini israeliani che designeranno il proprio governo. Nessuna organizzazione internazionale può interferire, ritengo, in questa scelta democratica.

Ciò che Israele chiede, lo sappiamo tutti, è semplicemente il diritto alla propria esistenza e sicurezza. È chiaro che bisogna accettare questo presupposto. È inoltre senz'altro necessario che la politica degli insediamenti avviata dal Governo israeliano possa essere bloccata non appena sarà riconosciuto il diritto di Israele ad esistere in condizioni di sicurezza. Bisogna anche riconoscere che al momento attuale sia Hamas sia Hezbollah non ritengono che Israele abbia diritto alla sicurezza, o anche solo ad esistere. Si possono nutrire tutti i migliori sentimenti, esprimere gli auspici più pacifisti e più interessanti a livello diplomatico, ma la prima cosa che serve perché vi sia un accordo tra due interlocutori è che a questi ultimi sia garantita la loro stessa esistenza. Senza questo presupposto non vi può essere via d'uscita.

La dottoressa Dibble ha evocato la visione americana, dichiarando più volte di essere ottimista. Certamente questa è una qualità necessaria, senza la quale sarebbe difficile trovare un accordo qualunque in qualsivoglia conflitto. L'ottimismo è necessario. Tuttavia, dottoressa Dibble, mi consenta di porle una domanda cui senza dubbio è impossibile rispondere: secondo lei e secondo l'Amministrazione americana, quali sono le prossime tappe concrete per risolvere il conflitto, o perlomeno per tentare di risolverlo? Quali sono le prossime iniziative, che secondo voi, dovrebbero intraprendere il Quartetto e la comunità internazionale? Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice capo missione. Come è stato appena detto, i due protagonisti devono avere la volontà di risolvere il conflitto. Come ho specificato nel mio intervento, noi non possiamo farlo. Noi, intendo tutti noi, la comunità internazionale, non possiamo risolverlo al posto loro. Devono volerlo loro. Devono essere

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disposti a intraprendere un percorso difficile. Nell'immediato, mi si chiede quali siano in concreto le prossime tappe. Adesso siamo impegnati nei negoziati indiretti, tuttavia, perché si possa progredire davvero, le due parti devono essere coinvolte in reciproci colloqui diretti. Questo è l'obiettivo e non solo degli Stati Uniti, è l'obiettivo del Quartetto e dovrebbe essere l'obiettivo di tutta la comunità internazionale: sostenere gli israeliani e i palestinesi, incoraggiare, sollecitare, fornire incentivi a entrambe le parti, affinché si siedano realmente attorno a un tavolo a discutere delle varie questioni. Il quadro è noto, sappiamo quali problemi devono essere risolti.

Come qualcuno ha detto in precedenza, alcuni di questi problemi sono più semplici degli altri. Questo è vero, ma non significa che non dobbiamo cercare di affrontarli tutti, perché, per raggiungere una soluzione negoziata, bisogna che tutte le questioni in sospeso siano affrontate. Direi che siamo impazienti di ricevere la visita del primo ministro Netanyahu a Washington e di proseguire il dialogo con gli israeliani. Abbiamo appena avuto colloqui con i palestinesi. Il senatore Mitchell è stato nella regione proprio recentemente e continuerà a occuparsene. Nel mio ottimismo, spero davvero che, tra non molto, i colloqui indiretti porteranno a colloqui diretti.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie, dottoressa Dibble, per il suo contributo. Grazie a tutti per le vostre domande. Direi che il dibattito è stato interessante ed esauriente. Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice capo missione. Concordo. Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Vi prego di unirvi a me nel porgere alla dottoressa Dibble le nostre congratulazioni.

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PRIMA SESSIONE

Panoramica sulla regione del Golfo: come democratizzazione e state building in Iraq influenzano i futuri scenari nel Golfo.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Diamo inizio alla sessione sulla regione del Golfo con il dottor Reidar Visser e il dottor Faleh Abdul-Jabar. La regione del Golfo è chiaramente fondamentale per la stabilità internazionale e altrettanto importante per il GSM. Infatti, la nostra prossima visita avrà luogo in Oman in dicembre. Se, per un verso, la regione del Golfo è tra i maggiori fornitori mondiali di energia, dall’altro costituisce un potenziale focolaio di conflitti e instabilità. Un fattore importante per garantire la stabilità nella regione è costruire stati efficienti.

Per dirci di più su questo processo, abbiamo invitato due illustri relatori. Il primo è il dottor Reidar Visser, che opera come ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali. Il dottor Visser ha una formazione nel campo della storia e della politica comparata e ha conseguito un dottorato in Studi sul Medio Oriente presso l’Università di Oxford; inoltre ha pubblicato numerosi saggi sulla storia dell’Iraq meridionale e sulle problematiche in materia di decentramento e federalismo. Giusto per citare un paio di titoli, ha scritto: Basra, The Failed Gulf State, Separatism and Nationalism in Southern Iraq nel 2005 e An Iraq of Its Regions, Cornerstones of a Federal Democracy? nel 2007.

Il secondo relatore è il dottor Faleh Abdul-Jabar, dell'Istituto iracheno di studi strategici. Il dottor Abdul-Jabar è uno studioso esperto di questioni irachene e possiede un dottorato di ricerca in Sociologia politica conseguito presso l’Università di Londra. È autore di una vasta produzione di saggi sull’Iraq e sul Medio Oriente. Tra le ultime pubblicazioni voglio citare: Conditions & Horrors: The Cultural Roots of Violence in Arabic Culture, The Dilemma of Political Uncertainties in Iraq nel 2009; e anche Religion, Sect, Ethnicity and Tribe: the

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Uncertainties of Identity Politics in the New Society nel 2010. Adesso cedo la parola al nostro primo relatore: prego, dottor Visser.

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Buongiorno. Grazie per avermi invitato. Sono stato invitato a parlare degli sforzi finalizzati alla costruzione dello stato iracheno. Visto il momento, è un compito particolarmente complesso, perché ci troviamo nel mezzo del processo di formazione di un nuovo governo in Iraq e, al momento, è molto difficile prevedere quale direzione prenderà. Nondimeno, vorrei provare a presentarvi due possibili scenari, molto diversi tra loro, per l’Iraq del prossimo decennio.

Il primo vede un governo iracheno forte, con una politica organica e un ruolo autonomo nella regione, cha sappia essere indipendente in seno all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di petrolio (OPEC) e un attore plausibile nell’ambito dell’economia internazionale. Sarà anche un fornitore di petrolio e gas sul mercato internazionale. L’altro scenario, invece, vede un Iraq debole, dominato dai suoi vicini, privo di un governo centrale forte, senza una politica organica e decisamente esposto alle pressioni provenienti dall’esterno.

Sosterrò che la prevalenza dell’uno o dell’altro di questi due scenari dipende in ultima analisi dal processo in atto a Baghdad in questi giorni. Mi riferisco al processo di formazione del governo che reggerà l’Iraq del prossimo futuro. Partendo da questi presupposti, intendo esaminare l’aspetto essenziale della formazione di un governo in Iraq: i tentativi di comporre una coalizione. Penso che questa sia la chiave per comprendere dove va l’Iraq. Inoltre, cercherò di prospettare che genere di regione del Golfo ci possiamo aspettare nel prossimo decennio.

Vorrei iniziare con il primo scenario. Immaginiamo per un attimo che l’Iraq sia veramente una democrazia efficace. Immaginiamo che i governi si formino sulla base di temi e programmi politici, con persone che, caso per caso, riescano a trovare un accordo tra loro. Certo, può sembrare un sogno, considerato tutto ciò a cui abbiamo assistito nel corso dell’anno

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passato, ma non è del tutto velleitario. Se ripensiamo a un anno fa, alle elezioni amministrative del gennaio 2009, l’Iraq era, allora, assolutamente concentrato su questioni ordinarie di vita quotidiana. Non si discuteva affatto di questioni etniche e religiose e le coalizioni che si erano formate, molto spesso, si basavano su programmi politici comuni.

Ora, prendendo spunto da quanto appena detto, proviamo a ipotizzare in Iraq una forma matura di politica, basata su temi concreti, e vediamo che tipo di governo potrebbe produrre. Osserviamo il prossimo parlamento iracheno e la sua composizione, e prendiamo in considerazione su quali questioni i partiti politici sono d’accordo e su quali, invece, dissentono. C’è un problema nella politica irachena, che riguarda la struttura di base dello stato. Dovrebbe essere centralizzata oppure fortemente decentralizzata? Se valutiamo la posizione dei vari partiti rispetto a questo tema, allora è chiaro che in effetti vi è una possibilità di accordo tra alcuni di questi partiti, in particolare, tra le due grandi coalizioni che hanno vinto le elezioni del 7 marzo: il partito di Maliki, l’attuale primo ministro e il partito di Allawi, il suo sfidante laico.

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Si dimentica spesso che questi due partiti, in effetti, concordano su molte, molte cose, su una base comune dello stato iracheno. Uno stato centralizzato con una forte società petrolifera nazionale, nessuna regione federale a sud del Kurdistan, indipendenza rispetto all’Iran, questi sono tutti temi su cui Maliki e Allawi sono essenzialmente d’accordo. Come si evince dal

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grafico, si prospetterebbe uno scenario che avrebbe una forte maggioranza all’interno del Parlamento iracheno. Potrebbe contare su 180 voti, cioè molto al di sopra dei 163 necessari per ottenere la maggioranza. 163, cioè la maggioranza nel Parlamento iracheno, è la cifra da tenere sempre presente.

Se, perciò, i centralizzatori si unissero, avrebbero circa 180 voti: una solida maggioranza. Sarebbero in grado di fare qualsiasi cosa, potrebbero fare approvare dal Parlamento iracheno le leggi che vogliono. Potrebbero comporre un governo efficace, perché non avrebbero bisogno di distribuire ministeri agli altri partiti. Creerebbero un governo organico, in grado di resistere a pressioni esterne. Questo è un primo scenario possibile prodotto da coalizioni fondate su questioni programmatiche.

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Naturalmente vi sono anche forze politiche che sostengono l’opposto, cioè caldeggiano un Iraq decentralizzato, con il potere attribuito alle regioni, con una Baghdad debole; tuttavia se guardiamo ai numeri, i conti non tornano. Se nel gruppo consideriamo i curdi, forse il Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq e uno dei partiti sciiti, vediamo che in effetti non possono contare su più di 80 o 90 seggi in tutto. Un governo basato su questioni programmatiche e concentrato, però, sul decentramento è semplicemente irrealistico.

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Altri due aspetti da considerare sono la laicità e l’islamismo, che costituiscono rilevanti fattori di divisione nella politica irachena. Nel caso dei laici, il problema è, semplicemente, che non hanno i numeri all’interno del parlamento iracheno; infatti non riescono a raggiungere i 163 voti, quindi questo non è proprio uno scenario proponibile per il futuro.

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All’opposto ritroviamo l’alleanza degli islamici, che sarebbe composta, ovviamente, dai due blocchi sciiti e anche da uno dei blocchi sunniti, che è di orientamento islamico. Anche in questo caso, i conti non tornano: tutti messi insieme, potrebbero raggiungere una stentata maggioranza con qualcosa come un paio di seggi in più, quindi non certo una solida maggioranza. A

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questo bisogna poi aggiungere il fatto che c’è da vedere che tipo di islamici sono questi islamici. Alcuni di loro sostengono di dover seguire le indicazioni del clero sciita, altri, invece, sono poco inclini ad ascoltare i consigli del clero sciita, e così via.

Riassumendo questa prima parte, credo che se dobbiamo accettare la premessa di una forma politica irachena basata su questioni programmatiche, c’è un solo scenario praticabile. Cioè che Maliki e Allawi riescano a unire le forze, a superare le loro divergenze concentrandosi, invece, sulle questioni che li legano e a creare un’alleanza. In tal modo si potrebbe davvero realizzare un governo forte in Iraq, un governo possibile, un governo organico. Sarebbe un governo capace di fare approvare una legge sul petrolio, che potrebbe trasformare l’Iraq in un probabile fornitore di energia e un attore autonomo nell’ambito dell’OPEC.

Ovviamente, però, tutto questo è in teoria. Non è su questa linea che i politici iracheni si stanno concentrando oggi, ma non dimentichiamo che questa ipotesi non era peregrina appena un anno fa. Se torniamo al marzo 2009, subito dopo le elezioni amministrative, nelle varie province c’erano esponenti del partito di Allawi ed esponenti del partito di Maliki che cercavano di collaborare. Che cosa è successo? Il 2009 è stato un annus horribilis per la politica irachena. L’Iran, sentendosi minacciato da questa tendenza al compromesso politico nelle elezioni locali, ha spinto per riportare l’attenzione sull’identità etnica e confessionale, ha criticato l’apertura ai laici da parte di Maliki e ha dichiarato la propria volontà di ricreare l’Alleanza sciita.

L’intento era di riportare la politica alla polarizzazione etnico-settaria, da ciò la questione della de-ba’athificazione e le forti pressioni a cui è stato sottoposto Maliki. Il risultato è stato un atteggiamento sempre meno nazionalista di Nuri al-Maliki che, se inizialmente aveva tentato di dare segni di un allontanamento dalle logiche confessionali, proprio prima delle elezioni è tornato sui propri passi. Ecco il grande cambiamento del 2009; l’Alleanza per lo Stato di diritto, il partito di Maliki, si è trasformata da formazione nazionalista in un partito con connotazioni settarie. Per questa ragione quanto detto è assolutamente teorico e la situazione in Iraq è piuttosto diversa.

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Oggi, in Iraq, non si parla molto di un’alleanza tra Maliki e Allawi, in parte perché i due non vanno particolarmente d’accordo, ma anche a causa della ripolarizzazione della politica lungo linee etnico-confessionali, che si è prodotta nel corso del 2009. Ciò di cui tutti parlano oggi, in Iraq, è di un governo di unità nazionale, un governo che comprenda tutte le liste che hanno vinto le elezioni.

Ovviamente, un approccio del genere alla politica irachena è molto diverso da quello prospettato. Si basa sull’idea che le identità etnico-confessionali siano ancora talmente forti da non poter essere ignorate, che nel caso si escludesse qualcuno si provocherebbe una crisi. Se non ci saranno curdi nel governo, allora, ci sarà una crisi, se non ci saranno sadristi in seno al governo, ci sarà una crisi. La soluzione più prudente è quella di includere tutti.

Tuttavia, se pensiamo a che tipo di governo verrebbe fuori da una situazione simile, appare probabile che avremo a che fare con un governo sovradimensionato. I ministeri, invece che da tecnici, saranno popolati da politici che si spartiranno i ministeri tra loro. Sarà un governo inefficace ed esposto a pressioni esterne. Tuttavia, questo è il tipo di governo di cui si discute oggi in Iraq.

Il punto è: come lo si realizza? Dunque: vogliono un governo onnicomprensivo; però, c’è un problema, esiste una cosa chiamata Costituzione irachena e questa stabilisce una determinata procedura su come si deve formare il prossimo governo. Il grande paradosso è che, anche se la maggior parte degli attori in campo sostiene di volere un governo onnicomprensivo, se guardiamo alle norme previste per la formazione di un governo, vedremo come sia, in effetti, piuttosto improbabile che, alla fine, tutti possano farne parte.

Vorrei concludere esaminando brevemente i vari scenari relativi a quest’ultimo aspetto. Come probabilmente tutti sanno, è in corso un dibattito su come interpretare la Costituzione. Questa stabilisce che il Presidente debba affidare l’incarico di formare il governo al candidato del maggiore blocco parlamentare; ora, il punto è: il dettato si riferisce ai blocchi esistenti al momento delle

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elezioni ovvero ai blocchi venutisi a formare in Parlamento dopo le elezioni? Se il riferimento è ai blocchi esistenti al momento delle elezioni, l’incarico dovrebbe andare a Iyad Allawi del movimento Iraqiya; se, invece, è ai blocchi venutisi a formare successivamente alle elezioni, allora le due liste sciite potrebbero forse ambire all’incarico. Ciò perché ora sostengono di essere unite in alleanza, anche se non hanno ancora espresso una candidatura a primo ministro unica.

Adesso, valutiamo la prima ipotesi. Immaginiamo che Allawi ottenga l’incarico e cerchi di formare il prossimo governo. Allawi si dice favorevole a stringere un’alleanza con i curdi e ad aprire un dialogo con uno dei blocchi sciiti, l’Iraqi National Alliance, detta INA, escludendo Maliki. Penso che le probabilità di riuscita di una soluzione del genere siano piuttosto scarse, fondamentalmente perché dubito della sincerità dell' INA quando dichiara di essere disposta a cooperare con Allawi.

Se davvero avesse voluto fare un’alleanza con Allawi, non si sarebbe mai unita alle altre liste sciite in una grande entità confessionale. Non ha senso. Tre o quattro settimane fa, si è unita agli altri sciiti per formare una grande alleanza settaria. Se avesse voluto stringere un’alleanza con Allawi, non avrebbe dovuto farlo, anzi, si sarebbe concentrata su colloqui con Allawi. Di conseguenza, non credo affatto che sia un’ipotesi molto praticabile.

L’altra ipotesi che mi sembra più probabile, ma non meno preoccupante, è l’idea che i curdi e gli sciiti si uniscano ed escludano Allawi. Questo ci riporterebbe alla situazione nel 2005, quando i sunniti disponevano solo di una rappresentanza simbolica costituita dal fronte Tawafuq. Certo, si tratta di una eventualità possibile, ma credo che escludere un blocco grande come quello di Alawi sia molto rischioso. Inoltre, penso che sia importante ricordare che questi partiti curdi e sciiti non sono riusciti a mettersi d’accordo su alcune questioni fondamentali nemmeno quando erano all’apice della loro influenza nel 2007. Per esempio, la legge sul petrolio e il caso di Kirkuk. Nel 2007, questi due partiti dominavano totalmente la scena della politica irachena, ma si divisero profondamente su queste due questioni. Credo che nemmeno questo sarebbe un governo fattibile.

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Una terza ipotesi vedrebbe esclusi i curdi. La cosa importante da ricordare in questo caso è che questa volta sarebbe realmente fattibile. Nel 2005, a causa delle disposizioni transitorie della Costituzione irachena, non fu possibile emarginare i curdi, perché per eleggere un Consiglio di Presidenza era richiesta una maggioranza di due terzi del Consiglio. Questa volta, non si deve eleggere un Consiglio di Presidenza, ma soltanto un Presidente, il quale può essere eletto con una maggioranza semplice. Per creare un governo iracheno non è più necessaria una maggioranza dei due terzi, ecco perché si può immaginare un governo senza i curdi, ma i curdi potrebbero tentare l’impossibile per evitarlo. Penso che dovremmo almeno tenere presente questa ipotesi.

In conclusione, nessuna delle ipotesi prospettate appare particolarmente promettente. Penso che la migliore per l’Iraq sarebbe senza dubbio una coalizione, basata su questioni programmatiche, tra Iraqiya e Stato di diritto, Allawi e Maliki. Al momento, sembra piuttosto irrealizzabile, ma tutte le altre alternative, che si basano sulla ripartizione del potere, rischiano di produrre governi instabili. L’Iraq sarebbe esposto alle influenze regionali. Non sarebbe una buona soluzione per la popolazione irachena in generale.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie, dottor Visser, per l’introduzione e per le sue osservazioni. Passiamo, adesso, al nostro secondo relatore, il dottor Abdul-Jabar.

Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici. Innanzitutto, voglio ringraziarvi per il gentile invito. Sono felice e onorato di essere qui di fronte a questo stimato consesso.

Parlerò di Iraq e di attori regionali, con particolare riguardo alle entità statali, e con qualche riferimento agli attori sub-statali. Ci sono almeno cinque grandi temi che preoccupano i vicini dell'Iraq.

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Il primo è la democratizzazione. Se pensate che questa sia una bella parola in Medio Oriente, o almeno per qualcuno dei nostri vicini, vi sbagliate assolutamente. Nelle società gerarchiche tradizionali è una mostruosità. Non è affatto di facile interpretazione, in luoghi in cui vige un misto autoritario di repubblicanesimo e teocrazia. Non è di facile interpretazione, nella maggior parte del Golfo, dove ancora sopravvivono gli ultimi residui del modello politico sultanico. I sistemi sultanici hanno al comando famiglie predominanti e la legittimità del potere è parte integrante della tradizione e della religione. Altre nazioni con un sistema a partito unico, ripreso dall’Europa orientale, in particolare la Romania, condividono questo rifiuto verso la democrazia ‘occidentale’.

Il secondo tema è: decentramento e federalismo. Il federalismo non è di facile interpretazione in gran parte della regione, ma lo è ancor meno in Turchia. È ben noto, e forse i colleghi turchi qui presenti lo sanno meglio di me, come e perché il federalismo o il decentramento non siano di facile interpretazione. La tradizione dello stato centralista unitario è talmente forte da indurre a pensare che qualsiasi modello politico diverso da quello possa portare alla disintegrazione degli stati-nazione esistenti nella regione.

Il terzo tema, che è fonte di preoccupazione per la regione, è la supremazia maggioritaria islamico-sciita. Questa è una prospettiva spaventosa nel Golfo e nella maggior parte del mondo arabo, dove esiste questa combinazione di nazionalismo arabo e sunnismo. Il dominio maggioritario sciita è concepito come supremazia dell’Iran.

Il quarto tema che ritengo interessi ai nostri vicini è la presenza militare americana. Si tratta di una questione cruciale, perché rappresenta una sindrome da cambio di regime per numerosi attori statali della regione. Anche se, come tutti ben sappiamo, la rimozione del regime di Saddam Hussein ha eliminato quella che, per l’Iran, era la minaccia alla sua sicurezza nazionale, la presenza USA in Iraq (e in Afghanistan) per Teheran, così come forse per Damasco, è il segno di una sindrome da cambio di regime e questa non è una cosa facile da accettare.

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Il quinto e ultimo tema, che preoccupa i nostri vicini è la sindrome da stato fallito, la temono perché ha implicazioni strategiche in materia di sicurezza, conseguenze economiche e, tra gli altri, anche problemi transfrontalieri.

Questi sono i cinque temi principali che interessano i nostri vicini. Adesso, desidero concentrare l’attenzione su Iran, Arabia Saudita e Siria, tralasciando gli altri paesi. Tutti questi e altri problemi, ad eccezione del federalismo, sono palesemente presenti nelle loro percezioni e anche nelle loro azioni. Con questo mi riferisco non soltanto alle azioni dello Stato, ma anche alle azioni da parte della società civile, cioè i singoli cittadini, i principi, gli sceicchi, i gruppi influenti e i capi tribù. Queste politiche-azioni sono perseguite attraverso reti moderne e tradizionali di imprese, partiti, tribù, famiglie estese e chi più ne ha più ne metta.

Partiamo dall’Iran. L’Iran ha almeno cinque obiettivi principali da raggiungere in Iraq. Uno comporta l’instaurazione di un regime amico (cioè islamico) a maggioranza sciita. In effetti, come ha illustrato in modo tanto eloquente il collega che mi ha preceduto, la competizione è tra il blocco del Primo ministro in carica Maliki (Stato di diritto) e il blocco di Iyad Allawi (Iraqiya). La competizione tra i due blocchi è anche una competizione regionale tra il mondo arabo e l’Iran. Più forti saranno le tensioni tra questi due assi regionali, maggiore sarà la competizione interna e viceversa. Con una maggiore competizione interna, per ragioni tribali, nell’ambito dei due blocchi si produrranno tensioni regionali più forti. L’interazione si muove nei due sensi.

Sarete stupiti dal secondo obiettivo: il ripristino del Trattato Iran-Iraq del 1975. Lo dico sulla scorta di alcune conversazioni con diplomatici iraniani e dignitari del ministero degli Esteri a Teheran e altrove. L’Iran è assolutamente risoluto nel volere la ripresa di quel trattato, sembra quasi che lo consideri come la propria Gerusalemme, che, tra l’altro, comporterebbe dispute territoriali, contese petrolifere, nonché questioni di sicurezza (lo scambio di espatriati, per esempio i Mujaheddin Khalq che hanno base in Iraq).

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Il terzo obiettivo è un rapido ritiro dall’Iraq delle truppe USA. Per quanto riguarda i primi due anni di transizione, l’Iran (sotto il governo moderato e riformista del presidente Muhammad Khatami) ha, in un certo senso, tollerato questa presenza. Successivamente, ha cercato di creare quanti più problemi possibile alla permanenza degli Stati Uniti in Iraq.

L’obiettivo numero quattro è quello di controllare e amministrare i luoghi sacri: Najaf, Karbala e Kazimayn. A tal fine, emissari iraniani, tra cui anche l’ex-presidente Rafsanjani, hanno presentato svariati progetti e proposte.

Le proposte prevedevano un qualche tipo di amministrazione, perché quei luoghi sono, in un certo senso, patrimonio sciita (piuttosto che propriamente iracheni). Quei tentativi sono stati respinti.

Sono stati sostituiti con un quinto obiettivo: assumere la supervisione dei seminari sciiti. Questo, forse, è un tema molto importante, anche se questo obiettivo è perseguito attraverso canali segreti, con azioni, per così dire occulte piuttosto che palesi. Il controllo è in realtà volto a manipolare il patrimonio culturale della nuova teologia liberale che sta emergendo a Najaf e che tende a riconoscere la sovranità della nazione, invece della supremazia del giurista. Questo aspetto fa parte di una battaglia culturale e politica in corso nello stesso Iran. Ottenere il controllo dei seminari di Najaf, quindi, significa controllare un capitale politico molto importante per le autorità iraniane.

Come sappiamo, nel 2003, quando l’Iraq è stato occupato, l’Iran era sotto la presidenza di Khatami, poi si è verificato un cambiamento al potere e adesso abbiamo questo nuovo presidente, populista e aggressivo, Mahmud Ahmadinejād. Il passaggio del potere in nuove mani ha ribaltato e alterato la politica che l’Iran aveva portato avanti in Iraq. Da un lato, come già detto, si è perseguito il predominio maggioritario degli sciiti in Iraq, il che spiega perché l’Iran abbia appoggiato l’inclusione dei partiti islamici sciiti nel processo politico, nonostante ciò comportasse una cooperazione con gli USA. Dall’altro, con l’uscita di scena di Khatami e l’avvento dei nuovi venuti, si è adottata una nuova linea: quella di incentivare, in Iraq, la

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resistenza militare contro gli Stati Uniti e la Forza multinazionale (MNF-Iraq), per accelerare il ritiro delle loro truppe. Ecco il ruolo dell’Esercito del Mahdi, e di altri miliziani e gruppi armati.

È davvero paradossale che l’Iran, per un verso, abbia appoggiato e sostenuto esponenti che fanno parte del governo iracheno, il che si spiega con il fatto che avevano bisogno di cooperare con gli Stati Uniti; per l’altro, però, abbia dato il proprio sostegno anche ad altri gruppi impegnati in una lotta per destabilizzare proprio quello stesso governo. Possiamo, quindi, dire che l’Iran si è preoccupato di disfare con una mano ciò che faceva con l’altra. Queste due linee di comportamento hanno raggiunto un punto di rottura nel 2008, quando Maliki ha deciso di cambiare la propria politica ed è intervenuto con decisione contro l’esercito del Mahdi per eliminare le milizie e instaurare lo stato di diritto.

Questa è una delle tante ragioni per cui l’Iran non è riuscito a riprodurre in Iraq il proprio sistema politico, quel mostruoso miscuglio repubblicano-teologico, peraltro indifendibile. L’Iran è riuscito a creare un blocco politico pan-sciita, ma non ha saputo vedere le linee di frattura all’interno della comunità sciita, così come all’interno di ogni comunità. Linee di frattura, determinate da interessi di classe divergenti, da ideologie e da solidarietà familiari e cittadine, che sono più forti quando viene a mancare un politica ideologica moderna, come la politica di classe o la politica nazionale prevalenti negli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo. Ciò che prevale oggi è la politica delle identità, e questa politica delle identità non fa che aggravare quelle linee di frattura. Per questa ragione l’area sciita conta tre blocchi distinti ed è per questo che è più difficile metterli d’accordo tra loro che non trovare una qualche intesa con altri blocchi estranei.

L’Iran non è riuscito a introdurre la dottrina del Welayat-e-Faqih (la supremazia dei giuristi), una replica del suo ordinamento politico. Inoltre, non ha saputo appoggiare il blocco pan-sciita in Iraq, né è riuscito a valorizzare l’identità politica sciita, in quanto tale, come un unico spazio d’azione organico. Tuttavia, è riuscito a insinuarsi pesantemente nella società irachena, nella politica irachena, nell’economia irachena, nel

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quadro di una polarizzazione regionale contro gli arabi di cui siamo testimoni oggi.

Passiamo adesso a parlare del Golfo. I paesi del Golfo considerano la situazione irachena come un processo molto pericoloso, piuttosto che come qualcosa di favorevole o utile. La osservano attraverso le rigide lenti islamico-sunnite, anche se non tutte sono poi così rigide o influenzate da ideologie islamiche estremiste. Forse l’influenza maggiore proviene, più che altro, dalla tradizione. Da un lato, vedono come una minaccia la supremazia sciita, dall’altro considerano i mutamenti iracheni come un incentivo al ruolo egemonico dell’Iran nella regione. A tutti i livelli: locali, nazionali ed esterni, la vivono come una minaccia alla loro stabilità e sicurezza.

Questo senso di minaccia, forse, è avvertito più forte che mai in Arabia Saudita, a causa della storia e del patrimonio ideologico di quel paese. Come tutti sappiamo, negli anni Settanta, in particolare subito dopo la rivoluzione iraniana del 1979, nel distretto orientale scoppiarono problemi politici e sociali capeggiati da attivisti sciiti. Vi fu poi la rivolta di Utaibi e l’occupazione della Mecca, che fu sgombrata anche grazie all’aiuto dei francesi. Questi fermenti sono ancora presenti in Arabia Saudita e sono fonte di preoccupazione. Inoltre, l’espansione della politica delle identità all’interno dell’Arabia Saudita è diventata problematica. La politica di identità degli hijaz si rafforza, né si può minimizzare il risveglio sciita nei distretti orientale e meridionale. C’è una crescente tendenza contraria a ciò che è visto come il dominio wahabita, o l’egemonia della famiglia saudita, o del controllo najdi (opposto a quello hijazi).

Le autorità sono estremamente preoccupate per questi cambiamenti ed è per questo che, proprio come gli iraniani, stanno sfruttando tutti gli strumenti di cui dispongono per difendersi da pericoli del genere, ricorrendo a contatti e interventi diplomatici, politici, finanziari e, persino, al sostegno militare a favore di qualsiasi gruppo sunnita. L’obiettivo principale è quello di correggere ciò che appare loro come l’emarginazione dei sunniti. La strategia è di porre fine a questa marginalizzazione, attraendo quei politici sciiti che appaiono pragmatici e moderati e

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riunirli. Ciò creerebbe una situazione più stabile, non proprio amichevole, ma meno ostile. Recentemente, come era ovvio, hanno appoggiato Iyad Allawi, e il reinserimento dei ba’athisti nell’ordinamento politico. Inoltre, sono entrati in aperto contrasto con Maliki. In passato, l’ex primo ministro iracheno, Ibrahim Safari, che è uno sciita per di più fondamentalista, è stato ricevuto in Riyadh. Maliki, al contrario, si è visto negare questo privilegio.

La ragione è che dopo uno degli attentati, Maliki ha incaricato le reti all’estero del Dawa, il suo partito, di organizzare manifestazioni di protesta contro le ambasciate saudite, durante le quali sono stati urlati slogan contro il wahabismo. I sauditi si sono talmente infuriati che tutti coloro che successivamente si sono recati in visita in Arabia Saudita hanno notato con sorpresa il forte astio dimostrato contro Maliki.

Anche la Siria si augura che Maliki non sia rieletto primo ministro. Questo determina un particolare modus operandi. La Siria coopera con l’Iran nei confronti degli Stati Uniti, tuttavia è più sensibile al miraggio di un cambiamento di regime da parte degli Stati Uniti in Iran. Anche se è irremovibile nel sostenere tutti i tipi di gruppi violenti sul territorio iracheno, visti come ‘legittima resistenza contro l’occupazione’, persegue un obiettivo piuttosto diverso da quello dell’Iran. Questo obiettivo è il reinserimento dei laici ba’athisti nel processo politico. Stando alle notizie riportate, durante la sua recente visita di stato a Damasco, Ahmadinejād ha ricevuto, da parte del presidente Assad, la richiesta di appoggiare questo reinserimento nel quadro della cosiddetta riconciliazione nazionale. La richiesta è stata respinta.

Il sostegno da parte dei paesi del Golfo si è esteso agli ex-ba’athisti, perché sono sunniti e ostili all’attuale governo iracheno. Questa presa di posizione da parte della Siria ha determinato un nuovo modus operandi e ora, a tutti gli effetti, c’è un asse saudita-siriano nei confronti dell’Iran, in relazione al cambiamento politico in Iraq.

In poche parole: la sciitizzazione e la sunnitizzazione della politica irachena si sono diffuse in tutta la regione e ci

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troviamo in una situazione che ricorda lo storico confronto tra Ottomani e Safavidi. In questo caso, però, la Turchia non è direttamente coinvolta; ha obiettivi diversi e sta cercando di fare da mediatore. C’è stato un tentativo di mediazione tra sunniti e sciiti e un altro tra Iraq e Siria, quando sono scoppiate tensioni a seguito di uno degli attentati che si sono verificati. Ma il ruolo della Turchia è considerato dagli attori iracheni come un necessario contrappeso all’influenza iraniana. La maggior parte degli arabi condividono questa opinione.

Nella regione è in atto una polarizzazione sciiti-sunniti che sta creando problemi e sta accentuando le divergenze e le tensioni. Recentemente, nel dicembre scorso, sono stato in Bahrain, e sono rimasto stupito nel vedere, proprio per le strade, automobilisti sciiti che, battendosi il petto, ascoltavano nastri commemorativi dell’Imam Hussain, con canti che risuonavano per tutte le autostrade di Manama. Quegli automobilisti tenevano il volume alto e il finestrino abbassato, per manifestare, in questo modo, la propria identità sciita. Contemporaneamente, c’erano altre macchine che sopraggiungevano e anche questi automobilisti alzavano il volume ascoltando, però, una commemorazione sunnita del profeta Maometto. Praticamente una lotta, una contrapposizione tra sciiti e sunniti, a colpi di videogiochi, dischi, canzoni e quello che si ha. Episodi del genere rivelano in modo palese il ribollire di tensioni sociali.

Ora permettetemi di concludere con questa osservazione: il punto non è soltanto che i nostri vicini hanno paura della democratizzazione, del decentramento, del federalismo e che si tratti di una storia negativa. L’Iraq ha una certa influenza positiva, in particolare sull’Iran e in qualche misura anche sugli intellettuali e gli attivisti in altri paesi vicini. Alcuni intellettuali democratici dicono: “se non otterremo la democrazia, ci comporteremo come gli iracheni, chiederemo agli Stati Uniti di salire a bordo”. Naturalmente, il presidente Obama non invierà più truppe in ogni dove, tuttavia le percezioni e i sentimenti sono questi.

In Iran è la stessa storia. Sono stato a Qum, dove la gente dice che Dio è plurale e, quindi, ci deve essere il pluralismo. Dicono: “Il pluralismo esiste a Najaf, perché non lo

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abbiamo qui a Qum o a Teheran? Anche se il dibattito a Teheran e a Qum è altamente intellettuale e ha persino profondi tratti filosofici, a Najaf non è così. L’attenzione politica è concentrata sul pluralismo: “se gli sciiti iracheni lo hanno, perché noi no?”.

Tutte queste interazioni sono presenti nella regione. Mi fermo qui e vi ringrazio per la cortese attenzione.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. C'è un certo numero di interventi. Il primo è Philippe Vitel dalla Francia.

Philippe VITEL, Assemblea nazionale, Francia. La mia domanda è rivolta al dottor Visser. Nel suo appassionante intervento, lei ci ha illustrato i rapporti tra le forze politiche all’indomani delle elezioni. Come abbiamo potuto notare e come è stato confermato dal dottor Abdul-Jabar, l’aspetto religioso costituisce un elemento importante nel processo di ricostruzione della società e dello Stato iracheno. In questo contesto, si sente spesso parlare di un attore di primo piano, Moktada al-Sadr. Il risultato delle elezioni, oggi, conferma il suo ruolo di leader sciita, di “kingmaker” – così come era stato soprannominato – o al contrario ne esce indebolito? Quali sono i suoi giochi politici al momento?

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Grazie per la domanda. L’aspetto interessante a proposito dei sadristi è che sono riusciti ad affermarsi molto bene all’interno di uno dei blocchi di matrice sciita, al punto che adesso dispongono all’incirca di 40 seggi sui 70 spettanti alla formazione denominata INA. In teoria, ciò li rende molto forti, ma io trovo molto interessante il fatto che finora, nell’ambito dei colloqui che si stanno svolgendo, non siano stati in grado di tradurre questo notevole risultato in un ruolo dominante nelle trattative di coalizione. Ho ancora l’impressione che all’interno della INA, i partiti più piccoli, come il Supremo Consiglio Islamico iracheno, stiano continuando a

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tentare di esercitare la propria influenza, che è sproporzionata rispetto ai loro numeri, visto che hanno perso piuttosto male. Sadr ha avuto un buon risultato, ma per ora rimane piuttosto defilato. Questo non significa che non potrebbe riemergere, tuttavia non ha un impatto particolarmente forte. A quanto pare i sadristi avrebbero un ruolo, insieme con altri sciiti, nel negare a Maliki un secondo mandato; non sembrano, però, concordare con gli altri sciiti sul candidato alternativo alla carica di Primo ministro. Forse il dottor Faleh desidera aggiungere qualcosa.

Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici. In effetti, hanno ottenuto la maggioranza dei seggi spettanti all’INA, 40 su 70, cioè il 60 per cento, pur avendo meno di un quarto dei voti totali ricevuti dalla lista INA. Hanno giocato la partita elettorale con molta accortezza. Si sono affidati a esperti iraniani che hanno istruito la loro squadra elettorale a Beirut. Si sono concentrati sul modello di voto, che è molto importante quando si analizzano i risultati. L’elettore può limitarsi a dare un voto alla lista (che contiene più partiti) oppure dare il voto a una lista e anche a un determinato candidato di uno dei gruppi compresi nella lista.

Gli elettori sadristi hanno dato i loro voti alla lista e a un determinato candidato, e ciascuna regione è stata incaricata di votare per il candidato numero X o Z. Nell’ambito della lista, chi ottiene il maggior numero di voti, se ne vedrà attribuire altri in supplemento. Per fare un esempio, poniamo che un candidato prenda 10.000 e la lista ne prenda un milione; il candidato non raggiunge i 30.000 necessari per essere eletto deputato, ma la lista ha diritto di assegnare a quel candidato i 20 mila voti mancanti. I sadristi hanno setacciato voti da Jafari e da Hakim e hanno giocato bene le loro carte. In caso contrario, avrebbero preso 10-15 seggi, perché quella è la loro forza reale. Però, conviene fare attenzione. Sono un gruppo populista e sanno davvero bene come suscitare movimenti di piazza. Hanno preso parte alla recente campagna per l'elettricità, che potrebbe essere un successo, e hanno un potenziale di crescita.

La gente ha votato per Maliki proprio perché, con la sua campagna “Legge e Ordine”, ha sbaragliato l’esercito del Mahdi. Adesso, però, si direbbe che Maliki rischi di sperperare questo

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capitale politico, esaudendo la richiesta dell’esercito del Mahdi che ne ha sollecitato le scuse. Se dovesse scusarsi, perderebbe il consenso di quel ceto medio che ha votato per lui.

Michael CLAPHAM, Camera dei Comuni, Regno Unito. Grazie, Presidente. Prima di tutto, desidero ringraziare la delegazione italiana per aver ospitato questa riunione e anche i nostri due relatori per le loro comunicazioni così stimolanti. Costruire una società civile in qualsiasi contesto è estremamente difficile, ma in Iraq, dove c’è l’apporto di svariate forze regionali, lo è ancora di più. In relazione agli scenari illustrati dal nostro primo relatore, si direbbe che un approccio centralizzato possa offrire la possibilità di sfruttare le ricchezze dell’Iraq in un modo più complessivo che creerebbe coesione. D’altra parte, naturalmente, ci sono i mutamenti che si sono verificati solo l’anno scorso, nel 2009.

Vorrei chiedere ai nostri due relatori se pensano che il modello centralizzato sarebbe davvero la soluzione migliore per neutralizzare le forze regionali. Inoltre, come pensano che un governo sub-nazionale possa effettivamente svolgere un ruolo nello sviluppo della società civile?

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Sono assolutamente d’accordo sul fatto che, a quanto pare, il modello centralizzato è quello che l’Iran teme di più. È apparso molto evidente che un anno fa, quando i laici hanno avviato un dialogo con Maliki, l’Iran ha cominciato a fare pressioni per la riaffermazione di un’identità sciita e per l’idea di una lista sciita unitaria. L’INA è stata costituita a Teheran nel maggio dello scorso anno, come risposta a quello che era successo nelle elezioni locali. In quel momento, si era palesato un orientamento verso una politica basata su questioni programmatiche specifiche e un accordo comune su una struttura centralizzata dello stato. Direi che l’Iran teme certamente l’idea di un governo forte e centralizzato.

Penso che sia abbastanza logico che un governo organico e non troppo ampio abbia molte più probabilità di

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sviluppare una sorta di autonomia in questo ambito regionale. Esattamente il contrario di un governo di dimensioni eccessive che non sarà organico e sarà quindi più esposto a spinte regionali. Il dottor Faleh avrà altro da dire sull’argomento, credo, ma devo dire che sono rimasto molto sorpreso dal fatto che l’Iran non sia l’unico a sembrare felice all’idea di un governo debole in Iraq.

Ci sono stati segnali che indicano che anche l’Arabia Saudita è contraria a qualsiasi tipo di riavvicinamento tra Allawi e Maliki. Forse è per motivi personali, perché, come è stato spiegato, semplicemente non riesce a tollerare Maliki. D’altra parte, ci sono anche prove interessanti indicanti il fatto che fondi sauditi sono incanalati verso alcuni dei paesi che investono in Kurdistan, per esempio. Non sono propenso a credere a questo luogo comune che l’Arabia Saudita appoggi un Iraq forte e centralizzato: in passato ha avuto problemi con un Iraq forte e centralizzato.

Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici. Per quanto riguarda il problema della società civile, è opportuno ricordare che abbiamo a che fare con uno stato che vive di rendita, uno stato ricco di petrolio con notevoli risorse finanziarie indipendenti dalla società. Per essere esatti, in conformità con l’ordine numero due, o numero tre, della Cohalition Provisional Authority (CPA) sotto l’ambasciatore Bremer, tutti i settori dell’economia irachena, ad eccezione di quello petrolifero e minerario, sono stati liberalizzati. In qualche misura vi sono investimenti americani, sauditi e kuwaitiani nonché di altri paesi esteri. Il ceto medio sta crescendo numericamente ed è sempre più indipendente dal sostegno dello Stato. Persino le organizzazioni criminali adesso si muovono nella legalità perché possiedono molto denaro e temono l’avvento di nuove mafie che possano appropriarsene. Che ci crediate o no, sono tra i più fedeli sostenitori dell’ordine pubblico e del rispetto delle leggi. I ladri di ieri sono i legalisti di oggi e chissà, potrebbero essere i governanti di domani.

Ma questa crescita di un ceto medio indipendente potrebbe subire una battuta d’arresto; le attività commerciali

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americane in effetti sono in calo. Ho incontrato alcuni imprenditori, recentemente, e si lamentavano del fatto che, non so per quale ragione, gli americani non fanno più affari in Iraq. Gli imprenditori non ricevono incarichi dal governo e questo produrrà nuovamente la subordinazione del passato. Vi sono due modelli di crescita della classe media e della classe imprenditoriale, che è, tra l’altro, la base della società civile. La società civile non ha intenzione di dare concessioni alle ONG e simili. Non è questo il nocciolo della questione. Il fatto è che, disponendo di un ceto medio produttivo e indipendente, in termini economici, si gettano le basi per creare una società civile vitale nel giro di qualche anno.

Prendiamo come esempio il modello turco: la classe imprenditoriale è davvero indipendente ed è cresciuta a tal punto che ha potuto imporsi sui militari e arginarli. Non è il Partito della Giustizia, quale movimento politico, che è riuscito a farlo, è la base sociale che ha fornito i mezzi. Tornando all’Iraq, sotto il regime di Saddam Hussein, il 90 per cento del ceto medio era stipendiato e dipendente dal governo. Il restante 10 per cento riceveva contratti da parte del governo. Ora non accade più; nel ceto medio, gli stipendiati sono in progressiva diminuzione, mentre i possidenti, che sfuggono al controllo dello Stato, che si affidano direttamente al mercato e che hanno una base indipendente, nella regione sono adesso il 50 per cento e, forse, anche di più. Ho saputo, per esempio, che le iscrizioni alle Camere di Commercio irachene, nel giro di 3-4 anni si sono quadruplicate, così come gli imprenditori. Persino tra coloro che lavorano nei paesi circonvicini, come il Qatar, l’Arabia Saudita, il Kuwait, la Giordania e il Libano, vi sono 3.000 milionari iracheni impegnati negli affari. Hanno affari anche all’interno del paese: cercano una base sicura al di fuori del paese e fanno affari all’interno del paese. Se questo esodo dovesse continuare indebolirebbe le potenzialità della società civile; se, però, riusciamo a non cadere nel modello egiziano, in cui le classi imprenditoriali sono totalmente assoggettate al governo, allora la società civile avrà più margine per prosperare.

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Mehmet CEYLAN, Grande Assemblea Nazionale, Turchia. Mi permettete di dire qualcosa prima di porre la mia domanda? Come rappresentante di uno dei paesi confinanti con l’Iraq, vorrei illustrare brevemente alcuni dei nostri principali punti di vista sulla situazione irachena. L’Iraq è un paese chiave per la pace e la stabilità in Medio Oriente. La nostra massima priorità è che in Iraq si possa pervenire a una condizione permanente di pace, sicurezza e prosperità. Pertanto, sosteniamo fermamente il processo politico in corso in Iraq. Nelle nostre relazioni con l’Iraq, stiamo perseguendo una politica multi-dimensionale e proattiva. Le elezioni parlamentari del 7 marzo hanno segnato una svolta negli sforzi per sviluppare il processo di democratizzazione e di stabilizzazione in Iraq.

Un nuovo governo che rifletta la volontà del popolo iracheno deve essere formato senza ulteriori ritardi. La formazione, la composizione e la distribuzione del prossimo governo saranno fattori significativi per il successo del processo politico. Uno dei principali compiti del prossimo governo sarà un processo di ricostruzione generale dell’Iraq. Il popolo iracheno si aspetta una maggiore crescita economica e un miglioramento del proprio tenore di vita. Ci auguriamo che un governo onnicomprensivo possa fare propria facilmente questa visione e risolvere i problemi fondamentali del paese.

Credo che la costruzione delle istituzioni sarà una sfida chiave per l’Iraq nel prossimo periodo. L’Iraq ha bisogno di istituzioni efficienti, forti e imparziali per garantire lo stato di diritto e per prevenire la corruzione. La Turchia continuerà a contribuire alla stabilizzazione, democratizzazione e ricostruzione in Iraq. È nostro desiderio vedere un Iraq democratico e prospero, capace di produrre sicurezza e stabilità per tutta la regione e aperto alla cooperazione con l’Occidente. La Turchia, i paesi circostanti e la comunità internazionale non possono permettersi le conseguenze negative che si produrrebbero se l’Iraq ricadesse nel caos e nell’instabilità.

La mia domanda riguarda i risultati delle elezioni e il processo di formazione del governo. Quali sono le prospettive per la creazione di istituzioni efficienti, veramente imparziali ed efficaci? Si realizzeranno la ricostruzione completa e i progetti di

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sviluppo di cui l’Iraq ha disperatamente bisogno? Ci sono ragioni per essere ottimisti circa il futuro del popolo iracheno in questo senso? Quale potrebbe essere l’ulteriore contributo della Nato a questi sforzi di costruzione dello stato?

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Io sono pessimista, soprattutto perché sono convinto che, al fine di conseguire l’obiettivo, appena delineato, di un governo efficiente, questo debba essere efficace e di dimensioni contenute. Credo che, finché si continua a insistere sull’idea di un potere condiviso e di un governo ampio e onnicomprensivo, il risultato non potrà che essere disarticolato. I partiti politici tenderanno a popolare i Ministeri e li sfrutteranno per i propri interessi, invece che per il bene del popolo iracheno. Al momento, sono pessimista. A meno che, all’ultimo momento, non vi sia un cambio di rotta e si ritorni a parlare di politica basata su questioni programmatiche, io sono abbastanza pessimista.

Certamente, è interessante il fatto che Allawi e Maliki abbiano cominciato a parlarsi non appena si sono diffuse le voci su questa nuova Alleanza sciita. Improvvisamente, Allawi e Maliki hanno cominciato a dialogare. Forse a un certo punto, si renderanno conto di come questa idea di un fronte sciita comune sia di fatto un’arma contro di loro, per emarginarli e fare spazio a un terzo candidato alla carica di primo ministro. Fino a quando non se ne renderanno conto, penso che andremo avanti con questo eterno processo di formazione di un governo che alla fine probabilmente sarà sproporzionato e funzionerà male.

Quanto alla domanda su ciò che la Nato dovrebbe fare, credo che, in questo caso, il fattore principale sia la lungimiranza, cioè valutare gli sviluppi futuri della situazione in Iraq e chiedersi che aspetto dovrebbe avere l’Iraq da qui a 10 anni. Al momento sembra che tutti, nella comunità internazionale, siano d’accordo con coloro che chiedono un governo decisamente onnicomprensivo, semplicemente perché, nel breve periodo, questa è la soluzione più facile. Io, invece, penso che sia piuttosto miope.

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Un governo onnicomprensivo, forse, renderebbe più facile agli americani il ritiro delle loro truppe il 31 agosto, ma a parte questo, che cosa si consegnerà ai cittadini iracheni? Che cosa si lascerà in termini di governo efficace? Se c’è interesse per uno stato iracheno funzionale, da qui a 10 anni, allora credo che la chiave sia che la Nato promuova il ritorno a una forma di politica basata su questioni programmatiche. Si deve cercare di uscire da questo circolo vizioso in cui ognuno insiste sulla divisione del potere sulla base delle identità etnico-confessionali.

Si ipotizza che nel caso qualcuno rimanesse escluso, scoppierebbe immediatamente un putiferio. Nel 2009, segnali interessanti ci hanno mostrato che quel genere di politica è possibile in Iraq, perciò è dall’esterno che si dovrebbe agire per riportare l’Iraq su quella strada. Ecco il consiglio migliore che potrei offrire.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Dottor Jabar, desidera intervenire?

Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici. Resterò in argomento. Nel 2006, tutti erano pessimisti. Io, invece, no. Semplicemente perché i pessimisti si soffermavano a considerare il processo violento, ma non vedevano gli altri processi, cioè la legittimazione e lo sviluppo delle capacità del nuovo ordinamento politico. Praticamente, un percorso a doppio binario con un punto strategico, che era la mia speranza e la mia analisi. Prima è venuta l’analisi, poi, la speranza, che quel duplice processo avrebbe raggiunto un determinato punto che sarebbe stato il punto di rottura della rivoluzione, il che è stato. Ora una maggioranza di ciascuna comunità è entrata nel processo politico, è in atto un processo di legittimazione, così come di sviluppo delle capacità. L’attuale crisi, un Iraq senza governo, può potenzialmente disfare tutto ciò. Sono preoccupato adesso più di quanto non fossi nel 2006.

Non riesco a esprimermi con la stessa forza di Reidar e mi auguro che vi sia un impegno più responsabile e proattivo da

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parte di tutti i soggetti interessati. Lo sforzo diplomatico degli Stati Uniti e delle altre nazioni europee è stato finora al di sotto del minimo indispensabile. È più romantico, come offrire rose ai vostri amati politici. Temo che andrà avanti così all’infinito e lascerà che queste complessità e complicazioni peggiorino ancora di più. Rischiamo di arrivare al punto in cui l’Iraq sarà il primo, non il secondo, fallimento nella regione. L’attenzione di tutti è concentrata maggiormente sull’Afghanistan, però, penso che in questo caso l’Iraq sia una priorità. Suggerirei uno sforzo diplomatico più proattivo e prolungato per alleggerire le tensioni nella regione e per indurre un maggiore impegno in Iraq. In tal modo si potrà determinare il primo scenario prospettato, che appoggio pienamente. Una soluzione Allawi-Maliki è la migliore opzione disponibile nella situazione attuale.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Adesso, l'intervento di Arieh Eldad.

Arieh ELDAD, Unione nazionale, Israele. Ringrazio per le due brillanti analisi del processo in Iraq, che abbiamo appena ascoltato. Analisi assolutamente logiche di ciò che sta accadendo, e il senso di pessimismo che ne scaturisce non mi sorprende. In Israele, almeno, si narra di uno scorpione e una rana che tentavano di attraversare il fiume Giordano, che non è particolarmente largo, ma è comunque un problema per uno scorpione. C’era questa rana pronta ad attraversare il fiume e lo scorpione le chiese un passaggio, ma lei rifiutò. Disse: “Tu sei un scorpione, mi pungerai e io morirò”. “Ma non è logico – disse lui – se ti pungessi, moriremmo nel fiume tutti e due”. La rana ci pensò un attimo e disse: “Il ragionamento fila, salta su”. Si mise a nuotare con lo scorpione sulla schiena; in mezzo al fiume lui la punse e lei morì. Esalando l’ultimo respiro, la rana disse: “Questo non è logico, andremo a fondo entrambi”. Lo scorpione rispose: “Dimentichi che siamo in Medio Oriente”.

Questa è la situazione. Talvolta, tentiamo di analizzare logicamente i fatti, cerchiamo di imporre la nostra logica a

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processi che sono a volte contro ogni logica. In Iraq, come in altre aree del Medio Oriente, siamo destinati a fallire. Dobbiamo tener conto delle motivazioni illogiche degli attori in questo scenario. La mia personalissima ipotesi è che se gli Stati Uniti abbandoneranno l’Iraq, l’anno prossimo l’Iran acquisirà il controllo perché è l’attore più forte nella zona.

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Sono certamente d’accordo con l’ultima parte di questa ipotesi secondo cui l’Iran si rafforzerà molto. Vorrei, però, contestare l’affermazione relativa alle visioni pessimistiche. Non è perché “questo è il Medio Oriente”, o l’Iraq, che la situazione diventerà un problema infinito. Nel 2008 e nel 2009, infatti, si sono evidenziati buoni segnali di ottimismo in Iraq. Allora, gli iracheni erano riusciti a far passare in secondo piano le identità etnico-settarie e a concentrare l’attenzione su questioni ordinarie di vita quotidiana.

Quello che è successo nel 2009 è che un determinato attore regionale, l’Iran, aveva tutto l’interesse di riportare l’Iraq entro i binari delle identità etnico-settarie e, non avendo incontrato nessuna resistenza efficace da parte del resto della comunità internazionale, sicuramente non degli Stati Uniti, è riuscito nell’intento, ma ciò non vuol dire che la situazione debba rimanere quella per sempre. L’abbiamo visto nel 2008 e nel 2009. Se guardiamo alla storia irachena, l’Iraq ha avuto una storia pacifica durante il periodo della monarchia, nel tardo periodo ottomano. Si sono avuti interessanti periodi di coesistenza nella storia irachena. Non è detto che questi gruppi debbano restare bloccati in una specie di lotta eterna. Penso che dovremmo essere aperti a prospettive potenzialmente più positive per la politica irachena.

Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di studi strategici. Tutti parlano dell'Iran come se fosse una forza di occupazione. Vorrei mettere la questione in prospettiva e valutarla in termini reali. In primo luogo, c'è stata una forte influenza iraniana, ma non è riuscita a controllare Najaf, il che è un fatto molto

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importante. Nessun governo può controllare la teologia, la vera forza di legittimazione, o monopolizzarla a vantaggio proprio o altrui. In realtà l’Iran sta lottando con la teologia di protesta all’interno dei suoi confini. In secondo luogo, ci sono statisti iracheni che, negli anni dell’esilio, sono stati protetti e sostenuti economicamente da parte del governo iraniano. Ora sono statisti indipendenti, come il primo ministro Maliki, che può disporre di 70 miliardi di dollari all’anno. Questo è un paese ricco di petrolio e Maliki non ha bisogno dell’Iran. Questo vale per la classe politica in generale. L’Iran può avere pupilli o spie sparsi qua e là, amici a libro paga sparsi qua e là, e certamente ne ha. Ne ha molti, in abbondanza. Perché politici iracheni, come Jafiri, che ha fatto decisamente affidamento sull’Iran per la sua candidatura a Primo Ministro, e Maliki, così come altri politici, rifiuterebbero il ripristino degli accordi del 1975? Nessuno lo accetterebbe. Nessuno. Se vi è un consenso nazionale in Iraq, è il ripudio degli accordi del 1975, che l’Iran intende ristabilire. Questo costituisce un elemento di forte criticità tra i due paesi.

In terzo luogo, c’è la politica petrolifera. In entrambi i paesi, le agenzie e le politiche petrolifere sono centralizzate. In Iraq, però, vi sono misure di liberalizzazione. Se vi ricordate, lo scorso dicembre, l’Iran ha occupato l’area del giacimento petrolifero numero nove di al-Fakka, nella provincia sciita di Misan. Dopo, ovviamente, si è dovuto ritirare, ma il fatto ha avuto un impatto enorme sull’opinione pubblica irachena. Ci sono state manifestazioni a Bassora, e persino a Misan, che è filo-sadrista, per esempio. Sadr si è risentito: “Che significa questo? Io risiedo nella vostra terra, ma voi state occupando il mio paese”. Era furibondo. L’occupazione del suddetto giacimento petrolifero è stata controproducente e ha creato problemi. Con tutte queste politiche divergenti, gli interessi economici, la politica petrolifera liberale, la politica estera, questo e quello, sono tanti i motivi di conflittualità tra sciiti iracheni e sciiti iraniani. Ciò incrementerà la logica della saggezza politica e porterà alla fine di tanti protagonisti, il che è già accaduto. Dobbiamo tenerne conto e non sovrastimare la situazione.

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Antonello CABRAS, Vice Presidente della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare della Nato e relatore del GSM. Grazie, Presidente. Ascoltando le relazioni dei nostri relatori, ho colto una preferenza rispetto alla possibile evoluzione dello scenario iracheno in un’alleanza fra Maliki e Allawi. Un’alleanza che garantirebbe una maggiore stabilità di governo e soprattutto anche una maggiore autonomia dello Stato iracheno rispetto alle influenze esterne soprattutto dei paesi confinanti che, come abbiamo sentito, hanno spesso degli interessi contrastanti.

La mia domanda è: questa alleanza che guarda alla stabilizzazione, se ho capito bene esclude i curdi. Ma i curdi nell’ambito del panorama politico iracheno non hanno soltanto una posizione riconducibile alle sensibilità religiose, ma hanno viceversa, una forza politica che deriva proprio dalla loro identità territoriale della regione curda in Iraq; inoltre bisogna pensare anche al fatto che quella regione, come sappiamo, è molto interessante dal punto di vista economico e politico per gli enormi giacimenti che contiene. Ecco, l’esclusione dei curdi da un’alleanza Maliki-Allawi non sarebbe un elemento di destabilizzazione che va ad aggiungersi ai precedenti?

Doru Claudian FRUNZULICA, Vice Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Romania. Intanto, vorrei sottolineare che sono totalmente d’accordo con il dottor Jabar, per quanto riguarda l’importanza dell’Iraq per la stabilità della regione. A mio parere, la stabilità dell’Iraq è oggi persino più importante di quella dell’Afghanistan. Se le cose in Iraq finiranno male, andremo incontro a un Iraq destabilizzato che provocherebbe nella regione maggiori problemi di quanto non potrebbero Afghanistan e Istanbul.

Nel corso di questo dibattito si è parlato di alcuni attori di questa area geografica. Ma ho sentito poco in relazione alla Siria. Anche la Siria ha un ruolo molto importante riguardo alla situazione irachena. Come sapete, l’anno scorso sono state lanciate da parte del primo ministro Maliki persino accuse di un coinvolgimento siriano in materia di addestramento: gli attentatori in vari Ministeri a Baghdad sarebbero provenuti dal

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territorio siriano e chi più ne ha più ne metta. Successivamente, è stato istituito il Consiglio comune tra Stati Uniti, Siria e Iraq per tenere sotto controllo il confine iracheno-siriano.

Ancora una volta, mi trovo totalmente d’accordo sul fatto che se gli Stati Uniti si affrettano a ritirare le truppe dall’Iraq, ci ritroveremo con una situazione molto più difficile nella zona. L’Iran cercherà di prendere il controllo, l’Arabia Saudita risponderà. Ciò potrebbe provocare una nuova guerra civile in Iraq. L’Iraq potrebbe diventare una nuova polveriera in quest’area.

Vorrei anche porre qualche domanda. So che ci sono differenze tra i curdi dell’Iraq settentrionale e i curdi dell’Iran. Quali sono, oggi, i rapporti tra i curdi nord-iracheni e i curdi iraniani? Lo chiedo a entrambi i relatori. E qual è la situazione delle altre confessioni, come i cristiani? Essi si trovano ad affrontare una situazione molto difficile nell’Iraq settentrionale e in altre parti dell’Iraq. Qual è la situazione degli altri gruppi etnici come i turkmeni nel Settentrione?

Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Comincerò dalla prima domanda, a proposito dei curdi. In breve, la mia risposta è che non credo che l’esclusione dei curdi da un governo Allawi-Maliki debba necessariamente provocare instabilità in Iraq. Permettetemi di spiegare. In primo luogo, dobbiamo ricordare che il Kurdistan gode già di una solida autonomia garantita dalla vigente Costituzione irachena. Il potere è demandato ai curdi. Non c’è davvero alcuna logica nell’insistere sul fatto che dovrebbero essere inseriti a tutti i costi nel governo nazionale, dove si sono ripetutamente dimostrati di ostacolo al progresso della legislazione. La legge sulle risorse petrolifere ne è un esempio.

Essi hanno già una ampia autonomia nella struttura federale che è stata accettata quando la Costituzione irachena è stata adottata nel 2005. Penso che ci sia una tendenza che è emersa lo scorso anno, in particolare tra gli esperti di Washington. Era diventato di moda dire che il conflitto arabo-curdo sarebbe stato il successivo grande problema in Iraq. Tutti si

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sono estremamente preoccupati di risolvere la questione di Kirkuk e così via. L’idea che, in mancanza di una soluzione, questo problema avrebbe provocato un disastro si è diffusa molto.

Credo che, in sostanza, dobbiamo riflettere sulla geopolitica della questione e sulla geopolitica della situazione energetica. Si è detto del potenziale petrolifero della regione del Kurdistan. Tuttavia, e sono convinto che qualsiasi geologo sarebbe d’accordo, il fatto è che le vere grandi risorse petrolifere in Iraq sono concentrate in una piccola area nel profondo Sud, nei dintorni di Bassora. Dobbiamo considerare le stime relative alla regione del Kurdistan in proporzione a quanto si produce a Bassora. Bassora produce tra uno e due milioni di barili al giorno. La produzione massima del Kurdistan attualmente è di 100.000. La produzione a Bassora è destinata a crescere, forse di tre o quattro volte entro i prossimi 10 anni: ci stiamo avvicinando ai quattro, sei, otto milioni di barili al giorno.

Il Kurdistan oggi trae quasi tutte le proprie disponibilità economiche dalle entrate provenienti dai giacimenti di Bassora ed è probabile che le cose rimarranno tali ancora per parecchio tempo. Nel momento in cui si profetizzano disastri nel caso in cui i curdi fossero scontenti della politica di Baghdad, si dovrebbe considerare un quadro più ampio e guardarlo nel suo insieme. Ci sono cose in Iraq, che interessano molto i curdi, in particolare il petrolio estratto a Bassora.

Per quanto riguarda le domande sulle altre minoranze, penso di lasciare la risposta ad altri, perché quello non è affatto il mio campo di specializzazione. A proposito dei cristiani, credo che sia importante ricordare che ci sono molti gruppi cristiani in Iraq. Non tutti si fanno sentire nello stesso modo e non tutti trovano uguale ascolto presso la comunità internazionale. Alcuni di essi sono estremamente ben organizzati, come gli assiri, che hanno una forte presenza in esilio e hanno fatto davvero molte pressioni sui politici occidentali. I cristiani iracheni nativi sono i caldei e, fino all’arrivo degli assiri agli inizi del XX secolo, erano una comunità ben più vasta di quella assira. Tuttavia, essi non hanno buoni rapporti con il mondo occidentale in generale, e per

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questa ragione, credo, tendiamo a identificare i cristiani iracheni con gli assiri, anche se non è del tutto corretto.

Faleh ABDUL-JABAR, Presidente Istituto iracheno di studi strategici. Non credo che l'esclusione dei curdi dal governo centrale potrebbe incidere molto negativamente sulla stabilità dell’Iraq, ma sarebbe un gran danno per la stabilità del Kurdistan stesso. In primo luogo, Talabani dovrebbe ritornare in Kurdistan e dovrebbe ricoprire un incarico più importante di quello di Barzani. Come sappiamo, però, non ce n’è.

In secondo luogo, credo che un governo forte a Baghdad non abolirebbe il federalismo, perché se si volesse revocare la struttura federale, sarebbe necessaria una maggioranza di oltre i due terzi, cioè il 75 per cento dei voti in sede di assemblea nazionale. Nessun governo ce la farebbe. Tuttavia, un forte governo federale al centro sarebbe in grado di imporre un controllo dei conti, per fermare il dilagare senza precedenti della corruzione in Kurdistan. Molti politici di quella regione sono diventati magnati corrotti, come molti tra i politici arabi.

In terzo luogo, un forte governo centrale potrebbe imporre controlli durante il monitoraggio delle elezioni, perché il Governo Regionale Curdo (KRG) rifiuta il monitoraggio delle elezioni da parte di Baghdad. Per questo motivo, forse, abbiamo avuto elezioni ragionevolmente corrette a Suleimaniya, ma non altrettanto a Erbil, dove, secondo i rapporti, i risultati sono stati manipolati.

A proposito dei cristiani dirò solo poche parole. In base a tutta la documentazione, comprese alcune statistiche segrete svolte dal vecchio governo iracheno, i cristiani costituiscono il 3 per cento della popolazione, il 7 per cento degli abitanti di Baghdad. Queste statistiche non sono state rese pubbliche, facevano parte dell’archivio segreto della Direzione Generale per la Sicurezza a Baghdad e sono diventate accessibili dopo la guerra del Golfo del 1991.

Secondo la Costituzione, essi dovrebbero avere circa 11 o 12 seggi in Parlamento. In effetti se ne sono visti assegnare solo

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cinque, cioè meno della metà della quota di rappresentanza effettiva. Sono previste quote per i turkmeni, per gli yazidi, per i sabei. Nell’idioma iracheno si chiamano Mukawinat, che significa ‘elementi costitutivi’. I cristiani sono sottorappresentati.

Inoltre, secondo la Costituzione, credo che sia l’articolo 140, ci dovrebbe essere una sorta di auto-amministrazione nelle regioni in cui determinate minoranze costituiscono la maggioranza della popolazione locale. I cristiani hanno una grande comunità, una grande concentrazione in una regione costituzionale, proprio come a Einkawa, nei pressi di Erbil. Dovrebbero avere un qualche tipo di amministrazione locale e ne hanno bisogno. La polizia locale non proviene dalla comunità del luogo e quando le forze di polizia appartengono a un’altra comunità, sono prevenute e questo è un grosso problema.

Nel marzo scorso, il nostro Iraq Institute (IIST) ha organizzato una conferenza a Beirut sulla tolleranza religiosa in Iraq. Secondo i pareri che abbiamo ascoltato da cristiani e non-cristiani, giunti da ogni parte delle zone di Erbil e Mosul, i cristiani dovrebbero avere un proprio sottogoverno locale o, se vogliamo, un’amministrazione locale; e le forze di polizia dovrebbero essere reclutate, in parte, tra i membri della propria comunità. In tal modo, potrebbero pattugliare la comunità infondendo fiducia e sicurezza. Al momento, tuttavia, questo non è il caso ed è davvero un fatto triste.

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SECONDA SESSIONE

Sicurezza marittima e pirateria.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Questo pomeriggio ci concentreremo sulla sicurezza marittima. Si tratta di un campo di costante interesse per il GSM. Come sappiamo, la maggior parte degli scambi commerciali viaggia via mare e di conseguenza per le nostre economie è di vitale importanza proteggere le linee marittime di comunicazione. La Nato, certo, è coinvolta nella protezione delle imbarcazioni dalla pirateria al largo delle coste della Somalia e svolge in quella zona un ruolo fondamentale insieme all’Ue e ad altri partner.

Per parlarci più approfonditamente di quello che stiamo facendo per migliorare la sicurezza marittima abbiamo con noi due eminenti esperti del settore: l’ammiraglio di squadra Maurizio Gemignani della Marina Militare italiana, che è il comandante del Comando alleato della componente marittima di Napoli e il ministro Massimo Marotti del Ministero per gli Affari esteri italiano.

L’ammiraglio di squadra Maurizio Gemignani è comandante del Comando Alleato della componente marittima di Napoli dal 2008. Ha una lunga carriera quale comandante di sottomarini e navi di superficie nella Marina Militare italiana. Nel 2001 ha guidato il gruppo aeronavale italiano a supporto dell’operazione Enduring Freedom nel corso dei tre mesi di dispiegamento nel Mar Arabico. Ha inoltre ricoperto la carica di Vice Capo di Stato Maggiore della Marina Militare italiana e di Comandante del Centro di addestramento marittimo della Marina Militare italiana. È stato Capo di Stato Maggiore del Comando Operativo Interforze italiano.

Il ministro Marotti è il Coordinatore per la sicurezza internazionale presso il Ministero per gli Affari esteri italiano.

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Precedentemente è stato primo consigliere presso la Rappresentanza permanente d’Italia alle Nazioni Unite a New York. Mentre ricopriva questa carica è stato anche rappresentante supplente e membro di alto grado della Delegazione italiana al Consiglio di Sicurezza. Il ministro Marotti ha anche avuto carica analoga nell’Ambasciata italiana a Washington. È stato inoltre responsabile delle relazioni economiche tra Italia e Stati Uniti. A Roma è responsabile dello sviluppo di linee guida e programmi a sostegno dell’imprenditoria italiana all’estero. Ed ora vorrei passare la parola all’ammiraglio di squadra Maurizio Gemignani.

Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli. La ringrazio, signor Presidente, e buon pomeriggio, signore e signori. Quale Comandante del Comando alleato della componente marittima di Napoli è per me un grande onore essere qui a parlare di pirateria con ospiti così importanti ed illustri. Il dopo pranzo non è il momento più promettente, ma cercherò di non essere troppo noioso.

La pirateria e le rapine a mano armata in mare rappresentano una minaccia per le linee marittime di comunicazione e per interessi economici fondamentali e sono uno dei problemi più ardui per le marine militari del XXI secolo. Come sappiamo nell’area del Golfo di Aden e del Corno d’Africa la pirateria incide in maniera sensibile sul libero flusso di merci. Inoltre ostacola l’arrivo degli aiuti umanitari internazionali alla Somalia ed in particolare vi sono alcune zone della Somalia, quali il Puntland, che sembrano ospitare la rete di pirati più attiva e capace. Alcuni funzionari governativi locali e regionali sono sospettati di facilitare e trarre profitto dalla pirateria. Tutto ciò nonostante un recente limitato impegno dei leader regionali volto ad imprimere un giro di vite contro la corruzione legata alla pirateria.

Il modus operandi dei pirati somali è quello di catturare ostaggi per ottenere un riscatto. In tal senso, la pirateria in Somalia può essere considerata una sorta di rapimento marittimo. Gli atti di pirateria in quest’area sono diversi da quelli nello

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Stretto di Malacca o in Nigeria dove le navi vengono abbordate per catturare le navi stesse o il loro carico. I pirati del Corno d’Africa di norma sequestrano una nave o il suo equipaggio in attesa del versamento di un riscatto. Modalità resa possibile dal fatto che i pirati trovano riparo sicuro in Somalia, a terra o nelle sue acque territoriali.

Tutto ciò pone notevoli difficoltà alle strategie e alle tattiche di ingaggio tradizionali delle forze di sicurezza navali, in particolar modo per quanto riguarda l’uso di forze speciali e le implicazioni di sicurezza per gli ostaggi in caso di intervento militare a bordo delle navi. La pirateria somala comporta tutta una serie di costi economici quali il versamento del riscatto, i danni alle navi e ai carichi e il ritardo nelle consegne. Vi è poi il costo del servizio di protezione delle navi mercantili e dell’impiego di forze navali nelle operazioni antipirateria, nonché i premi assicurativi aggiuntivi imposti alle compagnie di spedizione per i viaggi, che vanno dai 10.000 ai 20.000 dollari Usa. Di conseguenza la pirateria sta colpendo non solo gli interessi strategici chiave dell’Alleanza, ma mette a repentaglio la libertà e la stabilità economica internazionale.

Nel 2008 la comunità internazionale ha deciso di contrastare questo fenomeno, cosa che ha portato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad adottare una risoluzione volta a facilitare una risposta internazionale alla pirateria somala. Nel frattempo la Nato, sotto il mio comando, ha avviato l’operazione Allied Provider, il primo impegno militare multinazionale nel Corno d’Africa, operazione intrapresa per rispondere alla richiesta del Segretario Generale delle Nazioni Unite di proteggere le spedizioni del Programma Alimentare Mondiale alla Somalia.

In particolare, la Risoluzione 1851 autorizza le forze navali internazionali a svolgere operazioni antipirateria nelle acque territoriali somale e a terra, tutto ciò con il consenso del Governo somalo di transizione. La Risoluzione 1872 ha permesso la partecipazione, l’addestramento e l’equipaggiamento delle Forze di sicurezza del Governo federale di transizione. Nel 2009 è stata adottata la Risoluzione 1897 al fine di incoraggiare ulteriormente gli stati a siglare accordi per permettere a funzionari governativi delle forze dell’ordine di salire a bordo

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delle navi della coalizione antipirateria per facilitare l’indagine, l’arresto e l’eventuale procedimento giudiziario nei confronti di persone sospettate di pirateria.

Alla fine del 2008 l’operazione Nato Allied Provider è stata sostituita dall’operazione Atalanta a guida Ue. Oggi la Nato porta avanti l’operazione Ocean Shield in cooperazione con l’operazione Atalanta e le operazioni della Task Force 151. Ad essa contribuiscono, a livello nazionale, anche Russia, Cina, India, Giappone, Pakistan e le forze navali di altri paesi. Le forze navali della Nato dispiegate nell’area provengono da diversi paesi alleati. Sono parte dei gruppi navali permanenti della Nato, sono sempre a disposizione in mare e in grado di svolgere molti compiti diversi che vanno dalla presenza ad azioni di combattimento.

Dal punto di vista operativo, sebbene le Marine partecipanti non abbiano coordinato formalmente e a pieno le proprie politiche, vi è comunque un’attività di scambio di informazioni. Si tratta di ciò che in gergo militare marittimo viene definito Maritime Situational Awareness. Un’ampia e approfondita conoscenza dell’ambiente operativo ci permette di affrontare la situazione mantenendo una posizione di predominio.

Per quanto riguarda la conoscenza dell’ambiente operativo marittimo applicata al Corno d’Africa, esiste un meccanismo di cooperazione chiamato Shared Awareness and Deconfliction (SHADE). Grazie a riunioni mensili, esso garantisce un’attività di coordinamento alla Nato, alle forze della coalizione Ue, alla Russia, alla Cina, all’India e al Giappone. Vi sono poi strumenti operativi quali il sistema Mercury, un sistema di informazioni di sicurezza su piattaforma Internet. Grazie a questi mezzi le unità e gli stati maggiori possono scambiarsi informazioni di intelligence sfruttabili sul campo, cosa che aiuta a migliorare l’intero processo di scambio di informazioni nonché a migliorare l’interoperabilità tra le forze presenti nell’area.

Esistono anche altre iniziative quali i Gruppi di contatto sulla pirateria, il Codice di condotta di Gibuti, la Dichiarazione di New York del 2009 che mira ad accrescere il coordinamento internazionale nel contrasto alla pirateria nelle acque somale.

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Tutte queste misure ci portano nella giusta direzione, anche l'approccio complessivo opportunamente adottato per la costruzione delle capacità necessarie richiede un certo tempo prima di produrre gli effetti desiderati.

Per quanto riguarda l’ambito giuridico, si potrebbe sostenere che la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare fornisca un quadro giuridico sufficiente a coprire le azioni delle navi militari contro la pirateria. Tuttavia, sembrerebbe che le norme giuridiche internazionali e l’interpretazione nazionale non sempre siano coerenti tra loro o comunque che le norme internazionali siano così facilmente traducibili in leggi nazionali come la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) vorrebbe suggerire.

In particolare, l’interrogativo più immediato sotto il profilo giuridico, relativamente alle operazioni antipirateria, riguarda la questione della giurisdizione, ossia se questa si basi sul luogo degli atti di pirateria e/o sugli interventi navali internazionali, sulla nazionalità dei membri dell’equipaggio, sui paesi di immatricolazione e/o di proprietà delle navi. Più governi potrebbero essere in grado di far valere la propria giurisdizione a seconda degli aspetti specifici dell’incidente. In alcuni paesi esiste la volontà politica, ma poi molti Governi non dispongono di leggi o capacità giudiziarie sufficienti a perseguire in maniera efficace i sospetti di pirateria.

Complessi interrogativi di ordine giuridico si pongono anche per la disposizione dei beni e le richieste di indennizzo assicurativo relative alle navi coinvolte in atti di pirateria. Vi è poi tutto un dibattito che sta emergendo relativamente ai procedimenti penali nei confronti di giovani coinvolti in atti di pirateria. Infatti, recenti rapporti indicano che alcuni pirati somali sono adolescenti in età minorile. Gli ufficiali di comando delle navi in mare chiedono procedure adeguate e concordate a livello internazionale. Queste devono poi essere tradotte in regole di ingaggio approvate a livello nazionale, che chiariscano come comportarsi con soggetti sospettati di pirateria.

Vorrei ancora una volta sottolineare la necessità di uno specifico quadro giuridico che stabilisca come comportarsi con i

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pirati una volta che essi sono stati catturati e detenuti a bordo di unità navali. In molti casi, infatti, siamo stati costretti a rilasciarli proprio per la mancanza di un simile quadro giuridico e sono convinto che ciò sia irresponsabile e controproducente. Su un altro versante, poi, vi è la necessità di una maggiore formazione in materia di attività di polizia e di raccolta di prove per il personale a bordo delle navi militari coinvolte. Dobbiamo spezzare il ciclo della pirateria e non alimentarlo. So che la linea tra attività di polizia e azione militare è labile e che molti legislatori la schivano. Tuttavia, è un problema che va affrontato in maniera efficace e determinata.

Dal punto di vista tattico, tenuto conto della vastità dell’area in cui operano i pirati, le forze navali non saranno mai in grado di rispondere e contrastare tutti gli atti di pirateria. Solo un’efficace distribuzione del lavoro tra le varie forze, procedure incisive e contromisure difensive da parte delle navi mercantili potranno ridurre i successi dei pirati.

Vorrei soffermarmi un momento su quest’ultimo aspetto. Le navi mercantili sono invitate ad iscriversi al Centro per la sicurezza marittima del Corno d’Africa ed informarlo del proprio transito. Attualmente circa il 70% di tutti i mercantili segue tale raccomandazione. È stato creato un Corridoio internazionale di transito raccomandato (IRTC) nel Golfo di Aden che viene costantemente pattugliato dalle unità navali. Tutto ciò va a vantaggio dei mercantili in transito. Una guida di coordinamento per l'IRTC è stata concordata tra tutte le componenti militari attive nel Golfo di Aden e viene distribuita alle navi che attraversano Bab-el-Mandeb; nel frattempo l’Organizzazione marittima internazionale (IMO) ha adottato un insieme di raccomandazioni per gli operatori del settore delle spedizioni marittime contenenti migliori pratiche di gestione (BMP) e misure di autoprotezione. Inoltre, anche gli stessi equipaggi dei mercantili hanno sviluppato una serie di contromisure e di migliori prassi nel tentativo di evitare e resistere agli atti di pirateria, ad esempio mettendosi al riparo in una zona protetta allorquando i pirati abbordano la nave.

Diversa è l'ipotesi di armare le navi mercantili. Ciò può avvenire o fornendo di armi l’equipaggio o assumendo squadre di

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sicurezza armata a bordo delle navi quale deterrente o per reagire agli atti di pirateria. Tuttavia, alcuni armatori ed operatori di navi mercantili sono fortemente contrari all’idea di armare le navi, fondamentalmente per ragioni pratiche e finanziarie. Il trasporto di personale di sicurezza armato (Distaccamento di protezione della nave), militare o civile, è soggetto alla legislazione e alle politiche dello Stato di bandiera. Sta allo Stato di bandiera autorizzarlo in consultazione con gli armatori e gli operatori delle navi.

Vi sono, inoltre, preoccupazioni di ordine finanziario che possono dissuadere dall’armare i mercantili. Assumere personale di sicurezza armato può essere più oneroso che pagare un occasionale riscatto. La responsabilità in caso di conflitti a fuoco letali a bordo di una nave può essere materia legale complessa che può portare a costosi procedimenti giudiziari. Visto, poi, che molti porti proibiscono alle navi di avere armi a bordo, le navi mercantili, che spesso fanno sosta in più porti lungo il loro tragitto, potrebbero trovarsi in difficoltà ad operare lungo determinate rotte.

I rapporti ci indicano che le società private che forniscono guardie armate e le società di spedizione marittima che fanno uso delle stesse faticano alle prese con queste difficoltà ed altre analoghe, nel tentativo di evitare problemi legali. In ogni caso, ho potuto osservare che il numero di distaccamenti militari o civili a bordo delle navi che attraversano il bacino somalo sta crescendo. Già vari paesi hanno emanato o stanno studiando leggi nazionali apposite.

Nonostante tutto quanto fin qui elencato, la pirateria somala continua, a tutt’oggi, a rappresentare una grave minaccia alla sicurezza e richiede un approccio globale da parte di tutta la comunità internazionale, dell’Alleanza e delle forze nazionali. Nel breve termine, l’Alleanza e la comunità internazionale hanno risposto a questa minaccia con pattugliamenti navali multinazionali, attività di coordinamento diplomatico e una maggiore sicurezza privata da parte degli operatori del settore delle spedizioni navali commerciali.

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Resta la necessità di individuare e sostenere quelle giurisdizioni che hanno la volontà e la capacità di perseguire i soggetti sospettati di pirateria e detenere i pirati arrestati. Nel lungo periodo, gli esperti ritengono che per affrontare la minaccia della pirateria sia necessario rafforzare il potenziale di sicurezza regionale, una migliore raccolta e condivisione dei dati di intelligence, forze dell’ordine più efficaci ed esperte e un maggior coordinamento multilaterale sia in mare che a terra. A detta di tutti, i pirati probabilmente continueranno a trovare riparo in Somalia fintanto che non miglioreranno le basilari condizioni di sicurezza e di governo del paese, una prospettiva messa a repentaglio dai conflitti in corso.

In una frase, devo sottolineare con chiarezza che la pirateria non potrà essere eliminata con l’uso esclusivo di strumenti militari e il rischio di commistione tra pirati e terrorismo internazionale cresce col passare del tempo. Per riassumere, osservando la situazione attuale, posso dire che la comunità internazionale ha ottenuto alcuni risultati a livello tattico. È ora giunto il momento di cominciare a fare passi avanti più risoluti a livello strategico e politico.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie ammiraglio. Il prossimo relatore è il ministro Marotti.

Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia. Sono molto lieto di essere qui e vi ringrazio per avermi invitato a questo Seminario. Ho avuto modo di essere presente al Consiglio di Sicurezza quale membro della Delegazione italiana nel 2007, quando il Consiglio di Sicurezza affrontò la questione della pirateria al largo delle coste della Somalia. Nella mia carica successiva a Roma, nel 2008, presi parte al processo decisionale nazionale sulla pirateria nell’ambito di un impegno internazionale più ampio e coordinato. La presentazione, che mi auguro vada a completare l’esaustiva allocuzione che ci ha appena presentato l’ammiraglio Gemignani, verterà principalmente su quanto si fa a

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livello politico per combattere in maniera coordinata la pirateria al largo delle coste somale.

La prima cosa che dovremmo andare ad esaminare è come la comunità internazionale ha reagito in passato. La pirateria non è mai sparita nella storia della sicurezza marittima, ma prima della Somalia i casi si concentravano soprattutto nello Stretto di Malacca. La risposta internazionale veniva coordinata principalmente a livello regionale. Il fatto stesso che l’area fosse dominata da stati efficienti è stato sufficiente per sviluppare un programma regionale. Il programma aveva il sostegno delle organizzazioni internazionali quali l’Organizzazione Marittima Internazionale e mirava a contenere il fenomeno. Si è riusciti così a ridurre l’attività dei pirati in Asia, mentre tra il 2006 e il 2007 gli atti di pirateria sono aumentati al largo delle coste della Somalia.

Più recentemente, il fenomeno della pirateria in Indonesia, Malesia e Singapore è stato in pratica eliminato. I pattugliamenti marittimi congiunti nello Stretto di Malacca hanno segnalato un numero limitato di attacchi alle navi mercantili. Nel frattempo, si è registrata una crescente minaccia della pirateria nel Golfo di Aden e al largo delle coste della Somalia. L’Ufficio marittimo internazionale riferì che nel 2006 il numero di attacchi a livello mondiale era calato per il terzo anno di seguito. Tuttavia, da allora, gli atti di pirateria sono continuamente in aumento, principalmente a causa dell’incremento esponenziale degli stessi nel bacino somalo. Nel 2007 il Consiglio di Sicurezza ha iniziato ad occuparsi della materia.

In due anni di azione internazionale, una serie di pattugliamenti al largo del Corno d’Africa ha ridotto il tasso di successo degli atti dei pirati. Oggi un tentativo su dieci va in porto rispetto all’uno su tre precedente alla decisione della comunità internazionale di agire nel Golfo di Aden. Eppure, il numero di attacchi è raddoppiato tra il 2007 e il 2008, da 51 a 111 ed è ulteriormente raddoppiato nel 2009 arrivando a 217. Grazie all’uso di navi madri e di migliori attrezzature per il rifornimento degli skiff, i pirati puntano più al largo nell’Oceano Indiano per attaccare navi che sono molto al di fuori del ben pattugliato corridoio internazionale di transito del Golfo di Aden.

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A causa della crescente preoccupazione per l’arrivo sicuro degli aiuti alimentari alla Somalia, di cui abbiamo sentito prima, le Nazioni Unite hanno invitato la comunità internazionale ad impegnarsi nell’area. L’idea era quella di lavorare alla creazione di un meccanismo, a guida ONU, che permettesse la consultazione tra le organizzazioni umanitarie operanti in Somalia.

A giugno 2008, con la Risoluzione 1816, il Consiglio di Sicurezza ha invitato gli Stati membri a vigilare sugli atti di pirateria e le rapine a mano armata in mare. In essa si esortavano gli Stati interessati all’uso delle rotte commerciali situate al largo delle coste della Somalia a rafforzare e coordinare l’azione volta a scoraggiare gli atti di pirateria e le rapine a mano armata in mare. Il Consiglio di Sicurezza si rivolgeva specificamente ai paesi con interessi nella regione. Chiaramente, uno degli ostacoli principali all’intervento in quest’area della comunità internazionale era quello di disporre di sufficienti risorse. La soluzione è stata quella di lanciare un appello ai paesi che avevano i mezzi per intervenire.

Ad ottobre 2008 il Consiglio di Sicurezza ha adottato risoluzioni più incisive, in cui si incoraggiavano gli Stati a partecipare alla lotta contro la pirateria in alto mare al largo delle coste della Somalia, in particolare tramite il dispiegamento di navi e aerei militari. A dicembre il Consiglio di Sicurezza, con una nuova risoluzione, ha autorizzato gli Stati a entrare nelle acque territoriali della Somalia al fine di sopprimere la pirateria e le rapine a mano armata in mare.

In risposta alle preoccupazioni dell’ONU sono state intraprese numerose iniziative. La Combined Task Force 150 sotto comando Usa, una task force multinazionale con base nel Bahrain, ha costituito la prima operazione nell’area. Nell’agosto 2008 è stata avviata la prima operazione internazionale. All’incirca nello stesso periodo, le marine di vari paesi, India e Russia in particolare, hanno iniziato a pattugliare l’area al fine di proteggere i propri scambi commerciali. A gennaio 2009 è stata istituita la Combined Task Force 151 sotto comando Usa con la missione specifica di combattere la pirateria. Inoltre, come

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abbiamo detto prima, hanno iniziato ad operare le missioni Nato seguite dalla missione Ue del dicembre 2008.

Il coordinamento militare è stato certamente un aspetto molto complesso per la comunità internazionale, tenuto conto del numero di paesi coinvolti nell’operazione. Alcuni paesi hanno risposto immediatamente all’appello della comunità internazionale ad intervenire. Abbiamo assistito all’azione congiunta delle coalizioni internazionali, costituite principalmente dalla task force guidata dagli Stati Uniti e dalle missioni Nato e Ue. A queste si sono unite anche missioni nazionali di paesi come Russia, Cina, India, Giappone e Singapore. Tutte queste missioni, chiaramente, hanno avuto un costo economico. Le azioni intraprese sono state approvate, vista l’urgenza della questione, con l’obiettivo di contenere il fenomeno nel breve periodo.

Il meccanismo attivato dalle tre coalizioni principali per coordinare l’intervento militare si chiama SHADE, Shared Awareness and Deconfliction. Tutti i concetti dello SHADE sono stati sviluppati dalle forze armate dei paesi coinvolti e presentati nell’ambito dell’attività del Gruppo di contatto sulla pirateria al largo delle coste della Somalia (CG).

Le operazioni militari in corso e il coordinamento sono il risultato di un parallelo impegno politico. Le Nazioni Unite hanno invitato a costituire un gruppo di contatto tra tutti i paesi coinvolti nell’area. Il Gruppo di contatto, come già detto, è stato creato nel 2009. Riunioni regolari vengono convocate a New York con la partecipazione di 50 paesi e sette organizzazioni internazionali – l’ONU, l’Unione Africana, la Lega degli Stati Arabi, l’Ue, l’Interpol, l’Organizzazione marittima internazionale e la Nato – che fanno parte a pari titolo del Gruppo di contatto.

Questa coalizione di paesi e organizzazioni non ha precedenti nella storia dell’ONU. Il Gruppo di contatto è suddiviso in quattro gruppi di lavoro. Il Gruppo numero uno è responsabile del coordinamento militare ed è guidato dal Regno Unito. Il Gruppo di lavoro due, che affronta gli aspetti giudiziari, compreso l’arresto, il procedimento giudiziario e la detenzione dei pirati, è guidato dalla Danimarca. Un gruppo guidato dagli

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Stati Uniti lavora con il settore marittimo commerciale e con le organizzazioni che si occupano della regolamentazione per divulgare migliori prassi sulle misure di sicurezza per le navi mercantili. Il Gruppo di lavoro quattro, a guida egiziana, sovrintende alle questioni relative alla comunicazione, legate alle operazioni internazionali contro la pirateria.

Tra i paesi del Gruppo di contatto vi sono 10 membri del Consiglio di Sicurezza, nonché tutti i paesi che hanno un interesse nel settore marittimo e nella sicurezza della regione, degli equipaggi e del personale coinvolto negli scambi commerciali internazionali che attraversano l’area del Golfo di Aden. La reazione alla pirateria marittima è un classico esempio di risposta internazionale ad una questione mondiale. Si tratta probabilmente della prima operazione complessa condotta su così vasta scala.

In aggiunta all’intervento militare e alle azioni delle marine coinvolte vi è stato anche un coordinamento a livello politico al fine di affrontare le cause alla radice della pirateria e di investire in nation-building e capacity-building nei paesi della regione. Il primo risultato rilevante è stato il Codice di condotta di Gibuti, un’organizzazione promossa dall’OMI che si basa sull’esperienza di una simile organizzazione regionale che combatte la pirateria nello Stretto di Malacca. Il suo scopo è quello di coinvolgere quanto prima i paesi della regione e di divulgare un messaggio di impegno congiunto da parte di tutti questi paesi affinché si rafforzi la risposta alla pirateria.

L’organizzazione viene finanziata principalmente grazie alle risorse del Giappone e di altri donatori. Essa mira a creare un meccanismo di scambio di informazioni ed un programma di capacity-building con il sostegno della comunità internazionale. Il Codice di condotta di Gibuti ha creato un fondo fiduciario, mentre il Gruppo di contatto ha creato un veicolo di raccolta delle risorse finanziarie a sostegno dei programmi nei paesi della regione.

Le Nazioni Unite hanno anche lavorato ampiamente al fine creare competenze regionali. L’Ue è diventata una dei principali sostenitori dei programmi ONU. Recentemente la

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Missione di addestramento dell’Unione europea ha iniziato ad addestrare le forze di sicurezza somale in strutture situate in Uganda. L’addestramento è iniziato con circa 400 soldati somali ed ha raggiunto un numero stimato di 2.000 effettivi.

Il coordinamento internazionale si sta dimostrando efficace, ma restano ancora alcuni aspetti chiave da risolvere. Il costo di mantenere un numero così elevato di navi militari continuamente occupate in missioni antipirateria ha profonde implicazioni finanziarie. L’impegno si sta già spostando dal breve al medio periodo. Secondo le Nazioni Unite una nave costa circa 100.000 dollari Usa al giorno. Considerando che nei momenti culmine vi sono circa 40 navi nell’area, il costo dell’operazione internazionale è certamente molto elevato. L’Ue, che guida una delle tre coalizioni internazionali, stima che il costo dell’operazione Atalanta sia di 500 milioni di euro.

Alla luce di queste statistiche, per affrontare la questione della pirateria diventa necessario trovare una soluzione sostenibile, più a lungo termine e che comprenda il sostegno economico e sociale alla Somalia. La volontà politica di sostenere lo sviluppo della Somalia è stata dichiarata ad una conferenza internazionale, ma il problema delle risorse insufficienti sta certamente incidendo sulle azioni internazionali.

Esistono, poi, forti preoccupazioni per quanto riguarda i riscatti versati ai pirati, denaro che potrebbe essere utilizzato per finanziare le organizzazioni terroristiche internazionali. Sappiamo per certo che in Somalia già esistono organizzazioni che controllano parte del territorio come Al-Shabaab o Isbul Islam. Controllano alcune città costiere e alcuni porti che erano e rimangono roccaforti dei pirati somali.

Oltre alle possibili connessioni col terrorismo, rintracciare i fondi usati per finanziare gli atti di pirateria, ivi incluso il rintracciamento dei riscatti versati, continua ad essere una componente importante di una più ampia strategia antipirateria. Il Gruppo di contatto sulla pirateria ha più volte discusso della possibilità di adottare misure finanziare per controllare il fenomeno. Per la comunità internazionale seguire i

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flussi di denaro in questo tipo di attività è probabilmente il miglior modo di reagire.

All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dello scorso maggio Antonio Maria Costa, direttore esecutivo dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, ha sottolineato l’esigenza di forti misure antiriciclaggio per rintracciare e congelare i beni dei pirati. Il Gruppo di contatto ha anch’esso affrontato il tema a giugno e con ogni probabilità sarà all’ordine del giorno anche della prossima riunione.

Le difficoltà di ordine giudiziario sono già state affrontate dall’ammiraglio Gemignani per cui non mi ci soffermerò a lungo. Si stima che più di 500 somali sospettati di pirateria siano detenuti in 10 paesi, non solo all’interno della regione stessa. Più di 200 sono stati arrestati e vengono detenuti nel Puntland. Il Gruppo di lavoro di New York ha discusso di come perseguire e detenere i soggetti colpevoli di reati di pirateria, tuttavia non ha trovato una soluzione definitiva.

Sono stati firmati numerosi accordi bilaterali tra i paesi le cui marine stanno operando nell’area. Per facilitare questo aspetto, l’Ue ha anche firmato un accordo con il Kenya e le Seychelles. Lo scorso febbraio il Kenya si è rifiutato di accogliere ulteriori sospetti di pirateria, visto il numero già elevato di detenuti presenti nel proprio paese. L’ONU e la Nato hanno iniziato la ricerca di altri partner che possano dare aiuto nel detenere o perseguire i sospetti di pirateria. Le Nazioni Unite stanno discutendo numerose proposte, ma finora su nessuna è stato raggiunto il consenso degli Stati membri.

Recentemente, il 27 aprile, il Consiglio ONU ha adottato una risoluzione con la quale si accetta una proposta russa che da mandato al Segretario Generale di presentare una relazione entro il prossimo agosto sulle proposte più adeguate da porre all’esame della comunità internazionale. Il Governo francese ha recentemente avanzato una possibile soluzione che permetterebbe la creazione di speciali corti somale sulla pirateria da delocalizzare in paesi della regione con il sostegno internazionale. Si tratterebbe di una sorta di tribunali ibridi. Potrebbe essere una buona soluzione, ma vi sono tutta una serie

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di pro e contro che la comunità internazionale dovrà esaminare a fondo prima che una soluzione del genere possa essere adottata.

Anche l’uso di guardie armate divide la comunità internazionale. Vi sono chiaramente due diverse opinioni in materia, come ci ha spiegato l’ammiraglio Gemignani. Resta una questione che deve essere affrontata a livello internazionale.

Il Gruppo di contatto ha insistito sulle "migliori pratiche di gestione" (BMP). La diffusione delle migliori pratiche in tutto il settore è probabilmente fondamentale. Le pratiche approvate dal Gruppo di contatto si basano sull’esperienza del Regno Unito, dell’Ue, della Nato e dei paesi coinvolti sin dall’inizio in questa operazione internazionale. La misura originaria mirava a promuovere un contatto tra le navi mercantili che transitano nell’area e il centro di coordinamento contro la pirateria.

L’obiettivo era quello di esaminare la minaccia alla sicurezza prima di entrare nell’area di massimo pericolo. Quale esempio di successo e fallimento di questa BMP possiamo guardare alla petroliera russa catturata dai pirati all’inizio di maggio. La petroliera non si era iscritta presso i punti di contatto internazionali, come raccomandato dalla comunità internazionale. Tuttavia, una volta che la nave è stata attaccata, l’equipaggio ha seguito le misure promosse dal gruppo. Si sono chiusi nella sala motori con cibo e acqua. Questo ha permesso alla Marina russa di svolgere un’operazione di soccorso senza danni all’equipaggio, nonostante nel corso dell’operazione stessa vi siano stati dei colpi di arma da fuoco.

Attualmente si stima che nella regione siano 22 le navi nelle mani dei pirati. Più di 400 persone sono state catturate, principalmente nell’area a nord di Haradheere. Quest’area è sotto il controllo di un gruppo che si ritiene essere vicino ad Al-Shabaab, la famigerata milizia che controlla parte della Somalia. A quanto pare queste milizie locali non agiscono contro la pirateria, sebbene questo fosse quanto affermato da uno di questi gruppi al momento in cui prese il controllo dell’aerea costiera. I pirati operano anche nella Somalia meridionale. Probabilmente la regione in cui hanno minor spazio di manovra è il Puntland, dove

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le autorità locali hanno condotto un’efficace campagna contro i pirati.

La pirateria marittima non finirà da sola, dobbiamo agire e rafforzare i nostri strumenti non solo per perseguire i pirati, ma anche per affrontare le cause alla radice della pirateria in Somalia. La recente conferenza sulla Somalia, svoltasi in Turchia, ha segnalato un rinnovato impegno della comunità internazionale ad affrontare il problema. Qualsiasi discussione sulle soluzioni da adottare per risolvere il problema della pirateria dovrebbe coinvolgere il Governo transitorio. Inoltre, dovrebbero essere coinvolti anche gli altri Governi della regione colpiti dalla pirateria e dall’instabilità.

L’Italia, in veste di presidente del G8 nel 2009, ha sottolineato ai paesi della regione e alla comunità internazionale nel suo insieme il rischio di una Somalia destabilizzata. Inoltre, ha evidenziato la necessita di migliorare la sicurezza e di dare sostegno alle autorità locali e alla missione dell’Unione Africana in Somalia. L’Italia è tra i paesi che si stanno facendo promotori, in tutti i consessi multilaterali internazionali, della necessità di dare sostegno alle autorità somale.

Sotto l’aspetto finanziario, poi, abbiamo anche devoluto risorse, tramite le agenzie delle Nazioni Unite e tramite l’Italian-African Peace Facility (il Fondo per la pace in Africa) gestito dall’Unione Africana. L’abbiamo fatto anche tramite le agenzie nazionali e le agenzie delle Nazioni Unite coinvolte in programmi a sostegno dei sistemi di sicurezza nel paese. Alcune nostre forze, come i Carabinieri e la Guardia di finanza, stanno anche studiando programmi più ampi di supporto all’addestramento delle forze di sicurezza somale. La comunità internazionale si trova ora ad un punto di svolta. Con buona probabilità, il periodo a breve termine sta ormai terminando.

L’Ue ha confermato che la missione sarà attiva fino al 2012. Tuttavia, la necessità di adottare nuove misure che affrontino il problema della pirateria a terra è probabilmente il tema più urgente che la comunità internazionale dovrà affrontare. Stiamo passando da una missione a breve termine ad una a medio e lungo termine e c’è quindi il problema della sostenibilità.

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Grazie per la vostra attenzione. Resto a disposizione per eventuali domande.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Apriamo ora la discussione.

Beatriz RODRIGUES-SALMONES, Congresso dei deputati, Spagna. In primo luogo, desidero veramente ringraziarvi per le spiegazioni fornite, estremamente interessanti e ben documentate. Vorrei poi porre alcune domande.

Nel bacino somalo, la Spagna ha una sua consistente flotta di pescherecci. Credo che Francia e Spagna possiedano le flotte da pesca più numerose, che sono integrate nell'operazione Atalanta, anche se non si trovano nel Golfo di Aden o nel Puntland. La differenza è che non si tratta né di transito, né di commercio. Si potrebbe quasi dire che tali flotte stazionino in quella zona, dove restano per mesi e non solo per il tempo necessario al transito. Risulta pertanto più difficile proteggerle. Credo – e i nostri colleghi francesi potrebbero confermarcelo – che poiché la Francia possiede un'importante base militare a Gibuti, le navi da pesca francesi abbiano forze armate a bordo, mentre nel nostro caso non si parla mai di imbarcare dei militari ma degli agenti di sicurezza privata. E questa soluzione, come avete ben ricordato, può porre altri problemi. Vorrei chiedere se, secondo voi, disporre l'imbarco di forze armate, in aggiunta alle navi che partecipano all'operazione, garantisce una sicurezza migliore e da cosa dipende.

Avete peraltro parlato dei rischi di terrorismo e vorrei sapere se esistono attualmente informazioni effettive a riguardo. È, infatti, il terrorismo che può porre maggiormente dei problemi; abbiamo avuto segnalazioni di una presenza di al-Qaida nella zona.

Ministro Marotti, lei ha parlato estensivamente del gruppo di lavoro numero due guidato dalla Danimarca e ha menzionato la possibilità che il governo francese istituisca più di un tribunale sul posto. Il lavoro è indirizzato verso la costituzione

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di un solo tribunale internazionale o la questione non è più all'ordine del giorno?

Infine, lei ha ricordato la nuova operazione guidata dalla Spagna per l'addestramento dei soldati somali in Uganda. I rischi di tale operazione in Somalia sono forse maggiori di quelli in cui si incorre se continuiamo noi a garantire la sicurezza. Grazie.

José LELLO, Assemblea della Repubblica, Portogallo. Devo dire che ho ascoltato con molto interesse entrambe le presentazioni, sia quella dell’ammiraglio che quella del ministro Marotti. Come tutti sapete, il Comando Nato che coordina le attività nell’area si trova a Lisbona. Proprio la scorsa settimana abbiamo ascoltato un’informativa sul tema e ci rendiamo conto che molti dei problemi sollevati in quel contesto sono gli stessi sollevati da voi oggi. Sono ormai chiari. Vi è l’uso delle BMP. Vi è poi la necessità di incrementare gli accordi bilaterali con i paesi della regione per l’accoglimento dei pirati per i procedimenti giudiziari, la creazione di luoghi per i processi e perfino la creazione di tribunali speciali.

A proposito, io credo che le navi dovrebbero pagare un tributo per quelle coste, perché mi pare ingiusto che il costo della loro gestione ricada tutto sulle forze armate nazionali. Ci sono società marittime che trasportano petrolio e ci sono interessi privati. Certamente dovrebbero essere assoggettate al tributo quelle navi mercantili che non stanno rispettando molti degli obblighi che dovrebbero rispettare, ad esempio l’uso del corridoio che avete individuato; e tutti tranne i Cinesi rispettano le regole.

Avete anche parlato della necessità di autorità giudiziarie competenti. Il problema è che siamo davanti ad un vacuum legislativo. I comandanti delle nostre fregate mi hanno spiegato che loro i pirati li catturano, ma poi non sanno cosa farci. Certo i russi hanno sequestrato tutte le radio, tutti i motori e tutto il carburante e poi li hanno lasciati in mezzo all’oceano, abbandonati a se stessi a 1.000 miglia dalla costa. Noi non possiamo fare lo stesso. C’è l’opinione pubblica, la stampa e tutto il resto, i diritti umani e tutte quelle cose lì. Ciò detto, un punto

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mi preme e passerò direttamente a quello. Non parlerò nemmeno della questione dell’uso delle guardie armate.

Quello che il nostro ufficiale della marina ci ha detto è che si dovrebbe andare a terra, distruggere tutti gli equipaggiamenti e le basi in operazioni sotto copertura. Hanno già individuato tutto. Ci arrivano con gli elicotteri, sanno e vedono tutto a terra, sono in grado di contare ogni singola impronta sulla spiaggia. I pirati sono lì che se la godono, con auto di lusso, bevendo alcool e vivendo da milionari in quei paesi. Le fregate e le altre navi hanno gli elicotteri, ma non possono toccarli.

Dobbiamo prepararci a fare qualcosa in quel campo. Non possiamo limitarci ad attraversare gli oceani, spendendo milioni di denaro dei nostri contribuenti, questo è ingiusto per i nostri contribuenti. È ingiusto per gli uomini e le donne della marina che fanno tutto questo con un senso di impotenza. Questo è il punto. Volete commentare? So che sarete lieti di farlo.

Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli. Risponderò prima all'onorevole spagnola riguardo alla protezione della flotta di pescherecci nel bacino somalo. So per certo che vi sono forze armate a bordo delle navi da pesca francesi e mi pare di capire che stiano avendo ottimi risultati. In realtà non ho, invece, una precisa valutazione per quanto riguarda compiti analoghi svolti da personale civile. Tuttavia, per quanto mi è dato sapere, in questo momento stanno entrambi, personale militare e personale civile, avendo un buon successo. Non sono a conoscenza di alcun problema derivante dalle loro azioni, che in genere consistono nello sparare qualche colpo se e quando uno skiff pirata si avvicina ad una delle unità su cui sono imbarcati.

Fino ad ora, a giudicare da quanto ho potuto vedere, entrambi i sistemi, militare e civile, sono molto efficaci nell’evitare gli attacchi. Io non ho riscontrato i problemi che alcuni riferiscono, quali occasionali colpi di arma da fuoco a bordo o problemi causati dalla presenza di armi a bordo. Questa

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quanto meno è la mia esperienza personale, basata su quanto vedo avvenire in questo momento nel bacino somalo.

In merito all’altra domanda relativa alla commistione tra terrorismo e pirateria, in base agli ultimi rapporti che ho avuto modo di leggere, si tratta di un fenomeno sempre più denunciato. Non credo che vi siano prove precise sul fatto che già sia avvenuto. Tuttavia, mi sembra di poter dire, sulla base delle mie riflessioni e di quanto ho ascoltato parlando con la gente, che potenzialmente il rischio cresce col passare del tempo. Su questo non vi è alcun dubbio. È un’ottima occasione per procurarsi denaro in modo piuttosto semplice.

Per quanto riguarda, invece, la domanda dell’onorevole Lello del Portogallo, il problema di andare a terra per fare qualcosa non dovrebbe essere molto difficile da risolvere, ma si tratta innanzitutto di una decisione politica. La seconda parte della risposta che posso darle è che se oggi nelle zone sicure per i pirati possiamo vedere solo skiff, motoscafi e qualche mezzo logistico, in un secondo momento, quando si andrà a terra per fare qualcosa, in prima fila troveremo donne e bambini. Questo è certo, è una storia che i militari conoscono già. In più, io non sono convinto che questo tipo di azioni possano risolvere il problema.

Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia. Ho giusto qualche commento. Per quanto riguarda il primo gruppo di domande, credo che dovremmo tener conto del rischio di escalation. Fino ad ora avere le guardie a bordo, che siano militari o civili, sta avendo successo, ma non possiamo prevedere la reazione dei gruppi di pirati che vorranno superare il problema della presenza di forze armate a bordo. Saranno in grado di essere più aggressivi in seguito o faranno un uso massiccio della forza sulle navi che non hanno personale armato a bordo? Ciò potrebbe essere per ragioni legali o perché non sono preparati. Ma saranno loro a pagare lo scotto delle diverse misure adottate a bordo. Questo è il problema.

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Certamente, all’inizio qualsiasi tipo di personale di sicurezza armato scoraggia i gruppi di pirati, ma potrebbero potenziare le armi utilizzate e la propria tattica. È per questa ragione che la maggior parte dei paesi preferisce investire nell’uso meno costoso di quei meccanismi non letali che vengono utilizzati dal settore marittimo commerciale per evitare gli atti di pirateria. Certamente le navi da pesca sono più esposte in tal senso, perché rimangono più a lungo nell’area.

Insomma, il rischio di avere armi a bordo è un rischio serio e dobbiamo esserne consapevoli. Quali ne sono le conseguenze? Al primo incidente vedremo cosa davvero significa questo rischio. Una guardia di sicurezza può sparare e attaccare pensando di avere davanti dei pirati, mentre magari si tratta di pescatori della regione. E allora chi ne sarà responsabile dal punto di vista legale? Oggi abbiamo mercantili che battono bandiera di un paese, con equipaggi di un altro paese, il capitano di un altro ancora e magari la richiesta di indennizzo che viene da un quarto paese. È una materia delicata, ma stiamo lavorando per cercare di elaborare misure da adottare che al tempo stesso riducano anche questo tipo di rischi.

In merito alla commistione con i gruppi terroristici, questa è una possibilità, ad esempio, con i trafficanti di droga in altre regioni. Laddove c’è denaro, questo può essere usato per diversi scopi. Se il flusso di denaro sta aumentando in Somalia, il rischio che questo denaro possa essere allettante per diversi tipi di organizzazioni è un rischio reale e concreto. Finora non abbiano prove, ma dobbiamo certamente prevenire la potenziale fusione della pirateria con organizzazioni terroristiche.

Per quanto riguarda la seconda domanda, è vero che molte compagnie, soprattutto quelle più piccole, non seguono le migliori pratiche che sono state individuate quali misure meno costose. Sono misure non letali. Ci sono statistiche che dimostrano che le navi che fanno uso di queste misure sono meno esposte agli attacchi. I paesi e il settore privato dovrebbero lavorare affinché si possano, in un certo modo, imporre quelle misure per ridurre i costi delle operazioni militari internazionali.

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Attaccare i gruppi di pirati a terra è storicamente l’unico metodo per eliminare la pirateria. Tuttavia, la complessità della materia sta nella confusione tra un’operazione militare e una di polizia. Quando si usano le forze armate per operazioni di polizia la legittimità è a rischio. L’uso di forze armate per un’operazione di polizia è un rischio politico. Il rischio è quello di imbarcarsi in un’operazione che a livello mondiale viene vista come non legittima, con danni collaterali e il coinvolgimento di civili che rischiano di sortire l’effetto opposto. È questa probabilmente la considerazione da fare.

José LELLO, Assemblea della Repubblica, Portogallo. Chiedo scusa. Non ho fotografie e non ci sono edifici intorno. Ho solo fotografie di skiff, nessun edificio. Effettivamente il problema della legittimità è emerso. Il fatto di essere stati attaccati, però, è la dimostrazione che le forze dell’ordine usano le armi contro i criminali. Se restiamo fermi così, la nostra sarà la morale dei monaci: sii pacifista, soffri e guarda senza fare nulla. Chiedo scusa, non sono un falco, tuttavia guardo alla questione in maniera molto ragionevole.

Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia. Stavo semplicemente sottolineando gli aspetti politici e legali che dobbiamo esaminare prima di prendere una qualsiasi decisione. Quando si impiegano forze armate per operazioni di polizia, possono emergere dubbi di legittimità nei vostri stessi paesi e a livello internazionale. L’operazione può essere efficace e da questo punto di vista avere successo, ma non si possono non tenere in conto le conseguenze. Le conseguenze politiche e le conseguenze legali possono essere più costose del vantaggio di eliminare una base. Inoltre, la pirateria si muove molto e vi è un’offerta crescente di equipaggi per la pirateria. Quando si bonifica una zona, li si deve poi seguire altrove. Se lo si fa senza una legittimità nazionale ed internazionale, il rischio per quelle operazioni, a mio parere, rimane.

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Raynell ANDREYCHUK, Senato, Canada. Credo che l’onorevole Lello ed io dopo questa riunione potremmo aprire un dibattito sul tema. Vorrei ricordare all’onorevole Lello che noi a terra in Somalia ci siamo andati. L’abbiamo fatto con perizia tecnica e sotto l’egida delle Nazioni Unite e non abbiamo avuto successo. Cosa ci fa pensare che avremmo successo ora? Abbiamo inviato operazioni ONU e abbiamo perso vite umane. E siamo anche stati parte del problema.

Sono stato ambasciatore in Somalia per quattro anni e così ho un debole per quel paese e per la sua gente, ma capisco anche la realtà di quel paese. A me sembra che quello che stiamo cercando di fare sul versante giuridico è fare in modo che le nostre reazioni siano eque, in modo da poter superare il banco di prova della politica e della comunità internazionale. Ciò detto, come deterrente non funziona minimamente. Capisco che nello Stretto di Malacca avevamo a che fare con Stati che rispondono ad un’opinione pubblica. Ma qui non abbiamo a che fare con uno stato o dei raggruppamenti che rispondono ad una quale che sia opinione pubblica. Non è la deterrenza la questione al momento. Il quadro giuridico ci permette di sapere come reagire da un punto di vista commerciale e giudiziario.

La maggior parte dei giovani somali dice, quanto meno a me, che non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare; e allora perché non provare? Ciò che mi preoccupa, tuttavia, è che, fintanto che quello Stato non avrà un governo, non riusciremo in alcun modo a ridurre il fenomeno. Sono ottimista e credo che prima o poi ci riusciremo, ma la situazione dura da più di vent’anni e i giovani sono cresciuti in una società in preda all’anarchia. Non conoscono altro che questo.

Quanto è avvenuto negli ultimi anni è duplice. I paesi limitrofi non riescono a sostenere tutta questa responsabilità e così guardano alla comunità internazionale. In secondo luogo, i pirati, se vogliamo chiamarli così, stanno ottenendo aiuti dall’esterno. Si potrebbe vederla così – e di nuovo io qui ho un punto debole per il Puntland, perché il Canada ha un rapporto con il capo di quella regione – ma sarebbe possibile contenere il fenomeno se una delle regioni lo volesse. Il fatto è che i pirati stanno ottenendo aiuti dall’esterno. Stanno ottenendo aiuto

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tecnico, stanno ottenendo fondi e stanno ottenendo anche le organizzazioni criminali. Tutto ciò è noto. Quei gruppi vengono da stati che dovrebbero rispondere davanti alla comunità internazionale e questo non lo avete detto. L’altro aspetto è il crescente disagio in Yemen. Ma di questo non avete parlato, per cui gradirei sentire un vostro commento su questo apetto della questione.

Michael CLAPHAM, Camera dei Comuni, Regno Unito. Desidero ringraziare i due relatori per le loro interessantissime presentazioni. La mia prima domanda è per l’ammiraglio. Dato l’enorme costo di tenere una nave in mare, si è esaminata la possibilità di usare velivoli teleguidati? I droni possono chiaramente trascorrere molto più tempo in volo e possono coprire distanze decisamente maggiori. Sono d’accordo con quanto detto dal Canada. A me sembra che ora dovremmo creare opportunità alternative. La maggior parte degli arrestati, come ha sottolineato l’ammiraglio, sono minorenni e i minorenni sono stati usati. Dobbiamo cercare soluzioni alternative. A me sembra che le soluzioni alternative, lavorando insieme al Governo somalo di transizione, siano di creare altre opportunità con cui questi giovani possano guadagnarsi da vivere.

La mia seconda domanda si riferisce al modo concreto in cui le conoscenze possono essere trasferite dalla pirateria al terrorismo. Il Mediterraneo è ormai diventato una rotta per un elevato traffico di risorse energetiche. Vediamo che oggi molto del gas di petrolio liquefatto viaggia lungo le stesse rotte delle petroliere. Considerato ciò, ammiraglio, potrebbe parlarci un po’ di quanto sta facendo l’Italia per garantire di essere preparata a reagire laddove ci fosse la cattura di una di queste navi da parte dei terroristi nel Mediterraneo?

Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate(COM MC), Napoli. Sono d’accordo con l’onorevole canadese Andreychuk, fintanto che non avremo un vero e proprio stato in Somalia non avremo grandi possibilità di risolvere il problema. Sono d’accordo con lei

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quando dice che evidentemente ci sono paesi che aiutano questo fenomeno ad andare avanti.

Mi domando spesso dove stia andando tutto questo denaro. Credo che non dovrebbe essere troppo difficile scoprire dove stia andando questa grande quantità di denaro una volta, ad esempio, che vengono pagati i riscatti. Questo tipo di attività gode anche del coinvolgimento dello Yemen, in termini di supporto logistico. Sono piuttosto sicuro che alcuni servizi di intelligence nel mondo sappiano molto meglio di me quale sia la reale situazione. È solo la mia opinione personale, una mia idea. Non ho soluzioni reali per questo.

Tornando al rappresentante del Regno Unito, sono d’accordo con lei che un velivolo teleguidato potrebbe essere piuttosto efficace e consentirebbe di risparmiare denaro. Il punto è che la Nato sta ancora discutendo della possibilità di dispiegare un NAEW1 a supporto dell’operazione antipirateria nel bacino somalo. Insomma, se dopo un anno di discussioni, i NAEW sono ancora nella loro base in Germania, che parliamo a fare di velivoli teleguidati? Sembrerebbe proprio che, quanto meno a quel livello, non abbiamo grandi possibilità in quest’area.

Parlerò dell’altra questione relativa al possibile rapporto tra pirateria e terrorismo, il coinvolgimento del Mediterraneo vista la sua prossimità, etc. Come certamente saprete, nel Mediterraneo l’operazione antiterrorismo Nato Active Endeavour è in corso dal 2001 proprio per scoraggiare o aiutare a scoraggiare il terrorismo. Stiamo lavorando duramente per ottenere i migliori risultati possibili. Non sono sicuro che la mia risposta soddisfi a pieno la sua domanda, ma questo è quanto di meglio la Nato stia facendo nel Mediterraneo, proprio per affrontare questo tipo di rischio.

Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia. Aggiungerò giusto qualche commento. Certamente la pirateria come minaccia sta evolvendo e sono tante le complessità che la circondano. Ma

1 NATO AIR EARLY WARNING - Preallarme aereo Nato

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anche la risposta della comunità internazionale ha fatto registrare un’evoluzione. Certi accordi ed intese concernenti i mezzi di reazione militare sono stati attuati solo da alcuni paesi, ma con il sostegno di quei governi che condividono l’interesse e che, però, non hanno le stesse risorse.

Nel passare da una reazione a breve termine ad una a medio termine, certamente dovremo dedicare attenzione all’aspetto del denaro. Dovremo stabilire come rintracciare il denaro, come cercare di fermare o contenere il fenomeno e come attuare simili misure. Ciò probabilmente comporterà la cooperazione a livello di un numero limitato di paesi che hanno a tutt’oggi sviluppato meccanismi per rintracciare il denaro e contenere le organizzazioni criminali internazionali. Non è materia per le Nazioni Unite; è più un qualcosa di cui si dovranno occupare un certo numero di paesi. Questi paesi stanno esaminando come poter contenere, con i loro strumenti e mezzi, la pirateria e i legami finanziari tra pirateria e gruppi terroristici.

A giugno il Gruppo di contatto ha affrontato formalmente la questione, mentre alcuni paesi l’avevano evidenziata già sei mesi prima. Sono in corso contatti tra agenzie governative su come applicare gli strumenti che abbiamo oggi per controllare il flusso di denaro, anche se il contante piovuto dal cielo viene poi utilizzato direttamente, senza banche né intermediari. Ci sono, comunque, strumenti a disposizione e persone che ci stanno lavorando.

Sergio De GREGORIO, Presidente della Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare Nato. Grazie, Presidente. Vorrei intanto ringraziare l’ammiraglio Gemignani e il ministro Marotti per la loro esposizione così puntuale e anche per aver aperto con tanta dovizia di particolari questo confronto.

Cinquanta paesi coinvolti, decine di navi che pattugliano quei mari, dieci organizzazioni internazionali impegnate. Non era mai accaduto che tante forze si mobilitassero anche fuori dalla cornice degli accordi di cui avete parlato come nel caso della Cina, del mondo arabo, dell’India. E tuttavia, a parte il risultato di aver individuato un corridoio di sicurezza all’interno del quale

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le navi commerciali si stanno muovendo con maggiore vantaggio per la loro incolumità, gli attacchi si moltiplicano per centinaia di volte, i pirati appaiono molto meglio armati, molto meglio equipaggiati, molto meglio organizzati e cominciano anche a creare dei disastri che vanno fuori dall’ordine naturale del danno al traffico commerciale.

Per esempio il Kenya e le Seychelles denunciano una grandissima crisi legata al fatto che la pirateria impedisce dei flussi turistici anche molto importanti dal punto di vista economico, perché il flusso delle imbarcazioni da diporto che spesso costeggiava quei paesi è letteralmente scomparso e cominciano ad esserci problemi – per esempio alle Seychelles – anche per i gruppi di turisti organizzati che vogliono visitare le isole dell’arcipelago. Quindi il danno si estende.

Avete parlato del rischio di escalation (e questo mi sembra evidente dai numeri), del rischio contagio perché un’attività economica così redditizia e così semplice dal punto di vista dell’organizzazione anche artigianale, crea sicuramente le condizioni del contagio. Avete poi parlato di un quadro giuridico incerto: ed ecco perché il mio collega Lello ha denunciato lo sconforto e l'impotenza della comunità internazionale. Perché quando catturiamo i pirati, li rimandiamo a casa senza grandi danni, poiché, anche quando sono maggiorenni, non c’è il quadro giuridico per trattenerli; quindi li fermiamo e li rilasciamo.

In più si affaccia il pericolo terroristico. Ora, voi avete sostenuto di non avere delle certezze ma almeno per quello che mi riguarda ho letto diverse relazioni dei servizi di intelligence che denunciano l’impiego delle risorse della pirateria per finanziare attività terroristiche. Si comincia a citare Al Qaida che non credo in quell’area sia così indifferente all’utilizzo di risorse e soprattutto all’arruolamento di tante forze organizzate militarmente che potrebbero rappresentare una punta avanzata dell’espansione di Al Qaida, che è già molto presente in Africa.

Ebbene: bisognerà prima o poi – mi domando e vi domando – darsi una deadline per stroncare questo fenomeno che sta impegnando tante risorse della collettività? Dico anche sul piano giuridico, la lancio come provocazione: considerare i pirati

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alla stregua di terroristi (e i danni che fanno sono di quella natura) non determinerebbe l’applicabilità di un quadro giuridico di maggiore forza e, scavalcando alcuni limiti, di maggiore prudenza rispetto all’azione della comunità internazionale? Cioè cambiare la denominazione, arrivare al cuore di un problema che sta diventando un problema di attentato alla sicurezza dei nostri paesi democratici e non soltanto dei nostri paesi, ma del mondo intero.

Lancio questa provocazione perché se forse riuscissimo a configurare giuridicamente questa ipotesi, probabilmente ci sarebbero anche le soluzioni di emergenza.

Dal punto di vista personale, penso che se intendessimo darci questa deadline, probabilmente potremmo usare i droni, le forze speciali e chissà quant’altro per stroncare un fenomeno che oggi appare ancora arrestabile. Non vorrei che domani non lo fosse più. Grazie.

Arturo Mario Luigi PARISI, Camera dei deputati, Italia. Se non ho capito male dalle ricche introduzioni e dalle puntuali repliche, i due relatori hanno rafforzato la tesi che a mio parere giustamente definisce il fenomeno della pirateria moderna come un fenomeno terrestre prima ancora che marittimo, anche se nell’apparenza si propone come una minaccia marittima.

È perciò da affrontare in terra prima che in mare, da affrontare con mezzi diversi da quelli militari piuttosto che e innanzitutto con mezzi militari.

E tuttavia, mi è sorto un interrogativo sulla natura del fatto col quale ci confrontiamo: perché il fatto potrebbe essere – e l’ho sentito definito – da un lato, come un fenomeno oggettivo, quasi un fenomeno sociale che viene prodotto proprio dalla crisi e dall’esplosione di patologie che sono connesse con la crisi degli stati che a terra rappresentano la controparte di questa patologia marittima. Dall’altro, come un fatto organizzato: perché qui noi abbiamo visto che è riconducibile alla categoria non dei fenomeni sociali, delle patologie sociali, ma della criminalità organizzata.

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Voglio fare riferimento a due parole che sono intervenute nelle analisi. Una: navi madri e l’altra: conti bancari. È evidente che le navi madri e i conti bancari sono una cosa diversa dai barchini dei giovani disperati e inevitabilmente devono essere affrontate con tecniche diverse. Anche nel nostro paese, nel nostro ambito di osservazione, sappiamo che da un lato c’è la piccola criminalità o anche il banditismo e dall’altro la criminalità organizzata. I due ambiti sono da affrontare in termini completamente diversi.

Vorrei capire quanto, dentro questo contenitore che noi chiamiamo il fenomeno della pirateria moderna, incida la forma organizzata della criminalità e quanto inversamente, la fenomenologia sociale che fa capo a iniziative frammentate. Può essere d'aiuto, a tal riguardo, considerare il raggio d'azione dei barchini (centinaia di miglia dalla terraferma e talvolta anche migliaia). Dobbiamo affrontare il problema in termini diversi da quelli che avremmo affrontato se avessimo considerato i barchini come dei gatti inselvatichiti.

Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia. La prima risposta è per il senatore De Gregorio. La questione principale per come la comunità internazionale sta affrontando la pirateria, dal punto di vista giuridico, è il consenso. Non c’è un’armonizzazione degli strumenti giuridici nella comunità internazionale tale da avere un unico insieme di risposte giuridiche. La differenza tra intervento militare e attività di polizia è una delle due questioni che dovremo affrontare.

Il lavoro intrapreso fino ad ora non ha permesso di raggiungere un consenso nemmeno in termini negativi, in termini di cosa non fare. Questo perché ci sono ancora paesi che sostengono l’idea di un tribunale internazionale ed altri che non la ritengono una soluzione possibile. Chi sono gli attori dal punto di vista giuridico? Sono gli Stati, le forze armate, una nuova organizzazione? Quale tribunale ha diritto di intervenire? Vi sono poi soluzioni originali come quella che ho citato, proposta dalla Francia, di un tribunale somalo in un altro paese. C’è anche la

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questione della legge di quale paese dovranno applicare, la legge somala o un codice internazionale?

Al momento, con l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza, l’impegno è quello di fare ordine tra le numerose idee discusse fino ad ora. Il Segretario Generale produrrà un rapporto che probabilmente individuerà le opzioni che in questo senso potrebbero essere praticabili. La questione sta nel modo in cui i paesi vogliono realmente affrontare il problema. A livello internazionale un consenso è indispensabile per introdurre modifiche al diritto internazionale e al diritto consuetudinario che regolamentano l’intera questione. Purtroppo siamo ancora lontani da ciò, sebbene questo stia diventando l’aspetto più urgente, tenuto conto che l’attività antipirateria sta già diventando una missione a medio e lungo termine.

Come dicevo, cos’è il fenomeno della pirateria? C’è il legame tra organizzazioni criminali e attività illecite. Abbiamo visto qualcosa di simile in Afghanistan, con il problema della droga. Non abbiamo trovato una risposta a tutto. Sappiamo che c’è la grande organizzazione del crimine che opera in un ambiente sicuro e c’è la manodopera, ossia i semplici agricoltori in Afghanistan o i semplici ex pescatori in Somalia. Non possiamo applicare gli stessi mezzi, gli stessi strumenti, le stesse misure ad entrambi. Questo è il dilemma che ci troviamo davanti oggi.

Dobbiamo sviluppare nuovi mezzi per attaccare le organizzazioni che utilizzano la manodopera che, a volte, ha sostenuto di avere ragioni legittime per attaccare le navi straniere. Questo perché le acque marine della Somalia sono state distrutte dall’inquinamento, dall’intervento straniero, dalla mancanza di un controllo statale. Si sostiene che, dal punto di vista sociale, la pirateria sia la risposta alla povertà. Ora la comunità internazionale deve rispondere, con la marina militare o con un intervento - cosa chiaramente non fattibile. Probabilmente quello che dovremmo fare è predisporre due livelli di azione per affrontare le organizzazioni con tutti gli strumenti che riusciremo a mobilitare. Dovremmo, invece, usare il capacity-building, lo sviluppo e le risorse per affrontare la questione della manodopera. Credo che questa sia la direzione in cui vuole

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muoversi ora la comunità internazionale. Spero di aver risposto alla sua domanda.

Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli. Giusto un’altra parola per il senatore De Gregorio circa la possibilità di considerare i pirati terroristi. A me sembra che il diritto internazionale già preveda tutto ciò di cui i paesi hanno bisogno per combattere insieme la pirateria. Parlerei piuttosto della volontà politica dei paesi. Se è vero che alcuni paesi fanno di più, è anche vero che altri non vogliono avere a che fare con processi di pirateria, detenzione di pirati, etc. Questo è il vero punto. Se cambiassimo da pirati a terroristi, non sono comunque convinto che riusciremmo a risolvere il problema. Ci troveremmo nella stessa situazione. Questa è la mia personale opinione

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie. Desidero ringraziare tutti gli intervenuti per il prezioso contributo che hanno dato al dibattito.

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TERZA SESSIONE

L'interdipendenza energetica nel Mediterraneo: l'uso a fini civili dell'energia nucleare.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Oggi inizieremo il nostro Seminario con una discussione sull’interdipendenza energetica nella regione mediterranea.

Ho il piacere di presentarvi il nostro relatore: Lorenzo Trombetta. È un esperto di questioni siro-libanesi, nonché corrispondente da Beirut per l’agenzia di stampa italiana ANSA. Attualmente è anche corrispondente per la rivista italiana di geopolitica Limes e consulente per le questioni mediorientali presso Il Saggiatore. In precedenza ha lavorato presso l’agenzia di stampa italiana Adnkronos e ha tenuto conferenze su questioni mediorientali in diverse università.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Grazie, signor Presidente. Desidero innanzitutto ringraziare gli organizzatori per avermi esteso l’invito ad intervenire nei lavori di oggi. Mi esprimerò in italiano. Come mi è stato richiesto, cercherò di sviluppare gli aspetti politici dell’uso civile del nucleare nel Mediterraneo.

Mi sono permesso di allargare il nostro sguardo odierno anche alla regione mediorientale nel senso più ampio, includendo quindi anche l’area del Golfo che credo sia strategicamente un’area importante e connessa a quella mediterranea.

Oltre a concentrarmi sugli aspetti politici sarebbe poi interessante, durante il dibattito, considerare assieme a voi anche quelle variabili storiche ed economiche che possono influire sulla scelta dei vari stati "aspiranti nucleari" - come li chiamerò - e ovviamente sull’agenda politica anche dei paesi sponsor del nucleare civile.

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Ogni volta che mi riferirò all’uso dell’energia nucleare, in questa descrizione mi riferirò all’uso dell’energia nucleare per espliciti e dichiarati scopi civili.

Le domande cui tenterò di dare risposta sono due: innanzitutto, quali sono le ragioni dichiarate e implicite che spingono alcuni stati aspiranti nucleari a ricercare questa controversa fonte di energia? Controversa perché, come sappiamo, l’attualità dimostra che ogni volta che un paese dichiara o annuncia di voler dotare la propria economia e la propria infrastruttura di questa energia, si crea un allarme.

La seconda domanda importante alla quale bisogna cercare di dare una risposta è la seguente: quali sono le ragioni alla base delle scelte operate da alcune potenze internazionali (e qui parliamo di sponsor) nel favorire certi e non altri paesi aspiranti nucleari?

Il terzo e ultimo punto cui accennerò riguarda le difficoltà politiche regionali e gli ostacoli infrastrutturali interni ai paesi aspiranti nucleari, ostacoli e difficoltà regionali che, come vedremo, rallentano e rallenteranno i programmi annunciati di ciascun paese.

Per far ciò non possiamo non tener conto degli aspetti politici, del contesto geografico e anche della storia degli equilibri tra questi paesi. Molti di voi appartengono a paesi di cui citerò le agende politiche, quindi vi invito a correggere, a criticare o ad aggiungere visioni del vostro paese a quello che cercherò di analizzare e spero appunto che tutti questi aspetti potranno essere discussi durante il dibattito.

Negli ultimi dieci anni ma in particolare negli ultimi tre o quatto anni, quindi a partire dal 2006-2007, i paesi della sponda sud e sudorientale del Mediterraneo e quelli del Golfo hanno annunciato di voler avviare programmi per lo sviluppo di energia nucleare a scopi civili.

Come vediamo da questa semplice cartina (immagine 5), nel corso di tre - quattro anni c’è stata una vera e propria corsa all’annuncio di volersi dotare di energia nucleare. Ma solo un annuncio, perché fino ad adesso gran parte dei paesi che vediamo

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indicati con le rispettive date di annuncio ufficiale non hanno portato avanti di fatto la loro politica o sono comunque ancora alla fase embrionale, alla fase di studio.

immagine 5

Questi paesi hanno espresso in diversi momenti il loro desiderio di approdare al nucleare civile per far fronte al sempre crescente bisogno di energia elettrica e per diversificare le fonti di energia da usare negli impianti di desalinizzazione.

Ciò che riassumo in questa slide (immagine 6) sono le ragioni esplicite dichiarate con cui i differenti paesi motivano all’esterno, alla pubblica opinione internazionale, agli sponsor ma anche all’opinione pubblica interna, le ragioni per cui vogliono il nucleare.

immagine 6

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Come è noto, gran parte dei paesi mediorientali si trovano ad affrontare – salvo alcune eccezioni – un graduale impoverimento delle loro tradizionali risorse energetiche: petrolio e gas – anche nei paesi in cui queste risorse sono molto abbondanti – sono risorse considerate più redditizie se riservate all’esportazione che non all’uso domestico, all’uso industriale ed è quindi bene conservarle.

Vi è così il bisogno di cercare altre fonti alternative, quindi l’energia nucleare, per far fronte al fabbisogno di energia elettrica, anche perché le popolazioni stanno aumentando. Non è il caso dei paesi del Golfo ma è il caso dei paesi di tutta l’area mediorientale. Oltre all’aumento delle popolazioni va aggiunto anche il fatto che sempre nell’area mediorientale e, in particolare, in quello che possiamo definire il Vicino Oriente, i paesi come la Giordania in primo luogo ma anche la Siria, l’Iraq, per non parlare dei Territori palestinesi e di Israele, soffrono di una sempre maggiore carenza di acqua dolce. Quindi hanno bisogno anche di impianti di desalinizzazione, ed è questa una delle ragioni esplicite con cui i paesi mediorientali dell’area sud del Mediterraneo chiedono l’accesso al nucleare.

Si aggiunga inoltre la volontà dichiarata, ma non confermata, di voler contribuire al rallentamento del processo di riscaldamento globale del pianeta. Dunque c’è anche un fattore ecologista nelle motivazioni di questi paesi.

Per dimostrare come questi paesi hanno preferito adottare tali dichiarazioni esplicite, ho raccolto negli ultimi mesi alcune dichiarazioni, le più recenti rese dai vari rappresentanti dei paesi di cui parliamo oggi per confermare questo interesse.

Il ministro delle infrastrutture israeliano Uzi Landau, nella recente conferenza che si è tenuta a Parigi sul nucleare civile, ha proprio espresso il desiderio del proprio paese di usare un’energia che sia pulita per l’ambiente perché il paese non può più dipendere dal carbone che è altamente inquinante.

Quanto allo storico nemico di Israele, la Siria, in un’intervista apparsa su “La Repubblica” il 24 maggio scorso e in una dichiarazione alla stampa rilasciata sempre durante la conferenza di Parigi in marzo scorso, rispettivamente il

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presidente della Repubblica Bashar Al-Assad e il viceministro Faysal Mekdad, hanno affermato entrambi di voler dotare il loro paese di energia nucleare a scopi civili per far fronte al fabbisogno di elettricità.

Dalla Siria passiamo alla Libia, dove due mesi prima della conferenza di Parigi, il presidente della Società Nazionale per l’Energia Nucleare Ali Al-Fashut aveva annunciato analoghe decisioni: il nucleare civile per produrre energia elettrica e purificare l’acqua (desalinizzazione).

Quattro anni fa anche il presidente egiziano Muhammad Hosni Mubarak si era espresso in tal senso. L’Egitto, come abbiamo visto nella cartina, è stato uno dei paesi che ha annunciato per primo la volontà di dotarsi del nucleare civile.

Il presidente Mubarak ha detto nel settembre 2006: “Riavvieremo il nostro programma nucleare” (in passato l’Egitto già aveva tentato questa strada per far fronte ai crescenti bisogni di energia elettrica del paese). Qualche mese prima, il ministro dell’energia egiziano Hassan Yunis aveva affermato che il programma nucleare del suo paese è per scopi pacifici come l’industria, l’agricoltura e la medicina.

Passiamo però alle ragioni implicite non dichiarate che stanno dietro la scelta di questi paesi. Accanto alla necessità di trovare altre fonti energetiche per far fronte ai fabbisogni crescenti di consumo e alla salvaguardia ambientale, questi paesi vedono nell’avvio di programmi per il nucleare a scopi civili un modo per rilanciare o potenziare il loro ruolo politico nelle rispettive sfere geografiche.

Tali dichiarazioni, come sappiamo, creano però allarme. Come dimostra la cronaca degli ultimi anni, assicurare di voler usare il nucleare a scopi pacifici non è sufficiente a tranquillizzare i paesi vicini, le potenze regionali e internazionali interessati a rimanere arbitri dello status quo.

Tali annunci diventano dunque una delle principali fonti di tensione politica nonostante alcuni dei paesi coinvolti come per esempio la Turchia e la Siria, continuino a dichiarare di voler un Medio Oriente libero dalle armi di distruzioni di massa.

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Nel caso dei paesi che non si mostrano sempre accondiscendenti con la politica degli Stati Uniti, il ricorso al nucleare civile mette in allarme Washington e i suoi alleati. Questo programma potrebbe infatti consentire al paese che se ne dota di alterare gli equilibri della regione in una regione dove già ci sono altri attori dotati di arsenali nucleari. E qui è il caso lampante dell’Iran - che non fa parte oggi del nostro discorso perché è fuori dall’area di cui ci interessiamo - ma che certo non possiamo ignorare.

L’Iran è un caso evidente perché la dichiarazione per scopi pacifici è stata ribadita più volte sia da Teheran che dai suoi alleati. Eppure, la presenza non confermata di armi nucleari in Iran preoccupa principalmente Israele e, in secondo luogo, l’alleato di Israele, gli Stati Uniti.

Un tale programma potrebbe invece consentire al paese in questione addirittura di primeggiare nella regione in caso non vi fosse nessun’altra potenza nucleare. E’ questo è il caso per esempio della Libia nel Nord Africa, in una regione dove attualmente non primeggia nessuna potenza nucleare. Come poi vedremo, la Libia è una delle candidate tra parecchi decenni a potersi dotare di questa energia.

Vi è poi il caso dei paesi “amici” degli Stati Uniti e desiderosi di dotarsi di una propria fonte di energia atomica per scopi civili come la Giordania e gli Emirati Arabi Uniti, solo per citare i casi più recenti. Le loro politiche filoamericane non sono in dubbio. Sono due forti alleati di Washington, ma la loro prossimità geografica con altri Stati considerati invece “nemici” o “instabili” (come gli attuali Iraq e Iran) preoccupa le potenze nucleari di riferimento. I programmi dichiarati da parte di paesi cosiddetti alleati degli Stati Uniti rendono dunque gli sponsor occidentali più prudenti nel dirsi favorevoli all’avvio di progetti nucleari.

Ho scelto il caso della Giordania: qui l’ho riassunto in una grafica molto semplice (immagine 7), perché la prossimità e la vicinanza della Giordania all’Iraq e alla Siria ha già alimentato le preoccupazioni sia degli Stati Uniti sia, implicitamente, di

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Israele che cerca, come vedremo, di attirare invece la Giordania in un proprio progetto nucleare accanto allo sponsor francese.

La stessa vicinanza degli Emirati Arabi Uniti aspiranti nucleari all’Iran ha già provocato il timore di alcuni membri repubblicani del Congresso statunitense che hanno chiesto alla Casa Bianca di porre dei freni e delle condizioni al programma emiratino, affinché si inserisca una clausola negli accordi bilaterali in materia nucleare per il divieto di esportazione di materiale radioattivo fuori dai confini nazionali.

immagine 7

Su tutto emerge un dato importante: fino ad ora, oltre all’annuncio di volersi avviare verso l’uso dell’energia nucleare a scopi pacifici, nessuno di questi paesi ha compiuto passi significativi. Nella migliore delle ipotesi si è passati dalle parole ai fatti, incaricando società straniere, australiane, canadesi, britanniche, americane, russe, cinesi, anche coreane del nord, di valutare le possibilità, i costi e le difficoltà dei diversi progetti.

Nel corso di questi ultimi anni, quattro potenze internazionali si sono distinte come principali sponsor del nucleare civile nel Mediterraneo e nel Golfo: gli Stati Uniti e la Francia, in primo luogo. In misura minore la Federazione Russa e la Cina. Sono quattro dei cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU e sono anche quattro dei cinque Nuclear Weapon States indicati nel trattato di non proliferazione nucleare (NPT).

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Ciascuno di questi attori agisce secondo una propria agenda ben precisa. Le aree di influenza dei vari sponsor non sono, almeno per il momento, delimitate in maniera netta e le loro azioni spesso si sovrappongono. Anche perché la situazione è ancora molto fluida e allo stato embrionale.

Un dato è certo: tra il paese che aspira al nucleare e lo sponsor si stabilisce comunque un rapporto di dipendenza politica molto stretto. Un tipo di rapporto che a molti osservatori locali, per esempio all’opinione pubblica araba, ha ricordato il disequilibrio nelle relazioni di epoca coloniale: “Io ti porto la civiltà nucleare, tu la userai solo se rientra nei miei disegni e per salvaguardare i miei interessi”. Questo è quanto si legge spesso anche sulla stampa araba quando appunto i propri ministri e i propri rappresentanti politici dichiarano di voler cooperare con uno sponsor nucleare che politicamente è considerato non vicino.

immagine 8

Come indica questa slide (immagine 8), ho cercato di riassumere questa situazione estremamente fluida sia mantenendo le date di annuncio ufficiale dei vari paesi per il loro progetto nucleare, sia indicando i paesi sponsor. Come vediamo, sulla Giordania si affollano tutti e quattro gli sponsor segnalati, così come anche in Algeria.

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Gli Stati Uniti sono attivi negli Emirati Arabi Uniti, hanno firmato un memorandum d’intesa nel 2008; nel 2009 hanno poi firmato un accordo, come vi dicevo, per evitare l’esportazione di materiale radioattivo fuori dagli Emirati Arabi Uniti.

Gli USA sono attivi anche in Giordania: hanno firmato un memorandum d’intesa nel 2007 e un accordo nel 2008. Nel 2006 c’è stato un accordo tra gli Stati Uniti e la Turchia.

Con l’Algeria, sono stati presi dei contatti nel 2007; con la Libia sono stati presi altri contatti nel 2009. La Libia, ricordiamolo, per numerosi anni è stata uno dei nemici principali della politica americana nel Mediterraneo e come sappiamo, da qualche anno è invece entrata nel “club dei paesi amici”.

Infine, gli Stati Uniti sono ovviamente presenti con i loro alleati regionali, l’Egitto e la Giordania, due attori chiave per contenere il fronte arabo antisraeliano, e con la Turchia, membro della Nato e forte alleato degli Stati Uniti.

Fornire la tecnologia e l’energia nucleare agli Emirati Arabi Uniti e alla Turchia, due partner fondamentali nell’opera di contenimento dell’Iran, è una mossa di Washington dal chiaro significato politico. Analogamente, potenziare il programma nucleare civile della Giordania, significa ridurre il rischio di instabilità di uno dei tre paesi confinanti con Israele e, quindi, assicurarsi un attore chiave in una regione estremamente pericolosa nell’ottica degli Stati Uniti.

Le aperture all’Algeria possono essere lette nell’ottica di cercare di espandersi verso nuove regioni come il Nord Africa. Quel che è certo è che gli Stati Uniti, nell’ambito del NPT, sostengono i progetti dei paesi in via di sviluppo in cambio di garanzie che questi non cercheranno di fabbricare la bomba atomica.

Il 16 gennaio 2009, come una delle ultime mosse diplomatiche dell’amministrazione Bush, gli Stati Uniti hanno inoltre varato l’Atomic Energy Act, legge che stabilisce tra l’altro una struttura legale per il commercio all’estero di materiale e tecnologie per l’energia nucleare civile.

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Su questo terreno, Washington deve però competere con il rilancio della politica estera di Parigi, che ha individuato proprio nella proliferazione del nucleare civile una chiave per consolidare la sua posizione nelle regioni di sua tradizionale competenza: il Nord Africa. Ma anche per aprirsi verso il Medio Oriente e il Golfo.

In questo quadro si inserisce la già menzionata conferenza per il nucleare civile, svoltasi nella capitale francese lo scorso marzo e alla quale hanno partecipato tutti i rappresentanti dei paesi del Mediterraneo e del Golfo oltre a quelli delle aziende leader transalpine, interessate allo sfruttamento di questa risorsa e a quella delle organizzazioni internazionali del settore.

La politica inaugurata dal presidente Nicolas Sarkozy nel maggio 2007, nota come “la filiera francese dell’atomo”, ha destato preoccupazione anche presso l’Agenzia dell’Energia Atomica, l’AIEA, tanto che l’ex direttore generale Mohammed El Baradei ha affermato che “gli sforzi aggressivi della Francia tesi a fornire tecnologia nucleare possono porre dei rischi di proliferazione”.

La Francia – come s’è visto - è presente in Giordania. Ha firmato un memorandum nel 2007. La società AREVA francese ha firmato poi un accordo per studiare la possibilità di costruire un reattore nucleare nei primi mesi del 2010. Con l’Egitto la Francia ha preso contatti sin dal 2007, la società francese AREVA ha partecipato alla gara per la costruzione di un reattore e, anche in questo caso, è stato siglato un accordo con gli Emirati Arabi Uniti nel 2008 e con la Libia nel 2007. La società francese ha firmato un accordo con il Marocco nel 2007 per uno studio di fattibilità. Sono stati presi contatti con Israele, infine con l’Algeria nel 2007.

La Russia e la Cina rimangono gli altri due sponsor in coda in questa mia breve analisi. Operano in maniera ridotta rispetto agli Stati Uniti e la Francia ma sono comunque presenti in modo sensibile nella regione. La Russia opera in Giordania: una società russa ha partecipato alla gara per il reattore nel 2008

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ed è stato concluso un accordo di cooperazione nucleare nel 2009.

Mosca è poi presente in Egitto e in Turchia: di recente è stato raggiunto un accordo di cooperazione fra la Turchia e la Russia nell’ambito del settore dell’energia nucleare. Sono stati avviati contatti con l’Algeria e con la Libia rispettivamente nel 2007 e nel 2009.

Anche la Cina, come vediamo, è presente in Algeria. Oltre ad aver costruito negli anni Ottanta un reattore a sud di Algeri, ha ripreso i contatti per il nucleare civile nel 2008. La Cina è presente anche in Marocco e in Giordania.

L’ultimo punto della mia presentazione: gli ostacoli infrastrutturali e le difficoltà economiche e politiche dei vari paesi aspiranti nucleari. Nonostante il peso delle sponsorizzazioni che ho appena elencato, è assai difficile che nell’arco di dieci anni si possa assistere a un proliferare del nucleare civile nei paesi della sponda sud e sudorientale del Mediterraneo così come nei paesi del Golfo.

Finora, in queste due regioni, soltanto l’Egitto e la Turchia emergono come paesi che hanno piani concreti di costruzione di reattori nucleari. Molti altri stati hanno piani a lungo termine: l’Algeria, la Giordania, la Libia, il Marocco e poi anche altri stati membri del Consiglio di cooperazione del golfo: il Bahrein, il Kuwait, l’Oman, l’Arabia Saudita (anche se da Riyad non confermano ufficialmente). Secondo stime fornite dal Dipartimento di Stato americano il Qatar, gli Emirati e la Siria non potranno accedere all’energia alternativa prima del 2030. La Libia attorno al 2050.

A questo si aggiunga che, secondo l’AIEA, tra l’annuncio della decisione politica e l’avvio della prima centrale solitamente passano in media quindici anni. A tal proposito, secondo quanto riporta uno studio preparato dalla commissione internazionale per la non proliferazione nucleare e il disarmo, la Turchia, l’Egitto, la Giordania, il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti sono gli unici aspiranti nucleari ad aver fissato date per il completamento del primo reattore: la Turchia nel 2014, la

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Giordania e l’Egitto nel 2015, il Marocco nel 2016 e gli Emirati Arabi Uniti nel 2017 (immagine 9).

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Passando dalle parole ai fatti, bisogna vedere poi quali ostacoli si presentano nel percorso. Uno dei principali è rappresentato, nel breve e medio termine, dall’assenza delle infrastrutture necessarie a rispondere agli standard internazionali di sicurezza e a soddisfare i requisiti ambientali: non dimentichiamo che l’aspetto ambientale, sia nelle dichiarazioni che nella pratica, è fondamentale. Anche la formazione del personale locale richiederà del tempo e, su questo appunto, gli osservatori e gli esperti dubitano che i paesi citati possano riuscire in quattro o cinque anni a raggiungere il loro obiettivo.

I contratti di consulenza con le società private straniere e gli accordi di cooperazione conclusi con gli sponsor internazionali mirano proprio a superare questo ostacolo inviando in loco personale straniero. Ma anche per questo ci vorrà del tempo.

In paesi come la Turchia, nei quali la società civile e la stampa svolgono un ruolo significativo nelle questioni politiche (a differenza invece di altri paesi nel mondo arabo dove di fatto sia la società civile e la stampa non svolgono un ruolo di arbitro) non si dovrà ignorare il peso del rifiuto di ampi settori dell’opinione pubblica nei confronti del nucleare civile e questo è un altro possibile ostacolo e rallentamento.

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Un’opposizione che rischierà di montare quando i rispettivi governi presenteranno agli organi legislativi e al proprio elettorato i preventivi dei costi per la realizzazione di impianti nucleari. La crisi economica mondiale ha infatti già causato nel 2008 una contrattura negli investimenti di paesi come l’Egitto e di altri stati nordafricani nel settore nucleare. La crisi ha congelato o comunque in parte hanno rallentato questa corsa.

Nel Golfo, queste ripercussioni com’è noto sono state minori rispetto ad altri paesi ma non è detto che l’effetto domino possa invece dare i suoi effetti negativi in paesi fino ad oggi risparmiati dalla crisi. Nel caso, si registrerebbe un ulteriore rallentamento del processo di acquisizione dell’energia alternativa. Infine va considerato un fattore di ostacolo di tipo politico. Mi limito a fornire solo alcuni esempi.

La Giordania. Il regno hascemita, ha una popolazione costituita per un buon 60% da cittadini di origine palestinese. La Giordania, come sappiamo, ha siglato nel 1994 un importante trattato di pace con Israele e, assieme all’Egitto è l’unico dei due paesi confinanti con Israele ad avere relazioni diplomatiche formali con lo stato ebraico. Questo è un dato importante.

Quando nella recente conferenza di Parigi sul nucleare civile il delegato israeliano ha annunciato il desiderio del suo paese di dotarsi di una energia alternativa, ha anche affermato alla stampa che alla sponsorizzazione della Francia si sarebbe affiancata la partnership della Giordania. Il delegato giordano ha immediatamente smentito il collega israeliano rilasciando agli stessi organi di stampa una dichiarazione in cui negava ogni tipo di cooperazione con lo scomodo vicino: le ripercussioni in ambito interno potrebbero essere pericolose per la Giordania.

In realtà, nelle clausole per il progetto per la costruzione del primo reattore nucleare di Aqaba, il porto sul Mar Rosso, confinante a pochi passi con l’Egitto ma anche a pochi passi con Israele, (progetto in fase di studio per adesso da parte della società francese Suez-GDF e di quella belga Tractebel), si fa riferimento a una futura operazione con Israele e con Egitto. Gli stessi risultati dell’indagine del consorzio franco-belga dovranno essere condivisi da Israele, Egitto e Giordania.

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Quindi una cooperazione, anche se embrionale, già esiste tra questi paesi. Sarà però difficile per il governo di Amman, già così esposto a critiche dei vicini arabi e di gran parte dell’opinione pubblica arabo-musulmana, far accettare in futuro un’intesa con Israele proprio sul tema del nucleare civile. Difficoltà che potrebbero insorgere anche nell’eventuale gestione partecipata dell’energia alternativa tra Amman e Tel Aviv. Chi potrebbe essere un domani l’arbitro internazionale a dirimere questioni sorte dalla cooperazione tra questi due stati, “amici” di fatto solo sulla carta?

In Nord Africa, la corsa nucleare per scopi pacifici rischia invece di scatenare antiche e attuali rivalità. Si pensi alla storica inimicizia tra l’Egitto e la Libia. Come abbiamo visto, l’Egitto è più avanti con i propri progetti, anche grazie alla determinazione francese. Ma la Libia sembra godere della sponsorizzazione e della fiducia degli americani. Anche in questo caso, l’aspetto politico legato a variabili riguardanti non solo i calcoli del paese aspirante nucleare ma soprattutto ai calcoli degli sponsor da cui il progetto dipende potrà svolgere un ruolo determinate per assegnare a quello o quell’altro paese il primato atomico nella sfera regionale.

Passando al Golfo, il caso degli Emirati Arabi Uniti offre la possibilità di intravedere almeno due scenari diversi e, in un certo senso, opposti. Forti della sponsorizzazione condizionata da parte degli Stati Uniti, visti come uno strumento di contenimento del pericoloso Iran, gli Emirati potrebbero sfruttare il fattore politico a proprio vantaggio e dotarsi in tempi relativamente brevi del nucleare civile.

Come si è accennato però, la presenza di installazioni nucleari a così poca distanza geografica dalla repubblica islamica potrebbe intimorire non solo Washington e i suoi influenti alleati, ma anche altri sponsor internazionali. Quel che per alcuni sembrerebbe un vantaggio, si rivelerebbe in quel caso un handicap per gli Emirati Arabi Uniti. Inoltre, avvantaggiandosi rispetto ad altri paesi del consiglio di cooperazione del Golfo, gli Emirati si sono comunque già attirati le critiche degli altri membri dell’organizzazione, in primis da parte del Kuwait,

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anch’esso aspirante nucleare, e dall’Arabia Saudita, la potenza regionale di riferimento.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie dottor Trombetta per averci illustrato questo argomento molto interessante e, credo, molto importante. Adesso diamo spazio alle domande.

Camille de ROCCA SERRA, Osservatore dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo. Grazie, signor Presidente. Cari colleghi, signore e signori, vi ringrazio vivamente per aver invitato l’Assemblea parlamentare del Mediterraneo a partecipare in qualità di osservatore ai vostri interessantissimi lavori. Vorrei ricordare che la nostra Assemblea costituisce l’unico organismo interparlamentare in cui si trovano riuniti tutti i paesi del Mediterraneo e soltanto questi ultimi. Il nostro obiettivo è di intensificare il dialogo interparlamentare nella regione e di innalzarne il livello, offrendo una piattaforma che favorisca lo sviluppo della diplomazia parlamentare in questa area. Creata nel 2006, l’Assemblea parlamentare del Mediterraneo si è rapidamente consolidata e il suo ruolo è grandemente apprezzato anche al di là della regione interessata, come dimostrato dallo status di osservatore concesso dall’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite a dicembre 2009, così come dall’interesse manifestato da alti responsabili dell’Amministrazione americana in occasione di una missione dell’Ufficio di presidenza dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo nel settembre 2009.

Venendo alla questione del nucleare civile, se me lo consentite, al fine di avere un rapporto più interattivo chiederei, se possibile, di dare una vostra valutazione delle risoluzioni approvate all’unanimità dall’Assemblea parlamentare del Mediterraneo.

L’importanza strategica delle questioni energetiche ha indotto la nostra Assemblea parlamentare ad affidare la trattazione di questo tema ad un relatore speciale, il deputato

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egiziano Mohamed Abou El Enein. Grazie a questa procedura, il tema figura costantemente all’ordine del giorno dell’Assemblea. La relazione e la risoluzione sull’energia per il 2010 sono appena state adottate durante la quinta sessione delle commissioni permanenti della nostra Assemblea, tenutasi a Belgrado dal 24 al 26 giugno. I due testi contengono analisi e proposte molto articolate sulla problematica dello sviluppo del nucleare civile nel Mediterraneo. In particolare, è stato posto l’accento sulla questione della formazione. Attualmente, infatti, la domanda di personale qualificato in tutti i settori tecnologici di punta dell’industria nucleare è di gran lunga superiore all’offerta e le esigenze di formazione sono particolarmente rilevanti nei paesi della sponda sud che prevedono di dotarsi di centrali nucleari. La nostra risoluzione accoglie pertanto con favore la creazione in Francia di un Istituto internazionale per l’energia nucleare, comprensivo di una scuola internazionale, annunciato lo scorso marzo 2010 dal presidente Nicolas Sarkozy. Tale impegno non si limita alla Francia, dato che l’Istituto farà parte di una nuova rete internazionale di centri di eccellenza specializzati, il primo del quale sarà istituito in Giordania. Ad integrazione del progetto, l’Assemblea parlamentare del Mediterraneo propone la creazione di una scuola nucleare euromediterranea e chiede che sia notevolmente aumentato il numero di borse di studio concesse dai paesi del nord agli studenti provenienti dagli stati della sponda sud.

Se è vero che il prezzo di costo dell’energia nucleare risulta altamente competitivo, rispetto sia all’energia di origine fossile sia a quella derivante da altre fonti rinnovabili, l’onere dell’investimento iniziale necessario ne frena lo sviluppo. Per migliorare le condizioni di finanziamento dei programmi elettronucleari, chiediamo che si ponga termine all’anomalia costituita dall’esclusione del nucleare dall’ambito di intervento delle istituzioni finanziarie e delle banche di sviluppo internazionali e regionali. Insistiamo inoltre sul fatto che non si può avere un nucleare a due velocità. I paesi del sud devono poter beneficiare dello stesso livello di sicurezza nucleare, sia intrinseca che estrinseca, e delle stesse garanzie di non proliferazione dei paesi del nord, i quali devono assicurare la cooperazione e i trasferimenti di tecnologie necessari. La

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collaborazione tra vecchi e nuovi paesi nuclearizzati deve riguardare, in particolar modo, la gestione del ciclo del combustibile e del trattamento delle scorie.

Peraltro, come è stato da voi sottolineato, l’accesso all’acqua potabile rappresenta una questione cruciale nel bacino del Mediterraneo e anche questo argomento è trattato in più sedi nella nostra Assemblea; il nostro relatore speciale sull’energia sottolinea giustamente il ruolo che può avere l’energia nucleare per la desalinizzazione dell’acqua marina. L’esperienza acquisita, in particolare in Kazakistan, India e Giappone, dimostra che si tratta di una soluzione economicamente sostenibile, specialmente nel caso di centrali miste che producono anche elettricità e sfruttano la tecnologia dell’osmosi inversa.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Da osservatore esterno, non tecnico né tanto meno legislatore, posso soltanto condividere la necessità di mettere in sicurezza le politiche dei paesi e di dare a ciascun paese la possibilità di raggiungere la propria indipendenza energetica e anche di scegliere il tipo di fonti energetiche che preferisce adottare, ovviamente nel rispetto delle regole internazionali condivise, non soltanto nel Mediterraneo ma in ogni area del mondo.

Credo però che si continuerà purtroppo ad avere un nucleare a due velocità, così come si continuerà ad avere un rapporto di dipendenza tra i paesi che sponsorizzano il nucleare e quelli che se ne vogliono dotare.

Per il momento rilevo una dipendenza molto forte tra i paesi che aspirano al nucleare civile e i paesi che invece intendono esportare questa tecnologia, anche se lo fanno con dichiarate volontà di sviluppo e di sicurezza.

José LELLO, Assemblea della Repubblica, Portogallo. Dottor Trombetta, credo che il suo rapporto e la sua presentazione siano stati molto importanti. Ha posto in evidenza i progetti nucleari sia

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per i paesi del bacino del Mediterraneo sia per i paesi del Golfo, alla luce dei rischi di proliferazione e della loro sostenibilità. Tuttavia, non si è soffermato molto sul caso dell’Iran; quando ha iniziato a svolgere il suo intervento, tutti abbiamo pensato all’Iran, che costituisce una forte preoccupazione per tutti noi. Il punto è questo: a suo avviso che cos’è più importante in questa valutazione, la proliferazione o la sostenibilità?

Quando parlo di ‘sostenibilità’, intendo dire la sostenibilità del progetto in termini ambientali, economici o tecnologici, perché visitando alcuni dei paesi del Golfo, e cioè il Qatar, il Bahrain, il Kuwait e altri paesi di quelle zone, ho notato come non siano particolarmente preoccupati dal fatto che le attività nucleari in Iran possano trasformarsi in progetti per un’arma nucleare. Invece, sono davvero spaventati per quanto riguarda la sostenibilità del progetto: dicono che gli iraniani stanno utilizzando una tecnologia obsoleta e che stanno costruendo gli impianti in una zona di attività sismica. Sono terrorizzati all’idea che una fuoriuscita da queste strutture possa inquinare il Golfo, il mare dal quale dipendono per l’acqua. Questi paesi costruiscono impianti di desalinizzazione; ma se una eventuale perdita proveniente da uno stabilimento nucleare iraniano dovesse inquinare l'acqua del Golfo, sarebbe la fine della loro vita nella regione.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Per quanto riguarda l’Iran, non ho affrontato la questione perché è fuori dallo spettro della discussione di oggi e anche al di fuori dalle mie competenze.

Dei paesi del Golfo, che sono più preoccupati dalla prossimità con l’Iran, soltanto gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso un desiderio di volersi dotare del nucleare a scopi civili e hanno portato avanti il progetto. Il Qatar, il Bahrein e il Kuwait hanno espresso i loro dubbi e i loro risentimenti nei confronti degli Emirati Arabi Uniti accusandoli di aver avviato questo processo in modo autonomo senza consultare gli altri paesi del Consiglio né hanno proposto una politica comune.

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Questo, secondo me, è un altro sintomo di preoccupazione: l’argomento ambientalista.

Non posso dirle con certezza se effettivamente le preoccupazioni tecniche e scientifiche del Qatar siano valide. Se davvero gli iraniani stiano costruendo il nucleare senza rispettare gli standard ambientali, se lo stiano facendo in aree estremamente pericolose, se non siano pronti a rispondere alle richieste minime per migliorare per esempio l’inquinamento del Golfo Persico.

Ivar KRISTIANSEN, Storting, Norvegia. Grazie Presidente. Grazie per questa introduzione molto interessante. Vorrei chiedere la sua opinione in merito alla mancanza di sistemi di controllo per lo stoccaggio delle scorie nucleari. Penso che questa sia la sfida principale per tutti noi. Ritengo evidente che si tratti di una questione e di un argomento su cui influiscono svariati fattori quando si parla dell’impiego dell’energia nucleare e di distinguere tra uso civile e uso militare di questa tecnologia. La tecnologia esiste e penso che sia ovvio che tutti i paesi del mondo vogliano garantirsi una propria fornitura di energia. Viviamo in un mondo in cui, come tutti sappiamo, la domanda di energia aumenterà molto rapidamente nei prossimi 20 anni, forse con un incremento più o meno del 40 per cento. Siamo in un momento in cui sappiamo di non poter continuare a trarre la maggior parte dell’energia che consumiamo dal combustibile fossile. Naturalmente abbiamo sufficienti risorse di carbone nel mondo, mentre quelle di petrolio e gas non sono più abbastanza, inoltre sappiamo che, in futuro, il prezzo dell’energia aumenterà. Soprattutto in una situazione in cui sappiamo di avere la minaccia incombente delle emissione inquinanti combinata con la possibilità che, in futuro, si debba pagare per queste emissioni. Pertanto, è ovvio che ogni paese cercherà di garantirsi una fornitura di energia propria. Allora ci chiediamo perché la questione del nucleare è all’ordine del giorno della Nato? Io penso che sia ovvio e facile da spiegare. Deve avere una posizione prioritaria nell’agenda della Nato, perché i problemi alla sicurezza possono derivare sia dalla produzione di energia nucleare, sia dallo stoccaggio delle scorie.

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Io vivo in Norvegia e vicino ai nostri confini abbiamo la più grande quantità di scorie nucleari. So che molti paesi del mondo se ne preoccupano e cercano di aiutare i russi a mantenere intorno ai depositi di stoccaggio un sistema di sicurezza efficiente. Tutti, però, sappiamo bene che basta anche un minimo incidente per uccidere un gran numero di persone e per provocare danni cerebrali talmente devastanti da non potersi nemmeno immaginare. Di conseguenza, il problema dello stoccaggio e la questione della sicurezza dello stoccaggio sono della massima importanza. Pertanto, vorrei chiederle di esprimersi sulla questione della sicurezza. Si sa che le scorie nucleari sono una merce molto richiesta dai terroristi e, quando guardiamo una mappa dell’area meridionale del bacino del Mediterraneo, sappiamo che potrebbe esserci la possibilità che le scorie siano cedute illegalmente e arricchite. Non vogliamo che questo accada, è una sfida per noi, un problema per me e una sfida per voi.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Anche in questo caso la questione è estremamente importante. Se in Norvegia avete questo problema, immaginiamo che cosa potrà succedere in un futuro quando alla frontiera siriana o alla frontiera giordana o nel deserto algerino dovessero essere stoccate delle scorie radioattive anche di ingenti quantità. Già in passato si è detto, ma non è stato confermato, che la Siria, in cambio di danaro ma anche in cambio di favori politici, avrebbe seppellito nel proprio deserto orientale ingenti quantità di scorie radioattive di incerta provenienza. È una notizia mai confermata ma può servire comunque da esempio per immaginare che nel Medio Oriente e in altre regioni questo pericolo esiste.

Jean-Michel BOUCHERON, Assemblea nazionale, Francia. Grazie Signor Presidente. Vorrei dire alcune cose. Anzitutto, mi scuso con il nostro oratore: ho dovuto assentarmi due o tre minuti e credo che una frase dell'intervento sia stata interpretata come se le esportazioni dell'industria nucleare civile francese potessero

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avere conseguenze in termini di proliferazione militare. Voglio rassicurarlo e dirgli che la proliferazione nucleare determinata dalle esportazioni francesi è una vecchia storia, direi molto vecchia, risalente all'epoca in cui, circa 35 anni fa, la Francia ha dotato Israele del suo armamento nucleare.

Proprio questo punto è molto importante in relazione al Trattato di non-proliferazione. Israele possiede attualmente circa 200 armi, 80 delle quali immediatamente operative. Tre o quattro mesi or sono, a Washington si è discusso al fine di stabilire se quest'arma di dissuasione in possesso di Israele dovesse essere ufficializzata, in modo da introdurla nel Trattato di non-proliferazione. Una decisione del genere avrebbe avuto un grande vantaggio, in quanto avrebbe messo a tacere coloro che affermano che nel mondo del nucleare militare esistono due pesi e due misure. Si tollera che alcuni paesi possiedano gli armamenti, mentre per altri non è la stessa cosa. A titolo personale, vorrei dire che non penso che la decisione - che alla fine è stata a favore del mantenimento dello status quo - ovvero di continuare a sostenere ufficialmente che nel Vicino Oriente non ci sono armi nucleari - sia una buona decisione. Perché? Perché quella nucleare è un'energia estremamente importante per il futuro e ritengo che debba essere gestita collettivamente, su scala planetaria, sia essa civile o militare, sia che si tratti di centrali, di norme per la sicurezza, o di rifiuti. Penso anche ai minerali. Ritengo che sia assolutamente necessario, per la sicurezza, civile e militare, di tutti che l'insieme del nucleare mondiale venga gestito in modo collettivo. A tal fine, bisogna che tutti possano partecipare, sopratutto quelli che lo possiedono già, o quelli che cercano di ottenerlo. Questo metodo è l'unico che consentirebbe di garantire la sicurezza.

Attualmente, miei cari colleghi, in materia di energia nucleare si assiste a un fenomeno di dumping, ossia un'offerta di prezzi al ribasso. Un certo numero di paesi diffondono tecnologia nucleare a basso costo, ovvero con un livello di sicurezza minore. Non facciamoci illusioni: il prezzo e il livello di sicurezza sono direttamente proporzionali. Credo che quella nucleare sia una materia in cui il mercato - nel senso liberale del termine - non può essere applicato perché ne va della nostra sicurezza

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collettiva. Penso che ogni Stato abbia il diritto di avere accesso a questa tecnologia, in quanto essa risolve in grandissima misura i problemi relativi al non-riscaldamento climatico, alle non-emissioni di CO2. È un'energia altamente continua, che non dipende dal clima. Il problema delle pale eoliche è che quando non girano si è obbligati ad avviare le centrali termiche che diffondono gas carbonico. Le pale eoliche, pertanto, contrariamente a quanto credono in molti, contribuiscono alla produzione di notevoli quantità di gas carbonico.

Volevo semplicemente lanciare questa idea: il nucleare deve dipendere da una gestione collettiva mondiale. Lo spazio aereo viene gestito bene su scala mondiale. Le regole del traffico aereo sono regole mondiali, con standard applicati da tutti, anche dai paesi più dittatoriali. Perché non si può adottare una logica simile per il nucleare? È per questo motivo che sono favorevole all'idea che tutti i paesi, senza alcuna eccezione, possano entrare a far parte del Trattato di non-proliferazione e accettarne le clausole aggiuntive. Quindi, secondo me, potremmo avere una gestione molto più sana della questione, sopratutto se ci proiettiamo nel lunghissimo periodo, con il problema molto serio del trattamento dei rifiuti, in cui si potrebbe osservare il dumping dei prezzi al ribasso, in cui alcuni paesi poveri potrebbero accettare lo stoccaggio dei rifiuti nucleari a qualunque condizione, in quanto ciò potrebbe comportare per loro un vantaggio economico. Credo si tratti veramente di un settore in cui sia necessaria una gestione collettiva su scala mondiale.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Vorrei rassicurare a mia volta l'onorevole Boucheron che quando mi riferivo ai rischi di proliferazione che la politica francese potrebbe portare con sé, non esprimevo la mia opinione, ma citavo una dichiarazione dell’ex-direttore generale dell’AIEA che, prima della conferenza di Parigi del marzo scorso, quando già era evidente il rilancio della politica nucleare da parte del presidente Sarkozy, aveva avvertito che gli sforzi aggressivi della Francia tesi a fornire tecnologia nucleare possono porre dei rischi di proliferazione.

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Michael CLAPHAM, Camera dei Comuni, Regno Unito. Permettetemi di ringraziare il relatore per la sua presentazione davvero interessante; vorrei, però, inquadrare il problema in un contesto più ampio, come egli ha suggerito all’inizio del suo intervento. Se guardiamo ai costi dell’energia nucleare, ci sono molti dati occulti e una mancanza di trasparenza. Eppure, ci sono altre tecnologie disponibili. Per esempio, si è parlato del carbone, ma nessuno ha fatto riferimento alla tecnologia, che è attualmente in fase di sviluppo, per bruciare il carbone in modo pulito - cattura e stoccaggio del carbonio - il che significherebbe che potremo utilizzare, in modo non inquinante, le risorse mondiali di carbone. Fermiamoci a considerare i costi dell’energia nucleare, la costruzione di una centrale elettrica, per esempio. I francesi stanno curando la costruzione della centrale nucleare finlandese, che ha sforato il preventivo; i costi sono enormi. Si calcola che i costi di smantellamento e decontaminazione nel Regno Unito supereranno i 90 miliardi di sterline. Quando si parla di scorie nucleari, dobbiamo tenere ben presenti gli enormi costi che comporta l’effettiva protezione di quel materiale fissionabile.

Le centrali a materiale nucleare fissionabile sono sporche; si lasciano dietro una quantità enorme di scorie la cui gestione richiede una tecnologia avanzata, molto specializzata e complessa. Ciononostante, visto che si parla di un forte incremento della domanda mondiale di energia nei prossimi 20 anni, c’è una buona probabilità che questo si traduca in un migliaio di nuove centrali. Un migliaio di nuove centrali nucleari indurrebbe una domanda spropositata per la fornitura e l’impiego di grandi quantitativi di uranio. Vorrei chiedere al nostro relatore quale pensa che possa essere l’impatto sulle spese di un migliaio di centrali nucleari sia della maggior domanda sia del costo dell’uranio. Infine vorrei dire che sono d’accordo con quanto dice Boucheron sul fatto che dobbiamo pensare a una banca mondiale dei materiali fissionabili, altrimenti potremmo trovarci di fronte a un problema mondiale molto difficile.

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Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. I costi sono sicuramente molto elevati, più di altre fonti di energia e questo potrebbe accrescere la dipendenza economica e, quindi, politica tra chi fornisce energia e chi se ne vuole dotare. Immaginiamo il caso dell’Egitto. L’economia egiziana dipende totalmente o quasi dagli aiuti occidentali, e in particolare dagli aiuti americani. Sappiamo anche come la “pace” con Israele di fatto non abbia dato all’Egitto quello sviluppo economico che il presidente Sadat aveva promesso, né tanto meno quella rinascita che il presidente Mubarak aveva annunciato.

L’Egitto è letteralmente al collasso e se il regime è ancora in piedi è soltanto grazie al sostegno internazionale, in particolare di Washington. Nel caso in cui l’Egitto dovesse davvero avviare un programma nucleare, il suo regime rischierebbe di diventare ancor più dipendente dagli Stati Uniti o da altre potenze. Tale dipendenza politica si potrebbe riflettere, come già accade oggi, in questioni che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’acquisizione dell’energia atomica per scopi civili.

Antonello CABRAS, Vice Presidente della delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare della Nato e relatore del GSM. Grazie Presidente. Penso che la relazione del nostro esperto abbia messo in evidenza un quadro nella regione mediterranea in cui risulta abbastanza diffusa un’aspirazione al nucleare civile, pur con tutte le differenze fra diversi paesi. Noi in questo momento, per ragioni politiche siamo concentrati sull’Iran ma in realtà, l’aspirazione a produrre energia attraverso il nucleare civile è diffusa e presente in quasi tutti i paesi dell’area.

Ho contato le bandiere degli sponsor in una delle prime slide che sono state proposte e ho contato sette volte la Francia, cinque volte gli Stati Uniti, cinque volte la Russia, tre volte la Cina. Quindi, dodici volte la Nato, perché sia la Francia che gli Stati Uniti sono paesi Nato, e le altre otto volte paesi che non fanno parte dell’Alleanza. Quando discutiamo di questo

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argomento, non possiamo confondere la sicurezza ambientale, cioè tutte le difficoltà connesse all’uso della tecnologia nucleare, con quella che è l’altra sicurezza di cui noi ci occupiamo istituzionalmente in questa sede, cioè quella politico-militare.

Usare un argomento che appartiene alla sicurezza ambientale per contrastare o sostenere una tesi politica è sbagliato. E viceversa. E allora, la mia domanda è la seguente. L’incremento della domanda di energia nei prossimi vent’anni, qualunque sia la conclusione della vicenda iraniana, è universalmente riconosciuto come un incremento piuttosto sostenuto; il fallimento della conferenza di Copenaghen sul clima ha messo in luce come la difficoltà a trovare soluzioni alla forte domanda di energia renda difficile anche affrontare il tema del clima che era stato discusso in quella conferenza. Ciò è accaduto perché i paesi che chiedono più energia perché hanno bisogno di ritmi di crescita più elevati, non accettano di subire le limitazioni che i paesi più sviluppati impongono. Allora, avendo sentito qual è il quadro che ci propone la situazione mediterranea del Golfo, la mia domanda è: nell’opinione del nostro relatore, questa aspirazione al nucleare civile, qualunque sia la soluzione che si adotterà per l’Iran, è un’aspirazione che rimarrà, che permarrà e i paesi del Mediterraneo continueranno ad insistere in questa direzione?

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Credo proprio di sì: la Turchia, l’Egitto, Giordania, gli Emirati Arabi Uniti, sono paesi seriamente intenzionati a intraprendere questo percorso, al di là della questione politica del nucleare iraniano.

Arieh ELDAD, Unione nazionale, Israele. Grazie, signor Presidente e grazie, dottor Trombetta, per la sua presentazione. Mi sembra che in una delle ultime frasi abbia detto che l’Iran vorrebbe avere una fonte di energia nucleare anche per ragioni pacifiche. Quello che trovo preoccupante è quanto ha detto il delegato francese, l'onorevole Boucheron, in relazione al fatto

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che si dovrebbero vendere reattori nucleari a chiunque, senza eccezioni. Si direbbe che l’Iran abbia tutte le carte in regola perché ha sottoscritto il Trattato di non-proliferazione nucleare (NPT), di conseguenza, è perfettamente legittimato ad acquistare un altro reattore nucleare, secondo l'onorevole Boucheron, perché ha firmato e ha bisogno di energia. Credo che sulla mappa che lei ha presentato mancasse una bandiera, anche se ha specificato che l’Iran non rientra nell’argomento odierno, cioè la bandiera russa proprio sull’Iran, perché la Russia ha fornito il reattore nucleare di Bushehr che preoccupa una parte degli stati del Golfo.

Penso che vi sia una corsa parallela a quella che ci ha illustrato, ed è la corsa per dotarsi di armi nucleari in reazione a ciò che sta accadendo in Iran. Credo che nessuno si faccia illusioni circa le intenzioni dell’Iran. In tutti gli impianti di Natanz, Kashan e Qom non si opera per ragioni pacifiche, per reattori per l’energia elettrica. Arricchiscono l’uranio con le centrifughe e dichiarano apertamente i risultati raggiunti, questo è chiarissimo. In risposta a tutto ciò, se non fermiamo l’Iran al più presto, assisteremo a una corsa al nucleare per la realizzazione di armi nucleari in tutti quei paesi che adesso dichiarano la loro volontà di realizzare un reattore nucleare per scopi pacifici, per l’energia. Per molti di loro, questa fornitura di energia è un primo passo per ottenere la tecnologia necessaria per mettersi nelle condizioni di ottenere armi nucleari se, Dio non voglia, l’Iran dovesse riuscire ad averne.

Questo è un primo passo e una corsa parallela alla corsa per ottenere elettricità nucleare. In conclusione, penso che il Trattato di non-proliferazione nucleare non sia sufficiente. Uno stato firmatario può arrivare molto rapidamente a ottenere un’arma nucleare. Il Trattato non offre al mondo l’ombrello di sicurezza che vorremmo e l’Iran ne è la dimostrazione migliore. Abbiamo visto altri stati che volevano ottenere armi nucleari. Penso che il nostro amico francese, l'onorevole Boucheron, sia dispiaciuto per i due reattori nucleari che la Francia ha fornito - uno a Israele e uno all’Iraq - e mi scuso di deluderlo proprio sul più bello. Tuttavia, la necessità di vigilare e di impedire la vendita di reattori nucleari, anche per scopi pacifici, è dimostrata

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dal caso dell’Iran. Vi chiedo di non partecipare a questa politica di vendere a tutti senza eccezioni. Grazie mille.

Lorenzo TROMBETTA, Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente. Vorrei soltanto riportare l’opinione diffusa (che potrebbe anche essere condivisa da molti) che le preoccupazioni di Israele verso il nucleare iraniano, ma verso tutti gli arsenali nucleari potenzialmente nucleari a scopo militare, potrebbero risolversi con la volontà di avviare una politica di denuclearizzazione dell’intera area mediterranea. Ovviamente l’opzione opposta a quella propugnata dalla Francia. Però se Israele teme per la propria esistenza che l’Iran e poi, a effetto domino, anche altri paesi possano dotarsi di programmi nucleari a scopi militari, lo stesso stato ebraico potrebbe iniziare lui stesso a dichiarare la volontà di abbandonare i propri arsenali nucleari. Non dimentichiamo infatti che un argomento, un discorso che i politici mediorientali nemici di Israele o alleati di Israele fanno a porte chiuse o a volte anche in modo aperto e dichiarato, è che appunto essi vogliono dotarsi di progetti nucleari (addirittura alcune opinioni pubbliche arabe chiedono anche ai propri governi di dotarsi di progetti nucleari) per fronteggiare la bomba atomica israeliana. Quindi forse riportando una opinione pubblica molto diffusa nella regione da cui provengo e dove lavoro, Israele potrebbe iniziare a dare il buon esempio. Ecco, questo è quello che mi sento di dire provenendo dal Medio Oriente. Grazie.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. La ringrazio molto per il suo contributo al nostro Seminario.

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QUARTA SESSIONE

Immigrazione e sicurezza: cooperazione tra i paesi mediterranei.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. L’argomento di questa mattina sarà “Immigrazione e sicurezza: cooperazione tra i paesi del Mediterraneo”. In questa sessione abbiamo due autorevoli relatori: il ministro Roberto Maroni e Ivan Ureta. Permettetemi di presentarvi il dottor Ivan Ureta, responsabile per gli studi sulla migrazione presso l’Istituto studi mediterranei dell’Università di Lugano in Svizzera. Egli è anche ricercatore presso il Dipartimento di studi mediorientali e mediterranei del King’s College di Londra e ricercatore onorario al Dipartimento di studi arabi e mediorientali presso l’Università di Leeds. I suoi lavori di ricerca vertono sull’immigrazione internazionale, lo sviluppo delle relazioni internazionali e la sicurezza. Il dottor Ureta ha anche lavorato come esperto presso l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

L’autorevole ospite successivo è Roberto Maroni, ministro dell’interno italiano. Di professione è avvocato ed è stato responsabile dell’ufficio legale di una multinazionale. Nella sua carriera politica è membro del partito Lega Nord Padania. Ha aderito al partito sin dalla sua fondazione ed ha iniziato la propria carriera politica nel 1979 lavorando a fianco al segretario del partito, Umberto Bossi. È stato segretario provinciale della Lega Nord a Varese e membro nazionale della Lega lombarda. Nel corso della XVI legislatura, quella attuale, è stato rieletto alla Camera dei deputati nel gruppo della Lega Nord Padania e nominato Ministro dell’interno. Do ora la parola al dottor Ivan Ureta. 

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Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei. La ringrazio signor Presidente. Vorrei iniziare ringraziando gli organizzatori per avermi invitato qui oggi e presenterò il mio discorso in italiano, anche se non è la mia lingua madre.

Il tema di cui ci occupiamo oggi è un tema assai importante e caldo per la regione mediterranea: la migrazione e la connessione che questa può avere con la sicurezza. Il mio proposito oggi è quello di fare un’analisi critica dal punto di vista del mondo accademico e della ricerca, quindi faccio una premessa: parlerò esclusivamente come ricercatore senza nessun legame con un particolare ambito politico. Farò dunque una presentazione di tipo accademico, ma anche come osservatore e come persona che ha vissuto la realtà della migrazione nei paesi di origine e di transito, cioè i paesi del Sud, latinoamericani e nordafricani, cercando di proporre un discorso quanto più oggettivo possibile su questi aspetti.

In venti minuti ovviamente è molto difficile riassumere e mettere insieme tutti gli aspetti che riguardano un tema così complesso come la migrazione e la mobilità umana perché tutti sappiamo che essa implica un numero assai grande di fattori: aspetti culturali, aspetti politici, aspetti economici.

Immigrazione e mobilità: introduco questi due aspetti perché non parliamo solo di immigrazione. Quando parliamo di immigrazione cosa vogliamo dire? Tra le categorie di migranti che possiamo trovare oggi nel mondo contemporaneo possiamo contare i migranti economici, quelli rifugiati, quelli che cercano asilo politico. Fra i rifugiati può figurare ora anche questa nuova categoria, “i rifugiati ambientali”, che si dovrà prima o poi discutere più intensamente; poi ci sono i regolari, quelli che possono essere definiti clandestini, insomma, la varietà è molto ampia.

Metto in connessione quindi migrazione e mobilità. E quando parlo di mobilità e di migrazione, non mi riferisco solamente al fatto che migrano le persone; cioè non mi riferisco unicamente al fatto che sono le persone che si spostano ma anche al fatto che questo implica un movimento di idee, di valori che

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possono mettere in discussione modelli consolidati nelle civiltà di accoglienza o in quelle di transito.

In questo contesto, ovviamente, si devono analizzare anche gli aspetti relativi alle nuove tecnologie, internet, i mezzi di trasporto che sono anch’essi molto importanti in questo contesto. Quindi ritengo che migrazione e mobilità siano due concetti che vanno presi in considerazione insieme per questo tipo di discorso.

Nella mia presentazione parlerò innanzitutto della mobilità nel bacino mediterraneo. Come secondo punto analizzerò in modo critico l'opportunità di associare migrazione e mobilità con aspetti riguardanti la sicurezza (intendendo quest’ultima in termini tradizionali) oppure se migrazione e mobilità implichino un modello di sicurezza che non è più quello tradizionale, ossia la minaccia di un aspetto militare. In seguito introdurrò un concetto che può sembrare un po’ scandaloso e provocatorio, cioè la “guerra retorica attorno ai simboli” perché come ho detto prima, anche oltre la mobilità e la migrazione di persone fisiche, si producono effettivamente la mobilità e il movimento di idee, di valori che devono essere appunto presi in considerazione. Parlerò poi brevemente di alcuni aspetti riguardanti la sicurezza. Infine, il quinto punto è la cooperazione internazionale tra i paesi coinvolti e le politiche di gestione a livello nazionale e terminerò con le conclusioni.

Migration/Mobility in the Mediterranean International Migrants as a percentage of the population

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Possiamo vedere in questo grafico (immagine 10) un piccolo studio fatto negli ultimi anni sull’evoluzione della migrazione e la mobilità nel Mediterraneo. Effettivamente vediamo che a partire dal 2000, più o meno, i valori cominciano a crescere in modo molto rilevante, specialmente in Spagna. Bisognerebbe dire che prima di questo momento le politiche riguardanti la gestione dei flussi migratori erano piuttosto materia di low politics, mentre dal 1999 in poi ritengo che si sia passati a un livello superiore che possiamo chiamare high politics. Esiste in questa fase la possibilità di collegare artificialmente o realmente – questa è la domanda – le migrazioni con i temi della sicurezza?

Il caso della Francia mostra valori molto elevati rispetto agli altri paesi presi in considerazione in questo studio (Spagna, Italia, Malta e Grecia), ma ovviamente la storia migratoria della Francia è completamente diversa.

Comunque, osservando questa evoluzione vediamo effettivamente questi valori che crescono e che il numero degli immigrati, soprattutto nei paesi del sud Europa, può creare degli squilibri e ci sono momenti in cui effettivamente bisogna fermarsi un attimo per riflettere in che modo tutto ciò possa avere un’influenza a livello politico, sociale, economico, culturale e così di seguito.

Effettivamente, fino a che punto migrazione e mobilità possono essere collegate con la sicurezza nel senso tradizionale del concetto? Come ho detto nell’introduzione, si tratta di un fenomeno multidimensionale ed è molto difficile mettere tutto in un sacchetto e venderlo, distribuirlo o analizzarlo come una entità unica. Quindi, quando si parla di migrazione e di mobilità, è necessario tenere a mente tre elementi principali: i paesi di origine, di transito e di destinazione.

Ovviamente, i fenomeni migratori sono motivati da tantissime cause, però normalmente sono dovuti a questioni di demografia, di sviluppo e di democrazia, le famose tre D (Democracy, Demography and Development). Quindi quando parliamo di migrazione, di spostamento di persone, bisogna

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vedere come e fino a che punto gli immigrati possono essere considerati nell'ottica della sicurezza.

Secondo me, bisogna garantire anche la sicurezza degli immigrati che vengono dai paesi del sud. Non si tratta solamente della sicurezza dei nostri paesi e delle nostre società, ma di un diritto garantito dalla dichiarazione universale delle Nazioni Unite (articolo 13/2) nel quale si garantisce che tutte le persone hanno il diritto di spostarsi dal loro paese a un altro e di tornare indietro. Quando però si parla di immigrazione illegale, bisognerebbe fare una piccola pausa di riflessione sul problema. Questo aspetto della sicurezza riguarda o dovrebbe riguardare i paesi, gli immigrati che vengono dal sud, i loro diritti, e la sicurezza che può rappresentare l’incremento e il maggior numero di comunità immigrate nei nostri paesi per le nostre società di “accoglienza”.

Gli attentati dell’11 settembre hanno rappresentato evidentemente uno spartiacque per quanto concerne la politica e le relazioni internazionali. E ovviamente dopo questa data si è fatto un collegamento, secondo me abbastanza radicale, tra immigrazione, aspetti di sicurezza e terrorismo internazionale. Si dovrebbe analizzare il tema con prudenza, perché si rischia di criminalizzare l’immigrazione e gli immigrati introducendo troppe errate semplificazioni nel discorso.

Tutto o gran parte di quello che è in gioco nel mondo della migrazione e della sicurezza, appartiene alla sfera dei valori, dei simboli. Sono i valori che vengono dai paesi del sud, da società che non sono le nostre, che possono entrare in confitto con i valori che difendiamo noi, valori occidentali come la democrazia, la libertà di pensiero. Tutto questo secondo noi viene sfidato e messo in discussione; perciò penso che la dimensione simbolica che sta dietro a tutto il collegamento tra migrazione e sicurezza sia molto forte. Quindi, direi che è molto discutibile considerare come una semplice equazione la complessità del fenomeno migrazione e sicurezza.

Ecco, allora, la guerra retorica sui simboli. Ho preso a caso le affiche che avevo sottomano in Svizzera riguardanti il modo in cui si può fare pubblicità politica, in cui la

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comunicazione politica e il discorso pubblico possono ricorrere a risorse simboliche per guadagnare consenso politico e in questo senso rendere l’opinione pubblica più o meno favorevole a determinate tesi politiche che possono celarsi dietro tali immagini.

Questo tipo di comunicazione politica e di discorso pubblico può creare delle reazioni nella pubblica opinione. Bisogna tenere presente che posizioni estreme da una parte o dall’altra, anche se non sono seguite da tante persone, possono creare momenti di disequilibrio, di problemi e di conflitto all’interno delle società nelle quali viviamo.

Ho analizzato la relazione tra la comunicazione politica e l’opinione pubblica. Effettivamente penso che ci sia una correlazione diretta tra il discorso pubblico e come reagisce l’opinione pubblica e avevo fatto un piccolo studio per vedere se questa ipotesi poteva essere effettivamente sostenuta empiricamente.

Ho analizzato le tendenze dell'opinione pubblica europea consultando l'Eurobarometro per il periodo 1999-2007 e ho selezionato cinque variabili: migrazione, sicurezza, occupazione, terrorismo e criminalità. La prima delle preoccupazioni degli europei è quella del lavoro, ovviamente. Però si vede anche che effettivamente gli aspetti della criminalità, del terrorismo e della sicurezza vengono strettamente legati alle migrazioni. Questo dimostra che la comunicazione politica e l'opinione pubblica collegano l'immigrazione con il rischio per la sicurezza delle società ospitanti.

Alcune altre osservazioni riguardanti la sicurezza: ovviamente un discorso pubblico impostato a estremismo può creare delle reazioni. Nel momento in cui l’equilibrio tra le società e tra le culture è fragile, quando si parla di dialogo euromediterraneo, di mutua intesa, di cooperazione e di coordinamento delle politiche, si dovrebbe essere molto coerenti. Con riferimento alle reazioni della pubblica opinione che si possono avere nei nostri paesi, penso agli episodi del 2005 in Francia, quando Sarkozy applicò la politica di tolleranza zero, sotto Villepin, e la sinistra francese – sbagliando le sue previsioni

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– diceva che probabilmente Sarkozy aveva bruciato le sue possibilità di essere eletto alle presidenziali del 2007, perché aveva impiegato il metodo della tolleranza zero per ridurre tensioni sociali che si producono sopratutto in quelle seconde e terze generazioni di immigrati che non sanno bene da dove vengono e a che cultura appartengono.

È importante anche parlare del fenomeno del transnazionalismo. Non si può parlare di migrazione unicamente in relazione agli emigrati che sono nei nostri paesi. Si deve anche parlare delle reti. Come ho già detto, lo sviluppo di queste reti può risultare pericoloso per la sicurezza. Adesso sto parlando esclusivamente del terrorismo internazionale e di che cosa occorre per preparare un attentato terroristico. La dimensione del transnazionalismo è una questione che deve essere presa in considerazione. Le informazioni vengono fornite probabilmente da gruppi di estremisti presenti nelle nostre società. Quindi non possiamo pensare che, per esempio, gli attentati di Madrid siano stati organizzati e orchestrati unicamente a partire dal Maghreb. Ci vuole anche l’informazione di gruppi che sono già in Spagna per un tale disegno.

A livello finanziario, dobbiamo tener presente che sono operazioni non costose. Per esempio l’attentato di Madrid è costato più o meno, secondo le fonti ufficiali, tra 4000 e 5000 euro. L’ultimo tentativo di strage a Times Square a New York quest’anno, è costato 7000 dollari, quindi stiamo parlando di organizzazioni molto flessibili e versatili che, impiegando poche risorse finanziarie, riescono o possono riuscire a provocare danni assai considerevoli.

Quindi bisogna considerare anche i possibili collegamenti che queste reti possono avere – Al Qaida o i movimenti affiancati ad Al Qaida nel Nord Africa – con le fonti di finanziamento, quali il traffico di droga proveniente dall’Afghanistan o dall’America Latina, il contrabbando e così di seguito.

Per quanto concerne la cooperazione internazionale e le politiche nazionali, secondo me c’è il rischio di criminalizzare questo fenomeno multidimensionale.

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E ora, analizziamo le implicazioni conseguenti alla crisi. Senza voler essere allarmistico, penso che l’attuale crisi economica possa essere comparata alle due crisi precedenti del ventesimo secolo: a quella del 1907-1908 e a quella del 1930-1934. Sei anni dopo la prima crisi economica è scoppiata la prima guerra mondiale; sei anni dopo la seconda è scoppiata la seconda guerra mondiale.

In contesti di contrazione economica molto forte, si determinano condizioni di pessimismo e tendenze al nazionalismo molto forti. Quindi, non voglio usare toni allarmistici, ma bisogna tenere in considerazione anche la storia economica che ha collegamenti con gli aspetti sociali per usare la giusta prudenza a livello della politica e della comunicazione politica.

Terminerò con qualche considerazione. In primo luogo non penso che la migrazione internazionale finirà, penso che sia un fenomeno che continuerà e quindi è un fatto che va considerato. In secondo luogo, il concetto di emigrazione e di sicurezza va analizzato con prudenza, prendendo in considerazione tutti gli aspetti, tutte le categorie e tutte le variabili contenuti in questo fenomeno multidimensionale. Bisogna anche vedere fino a che punto ci siano esigenze locali, nazionali e internazionali e fare un’analisi a diversi livelli ed essere molto attenti al modo in cui viene fatta la comunicazione politica e il discorso pubblico per evitare il più possibile la provocazione o le reazioni che possono essere una conseguenza diretta dei modi di dire ed esprimere le proprie idee.

Questo conflitto, questa guerra retorica sui simboli non sono utili; bisogna invece cercare di sviluppare un discorso molto più legato al coordinamento, all’interazione e al poter progredire insieme in un contesto di sicurezza comune e di grandissima coerenza politica.

Grazie per l’attenzione.

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Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie per il suo intervento, dottor Ureta. Do ora la parola al ministro Maroni.  

Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia. Grazie. Buongiorno a tutti. Vi ringrazio di avermi invitato a questo importante momento di riflessione su temi così rilevanti quali quelli della sicurezza in un’area certamente strategica che anche da questo punto di vista è il Mediterraneo.

Il Mediterraneo è un grande mare che rappresenta un’area di confine tra l’Europa e l’Africa e altri paesi extra-europei, un’area difficile da controllare, un’area che è al centro delle attenzioni dal punto di vista della sicurezza delle attività criminali. Un’area di contatto.

L’Italia, come altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo, svolge quindi un ruolo strategico per la sicurezza di tutto il continente europeo e in particolare dell’Unione europea. Parlerò del ruolo dell’Unione europea alla fine del mio intervento. Anticipo già che ciò che ha fatto l’Unione europea in questi anni ritengo sia insufficiente e insoddisfacente anche se negli ultimi tempi alcune iniziative importanti sono state assunte.

Si è parlato finora quasi esclusivamente dell’immigrazione. Il Mediterraneo è un'area fortemente interessata dai flussi migratori in particolare sud-nord ma il tema dell’immigrazione, che pure è un tema importante e centrale nelle politiche di sicurezza di tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, negli ultimi tempi è stato interessato dall’intreccio di altri temi, in particolare il traffico di sostanze stupefacenti, il traffico di droga e le attività terroristiche.

Che cosa voglio dire? Che le grandi organizzazioni criminali, che hanno negli anni passati gestito la tratta e il traffico degli esseri umani, hanno negli ultimi tempi avuto collegamenti con organizzazioni criminali dedite al traffico di droga e in particolare la 'ndrangheta italiana, e hanno cominciato a sfruttare le stesse rotte, le stesse tratte per trafficare sia sul fronte degli esseri umani che su quello della droga.

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Questa unione, questo collegamento rende più importante l’attenzione di tutte le istituzioni a qualunque titolo sul Mediterraneo. I dati di questi traffici sono impressionanti. Faccio riferimento a quelli resi noti dall’agenzia delle Nazioni Unite (UNODC, United Nation Office on Drugs and Crime) che si occupa di questi fenomeni.

La sola cocaina, che dal Sud America arriva in Europa con sedi di stoccaggio in Africa - che utilizza appunto le rotte gestite anche dalle organizzazioni che gestiscono il traffico degli esseri umani ogni anno ammonta a 25 tonnellate. Complessivamente la cocaina che viene dal Sud America verso l’Europa, supera le 200 tonnellate all’anno, la metà delle quali consumate in Europa, e l’eroina che viene dall’Afghanistan verso l’Europa, interessando marginalmente l’Africa ma passando anche dal Mediterraneo, ammonta a oltre cento tonnellate all’anno, di cui 87 consumate in Europa.

Sono centoquarantamila le vittime della tratta degli esseri umani che vengono portate in Europa ogni anno dal racket con un ricavato stimato di 3 miliardi di dollari all’anno per le organizzazioni criminali che sfruttano la tratta degli esseri umani. Sono cifre spaventose che sono purtroppo in continua crescita ed è per questo che il contrasto all’immigrazione clandestina deve andare di pari passo con il contrasto al traffico di droga, al traffico di armi e al terrorismo internazionale.

Su questo fronte, l’azione dei singoli stati è importante ma insufficiente. Io voglio portare l’esperienza italiana. Da due anni ho l’incarico di Ministro dell’interno e mi occupo di questi temi. L’azione del governo si è sviluppata in due direzioni: primo, nei confronti dell’Unione europea, della Commissione europea, un’azione di sollecito a prendere adeguate misure e a gestire il fenomeno dell’immigrazione clandestina e dell’annesso traffico di sostanze stupefacenti come una questione centrale nelle politiche di sicurezza europea, mettendo il Mediterraneo al centro di questa azione.

Non era stato così. L’Europa aveva un approccio globale all’immigrazione senza distinguere tra i confini di terra e quelli di mare, senza distinguere tra l’immigrazione verso i paesi del Nord

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Europa e quella verso i paesi del Sud. Oggi la situazione fortunatamente sta cambiando.

La seconda diretttrice di azione del governo italiano è stata quella di sviluppare una forte azione diplomatica nei confronti di paesi più direttamente interessati a questi fenomeni: i paesi del Maghreb in primo luogo, ma anche i paesi subsahariani. I paesi del Maghreb sono principalmente paesi di transito e quindi è utile che venga sviluppata un’azione di collaborazione anche con i paesi di origine, quelli subsahariani. L’Italia ha lavorato molto in questa direzione sviluppando iniziative di collaborazione che sono state rivolte non solo ad accrescere la capacità di questi paesi a controllare i fenomeni – per esempio attraverso lo sviluppo di attività formative e di addestramento a favore delle forze di polizia locali che l’Italia ha svolto e sta svolgendo - ma anche con la cessione di mezzi per migliorare i dispositivi di controllo delle frontiere che spesso sono assolutamente inadeguati.

Questa azione diplomatica si è sviluppata attraverso la stipula di numerosi accordi bilaterali – trenta ad oggi – con i paesi più significativi. Tutti i paesi del Maghreb e da ultimo paesi come il Niger e il Ghana che hanno siglato con l’Italia, con me, un accordo di cooperazione. È il primo accordo che questi paesi stipulano con un paese dell’Unione europea riconoscendo quindi all’Italia quel ruolo centrale nelle politiche di sicurezza nel Mediterraneo che ha per la sua collocazione naturale.

Prossimamente mi recherò in Senegal e in Gambia per stipulare anche qui due accordi. Il formato di questi accordi di cooperazione consiste in misure di contrasto all’emigrazione clandestina, in misure di contrasto al traffico di droga e di armi, in misure di contrasto al terrorismo internazionale. La cooperazione si svolge con addestramento, training, fornitura di mezzi ma soprattutto con lo scambio di informazioni.

Questo è il punto centrale, la chiave attorno a cui sviluppare le politiche di sicurezza, migliorare le difese dell'Europa, un costante, continuo e completo scambio di informazioni con questi paesi per riuscire a prevenire, oltre a contrastare, questi fenomeni. È uno sforzo importante che

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l’Europa sta facendo con qualche difficoltà anche nei confronti degli Stati Uniti: l’accordo “Swift”, che conoscete bene. Questo è il terreno su cui si giocherà la sfida vera di contrasto a questi traffici. Questi accordi però sono accordi bilaterali. Quello che manca appunto è il livello europeo di intervento, perché gli accordi bilaterali sono utili e importanti ma insufficienti.

Abbiamo scoperto che le grandi organizzazioni criminali che si occupano della tratta degli esseri umani, conoscono bene i contenuti di questi accordi e spesso definiscono le rotte di ingresso nei paesi europei proprio a seconda dei contenuti di questi accordi. Dirottano verso la Spagna, verso l’Italia o verso la Francia flussi di clandestini provenienti da certi paesi a seconda che ci siano accordi di riammissione o meno, e a seconda del contenuto di questi accordi. Faccio un esempio: abbiamo un ottimo accordo di riammissione in Italia con l’Egitto che prevede la possibilità, per il governo italiano, una volta ottenuto il riconoscimento dalle autorità egiziane di rimpatriare tutti i clandestini presenti in quel momento, di metterli per esempio su uno o più voli Charter: 20, 30, 40, 100... non importa.

Con altri paesi, questo meccanismo non funziona perché c’è una limitazione al rimpatrio da parte dei paesi per esempio a tre, quattro o cinque clandestini al giorno e solo su voli di linea, per motivi decisi da quel governo. È chiaro che questa limitazione che ha l’Italia – ma che non hanno altri paesi – ha indotto nel passato a far confluire in Italia cittadini provenienti da quel paese, nella consapevolezza che sarebbe stato pressoché impossibile rimpatriarli tutti e quindi sarebbero potuti rimanere liberamente in Italia e in Europa. Da qui la necessità, come ho detto, di sviluppare un accordo multilaterale fra l’Europa, tra la Commissione europea e tutti i paesi interessati per evitare questo vero e proprio shopping del paese di origine che abbiamo constatato e che constatiamo nelle discussioni tra i colleghi ministri dell’interno dei vari paesi europei.

Oltre all’azione di accordi bilaterali, abbiamo sviluppato anche delle iniziative coinvolgendo i paesi più interessati. Abbiamo promosso lo scorso novembre la Conferenza CIMO dei ministri dell’interno del Mediterraneo Occidentale che ha sviluppato una discussione molto utile ed interessante proprio su

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questi temi, dimostrando quanto sia cresciuta l'attenzione e la volontà di contrastare questi fenomeni da parte dei governi dei paesi del Maghreb.

L’Europa ha fatto molto in questi ultimi tempi su sollecitazione non solo del governo italiano ma anche di altri paesi del Mediterraneo: la Spagna, la Francia, Cipro, Malta e la Grecia. Abbiamo costituito un gruppo di coordinamento noto come il “Quadro Group” su iniziativa del governo italiano, gruppo che comprende Italia, Malta, Cipro e la Grecia, proprio per sollecitare un’azione più significativa dell’Europa nel Mediterraneo. E questa azione ha portato a risultati interessanti: la costituzione a Malta dell’Ufficio europeo per i rifugiati, che si è attivato recentemente e che deve avere due funzioni importanti. La prima, definire uno standard europeo unico per affrontare il tema dei rifugiati: oggi non è così. E secondo: attuare quello che molti paesi hanno chiesto: in Europa c’è il principio del burden sharing, la condivisione di tutti i paesi membri dell’Unione europea della gestione dell’insediamento e della gestione dei rifugiati che trovano accoglienza in Europa.

Il ruolo dell’Unione europea, oltre a questo, è stato importante per aver approvato su proposta francese il Patto europeo per l’immigrazione e l’asilo (ottobre 2008), che definisce delle linee guida importanti – che l’Italia ha attuato e continuerà ad attuare – e l’inserimento nel programma di Stoccolma (dicembre 2009) della strategia comunitaria di contrasto all’immigrazione e al terrorismo internazionale per il prossimo quinquennio, ponendo per la prima volta l’attenzione su un’area specifica qual è appunto il Mediterraneo. Si è cominciato a lavorare e si deve continuare in questa direzione rafforzando FRONTEX, agenzia importante ma che non riesce ad essere efficace, almeno nel Mediterraneo. È un’agenzia di coordinamento. Noi vogliamo e chiediamo che diventi un’agenzia operativa che abbia a disposizione delle strutture proprie e che possa gestire la questione dell’immigrazione in tutta l’Europa, creando e gestendo per esempio i centri per l’identificazione dell’espulsione e procedendo ai voli di rimpatrio che oggi sono quasi esclusivamente a carico dei singoli stati membri.

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Traffico di droga e canali della tratta degli esseri umani spesso coincidono. Il collegamento tra le associazioni criminose che hanno sede in Africa e quelle che hanno sede in Europa si fa sempre più evidente: sono stati evidenziati proprio recentemente dall’autorità giudiziaria italiana dei collegamenti operativi. Sono noti i collegamenti tra la 'ndrangheta e la mafia siciliana con i cartelli colombiani per l’ingresso in Europa di cocaina. È per questo che i singoli stati membri, i singoli governi, oggi non possono fronteggiare da soli questi fenomeni che sono fenomeni globali, sono fenomeni mondiali. Da qui la richiesta pressante che l’Italia ha rivolto all’Europa e a tutte le organizzazioni internazionali – comprese le Nazioni Unite.

Su questo punto vorrei concludere: due settimane fa si è svolta a New York la celebrazione dei dieci anni della Convenzione di Palermo: una convenzione contro il crimine transnazionale che comprende e contiene tutti i temi di cui abbiamo parlato oggi: la lotta all’immigrazione clandestina, al traffico di esseri umani, la lotta alla droga, la lotta al traffico di armi e la lotta al terrorismo internazionale.

La Convenzione di Palermo è stata sottoscritta da 150 paesi, ma i tre protocolli alla convenzione, che sono gli strumenti operativi che danno efficacia alla convenzione, sono stati sottoscritti solo da 70 paesi. Io ho fatto un intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sollecitando la sottoscrizione di questi protocolli, perché sono lo strumento più efficace oggi a disposizione dei paesi del mondo per combattere questi fenomeni. Sono strumenti che possono essere adottati superando le differenze dei sistemi legislativi dei singoli paesi.

La Convenzione di Palermo è uno strumento straordinario e per dare maggiore efficacia a questo strumento, l’Italia si è candidata come sede per una scuola di alta formazione per lo scambio di buone pratiche tra le polizie di tutti i paesi che aderiscono e che hanno sottoscritto i protocolli della Convenzione di Palermo. È uno sforzo che dobbiamo fare e che tutte le organizzazioni internazionali e tutte le strutture che si occupano di questi temi devono sostenere perché il crimine ormai è mondiale e l’azione che deve essere svolta per tener testa allo

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sviluppo impetuoso della criminalità deve essere una risposta adeguata. Grazie.  

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie per la sua allocuzione, signor Ministro. Abbiamo ora circa trenta minuti per il dibattito. Al momento ci sono due iscritti a parlare. Il primo è l'onorevole Rodriguez-Salmones.

Beatriz RODRIGUES-SALMONES, Congresso dei deputati, Spagna. La ringrazio. Nel grafico abbiamo visto la Spagna rappresentata con una grande linea blu. Ritengo sia sempre importante rilevare che da noi, l'immigrazione è un fenomeno diverso, perché gran parte degli immigranti proviene dal Sudamerica col quale condividiamo la lingua ed abbiamo quasi la stessa cultura. È una differenza, questa, che va sottolineata, perché credo che talvolta parliamo di migrazione senza far notare le sfumature, che andrebbero invece evidenziate poiché tale fenomeno non si presenta in modo omogeneo in tutti i paesi. Per quel che riguarda la Spagna, l’immigrazione dall'America del Sud pone problemi agli europei perché questi immigrati entrano dalla Spagna in generale senza documenti, clandestinamente. Solo a volte hanno un visto. Il fenomeno migratorio può comunque causare ad altri paesi europei dei problemi che non si pongono in Spagna, proprio in virtù degli legami culturali e linguistici esistenti.

Peraltro si parla sempre di cooperazione coi paesi di origine e facciamo sforzi importanti per cercare di orientare adeguatamente il fenomeno. Pensate veramente che possa funzionare? L’opinione pubblica ritiene noi stiamo facendo sforzi enormi per indirizzare in misura minima tale fenomeno, perché non vediamo risultati o perlomeno a me non risultano. Non so se si può parlare di successo, data la pochezza dei risultati rispetto ai grandi sforzi profusi.

Vorrei anche proporvi una riflessione e porre un interrogativo. Il tema delle vostre relazioni era «immigrazione e

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sicurezza». Parliamo dei grandi problemi della sicurezza e, al riguardo, non pensate che il narcotraffico, il terrorismo o il traffico di armi esisterebbero ugualmente anche senza questi grandi flussi migratori? Io credo che l’immigrazione possa acuire il problema, ma ritengo anche che il terrorismo di Al-Qaida esisterebbe comunque, con o senza immigrati. Né riesco a vedere come l’immigrazione possa contribuire in larga misura al traffico di armi. Certo risulta facilitato quando c’è povertà e disordine, ma penso che si debba distinguere i problemi di sicurezza di entità ridotta, “interni”, dai grandi problemi di sicurezza. Non vedo con chiarezza un legame tra droga, terrorismo, armi e migrazioni. La colpa va attribuita piuttosto alle mafie e ai nostri servizi di intelligence. È stato detto che ci vuole un servizio di informazione presso la Nato e l’Unione europea. A mio avviso le mafie e i servizi di intelligence rappresentano dei vettori di rischio molto più che il fenomeno dell’immigrazione.

Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia. Le due questioni: funziona la cooperazione con i paesi africani in particolare? Funziona, certamente sì. Porto l’esempio della cooperazione mediante l’accordo bilaterale fatto con la Libia da parte dell’Italia. La Libia è un paese di transito di immigrati che vengono da paesi subsahariani attraversando il Niger e arrivando in Libia. Abbiamo stipulato un accordo di cooperazione per rafforzare le politiche di contrasto all’immigrazione clandestina.

Da quando l’accordo è stato attuato, la situazione è molto migliorata. Nell’anno precedente l’accordo, dalla Libia sono partiti e sono arrivati sulle coste italiane oltre 37.000 clandestini. Da maggio dell’anno scorso a maggio di quest’anno, da quando cioè l’accordo è attuato, ne sono arrivati meno di 3.000. Quindi un calo di oltre il 90%.

Queste persone sono state fermate in Libia: non sappiamo quante sarebbero partite senza l’accordo e quante sarebbero morte in mare purtroppo, quindi questo accordo funziona. Il limite che io ho detto sulla bilateralità consiste nel fatto che, chiusa questa rotta, i trafficanti di esseri umani e di droga potrebbero cercare e anzi, probabilmente cercheranno, altre

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rotte verso est e verso ovest per arrivare comunque in Europa. Verso est, attraverso l’Egitto, la Turchia e la Grecia, e verso ovest, attraverso Marocco e Isole Canarie. È un fenomeno che si sta già verificando.

È per questo che ciò che l’Italia ha fatto è importante ma non è sufficiente; comunque la cooperazione funziona. Il traffico di droga e di armi ci sarebbe ugualmente, anche senza l’immigrazione? Certamente. Ho detto che stiamo verificando che le rotte coincidono e che i trafficanti, le organizzazioni criminali che si occupano del traffico di esseri umani, stanno facendo accordi con quelli che si occupano del traffico di droga e di armi per unire le forze e rendere quindi più potente il flusso. È per questo che il contrasto all’emigrazione clandestina deve andare di pari passo con il contrasto al traffico di droga. Significa colpire queste organizzazioni in tutte le loro attività.

Da qui la necessità di sviluppare una cooperazione internazionale tra tutti i vari settori, non più a compartimenti stagni, e da qui la necessità secondo me anche per le grandi organizzazioni internazionali – le Nazioni Unite ed altre – di rivedere l’organizzazione delle proprie agenzie per mettere assieme le forze e le conoscenze perché il crimine ormai è globale non solo per le reti criminali, ma anche per i contenuti dei traffici.

Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei. Molto brevemente concordo con i punti sollevati dal Ministro e effettivamente, aggiungerò qualche commento in più riguardo all’effettività delle politiche con i paesi del sud; è importante vedere se funzionano ma devono essere politiche che si possano sviluppare nel medio e anche nel lungo termine e quindi bisogna fare accordi e alleanze di lunga portata per arrivare a ottenere risultati nel lungo termine perché, comunque, l’immigrazione è un fenomeno su cui si può agire.

Per quanto riguarda le politiche di cooperazione, quando si parla del Processo di Barcellona, c’è stata una sorta di fallimento nei primi dieci anni di esercizio; ora vedremo quali

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esiti darà la "riformulazione" che c’è stata per il Mediterraneo, se si incorpora il quarto pilastro relativo all’immigrazione.

Si parla anche di aiuto allo sviluppo, di investimenti diretti, perché si pensa che se miglioreranno le condizioni economiche dei paesi del sud, la voglia o l’incentivo all'emigrazione saranno ridotti e quindi la gente vorrà partire di meno da questi paesi.

Se osserviamo la storia dell’emigrazione, dobbiamo essere attenti al cosiddetto migration hump, per cui nella misura in cui migliorano le condizioni economiche e finanziarie, si ha un incremento dell’emigrazione fino a un determinato punto a partire dal quale poi c’è un calo. Quindi anche questo fatto va tenuto in considerazione.

Per quanto riguarda le politiche specifiche di controllo, evidentemente le reti che stanno dietro al crimine organizzato cercano nuove rotte su cui indirizzare le loro attività perché muovono una quantità immensa di danaro.

Relativamente a coloro che entrano in Europa e che dopo diventano clandestini, generalmente quasi tutti entrano con un documento in regola perché entrano attraverso gli aeroporti. Dopo, una volta che scade il permesso di soggiorno, diventano o possono diventare clandestini perché restano nel paese. Magari si possono poi spostare in altri paesi. Bisogna stare molto attenti a questo fatto. Direi che bisogna essere molto prudenti nel pensare che l’emigrazione sia un aspetto legato unicamente alla povertà. Per emigrare da un paese a un altro a livello internazionale, ci vogliono soldi. Quindi vorrei in qualche modo sottolineare il fatto che l’immigrazione si collega a un aspetto di povertà; chi migra deve avere delle risorse per poterlo fare.

Sergio De GREGORIO, Presidente della Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare Nato. Grazie dottor Ureta per la sua illustrazione e la ringrazio, signor ministro Maroni, per essere stato qui stamane a nome della Delegazione italiana che ho l’onore di presiedere. La ringrazio particolarmente per aver voluto rispondere alle domande dei colleghi dell’Assemblea

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Parlamentare della Nato e del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente.

Una parte dell’opinione pubblica europea e internazionale attribuisce a una mancanza di sensibilità solidale le iniziative di contrasto dell’Italia e di altri paesi dell’Unione europea verso l’emigrazione clandestina. Eppure basterebbe leggere i rapporti di alcuni servizi di intelligence per rendere convincente ciò che lei ha esposto con molta determinazione e anche la linea verso la quale si è indirizzata l’azione del governo italiano e non solo di quello.

La lotta alla droga, al traffico di esseri umani e, perché no, anche al terrorismo vanno di pari passo con la lotta all’immigrazione. Certo le iniziative bilaterali di sostegno ai paesi del Maghreb e del Mediterraneo stanno facendo molto, stanno dando un contributo forte.

Le faccio una domanda sulla quale vorrei stimolare la sua riflessione politica: questo argomento è centrale rispetto alla sicurezza del continente europeo; è importantissimo rispetto al contrasto alla criminalità e alla tratta di esseri umani; ha evitato che in Italia ci siano stati accessi terroristici con sacrificio di vite umane e il mio paese è testimonianza chiara di questa immunità al fenomeno (noi siamo riusciti in questi anni, rispetto ad altri paesi europei che hanno subito danni e vittime, a evitare che il terrorismo mediorientale e internazionale fosse in qualche modo una minaccia grazie ad operazioni di polizia che hanno stroncato moltissime cellule che rischiavano di provocare lutti in questo paese). Come mai, allora, questo argomento è al centro di uno scontro violento fra culture politiche diverse? Perché tanto dibattito senza che invece si vada alla fonte di questo approfondimento che con molta semplicità e senza nessuno scandalo lei ha denunciato con fatti e numeri?

Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia. Potrei rispondere che è la politica, che fa parte della politica, della vita e dell’azione politica di individuare argomenti e terreni su cui il contrasto è forte. Penso che su questo tema, quello del contrasto all’immigrazione clandestina e quello all’immigrazione in

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genere, si siano sviluppate sensibilità molto forti che portano ad un contrasto forte ma sostanzialmente immotivato.

Rifiuto la critica che viene fatta all’Italia da qualche parte di essere un paese che non ha sviluppato politiche di integrazione e di accoglienza ma solo di contrasto all’immigrazione clandestina. Non è così. L’Italia è un paese che ha sviluppato fortissime politiche e molto efficaci di inclusione e di accoglienza e lo testimoniano tutte le realtà, e sono tantissime, in cui gli immigrati hanno un regolare lavoro, hanno una famiglia e hanno sviluppato livelli di integrazione altissimi.

Ricordo che in Italia un cittadino non italiano, non europeo, quindi un cittadino extra-comunitario, che è in regola con il permesso di soggiorno, ha tutti i diritti dei cittadini italiani escluso il diritto di voto. Ha tutti i diritti, ha diritto di partecipare e di avere tutte le prestazioni di carattere sociale, assistenziale e sanitario riservato ai cittadini italiani senza dover pagare nulla, senza nessuna differenza. I cittadini extra-comunitari regolari.

Credo che anche a tutela loro sia utile sviluppare il contrasto all’immigrazione e alle irregolarità, per far venir meno la paura nei confronti degli immigrati clandestini che sviluppa sentimenti di ostilità. Questo si verifica laddove ci sono realtà locali in cui si attua la politica di " tolleranza zero " - citata prima dal professor Ureta e che anche noi e non solo Sarkozy abbiamo attuato – e allora il livello di accoglienza nei confronti dei cittadini extra-comunitari è più alto.

Laddove c’è una situazione di degrado, con una presenza di cittadini extracomunitari tollerata ma irregolare, la situazione è certamente peggiore e anche l’attitudine dei cittadini italiani. Faccio riferimento a una ricerca svolta recentemente dall’Università Bocconi di Milano, molto interessante perché è andata a sentire proprio l’opinione dei cittadini extra-comunitari che vivono in varie città italiane e l’attitudine migliore, cioè la consapevolezza di trovarsi in un posto accogliente, viene proprio da quelle città i cui sindaci hanno sviluppato politiche di grande rigore nei confronti dell’immigrazione clandestina.

Il terrorismo: ho fatto un cenno solo marginale nella mia relazione perché il fenomeno del terrorismo si sviluppa a

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prescindere da questi grandi flussi e si sviluppa in un modo nuovo e molto insidioso. È il cosiddetto terrorismo franchising. Non sono più i terroristi addestrati nei campi di Al-Qaida che cercano di penetrare nei nostri paesi per compiere azioni terroristiche, ma sono cittadini che vivono qua, spesso che hanno la cittadinanza. È successo in Inghilterra per esempio, utilizzando gli strumenti messi a disposizione da Al-Qaida, in particolar modo attraverso il web, lo strumento principe per la diffusione delle tecniche del terrorismo.

Noi abbiamo avuto purtroppo un caso recente, una sorta di homegrown terrorist, che non era homegrown solo perché non aveva ancora ottenuto la cittadinanza. Ma era in Italia da dieci anni. Per nove anni si è comportato come un cittadino esemplare. Un imprenditore, sposato, ha messo su famiglia, si comportava come un cittadino modello. Nell’ultimo anno ha subito un rovescio economico, ha cominciato a frequentare la moschea in viale Jenner di Milano e nel giro di un anno è passato dall’essere un cittadino modello a diventare un terrorista che ha costruito una bomba in casa sua, prendendo le istruzioni su Internet, si è recato presso una caserma a Milano e si è fatto saltare. Per nostra fortuna non è riuscito a realizzarla come dicevano le istruzioni ed è scoppiata solo la quantità di esplosivo che era all’innesco della bomba quindi solo un solo decimo della bomba. Se fosse esplosa tutta la bomba, sarebbe saltata per aria la caserma. Così si è ferito solo lui.

Il terrorismo quindi, franchising homegrown, è l’ultima frontiera ed è più insidiosa perché è difficile da individuare. Mi sento di dire che su questo fronte, anche qui, dobbiamo aggiornare le nostre tecniche investigative tenendo sempre sotto controllo le grandi centrali terroristiche all’estero ma concentrando l’attenzione su fenomeni locali di concentrazione nelle varie città, per esempio, di certi gruppi etnici all’interno dei quali possono nascere queste decisioni di diventare improvvisamente terrorista da parte di persone insospettabili.

Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei. Vorrei

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commentare brevemente le parole molto interessanti del ministro Maroni; su questi temi ho scritto un documento dal quale ho tratto la mia presentazione. Se qualcuno vuole prenderne visione, lo consegno volentieri. In questo documento faccio effettivamente una riflessione su quello che ha appena detto il ministro adesso e che è molto importante.

Per esempio due casi molto semplici: Londra è una città la cui popolazione paramusulmana è in crescita molto forte e nell’ultimo mese e mezzo sono andato a vedere alcune manifestazioni di questo gruppo di popolazione. Una riguardava il veto posto dal governo del Belgio al velo integrale, e si svolgeva davanti all’Ambasciata belga. La seconda manifestazione esprimeva una protesta contro il ritorno del primo battaglione del Royal Anglian Regiment. Ciò che si poteva osservare prima di tutto, è che si trattava di gruppi molto piccoli, cinquanta - sessanta persone, ma è interessante notare il numero di cittadini magari convertiti all’Islam a seguito di condizioni di difficile integrazione nella società e nella loro società. Si potevano sentire espressioni come: Belgium go to hell, Islam will dominate the world. The European Union equals Evil Union, alliance of crusaders. A Roma si poteva sentire: The hour will not be established, until Muslims will conquer Rome.

Cioè ci sono delle manifestazioni con espressioni importanti che, anche se sono marginali, possono presentare un punto di riflessione molto importante e penso che in qualche modo il controllo o la sorveglianza delle reti sociali e internet possano essere importanti per controllare un po’ meglio questo potenziale di pericolo.

José LELLO, Assemblea della Repubblica, Portogallo. Desidero rimarcare la qualità di entrambe le presentazioni ed ora passo direttamente al punto che mi preme sottolineare. Soprattutto lei, signor Ministro, ha toccato due aspetti: l’immigrazione e il traffico di droga. Ha fatto riferimento ai legami esistenti tra i due fenomeni. Credo che per paesi come l’Italia, la Spagna, il Portogallo e la Francia sia impossibile controllare questi fenomeni autonomamente, in quanto essi vanno

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ben al di là delle loro capacità. Ritengo, infatti, che sia necessaria una più ampia cooperazione. Tuttavia, la maggior parte del tempo noi abbiamo a che fare con repressione o azioni di polizia. Credo siano, invece, necessarie attività di prevenzione.

L’Africa rappresenta, oggi, un fenomeno demografico che punta all’Europa. Loro guardano all’Europa. Soprattutto l’Africa subsahariana. Credo, quindi, che i risultati migliori si potrebbero raggiungere cercando sostenere lo sviluppo economico di quei paesi. Non con un grande investimento di capitali, ma con piani e attività che facciano ampio uso di forza lavoro. Ritengo che questo sarebbe molto più importante che creare una fortezza europea.

E questo era un punto; passo ora al mio secondo punto. Lei ha parlato del traffico di droga ed oggi noi vediamo che la cocaina sudamericana arriva in Europa passando per l’Africa, viaggiando in semplici velivoli bimotori dotati di serbatoi di riserva. Esiste una rotta breve tra l’America del Sud e l’Africa che passa o per la Guinea-Bissau o per la Guinea-Conakry. Ho un ottimo rapporto con il Primo Ministro della Guniea-Bissau che è oggetto di attacchi e minacce da parte di guerriglieri, tutti coinvolti nel narcotraffico. È solo nella lotta contro questa piaga in un paese molto povero dove i signori della droga comprano tutti: la polizia, le forze armate, eccetera. Egli è nel mirino ed è in estremo pericolo. Hanno perfino cercato di ucciderlo.

Mi domando: perché l’Unione europea e gli Stati Uniti non sostengono questi paesi? Essi non hanno risorse sufficienti per intercettare questi velivoli che atterrano in piccoli campi nell’arcipelago delle isole Bijagos o per controllarli. Il Primo Ministro è una persona aperta, ma nessuno lo aiuta. Ho fatto un discorso la scorsa settimana alle Nazioni Unite cercando di risvegliare l’attenzione delle potenze del mondo a questa realtà, soprattutto quella dell’Unione europea e degli Stati Uniti. Noi finiamo sempre per seguire gli stessi sistemi che tanto ci piace guardare nelle serie tv: la polizia che tiene le cose sotto controllo e nulla che succeda veramente. Grazie.

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Vincenzo BIANCO, Senato della Repubblica, Italia. Presidente, più che una domanda è lo svolgimento di alcune considerazioni. Anche perché nella politica si ha l’abitudine di attribuire agli avversari politici delle tesi che essi non hanno mai sostenuto. Come per esempio che gli avversari politici sono favorevoli o deboli nei confronti del contrasto all’immigrazione clandestina.

Io parto da una considerazione: l’anno in cui sono nato, il 1951, il 21% della popolazione del pianeta risiedeva in Europa e l’8% del pianeta risiedeva in Africa. Secondo le stime dei demografi, nel 2050, ossia fra quarant’anni, il 21% della popolazione mondiale risiederà in Africa e il 7,8% della popolazione mondiale risiederà in Europa. Naturalmente consideriamo l’Europa compresa l’immigrazione che nel frattempo c’è stata.

Consideriamo ora qual è il tasso di natalità nei paesi della sponda europea del Mediterraneo. Consideriamo qual è il tasso di natalità nei paesi della sponda africana del Mediterraneo, e soprattutto qual è il tasso di natalità nei paesi dell’Africa subsahariana. In questo momento il tasso di natalità nei paesi dell’Africa subsahariana se non ricordo male è oltre il 6%, quando nel Mediterraneo europeo siamo attorno all’1,1%.

Siamo in presenza, vorrei ricordare, di uno dei fenomeni migratori più importanti nella storia dell’uomo su questo pianeta. Pensare di affrontare questo problema con una sola politica, che pure è necessaria, è profondamente sbagliato. Pensare che si possa non fare contrasto all’immigrazione clandestina è un errore clamoroso. Il contrasto all’immigrazione clandestina e una politica moderna di immigrazione sono due facce della stessa medaglia. Ma occorre nel contempo porsi anche altri obiettivi.

In primo luogo: la cooperazione allo sviluppo dei paesi dai quali vengono i flussi migratori. L’Europa e non solo l’Europa è troppo egoista. Continua ad affrontare la politica dell’immigrazione senza dimenticare che occorre ed è indispensabile che ci siano investimenti seri in questi paesi. Certo è necessaria la politica di cooperazione bilaterale e multilaterale non solo per il contrasto all’immigrazione clandestina, ma anche per le altre azioni che devono e possono essere poste in essere. E

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infine, credo che sia indispensabile una seria politica per l’integrazione che naturalmente deve avere un percorso molto lungo.

Ha ragione il ministro Maroni quando ricordava poco fa che vi è, soprattutto in Gran Bretagna ma anche negli altri paesi, un rischio di un rigurgito contro il paese che ospita immigrati di seconda generazione nati e cittadini di paesi europei e che alcune delle cellule terroristiche fai-da-te che sono state scoperte sono alimentate proprio da giovani cittadini inglesi figli di immigrati.

Allora ci vuole una politica di integrazione non solo economica e sociale ma anche culturale che rispetti le identità e che promuova però un inserimento. E infine, attenzione a leggere i dati con troppa rapidità. I successi che sono stati portati in essere nel nostro paese nel corso di questi anni dai governi di centro-destra e di centro-sinistra, del contrasto all’immigrazione clandestina, sono parziali perché un’ampia parte di coloro che entrano nel nostro paese entrano regolarmente sulla base di visti turistici, come abbiamo ricordato, e poi si fermano illegalmente. Quindi avere fermato il flusso dei clandestini dalla Libia è un fatto certamente positivo così come prima dalla Tunisia o dal Marocco o dall’Albania, ma sappiamo che è soltanto uno degli aspetti.

E poi, mi è sembrato che in qualche intervento, in qualche passaggio di qualche intervento, venisse troppo frequentemente posta in essere un’equazione tra immigrazione clandestina e criminalità. Non è così, non sarebbe giusto. L’immigrazione clandestina è un dramma, soprattutto per chi è costretto a porla in essere, ma sappiamo perfettamente che la stragrande maggioranza degli immigrati clandestini sono persone che ambiscono poi ad essere regolarizzate e molti immigrati del nostro paese che lavorano seriamente, sono entrati clandestinamente e sono ormai regolarmente naturalizzati.

Naturalmente l’immigrazione clandestina è ovviamente (e continuo ad affermarlo) un dramma. Grazie Presidente.

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Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia. Sono assolutamente d’accordo che la soluzione per affrontare il tema dell’immigrazione sia quella della cooperazione allo sviluppo economico dei paesi di origine. L’Europa e i paesi europei hanno costruito politiche di cooperazione allo sviluppo negli scorsi venti – venticinque anni, che non hanno portato significativi risultati. Sono stati investiti molti soldi e molte risorse che spesso non sono state utilizzate dai governi di quei paesi per lo sviluppo economico ma per altre finalità.

Questo è il punto fondamentale che però non può essere lasciato sulle spalle dei singoli paesi. L’Italia non può sostenere da sola il peso dello sviluppo economico di tutti i paesi subsahariani così come non lo può fare la Spagna, non lo può fare il Portogallo, non può farlo da sola la Francia. Forse può farlo l’Europa, ma io credo che lo debba fare la comunità internazionale nel suo complesso, perché il problema è urgente. Ci sono milioni di cittadini africani pronti a muoversi. Solo una piccola parte di questi scappa da scenari di guerra, cioè sono potenziali rifugiati. E lì ovviamente è più difficile intervenire. Ma gli altri scappano dalla fame e dalla miseria e rimarrebbero lì se ci fosse un investimento serio e importante nello sviluppo economico.

Il secondo motivo di preoccupazione e di sollecitazione - come diceva il collega del Portogallo “try to wake up” (bisogna svegliarsi) - è perché c’è già qualcuno che sta sviluppando una politica di forte investimento in quasi tutti i paesi africani, ed è la Cina. Io sono stato recentemente in molti paesi africani dove c’è una storica presenza di imprese italiane da trenta - quarant’anni e forse più nell’edilizia e in altri settori economici ed imprenditoriali e questi imprenditori italiani oggi sono messi in grave difficoltà e rischiano di essere espulsi da quel mercato per la presenza di attività di imprese cinesi che praticano il dumping perché hanno aiuti del governo: è una forma di nuova colonizzazione. Non è un vero e proprio investimento sullo sviluppo ma è una nuova colonizzazione o tentativo di colonizzazione da parte di questi paesi. Sia per le risorse minerarie, le risorse naturali, sia per lo sviluppo e l’espansione economica della Cina.

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È un fenomeno che ci riguarda da vicino, è qui alle nostre porte e noi davvero dobbiamo svegliarci su questo fronte così come dobbiamo combattere il traffico di droga. I canali sono noti, sappiamo dove arriva, come viene gestita, come arriva in Europa. Purtroppo su questo fronte l’azione di contrasto è ancora molto debole e occorre che le organizzazioni internazionali, Interpol per esempio, e la collaborazione tra l’Europa e gli Stati Uniti si rafforzi perché le conoscenze ci sono ma manca un’azione incisiva di contrasto, che pure può essere svolta in modo abbastanza semplice direi.

Sono d’accordo poi con il collega Bianco sul rapporto tra immigrazione e criminalità: non sono un matematico ma mi permetto di correggere – non è un’equazione ma semmai un’eguaglianza dal punto di vista matematico. Ma è un’espressione che usiamo frequentemente. È vero anche che un immigrato che arriva con un regolare visto di soggiorno per turismo poi può decidere di fermarsi clandestinamente per ricongiungersi qui e cercare una propria attività. Un altro conto sono le masse, migliaia di persone che arrivano pagando ai trafficanti cifre enormi che non possono pagare, ma che vengono poi pagate successivamente al loro arrivo con lo sfruttamento della prostituzione o con la partecipazione a questi circuiti criminali.

Per un passaggio su un barcone dalla Libia all’Italia venivano chiesti fino a seimila dollari a persone per le quali un reddito di seimila dollari consentiva di vivere per tre generazioni nel loro paese. Non potendo pagare, venivano costrette successivamente - anche contro la loro volontà - a partecipare a circuiti criminosi. Quindi, lontana da me l’idea di questa uguaglianza ma nei fatti questa immigrazione clandestina attraverso il racket porta fatalmente in quella direzione. Per questo il contrasto a questa particolare fattispecie di immigrazione clandestina è anche un contributo significativo contro la criminalità.

Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei. Molto

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brevemente, riguardo alle politiche di sviluppo menzionate e al concetto di “egoismo”. Effettivamente rispetto a questo occorre una coerenza politica molto forte perché, da un lato, esistono questi squilibri tra il nord e il sud. Però noi vogliamo mantenere un certo modello economico capitalista che secondo me sfocia in uno sfruttamento molto forte delle società del sud e in qualche modo c’è uno sforzo per mantenere questo stato di benessere. Dall’altra parte, gli immigrati sono anche benvenuti perché costano poco alle nostre industrie e all’economia e quindi occorre proprio qui essere molto coerenti a livello politico e ripensare in questo senso il modello economico che vogliamo difendere per i nostri paesi e come affrontare il futuro. Credo che sia una questione di lotta contro una possibile ipocrisia.

Doru Claudian FRUNZULICA, Vice Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Romania. Grazie signor Presidente. Sarò molto breve. Ho avuto l’onore e il piacere di incontrare il ministro Maroni nel 2004. Allora ero vice ministro del lavoro ed egli era ministro del lavoro e discutemmo di un tema legato all’area Schengen. Ministro Maroni, qual è la sua opinione oggi? È favorevole all’allargamento dell’area Schengen e a maggiori misure compensative per tale allargamento o no? Tenuto conto del fatto che l’anno prossimo la Romania, la Bulgaria, la Repubblica di Cipro e il Liechtenstein entreranno a far parte dell’area Schengen e delle cause e degli effetti dell’avere tre paesi europei che non sono membri dell’Unione europea e che, invece, già fanno parte dell’area Schengen. Grazie.

Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia. La Svizzera. Siamo molto lieti che la Svizzera abbia deciso di entrare a far parte dell’area Schengen. Abbiamo avuto qualche problema con la Libia, ma li abbiamo risolti.

Io sono favorevole all’allargamento sulla base dell’esperienza concreta maturata in questi anni. L’ingresso per esempio della Slovenia in Schengen ha sottratto all’Italia il controllo della frontiera con l’area balcanica, ma la Slovenia ha

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sviluppato un sistema di controllo ai propri confini eccellente che ci ha consentito di togliere anche i controlli dietro la frontiera che avevamo attuato e attivato e che attiviamo sempre quando viene meno una frontiera (l’abbiamo fatto anche con la Svizzera). Quindi siamo soddisfatti di come la Slovenia ha sviluppato il sistema di controllo.

Sono stato recentemente in Romania e con il collega ministro dell’interno ho potuto vedere i sistemi di controllo che la Romania ha sviluppato proprio in vista dell’ingresso in Schengen e devo dire che almeno sulla carta, teoricamente, sono sistemi di grande efficienza per controllare un’area difficile quali sono i confini della Romania con gli altri paesi. Ma confido che l’ingresso della Romania e degli altri paesi in Schengen possa garantire lo stesso controllo che c’è oggi.

Il problema di Schengen è un altro: è l’incapacità o la difficoltà dell’area Schengen e della Commissione ad aggiornare il sistema informativo. E il sistema informativo Schengen, il SIS 1 e il SIS 2, non riescono a decollare per problemi legati alle competenze dei singoli stati, alle eccezioni poste da alcuni paesi sulla privacy, sulla gestione di questi dati. Questo è un problema serio perché se non riescono i paesi membri dell’area Schengen a scambiarsi le informazioni, anche un grande controllo sui confini non è efficace perché - come diceva anche il collega Bianco, e sono assolutamente d’accordo con lui - l’80% dell’immigrazione illegale entra legalmente in Europa e non penetrando illegalmente dai confini. Quindi fronteggiare l’immigrazione illegale presente già in Europa, lo si può fare solo sviluppando un sistema di scambio di informazioni nei paesi Schengen che oggi non esiste ancora in modo soddisfacente.

Vahit ERDEM, Presidente del GSM dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia. Grazie. Desidero ringraziare entrambi i relatori, il ministro Maroni e il dottor Ureta per il prezioso contributo che hanno dato al nostro dibattito ed al Seminario.

Cari colleghi, siamo giunti alla fine delle nostre discussioni. In un giorno e mezzo abbiamo avuto dibattiti intensi

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e proficui su temi e sfide importanti che ci troviamo ad affrontare. Mi auguro che queste discussioni possano apportare un valore aggiunto alla nostra comprensione e al nostro dialogo.

Desidero, ancora una volta, ringraziare la Delegazione italiana per la calorosa accoglienza che ci ha riservato a Roma. Desidero, inoltre, ringraziare lo staff italiano che ha lavorato con grande impegno per far sì che il nostro seminario fosse un successo. Desidero, poi, ringraziare i nostri relatori ospiti per aver trovato il tempo per essere qui e per aver guidato i nostri dibattiti. Ringrazio lo staff dell’Assemblea parlamentare della Nato, il Segretario Generale, che è qui con noi a questo Seminario, e Zachary Selden, Vice Segretario Generale responsabile del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente. Particolari ringraziamenti vanno a Claire Watkins, Susan Millar e Nadica Pavlovska. Certamente dobbiamo tutti ringraziare gli interpreti che hanno reso le nostre parole comprensibili a tutti noi. Infine, desidero ringraziare tutti per essere venuti e per aver contribuito al dibattito. Concludo così il Seminario e chiudo la sessione. Grazie davvero a tutti.

Seminario del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea Nato - Roma, 27-28 giugno 2010

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II

ALLEGATI

Seminario del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea Nato - Roma, 27-28 giugno 2010

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064 GSM 10 def. GSM Originale: Inglese

A s s e m b l e a p a r l a m e n t a r e N A T O

GRUPPO SPECIALE MEDITERRANEO E MEDIO ORIENTE

SEMINARIO DI ROMA

27 - 28 giugno 2010

PROGRAMMA

Seminario co-organizzato con la Delegazione italiana presso la Assemblea parlamentare Nato

Senato della Repubblica Camera dei deputati

Segretariato internazionale 30 giugno 2010

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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PROGRAMMA

DOMENICA 27 GIUGNO

Apertura del Seminario. Indirizzi di saluto:

Onorevole Vahit ERDEM, Presidente del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell'Assemblea parlamentare Nato, Turchia

Senatore Sergio DE GREGORIO, Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato

Intervento introduttivo di Elizabeth DIBBLE, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione, su “Il processo di pace in Medio Oriente: la visione USA per la regione”.

Discussione

SESSIONE 1SESSIONE 1 PANORAMICA SULLA REGIONE DEL GOLFO: COME DEMOCRATIZZAZIONE E STATE BUILDING IN IRAQ INFLUENZANO I FUTURI SCENARI NEL GOLFO

Presentazione del dottor Reidar VISSER, Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI), su "Le misure di state building in Iraq".

Presentazione del dottor Faleh ABDUL-JABAR, Istituto iracheno di Studi strategici su "L'Iraq e gli attori regionali".

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Discussione

SESSIONE 2S 2ESSIONE SICUREZZA MARITTIMA E PIRATERIA

Presentazione dell'Ammiraglio di squadra Maurizio GEMIGNANI, Comandante della Componente marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli, su "Le operazioni di sicurezza marittima della Nato: la lotta contro la pirateria al largo del Corno d'Africa".

Presentazione del ministro Massimo MAROTTI, Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia, su "L'attuale impegno internazionale per combattere la pirateria marittima".

Discussione

LUNEDÌ 27 GIUGNO

SESSIONE 3SESSIONE 3 L'INTERDIPENDENZA ENERGETICA NEL MEDITERRANEO: L'USO A FINI CIVILI DELL'ENERGIA NUCLEARE

Presentazione del dottor Lorenzo TROMBETTA, esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente su "Le operazioni di sicurezza della Nato nel Mediterraneo e la cooperazione regionale".

Discussione

Senato della Repubblica Camera dei deputati

168

SESSIONE 4SESSIONE 4 IMMIGRAZIONE E SICUREZZA: COOPERAZIONE TRA I PAESI MEDITERRANEI

Presentazione del dottor Ivan URETA, Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei su "Nuova valutazione del nesso tra sicurezza e migrazione-mobilità nel Mediterraneo".

Presentazione dell'onorevole Roberto MARONI, Ministro dell'Interno, Italia

Discussione

Chiusura dei lavori.

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106 GSM 10 B rev 2

A s s e m b l e a p a r l a m e n t a r e N A T O

GRUPPO SPECIALE MEDITERRANEO

E MEDIO ORIENTE

LISTA DEI PARTECIPANTI

ROMA, ITALIA

27 - 28 GIUGNO 2009

Segretariato internazionale giugno 2009

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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UFFICIO DI PRESIDENZA DEL GRUPPO SPECIALE MEDITERRANEO E MEDIO ORIENTE (GSM)

DELL’ASSEMBLEA PARLAMENTARE NATO Presidente: Vahit ERDEM (Turchia, Grande

Assemblea Nazionale, Partito Giustizia e Sviluppo, Kirikkale).

Vice Presidenti: Raynell ANDREYCHUK (Canada,

Partito conservatore, Relatore generale della Commissione politica).

Doru Claudian FRUNZULICA

(Romania, Partito social-democratico, Vice presidente della Delegazione rumena).

Relatore: Antonello CABRAS (Italia, Senato

della Repubblica, Partito Democratico, Sardegna).

DELEGAZIONI DEI PAESI MEMBRI

Belgio Camera dei Rappresentanti Presidente della Delegazione Daniel BACQUELAINE (Movimento riformista) Vice Presidente della Delegazione Gerald KINDERMANS (CDV)

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Segretario della Delegazione Frans VAN MELKEBEKE

Francia Assemblea nazionale Membri Jean-Michel BOUCHERON (Partito socialista) - Vice presidente dell'Assemblea Michel LEFAIT (Partito socialista) Philippe VITEL (UMP) Segretario della Delegazione Frédéric TAILLET Senato Membro Jean-Pierre DEMERLIAT (Partito socialista)

Germania Bundestag Membro supplente Michael BRAND (CDU/CSU)

Grecia Camera dei deputati Membro Evdoxia-Eva KAILI (Partito socialista)

Italia Senato della Repubblica Presidente della Delegazione Sergio DE GREGORIO (Il Popolo della Libertà) Membri Vincenzo BIANCO (Partito Democratico)

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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Segretario della Delegazione Alessandra LAI Staff Elena DI PANCRAZIO Giuseppe TREZZA Federico Guglielmo POMMIER VINCELLI Laura Ellina TABLADINI Monica DELLI PRISCOLI Nadia QUADRELLI Adele SCARPELLI Camera dei deputati Membri Arturo Maria Luigi PARISI (Partito Democratico) Staff Pia CALIFANO

Norvegia Storting Membro supplente IVAR KRISTIANSEN (Partito conservatore)

Portogallo Assemblea della Repubblica Membro Manuel Filipe CORREIA DE JESUS (Partito socialdemocratico)

Regno Unito

Camera dei Comuni Membro Michael CLAPHAM (Partito laburista)

Spagna Congresso dei Deputati

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Membro Beatriz RODRIGUEZ-SALMONES (Partito popolare) Senato Vice Presidente della Delegazione Ramon ALEU (Partito socialista catalano) Membro Josep MALDONADO (Convergenza e Unione)

Turchia Grande Assemblea Nazionale Membri Hamit HOMRIS (Partito del Movimento Nazionalista) Mehmet CEYLAN (Partito della giustizia e dello sviluppo) Segretario della Delegazione Yesim USLU

PARTNER REGIONALI E MEMBRI ASSOCIATI MEDITERRANEI

Algeria Consiglio della Nazione Presidente della Delegazione Mostefa CHELOUFI (senatore di nomina presidenziale) Segretario della Delegazione Mahmoud ASSALA Assemblea nazionale Ahmed ISSAAD (Movimento della società per la pace)

Israele Arieh ELDAD (Unione nazionale)

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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OSSERVATORI

Lironne BAR-SADEH Ministro Consigliere, Ambasciata di Israele , Roma Gen. B.A. Gianni CANDOTTI Vice Capo Reparto del 3° Reparto di Stato Maggiore Difesa, Ministero della Difesa, Italia Giacomo CIRIELLO Ministero dell'Interno, Italia Bertrand de CORDOVEZ Consigliere, direttore di Divisione, Divisione delle relazioni parlamentari e degli studi internazionali, Servizio degli affari internazionali e della difesa, Assemblea nazionale/Assemblea parlamentare del Mediterraneo Ambasciatore Maurits JOCHEMS Vice Segretario generale aggiunto per la pianificazione, Divisone Operazioni, Nato Aldo LOMBARDO Ministero dell'Interno, Italia C.V. Gualtiero MATTESI Assistente militare del Vice Capo di Stato Maggiore (DCHOD MA), Stato Maggiore Difesa, Ministero della Difesa, Italia C.C. Daniele PANEBIANCO Aiutante di bandiera del Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC) Sergio PIAZZI Segretario generale, Assemblea parlamentare del Mediterraneo Ammiraglio di Divisione Alessandro PIROLI Vice Capo Reparto del 3° Reparto, (Relazioni internazionali), Stato Maggiore Difesa, Ministero della Difesa, Italia

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Daniela PROPERSI Ministero dell'Interno, Italia Camille de ROCCA SERRA (UMP) Assemblea parlamentare del Mediterraneo Paola SCIPIONI Ministero dell'Interno, Italia Marco VILLANI Ministero dell'Interno, Italia Isabella VOTINO Ministero dell'Interno, Italia Liam WASLEY Ufficio degli affari politici, Ambasciata USA, Roma

RELATORI Faleh ABDUL-JABAR Istituto iracheno di studi strategici, Iraq Elizabeth DIBBLE Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo Missione Ammiraglio di squadra Maurizio GEMIGNANI Comandante della Componente Marittima delle Forze alleate (COM MC), Napoli Roberto MARONI Ministro dell'Interno, Italia Massimo MAROTTI Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero degli Affari esteri, Italia

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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Lorenzo TROMBETTA Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio Oriente Ivan URETA Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari internazionali (NUPI)

SEGRETARIATO INTERNAZIONALE

David HOBBS Segretario Generale Zachary SELDEN Segretario Generale aggiunto

per gli affari politici Claire WATKINS Coordinatrice del GSM Susan MILLER Segretario di direzione Nadica PAVLOVSKA Ricercatore

INTERPRETI Inglese / Francese Kathryn FALK Brigitte LEBLANC Elizabeth PAROT Italiano / Inglese Paula BRUNO Valérie CONKLIN Paola TALEVI

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BIOGRAFIE DEI RELATORI

Vahit ERDEM Presidente del Gruppo Speciale Mediterraneo e Medio

Oriente dell’Assemblea parlamentare Nato Partito: Partito Giustizia e Sviluppo Camera: Grande Assemblea Nazionale Collegio elettorale: Kirikkale Data di nascita: 7/1/1944 Biografia: Ingegnere civile ed economista; 1986-

1993 Sottosegretario per l’industria della difesa; 1999-2002 Segretario generale della Grande Assemblea Nazionale turca; 2004-2006 Vice Presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato; Presidente della Delegazione turca presso l’AP Nato.

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Sergio DE GREGORIO Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea

parlamentare Nato

Sergio De Gregorio, Senatore della Repubblica Italiana e Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare della Nato.

Nel corso della XV legislatura ha ricoperto il ruolo di Presidente della IV Commissione Difesa del Senato. È stato membro del Comitato Parlamentare Schengen, Europol e immigrazione.

In qualità di parlamentare ha presentato numerosi disegni di legge riguardanti l’ammodernamento del comparto della Difesa italiana.

È leader del “Movimento politico Italiani nel Mondo”, nato nel 2003 dall’omonima associazione, fondata con l’obiettivo di diffondere e promuovere l’immagine dell’Italia nel mondo e di porsi come punto di riferimento per gli italiani d’origine residenti in altre nazioni.

È Presidente della “Fondazione Italiani nel Mondo”, costituita con alcuni parlamentari italiani eletti all'estero. È editore della canale televisivo satellitare “Italiani nel Mondo Channel”, visibile in tutto il continente europeo oltre che nel

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bacino del Mediterraneo attraverso il satellite Hotbird 1 e dalla piattaforma televisiva di Sky al canale 888. È Presidente dell’Associazione Parlamentare di amicizia “Italia-Hong Kong”.

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Antonello CABRAS Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea

parlamentare Nato e Vice Presidente del GSM

Nato a S. Antioco (Cagliari) il 22 ottobre 1949, ingegnere, docente di fisica nella scuola secondaria superiore, esercita la professione nel campo dell’ingegneria civile ed industriale.

Sindaco del Comune di S. Antioco dal 1984 al 1987, consigliere e assessore al bilancio della Regione Sardegna dal 1987 al 1991, presidente della Regione Sardegna dal 1991 al 1994. Presidente del Comitato tecnico Stato-Regione per la privatizzazione delle miniere carbonifere e realizzazione del progetto di gassificazione del carbone del Sulcis, dal 1994 al 2000.

Eletto senatore nel 1996, è stato Sottosegretario del commercio estero nei Governi Prodi e D’Alema dal 1996 al 1999 ed in seguito Vice Presidente del gruppo parlamentare dei senatori Ds-Ulivo dal 2000 al 2001.

Eletto alla Camera dei deputati nel 2001, è stato membro della Commissione affari esteri e comunitari dal 2001 al 28 aprile 2006.

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Eletto nel maggio 2006 al Senato della Repubblica, dal settembre 2006 al 22 luglio 2008 è stato Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare Nato e fino al 28 aprile 2008 membro della Commissione industria del Senato.

Rieletto nell’aprile 2008 al Senato della Repubblica, è Vice Presidente della Commissione affari esteri.

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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Elizabeth DIBBLE Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Vice Capo

Missione

Elizabeth Dibble ha assunto la carica di Vice Capo Missione dell'Ambasciata Americana a Roma nell'agosto del 2008. Dal 2006 al 2008, ha ricoperto l’incarico di Vice Assistente del Segretario del Dipartimento per l’Economia, l’Energia e le Finanze, nell’ambito del quale ha svolto mansioni nei settori della finanza internazionale, dello sviluppo e degli investimenti. Dal 2004 al 2006, è stata Vice Assistente del Segretario dell’Ufficio per gli Affari del Vicino Oriente, con l’incarico di gestire le relazioni statunitensi con Israele, l’Autorità Palestinese, Egitto, Giordania, Libano e Siria. Dal 2003 al 2004, è stata membro del Senior Seminar del Dipartimento di Stato. I suoi precedenti incarichi internazionali includono Damasco, Islamabad, Tunisi e Londra. A Washington ha prestato servizio in qualità di Direttore dell’Ufficio per il Processo di Pace e Affari Regionali all’interno dell’Ufficio per gli Affari del Vicino Oriente ed in qualità di Vice Direttore dell’Ufficio per lo Sviluppo e Finanza, all’interno dell’Ufficio Economico. Ha inoltre prestato servizio per sette anni presso l’Ufficio dell’U.S. Trade Representative.

Nata nel New Jersey, ha conseguito il diploma di laurea presso la Georgetown University. È sposata con Philo Dibble ed ha tre figlie.

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Reidar VISSER Ricercatore presso l'Istituto norvegese degli Affari

internazioni (NUPI)

Reidar Visser è ricercatore presso l'Istituto Norvegese degli Affari internazionali (NUPI). Storico e comparatista, ha conseguito un dottorato in studi sul Medio Oriente presso l'Università di Oxford.

Sono numerose le sue pubblicazioni sulla storia dell'Iraq meridionale e sulle questioni del decentramento e del federalismo. È inoltre autore di due libri: Basra, the Failed Gulf State: Separatism and Nationalism in Southern Iraq (2005) e (insieme a Gareth Stansfield) An Iraq of Its Regions: Cornerstones of a Federal Democracy? (2007). Molti articoli di R. Visser sono disponibili sul sito da lui ideato, www.historiae.org, dedicato agli studi sull'Iraq.

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Faleh ABDUL-JABAR Istituto iracheno di studi strategici

Faleh Abdul-Jabar si è laureato in sociologia politica

all'Università di Londra, Birkbeck College. È attualmente direttore dell'Istituto iracheno di studi strategici (IIST), Baghdad-Beirut-Erbil. È stato docente (Senior Fellow in residence) presso l' United States Institute of Peace (USIP) fino al 30 ottobre 2004; docente presso il Dipartimento di giurisprudenza, governance e relazioni internazionali della London Metropolitan University; Research Fellow presso la School of Politics and Sociology, Birkbeck College, dell'Università di Londra e Research fellow all'Università di Exeter.

È autore di numerose pubblicazioni sull'Iraq e sul Medio Oriente. La sua attività di ricerca comprende materie diverse quali la sociologia delle religioni (religione sciita), la sociologia del consolidamento delle nazioni e della formazione degli Stati, lo studio delle tribù e dello sviluppo di sistemi socioeconomici moderni, nonché il dialogo culturale in Iraq e nel Medio Oriente allargato. È autore di Shiite Movement in Iraq pubblicato da Saqi books, 2003 e di diverse altre pubblicazioni, tra cui: Post-Marxism and the Middle East; Ayatollahs, Sufis and Ideologues: State, Religion and Social Movements in Iraq; e (insieme ad altri) Tribes and Power: Nationalism and Ethnicity in the Middle East, tutte edite da Saqi books.

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I suoi lavori più recenti sono: Conditions & Horrors, the Cultural Roots of Violence in Arabic Culture (Beirut, Furat Press); The Dilemma of Political Uncertainties in Iraq, 2009, Fondazione Heinrich Böll, Berlino; The Uncertainties of Identity Politics in New Society, 2010, Centre for the Study of Democracy, Regno Unito.

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Maurizio GEMIGNANI Comandante della Componente Marittima delle Forze

alleate (COM MC), Napoli

L’Ammiraglio Gemignani è un Ufficiale di Stato Maggiore, Sommergibilista che ha maturato una vasta e plurinnale esperienza nell’ambito sia delle Unità della Squadra Navale che di Staff a livello nazionale e multinazionale.

Una volta completati gli studi presso l’Accademia Navale, è stato destinato a bordo di diverse Unità Subacquee, ricoprendo vari incarichi. Dopo il comando di Sommergibili (“Longobardo”, “Romeo Romei” e “Nazario Sauro”) e del 1^ Gruppo Sommergibili, nel grado di Capitano di Vascello ha comandato la 7^ Squadriglia Fregate e la Fregata Lanciamissili “Zeffiro” nel periodo 1994/1996.

Nell’ambito della Forza Armata, è stato destinato presso lo Stato Maggiore Marina e, una volta promosso al grado di Contrammiraglio, presso il Comando in Capo della Squadra Navale dove ha svolto l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore. Dopo aver comandato il Centro Addestramento Aeronavale della Marina Militare, ha assunto il comando del Gruppo Navale Italiano (COMGRUPNAVIT), guidando nel 2001 la Portaeromobili Garibaldi, la Rifornitrice d’altura Etna, le Fregate Lanciamissili Zeffiro ed Aviere nell’Operazione Enduring Freedom in Mare Arabico. Nella veste di COMGRUPNAVIT, l’Ammiraglio Gemignani è stato anche il Comandante della

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Forza Anfibia Italo-Spagnola (SIAF, Spanish-Italian Amphibious Force). Da Ammiraglio di Divisione, ha comandato le Forze d’Altura della Squadra Navale dal 2002 al 2004, ricoprendo, successivamente, l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Comando Operativo Interforze. Promosso al grado di Ammiraglio di Squadra il 1° gennaio 2008, dal 4 giugno 2008 è il Comandante dell’Allied Maritime Command Naples (Mar-COM Naples) .

L’Ammiraglio Gemignani è originario di Grosseto, è sposato ed ha una figlia.

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Massimo MAROTTI Coordinatore per la Sicurezza internazionale, Ministero

degli Affari esteri, Italia

Massimo Marotti è in diplomazia dal 1986. Nato nel 1957, laureato con lode in Giurisprudenza presso l’Università Federico II di Napoli, è sposato ed ha due figli.

Posizione attuale

Ministro Plenipotenziario in servizio presso il Ministero degli Affari Esteri (MAE)

Responsabile Sicurezza Internazionale presso il MAE

Precedenti incarichi

2004 – 2008

Primo Consigliere - Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite a New York.

Rappresentante aggiunto della delegazione italiana in Consiglio di Sicurezza.

Responsabile per la riforma dell'ONU (Assemblea generale e Consiglio di sicurezza ).

Coordinatore degli Affari dell'Assemblea generale.

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2000 - 2003

Primo Consigliere economico all' Ambasciata italiana a Washington D.C.

Responsabile delle relazioni economiche Italia-USA. Ha ideato e portato a compimento la prima business partnership dell’US Overseas Private Investment Corporation con la Simest SpA, per la promozione congiunta di investimenti italo-statunitensi in paesi terzi.

1996 - 2000

Consigliere presso il MAE - alle dirette dipendenze del Direttore Generale per gli Affari Economici. Responsabile per lo sviluppo di nuove linee guida e iniziative a sostegno delle imprese italiane all’estero.

1991 – 1996

Capo di Consolato in Francia e successivamente in Lussemburgo.

1988 – 1990

Primo Segretario, Capo dell’Ufficio Economico dell’Ambasciata a Baghdad. Nel dicembre 1990 ha organizzato l’evacuazione degli italiani bloccati in Iraq.

1986 – 1988

Segretario di Legazione presso il MAE .Capo Segreteria del Direttore Esecutivo del Servizio Speciale per il Fondo Aiuti Italiani

Massimo Marotti ha pubblicato i seguenti articoli: Il Medio oriente dopo la Prima Guerra del Golfo; Il mercato finanziario a Lussemburgo; La riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

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Lorenzo TROMBETTA Esperto di questioni siro-libanesi, corrispondente da Beirut per Limes e collaboratore ANSA per il Medio

Oriente

Lorenzo Trombetta (PhD 2008) è uno studioso esperto di affari contemporanei del Levante arabo. Parla correntemente l'arabo ed è attualmente corrispondente dal Libano e dalla Siria per la rivista italiana di geopolitica Limes. Dal 2006 collabora con l’ufficio regionale dell'Ansa a Beirut, con il quotidiano La Stampa e la Radio Svizzera italiana. Ha lavorato come corrispondente per tutta la durata della guerra del 2006 tra Israele e Hezbollah e collabora regolarmente alle trasmissioni di RadioRai.

Autore del libro “Siria nel nuovo Medioriente” (Editori Riuniti, 2005), ha lavorato alla realizzazione di alcune inchieste televisive della trasmissione RAI La Storia siamo noi e a reportage pubblicati sul settimanale L'Espresso. Da dodici anni vive tra Siria, Francia, Giordania e Libano, dove ha soggiornato per completare la sua formazione universitaria. Nel 2008 ha conseguito il dottorato in studi arabo-islamici all'Università Sorbonne di Parigi, con una tesi sulla storia della Siria contemporanea.

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Ivan URETA Università di Lugano, Responsabile degli Studi sulla

migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei

Il dottor Ivan Ureta è responsabile degli Studi sulla migrazione dell'Istituto Studi Mediterranei dell'Università di Lugano in Svizzera e Research Fellow presso il Dipartimento di Studi mediorientali e mediterranei del King's College di Londra, nonché Research Fellow onorario al Dipartimento di studi arabi e mediorientali dell'Università di Leeds. Nella sua attività di ricerca e di lavoro si occupa di migrazione internazionale, di sviluppo e di relazioni e sicurezza internazionali.

Il dottor Ureta adotta un metodo di ricerca interdisciplinare e le regioni geografiche in relazione alle quali ha maturato un'esperienza particolare sono: Africa settentrionale e relativi rapporti con gli Stati subsahariani, Medio Oriente, Europa meridionale e America Latina.

In passato il dottor Ureta è stato Research Fellow presso le Università di Cambridge e di Exeter e ha ricoperto incarichi di docenza, tra le altre, all'Università di Oxford e all'Accademia diplomatica di Vienna. Dal 2003 al 2006 è stato professore associato di economia in due università peruviane e ha collaborato come Esperto con l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM). È autore e coautore di nove libri e diversi

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articoli scientifici. I suoi ultimi due libri sono: Migration, Development and Diplomacy in the Southern Mediterranean, Africa World Press, 2010 e Media and Migration in the Mediterranean, Ashgate Publishing House, 2010.

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Roberto MARONI Ministro dell'Interno, Italia

Profilo personale e professionale

Nato a Varese il 15 marzo 1955. Coniugato, tre figli. Risiede a Varese. Laureato in giurisprudenza. Avvocato. È stato responsabile dell’ufficio legale di una multinazionale statunitense. Nel tempo libero suona l’organo Hammond nel gruppo soul "Distretto 51". Profilo politico

Iscritto alla Lega Nord. Ha fatto parte della Lega Lombarda fin dalla sua creazione e ha iniziato l’attività politica con Umberto Bossi nel 1979. È stato Segretario Provinciale della Lega Nord a Varese e membro del Consiglio nazionale della Lega Lombarda. Nel 1990 è stato eletto Consigliere comunale a Varese, quindi Assessore nella prima giunta a guida leghista della città.

Nella XI legislatura (1992-1994) Presidente del Gruppo parlamentare della Lega Nord alla Camera dei Deputati. Membro della I Commissione permanente (Affari costituzionali). Componente della Giunta per il regolamento e della Commissione speciale per l’esame dei progetti di legge concernenti la riforma dell’immunità parlamentare.

Senato della Repubblica Camera dei deputati

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Nella XII legislatura (1994-1996) Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e ministro dell’Interno nel I Governo Berlusconi.

Nella XIII legislatura (1996-2001) rieletto alla Camera dei Deputati con il Gruppo Lega Nord Padania. Componente della III Commissione permanente (Affari esteri e comunitari), della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, della XIV Commissione permanente (Politiche dell’Unione Europea), del Comitato parlamentare per i procedimenti d’accusa e della I Commissione permanente per le riforme costituzionali.

Nella XIV legislatura (2001-2006) nominato Ministro del lavoro e delle politiche sociali nel II Governo Berlusconi.

Nella XV legislatura (2006-2008) eletto Presidente del Gruppo parlamentare Lega Nord Padania alla Camera dei Deputati. Membro della III Commissione permanente (Affari esteri e comunitari), del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, della Delegazione parlamentare presso l’Assemblea del Consiglio d’Europa, della Delegazione parlamentare presso l’Assemblea dell’Unione dell’Europa Occidentale.

Nell’attuale XVI legislatura è rieletto alla Camera con la Lega Nord Padania e nominato Ministro dell’Interno.

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INDICE DEGLI INTERVENTI ABDUL-JABAR, Faleh .......................................... 49; 58; 60; 64; 66; 71 ANDREYCHUK, Raynell ............................................................... 26; 95 BACQUELAINE, Daniel ...................................................................... 37 BIANCO, Vincenzo ............................................................................. 156 BOUCHERON, Jean-Michel ......................................................... 28; 124 CABRAS, Antonello ..................................................................... 68; 128 CEYLAN, Mehmet ....................................................................15; 34; 62 CLAPHAM, Michael ............................................................... 59; 96; 127 DE GREGORIO, Sergio ..................................................... 4; 31; 98; 150 DIBBLE, Elizabeth ..................... 8; 17; 19; 22; 25; 27; 31; 33; 37; 38; 39 ELDAD, Arieh ...................................................................23; 35; 65; 129 ERDEM, Vahit .... 3; 7; 15; 26; 30; 35; 39; 41; 49; 57; 64; 65; 73; 80; 89;

103; 105; 119; 131; 133; 141; 147; 161 FRUNZULICA, Doru Claudian ............................................... 20; 68; 160 GEMIGNANI, Maurizio ....................................................74; 91; 96; 103 ISSAAD, Ahmed ................................................................................... 33 KRISTIANSEN, Ivar ..................................................................... 36; 123 LELLO, José ............................................................. 17; 90; 94; 121; 154 MARONI, Roberto .............................................. 141; 148; 151; 158; 160 MAROTTI, Massimo ................................................. 80; 92; 94; 97; 101 PARISI, Arturo Mario Luigi ................................................................ 100 ROCCA SERRA de, Camille .............................................................. 119 RODRIGUES-SALMONES, Beatriz ............................................ 89; 147 TROMBETTA, Lorenzo .............. 105; 121; 122; 124; 126; 128; 129; 131 URETA, Ivan ............................................................... 134; 149; 153; 159 VISSER, Reidar ...................................................... 42; 57; 59; 63; 66; 69 VITEL, Philippe .................................................................................... 57

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4. Rapporti atlantici e Scenari mediterranei. Analisi e riflessioni a partire dall'attualità, luglio 2005 5. Le relazioni transatlantiche e l’agenda

politica internazionale. Seminario internazionale,

Roma 9 giugno 2005, gennaio 2006 6. L'Assemblea parlamentare della NATO,

origini struttura funzionamento, febbraio 2006

7. L'Assemblea parlamentare del Consigliod'Europa, origini struttura funzionamento, febbraio 2006

8. Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l'Assemblea parlamentare NATO.

Seminario annuale, Napoli 24-25 giugno 2005, giugno 2006 9. L'Assemblea parlamentare dell'OSCE

origini struttura funzionamento, dicembre 2006 10. Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare NATO. Seminario annuale, Napoli 2-3 luglio 2006, marzo 200711. Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare NATO. Seminario annuale, Napoli 1-2 luglio 2007, marzo 2008

12. Il trattato di Lisbona. Commento e testo a fronte, luglio 200813. Il trattato di Lisbona. Commento e testo a fronte, settembre 200814. La partecipazione dell’Italia all’Unione europea: la legge n. 11 del 2005 e il ruolo del Senato, marzo 200815. Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare NATO. Seminario annuale, Roma, 4-5 luglio 2009, agosto 200916. The Lisbon Treaty. Commentary and Comparative Text, dicembre 200917. Le Camere alte tra autonomie locali e Unione Europea. Esiti del questionario predisposto in occasione della XII Riunione dell’Associazione dei Senati d’Europa, giugno 201018. La Conferenza degli organi specializzati negli affari europei dei Parlamenti nazionali (COSAC). Evoluzioni e prospettive, luglio 201019. Gruppo Speciale Mediterraneo Delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare NATO. Seminario annuale, Napoli 14-15 luglio 2009, ottobre 2010

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Gruppo SpecialeMediterraneo

Delegazione italiana presso

l’Assemblea parlamentare NATO

Seminario annuale, Roma 27-28 giugno 2010

Servizio AffariInternazionali

n. 20dicembre 2010

Quader

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Senato della Repubblica Camera

dei Deputati

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