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Note e discussioni Fascismo e repressione del dissenso Nuovi documenti su Carlo Del Re agente provocatore fascista Mimmo Franzinelli Un’operazione poliziesca da manuale L’utilizzo di spie da parte del regime mussoli- niano per infiltrare le organizzazioni d’opposi- zione e spingerle ad azioni terroristiche con esi- ti negativi per la causa dell’antifascismo è stato documentato in modo magistrale da Ernesto Ros- si in un volume uscito nel 1955 presso Feltrinel- li — Una spia del regime — con la trascrizione di centinaia tra lettere, memoriali e rapporti di polizia legati alla delazione dell’avvocato Carlo Del Re (Codroipo, 18 ottobre 1901 — Roma, 17 giugno 1978), determinante per la caduta della rete cospirativa di Giustizia e libertà. Il 27 luglio 1929 l’evasione dall’isola di Li- pari di Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e Carlo Rosselli rappresenta uno smacco clamo- roso per il regime e solleva dinanzi all’opinio- ne pubblica intemazionale il problema dei pri- gionieri politici italiani1. Nella seconda metà dell’anno i tre antifascisti sfuggiti al confino promuovono a Parigi la nascita di un nuovo mo- vimento politico: Giustizia e libertà, animato dalla volontà di superare l’impasse in cui si tro- vano le opposizioni tradizionali e deciso ad at- tuare in Italia forme di azione diretta contro la dittatura. Nel 1930 si costituiscono in alcune città — Milano, Torino, Firenze, Roma... — i primi nuclei di attivisti clandestini, coordinati dal gruppo milanese animato da Riccardo Bauer2 e da Ernesto Rossi3. Si ritiene maturo il mo- mento di passare dalla fase preparatoria all’ini- ziativa esemplare, con un gesto che richiami l’at- tenzione generale su una delle più invise strut- Ringrazio Paola Canicci, sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato di Roma, per i chiarimenti relativi ai limiti di di- sponibilità delle carte di polizia, e Paolo Ferrari, con il quale ho discusso alcuni aspetti dell’impostazione di questo lavoro. 1Un resoconto dell’evasione in Emilio Lussu, La catena, Paris, Res Publica, 1930 [Milano, Baldini & Castoldi, 1997]; Car- lo Rosselli, Fuga in quattro tempi, in Almanacco politico socialista 1931, Parigi, Psi, 1930 (anche Id., Scritti politici e auto- biografici, Napoli, Polis, 1944, pp. 33-55 e Francesco Fausto Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1946). 2 Riccardo Bauer (Milano, 1896 — 1982), volontario nella grande guerra e pluridecorato, collabora al periodico gobettiano “Rivoluzione liberale” e dirige “Il Caffè”, quindicinale antifascista stampato a Milano dal luglio 1924 al maggio 1925. Arre- stato il 30 ottobre 1930, riacquista la libertà nell’estate 1943. Membro della giunta militare del CLN, nel dopoguerra presie- de la Società Umanitaria. Cfr. Mario Melino (a cura di), Riccardo Bauer, Milano, Angeli, 1985 e Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, Roma-Bari, Laterza, 1987. 3 Ernesto Rossi (Caserta, 1897 — Roma, 1967), volontario e mutilato di guerra, discepolo di Gaetano Salvemini, nei 1924 aderisce all’Unione nazionale democratica di Giovanni Amendola, quindi fonda a Firenze il sodalizio segreto “Italia Libera” e collabora al foglio clandestino “Non Mollare!”. Ricercato dalla polizia, nel giugno 1925 si rifugia in Francia; rimpatriato dopo un anno di esilio, vince una cattedra in un Istituto tecnico di Bergamo. Animatore di Giustizia e libertà, funge da trami- te tra il centro parigino e l’organizzazione clandestina milanese. Durante il periodo trascorso in carcere o al confino — dal 30 ottobre 1930 al 30 luglio 1943 — elabora insieme ad Altiero Spinelli il “Manifesto di Ventotene”, teorizzazione pionieristica di un movimento federalista europeo. Nel dopoguerra è tra i fondatori del Partito radicale e tra i più assidui collaboratori del periodico “Il Mondo”. Su di lui si vedano Pietro Ignazi (a cura di), Ernesto Rossi una utopia concreta, Milano, Edizioni di Comunità, 1991 e Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Torino, Einaudi, 1997. ‘Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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Note e discussioni

Fascismo e repressione del dissenso Nuovi documenti su Carlo Del Re agente provocatore fascista

Mimmo Franzinelli

Un’operazione poliziesca da manuale

L’utilizzo di spie da parte del regime mussoli- niano per infiltrare le organizzazioni d ’opposi­zione e spingerle ad azioni terroristiche con esi­ti negativi per la causa dell’antifascismo è stato documentato in modo magistrale da Ernesto Ros­si in un volume uscito nel 1955 presso Feltrinel­li — Una spia del regime — con la trascrizione di centinaia tra lettere, memoriali e rapporti di polizia legati alla delazione dell’avvocato Carlo Del Re (Codroipo, 18 ottobre 1901 — Roma, 17 giugno 1978), determinante per la caduta della rete cospirativa di Giustizia e libertà.

Il 27 luglio 1929 l’evasione dall’isola di Li- pari di Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e Carlo Rosselli rappresenta uno smacco clamo­

roso per il regime e solleva dinanzi a ll’opinio­ne pubblica intemazionale il problema dei pri­gionieri politici italiani1. Nella seconda metà dell’anno i tre antifascisti sfuggiti al confino promuovono a Parigi la nascita di un nuovo mo­vimento politico: Giustizia e libertà, animato dalla volontà di superare l ’impasse in cui si tro­vano le opposizioni tradizionali e deciso ad at­tuare in Italia forme di azione diretta contro la dittatura. Nel 1930 si costituiscono in alcune città — Milano, Torino, Firenze, Roma... — i primi nuclei di attivisti clandestini, coordinati dal gruppo milanese animato da Riccardo Bauer2 e da Ernesto Rossi3. Si ritiene maturo il mo­mento di passare dalla fase preparatoria a ll’ini­ziativa esemplare, con un gesto che richiami l ’at­tenzione generale su una delle più invise strut-

Ringrazio Paola Canicci, sovrintendente dell’Archivio centrale dello Stato di Roma, per i chiarimenti relativi ai limiti di di­sponibilità delle carte di polizia, e Paolo Ferrari, con il quale ho discusso alcuni aspetti dell’impostazione di questo lavoro.1 Un resoconto dell’evasione in Emilio Lussu, La catena, Paris, Res Publica, 1930 [Milano, Baldini & Castoldi, 1997]; Car­lo Rosselli, Fuga in quattro tempi, in Almanacco politico socialista 1931, Parigi, Psi, 1930 (anche Id., Scritti politici e auto- biografici, Napoli, Polis, 1944, pp. 33-55 e Francesco Fausto Nitti, Le nostre prigioni e la nostra evasione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1946).2 Riccardo Bauer (Milano, 1896 — 1982), volontario nella grande guerra e pluridecorato, collabora al periodico gobettiano “Rivoluzione liberale” e dirige “Il Caffè”, quindicinale antifascista stampato a Milano dal luglio 1924 al maggio 1925. Arre­stato il 30 ottobre 1930, riacquista la libertà nell’estate 1943. Membro della giunta militare del CLN, nel dopoguerra presie­de la Società Umanitaria. Cfr. Mario Melino (a cura di), Riccardo Bauer, Milano, Angeli, 1985 e Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, Roma-Bari, Laterza, 1987.3 Ernesto Rossi (Caserta, 1897 — Roma, 1967), volontario e mutilato di guerra, discepolo di Gaetano Salvemini, nei 1924 aderisce all’Unione nazionale democratica di Giovanni Amendola, quindi fonda a Firenze il sodalizio segreto “Italia Libera” e collabora al foglio clandestino “Non Mollare!”. Ricercato dalla polizia, nel giugno 1925 si rifugia in Francia; rimpatriato dopo un anno di esilio, vince una cattedra in un Istituto tecnico di Bergamo. Animatore di Giustizia e libertà, funge da trami­te tra il centro parigino e l’organizzazione clandestina milanese. Durante il periodo trascorso in carcere o al confino — dal 30 ottobre 1930 al 30 luglio 1943 — elabora insieme ad Altiero Spinelli il “Manifesto di Ventotene”, teorizzazione pionieristica di un movimento federalista europeo. Nel dopoguerra è tra i fondatori del Partito radicale e tra i più assidui collaboratori del periodico “Il Mondo”. Su di lui si vedano Pietro Ignazi (a cura di), Ernesto Rossi una utopia concreta, Milano, Edizioni di Comunità, 1991 e Giuseppe Fiori, Una storia italiana. Vita di Ernesto Rossi, Torino, Einaudi, 1997.

‘Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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ture del regime: gli uffici delle imposte; alla vi­gilia della marcia su Roma alcuni attentati di­mostrativi prenderanno di mira le sedi regiona­li dell’Intendenza di Finanza. La polizia, da tem­po sospettosa dell’esistenza di una rete clande­stina, non si dimostra in grado di individuarne i promotori.

In questa fase di crescita organizzativa i co­spiratori milanesi hanno l’ingenuità e la sven­tura di accogliere nelle loro fila Carlo Del Re, un soggetto dalla personalità inquieta ed enig­matica, fornito di intelligenza e di astuzia non comuni. Durante gli studi universitari, a Vene­zia, egli ha aderito — non ancora ventenne — al fascismo e partecipato a scontri di piazza, per ritirarsi di lì a poco dall’attività politica. Nel 1921, conseguita la laurea in Legge, si iscrive alle facoltà di Scienze economiche e di Scien­ze sociali e in breve tempo corona il corso di studi (nel 1932 otterrà la quarta laurea, in Eco­nomia e Diritto). Si è intanto avvicinato agli am­bienti massonici friulani. La sua vivacità intel­lettuale non è sostenuta da qualità morali posi­tive; coinvolto nell’ottobre 1925 in una banca­rotta fraudolenta, viene assolto dal Tribunale di Udine per insufficienza di prove. L’eco del pro­cedimento giudiziario lo induce a trasferirsi a Milano, dove l ’anno successivo svolge il prati- cantato in uno studio legale. L’accostamento a Giustizia e libertà avviene verso la fine del 1929, per i tramiti massonici: l ’avvocato Marco Ci- riani4 lo raccomanda a Raffaele Cantoni, un ra­gioniere veneziano stabilitosi a Milano per mo­

tivi di lavoro, interessato alla ripresa clandesti­na della Massoneria e collegato con Bauer e al­tri esponenti antifascisti di orientamento repub­blicano.

Del Re ostenta sentimenti di ammirazione sfre­nata verso Giuseppe Mazzini e i maggiori cospi­ratori del Risorgimento; i complotti lo affascina­no e agogna l’azione clandestina, concepita co­me un’entusiasmante avventura esistenziale. I massoni milanesi concedono piena fiducia al gio­vane confratello, affidandogli il compito di sta­bilire i collegamenti con Parigi, dove si è trasfe­rita, dopo la messa al bando della Massoneria, la direzione del Grande Oriente.

Invaghitosi di una collega di lavoro, che spo­sa il 30 agosto 1930 con rito civile, l ’avvocato friulano si è permesso nella prima metà dell’an­no un tenore di vita di gran lunga superiore alle sue possibilità, dilapidando circa 125.000 lire ri­cevute in custodia giudiziale in qualità di perito del Tribunale di Milano. Al ritorno dal viaggio di nozze l’insostenibilità della posizione finanzia­ria e la rovina professionale incombono. Soppe­sate e scartate le vie d’uscita del suicidio o della fuga all’estero, egli intravvede la via d ’uscita nel­la delazione ai danni dei suoi compagni. Nono­stante il coinvolgimento recente nella struttura antifascista clandestina, Del Re (nomi di coper­tura: Carletti, Carletto) conosce l’identità di de­cine di giellisti, è al corrente dei canali di comu­nicazione con i fuoriusciti in Francia e in Sviz­zera, dispone dei nominativi di numerosi masso­ni. Recatosi a colloquio da Italo Balbo verso la

4 Marco Ciriani (nato nel 1878 a Spilimbergo), interventista, eletto alla Camera nel 1921 nelle liste del Blocco Nazionale in rappresentanza di un raggruppamento democratico friulano, nel 1922 assume posizioni antifasciste. Candidatosi alle elezio­ni del 15 maggio 1924 con un movimento locale forte dell’appoggio di ex combattenti e di mutilati, la Lega democratica, non viene eletto. In seguito si allontana dalla vita politica; affiliato alla massoneria, ha uno studio legale a Milano; conosce Del Re a Udine e con lui collabora per questioni professionali, essendo Del Re curatore fallimentare. Titolare di alcune attività in­dustriali e commerciali in Italia e in Francia, viene vigilato dalla polizia; irritato per la sorveglianza cui lo si sottopone, Ci­riani scrive in più occasioni a Mussolini per protestare contro i controlli occulti. Nonostante le ripetute dichiarazioni di lealtà politica, Ciriani sarà radiato dall’elenco dei sovversivi soltanto nel 1943. La documentazione d’archivio (Archivio Centrale dello Stato, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Casellario politico centrale, d’o­ra in poi Acs, Cpc fase. 7981, Ciriani Marco) non consente di chiarire il ruolo di Ciriani nel “caso Del Re”. S’intuisce co­munque che la polizia lo utilizzò, probabilmente a sua insaputa, per controllare alcuni gruppi di fuoriusciti, contando sul fat­to che la Francia era la sede degli interessi commerciali dell’ex deputato, che si recava di frequente in quel Paese e vi incon­trava esiliati politici con i quali aveva mantenuto rapporti di amicizia: Lussu, Salvemini, Sforza... Riferimenti sull’operato di Ciriani nel primo dopoguerra si possono leggere in Mario Fabbro, Fascismo e lotta politica in Friuli (¡920-1926), Padova, Marsilio, 1974, ad indicem.

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metà di settembre5, illustra al ministro la sua si­tuazione tormentata e ne riceve il consiglio di ne­goziare con la polizia segreta le informazioni sul conto dei cospiratori politici; le notizie sui ne­mici del regime potrebbero valergli un interven­to finanziario salvifico: “Do ut des”, come scri­verà in successivi memoriali.

L’esame comparativo della documentazione d ’archivio consente di ricostruire fin nei dettagli l ’ideazione e la progressione del piano destinato a sgominare la rete interna di Giustizia e libertà e permette di evidenziare i meccanismi attivati dalla polizia fascista a cavallo degli anni venti e trenta: meccanismi poi sedimentati nel patrimo­nio genetico degli apparati di sicurezza italiani, con metodi quali l ’infiltrazione di provocatori prezzolati e/o ricattati, il collegamento tra ‘ope­razioni coperte’ e strategie politiche liberticide, la falsificazione di documenti ufficiali, l ’ad­domesticamento di processi, la montatura di ac­cuse false contro gli oppositori per demolirne la credibilità agli occhi dei loro stessi compagni, la difesa a oltranza di delatori, l ’uso disinvolto di fondi riservati al di fuori di ogni controllo [...] Ri­spetto ai sistemi d ’azione della polizia in epoca liberale si registra un indubbio salto qualitativo, che rende il “caso Del Re” un laboratorio di prim’ordine per l’analisi del funzionamento de­gli apparati riservati dello Stato.

Tre incontri col capo della polizia, Arturo Boc­chini, pongono nel volgere di una settimana le basi di un’intesa che reggerà per un decennio6. Tre i punti essenziali dell’accordo, che ha come posta in gioco il destino degli aderenti a Giusti­zia e libertà e ai circoli massonici settentrionali:1) il tempestivo ripiano, con fondi del Ministero d e ll’In terno , d e ll’am m anco g estionale —126.000 lire — dei procedimenti fallimentari ge­stiti da Del Re; 2) il mantenimento del segreto sull’identità e sull’attività deH’informatore, co­nosciute soltanto da Bocchini, da Mussolini e da un paio di dirigenti della polizia segreta7; 3) con­clusa l ’operazione contro gli antifascisti e placa­ta l ’eco dell’operazione di polizia, un provvedi­mento di grazia riabiliterà l ’agente provocatore e un incarico di prestigio nella pubblica ammini­strazione ne ricompenserà i servigi.

Il delatore arricchisce il progetto con accor­tezze rivelatrici di una scaltrezza diabolica, on­de evitare — con la responsabilità delle proprie azioni — la nomea di traditore, che egli ha in ani­mo di scaricare su uno dei compagni da lui ven­duti alla polizia. Soppesati il ruolo e la persona­lità dei cospiratori, Del Re decide di “inguaiare” l ’esperto chimico del gruppo: Umberto Ceva8. Gli carpisce la fiducia, si offre di assisterlo in ope­razioni rischiose quali il reperimento del mate­riale detonante e la preparazione delle miscele

5 Un secondo incontro avverrà il 27 settembre. Del Re aveva conosciuto Italo Balbo a Udine neH’immediato dopoguerra, quan­do entrambi erano animati da idealità repubblicane. La scelta dell’interlocutore è inoltre condizionata dal fatto che Del Re ha in mente di affidare al fratello del gerarca, Edmondo Balbo, le due curatele con gli ammanchi di cassa, con garanzia del buon fine.6 II primo incontro avviene il 27 settembre al Viminale, dove Del Re giunge in compagnia di Balbo: al termine del colloquio il capo della polizia dà immediata comunicazione a Mussolini, con un memoriale, della possibilità di scompaginare la rete clandestina di GL; l’abboccamento successivo, posteriore di tre giorni, si effettua in un appartamento di Piazza Mincio, di di­sponibilità di Bocchini. Il terzo appuntamento, quello decisivo, ha luogo il 3 ottobre.7 Nel rapporto con la polizia segreta Del Re ha come interlocutori — oltre a Bocchini — Francesco Nudi, Michelangelo Di Stefano e Santone Vezzari. I primi tre, veri registi dell’operazione ai danni di Giustizia e libertà, operavano nella Pubblica si­curezza sin dai primi anni del secolo (Bocchini, nato nel 1880, dal gennaio 1903; Nudi, nato nel 1878, dal maggio 1900; Di Stefano, nato nel 1884, dall’aprile 1913); formatisi in epoca liberale, avevano adeguato i loro metodi investigativi alle esi­genze del regime fascista, con risultati lusinghieri in termini di avanzamento di carriera: Bocchini sarà nominato prefetto (31 dicembre 1922) e capo della polizia (13 settembre 1926); Nudi vicequestore (1 agosto 1923) e ispettore di Pubblica sicurez­za (29 gennaio 1927); Di Stefano commissario capo alle dirette dipendenze del Ministero deH’Intemo (1 settembre 1928). Cfr. i dati pubblicati nel “Bollettino Ufficiale del personale del Ministero deH’Intemo”.8 Umberto Ceva (Pavia, 1900 — Roma, 1930), dottore in chimica, direttore tecnico dello stabilimento milanese Paganini e Villani di via Bramante, repubblicano, dal 1926 coinvolto in attività antifasciste clandestine. Sulla partecipazione alla cospi­razione del nucleo milanese di Giustizia e libertà e sulla sua tragica fine cfr. Bianca Ceva, 1930. Retroscena di un dramma, Milano, Ceschina, 1955.

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esplosive, ne diviene l ’ombra e condivide con lui segreti sufficienti — se rivelati — a infliggere ai cospiratori pene severe9.

Il patto stipulato col capo della polizia im­plica per il neo-agente non solamente la dela­zione bensì un ruolo di istigatore e di promoto­re dei fatti destinati a venire poi ‘scoperti’ dal­la polizia. Ciò spiega l’attivismo davvero fuori dell’ordinario esplicato per tutto il mese di ot­tobre in patria e all’estero nel tessere i fili del­la provocazione, con un’abilità doppiogochista eccezionale10. Deciso a inguaiare e a smasche­rare l ’organizzazione degli esuli politici, incon­tra i principali esponenti giellisti (Lussu, Nitti, Pacciardi, Rosselli, Tarchiani...) oltre a perso­nalità indipendenti (l’ex ambasciatore Sforza), a cui chiede di venire rifornito di esplosivo per organizzare colpi sensazionali. Ritornato a M i­lano rilancia con energia il progetto della cla­morosa azione dimostrativa — alla vigilia del­la marcia su Roma — contro le agenzie delle

imposte di Milano, Genova, Torino, Bologna, Firenze, Livorno, Roma, Trieste e Napoli. L’i­niziativa s ’inquadra nella strategia politica di Giustizia e libertà: fare leva sul disagio fiscale dei ceti medi per sgretolare la base sociale del regim e1 il 28 ottobre, nel clima di tensione pro­vocato dagli attentati del giorno precedente, un idrovolante militare pilotato da Giordano Viez- zoli12 avrebbe lanciato sulla capitale volantini incitanti alla ribellione. Riccardo Bauer, Um­berto Ceva e Ernesto Rossi cadono nel tranello e il 23 ottobre partecipano insieme all’infiltra­to al confezionamento degli esplosivi, a Berga­mo, in un appartamento affittato da Rossi, sen­nonché un contrattempo nella preparazione del­le bombe al fosforo — che per poco non costa loro la vita — li convince a rinunciare al piano; gli ordigni vengono gettati nottetempo nel fiu­me Brembo. Del Re insiste perché nella notte del 27 ottobre si collochi almeno un ordigno in­cendiario13, ma gli si risponde che una sola azio-

9 II fatto che Del Re fosse il solo, del gruppo giellista, a disporre di un’automobile, ne rendeva indispensabile la presenza ne­gli incontri cospirativi tra Milano e Bergamo, come pure nel trasporto della stampa clandestina. »10 Le carte di polizia consentono di seguire passo passo il progredire dell’opera spionistica di Del Re: il 3 ottobre compila il primo rapporto informativo sul nucleo milanese di Giustizia e libertà e sul centro politico parigino; il 4 riceve da Vezzari il primo compenso, di 5.000 lire; il 5 intraprende il viaggio che lo porterà in Svizzera, Francia e Belgio a contatto con i fidu­ciari di GL; il 6 Bocchini informa il presidente della Corte d’Appello di Milano che ordini superiori (Mussolini) impongono l’assegnazione delle curatele di Del Re al ragioniere Edmondo Balbo; il 7 Del Re riceve a Parigi dal dignitario massonico Giuseppe Leti gli elenchi dei confratelli italiani; il 10 il dirigente della polizia segreta Nudi s’incontra a Milano con l’agente Vezzari per concertare l’infiltrazione di Del Re; 1’ 11 il traditore rimpatria con una decina di congegni a orologeria e riferisce a Nudi l’esito della missione tra i fuoriusciti; il 12 Bocchini lo convoca a Roma; il 13 partecipa a una riunione massonica, a Milano, nella casa di Cantoni; il 16 è a Roma per un abboccamento col capo della polizia; il 20 incontra Nudi a Milano e gli chiede 2.000 lire; il 22 esige da Nudi l’immediato pagamento dei propri ammanchi professionali, ventilando, in caso di ul­teriori ritardi, di eclissarsi; si reca poi a un convegno clandestino presso il Cimitero monumentale con Calace, Ceva e Rossi per verificare il materiale esplosivo: grazie alla sua segnalazione i congiurati vengono fotografati da poliziotti in borghese; l’indomani conduce Ceva a Bergamo, all’abitazione di Rossi, dove il tentativo di confezionare le bombe va a vuoto; il 26 e il 27 prende parte a due incontri massonici durante i quali viene costituita la loggia “Italia”.11 L’incendio delle esattorie sarebbe dovuto avvenire nottetempo, con gli uffici deserti, per non causare vittime. Si tenga pu­re presente che il 27 ottobre era la data di scadenza dei versamenti tributari e che l’indomani — giornata festiva — nessuno si sarebbe trovato negli uffici fiscali.12 Giordano Viezzoli (Trieste, 1910 — Toledo, 1936) cresciuto in una famiglia di repubblicani, nel 1930 prestava servizio, col grado di sergente pilota, alla 146a squadriglia idrovolanti di Elmas. Dopo l’arresto e la condanna del Tribunale Speciale nel marzo 1934 espatrierà illegalmente in Francia. Volontario nella guerra civile di Spagna, viene colpito a morte dai franchisti durante una missione di guerra.13 Nella primavera 1933 si verificherà a Fiume una situazione analoga: Alfredo Cimadori (fiduciario n. 492 dell’Ovra) rice­ve l’incarico di incastrare Angelo Adam, collegato con Giustizia e libertà, carpendone la buona fede e preparando in sua com­pagnia lo scoppio di un congegno esplosivo nella città di Fiume: “Sta bene: fare esplodere una bomba criminosa”, annota Boc­chini in un appunto per Mussolini in data 8 maggio 1933 (ACS, Ministero dellTntemo, Divisione Polizia politica, b. 123); l’esplosione avrebbe fornito il destro per una retata di dissidenti politici. Sull’episodio cfr. Joel Blatt, The battle o f Turiti, 1933- 1936: Carlo Rosselli, Giustizia e libertà, Ovraand thè origins of Mussolini’s anti-Semitic campaign, “Journal of Modem Ita- lian Studies”, 1995, n. 1, p. 26.

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ne dimostrativa verrebbe probabilmente fatta passare dalla polizia per un evento accidentale. Sfuma così l ’iniziativa che avrebbe fornito a Mussolini l ’occasione migliore per sgominare Giustizia e libertà e colpire la credibilità degli antifascisti, equiparandoli a terroristi, con l ’uti­lizzo di Del Re dapprima in segreto come agen­te provocatore e poi — pubblicamente, in sede processuale, dove si sarebbe presentato nei pan­ni dell’idealista trascinato da cattivi maestri nel­la congiura antinazionale — come testimone d ’accusa.

La rete stesa attorno a Rossi e compagni si stringe nel momento in cui le borse dell’erario si aprono per saldare gli ammanchi del delatore: il 23 ottobre un agente di Bocchini affida al com­missario Nudi 40.056 lire, somma da consegna­re al ragioniere Edmondo Balbo, sostituto di Del Re negli incarichi da questi condotti disonesta­mente.

Riccardo Bauer ha nel frattempo saputo che la polizia politica dispone di due infiltrati in Giu­stizia e libertà; un funzionario del Ministero del­l ’Interno ha passato la notizia a un gruppo di antifascisti romani, senza precisare i nominati­vi delle spie14. Bauer, Calace, Ceva, Del Re e Rossi — valutata l’informazione — decidono di aumentare le precauzioni: il settore più espo­sto è quello dei rapporti con la massoneria e Del

Re, che conosce meglio di ogni altro quell’am­biente, viene incaricato di indagare con la mas­sima circospezione per verificare l ’attendibilità dell’indicazione e smascherare eventuali dop­piogiochisti.

Il rischio di “bruciare” l ’agente e di perdere l ’operazione così accuratamente preparata in­duce Bocchini a stringere i tempi e a ordinare, nella notte tra il 29 e il 30 ottobre, la grande reta­ta. Il primo a finire dietro le sbarre è Viezzoli, prelevato dalla base aerea sarda ove presta ser­vizio; a Milano e in altri centri della Lombardia vengono arrestati 24 aderenti a Giustizia e li­bertà. I prigionieri, tradotti a Regina Coeli per consentire agli inquirenti di affrettare le indagi­ni, sono chiusi in celle singole, in un isolamen­to assoluto che impedisce di comunicare dubbi e di confrontare indizi per comprendere le di­namiche occulte della complessa macchinazio­ne poliziesca15.

La retata non interrompe l ’attività spionisti­ca di Del Re, che il 31 ottobre si porta da M i­lano a Roma, dove il giorno successivo concor­da col capo della polizia una missione in Sviz­zera. Il 2 novembre, a Lugano, racconta a Pac- ciardi di essere sfuggito fortunosamente alla cattura e si offre per nuovi incarichi di natura cospirativa. Consigliato di recarsi a Parigi, due giorni più tardi incontra nella capitale francese

14 La seconda spia è lo scrittore torinese Pitigrilli (Dino Segre), vendutosi alla polizia nell’estate 1930; numerosi rapporti da lui compilati per i servizi segreti sono stati pubblicati a cura di Domenico Zucaro nel volume Lettere all’Ovra di Pitigrilli, Fi­renze, Parenti, 1961 (Milano, Sugarco, 1977). Una terza spia informerà i vertici della polizia sull’operato di GL: Enrico Bri- chetti (legionario dannunziano, poi dirigente dell’Azione Repubblicana Socialista nell’emigrazione politica), attivo a Parigi e scoperto solamente nel 1938. Cfr. Elisa Signori, Marina Tesoro, Il rosso e il nero. Fernando Schiavetti e gli antifascisti nel­l’esilio fra repubblicanesimo e socialismo, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 155-174 e 196-228.15 Ernesto Rossi, arrestato a Bergamo durante una lezione di economia all’Istituto tecnico “Vittorio Emanuele II”, condotto dagli agenti nella sua abitazione per assistere alla perquisizione intuisce che il delatore è ‘Carletti’: entrati nella casa, i poli­ziotti “erano andati senza esitazione a prendere le boccette che tenevo nascoste in un armadio, per la scrittura in simpatico: l’alloggio in cui stavo l’avevo preso in affitto pochi giorni prima e soltanto Del Re aveva visto dove mettevo le boccette” (Cfr. E. Rossi, Fuga dal treno, in Giuseppe Armani (a cura di), Ernesto Rossi. Un democratico ribelle, Parma, Guanda, 1975, p. 98); fu dunque grazie al comportamento maldestro degli agenti che il cospiratore intuì l’origine della spiata. In anni succes­sivi Ferruccio Pani ha rievocato i momenti disperanti seguiti all’arresto, spiegando il modo in cui si era tentato di divulgare tra i carcerati l’identità dello spione: “Venne quel bel tomo di Del Re, che mi rincresce non sia stato fucilato come doveva. Finisco anch’io dopo qualche peregrinazione carceraria a Regina Coeli nel braccio di Ceva, al piano superiore. Tristissimi giorni: Del Re sapeva troppo, abbastanza per mandare alla morte Bauer, Rossi e Ceva. Se non ci fossero bastati i sospetti per­sonali, Rossi per avvertirci aveva scritto dieci volte col dito nella polvere spessa che si annidava in certi angoli dei cancelli delle ‘casse da morto’dove si passava l’ora d’aria non ispezionati dalle guardie pigre: ‘Del Re spia, Del Re spia, Del Re spia’”. Cfr. F. Pani, Umberto Ceva, “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 1955, n. 38-39, p. 90.

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Lussu, Rosselli e altri dirigenti di GL; stavolta gli interlocutori avanzano sospetti sul suo vero ruolo16; Del Re, vistosi perduto; diserta il se­condo appuntamento e fugge precipitosamente verso l’Italia17.

Il mandato dell’agente provocatore è stato adempiuto con abilità, ma vi è il rischio di ritor­sioni da parte degli antifascisti; debellata la con­fraternita massonica18 e decimata la rete di Giu­stizia e libertà il collaboratore della polizia vuo­le allontanarsi dall’Europa. Il 20 settembre, rice­vuto un nuovo compenso di 60.000 lire, s’im­barca con la moglie su un transatlantico diretto a Buenos Aires, per ricostruirsi una nuova vita.

L’attenzione di Nudi si è intanto concentrata su Umberto Ceva, rinchiuso nella cella n. 440 del carcere di Regina Coeli e tenuto sotto pressione con interrogatori miranti a disorientarlo e a de­moralizzarlo. L’ispettore gli rinfaccia il ruolo determinante rivestito nella preparazione degli attentati dinamitardi e il materiale sequestratogli durante la perquisizione domiciliare; il 7 no­vembre, finalmente, gli sferra il colpo più duro, accusandolo di avere preparato l ’ordigno che il

12 aprile 1928 aveva provocato una strage nei pressi della Fiera campionaria di Milano, in piaz­zale Giulio Cesare, appena prima del passaggio del corteo reale, con una ventina di morti e un gran numero di feriti19. Il poliziotto gioca una carta insidiosa, tanto più pericolosa in quanto truccata. Ripescate il 3 novembre le bombe get­tate nel Brembo, si ottiene dal generale d ’arti­glieria Alfredo Torretta una perizia “compiacen­te”, secondo la quale l’ordigno di piazzale Giu­lio Cesare sarebbe analogo a quelli preparati dal- l’artificiere giellista. Nudi suggerisce al detenu­to di ammettere le proprie responsabilità, garan­tendogli un itinerario processuale di favore. Del resto, insinua il regista delle indagini, ogni resi­stenza è inutile, dal momento che — presentan­do in una determinata luce le informazioni rac­colte — lo si farà com unque passare come l’informatore e il collaboratore degli inquirenti. Ceva si trova in una situazione terribile: consa­pevole del fatto che qualcuno a lui molto vicino ha vuotato il sacco e ha addirittura agito per con­to dei servizi segreti, non è certo dell’identità di questo spione. La prospettiva di passare per de-

16 Testimonianza di Salvemini: “Arrivò la notizia che Rossi, Bauer e tutti — proprio tutti — gli aderenti di Giustizia e libertà erano stati arrestati. Uno solo, messosi in salvo, era arrivato in Svizzera, e di qui aveva telefonato che gli mandassimo il de­naro necessario per venire a Parigi. Io ero a letto con una crisi di affanno, la quale mi faceva credere che il cuore, per il trop­po strapazzo, se ne fosse andato per aria. Quando Tarchiani e Carlo Rosselli mi portarono quella notizia, io — non so per qua­le ispirazione — dissi: ‘Se lui è proprio il solo che si sia salvato, quello è la spia’. Si convenne che Rosselli sarebbe andato con la sua automobile a rilevarlo alla stazione, e lo avrebbero condotto dove Tarchiani, Lussu e Cianca avrebbero aspettato: arrivato gli avrebbero domandato di consegnare il portafoglio; se il portafoglio conteneva denaro al di là di quello che gli era stato spedito, questa era la prova del tradimento. Così fu fatto. Il portafoglio di Carlo Del Re conteneva alcuni biglietti da mil­le, ch’egli aveva detto, telefonando a Parigi da Lugano, di non possedere. Che fare ora? Ad ammazzarlo si andava in galera, senza che Mussolini se ne dispiacesse smoderatamente; eppoi nessuno di noi aveva la vocazione dell’ammazzatore. Lo la­sciarono andare via”. Gaetano Salvemini, Memorie di un fuoriuscito, in Opere Vili. Scritti vari (1900-1957), Milano, Feltri­nelli, 1978, p. 648.17 A metà ottobre c’è chi, come l’avv. Ciriani, è ancora convinto della buona fede di Del Re e di lui si fa garante con Salve- mini durante un incontro parigino: lo si invita a lasciar perdere e soprattutto a non presentare altri personaggi equivoci; in pre­cedenza l’ex deputato friulano aveva infatti inviato al conte Sforza un sedicente antifascista, rivelatosi poi un agente dei ser­vizi segreti.18 La rete massonica milanese, costituita nel 1927, viene letteralmente sgominata, in quanto i suoi esponenti di primo piano avevano stretto rapporti di estrema fiducia con Del Re. Tuttavia, a differenza di quanto avviene per gli affiliati a Giustizia e libertà, il regime adotta un atteggiamento benevolo: dagli incartamenti processuali risulta che diversi affiliati, riaffermata la loro lealtà nel regime, non vengono nemmeno arrestati, mentre i confratelli imprigionati sono scarcerati e prosciolti in fase istruttoria. Cfr. Aldo A. Mola, La Massoneria e Giustizia e libertà, in 11 Partito d’Azione dalle origini alla Resistenza arma­ta, Roma, Archivio Trimestrale, 1985, p. 372.19 Le responsabilità dell’attentato milanese del 12 aprile 1928 contro il sovrano sono rimaste misteriose: la polizia ha cerca­to di volta in volta di attribuirle ai comunisti e ai giellisti, senza però riuscire a ‘produrre’ riscontri plausibili. La versione più verosimile accredita l’iniziativa di un gruppo di fascisti dai sentimenti repubblicani, intenzionati a eliminare il re e ad impri­mere al regime una svolta in senso totalitario.

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latore e per autore di una strage lo sgomenta; ha compreso che la polizia vuole utilizzarlo come capro espiatorio e ridurlo — contro la sua volontà — ad uno strumento contro i suoi compagni d ’i­deali.

A questo punto è opportuno fare un passo al- l ’indietro, risalendo al piano elaborato in ottobre da Del Re e da Bocchini, per elencare la sequen­za dei fatti desiderati dal servizio segreto: 1) at­tentato dinamitardo di Giustizia e libertà; 2) ar­resto immediato dei responsabili, dipinti quali fe­roci terroristi; 3) indicazione di Ceva, artificere del gruppo, quale collaboratore della giustizia; 4) attribuzione ai giellisti della strage di Milano del 12 aprile 1928; 5) processo sommario, domina­to da dichiarazioni clamorose di Del Re sulle re­sponsabilità dei mandanti parigini; 6) condanna alla pena capitale per Bauer, Rossi e alcuni altri congiurati. Un proclama di Mussolini avrebbe conferito la massima pubblicità all’azione di po­lizia, assicurando uno sbocco politico al’opera repressiva20. Sfumato il primo punto, si cercò co­munque di piegare il corso degli eventi al pro­getto originario. Il rilievo attribuito alla cospira­zione di Giustizia e libertà è comprovato da un indizio rivelatore: i dispacci sull’operazione di

polizia utilizzano per la prima volta — è il 3 di­cembre 1930 — la sigla Ovra, escogitata perso­nalmente dal dittatore con indubbio fiuto gior­nalistico21.

Il 12 dicembre l ’ispettore Nudi, chiusa l’in­dagine istruttoria, deferisce al giudizio del Tri­bunale Speciale Bauer, Ceva, Rossi, Viezzoli e i loro compagni. Le cento cartelle del memoriale d ’accusa non contestano agli arrestati la respon­sabilità della strage del 1928; il dirigente dell’O- vra non è riuscito a piegare la resistenza di Ceva ed è consapevole di non potersi basare, per av­valorare un reato così grave, che su indizi gene­rici e su prove tutt’altro che fondate, quali ap­punto la perizia del gen. Torretta. Comunque Nu­di non rinunzia allo scopo e incalza il chimico di GL, nel calcolo di logorarne l’equilibrio interio­re. Gli interrogatori non vengono verbalizzati, ma la loro effettuazione s’intuisce da alcuni brani delle lettere scritte dal detenuto ai familiari22. Uno strumento di tortura psicologica è costituito dal­l’attribuzione a Ceva di un’inesistente confes­sione sulle diramazioni organizzative del gruppo antifascista milanese; Nudi non ha fatto che at­tribuirgli, con modifiche minime, le dichiarazio­ni dell’infiltrato della polizia: “Il nome di Del Re

20 In sostanza la missione affidata a Del Re doveva produrre un risultato analogo a quello dei falliti attentati Zaniboni (Roma, 4 novembre 1925: il principale collaboratore dell’attentatore era l’agente provocatore Carlo Quaglia) e Zamboni (Bologna, 31 ottobre 1926), determinanti nell’involuzione liberticida del regime.21 La misteriosa sigla, dietro cui si cela un comparto della polizia segreta, diviene nell’inverno 1930-31 il simbolo dell’ema­nazione proteiforme degli apparati repressivi fascisti; tale rinomanza condiziona negativamente la stessa attività dei fuoriu­sciti: emblematico un articolo del periodico “Il becco giallo” (stampato a Parigi nell’orbita di Giustizia e libertà), con l’am­missione del senso di sgomento che ha raggelato larga parte degli oppositori dopo la retata ai danni di GL: “Gli antifascisti, che sono gigantesca maggioranza in Italia e all’estero, si lasciano paralizzare dalle parole misteriose. [...] V’è la leggenda che conta. E purtroppo la leggenda dell’Ovra torreggia sulla paura della massa antifascista” (lì mito dell’Ovra, “Il becco giallo”, 20 febbraio 1931, p. 4). Il significato della sigla non è mai stato esplicato in modo certo: la si è di volta in volta spiegata co­me “Opera volontaria di repressione antifascista”, “Organizzazione di vigilanza e repressione dell’antifascismo”, “Organo di vigilanza dei reati antistatali”. Cfr. Guido Leto, Ovra. Fascismo—Antifascismo, Bologna, Cappelli, 1951 ; Giandomenico Co­smo, Un primo consuntivo dell’attività dell’Ovra e 1 servizi di polizia politica durante il fascismo, “Il Movimento di libera­zione in Italia”,1951, n. 14 e 1952, n. 16, pp. 43-53 e pp. 33-52; Ernesto Rossi, La pupilla del Duce. UOvra, Parma, Guan- da, 1956; Paola Canicci, L’organizzazione dei servizi di polizia dopo l’approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza nel 1926, “Rassegna degli Archivi di Stato”, 1976, n. 1, pp. 82-114; Id., Arturo Bocchini, in P. Canicci e al., Uomi­ni e volti del fascismo, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 63-103; Franco Fucci, Le polizie di Mussolini, Milano, Mursia, 1985; Gior­gio Fabre, Le polizie del fascismo, “Quaderni di storia”, n. 31, 1990.22 Ulteriori elementi sulla tecnica poliziesca, applicabili per analogia alla situazione di Ceva, figurano in una testimonianza di poco posteriore —• riferita all’operazione di polizia del 1934 contro il nucleo torinese di Giustizia e libertà — sui tranelli tesi dai dirigenti dell’Ovra ai detenuti politici, con tecniche di interrogatorio raffinate: Leo Levi, Antifascismo e sionismo: convergenze e contrasti, in Paolo Foa e al., Gli ebrei in Italia durante il fascismo, Torino, Quaderni della Federazione giova­nile ebraica d’Italia, 1961, pp. 53-56.

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ci venne fatto durante la istruttoria da uno degli arrestati, il dott. Ceva”, scrive l ’ispettore, ag­giungendo che l’istruttoria è stata “grandemente facilitata dalle confessioni” del giovane diretto­re tecnico. In tal modo il tradito diviene il tradi­tore e il delatore veste i panni dell’uomo probo, chiamato in causa a sua insaputa. Ceva assumerà su di sé il peso dell’infamia altrui, per scagiona­re la “spia di regime”; il destino di due uomini s ’intreccia e si contrappone: la rovina dell’uno costituisce la salvezza dell’altro.

Estenuato e angosciato per l’impossibilità di uscire dalla trappola preparata contro di lui e i suoi compagni, la notte di natale Ceva si toglie la vita, nella cella 440 del quarto braccio del carcere giu­diziario di Regina Coeli, ingerendo combustibile solido, succo di limone e frammenti di vetro. La terribile risoluzione non è il frutto di un raptus, ma l’esito lucidamente consapevole di una lunga e di­sperante riflessione, risalente alla metà di novem­bre, quando il detenuto chiede per la prima volta del limone. Un brano della straziante lettera d ’ad­dio alla moglie allude alle trame nelle quali Del Re lo aveva invischiato: “Ho forse toccato incon­sciamente mani impure e quello che ho fatto, non grave in sé, può far sorgere dubbi e per difender­

mi dovrei accusare, senza un’ombra di prova, so­lo per poche parole, afferrate qua e là. Sono stato cieco e questo mi ha portato a dover dare a te, a tutti i miei cari adorati questo dolore terribile”23.

La stampa diffonde la notizia del suicidio con una settimana di ritardo. Anche Del Re ne viene a conoscenza, durante il suo soggiorno argenti­no, e per un istante prova turbamento, ma subito — a quanto testimonia una lettera da lui spedita a un agente dell’Ovra — riacquista la freddezza professionale e rivendica il proprio ruolo mefi­stofelico: “Ho appreso (tutti i giornali lo hanno pubblicato) del suicidio di Ceva. Non è stata una notizia formale. Può immaginarselo. Questo fat­to, e le inevitabili condanne del Tribunale Spe­ciale, non fanno che aumentare di fronte a Pari­gi e compagnia la mia responsabilità. Non posso e non devo rammaricarmi, perché io ho voluto e saputo e potuto tutto questo”24.

Il suicidio di Ceva e la campagna intemazio­nale di denunzia della repressione del regime (or­ganizzata a Parigi da Gaetano Salvemini) scom­paginano i meccanismi dell’insidioso piano po­liziesco e la grande provocazione non produce gli effetti ripromessi25. A metà gennaio una se­conda perizia affidata dal Tribunale Speciale al

23 Lettera del 24 dicembre 1930, scritta di nascosto nell’isolamento per eludere la sorveglianza delle guardie (il testo integra­le figura in B. Ceva, 1930. Retroscena di un dramma, cit., pp. 111-115). Umberto Ceva lascia la giovane moglie Elena e due figlioletti in tenera età. Nella cella 440 viene ritrovata una seconda missiva, diretta all’ispettore Nudi; questa la parte inizia­le: “Mi uccido avendo la coscienza tranquilla e le mani pulite. Se avessi avuto o mi fosse stata data la prova, o avessi alme­no la certezza morale verrei al processo senza preoccuparmi di me stesso. Dalle mie mani non è mai uscito nulla che potesse far male ad anima viva. Ma poiché la prova manca, passato l’incubo terribile che mi ha fatto vedere cose orrende là dove for­se non vi è nulla di simile, io sento che non saprei resistere e diverrei l’istrumento di uno spaventoso processo indiziario, che d’altra parte le circostanze giustificherebbero. No. Non ho fatto nulla al di fuori di quello che si sa e quello che ho fatto non lede per me in alcun modo la legge morale” (ivi, pp. 108-109). I familiari conosceranno questo secondo messaggio — inter­pretabile alla stregua di un testamento morale — soltanto nell’ottobre 1954, quando una copia fotografica del documento verrà rinvenuta nel fascicolo processuale del Tribunale Speciale.24 Lettera del 7 gennaio 1931 a Santone Vezzari (in Ernesto Rossi, Una spia del regime, Milano, Feltrinelli, 19683, p. 54). An­che in epoca successiva Del Re ammetterà, nelle confidenze epistolari ai capi dell’Ovra, il nesso di causa-effetto intercorso tra la propria azione e il suicidio del giovane cospiratore giellista: “il morto Ceva mi sarà sempre imputato”, troviamo scritto nel me­moriale indirizzato l’8 luglio 1932 al questore Di Stefano, al capo della polizia Bocchini e al ministro Balbo (ivi, p. 151). In ef­fetti già nel 1931 alcuni esuli politici avevano intuito il rapporto perverso intercorso tra il delatore e Ceva; cfr. la dedica apposta da Lauro De Bosis all’opuscolo The Alleanza Nazionale — Documents of thè Second ltalian Risorgimento, stampato a Parigi: “To thè Memory of Umberto Ceva Martyr of thè Second ltalian Risorgimento. Imprisoned by thè oppressors of Italy and unable to prove his innocence without accusing a friend, he look his life on Christmas Day, 1930, unaware that thè man, for whom he so nobly sacrified himself, was thè same fascisi agent who had lured him into conspiracy and betrayed him to thè police”.25 Uno squarcio di luce sul progetto primigenio è gettato da un passaggio del memoriale indirizzato da Del Re a Mussolini il 21 luglio 1941, laddove l’ex agente provocatore rivendica il ruolo determinante da lui giocato nell’autunno 1930: “L’opera, la più violenta, la più definitiva contro l’antifascismo, determinò vaste ripercussioni anche intemazionali. Queste, anzi, con­sigliarono una moderazione nella repressione in luogo di quella, subito prevista, che aveva fatto predisporre persino un prò-

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tenente colonnello Mario Grosso stabilirà che la bomba esplosa a Milano e i congegni dinamitar­di preparati dai giellisti erano stati confezionati da mani diverse: è la smentita dell’ipotesi osti­natamente perseguita dall’ispettore Nudi, la di­mostrazione dell’inumanità del comportamento inquisitoriale contro l ’innocente Ceva.

Spetta al Tribunale Speciale per la difesa del­lo Stato giudicare gli antifascisti milanesi, con­dotti alla sbarra in due distinti processi26. Nel cor­so dell’istruttoria — nelle deposizioni del 9 e 18 novembre 1930 e dell’8 gennaio 1931 — Rossi chiama insistentemente in causa l’agente provo­catore “Carletti” (Carlo Del Re), del quale indi­ca la responsabilità in vari reati, inclusa l’idea­zione e l’organizzazione di attentati dinamitardi. Gli inquirenti si trovano costretti ad aprire un pro­cedimento contro il delatore, dichiarato latitante mentre è protetto e sovvenzionato dal capo del­la polizia.

Da Parigi e da Lugano i nuclei di Giustizia e libertà divulgano comunicati in cui Del Re è de­scritto quale spregevole traditore. Se il suicidio di Ceva lo ha privato della copertura concertata con la polizia, il delatore tenta di salvare la pro­pria reputazione con una lettera-aperta a Gaeta­no Salvemini, insinuando che i giellisti milanesi siano stati traditi da Riccardo Bauer: “Gli arresti sono avvenuti soltanto presso persone che io ho conosciuto attraverso il Bauer, mentre nessuna delle persone che appartenevano al vasto cerchio della mia propaganda è stata molestata”27. Ov­

viamente i riscontri in possesso degli antifascisti consentono di liquidare il goffo tentativo come l’ennesima dose di veleno sparsa da una spia ora­mai smascherata.

Il 6 marzo la Commissione Istruttoria pronun­zia sentenza di non luogo a procedere per insuffi­cienza di prove nei confronti di Ferruccio Pani e di altre 7 persone28. Il 29 maggio si apre il pro­cesso e Rossi può finalmente esporre le sue accu­se in pubblico, alla presenza dei compagni di idea­li: “Ho saputo che il Del Re, per il suo tradimen­to, ha ricevuto parecchie centinaia di migliaia di lire: spero che non gliele lasceranno godere in pa­ce”. La corte vuole risolvere in fretta un procedi­mento giudiziario divenuto imbarazzante da quan­do alcuni prestigiosi intellettuali (tra gli altri: John Dewey, Thomas Mann, José Ortega y Gasset, Ro- main Rolland e Herbert George Wells) hanno di­ramato un appello in favore degli imputati, defi­niti vittime innocenti dei metodi barbari della po­lizia fascista. Il 29 maggio viene pronunziata la sentenza di condanna a vent’anni di reclusione per Riccardo Bauer e Ernesto Rossi; la pena inflitta a Vincenzo Calace e Bernardino Roberto è di dieci anni, sei anni per Giordano Viezzoli29. La posi­zione di Del Re, latitante, è stralciata.

Un mese più tardi — il 27 giugno— il secondo processo contro gli attivisti di Giustizia e libertà si conclude con dieci anni di carcere per France­sco Fancello e Cesare Pintus, sette anni di reclu­sione per Nello Traquandi.

Da quel fatidico 27 settembre 1930 in cui Del

clama al Paese, e punizioni ben più vaste e importanti di quelle, poi definite, dei colpevoli” (il documento è trascritto in E. Rossi, Uno spia del regime, cit., p. 217).26 II materiale processuale è depositato all’Archivio centrale dello Stato, fondo Tribunale Speciale, buste 260-262.27 Lettera di Del Re “a Gaetano Salvemini e alla sua trista compagnia”, 23 gennaio 1931 (Una spia del regime, cit., p. 64). Il raffronto del brano sopra citato con un passo della nota n. 0694 dell’Ovra (senza data, ma certamente collocabile alla metà del novembre 1930) — “Vedere che siano coinvolte tutte le persone trovate negli indirizzi del Bauer, e fare in modo che quel­le indicate dal C. [Carletto] siano coinvolte attraverso le risultanze delle indagini e delle indicazioni degli arrestati” — evi­denzia l’attenzione con cui Del Re calibrava le proprie posizioni sul progetto concordato con i vertici della polizia politica.28 Mentre Parri mantiene un contegno dignitoso e non rinnega le proprie convinzioni morali, i partecipanti ai convegni mas­sonici in casa Cantoni “manifestarono ripetutamente ed anche con istanze dirette al Capo del Governo i loro sentimenti di am­mirazione e di devozione per il Duce e per il Regime” (così la motivazione di proscioglimento decisa della Commissione istruttoria: cfr. Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1931, Roma, Stato Maggiore dell’Esercito, 1985, p. 239).29 La sentenza — riprodotta alle pp. 229-237 del volume citato alla nota precedente — verrà dichiarata giuridicamente inesi­stente dalla 2a Sezione penale della Corte Suprema di Cassazione il 15 aprile 1982.

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Re si era confidato a Bocchini, la sua esistenza rimarrà avvinta per un quindicennio ai meccani­smi spionistici del regime. I progetti di una nuo­va vita in America Latina vengono vanificati dal terrore di una vendetta di Giustizia e libertà: i giornali dei fuoriusciti riproducono fotografie del traditore e ne sottolineano i connotati che lo ren­dono facilmente riconoscibile: l ’amputazione di tre dita della mano destra. Valutato che per lui il luogo più sicuro è l’Italia fascista, nel marzo 1931 il delatore rimpatria e assume un’identità fasulla (avvocato Giuseppe Forti). Il peso del tradimen­to si ripercuote nella sfera familiare e il matri­monio naufraga30.

Nel corso degli anni trenta l’esistenza di Del Re trascorre all’ombra dell’Ovra31. Stabilitosi a Napoli non riesce a trovare un equilibrio esi­stenziale e tenta di suicidarsi; a scadenze perio­diche assilla Bocchini con richieste di protezio­ne e di finanziamento: esige che i patti vengano rispettati sino in fondo e che lo si prosciolga con formula piena da qualsivoglia accusa. L’ 11 gen­naio 1932 viene arrestato32 e il 29 dello stesso mese la Commissione istruttoria del Tribunale speciale lo assolve per insufficienza di prove, gra­zie a false deposizioni di alti funzionari della po­lizia segreta.

Alla fine del 1938 Bocchini interrompe il flus­so dei pagamenti in favore del confidente33, che a questo punto, sentendosi messo da parte, ten­ta il tutto per tutto e si autodenunzia per appro­

priazione indebita, in riferimento all’infedeltà nelle curatele del 1930. Il gesto — spiegato con la volontà di vedere sostituita l ’assoluzione per insufficienza di prove con l ’assoluzione per non avere commesso il fatto — cela un astuto ricat­to contro i vertici della polizia, ai quali Del Re lancia messaggi in codice: se non riprenderanno le erogazioni mensili, egli riproporrà in sede giu­diziaria il suo “caso”, con i retroscena inquie­tanti in termini di violazione della legalità da par­te di alte autorità dello Stato. La manovra è piuttosto azzardata e se in sede istruttoria il Tri­bunale Speciale lo assolve con formula più am­pia34, Bocchini — irritato per la manovra diret­ta contro di lui — ordina l’arresto di Del Re e il suo deferimento alla Commissione per l’asse­gnazione al confino35. Condannato a 5 anni, da scontarsi a Ventotene, l ’avvocato friulano speri­menta i rigori del confino di polizia soltanto per poche settimane, tra il dicembre 1940 e il gen­naio 1941, e per di più in forma blanda, con un trattamento di favore e la concessione di ‘licen­ze’ ; poiché a Ventotene — dove si trovano Bauer e Rossi — il suo arrivo è accolto con ostilità, l’ex spia viene trasferita alle Tremiti. Il 2 febbraio egli indirizza un memoriale al nuovo capo della polizia, Carmine Senise, nel quale ricorda le pro­prie benemerenze, conferma la sua fede fascista e chiede l ’intervento benevolo di Mussolini: il dittatore accoglie l’istanza e Del Re toma in li­bertà.

30 Poco dopo il rientro in Italia Elsa Tonelli abbandona il marito e nell’agosto 1934 i coniugi Del Re si recano a Lugano per ottenere una sentenza di divorzio. Anche in questa circostanza le spese a carico dell’avvocato friulano vengono sostenute dal­la polizia.31 Le sue frequenti lettere ai dirigenti dei servizi segreti evidenziano una dipendenza non soltanto venale ma pure psicologi­ca: “carissimo zio” è l’appellativo convenzionale col quale egli si rivolge al questore Di Stefano (che gli risponde: “carissi­mo nipote”), quasi che l’Ovra fosse divenuta la vera famiglia di Del Re. Non si può comunque affermare che l’agente segre­to fosse in balia degli organi dello Stato, coi quali aveva stabilito un’intesa di interesse: in varie missive emerge infatti una sottile strategia di utilizzo della polizia politica per vivere agiatamente e farsi una posizione sociale adeguata.32 Un arresto che desta molteplici interrogativi: si veda, nell’appendice al presente saggio, il documento n. 1.33 Nel corso degli anni Trenta l’Ovra sovvenziona il “fiduciario n. 444” (così i rapporti di polizia indicano Del Re) con una somma superiore alle 400.000 lire, superiore al mezzo miliardo d’oggi.34 II testo della sentenza n. 65 (21 ottobre 1940) della Commissione istruttoria figura in Ministero della Difesa, Stato Mag­giore dell’esercito, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Decisioni emesse nel 1940, Roma, Ufficio storico Stato Mag­giore dell’esercito, Roma, 1994, pp. 231-232.35 II dispaccio con cui il 31 ottobre 1940 Bocchini ordina al Questore l’arresto di Del Re è tra gli ultimi atti compiuti dal ca­po della polizia, morto il 20 novembre. La scomparsa di Bocchini, proprio quando il dirigente dell’apparato repressivo fasci­sta aveva “scaricato” e punito l’ex collaboratore, è un insperato colpo di fortuna per l’avvocato friulano.

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Fascismo e repressione del dissenso 381

Riammesso nei ranghi del Pnf, l ’ex confiden­te della polizia trova una nuova fonte di cespiti: grazie alle entrature con personaggi di sottogo­verno avvia un lucroso commercio tra Italia e Spagna, sotto la protezione del “clan Petacci”36. Sul versante dell’attività politica egli s ’impegna con zelo nella campagna razziale e Pavolini (mi­nistro per la Cultura popolare) gli affida la dire­zione del Centro di preparazione politica per lo studio sul problema ebraico, con sede a Roma e competenza sul Lazio37. Del Re sfoggia le sue conoscenze in materia di massoneria e di ebrai­smo (temi che lo avevano affascinato all’inizio degli anni venti, in una prospettiva esoterica) e può finalmente reimmergersi nell’atmosfera del complotto politico, a lui tanto cara; stavolta i suoi interessi si concentrano sull’esistenza di una con­giura ebraico-massonica ai danni del regime. Egli rimane dietro le quinte, nel sottobosco dei fun­zionari del regime, dove intesse alleanze e trame miranti più che altro ad acquisire influenza e ami­cizie nel mondo degli affari.

Con la nascita della Rsi Del Re si sposta al Nord e in un primo momento tenta di inserirsi negli am­bienti ministeriali di Salò, contando sull’appog­gio di Pavolini; constatata la difficoltà di ottene­re un incarico soddisfacente si trasferisce nel Friu­li, sua regione natale; qui— dopo una breve e con­troversa parentesi politica38 — si arruola nel Reg­gimento Alpini “Tagliamento” (comandato dal colonnello Zuliani) e si collega col Centro per lo studio del problema ebraico di Trieste. Dal di­

cembre 1943 svolge la mansione di informatore del Comando delle SS in Italia, lavorando a Ve­rona presso la Sezione III A della Polizia di sicu­rezza, agli ordini del colonnello Kappler. Ai ver­tici della RSI conta sulla protezione del ministro della Giustizia Piero Pisenti e del sottosegretario agli Esteri Serafino Mazzolini.

Archivi fascisti e traversie postbelliche di un’ex spia

Le vicissitudini di Del Re dopo la cessazione del conflitto possono portare un significativo tassel­lo alla ricostruzione del carattere contraddittorio dell’epurazione contro i responsabili di crimini fascisti. Nel dopoguerra Bianca Ceva tenta di re­cuperare nuove informazioni sulle vicende co­state la morte al fratello, ma le ricerche si arena­no dinanzi all’impossibilità di raccogliere le te­stimonianze della persone a conoscenza dei fat­ti: Di Stefano è morto nel 1938, Bocchini nel 1940, Nudi è dato per defunto durante la guerra (ma si sospetta sia un accorgimento per depista­re eventuali ricerche).

La posizione dell’ex informatore della polizia politica passa al vaglio della Commissione di pri­mo grado per la revisione dell’Albo degli avvo­cati di Roma: valutata l’opera prestata al servi­zio dei nazifascisti, con deliberazioni in data 23- 26 giugno 1946 se ne dispone la cancellazione per indegnità39. Nel frattempo Del Re si è tra-

36 La genesi dell’incarico commerciale risale alla delazione di Del Re: l’agente Vezzari, attivo in quella circostanza alle di­rette dipendenze di Nudi, venne ricompensato per il ruolo giocato nell’operazione contro Giustizia e libertà con la promo­zione a responsabile dei servizi informativi italiani in Spagna; succesivamente il Vezzari, ottenuta la nomina a consigliere commerciale presso l’ambasciata del Regno d’Italia a Madrid, si ricorderà della sua vecchia conoscenza Del Re, chiamato a partecipare ai lucrosi traffici italo-iberici (Cfr. E. Rossi, Una spia del regime, cit., p. 232).37 II compito dei centri consisteva nel divulgare le teorie razziste e nel raccogliere notizie sulla presenza e sull’attività degli ebrei italiani. Il primo di questi organismi sorse ad Ancona su stimolo del marchese Guido Podaliri. Per una panoramica ge­nerale si veda Giuseppe Mayda, La politica antisemita del fascismo: cos’ erano i Centri-studio per il problema ebraico, “Re­sistenza”, febbraio 1969, p. 8. Sull’attività del Centro triestino si veda Silva Gherardi Bon, La persecuzione antiebraica a Trieste (1938-1945), Udine, Del Bianco, pp. 167-174.38 Grazie ai rapporti con Pavolini, nell’ottobre 1943 Del Re ottiene l’incarico di ispettore del PFR, che deve abbandonare il mese successivo per l’ostilità del questore e del capo della provincia di Udine, che lo fanno arrestare. In favore dell’ex spia intervengono gli amici triestini del Centro antiebraico, che ne ottengono la liberazione. A questo punto Del Re ricerca la pro­tezione dei tedeschi.' In questa fase, dunque, i documenti comprovanti l’opera di provocazione attuata nell’autunno 1930 ai danni degli antifa­

scisti rimangono custoditi negli archivi e non valgono come prova per l’epurazione di Del Re, cancellato dall’albo professio­nale soltanto per il comportamento tenuto nel periodo della Rsi.

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sferito a Barcellona, dove aveva già operato con profitto nel periodo 1938-1942; ora egli rappre­senta una società italiana delle partecipazioni sta­tali. Per spostarsi tra Italia e Spagna utilizza il passaporto ottenuto nel dicembre 1945 dalla Que­stura di Verona, senza che i suoi gravi preceden­ti gli siano stati di ostacolo.

Nel luglio 1946 l ’elenco degli informatori del- l ’Ovra pubblicato sulla “Gazzetta ufficiale” in­clude il nominativo di Carlo Del Re nel novero dei 622 cittadini assoldati dalla polizia segreta di Mussolini40. Come tanti suoi ‘colleghi’, anch’e­gli presenta ricorso per venire depennato dalla li­sta infamante41. Esaminati gli atti, il 15 gennaio 1948 la ‘Commissione per l ’esame dei ricorsi dei confidenti dell’Ovra’ rigetta l’istanza, con una motivazione che non lascia margine di equivo­co: “Il Del Re fu assunto come confidente del- l’Ovra con lo pseudonimo di Carletti ed il n. 444, prestò servizio sino al 1938 ricevendo comples­sivamente lire quattrocentomila. Nel 1938, a se­guito delle sue pretese ricattatrici nei confronti della polizia, questa lo licenziò e lo mandò al con­fino, dal quale fu liberato per intervento di Mus­solini”. La parte finale della motivazione squali­fica il ricorrente sul piano morale: “Il Del Re, de­finito ‘filibustiere’ dallo stesso Capo della Poli­zia, è responsabile del suicidio in carcere del Ce- va da lui denunziato e della condanna a diversi anni di reclusione di altri del movimento Giusti­zia e libertà arrestati a seguito della sua denun­

zia; il Del Re è stato informatore dell’Ovra, per le delazioni fatte ha chiesto e ottenuto notevoli com pensi in denaro , dopo aver com m esso un’appropriazione indebita qualificata, aggiun­gendo un delitto più grande a quello già com­messo”. Nelle more del ricorso l ’ex agente am­mette implicitamente le imputazioni a suo cari­co in una lettera alla Commissione (2 luglio 1947), rinunziando a visionare i documenti dai quali risultano i rapporti con la polizia segreta. Il rigetto della domanda viene pubblicato sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 49 del 27 febbraio 1948.

Le memorie di un ex dirigente della polizia fa­scista, Senise, stampate nel 1946, alludono con disprezzo al ruolo giocato dal traditore dei giel- listi: “Per opera di uno spregevole delatore, il quale spontaneamente vendette alla polizia quel­li che erano stati i suoi compagni di fede, si eb­be per la prima volta notizia dell’esistenza di quella organizzazione della quale poi tanto si do­veva parlare, specialmente per l ’uccisione di Car­lo Rosselli”42.

Nel 1951 Del Re riporta in Italia la sede dei suoi interessi professionali e si stabilisce a Roma, ma per lui si stanno preparando tempi difficili. Nella seconda metà degli anni quaranta Ernesto Rossi ha infatti preso visione del fascicolo nominativo intestato all’avvocato Del Re presso la Direzione generale di Pubblica Sicurezza, negli archivi del Ministero dell’Interno, e lo ha fotografato inte­gralmente43. Nell’autunno del 1952 alcuni docu-

40 Cfr. il supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, n. 145 del 2 luglio 1946. Rimasero esclu­si dall’elenco, oltre agli informatori nel frattempo defunti, “funzionari, impiegati, sottufficiali e guardie di RS. e persone non individuate”. I documenti della Commissione, depositati a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato, sono esclusi dalla consultazione in quanto considerati ancora oggi di carattere riservato..41 Secondo le indagini compiute da Rossi 287 persone inserite negli elenchi dell’Ovra richiesero la cancellazione, concessa in 131 casi; cfr. E. Rossi, La pupilla del Duce. L'Ovra, cit., p. 24 (lo spoglio da me condotto sulla “Gazzetta Ufficiale” degli anni 1946-1948 fornisce risultati leggermente discordanti: 273 i ricorsi presentati, 146 quelli accolti). Per la radiazione dal­l’elenco degli informatori era sufficiente — ai sensi dell’art. 2 del Regio decreto legislativo n. 424 del 25 maggio 1946 — di­mostrare di “non avere svolto attività informativa politica nell’interesse del regime fascista”: clausola assai indeterminata e ambigua, che, interpretata estensivamente dalla Commissione per l’esame dei ricorsi dei confidenti dell’Ovra, permise una serie di ‘proscioglimenti retroattivi’ in favore di individui che avevano effettivamente collaborato con la polizia politica e ri­cevuto compensi per le loro delazioni (anticipo questa considerazione dai riscontri di una ricerca in via di elaborazione sullo spionaggio politico in epoca fascista).42 Carmine Senise, Quando ero capo della polizia, Roma, Ruffolo, 1946 (2a ed. 1947), p. 83.43 Intorno a diversi particolari dell’intricata vicenda che lo ha condannato a 13 anni di carcere e di confino Rossi si è addentra­to fin nei dettagli, ma sulle modalità dell’accesso al materiale di polizia è rimasto nel vago, probabilmente per non sollevare po­lemiche contro quegli esponenti politici e quei funzionari statali che gli avevano consentito di accedere a materiale di carattere

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menti sono pubblicati dal mensile di politica e let­teratura “Il Ponte”. Il carattere specialistico della rivista fiorentina diretta da Piero Calamandrei mantiene la ‘questione Del R e’ in una cerchia piuttosto limitata di studiosi o di ex oppositori del regime e sul momento non solleva reazioni di ri­lievo; per Ernesto Rossi — curatore della scelta documentaria— questo è il primo passo di un la­voro di lunga lena, che culminerà nell’edizione completa del materiale d’archivio su Carlo Del Re. Nel frattempo costui si sente oramai al sicuro da­gli spettri della sua precedente vita, trascorsa al servizio della polizia politica, e il 4 febbraio 1954 presenta istanza di riammissione all’Albo degli av­vocati44, contando sul fatto che — a distanza di anni — la Commissione di revisione ben difficil­mente potrebbe rivangare un passato oscuro e a conoscenza di pochi. Effettivamente l’istruttoria si conclude positivamente: il Commissariato di Pubblica Sicurezza del Celio sottace la collabora­zione con l’Ovra e il 16 marzo Del Re viene riam­messo all’esercizio dell’avvocatura. Il suo reinse­rimento sociale è sancito dall’iscrizione tra i con­sulenti tecnici del Tribunale di Roma.

Il 1955 è un anno nero per l’ex funzionario dei servizi segreti: contro di lui si leva il fantasma di Umberto Ceva, l ’uomo da lui indotto alla morte. Nell’estate Bianca Ceva — sorella del cospira­tore di GL — dà alle stampe il libro 1930. Re­troscena di un dramma, consistente in una serie di documenti e di testimonianze da cui risulta che

il responsabile morale del suicidio consumato nelle carceri romane il 25 dicembre 1930 è l’a­gente provocatore Carlo Del Re.

Ernesto Rossi ha intanto curato l ’edizione del- f intero dossier, che — arricchito da uno scrupo­loso apparato di note esplicative — viene distri­buito nel dicembre 1955 da Feltrinelli col titolo Una spia del regime. Il libro è di estrema utilità per comprendere i meccanismi polizieschi nella loro molteplicità di livelli, sul piano mercenario, psicologico, repressivo. Le 8.000 copie della tira­tura si esauriscono in pochi mesi, sull’onda del­la sensazione provocata nel mondo politico e a livello di opinione pubblica dalle numerose se­gnalazioni della stampa e dai commenti di alcu­ni intellettuali antifascisti. Le ragioni del succes­so editoriale45 sono probabilmente da ricercarsi nel fatto che a soli dieci anni dalla fine della guer­ra la pubblicazione di una massa di documenti di provenienza poliziesca solleva per la prima vol­ta il velo sul funzionamento dell’Ovra e degli al­tri apparati repressivi del regime.

Le valutazioni giornalistiche convergono sul­l’individuazione in Del Re di un opportunista ve­nale e spregevole46. La “spia”, smascherata di­nanzi all’opinione pubblica, reagisce in modo veemente e presenta una raffica di denunce per diffamazione; tra i querelati figurano Piero Ca­lamandrei, Manlio Magini, Mario Pannunzio, Er­nesto Rossi oltre ai direttori responsabili delle te­state “Avanti!”, “Borghese”, “O ra”, “Paese”, “Unità” e agli editori Feltrinelli e Einaudi.

riservato. Forse la consultazione dei documenti avvenne nell’estate-autunno 1945, durante il governo Patri, quando Rossi rive­stì l’incarico di sottosegretario al ministero della Ricostruzione (una conferma in tal senso figura in Charles F. Denzell, I nemi­ci di Mussolini, Torino, Einaudi, 1966, p. 70). Si tenga conto, per comprendere la delicatezza della questione, che ancora oggi — gennaio 1998 — non è possibile esaminare la rubrica degli informatori della Direzione Generale di Pubblica sicurezza, con l’indicazione nominativa e il numero in codice dei collaboratori della polizia politica fascista. Quanto ai fascicoli nominativi della Divisione Polizia Politica, lo studioso li può visionare previa ‘scrematura’ da parte dei funzionari dell’Archivio, onde esclu­dere dall’esame carte contenenti notizie su situazioni personali private. Ernesto Rossi fotografò e poi trascrisse in un volume una massa di documenti che, almeno in parte, trascorsi cinquant’anni, rimangono fuori consultazione.44 II Decreto legislativo delegato n. 48 del 7 febbraio 1948 aveva revocato le cancellazioni dagli ordini professionali per col­laborazionismo, disposte dal Decreto legislativo delegato n. 159 del 27 luglio 1944.45 D’intesa con l’editore, Rossi ha preventivamente rinunziato a ritirare i diritti d’autore, devolvendoli ad iniziative culturali d’orientamento antifascista. D’altronde, si potrebbe osservare, il vero autore del volume Una spia del regime è ...Carlo Del Re, considerato che la grande maggioranza dei documenti che costituiscono il libro porta la sua firma.46 Ne scrissero — tra gli altri — Vittorio Gorresio su “La Stampa” (4 gennaio 1956), Paolo Alatri sul “Contemporaneo” (7 gennaio), Cesare Spellanzon sul “Nuovo Corriere” dell’ 11 gennaio), Cesare Vivaldi su “L’Ora” (12 gennaio), Domenico Rea su “Paese Sera” (14 gennaio), Piero Caleffi su “La Nuova Repubblica” (22 gennaio), Alberto Moravia su “Il Mondo” (24 gen­naio), Francesco Fausto Nitti su “La Patria” del 5 febbraio.

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Il clamore delle rivelazioni e il tono dei giu­dizi non rimangono senza esiti e il 30 dicembre il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma avvia un procedimento disciplinare, per vagliare l’idoneità di Del Re allo svolgimento della pro­fessione forense. Il 20 gennaio 1956 la vicenda approda in Parlamento, su iniziativa dei senato­ri Cianca, Lussu e Zanotti Bianco, firmatari di un ’ interrogazione parlamentare per conoscere dal ministro di Grazia e Giustizia — nella sua veste di responsabile del funzionamento dei servizi giu­diziari — il motivo della perdurante iscrizione all’Albo degli avvocati di un individuo colpevo­le di appropriazione indebita, agente dell’OVRA e informatore del colonnello Kappler. Aldo Mo­ro affida la risposta al sottosegretario Oscar Lui­gi Scalfaro, che il 2 marzo riferisce in Aula il mo­tivo per cui il Consiglio dell’Ordine degli avvo­cati e dei procuratori di Roma ha riammesso Del Re nei propri ranghi: la mancata conoscenza dei precedenti penali e spionistici; tuttavia, appresi i retroscena inquietanti resi noti da Ernesto Rossi, si era iniziata un’indagine istruttoria, ancora in via di definizione. Secondo fon . Scalfaro le au­torità statali non avevano nulla da rimproverarsi in relazione alla presenza dell’ex spia nell’Albo professionale; in futuro, per eventuali casi ana­loghi, l ’auspicio del sottosegretario è che i citta­dini al corrente di determinati fatti li denunzino “agli organi competenti” prima di intraprendere, come ha fatto Ernesto Rossi, un’iniziativa pub­blica47. In sede di replica il sen. Zanotti Bianco ha buon gioco nel contestare che i precedenti di Del Re erano di pubblico dominio, in quanto se ne trovava significativa traccia sia nella “Gaz­

zetta Ufficiale della Repubblica” sia dalla docu­mentazione apparsa sul periodico fiorentino “Il Ponte”. Egualmente secca la posizione della ri­vista “Il Mondo”, erede ideale delle posizioni di Giustizia e libertà48.

Una nuova interrogazione parlamentare — presentata da Vittorio Foa, Riccardo Lombardi e Ugo La Malfa — chiede al Ministero dell’Inter­no come mai la polizia abbia fornito, nel febbraio 1954, notizie positive sul conto di Del Re al­l’Ordine degli avvocati. Stavolta tocca al sotto- segretario Pugliese difendere il comportamento delle istituzioni: il Commissariato del Celio igno­rava i documenti di carattere riservato, deposita­ti non già presso il Commissariato ma negli ar­chivi della Questura della capitale; alla Questu­ra di Roma, pertanto, l ’Ordine forense avrebbe dovuto indirizzare la richiesta di informazioni. La replica degli interroganti si ammanta di sar­casmo, ironizzando sull’incapacità della polizia di conoscere i trascorsi di suoi collaboratori.

Del Re è intanto impegnato in una decisa au­todifesa dinanzi all’Ordine degli avvocati, im­perniata attorno a due punti: 1) l ’inesistenza del­l ’appropriazione indebita: il suo nemico Bocchi­ni lo avrebbe fatto passare per disonesto, scri­vendo il falso in alcuni documenti; 2) stabilita l’i­nesistenza di ragioni venali nella decisione di de­nunciare i congiurati di Giustizia e libertà, la col­laborazione con la polizia era dipesa soltanto da spirito civico e da convinzioni fasciste. L’inda­gato chiede all’Ordine un sostegno per avere in visione il proprio fascicolo personale giacente presso il Ministero deU’Intemo, al fine di verifi­care se il volume curato da Ernesto Rossi abbia

47 Secondo il verbale della seduta, il sottosegretario “Tiene in proposito ad aggiungere un pensiero del tutto personale, di­chiarando che agli uomini che con la penna, l’ingegno e la conoscenza dei dati portano a conoscenza dell’opinione pub­blica fatti che meritano una valutazione, egli pensa di dover anteporre quegli uomini i quali, a conoscenza di fatti e di epi­sodi particolari, prima di presentarli all’opinione pubblica li sottopongono agli organi competenti onde dar loro la possi­bilità di intervenire in sede opportuna. L’appello all’opinione pubblica dovrebbe seguire soltanto nel caso che l’autorità competente non funzioni in maniera adeguata”, 371° Resoconto sommario della Seduta del Senato delta Repubblica, 2 marzo 1956, p. 9).48 II Taccuino pubblicato su “Il Mondo” del 3 aprile 1956 polemizza severamente con le parole del sottosegretario Scalfaro, secondo cui “Tutto dovrebbe ridursi, dunque, ad un rapporto tra quelli che sanno e quelli che hanno il potere, un rapporto che si svolga al riparo dell’inquietante contatto con la pubblica opinione; quest’ultima deve continuare tranquillamente ad igno­rare tutto, perché vi sono gli ‘organi competenti’ che provvedono alla sua felicità. L’on. Scalfaro non lo sa, ma è con la calce di tale principio che si cementano le tirannidi”.

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omesso documenti a lui favorevoli.Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati e pro­

curatori di Roma dedica varie sedute al “caso Del Re”: due di esse (il 3 e il 27 febbraio 1956) sono dedicate all’interrogatorio dell’ex spia, altre al­l ’attenta valutazione dei suoi memoriali. Consa­pevoli di dover tutelare anche il buon nome del­la categoria, i membri dell’organo direttivo de­gli avvocati capitolini ripercorrono passo passo l ’attività professionale del loro socio in rapporto ai carteggi resi noti da Rossi; il 22 marzo il vec­chio collaboratore dell’OVRA viene radiato per indegnità dall’Albo professionale. Il giudizio si basa sulle prove fomite ...dallo stesso imputato, nei suoi scritti degli anni trenta, dichiarati auten­tici. Interposto appello contro l ’espulsione, Del Re prepara una pubblicazione autodifensiva e sporge una raffica di denunce per diffamazione nei confronti di chiunque si occupi del suo caso esprimendo giudizi a lui contrari.

La... “leggenda del fascismo tradito"... nella realtà49 vorrebbe ristabilire l’onorabilità di Del Re, inquadrandone l’attività in un orizzonte pa­triottico filomussoliniano. Il titolo dell’opuscolo sintetizza la tesi del tradimento perpetrato ai dan­ni del regime da esponenti di spicco del fascismo.

Il pamphlet esclude ammanchi nelle curatele fallimentari affidate al legale friulano, nega che l’azione contro Giustizia e libertà sia configura­bile alla stregua di un ‘tradimento’, respinge la dipendenza dall’Ovra e spiega col dovere civico i contatti intercorsi con la polizia. Del Re accet­ta di buon grado gli epiteti ingiuriosi affibbiati­gli dai suoi detrattori (“Mi iscrivo honoris causa alla categoria delle ‘ vecchie carogne superstiti ’”), lieto di vedere così riconosciuta la propria linea­rità politica. Nel memoriale abbondano i passag­gi paradossali, inclusa la pretesa di riesaminare i

verbali del Tribunale speciale e le carte del mi­nistero dell’Interno per ribadire le responsabilità dei cospiratori di GL e accertare le benemerenze patriottiche di chi aveva sventato “ciò che quel gruppo di pseudo-intellettuali andava tramando ai danni del mio Paese e del suo Regime”, ovve­ro una “attività criminosa, prevista da precise di­sposizioni del Codice Penale, ancora vigenti (an­che se la ‘specialità’ della giurisdizione a trattar­la è stata mutata) tanto che commettendo ancor oggi le stesse infrazioni si incorrerebbe nelle stes­se sanzioni”50. Secca esplicitazione della tesi del­la continuità dello Stato, fondata sulla persisten­te efficacia del Codice Rocco.

La tesi della caduta del regime per l’opera di “traditori” si accompagna alla denunzia di una congiura ebraico-massonica, durante il regime (“L’opera deH’ebreomassoneria si confondeva nelle stesse persone del dr. Gentili, del rag. Can­toni e del professor Luzzatto e del dr. Ceva, tutti ebrei”) e poi nel dopoguerra (“l ‘liberi giustizie­ri ’ del fronte ebraico-massonico, che mi onora del­la più esasperata ferocia della sua vendetta”)51.

L’opuscolo difensivo scaglia l’accusa di tra­dimento contro numerose persone che hanno avu­to a che fare con Del Re: l’ispettore Nudi (“In servizio ‘speciale’ a Milano, proprio a Milano! Giocava tranquillamente alle bocce mentre la po­lizia ‘indagava’ dietro un volantino comunista o sciocchezze del genere”) e i tre personaggi che diressero la polizia fascista: Bocchini (“Sbirro malefico e antifascista. Si deve convenire che il comportamento di Bocchini è stato, nell’episo­dio dei ‘liberi giustizieri’, veramente antifasci­sta”), Senise (“Nel 1942 insabbia la denuncia cir­costanziata della trama di Badoglio”) e Tambu­rini (“Nel 1944 dispone d ’ufficio la mia fisica soppressione”)52. Tra gli elementi infidi figura-

49 Stampato nell’aprile 1956 a Roma dalla Tipografia Italstampa, è dedicato “a Ernesto Rossi e a ‘liberi giustizieri 1930”’ [rin­grazio Renato Pellegrini per avermi cortesemente fornito copia della pubblicazione].50 C. Del Re, La "leggenda..., cit., p. 26.51 C. Del Re, La “leggenda..., cit., p. 5652 L’eliminazione di Del Re sarebbe stata tentata nell’estate 1944 da un funzionario della Pubblica sicurezza (il vicequestore di Verona, Miano) su ordine del capo della polizia, per eliminare un personaggio al corrente di segreti compromettenti; anche in questa circostanza il tempestivo intervento di emissari del Centro antiebraico di Trieste avrebbe tratto il malcapitato dai

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vano anche alcuni comandanti germanici, se­condo ciò che il collaboratore della SD aveva sco­perto negli uffici veronesi (“Magrissima conso­lazione quella di poter constatare che non solo l ’Italia ha avuto i suoi traditori!”).

Non mancano ovviamente i passaggi invero­simili, grazie ai quali l ’avvocato friulano preten­de di risollevare la propria posizione53. L’auto­difesa denota ossessionanti complessi di perse­cuzione:

Il Tribunale massonico presieduto dal pot. gr. ecc. l ’e­breo Fabio Luzzatto ha decretato la mia soppressione. Non è avvenuta, ancora, quella fisica, che ‘nella con­fusione’ del Nord doveva passare per atto dei parti­giani.Con la pubblicazione del Rossi, potuta costruirsi ‘nel­la confusione’ del 1946, si sta tentando la mia sop­pressione morale, peggiore di quella fisica!Ma non praevalebuntl Comunque, si rassereni il Fr. Vendicatore incaricato della bisogna e tutti i suoi ac­coliti.Fin che vivo sarò sempre contro di loro per costitu­zione fisica, morale e spirituale (quindi, se proprio ‘di­sturbo’, come pare, si affrettino!)54.

Tra i lettori del memoriale vi è Elsa Tonelli, che rimane colpita dalla disinvoltura con cui l ’ex marito — a lei noto come antifascista, repub­blicano, massone, anticlericale — rivendichi il suo comportamento come frutto di idealità fa­sciste, cattoliche, legalitarie. Nel maggio 1956 la signora Tonelli consegna a Ernesto Rossi un dossier autobiografico sulla vita a fianco del co­niuge, tra la fine degli anni venti e il 1932. Lo

scritto è interessante soprattutto per conoscere le precauzioni prese dal delatore dopo il tradi­mento, nell’iniziale tentativo di protestare la propria innocenza, e poi con la fuga transocea­nica per sfuggire alle ricerche degli antifascisti. Gli stralci riportati nella seconda edizione del volume — stampata da Feltrinelli nel gennaio 1957 — costano a Rossi una nuova denunzia per diffamazione55.

Il patrocinio dinanzi al Consiglio Nazionale Forense viene assunto da una figura di spicco del defunto regime: Piero Pisenti, già ministro della Giustizia della RSI. Ernesto Rossi commenta il fatto con la verve polemica che gli è propria, igno­rando che tra i due è intercorsa nel 1944 una stret­ta collaborazione “spionistica”56. Evidentemen­te Del Re vanta ancora rapporti di intimità con alcuni gerarchi fascisti e conta sul loro concorso nella battaglia legale contro i suoi accusatori. In tal modo si spiegano anche l’ostinazione nel de­nunziare i giornalisti che trattano del caso e — probabilmente — la disponibilità di fondi che gli permette la pubblicazione del memoriale difen­sivo, in cui si esalta Mussolini e se ne spiega la caduta con il tradimento da parte di tanti gerar­chi del regime, a partire dal capo della polizia si­no a vari ministri.

A giudizio di Pisenti gli accusatori del suo cliente non fanno che conferire rilievo giuridico alle proprie convinzioni politiche, con la pretesa di condannare in lui il fascista che aveva fatto fal­lire le loro macchinazioni terroristiche contro lo Stato. Il difensore di Del Re contesta il ritardo della pubblicazione dei documenti da parte di

guai. In assenza di altri riscontri sulle ‘persecuzioni’ fasciste contro Del Re, è lecito supporre che l’opuscolo autodifensivo in­dulga in descrizioni avventurose e fantasiose.53 Soltanto tre esempi: sarebbe stato Balbo a costringere Del Re alla delazione (“Telefonò, in mia presenza, a Bocchini, e ap­preso che stava nel suo Gabinetto mi disse di accompagnarlo e mi portò su di corsa facendo i gradini a due a due. Lo seguii a malincuore per una intima repulsione verso la polizia e le persone che la dirigevano. Ma dovetti seguirlo. [...] Il rapporto fra me e la Polizia fu voluto, anzi imposto, esclusivamente da Italo Balbo”; op. cit., pp. 28 e 42); le prime lettere a Bocchini, ric­che di particolari dell’ammanco finanziario, sarebbero state scritte sotto dettatura di un agente del’Ovra, in vista di un futuro ricatto (ivi, p. 31); la posizione di Del Re sarebbe immacolata: “Non ho commesso nessun reato e mai sono stato confidente della polizia” (C. Del Re, La “leggenda..., cit., p. 54).54 C. Del Re, La “leggenda..., cit., p. 83.55 Del processo che ne è seguito, per concludersi con l’assoluzione di Rossi, è rimasta traccia in una registrazione nel Casel­lario Politico Centrale: “Appunto — Il presente fascicolo, che fu richiesto e inviato all’Autorità Giudiziaria verso la fine del­l’anno 1956, in data 14 ottobre 1957, è ritornato all’Archivio della 3a Sezione”.56 Cfr., più oltre, i documenti numero 10 e 11.

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Fascismo e repressione del dissenso 387

Rossi (suggerendo che si attendesse la scompar­sa di qualche testimonio) e il mancato avvio nel 1946, da parte della Commissione d ’ indagine sul- l ’Ovra, di un’azione giudiziaria contro Del Re per peculato57.

Il 2 luglio 1956 il Consiglio Nazionale Forense conferma l ’espulsione per indegnità, con valuta­zioni che squalificano moralmente l ’autore del ricorso:

Entrato nel gorgo degli intrighi, per esservi stato spin­to dall’aver commesso un reato contro la pubblica am­ministrazione, il Del Re divenne strumento della Po­lizia e scese ad ogni bassa degradazione. Rinunciò al proprio nome, assumendone un altro, si adattò allo pseudonimo attribuitogli dalla Polizia e perfino a di­venire un numero, si prestò a tutte le commedie, qua­li quelle degli arresti concordati, di processi addome­sticati e preventivamente decisi, giunse perfino a pre­sentare denuncia di un reato contro se medesimo, non già per sete di giustizia o per desiderio di espiare, ma per forzare la mano della Polizia che chiudeva la bor­sa; visse per otto anni al soldo di questa, senza com­piere altro lavoro se non quello di denunciare coloro che si fidavano di lui.Questa è la figura morale del ricorrente; e se i fatti ac­certati sono di tale gravità da togliere ogni dubbio sul­la possibilità che egli permanga in un albo professio­nale, la jattanza con la quale egli afferma di aver bene agito serve ad aggravare la sua posizione58.

Convinto dell’iniquità dell’espulsione, Del Re ri­corre dinanzi alla Corte di Cassazione e il 20 no­vembre 1958 vede accolte le sue ragioni dalle Se­zioni unite civili, per una questione di forma: la pratica ritorna così al Consiglio Nazionale Fo­rense per un riesame.

Anche la magistratura ordinaria è impegna­ta a dipanare le numerose vertenze tra l ’ex spia e i suoi avversari59. Tra il 1957 e il 1959 si ce­lebrano a Roma, a Firenze, a Palermo e a M i­lano quattro processi intentati dall’ex collabo­ratore dell’Ovra contro i presunti detrattori: tut­ti gli imputati vengono assolti per avere prova­to ai giudici la verità delle loro asserzioni. Nel settembre 1958, in un memoriale indirizzato al- l ’on. Guido Gonella, ministro della Giustizia, per protestare contro l ’assoluzione di alcuni giornalisti, Del Re cita — come riprova del­l ’efficacia della martellante campagna-stampa sul suo “caso” — un passaggio della sentenza pronunziata dalla Sezione penale di Roma, se­condo la quale la sua reputazione non poteva più venire offesa, poiché egli “in effetti era co­nosciuto come una spia e un delatore per dena­ro”60.

A dispetto dei ripetuti smacchi Del Re non de­morde e prosegue ostinatamente l’improba bat­taglia giudiziaria, citando Rossi per danni e ri­chiedendogli — ancora all’inizio degli anni ses­santa — dieci milioni a titolo di risarcimento.

Paradossalmente, per una questione imper­niata sulla centralità e sulla valutazione della documentazione d ’archivio, le frequenti tra­sferte processuali da un lato consentono a Er­nesto Rossi di prendere ufficialmente visione delle carte dell’Ovra e di rimpinguare la terza edizione (1968) di Una spia del regime, ma dal­l ’altro versante determinano la scomparsa del­l ’incartamento della polizia sul Del Re e di al­cune altre carte processuali di rilievo, tanto che la magistratura romana aprirà un procedimen-

57 Nel frattempo, tuttavia, gli incartamenti di tre curatele affidate nel 1930 a Del Re erano finiti al macero e ciò impediva la verifica documentale dèlie affermazioni di correttezza avanzate dall’ex curatore fallimentare.58 Cfr. E. Rossi, Una spia del regime, cit, pp. 245-246. Del Re lamenterà che a presiedere il Consiglio nazionale forense fos­se Piero Calamandrei, direttore del periodico fiorentino “Il Ponte”, che nel 1952 (fascicolo di ottobre) aveva anticipato alcu­ni documenti sull’operazione di polizia ai danni di GL.59 Alla luce dei documenti d ’archivio divulgati da Rossi, le denunzie presentate da Del Re avrebbero potuto venire archivia­te dal magistrato, poiché prive del minimo fondamento: così non è stato. La scelta di dare seguito alle querele — quanto mai fastidiosa e rischiosa per Ernesto Rossi: sarebbe bastata una sola sentenza sfavorevole a farlo indicare, da parte dei neofasci­sti, come un mentitore — è indicativa degli umori di settori della magistratura, disponibile a prestare fede alle affermazioni di un personaggio screditato, legato al regime fascista da vincoli non certo onorevoli.60 [Ernesto Rossi], Una spia del regime, “Il Mondo”, 7 luglio 1959.

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388 Mimmo Franzinelli

to contro ignoti per sottrazione di documenti (ovviamente gli ignoti non verranno identifi­cati e la sorte dei documenti rimarrà avvolta nel mistero).

L’insistente impegno di Rossi nel rendere di pubblico dominio le nefandezze dell ’ individuo che aveva fatto cadere la rete cospirativa di Giustizia e libertà si può spiegare con la volontà di fare lu­ce sulla tenebrosa vicenda costata la vita all’ami­co Ceva61 e da lui stesso pagata con una lunga car­cerazione e con il confino62. Al “caso Del Re” si addice la valutazione con cui l ’anarchico Camillo Bemeri chiudeva — all’inizio degli anni trenta, nell’esilio francese — un’inchiesta sull’infiltra­zione fascista tra i fuoriusciti: “Non c ’è che da ri­cordarsi di una cosa: che lo spionaggio, l ’insidia poliziesca, l ’impiego, in tutti i centri di emigra­zione, di folti gruppi di informatori e di provoca­tori circolanti in mezzo agli ambienti dei profughi, sono i normali mezzi di lotta del governo fascista. A ciascun regime, i servitori e i metodi che più si convengono alla sua atmosfera morale”63.

Nuovi documenti sulla “spia del regime”

Presso l ’Archivio Centrale dello Stato è oggi pos­sibile consultare altro materiale sull’avv. Carlo Del Re, negli incartamenti del Tribunale Specia­le per la difesa dello Stato, nel Casellario Politi­co Centrale, nel fondo Segreteria particolare del Duce. Questo materiale — di seguito trascritto — completa il dossier raccolto da Rossi, inte­grando e approfondendo quanto già conosciuto

sulle fasi della delazione e della vita condotta dal- l ’agente segreto negli anni trenta, sempre in con­tatto —■ e al soldo — della polizia. Trattandosi di atti prodotti da una spia, dalla polizia segreta o dal Tribunale politico del regime sarà bene valu­tarli con particolare sorveglianza critica, alla lu­ce di quanto si conosce della vicenda Del Re e dei suoi travagliati rapporti con l ’apparato re­pressivo fascista.

I primi cinque documenti (risalenti al gennaio- ottobre 1932) concernono la delicata situazione processuale dell’agente provocatore, complicata dall’esigenza di mantenerne coperto il vero ruo­lo e al contempo di scagionarlo dalle pesanti ac­cuse che lo accomunavano a persone condanna­te a diversi anni di galera. Il verbale d ’arresto [doc. n. 1] è poco credibile laddove lascia crede­re nell’incontro fortuito tra due poliziotti e il “la­titante”; fu lo stesso Del Re a concertare con gli agenti la propria cattura, allettandoli con la pro­spettiva di una promozione per meriti di servi­zio. Il maresciallo Giacomozzi aveva partecipa­to nell’ottobre 1930, a Milano, per conto dell’O- VRA, all’operazione contro Giustizia e libertà e in quella circostanza aveva conosciuto Del Re; risibile, pertanto, la versione dell’individuazione sulla base del riscontro fotografico nel bollettino dei latitanti. Una secca nota del capo della poli­zia, che prospetta una possibile punizione dei due funzionari “troppo diligenti”, che avevano arre­stato una persona tutt’altro che ricercata, espri­me il fastidio per un provvedimento che avrebbe costretto la magistratura ad occuparsi formal­mente del “caso Del Re”.

61 Dalla lettera di Rossi alla vedova di Umberto Ceva: “Con suo marito io continuo a vivere come se fosse ancora fra noi. Tut­te le sere, prima di addormentarmi mando un saluto a lui e agli altri miei morti ai quali voglio più bene. E cerco di non fare mai niente che essi mi potrebbero rimproverare. E questa la religione che ancora si è salvata dal mio scetticismo e che, mal­grado tutto, mi dà una certa serenità” (dall'appendice alle Lettere di Ernesto Rossi dal carcere, “Il Movimento di liberazione in Italia”, 1967, n. 88, p. 46).62 Arrestato il 30 ottobre 1930 a Bergamo, Rossi viene trasferito il 29 ottobre 1939 dalle carceri al confino di Ventotene, do­ve rimarrà sino alla fine del luglio 1943. La sua corrispondenza dal carcere è raccolta nei volumi Elogio della galera. Lette­re 1930-1943, Bari, Laterza, 1968 e Miserie e splendori del confino di polizia. Lettere da Ventotene (1939-1943), Milano, Fel­trinelli, 1981. Significativo — nella lettera alla mamma del 3 novembre 1933 — un cenno all’esperienza cospirativa e all’ar­resto suo e dei giellisti: “Il sistema dei ‘compartimenti stagni’, adottato dalla nostra burocrazia, presenta pure dei vantaggi in qualche particolare circostanza, quando se ne sappia approfittare. E se non fosse stato D. R. [Del Re], forse sarei ancora in circolazione”. Il passaggio, invero poco prudente, non sfugge al censore, che trascrive la lettera per l’Ovra: la missiva (depo­sitata nel fascicolo personale di Rossi al Casellario politico centrale) risulta sottolineata a lapis.63 Camillo Bemeri, Lo spionaggio fascista all’estero, Marseille, Esil, s.d. [1932], p. 90.

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L’atto d ’accusa pronunziato dal Sostituto pro­curatore generale del Tribunale speciale [doc. n.2] continua la finzione sull’effettiva partecipa­zione della spia all’attività cospirativa di Giusti­zia e libertà.

L’interrogatorio di Del Re [doc. n. 3] contie­ne dichiarazioni inverosimili: l ’imputato respin­ge ogni risvolto politico nei suoi rapporti con gli antifascisti, tace sui contatti con la polizia, non fornisce alcun elemento di discolpa. Notevole, per impudenza, il riferimento alle persone da lui fatte catturare e condannare: “L’unico mio torto è di avere conosciuto il Cantoni, il Bauer ed al­tri coimputati, i quali ingiustamente mi hanno ac­cusato”. E il totale ribaltamento della verità, con­siderato a) che Cantoni affiliò Del Re nella Mas­soneria e costui fece cadere nelle mani della po­lizia la struttura clandestina del Grande Oriente d’Italia, b) che Bauer e i suoi compagni conces­sero fiducia all’aspirante cospiratore e vennero ripagati col tradimento. Significativo il silenzio sul nome di Ceva, che secondo i piani concerta­ti con l’OVRA doveva passare per l’accusatore di Del Re: il suicidio in carcere vanificò tale pro­getto e il delatore non se la sentì di evocare il no­me di una persona la cui morte (come si è prece­dentemente rilevato) aveva sulla coscienza.

La richiesta di proscioglimento avanzata dal Pubblico ministero del Tribunale Speciale [doc. n. 4] s’impemia sulla testimonianza resa dal com­missario di P.S. Tommaso Petrillo, dirigente della polizia segreta, che sotto giuramento dichiarò che ‘Carletti’ e Del Re erano due persone diverse (cfr. la trascrizione nel volume curato da Rossi, nella nota n. 133 alla pagina 269). Successivamente il Tribunale Speciale accoglierà tale orientamento, per coprire — sia pure in modo maldestro: ma da­ti i tempi non vi era modo di sollevare obiezioni — le trame della polizia segreta.

Il telegramma di Bocchini per la cancellazio­ne del nominativo di Del Re dalla rubrica di fron­tiera [doc. n. 5] può venire valutato in una dupli­ce prospettiva: a) il capo della polizia voleva evi­tare il ripetersi di fermi ‘sgraditi’; b) all’agente deH’OVRA si concedeva di spostarsi liberamen­te tra TItalia e altri Paesi.

Il secondo blocco di documenti, compreso tra il settembre 1939 e il dicembre 1940, concerne il nuovo tentativo di Del Re di risolvere nel migliore dei modi i suoi rapporti con la Giustizia, con una sentenza di assoluzione piena. Stavolta — di­smesse le pretese di apoliticità — la sua impo­stazione è definita con nettezza: egli si dipinge come fervente fascista, disinteressato servitore della Causa. L’istanza al Tribunale Speciale per la riapertura dell’istruttoria [doc. n. 6] enumera le benemerenze squadristiche della prima ora, ri­vendica il contributo determinante da lui fornito alla repressione dell’antifascismo. Con molta di­sinvoltura definisce false le dichiarazioni da lui rese precedentemente al Tribunale Speciale nella fase istruttoria, e — per coprirsi le spalle — di­chiara che alte autorità statali lo avevano indotto a rilasciare testimonianze non veritiere; la richie­sta della testimonianza di Bocchini come elemento decisivo per la definizione della sua posizione contiene un sibillino rimando ad un “elemento nuovo” (nell’originale le due parole sono sottoli­neate da Del Re), probabile allusione al complot­to ordito al massimo livello dal capo della polizia e dal dittatore: tema delicatissimo, sino ad allora coperto dal massimo segreto. L’istanza può altre­sì interpretarsi quale una chiamata di correo, dal momento che allude a operazioni “coperte” ordi­te e attuate fuori dalla legalità.

La richiesta del Pubblico Ministero alla Com­missione istruttoria del Tribunale militare affin­ché Del Re venga prosciolto con la formula più ampia [doc. n. 7] accoglie in pieno la richiesta del ricorrente; a sua volta la sentenza di assolu­zione la Commissione non farà che ricalcare le posizioni del Pubblico ministero.

L’assoluzione per non aver commesso il fatto è seguita dal provvedimento di assegnazione al confino [doc. n. 8], per i velati ricatti adombrati da Del Re nei confronti del capo della polizia al fine di continuare a percepire i fondi erogati dall’O- VRA. Stavolta il tono adottato dal Questore di Ro­ma verso il “collaboratore della giustizia” è bru­sco e duro: Del Re viene definito, senza riguardo per i servizi da lui prestati per sgominare la rete clandestina giellista, “antifascista” ed “elemento

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pericoloso”. Questa volta l ’ex spia parrebbe defi­nitivamente scaricato dagli stessi vertici della po­lizia, ma Del Re riuscirà abilmente — pure nelle avverse condizioni — a giuocare le carte della co­noscenza con personaggi influenti dell’ammini­strazione statale, traendosi presto d ’impiccio.

Il terzo e ultimo blocco di documenti si ri­ferisce al marzo-aprile 1944, in uno scenario politico-militare particolare, nel quale Del Re è nuovamente immerso nella dimensione co­spirativa a lui tanto cara. Stavolta l’avvocato friulano veste i panni dell’informatore delle SS e della Polizia germanica di sicurezza, ordisce intrighi con alcuni esponenti dell’ala più viru- lentemente antisemita della Repubblica socia­le italiana (ad esempio Giovanni Preziosi64), tenta di fare carriera tra i funzionari del Parti­to fascista repubblicano. Il volume Una spia del regime lascia in ombra l ’attività esplicata da Del Re dopo la nascita della RSI, con un solo cenno alla sua collaborazione con il colonnel­lo Kappler. La docum entazione conservata presso la Segreteria particolare del Duce ( 1943- 1945) carteggio riservato, fascicolo 309, atte­sta la deriva spionistica del traditore di Giusti­zia e libertà, passato al servizio dei tedeschi ai quali probabilmente avrà trasmesso informa­zioni sul conto degli stessi suoi camerati, nel quadro della sorda lotta di fazione aperta in se­no alla RSI tra Pavolini, Pisenti e Preziosi da un lato e Buffarmi Guidi dall’altro.

Il promemoria del 27 marzo [doc. n. 9], ap­prontato dal capo della divisione polizia politica Guido Leto per il capo della polizia Giuseppe Ce- rutti, e da questi fatto tradurre in tedesco per Kap­pler, ricostruisce puntigliosamente la “carriera” di un personaggio definito due volte traditore, poli­ticamente infido, corrotto e imbroglione. Le ra­gioni ideali invocate da Del Re per spiegare la de­cisione di collaborare con la polizia vengono spaz­zate via: la delazione “fu l’unico modo per scan­sare la galera” e ripianare le cospicue malversa­zioni finanziarie. L’inciso che la polizia nel 1930 avrebbe posseduto buoni elementi a carico di Giu­

stizia e libertà è infondato e si spiega, insieme con l’autopromozione da parte dei dirigenti dell’ap­parato di sicurezza, col desiderio di ridimensio­nare il ruolo di un agente dimostratosi eccessiva­mente pretenzioso. Rispondono invece alla verità la riabilitazione politica di Del Re, sancita nel 1935, e la sua carriera di intermediario nei traffici com­merciali tra Italia e Spagna, dal 1938 al 1942, nel­la veste di fiduciario della società Ala Littoria, del­la Banca nazionale del lavoro e dell’Ente Distri­buzione Rottami. Il fatto che la sua attività all’e­stero sia definita “inconfessabile” è forse dovuto al ruolo da lui rivestito — in attività di contrab­bando ed altro — come fiduciario di Marcello Pe- tacci, fratello dell’amante di Mussolini: un perso­naggio dedito a speculazioni di vario genere, gra­zie alla protezione dell’influente Garetta. La tra­duzione del documento in lingua tedesca (pure conservata nel fascicolo 309 della Segreteria par­ticolare del Duce 1943-45) si propone di informare i Comandi germanici in Italia delle discutibili qua­lità morali del loro agente. I traffici della spia preoc­cupano i vertici del regime, tanto è vero che Mus­solini trattiene nel suo ufficio una copia del me­moriale. Da questo importante documento emer­ge il fosco quadro dell’attività di Del Re tra la fi­ne degli anni trenta e la nascita della RSI: ancora più negativo, se possibile, di quanto il materiale reso noto da Ernesto Rossi lasciasse trasparire.

Del Re si muove con astuzia nella ‘guerra per bande’ che contraddistingue i rapporti tra i ge­rarchi della RSI, accattivandosi la simpatia di Pi­senti, ministro della Giustizia. Il documento n. 10 contiene l’imbarazzata dichiarazione del mi­nistro sui rapporti di conoscenza personale con un personaggio piuttosto compromettente e am­biguo, rapporti presentati in una prospettiva mi- nimizzatrice. Dietro il tono cauto s ’intravvede una solidarietà di fondo col Del Re, evidente sin dall’elencazione delle sue qualifiche: ispettore del PRF, funzionario del Centro antiebraico di Trieste, fiduciario delle SS.

Il documento n. 11 riproduce gli esiti della sor­veglianza sul conto di Del Re, con ampi stralci

64 Su di lui si veda Maria Teresa Pichetto, Alle radici dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Milano, Angeli, 1983.

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Fascismo e repressione del dissenso 391

epistolari dai quali risultano alcune sue trame (in particolare i legami col ministro Pisenti e l ’acca­nimento contro gli ebrei) ed esce confermata la protezione germanica. Significativa l’accentua­

Documento n. 1

Verbale di arresto di Del Re Carlo [11 gennaio 1932](Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

L’anno 1932 addì 11 del mese di gennaio alle ore 12 in Piazza Cinquecento in Roma, noi sottoscritti agenti di Pubblica Sicurezza facciamo noto a chi di do­vere che nell’ora suindicata mentre transitavamo per Piazza Cinquecento abbiamo notato un individuo cor­rispondente ai connotati della persona a margine indi­cata perché colpita da mandato di cattura emesso dal- rill.m o Signor Procuratore Generale del Re presso il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato perché re­sponsabile del reato di cui all’articolo 4 della soppressa Legge speciale per la difesa dello Stato. Fermatolo è stato effettivamente indicato per Del Re Carlo di Gio­vanni e di Ronchi Silvia nato a Rivolto il 18 ottobre 1901, senza fissa dimora e pertanto dichiarato in arre­sto. Di quanto sopra abbiamo redatto il presente ver­bale che unitamente all’arrestato rimettiamo ai nostri Superiori per il più a farsi.

Firmato: Annibaie Giacomozzi — Luigi Farinelli

Documento n. 2

Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato: accusa contro Del Re Carlo [16 gennaio 1932]

(Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato AlPUfficio di Istruzione, perché contesti al Del Re

Carlo il delitto di cui alla sentenza della Commissio­ne Istruttoria in data 6 marzo 1931 — Anno IX e cioè: “Delitto di cui aH’art. 3 — prima parte — della Leg­ge 25 novembre 1926 n. 2.008 in relazione al’art. 2 della stessa Legge ed agli articoli 120 e 252 Codice Penale comune, per avere in Milano, in Sardegna ed altrove, nel 1930, concertato con Bauer, Rossi, Zari,

zione complottistica del redattore del documen­to, peraltro in sintonia con le vicende personali dell’agente provocatore.

Mimmo Franzinelli

Damiani Mario, Calace, Roberto, Viezzoli ed altri di attentare all’ordine costituzionale dello Stato, dando adesione ed attività alla organizzazione segreta e ri­voluzionaria, a carattere repubblicano, Giustizia e li­bertà, la quale mira a provocare nel Regno l’insurre­zione armata e la guerra civile; ed organizzando di­mostrazioni intimidatrici a carattere insurrezionale.

Il Sostituto Procuratore Generale Carlo Fallace

Documento n. 3

Processo verbale di interrogatorio dell’imputato Del Re Carlo [21 gennaio 1932]

(Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato L’anno 1932 il giorno 21 del mese di gennaio alle

ore 18,30 in Roma nelle carceri giudiziarie, avanti a Noi Comm. Antonio Scemi Consigliere istruttore, è comparso Del Re Carlo il quale interrogato sulle sue generalità e ammonito sulle conseguenze a cui si espo­ne chi si rifiuti di darle o le dà false, risponde: sono Del Re Carlo di Giovanni e di Ronchi Silvia nato a Ri­volto il 18 ottobre 1901, residente a Milano, avvoca­to, coniugato con Elsa Tonelli senza figli, mai milita­re, mai condannato, nullatenente. Quindi contestatagli l ’imputazione come dalla sentenza della Commissio­ne istruttoria in data 6 marzo 1931, e cioè di delitto di cui all’art 3 p. Legge 25 febbraio n. 2.008 in relazio­ne all’art 2 della stessa legge e degli articoli 120 e 252 CP 1889, con quant’altro nella stessa sentenza, invi­tato a dare le sue discolpe, risponde: L’unico mio tor­to è di avere conosciuto il Cantoni, il Bauer ed altri coimputati, i quali ingiustamente mi hanno accusato. Non è vero quanto essi hanno affermato nei miei ri­guardi. Col Cantoni ho avuto rapporti superficiali per ragioni professionali e così con gli altri: semplici rap­porti occasionali senza addentrarmi mai in discussio­ni politiche. Chi dice il contrario dice cosa non vera.

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392 Mimmo Franzinelli

D. R. : Sono miei e sono stati a me sequestrati il pas­saporto ed il porto d’armi che V.S. mi mostra e che chiedo, accertata la mia innocenza, mi siano restituiti. Chiedo di essere messo in libertà. Letto, confermato e sottoscritto

(Del Re Carlo)

Documento n. 4

Richiesta di proscioglimento per Del Re Carlo [26 gennaio 1932]

(Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato Il Pubblico Ministero

Letti gli atti processuali a carico di Del Re Carlo di Giovanni e di Ronchi Silvia, residente a Milano, av­vocato, coniugato, incensurato, detenuto dall’11 gen­naio 1932, imputato del delitto di cui all’art. 3 — pri­ma parte — della Legge 25 novembre 1926 n. 2.008 in relazione aH’art. 2 della stessa Legge ed agli arti­coli 120 e 252 CPC, per avere in Milano, in Sardegna ed altrove, nel 1930, concertato con Bauer, Rossi, Za- ri, Damiani Mario, Calace, Roberto, Viezzoli ed altri di attentare all’ordine costituzionale dello Stato, dan­do adesione ed attività alla organizzazione segreta e rivoluzionaria, a carattere repubblicano, Giustizia e li­bertà, la quale mira a provocare nel Regno l’insurre­zione armata e la guerra civile, ed organizzando di­mostrazioni intimidatrici a carattere insurrezionale, ri­tenuto in fatto e in diritto: con sentenza della Commi­sione istruttoria di questo Tribunale Speciale in data 6 marzo 1931-IX il prevenuto, latitante veniva rinviato a giudizio per rispondere del delitto di cui in rubrica.

L’Ecc.mo Tribunale nell’udienza del 30 maggio 1931-IX, ordinava, nei riguardi di esso prevenuto, in considerazione della sua latitanza, la sospensione del provvedimento. Successivamente e precisamente in data 11 gennaio 1932-X, il Del Re veniva tratto in ar­resto in Roma, e, pertanto, si procedeva al suo inter­rogatorio ed a nuove indagini istruttorie. Ma l’esito di tali nuovi atti istruttori ha reso sommamente dubbia la responsabilità del Del Re. Mentre, infatti, egli si è di­chiarato vittima di ingiuste accuse dei coimputati, lo stesso funzionario di P.S. che prese parte diretta alle relative operazioni di polizia ha assicurato che, all’in- fuori di tali accuse — nessun altro elemento è mai emerso — durante e dopo l’operazione stessa — atto

a identificare nel Del Re il noto “Carletti” di cui più volte si fa cenno nel rapporto, od atto ad accertare che esso Del Re abbia comunque esplicata attività contra­ria al regime.

La evidente possibilità di false accuse miranti a sca­gionare proprie responsabilità, rende necessaria la as­soluzione del nominato del Re per insufficienza di pro­ve.

P.Q.M.Visti gli articoli succitati nonché gli articoli 421 Co­

dice Penale Esercito e 2 Regio decreto 13 marzo 1927 n. 313

Richiedel’Ecc.ma Commissione istruttoria perché, conside­

rata come non avvenuta la precedente sentenza del 6 marzo 1931 -IX nei riguardi esclusivi del nominato Del Re Carlo, voglia dichiarare- nei suoi confronti — non doversi procedere per insufficienza di prove, ordinan­do la di lui immediata scarcerazione se non detenuto per altra causa.

(Fallace)

Documento n. 5

Telegramma della Divisione Polizia Politica ai Prefetti del Regno [14 ottobre 1932]

(Acs, Cpc.fasc. 97524: Del Re Carlo)

Polizia Politica Ministero provvederà cancellazione rubrica frontiera Del Re Carlo di Giovanni stop Pre­gati intanto EE.LL. considerare fin d’ora come annul­lata a tutti gli effetti schedina numero 24650 riguar­dante detto nominativo stop Capo polizia Bocchini

Documento n. 6

Istanza di Del Re Carlo al Tribunale Speciale [13 settembre 1939]

(Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

Il sottoscritto avv. Carlo Del Re di Giovanni e di Ron­chi Silvia, residente in Roma via Celimontana 38, di professione avvocato, iscritto al PNF dal 20 ottobre 1920, ferito fascista,

premessoche nell’ottobre 1930, a Milano e altrove, veniva

scoperta, perseguita e repressa una vasta azione anti­

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Fascismo e repressione del dissenso 393

fascista, che a tale azione il sottoscritto partecipò per utilità e fini di interesse nazionale (d’accordo con le Autorità del Regime e tutorie) svolgendo principale azione;

che però tali fini consigliarono alle Autorità l’op­portunità, per pubblico interesse, di essere sottaciuti, tanto che invece si ritenne di seguire una ‘ formale ’ pro­cedura anche nei confronti del sottoscritto;

che una tale procedura si svolse presso Codesto Ecc.mo Tribunale Speciale e si concluse, nei riguardi del sottoscritto, con la sentenza 6/3/1931 poi modifi­cata dalla successiva 29 gennaio 1932;

che tali sentenze venirono, necessariamente, anno­tate nel Casellario del sottoscritto, con tutte le giuridi­che e morali conseguenze;

che tali conseguenze sono oltremodo ingiuste e gra­natorie per il sottoscritto;

ritenutosorpassato il pubblico interesse che ha consigliato

l’Autorità alle sovraindicate procedure e formalità nei confronti del sottoscritto;

che, comunque, tale interesse pubblico non può ol­tre perdurare a danno civile e morale proprio di chi ta­le pubblico interesse ha curato e perseguito;

che l’assolutoria in istruttoria consente la riapertu­ra della stessa quando vi sieno elementi nuovi e che ta­li elementi nuovi, nel presente caso, sono costituiti:

a) dalle formali dichiarazioni del sottoscritto di cui in epigrafe (opposte a quelle — concordate con l’Au­torità — rese nella istruttoria precedente);

b) dall’escussione testimoniale, come più sotto si chiede;

tutto ciò premesso e ritenuto, il sottoscritto chiede

a Codesto Ecc.mo Tribunale Speciale per la Dife­sa dello Stato che:

a) prenda atto di quanto dichiarato nelle premesse;b) ordini, a sensi e forma di legge, la riapertura del­

l’istruttoria nei riguardi del sottoscritto per quanto in epigrafe;

c) voglia, in sede di nuova istruttoria, escutere, sulla persona e i fatti perseguiti, S.E. Arturo Boc­chini, Capo della Polizia (che potrà fornire altro ele­mento nuovo necessario alla riapertura della istrut­toria e sufficiente per le chieste conclusioni), rise- vandosi il sottoscritto la designazine di altri testi, ove occorrendo;

d) e conseguentemente emetta sentenza di assolu­toria piena con la formula più ampia e risanatrice (“per non aver commesso il fatto”).

Nomina a proprio difensore l’avv. Osvaldo Fabiet- ti di Roma, quivi in via Paolo Emilio 34.

Roma, 13 settembre XVII(Avv. Carlo Del Re)

Documento n. 7

Pubblico Ministero presso il Tribunale Speciale: sentenza di proscioglimento di Del Re Carlo

[21 ottobre 1940](Acs, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, bu­sta 262, fascicolo 2106: Del Re Carlo)

Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato Il Pubblico Ministero

Letti gli atti processuali a carico di:Del Re Carlo di Giovanni e di Ronchi Silvia, nato

il 18ottobre 1901 a Codroipo (Udine), residente a Mi­lano, avvocato, coniugato, incensurato, detenuto dall’l l al 29 gennaio 1932

imputatodel delitto di cui all’art. 3 — prima parte — della

Legge 25 novembre 1926 n. 2.008 in relazione all’art 2 stessa legge e agli articoli 120 e 252 CP, per avere in Milano e in altre località concertato con altri impu­tati di attentare all’ordine costituzionale dello Stato, dando adesione ed attività alla organizzazione segre­ta e rivoluzionaria, a carattere repubblicano, Giustizia e libertà, la quale mira a provocare nel Regno l’insur­rezione armata e e la guerra civile; ed organizzando dimostrazioni intimidatrici a carattere insurrezionale.

Ritenuto in fatto ed in diritto che la Regia Questura di Milano nel dicembre 1930

denunziava Del Re Carlo insieme ad altri — quale at­tivo esponente dell’organizazzione segreta rivoluzio­naria Giustizia e libertà.

Con sentenza 6 marzo 1931, esso Del Re veniva, pertanto, rinviato al giudizio di questo Tribunale, che, però, stante la sua latitanza, ordinava, nell’udienza del 30 maggio 1931, la sospensione del relativo procedi­mento.

Senonchè, P II gennaio 1932, egli veniva arresta­to in Roma, Il suo interrogatorio rendeva necessarie nuove indagini istruttorie in seguito alle quali la Com­missione Istruttoria di questo Tribunale, con sentenza del 29 gennaio 1932, considerando come non avve­nuta la precedente sentenza di rinvio a giudizio, di­chiarava non doversi procedere nei confronti di esso Del Re, per insufficienza di prove.

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394 Mimmo Franzinelli

Ma il Del Re — con istanza in data 13 settembre 1939-XVII diretta a questo Tribunale — forniva nuo­vi elementi di prova della sua completa innocenza, chiedendo la riapertura della istruttoria ed una assolu­zione con formula più ampia e risanatrice.

Riapertasi Tistruttoria, le nuove indagini esperite hanno, invero, con chiara ed esplicita documentazio­ne, dimostrato come egli mai sia stato esponente del- Taccennata organizzazione rivoluzionaria né mai vi abbia appartenuto. Per tali motivi visti gli arti 402-403- 404 CP 4211 CP Esercito

Richiede TEcc.ma Commissione Istruttoria perché, considerando come non avvenuta la sua precedente sentenza del 29 gennaio 1932-X, voglia dichiarare , nei confronti del nominato Del Re, non doversi pro­cedere per non aver commesso il fatto.

Roma, 21 ottobre 1939—-Anno XVII(Fallace)

Documento n. 8

Questura di Roma sull’assegnazione al confino di Del Re Carlo [3 dicembre 1940]

(Acs, Cpc.fasc. 97524: Del Re Carlo)

Regia Questura di Roma Div. Gab. N. 017449 U.P. — A. 8

Roma, 3 dicembre 1940—-XVIII Oggetto: Del Re Carlo di Giovanni

Confinato politicoAl Ministero dell’Interno Direzione Generale della P.S.Divisione Affari Generali Riservati — Confino Poli­ticoAl Casellario Politico Centrale — Roma Alla R. Questura di Udine

Giusta disposizioni impartite da codesto Ministero con la nota n. 500-31115 del 12 novembre u.s., quest’Uf- ficio con rapporto che si unisce in copia ha denunzia­to l’antifascista Del Re Carlo alla locale Commissio­ne Provinciale, la quale nella seduta del 25 novembre u.s., con ordinanza che pure si allega in copia lo ha as­segnato al confino di polizia per la durata di anni cin­que.

Al medesimo, che fu tratto in arresto il 1° novem­bre 1940 e ristretto nelle locali carceri di Regina Coe­li, è stato notificato il giorno 25 detto la predetta ordi­nanza, come rilevasi dagli uniti verbali.

Si trasmette anche il certificato sanitario del Del Re, dal quale risulta che, per le sue condizioni di sa­lute, è ritenuto idoneo a sopportare il regime del con­fino, significando che, trattandosi di elemento perico­loso, sarebbe opportuno inviarlo in una colonia.

Il Del Re non risulta ex combattente e non ha be­nemerenze speciali, è coniugato, non ha beni di fortu­na, per cui non è in grado di mantenersi con mezzi pro­pri al luogo di confino.

Si trasmette, inoltre, il certificato di nascita, pena­le e stato di famiglia, nonché, al Casellario ed alla Re­gia Questura di Udine, il cartellino segnaletico ed una fotografia nelle prescritte tre pose del Del Re, ripro­dotti dalla Scuola Superiore di Polizia.

Il Questore

Documento n. 9

Promemoria sull’avv. Del Re [27 marzo 1944](Acs, Segreteria particolare del Duce, Carteggio Ri­servato, RSI, b. 35 f. 309: Del Re)

Promemoria27 marzo 1944 — XXII

Altra copia trattenuta dal Duce il 7 maggio L’avv. Carlo Del Re fu Giovanni e di Ronchi Silvia, nato a Codroipo (Udine) il 18 ottobre 1901, iscritto al PNF dal 20 ottobre 1920, squadrista e ferito della ri­voluzione fascista, nel 1929, rientrato dall’estero do­ve si era recato subito dopo di aver conseguito la lau­rea, inoltrò domanda per l’iscrizione alla massoneria.

Nel 1930 avvicinò un gruppo di sovversivi a Mila­no ed in breve fu componente del comitato d’azione milanese del movimento antifascista Giustizia e libertà.

Il suo ingresso nella pericolosa organizzazione ter­roristica avvenne in un momento in cui, come già ri­sultava alla Polizia, Giustizia e libertà preparava gra­vi delitti contro la Personalità dello Stato, contro l’in­columità pubblica e contro l’ordine pubblico.

Per l’attività svolta in seno all’organizzazione an­tifascista e per il rango guadagnato in essa, il Del Re nel 1930 era ritenuto uno dei più pericolosi ed accani­ti nemici del Regime.

Tuttavia, come nel 1929 con facilità aveva tradito il Fascismo, così nel 1930 tradisce i suoi amici antifa­scisti, ma questa volta per salvare il nome della sua fa­miglia dal disonore, per l’ammanco di 176.000 in due curatele a lui affidate, ammanco che era sul punto di essere scoperto.

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Fascismo e repressione del dissenso 395

E allora, il 27 settembre 1930, preannunziato da Ita­lo Balbo, si presentò al Capo della Polizia impegnan­dosi a fornire preziosissime informazioni che avreb­bero inferto un colpo mortale alla organizzazione di Giustizia e libertà. In compenso chiedeva la somma necessaria a colmare il vuoto verificatosi nelle curate­le, la sostituzione nell’incarico di curatore col fratello di Balbo ed il segreto sul suo nome.

Le proposte furono accettate ed effettivamente la Polizia (che d ’altra parte era già in possesso di buoni elementi a carico di appartenenti alla predetta orga­nizzazione) eseguì utilissima operazione che condus­se all’arresto di circa 30 persone.

Il Del Re venne assistito continuamente ed assi­duamente dalla Direzione Generale della Polizia che gli corrispose oltre 400 mila lire e fu aiutato in tutti i suoi desideri di ricostruirsi una vita (assoluzione con formula piena dal Tribunale Speciale, reintegrazione nei quadri del Partito Fascista con la primitiva anzia­nità, iscrizione negli albi professionali, facilitazioni e mezzi per viaggi all’estero, presentazioni a persona­lità, etc.).

Tuttavia, invece di dimostrarsi grato alle autorità, egli cercò sempre di trarre profitto dalla sua delazio­ne fino a dare alle sue richieste, rivolte ad alte perso­nalità, forma ricattatoria.

La sua autodenunzia, fatta al Ministero della Giu­stizia nell’ottobre del 1940, è la espressione più gra­ve, se pure meno intelligente, del suo atteggiamento: egli chiedeva di essere processato e condannato per gli ammanchi nelle curatele, evidentemente allo scopo di determinare le autorità interessate ad intervenire per non dare una pubblicità postuma a fatti che avevano relazione coi servizi segreti della Polizia, giuocando, si capisce, anche con le amnistie e con la prescrizio­ne.

Per quest’ultimo fatto venne assegnato al confino di Polizia il 25 novembre 1940 perché “elemento tur­bolento e pernicioso per l’ordine pubblico”.

Con l’abituale spudoratezza il Del Re dal confino protestò il suo pieno pentimento con le assicurazioni più ampie di riprendere la vita normale al servizio del Regime. Fu, pertanto, d’ordine del Duce, prosciolto dal confino il 16 febbraio 1941.

Da tale epoca, sempre favorito dalla Direzione di Polizia, egli ha continuato a compiere frequenti viag­gi all’estero per attività non controllate. Comunque, segnalazioni fiduciarie dalla Spagna, indicano come inconfessabile l’attività svolta all’estero dall’avv. Del Re.

A carico del predetto, negli atti della Direzione di Polizia, figurano i seguenti pregiudizi:

1 °) Oltraggio agli agenti della Forza Pubblica, con minacce e violenza, semi ubbriachezza, età minore de­gli anni 21; 2°) Bancarotta fraudolenta e correità, Tri­bunale di Udine, ottobre 1925, assolto per insufficienza di prove; 3°) Falsa testimonianza, Tribunale di Mila­no, del 5 aprile 1932, assolto perché il fatto non costi­tuisce reato; 4°) Lesioni colpose, Pretore di Varese, 31 maggio 1932, assolto per insufficienza di prove; 5°) Lesioni colpose, Tribunale di Napoli, 20 ottobre 1936, assolto per non aver commesso il fatto. Figura inoltre una vicenda giudiziaria per insolvenza fraudolenta in emissione di cambiali.

Dalle risultanze degli atti si desume che l’avv. Car­lo Del Re, persona moralmente dubbia, è elemento po­liticamente infido.

Egli ha speculato e continua a speculare sulla sua posizione del 1930 presentando quello che fu l’unico modo per scansare la galera (che meritava sia per il vuoto fatto nell ’ amministrazione a lui affidata, che per la criminosa attività antifascista da lui spiegata fino al settembre 1930) come una felice ed altamente bene­merita iniziativa a favore del Regime.

Trattasi di individuo coltissimo (laureato in Scien­ze economiche e commerciali, legge, scienze sociali e politiche; avvocato; giornalista), scaltro e di pochi scru­poli.

Documento n. 10

Dichiarazione del Ministro Pisenti sui suoi rapporti con l’avv. Del Re [Io aprile 1944]

(Acs, Segreteria particolare del Duce, Carteggio Ri­servato, RSI, b. 35 f. 309: Del Re)

Il Guardasigilli Ministro della Giustizia

Addì, 1° aprile 1944 — XXII

La mia conoscenza dell’avv. Del Re data dalla fine di settembre 1943-XXII.

Invitato, un giorno, a recarmi alla sede della Fede­razione Fascista di Udine, vi trovai il Rag. Cabai, due suoi collaboratori e una quarta persona a me scono­sciuta, e poiché il Cabai mi faceva delle domande di natura alquanto delicata (argomento: la massoneria udi­nese), domandai subito chi fosse quella tal persona.

Così mi fu presentato l’avv. Carlo Del Re.

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396 Mimmo Franzinelli

Egli mi disse che ci eravamo incontrati molti anni addietro, che egli era un vecchio fascista, ma io, a dir vero, non me ne ricordavo.

Seppi così che egli era a Udine con un incarico ispet­tivo del Partito. Alcuni giorni dopo venni invitato a una riunione a cui parteciparono, oltre al Federale, l’avv. Del Re, Celso Morisi, i consoli De Lorenzi e Zu- liani. Si esaminò la situazione di alcuni centri infesta­ti dai ribelli.

In seguito, egli venne arrestato. Si disse che erano sorti dei dubbi sulla autenticità della lettera di creden­ziali da parte del Partito, ma poi risultò che il docu­mento (non firmato da Pavolini, ma da altro gerarca) era regolare ed egli venne rilasciato per ordine della S.S. — Riprese i rapporti con la Federazione, si iscris­se al Fascio di Udine e dopo qualche tempo si trasferì al centro antiebraico di Trieste, alle dipendenze di quel­la Federazione fascista.

La mia conoscenza delFavv. Del Re, dovuta esclu­sivamente a rapporto di partito, è — dunque — re­centissima e del tutto superficiale.

Pisenti

Documento n. 11

Rapporto sulla vigilanza nei confronti dell’avv. Del Re [22 aprile 1944]

(Acs, Segreteria particolare del Duce, Carteggio Ri­servato, RSI, b. 35 f. 309: Del Re)

22 aprile 1944 — XXII In sede di vigilanza della persona dell’avv. Carlo Del Re, del quale si sarebbe dovuto conseguire il fermo, è risultato quanto segue:

Il predetto, con quasi certezza preavvertito circa l’ordine di arresto, si è appoggiato in tutto e per tutto al Comando Generale Germanico delle S.S. in Italia con sede in Verona, dove porge i suoi buoni uffici di confidente.

Per far perdere le tracce alle persone che lo vigila­vano, per mezzo di una lettera diretta alla moglie, egli ha fatto sapere di recarsi a Firenze, in servizio, unita­mente ad un generale delle S.S. Non è però giunto in tale città, non essendo stato, infatti, quivi rintracciato.

Comunque, pare che siasi invece recato a Pinero- lo, e da quivi a Trieste, dove si è abboccato con l’avv. Martinoli, capo dello Ufficio Federale di quella città, per la lotta antiebraica.

In atto il Del Re ha fatto ritorno a Verona, dove al­

loggia e mangia presso il detto Comando delle S.S., non uscendo mai solo, ma facendosi accompagnare da due tedeschi.

In data 20 corrente, ha spedito alla moglie le se­guenti due lettere che si trascrivono in parte:

— l a lettera spedita da Verona (Ufficio postale suc­cursale n.2)

OmissisHo fatto ieri un ottimo viaggio. Ora sono qui per­

fettamente tranquillo; dormo e vivo in casa; quindi più sicuro di così non potrei essere. Attendo per oggi o do­mattina Preziosi. Poi vedremo: ma credo che l’attesa non duri più di quattro, cinque giorni. Quando tutto sarà sistemato, e sempre colla massima sicurezza, verrò da te per stare qualche giorno in cortile, ecc. ecc. ecc.

— 2“ lettera spedita da Verona (Ufficiopostale del­la Ferrovia)

OmissisÈ venuto a trovarmi Giovanni (si riferisce a Pre­

ziosi) che è rimasto molto impressionato di quanto gli ho esposto. Siamo d’accordo che, se gli amici di Trie­ste (s’intende riferire all’avv. Martinoli, che unitamente al Supremo Commissario Germanico Rainer svolge­rebbe l’azione) non troveranno loro la strada che han­no tentato, penserà lui a parlarne come si deve in se­de competente. Dunque la cosa si dovrebbe decidere fra tre, quattro giorni al massimo; fino a che non sarà decisa devo, pertanto, rimanere qui. Del resto anche qui gli amici sono molto cordiali (si riferisce ai ger­manici delle S.S.) e godo della loro piena ospitalità; loro sono “allibiti” per quanto ho raccontato e sono molto curiosi di vedere come finirà questo po’ po’ di faccenda. Ti dirò per conto mio che non vedo l’ora che finisca, per venire da voi... Omissis ...

Sirio è partito proprio ieri; mi dispiace di non aver­lo visto, ma ci vedremo in condizioni migliori... è spe­rabile! ... Omissis.

Tutto l ’operato dell’avv. Del Re è da mettersi in re­lazione alla attività dei due Ministri Preziosi e Pisen­ti, ambedue suoi amici, specialmente il primo (è da no­tare — tra l’altro — che il Pisenti è solito far villeg­giare la propria famiglia a Treppo Grande — Prov. di Udine — laddove cioè il Del Re tiene la sua).

Oggi, alle ore 14, in Desenzano — Albergo Savoia — si sono incontrati Preziosi e Pisenti e, tra l’altro, quest’ultimo ha fatto presente che si sarebbe subito re­cato a Udine.

Quanto precede è da mettersi in relazione alla insi­stente “voce” di una cosidetta “Marcia su Roma”, at­

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Fascismo e repressione del dissenso 397

tuata dai predetti Ministri, d’accordo col Ministro Pa- volini, diretta al rovesciamento del Ministro dell’In­terno e del Capo della Polizia, ed aiutati dagli squa­dristi veronesi guidati dal Federale di tale città: Tode- schini.

Quest’ultimo, poi, oggi stesso, è stato a Mademo presso il Segretario del Partito Pavolini ed alla fine del­lo abboccamento anziché rientrare a Verona per la via più breve, ha fatto il giro del Lago di Garda, ferman­dosi a Riva dove — secondo altre voci — dovrebbe far capo un movimento antimussoliniano guidato dal­la Guardia Nazionale Repubblicana di Brescia, i cui esponenti direbbero — tra l’altro — che il Duce è or­mai vecchio, che occorrono uomini giovani, onesti e più capaci degli attuali dirigenti le sorti dell’Italia Re­pubblicana.

Estranei, infine, al movimento anzidetto non sa­rebbero gli uomini germanici delle S.S. di Verona (a mezzo dell’avv. Del Re) nonché tale Furlotti (già co­mandante le squadre d ’azione di Verona che a sua volta frequenterebbe l ’ambiente delle S.S. di Mera­no).

Amico intimo del Del Re è poi tale Oscar Ebner de Ebenthall, da Trieste, attualmente anch’egli confiden­

te delle S.S. di Verona. L’Oscar Ebner, ex funzionario austriaco, tiene — a sua volta — rapporti con gli av­vocati triestini Ugo Harabaglia e Ferruccio Niederkom, noti austriacanti.

— Altre lettere ricevute dal Del Re, in data 16 e 18 corrente

1 ) Lettera raccomandata n. 2482, proveniente da S. Daniele del Friuli, spedita dalla madre Silvia Ronchi Del Re, nella quale quest’ultima si lamenta per l’ope­rato della Contessa Lucrezia da Caporiacco la quale avrebbe fatto delle insinuazioni a carico dell’avv. Del Re;

2) Lettera raccomandata n. 211, proveniente da Bas- sano del Grappa, spedita da tale Giordano Nicola, il quale chiede l’interessamento dell’avv. Del Re per ot­tenere l’iscrizione al Partito Fascista Repubblicano — sede di Trieste — con anzianità dal 28 ottobre 1943;

3) Lettera raccomandata, proveniente da Treppo Grande, spedita dalla propria moglie, nella quale que­sta fa cenno della espulsione dal Partito del Del Re;

4) Lettera raccomandata, proveniente da Treppo Grande, spedita dalla propria moglie, la quale dà no­tizie di carattere familiare.

SPAGNA CONTEMPORANEASommario del n. 12,1997

Maria Victoria López Cordón Cortezo, La metamorfosis del bandido: de delincuente a guerrille­ro-, Bartolomé Benassar, Tan amados bandidos-, Luigi Paselli, Antifascisti tedeschi nel “Servizio sanitario internazionale” in Spagna, 1936-1939. Note biobibliografiche-, Xosé M. Núñez Seixás, Emilio Grandio Seoane, Clientelismo político y derecha autoritaria en la Galicia de la Segunda República. Una aproximación a la corrispondencia de Calvo Sotelo-, Carlo Perugini, Letteratura ed esperienze estreme. A proposito di Max Aub e Jorge Semprún (Prima parte)

Rassegne e noteCarmelo Adagio, Le apparizioni di Ezkioga fra storia e antropologia-, Mario Cipolloni, / fantasmi della libertà. La difficile contemporaneità del cinema spagnolo; Luis de Llera, La transición po­litica y los historiadores periodistas

Fondi e fontiAlfonso Botti, Due lettere di Romolo Murri a Miguel Unamuno. Addenda

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ITALIA CONTEMPORANEA

INDICE GENERALE ANALITICO 1974-1996a cura di Andrea Curami e Paolo Ferrari

L’Indice generale analitico 1974-1976 — pubblicato nel 1997 dall’ lnsmli, dall’Associazione cul­turale Il filo di Arianna (Bergamo) e dall’Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e del­l’età contemporanea — costituisce una guida analitica a “Italia contemporanea” a partire dal momento in cui, nel 1974, la rivista dell’Istituto nazionale, “Il Movimento di liberazione in Italia”, assume il nuovo nome.Le tre parti principali del volume, Studi e ricerche e Note e discussioni, Notiziario, Rassegna bi­bliografica, raggruppano, rispettivamente, i 741 articoli e saggi pubblicati nelle prime due se­zioni della rivista; testi a carattere principalmente informativo; infine l’elenco degli spogli di pe­riodici e, soprattutto, i 2.618 volumi recensiti sulla rivista.Segnaliamo due tra i principali elementi di novità del lavoro. In primo luogo, ogni articolo è se­guito da una serie di parole chiave che ne precisano il contenuto, nonché da indicazioni sulla tipologia del testo, sulla presenza di riferimenti bibliografici e, soprattutto, sui fondi archivistici utilizzati. In secondo luogo, le parole chiave — scelte anche in rapporto alla suddivisione della contemporaneistica in specializzazioni — sono state impiegate per la costruzione di diversi in­dici che costituiscono altrettante possibilità di accesso alle informazioni.

Sommario: Massimo Legnani, Prefazione-, Andrea Curami, Paolo Ferrari, Introduzione-, Abbre­viazioni e sigle-, Direzione Comitati scientifici Redazioni-, Studi e Ricerche e Note e discussioni-, Indice dei generi storiografici-, Indice dei periodi-, Indice dei toponimi-, Indice dei soggetti-, Indice delle annate-, Notiziario-, Rassegna bibliografica-, Indice dei recensori.

Ulndice generale analitico 1974-1976 (pp. 206) è distribuito al prezzo di lire 25.000 (13.000 per i vecchi abbonati), mentre è inviato gratuitamente ai nuovi abbonati. I versamenti devono esse­re eseguiti sul ccp. n. 16835209 intestato all’Istituto nazionale per la storia del movimento di li­berazione in Italia (Piazza Duomo 14, 20122 Milano, tei. 0286463233).

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Sul peggiore dei mondi possibili Il libro nero del comuniSmo nel dibattito italiano

Giulio Petrangeli

È uscito in edizione italiana il Livre Noirdu Com- munisme, che già in Francia — dopo la sua pub­blicazione nell’ottobre 1997 — aveva sollevato un acceso dibattito1. E raro che un libro di storia venga tradotto con questa rapidità e che conosca una diffusione così imponente — 150.000 copie vendute in Francia e secondo “Reset” la stessa quantità anche in Italia — , ed è ancor più raro che venga utilizzato in maniera così vistosa nel dibattito politico: non era mai successo che si brandisse un libro dal palco di un Congresso di partito e lo si distribuisse poi ai delegati, come ha fatto recentemente Silvio Berlusconi.

Il libro nero del comuniSmo, un volume di 770 pagine, è una raccolta di saggi — di valore dise­guale — di un gruppo di storici che offrono una rivisitazione del fenomeno comunista, dal 1917 ad oggi, visto in ogni parte del mondo ove si sia impadronito del potere, “come un monolito on- nipervadente, sgusciato fuori dagli spazi e dai tempi”2. Il curatore e ispiratore, Stéphane Cour- tois, nell’introduzione mette in chiaro che lo sco­po dell’opera è quello di dimostrare che “i regi­mi comunisti, per consolidare il loro potere, han­no fatto del crimine di massa un autentico siste­ma di governo”3. La dimensione criminale viene considerata come una delle “dimensioni” proprie

del sistema comunista, ma ci si accorge ben pre­sto di come essa sia in realtà Vunica categoria in­terpretativa con la quale si legge l’intera espe­rienza storica dei comuniSmi reali. Quindi il co­munismo come sistema criminale di repressione.

Il dibattito in Italia intorno a II libro nero del comunismo, con interventi di storici, giornalisti e opinionisti, ha non a caso assunto il più delle vol­te il carattere di un momento della polemica poli­tica corrente, proprio perché l’operazione propa­gandistica innescata dal libro ha favorito questo uso politico della storia, con la scelta di un lin­guaggio poliziesco, gridato, con l’insistenza su particolari d ’effetto, il gusto dell’orrore, il con­teggio approssimativo e fantasioso di milioni di morti. E spesso il dibattito, anziché affrontare e discutere i molti nodi storiografici aperti dall’e­sperienza dei “socialismi reali”, ha preferito ade­rire al messaggio massmediale della fascetta di co­pertina e dell’introduzione di Courtois. Il rilievo non riguarda solo i giornalisti ma anche molti sto­rici. E sembrato prevalere, in una parte consistente del dibattito, non l’esigenza di una riflessione sto­rica che tenga conto della “rugosità” della storia di questo secolo e della molteplicità delle forze in campo, quanto piuttosto l’accertamento contabi­le dei morti — 50, 80 o 100 milioni — “gonfia-

1 Stéphane Courtois, Nicolas Werth, Jean-Louis Panne, Andrzey Paczkowski, Karel Bartosek, Jean-Louis Margolin, II libro nero del comuniSmo. Crimini, terrore, repressione, con la collaborazione di Rèmi Kauffer, Pierre Rigoulot, Pascal Fontaine, Yves Santamaria e Sylvain Boulouque, Milano, Mondadori, 1998.2 La definizione è di Bruno Bongiovanni nella recensione a Marcello Flores, In terra non c’è il Paradiso. Il racconto del co­muniSmo, Milano, Baldini & Castoldi, 1998, “L’Indice”, maggio 1998.3 S. Courtois, I crimini del comuniSmo, p. 4. “I crimini di cui parleremo in questo libro si definiscono come tali in rapporto al codice non scritto dei diritti naturali dell’uomo e non alla giurisdizione dei regimi comunisti”, p. 5.

’Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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to” senza molti scrupoli per dimostrare che il co­muniSmo è stato un sistema criminale quanto, se non più, del nazismo. Come un qualsiasi bilancio rivela lo stato dell’azienda, così la contabilità dei morti evidenzia la “matrice” criminogena, che è nell’utopia stessa, cioè in qualsiasi idea di rivolu­zione sociale, in sé fallimentare perché portatrice di violenza, morte e devastazione. Adottando in genere il tono di enfatica ed eccitata scoperta che è proprio dell’introduzione di Courtois, il com­puto di questo massacro viene presentato come una “verità” per la prima volta “rivelata” all’opi­nione pubblica. Conseguenza ovvia di tale impo­stazione è quella di ignorare o celare l’esistenza ormai consolidata di una storiografia intemazio­nale che da almeno trent’anni ha documentato i crimini del periodo staliniano, per non parlare di quella pubblicistica dei comunisti dissidenti che già a partire dagli anni trenta aveva denunciato e criticato le “degenerazioni” di quel regime. Sulla base della categoria di “crimine”, Il libro nero del comuniSmo propone così una “Norimberga” per i crimini comunisti: il paragone tra gli 85 milioni di morti del comuniSmo (due terzi dei quali attri­buiti alla sola Cina, e in larghissima misura alle carestie) contro i “soli” 25 milioni del nazismo porrebbe quest’ultimo in una situazione di infe­riorità quanto a dimensioni dello sterminio, anche se, continuando in questa macabra contabilità, si potrebbe rilevare la particolare intensità dello ster­minio nazista, concentrato in pochi anni.

Del Libro nero si comincia a discutere in Ita­lia sin dall’annuncio della pubblicazione france­se nell’ottobre del 1997 presso l’editore Laffont di Parigi, e il dibattito prende avvio su “La Stam­pa”, dove Barbara Spinelli riporta il dato fonda­

mentale: gli 85 milioni di morti che l’Ottobre ha generato in ogni parte del globo terrestre, “fin da quando l’idea comunista cominciò a tradursi in pratica”. Nel ricordare l’anniversario della Ri­voluzione russa Spinelli invita a riflettere su “i milioni di morti che sono stati sacrificati sull’al­tare dell’idea comunista”, per non dimenticare i gulag e per conservare la memoria di quelle sof­ferenze. Tuttavia non si tratta soltanto di ricor­dare e di vivificare la memoria della “montagna di cadaveri” dei passati regimi comunisti; occor­re a suo parere una “purificazione delle memo­rie”, scoprire cioè che l’inclinazione alla violen­za, al genocidio era “analoga [...] nell’idea che nazismo e comunismo si facevano dell’Uomo Nuovo e Rigenerato, del Bene imposto con la vio­lenza all’essere mortale, di Gerusalemme tra­piantata in terra”4. Il gulag viene qui equiparato al lager nazista, in quanto vi si ravvisano gli stes­si metodi repressivi e la stessa durezza e fermezza nelTannullamento della personalità umana5. La tesi di fondo di Spinelli, nel condividere l’impo­stazione del Libro nero, è un’accusa all’idea stes­sa del comunismo, che non è degenerato a causa di una cattiva realizzazione, ma per il suo carat­tere intrinseco, “causa di male e di disprezzo del­la natura umana”. La “matrice” dei crimini di cui si è macchiato il “totalitarismo comunista” sa­rebbe la stessa della “teologia rigeneratrice” del nazismo, in quanto il comunismo, definito una utopia del bene, massacrò in nome di quella uto­pia che voleva realizzare. Non bisogna perciò di­menticare i crimini del comunismo per non va­nificare tutti gli sforzi che sono stati fatti nei lun­ghi anni della guerra fredda contro il “totalitari­smo marxista” 6.

4 Cfr. Barbara Spinelli, Memorie deboli sul comuniSmo, “La Stampa”, 7 novembre 1997.5 Spinelli sottolinea inoltre come manchino luoghi pubblici, “tracce” della memoria del comuniSmo, per dare ai morti uno “spazio legittimo” che, allo stesso modo dei “sacrari” tramandatici dei campi di concentramento, aiuti ad evocare “il male che fu loro inferto in nome del comuniSmo”.6 Cfr. B. Spinelli, La memoria oscurala e la candela di Voltaire, “La Stampa”, 11 gennaio 1998. Nell’approfondire i legami ideali e concreti tra il comuniSmo e il nazismo, Spinelli sembra tentare una rivalutazione comparativa dei fascismi: infatti la giornalista rileva un “vizio” del comuniSmo, su cui avrebbe costruito la sua forza, e che lo caratterizzerebbe in maniera ne­gativa rispetto al nazismo, il “vizio” cioè della “menzogna”. “Il nazismo non nasconde il proprio odio degli ebrei, dei malati mentali, degli zingari, dei comunisti. Lo proclamò pubblicamente, e i treni che portavano ad Auschwitz erano affollati di ne­mici che Hitler aveva nominato, promesso alla morte. Non così il despota comunista, che uccideva non solo il borghese ma che massacrava il compagno, l’operaio, il contadino, cui aveva promesso la liberazione, l’amore, l’abolizione dei tormenti”.

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Nel dibattito suscitato dal Libro nero si inseri­sce anche la discussione sulle responsabilità de­gli intellettuali nei confronti dei crimini comuni­sti, proposta da Edmondo Berselli7 su “La Stam­pa” e da Ernesto Galli Della Loggia sul “Corrie­re della sera”. Quest’ultimo prende spunto da quel­lo che Sandro Viola definisce “l’assordante silen­zio” degli intellettuali ex comunisti per attaccare D ’Alema e delegittimare il Pds8. Viola, su “la Re­pubblica”, aveva sostenuto infatti che si dovesse concentrare il dibattito sul “silenzio dell’ex Pei”, e sull’assenza in Italia di uno “scavo” storiografi- co sui crimini sovietici, anziché pretendere, come Spinelli, pentimenti e abiure: da condannare era la mancanza di un “ripensamento del passato”, “l’assordante silenzio di molti intellettuali ex-co­munisti” responsabili di aver “flirtato con un’Idea infame, ammirato uomini ripugnanti, e girato il capo per non vedere che l’Idea stava producendo un numero infinito di crimini”9. Mario Pirani pro­pone una lettura diversificata di questa problema­tica della responsabilità, ricordando in proposito come in Italia, soprattutto dopo i fatti del ‘56 ma anche prima, gli intellettuali che uscirono dal Pei non restarono chiusi nel silenzio, ma dettero vita ad un’analisi, ad una critica del regime sovietico e dei suoi sviluppi10. Quindi Pirani è più incline ad individuare le origini e le ragioni della reticenza della cultura comunista non in una “falsa co­scienza” degli intellettuali, ma negli obiettivi stes­si del comunismo, che — propagati dai “sacerdo­ti” della “scienza marxista” — finirono per di­ventare “schermo” e “alibi” di stermini e “follie economiche”, nell’ottica di una “superiore neces­sità storica a fin di bene”.

Nell’ introduzione di Courtois è esposta una del­

le tesi centrali del Libro nero, ripresa anche da al­cuni interventi, che parte dal crimine come unica dimensione del comunismo, per arrivare ad indi­viduare l ’origine di tale carattere nell’idea di una umanità nuova, dunque nell’idea di un cambia­mento radicale, del ritorno a una condizione “na­turale” dell’uomo. Perciò si individua nell’utopia la matrice dei crimini al comunismo. Alla pretesa di edificare il Paradiso in terra vanno ricondotte per Giovanni Belardelli le conseguenze nefaste del comunismo. Se per Edmondo Berselli il co­munismo è una “religione della modernità”11, ta­le “modernità” genera per Belardelli l ’illusione che porta ai crimini comuni a comunismo e na­zismo12. Sancito per assioma dal Libro nero che il comunismo, in quanto “utopia al potere”, ha in sé una compiuta dimensione criminale, l’utopia, essendo “in totale distonia con la realtà”, è porta­trice di tale dimensione che si manifesta ad ogni concretizzazione, ad ogni forzatura della “natura umana”13. Perciò se il comunismo realizzato vie­ne definito dalla dimensione criminale, ciò è pos­sibile proprio in quanto è un sistema utopico, poi­ché è l’utopia in quanto tale a possedere il germe della violenza e della criminalità. Courtois ripro­duce una scolastica genealogia storica che fa ri­salire l’idea di una “società comunista” a Campa­nella, Tommaso Moro e a Platone, e sostiene — citando una celebre frase di Ignazio Silone — che “le rivoluzioni sono come gli alberi, si riconosco­no dai loro frutti”. Perciò anche l’utopia è colpe­vole. Partendo da questo presupposto e proce­dendo con metodo deduttivo Marcello Veneziani individua “un difetto nel Dna”14: l’utopia è gene­rosa ma irrealizzabile. Questo in sostanza spiega perché i regimi comunisti abbiano dovuto ricorrere

7 Edmondo Berselli, La storia alle spalle di D'Alema, “La Stampa”, 19 gennaio 1998.8 Ernesto Galli Della Loggia, La storia d'Italia riscritta dal Pds, “Corriere della sera”, 4 gennaio 1998.9 Sandro Viola, Il Libro Nero dei commisti, “la Repubblica”, 29 dicembre 1997. Viola lamenta l’assenza in Italia di uno stu­dio sui passati regimi comunisti analogo a quello di François Furet, Il passato di un’illusione, e sostiene che lo stesso Livre Noir, in quel momento non ancora tradotto in Italia, potrebbe apportare contributi importanti e stimolare nuove ricerche.10 Mario Pirani, Quando si confonde la storia con la politica, “la Repubblica”, 17 gennaio 1998.11 E. Berselli, La storia alle spalle di D’Alema, cit.12 Giovanni Belardelli, Ma di fronte ai gulag anche l’Italia è responsabile, “Corriere della sera”, 8 marzo 1998.13 S. Courtois, Perché, conclusioni a II libro nero del comuniSmo, cit., p. 688.14 Marcello Veneziani, cij. in M. Brambilla, Campanella e Moro? Cattivi maestri come Marx, “Corriere della sera”, 22 feb­braio 1998. Veneziani individua in questa irrealizzabilità l’aspetto più deleterio del comuniSmo: “in nome di un’umanità idea-

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alla repressione e al massacro per mantenere il po­tere: “perché esso solo permetteva a Lenin di met­tere in pratica le sue idee, di ‘costruire il sociali­smo’. La risposta mette in luce il vero motore del terrore: l ’ideologia leninista e la volontà, intera­mente utopistica, di applicare una dottrina in to­tale distonia con la realtà”. Anche per lo storico cattolico Giorgio Rumi l’errore del comuniSmo sta nell’idea stessa, in quell’antichissima “tenta­zione di realizzare il paradiso in terra”, che però non fa i conti con la realtà e per questo finisce poi in tragedia15.

Nodo centrale e ricorrente del dibattito sul Li­bro nero è quello dell’equivalenza tra nazismo e comuniSmo, che viene istituita accomunando en­trambi nella categoria di “crimine”. Pirani è cri­tico nei confronti di una equivalenza tout court fra i due regimi: rifiuta, infatti, tale schematismo e individua le differenze non nell’entità o nella tipologia dei crimini commessi, ma nel “finali­smo globale”, “generatore del crimine”. Mentre l’obiettivo nazista era concentrato sulla missio­ne e sul dominio del popolo tedesco in Europa e nel mondo intero, il comuniSmo era una “illu­sione universalista di eguaglianza, riscatto, soli­darietà di classe”16. Per Alain Besançon vi sa­rebbe ormai identità di vedute fra gli storici cir­ca “l ’equivalenza” tra nazismo e comuniSmo: lo scopo di entrambe le ideologie è “giungere a una società perfetta, eliminando i ‘cattivi principi ’ che frappongono ostacoli”. In Besançon l’equivalen­za tra le due dottrine diviene identità: “entrambe le dottrine propongono ideali elevati, adatti a su­scitare devozione entusiastica e atti eroici. Ma af­fermano anche il diritto, il dovere, di uccidere. [...] Sì, sono ugualmente criminali”. Così acco-

munati nazismo e comunismo attestano, in asso­luto, come da “ideali elevati” e dall’idea di “uo­mo nuovo” si approdi ad una gestione criminale del potere. L’autore finisce tuttavia per istituire una gerarchia del crimine, in quanto, a suo dire, quello nazista “è stato principalmente fisico. Non ha contaminato moralmente le sue vittime”, men­tre con il comunismo quasi tutti “si sono moral­mente degradati”17. Anche Argentieri, dalle pa­gine di “Reset” concorda con Courtois nel de­molire “il principio del diverso grado di perver­sione morale esistente tra nazismo hitleriano e comunismo staliniano, in altre parole la cosid­detta ‘unicità di Auschwitz’”18. Semmai, fa no­tare che lo stalinismo “è peggio del nazismo, per­ché ha delle pretese di nobiltà”, in ciò trovando­si in sintonia con Spinelli e con lo storico statu­nitense Martin Malia. Facendo proprie le tesi prin­cipali del Libro nero, quest’ultimo evidenzia co­me i regimi comunisti siano “imprese che hanno connaturato il crimine nella loro stessa essenza”; la repressione comunista non affonda le proprie radici nelle precedenti autocrazie, né rappresen­ta una intensificazione di pratiche popolari vio­lente, perché la violenza di massa è stata in qual­siasi regime “una politica deliberata imposta dal nuovo ordine”: perciò qualsiasi resoconto sui cri­mini “universali” del comunismo non può che es­sere un resoconto dei crimini prodotti dall’uto­pia a cui va chiusa la porta per sempre19. In que­sta ricorrente condanna dell’utopia, sostiene An­drea Catone, emerge una operazione ideologica e politica che tende fra l’altro ad “indicare come sola via praticabile e migliore dei mondi possi­bili questo presente”20. Timothy Garton Ash cri­tica una eccessiva “asimmetria d ’ indulgenza” con

le i comunisti hanno massacrato un’umanità reale. Questo, secondo me, è un aspetto diabolico, perché si parte dal principio di un’abolizione della realtà in nome di una irrealtà. Dando l’illusione ai carnefici di essere nel giusto, di uccidere per un mon­do migliore. Questo vuol dire confondere il Bene con il Male”.15 Giorgio Rumi, cit. in M. Brambilla, Campanella e Moro?, cit.16 M. Pirani, Quando si confonde la storia con la politica, cit. Nella conclusione Pirani individua la principale differenza, evidenziando come il nazismo sia perfettamente in linea con i suoi fini, mentre il comunismo è pervaso dalla eterna contrad­dizione tra pensiero e azione.17 Alain Besançon, Comunismo 70 anni di oblio, “La Stampa”, 21 gennaio 1998.18 F. Argentieri, Il dibattito che manca in Italia, “Reset”, maggio 1998.19 Martin Malia, Libro nero: non convince l'equivalenza morale, “Reset”, maggio 1998.20 Andrea Catone, I vincitori della guerra fredda riscrivono la storia, “Liberazione”, 3 aprile 1998. Catone inoltre individua nell’uso politico di questa “revisione storica” una “posta in gioco ben più alta” che non una condanna del regime sovietico e

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la quale, per lungo tempo, la cultura politica oc­cidentale ha considerato il comuniSmo rispetto al nazismo21. Le ragioni di questa diversità di trat­tamento sono da ricondursi all’utopia universale e nobile del comuniSmo e alla sconfitta militare del nazismo che ha svelato tutti gli orrori di quel regime, mentre l’Unione Sovietica sarebbe “riu­scita a perpetrare una prolungata negazione orwelliana”. Per questi motivi vi è un notevole “deficit di memoria” nei confronti dei crimini “rossi”, e il Libro nero sarebbe un indubbio “pas­so importante” neH’inserire il comuniSmo, insie­me al nazismo, nelle pagine oscure del secolo. Nel proporre una gerarchizzazione dei due feno­meni, Garton Ash sostiene che, se dal punto di vista quantitativo il comuniSmo è stato più dele­terio del nazismo, lo stesso non si può però dire a livello qualitativo, in quanto l ’Olocausto resta un evento unico; tuttavia è superfluo contestare l’“unicità di Auschwitz” per dimostrare l ’equi- parabilità degli orrori22. Particolarmente indica- tivaè l’argomentazione conclusiva, riprodotta nel titolo stesso: è inaccettabile la pretesa di recupe­rare “le parti buone” del comuniSmo e di “scar­tare il resto”; più corretto moralmente e intellet­tualmente è prendere o lasciare il comuniSmo nel­la sua interezza. E una argomentazione che di fat­to non era mai stata usata nei confronti di altri si­

stemi politici come, ad esempio, il fascismo. Se Garton Ash pone comunque qualche dubbio sul­l’equivalenza morale tra comuniSmo e nazismo, ammettendo una “reale differenza” tra l ’ideale umanitario del primo e quello egemonico del se­condo, Tzvetan Todorov ribadisce l’unicità del genocidio ebreo per affermare lo stesso caratte­re “unico” dei crimini sovietici. Per Todorov, “le unicità” impongono il confronto fra i due regimi, non per stabilire una graduatoria, ma per “porre una equivalenza [...] soltanto sul piano morale”; poiché, anche se i genocidi sono identici, il loro significato storico e politico è molto diverso23.

Nel dibattito si inserisce anche Norberto Bob­bio, il quale, in un’intervista, critica l’imposta­zione del Libro nero, pur ribadendo in sostanza che l ’essenza del comuniSmo realizzato è stata il dispotismo, in quanto ha assunto tale connotato in ogni luogo dove è andato al potere24. In que­sta constatazione risiederebbe la “diversità” del libro, la sua importanza, nell’avere cioè ricorda­to che il comuniSmo al potere ha imposto “do­vunque” un regime di terrore, poiché “l’univer­salismo dispotico appartiene alla natura stessa del comuniSmo storico”25. Bobbio inoltre rileva co­me nel dibattito italiano sul Libro nero non sia mai stato menzionato il lavoro di Andrzei J. Ka- minski26, dove il tema principale è il confronto

del comuniSmo: “la riscrittura della Costituzione, il passaggio a tutti gli effetti alla ‘seconda Repubblica’, in cui ogni riferi­mento alla Resistenza e alla lotta partigiana deve essere accuratamente rimosso, in modo da assorbire completamente la ‘ano­malia italiana’ nel contesto delle liberal-democrazie europee. Sta qui il senso politico delle ‘aperture’ e delle ‘revisioni’ del- l’on. Violante sin dal suo primo discorso di insediamento come presidente della Camera”.21 Timothy Garton Ash, Postcomunìsti decidetevi: o prendete o lasciate tutto, “Liberal”, 2 aprile 1998. “Per oltre cinquantanni il nazismo, e specialmente l’Olocausto, è stato il paradigma centrale del male del nostro tempo”.22 “A ogni modo c’è una sorta di mancanza di gusto nel cercare di appropriarsi di un termine [olocausto], che è stato coniato per la sofferenza di un popolo in particolare, al fine, per così dire, di prendere una qualche parte della sua gloria riflessa, sem­pre che in questo contesto sia ammissibile la parola gloria. Non è necessario fare questo per mostrare che gli orrori patiti sot­to il governo comunista, sia qualitativamente sia quantitativamente, sono paragonabili a quelli subiti sotto il nazismo”, T. Gar­ton Ash, Postcomunisti decidetevi, cit.23 Tzvetan Todorov, Un bimbo kulako vale meno di un bimbo ebreo?, “Liberal”, 2 aprile 1998.24 Norberto Bobbio, Wo, non c'è mai stato il comuniSmo giusto, intervista a cura di Giancarlo Bosetti, “l’Unità”, 3 aprile 1998. Per Bobbio il Libro nero “vale come un mezzo di propaganda di per se stesso, per la sua mole e per il suo peso, non per quel­lo che ci sta scritto dentro”.25 Bobbio individua nella mancanza, nella Russia prerivoluzionaria, di una tradizione liberale una delle ragioni del nesso tra comuniSmo e violenza. Per Bobbio è il leninismo che ha distratto lo stato di diritto: “la teoria marxistica dello Stato è una teo­ria del modo con cui si conquista il potere, non del modo con cui lo si esercita, mentre il liberalismo è soprattutto una teoria dell’esercizio del potere”.26 Cfr. Andrzei J. Kaminski, / campi di concentramento dal 1896 a oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. Il libro di Ka- minski è un esempio raro e originale di una comparazione fra le più approfondite e accurate dei “sistemi concentrazionari” sovietico e nazista. Il confronto, per lo storico polacco, è “scientificamente imprenscindibile”, purché i sistemi vengano pa-

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tra i lager nazisti e i gulag stalinisti, e ribadisce una differenza fondamentale tra il comuniSmo— “grande ideale che per ragioni storiche imprevi­ste e imprevedibili non ha trovato attuazione”- e il nazismo, teoria fondata sulla superiorità di raz­za e “sin dall’inizio moralmente malvagia”. L’in­tervento di Bobbio suscita una serie di reazioni, generalmente positive, riguardo al carattere di­spotico del comuniSmo: da Arrigo Levi e Sergio Romano che concordano pienamente, a Marcel­lo Flores che ricorda però come il Libro nero pon­ga un problema di diversa qualità, ossia L’a s ­senza criminale” del comuniSmo, a Giuliano Pro­cacci più cauto27.

Di rilievo l ’intervista rilasciata a “l’Unità” da Eric Hobsbawm, critico verso le campagne anti­comuniste di intensità proporzionali alla vecchia propaganda stalinista. Rifiutando ogni minimiz­zazione delle “cose terribili che sono state fatte nell’Unione Sovietica”, Hobsbawm respinge però l’equivalenza tra i crimini del nazismo e quelli del comuniSmo; nello stesso tempo sceglie di non attribuire troppa importanza al problema della contabilità delle vittime e della sua even­tuale correzione, poiché, anche se dovessero ri­

sultare “dimezzate”, le cifre della repressione so­vietica resterebbero in ogni caso “moralmente inaccettabili”. Per quanto riguarda più specifica- mente il Libro nero, Hobsbawm ritiene che non debba essere considerato un testo di storia del co­muniSmo, ma “un catalogo delle sue violenze”, perché la “storia del Novecento non può limitar­si alla lista delle sue sofferenze”. Non è inoltre possibile, secondo Hobsbawm, equiparare il co­muniSmo al nazismo, o a qualsiasi altro sistema, all’interno di una singola dimensione, quella cri­minogena. Nella comparazione architettata da Courtois e dagli altri storici del gruppo, Hob­sbawm rileva non una “dimostrazione” sostan­ziale, ma soltanto una “impostazione ideologica da guerra fredda”28. Lo storico inglese sostiene infine che il comuniSmo non è “fallito” a causa dei massacri che ha perpetrato, ma a causa di al­tri fattori, e questo fallimento “è avvenuto quan­do quei massacri erano lontani nel tempo”. Que- st’ultima argomentazione aprirebbe una discus­sione sulle cause della dissoluzione dei sociali­smi reali, che purtroppo nessuno nel corso del di­battito coglierà e riprenderà.

Recensendo il Libro nero, Procacci si soffer-

ragonati “solo nelle corrispondenti fasi di sviluppo”. Kaminski traccia una linea di demarcazione molto netta tra campo di concentramento e campo di sterminio, e, partendo da questa distinzione, rileva le specificità e le differenze di struttura e di sviluppo dei due sistemi ed anche le caratteristiche comuni, come quella di poter essere entrambi definiti “campi di lavoro forzato”. Per quanto riguarda più specificamente i campi sovietici, per Kaminski, la deportazione è stata per decenni la pras­si nell’esercizio del potere in una continua escalation: Trotzki e Lenin “favorirono e incoraggiarono” gli stermini di massa, mentre Stalin “introdusse il monopolio statale dell’omicidio”. “Non si può quindi trascurare il fatto che una linea retta con­dusse dalla coscienza giuridica rivoluzionaria trotzkista-leninista e dai suoi princìpi agli stermini e alla schiavitù di massa sta- lininani”, pp.88 sg.27 Gabriella Mecucci (interviste a cura di), Il comunismo dispotico? Bobbio ha ragione ma..., “l’Unità”, 4 aprile 1998. Arrigo Levi replica entusiasticamente a Bobbio concordando sul carattere dispotico del comunismo e propone una periodizzazione della storia dell’Urss in due fasi: la prima, che inizia con la Rivoluzione d’Ottobre e finisce con la morte di Stalin, “all’insegna del terrore”, e la seconda, che arriva sino al 1989, dove non c’è più il terrore, ma dove comunque permane “un sistema tota­litario”. Con Levi concorda anche Sergio Romano che ricorda le giuste analisi dei teorici liberali circa l ’inevitabilità di un’e­voluzione tragica dell’esperienza comunista. Marcello Flores è d’accordo con Bobbio “sull’essenza dispotica” del comunismo storico, ma fa notare come il Libro nero parli di “essenza criminale”, ed aggiunge che è possibile comparare il nazismo al co­munismo in quanto entrambi “rientrano nella categoria dei totalitarismi”, ma che si tratta in ogni caso di sistemi molto diffe­renti fra di loro. Più problematico Giuliano Procacci che propone di distinguere le situazioni in cui il comunismo ha preso il potere da quelle in cui, invece, ha rappresentato una forza di riscatto sociale: “la sua [del comunismo] sorte somiglia a quella della Rivoluzione Francese: le conseguenze di questo evento non possono essere infatti circoscritte alla Francia”.28 Eric J. Hobsbawm, Gulag e Olocausto crimini diversi, intervista a cura di Giancarlo Bosetti, “l’Unità”, 5 aprile 1998. “L’U­nione Sovietica non si può definire soltanto come sistema di terrore. C’era il sogno di una società di eguali, c’era tutto quel­lo che in passato ha attratto la gente al socialismo e al comunismo”. L’alleanza contro il nazifascismo, precisa lo storico, non è stata strumentale, aveva una sua “logica” che trovava motivazione nell’esistenza di un nemico comune. “L’ideologia del co­munismo non ha le sue radici intellettuali nel socialdarwinismo, e non è comparabile, né criticabile e giudicabile allo stesso modo del nazismo”.

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ma particolarmente sulla disputa intorno alle ci­fre della repressione e delle carestie, sino a met­tere in discussione l’intero approccio dell’opera e ricordando a Courtois che decenni di letteratu­ra, di studi e ricerche, nonché i recenti contribu­ti degli studiosi russi, dimostrano come non si è dovuto attendere la fine del secolo per studiare i crimini comunisti29. Inoltre sottolinea come le in­tenzioni dell’opera vadano al di là della sua stes­sa tematica, come essa si proponga “fini più am­biziosi”, ossia ricostruire la storia del comuniSmo come “fenomeno universale”, per arrivare ad “una resa dei conti una volta per tutte”. Procacci indi­vidua nelle modalità del dibattito sviluppatosi at­torno al Libro nero anche l’affiorare di una ten­denza “giustificazionista” che rivendica la possi­bilità di scrivere un’opera analoga per i crimini del capitalismo e del colonialismo: ma ciò equi­varrebbe “ad entrare nella medesima logica uni­laterale e riduttiva degli autori di questo libro”30. Se l’obiettivo del Libro nero è quello di far emer­gere i tratti comuni dei vari “comuniSmi storici”, tuttavia alcuni avvenimenti cruciali vengono di­storti, in quanto non si tiene conto degli aspetti politici e sociali e dei condizionamenti interni ed esterni che hanno portato a volte a scelte diverse o imposte dagli avvenimenti. In tal modo si fini­sce per dimenticare, secondo Procacci, che la “ri­voluzione leninista” fu prima di tutto una rivolu­zione “contro la guerra e contro il sistema politi­co e sociale che l’aveva generata”, e proprio per questo “un grande fatto di emancipazione”. Non si può leggere la storia dei primi decenni della ri­voluzione come “un piano inclinato al termine del quale vi sono i lager staliniani”.

Di opinione radicalmente diversa Luciano Pellicani che, sulle colonne della stessa rivista, critica Procacci e quegli “intellettuali marx-le- ninisti” che grazie al Libro nero sono stati co­stretti a rompere il loro silenzio, concentrando però la loro attenzione “sui difetti della fatica compiuta da Stéphane Courtois e i suoi colla­boratori”31. Il “disagio” che Pellicani dice di provare nei confronti della recensione di Pro­cacci ha il suo fondamento nella “futilità” del­la discussione circa l’attendibilità delle cifre di fronte “aH’enormità degli eccidi”, perché il da­to rilevante è che il comunismo ha realizzato i suoi obiettivi “istituzionalizzando il Gulag” sin dalla presa del potere32. Sostenendo la validità delle tesi del Libro nero, Pellicani propone al­cuni passi degli scritti di Lenin, di Engels e di Marx per dimostrare retrospettivamente come “nei classici del marx-leninismo” sia teorizza­to che il comunismo è realizzabile solo “ricor­rendo alla guerra di annientamento e all’uso ter­roristico della violenza contro intere categorie sociali e persino contro interi popoli”. I comu­nisti hanno riversato una feroce “guerra perma­nente contro la società”, e nonostante questa spietatezza l ’idea comunista ha suscitato “l’en­tusiasmo di milioni di individui”, perché ha ma­terializzato “la promessa cristiana dell’‘uomo nuovo’”. La creazione del gulag, infatti, ha ori­gine nella pretesa utopica di realizzare il “Para­diso in terra”.

Il problema dei crimini del regime comunista in Cina, trattato nel Libro nero da Jean-Louis Mar- golin, ha avuto scarso rilievo nel dibattito, seb­bene nell’economia dell’opera la Cina sostenga

29 Giuliano Procacci, Uno storico legge il “libro nero”, “Le ragioni del socialismo”, n. 24, marzo 1998.30 G. Procacci, Uno storico legge il “libro nero", cit. “Anche la storia del colonialismo non è riducibile ai suoi orrori; esso fu infatti anche alfabetizzazione e modernizzazione”. Di seguito Procacci opera una distinzione sulla base del valore scientifico dei vari saggi componenti il libro: “quello di Nicolas Werth si differenzia dall’introduzione di Courtois e da altri contributi non solo per le diverse stime circa il numero delle vittime, ma anche e soprattutto per la serietà dell’impegno critico. Tutta­via occorre anche dire che tutti i saggi qui pubblicati costituiscono un unico volume che si intitola Le livre noir du communi- sme e che ciò presuppone resistenza di un comune denominatore”.31 Luciano Pellicani, Le radici ideologiche dei Gulag, “Le ragioni del socialismo”, n. 25, aprile 1998.32 L. Pellicani, Le radici ideologiche dei Gulag, cit. Lenin, secondo Pellicani, aveva come missione quella di “ripulire” e “di­sinfestare” la Russia dai borghesi e dai suoi complici, ricorrendo alla violenza sistematica. “Animato da queste certezze mo­rali, Lenin, non appena si insediò nel Palazzo d’Invemo, iniziò a costruire il primo Stato totalitario del XX secolo, centrato, in maniera tipica, sull’uso terroristico della violenza”.

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da sola il maggior peso contabile delle vittime: l’intervento di Enrica Collotti Pischel è uno dei pochi che entra nel merito di una valutazione ge­nerale della repressione nella storia cinese, ribal­tando nel contempo l ’impostazione “grottesca” e “indegna da un punto di vista metodologico e del linguaggio” dello storico francese, il quale pro­porrebbe una “visione razzista della civiltà cine­se” considerata in sé “violenta”33. Nel ripercorrere i tratti essenziali della lotta rivoluzionaria, Col­lotti Pischel fa emergere come l ’accusa mossa ai comunisti cinesi di aver compiuto “infiniti cri­mini” stravolga il quadro di “una lotta lunga e sanguinosa” soprattutto per i rivoluzionari. Mao non negò mai che i contadini avessero “ammaz­zato un milione di proprietari” e che fossero “trop­pi”; ma aggiungeva che senza la guida e l’orga­nizzazione delle masse da parte dei comunisti le vittime sarebbero state molte di più, in una “lot­ta sociale senza esclusione di colpi dalle due par­ti”. Nel suo articolato intervento, che esamina la carestia fra il 1958 e il 1961 e il problema del­l’occupazione giovanile dopo il 196234, Collotti Pischel, contrapponendosi alla schematica rico­struzione di Margolin, si sofferma sulla fenome­nologia della società cinese ed in particolare sul­

la “logica del gruppo” allo scopo di capire le “tra­gedie della rivoluzione”, e mette in risalto come Mao abbia prima di tutto cercato di ribellarsi “al­l’ordine soffocante delle società confuciane”.

Il dibattito su “Il Manifesto” si è concentrato su alcuni nodi politici e storiografici, dalla re­sponsabilità dei comunisti, al ruolo del Pei nella società italiana, alla natura del sistema sovietico. Si tratta di una autoriflessione critica di notevo­le coerenza interna, di un dibattito politico cioè che non intende rispondere alla chiamata in cau­sa del Libro nero, ma che scaturisce dall’interro­gativo posto da Rossana Rossanda, se dall’idea di comunismo “derivi necessariamente un tota­litarismo”. Rossanda, in sostanza, si interroga sui motivi che hanno portato i partiti comunisti, una volta giunti al potere, a ricorrere, per un periodo più o meno lungo, alla repressione35. Nonostan­te giudichi il Libro nero “fazioso e raffazzonato”, Rossanda invita comunque alla sua lettura, “per­ché i comunisti non hanno fatto alcun bilancio dei socialismi reali, e tanto meno del perché la re­pressione ne sia diventata una struttura ordinati­va”36. Luciano Canfora giudica il Libro nero, dal punto di vista storico, una “ossessionante ripeti­zione del già noto”, utile strumentalmente per col-

33 Enrica Collotti Pischel, I crimini di Courtois nei confronti della storia cinese, “Il Manifesto”, 28 aprile 1998. “La cultura politica cinese in realtà non fu e non è ‘violenta’ più di qualsiasi altra: comparata alla storia dell’Europa, quella della Cina è anzi straordinariamente pacifica, fondata sui concetti di ordine, stabilità, prevenzione delle invasioni e delle cause di rivolta”.34 E. Collotti Pischel, / crimini di Courtois, cit. Inoltre Collotti Pischel precisa come la risposta alle ragioni della collettiviz­zazione accelerata non vada cercata sul terreno economico e sociale, ma strategico, perché il modello di riferimento non era la Russia, ma “la tradizione delle dinastie centrali del Nord”. Mao era infatti ossessionato dall’intervento americano e da quel­lo sovietico, per questo la “preoccupazione” maggiore era la “difesa della sovranità”.35 Rossana Rossanda, I comunisti e l'Urss, “Il Manifesto”, 14 gennaio 1998. Rossanda risponde alla domanda di Spinelli ri­guardo ai motivi del “silenzio” dei comunisti sulle “repressioni esercitate dal comunismo al potere”, ribadendo che la storia del comunismo non è soltanto quella dei socialismi reali, ma è anche storia di “milioni di persone” che si sono battute per la libertà, “pagando più di chiunque altro”. “I comunisti furono combattuti con tutti i mezzi, legali e illegali, per quel che erano, cioè militanti di un’idea democratica e socialista che intendeva mettere dei limiti alla proprietà”, perciò, Rossanda sostiene che fare un bilancio del comunismo senza tenere conto di che cosa abbiano significato le idee comuniste e la storia del mo­vimento nel suo complesso, “è poco serio”. Inoltre disvela la natura di “operazione politica” del dibattito sino a quel momento, mirante a “delegittimare moralmente i pochi comunisti che in Italia e in Francia restano necessari alle maggioranze di gover­no, oltre che i molti che tali si definivano fino a meno di dieci anni fa e costituiscono da noi ancora il più grande partito”. In­fine critica duramente il Libro nero, un testo “tanto discutibile che i suoi stessi autori si sono dissociati dalle conclusioni del curatore e prefatore Stéphane Courtois, che l’intera scuola di Furet non tenera con il comunismo, ha considerato disonoran­te. Spinelli, Viola e Galli della Loggia lo sanno bene, ma — silenzi silenzi — non lo scrivono”.36 R. Rossanda, Un secolo al rogo, “Il Manifesto”, 25 febbraio 1998. “Fazioso perché parte dalla tesi che qualsiasi comuni­smo è destinato a reprimere la società nella quale, e magari con il consenso della quale ha alimentato una rivoluzione”, ossia perché avrebbe la “pretesa utopica di cambiare l’ordine naturale della proprietà e del mercato”. “Raffazzonato perché, opera di mani diverse, alle vistose differenze di taglio assomma numerose discordanze”. “Non è la storia dei socialismi reali, è un bilancio della repressione che misero in atto”.

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pire i comunisti e “chiudere una volta per tutte in Occidente la questione comunista”37, e risponde a Rossanda ricordando la fucilazione dei 30.000 Comunardi a Parigi come evento “indelebile” ed “istruttivo” soprattutto per i bolscevichi, i quali — continua Canfora — all’indomani della presa del potere, si posero come imperativo quello di “non finire come i Comunardi”. Non solo la Co­mune, ma anche la stessa Rivoluzione francese fu “maestra di esperienze politiche e di insegna- menti”: i bolscevichi cioè dovevano “fare meglio di Robespierre, non fare gli errori della Comune. E di qui che nasce la spirale della repressione”. Canfora individua inoltre un elemento esogeno: il 1914, la “scelta omicida” della guerra da parte della borghesia, che imprime una “svolta milita­re” e dà vita al “secolo breve”, per cui “tutto ciò che è venuto dopo non è che un ineluttabile teo­rema'’38. David Bidussa è critico rispetto alle ar­gomentazioni proposte da Canfora, perché, seb­bene non si possa negare il clima di violenza nel quale si inserisce la Rivoluzione d ’Ottobre, ac­cettandolo quale criterio interpretativo si corre però il rischio di una riflessione storico-genetica sul tipo di quella di Nolte, dove la violenza vie­ne appunto spiegata come “replica” difensiva a una minaccia dichiarata39. Critico verso le argo­mentazioni di Canfora, Pietro Ingrao ripercorre il

proprio passato di militante, cercando di rispon­dere al “grave interrogativo” di Rossanda, con il “peso” e il “coraggio non solo di riconoscere i no­stri errori e le nostre responsabilità, ma di inda­gare le cause profonde non solo dei massacri a cui si è giunti, ma della nostra sconfitta”40. Dis­sentendo profondamente da Canfora, che spiega le repressioni del regime sovietico “con i delitti compiuti dalla borghesia”, per Ingrao “su quella strada insanguinata il comuniSmo è fatalmente sconfitto”. Ovvero, la “colpa” che Ingrao sente pesare su di sé non è solo quella di aver taciuto sui massacri, ma quella di non aver capito che la “strada militare”, la repressione, “portava alla cri­si delle nostre più alte speranze”.

Alcuni nodi più attinenti alla storia del pen­siero politico vengono affrontati negli interventi di Giuseppe Chiarante e di Aldo Tortorella, che partendo dall’interrogativo posto da Rossanda concordano nell’individuare l’asse del problema nello “scollamento tra il blocco delle forze so­ciali che hanno partecipato alla rivoluzione e il blocco delle forze sociali di una edificazione so­cialista”. Tuttavia per Chiarante non è sufficien­te rifarsi, come avviene spesso, all’arretratezza culturale della vecchia Russia del 1917 e “alla contrapposta violenza delle classi conservatrici”, in quanto la radice teorica degli errori e dei cri-

37 Luciano Canfora, La comune sconfitta, “Il Manifesto”, 28 febbraio 1998. “In Italia ciò ha un preciso punto di riferimento: la stesura di una nuova Costituzione in cui il peso che ebbero i comunisti nella stesura di quella del 1948 sia annullato. Di qui l’aspetto miserabile (sul piano etico) dell’attuale lotta parlamentare in Italia: una partita in cui il ‘pentimento’ e la ‘presa di distanza’ dal rispettivo passato vengono contrattati, sia a destra che a sinistra, per pareggiare i conti di oggi facendo strame della verità storica di allora. Ma anche questo è un interessante fatto storico”.38 L. Canfora, Una tragedia consumata all’ombra della violenza, “Il Manifesto”, 3 marzo 1998. Per Canfora il problema sto­rico non è quello posto dal Libro nero, cioè che il comuniSmo sia una utopia criminogena tanto quanto il nazismo, né il que­sito posto da Rossanda sul perché il comuniSmo abbia gestito il potere praticando la violenza, ma, perché, proprio in virtù del­la gestione del potere, “non sia riuscito a realizzare un diverso ordine economico”.39 David Bidussa, Utopia a regime, “Il Manifesto”, 10 marzo 1998. Significative sono anche le riflessioni sul comuniSmo come movimento messianico che ha costruito la sua realtà su un “vissuto religioso”, e che ha creato un linguaggio economico e so­ciologico fondato su una logica lineare che permetteva di spiegare il passato e di “pianificare” l’avvenire. “Ma aveva dalla sua anche qualcosa di altro, ovvero l’idea di fornire una norma e di rispondere a un’ingiustizia. Lungo la sua strada ha costruito la sua ipotesi su una enorme quantità di morti provocati e subiti. Se vogliamo c’è un universo tragico che attraversa sottotraccia tut­to questo secolo di cui il comuniSmo è parte in causa, ma che non si risolve né espellendolo dalla storia, né esorcizzandolo”.40 Pietro Ingrao, La via m ilitare a l comuniSmo, “Il Manifesto”, 1° marzo 1998. “C’è poi una cosa che io non pretendo che sia riconosciuta dall’anticomunismo, e che forse appare impossibile anche a chi non è lontano dalla sinistra. Se guardo alla sto­ria del mio paese è un fatto — almeno per me — che la militanza comunista e prossima ai comunisti è stata feconda non so­lo della vittoria contro il nazifascismo, ma anche — in tanti strati e città di questo Paese — di forti e diffuse conquiste di li­bertà, di spazi sottratti al dominio dei ceti possidenti, di educazione al dialogo, di tutela degli oppressi. E credo non solo in Italia”.

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mini dello stalinismo sarebbe da ricondursi alla Seconda Intemazionale, che interpretò la marxia­na “società comunista” non come “società dei li­beri e degli eguali”, ma come estremizzazione della “dittatura del proletariato”41. Quindi l’ori­gine dei crimini del comuniSmo è da ricercare in questo svuotamento dell’originale idea marxiana della “società comunista” a favore di una pro­gressiva “accentuazione statalista e economici- sta”42. Tortorella ricorda che Gramsci definì quel­la russa una rivoluzione “volontariamente” for­zata rispetto alla teoria di Marx, in quanto si af­fermava l’idea “della costruzione socialista come imposizione di un modello economico sociale”, “garantito” dal partito, depositario della verità43. Né il “testamento di Lenin” sui tratti autoritari di Stalin, né la lettera di Gramsci del 1926 sull’in­tolleranza nel partito russo potevano correggere un tale indirizzo. Tortorella precisa tuttavia che questo non deve ostacolare il tentativo di com­prendere il paradosso per cui “al massimo della repressione staliniana si unisse il massimo del consenso nel mondo”. Al riguardo Bidussa ricor­da che durante lo stalinismo è esistito un forte consenso interno, ignorato non solo dal Libro ne­ro, ma anche da molti studi che del regime so­vietico proponevano una analisi concreta. Non è emerso un interrogativo importante, cioè “come un regime di terrore si sia mantenuto”44.

“Tutf altro che nuovo” è per Marcello Flores l’interrogativo posto da Rossanda, essendo una

problematica che ha accompagnato tutta l’espe­rienza sovietica. Flores si domanda infatti perché “quella domanda” non sia stata posta con ugua­le “nettezza” non tanto nel ‘56 o nel ‘68, ma nell’8945. È inutile anche l’invito di Rossanda a leggere il Libro nero per un “bilancio dei socia­lismi reali”, perché in questo modo si dimentica “la lunga biblioteca” dei dissidenti, dei comuni­sti critici e degli anticomunisti, ricca di analisi valide: ignorando questa letteratura si è invece dovuto aspettare “Courtois e il suo piazzista Ber­lusconi per poterlo fare”. Flores sottolinea poi co­me la repressione non sia da imputare all’accen­tramento dei poteri nel partito, ma sia invece “fi­glia legittima e necessaria” del sistema stesso. Le particolari forme del potere che si incontrano lun­go il cammino storico dell’Urss sono scritte in quell’ideologia “che aveva trapiantato il marxi­smo occidentale nel volontarismo populista” e trasformato il partito in centro propulsore e gui­da della rivoluzione e della costruzione sociali­sta. È questo il cardine della “furba e provocato­ria” introduzione di Courtois: presentando il ca­rattere “criminale” come connaturato all’espe­rienza comunista non viene dato un giudizio sto­rico, ma si tenta di delegittimare le radici, le ori­gini del regime comunista, dichiarando impossi­bile ogni rivoluzione e discreditandone moral­mente l ’idea stessa46.

La tesi principale del Libro nero, contenuta nel­le pagine introduttive e conclusive di Courtois, in-

41 Giuseppe Chiarante, Nel regno della necessità, “Il Manifesto”, 6 marzo 1998.42 G. Chiarante, Nel regno della necessità, cit. “L’idea dell’estinzione dello Stato e di una società compiutamente liberata non era del tutto messa da parte: ma, con un esercizio di cattiva dialettica, veniva presentata come il rovesciamento finale del mas­simo di uso coercitivo del potere statale per superare le disuguaglianze di classe”.43 Aldo Tortorella, L'esempio imperfetto, “Il Manifesto”, 13 marzo 1998. “La scoperta marxiana della storicità dell’economia come costruzione di un sistema di relazioni umane e non come pura e semplice naturalità, si trasformava così nella idea di una possibile trasformazione economica senz’altro vincolo che quello della immaginata razionalità del progetto. Qui sta il germe della trasformazione di un pensiero critico in dogma, con le conseguenze inevitabili”.44 D. Bidussa, Utopia a regime, cit. “In altre parole: quanto l’uso delfargomentazione retorica della minaccia esterna ha un suo specifico nell’esperienza del movimento comunista e quanto, anche, si trasporta dietro della mitologia della preservazio­ne dell’“anima slava”? Capisco che possano apparire interrogativi poco emozionanti, ma se provo rispetto e compartecipa­zione per la vicenda personale del dissidente Solgenitsin, non vedo dove il modello societario contenuto nella sua proposta politica dovrebbe apparirmi meno terrorizzante di quello di cui è stato vittima”.45 Cfr. M. Flores, Il ruolo del crimine nel sistema comunista, “L’Indice”, marzo 1998, e La storiografia dei vincitori, “Il Ma­nifesto”, 19 marzo 1998. Si veda anche Id., In terra non c’è il Paradiso, cit..46 Cfr. M. Flores, La storiografia dei vincitori, cit. “Per anni la storiografia di sinistra è stata accusata, in parte a ragione, di dare del fascismo un’immagine vera ma parziale perché viziata dal paradigma antifascista e dall’opzione morale che lo so­steneva: e che evitava di affrontare temi ‘scomodi’ (il consenso, i risultati sociali ed economici, l’isolamento dell’opposizio-

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dica il “crimine” come la vera e unica essenza del comuniSmo, operando un riduzionismo storio­grafico che è tipico della storiografia revisioni­stica “monocausale”. Se l ’essenza del comuniSmo si manifesta attraverso l ’apparire della crimina­lità, il fenomeno (crimine) e l ’essenza del comu­niSmo si presentano come termini di un’unica re­lazione essenziale. Non vi può dunque essere che un unico scopo della ricerca storica, quello della contabilità dei morti provocati, fenomeno ed es­senza del comuniSmo. I morti contabilizzati, og- gettivandosi, sono comuniSmo esteriorizzato e realizzato. Il Libro nero più che un testo di ricer­ca storica è uno strumento di battaglia ideologica e politica, che andrebbe studiato anche dall’otti­ca della teoria della comunicazione. Nel delinea­re il comuniSmo come una “categoria metastori­ca patologicamente in grado di occupare un se­colo intero”47, si punta a criminalizzare l ’idea stes­sa di ogni possibile mutamento rivoluzionario, in quanto pone gli “individui e i popoli di fronte ai limiti rigidi [dato naturale] e ai rischi mortali [pro­getto criminale] impliciti in ogni pretesa di radi­cale trasformazione dell’esistente”48.

In questo dibattito giornalistico sul Libro nero la criminalizzazione del comuniSmo— sia di quel­lo al potere che di quello all’opposizione — e la conseguente campagna accusatoria contro la tra­dizione comunista in Francia e in Italia fanno rie­mergere con forza da un lato la rivendicazione di un ruolo storico vitale e positivo dell’anticomu­nismo nella costruzione e nella difesa della de­mocrazia, e dall’altro la delegittimazione del­l’antifascismo e l’attacco ai suoi valori. Sul “Cor­

riere della sera” Angelo Panebianco rivendica va­lore politico “agli anticomunisti di allora” e si sca­glia contro una interpretazione della storia d ’Ita­lia “menzognera” perché screditava moralmente e politicamente l’anticomunismo che ha avuto in­vece il merito di aver difeso la libertà e la demo­crazia odierna dai comunisti49. Galli della Loggia accusa l ’ex Partito comunista di non voler rico­noscere il valore dell’anticomunismo, “la funzio­ne necessaria che esso assolse insieme all’antifa­scismo in difesa della democrazia”, e denuncia il silenzio sui crimini del comunismo in quanto stru­mentale a “togliere significato storico e sostanza democratica all’anticomunismo che quei crimini vide, denunciò e combattè”50. Spinelli chiede una rivalutazione globale dell’epoca della guerra fred­da, tale da evidenziare come la Resistenza anti­fascista sia “monca”, in quanto “i resistenti” do­po il 1945 non continuarono “la lotta ideale” con­tro l’Urss51. Di diverso taglio gli interventi di Leo­nardo Paggi, che invita a liberarsi dell’anticomu­nismo e a “distinguere tra le molte facce di un fenomeno storico complessivo e polivalente”52, e di Pirani, che si domanda quale significato possa assumere oggi fanticomunismo come “pratica po­litica e ideale”, e pur riconoscendone la funzione “decisiva” durante la guerra fredda nella difesa della democrazia, sostiene che con la scomparsa dell’Urss abbia “segnato il suo passo”53.

Questa “trascrizione giornalistica” della storia ha il suo vero asse portante in quel revisionismo che individua l’origine di ogni male del secolo nella Rivoluzione d ’Ottobre, per cui fascismo e nazismo non diventano altro che una risposta al

ne, la partecipazione della cultura al regime) riducendo tutta la sua storia alla ‘sostanza’ che si identificava nell’organizza­zione repressiva e autoritaria del potere. Perché mai, proprio quando gli studi sul fascismo e il nazismo hanno fatto passi da gigante, per quelli sul comuniSmo si dovrebbe tornare a schematismi da guerra fredda invece di approfondire le diverse e spes­so antagoniste ipotesi di ricerca che emergono da storici di differenti paesi e orientamento?”47 B. Bongiovanni, recensione a M. Flores, In terra non c'è il Paradiso, cit.48 Remo Bodei, introduzione a Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Milano, Garzanti, 1994.49 Angelo Panebianco, Peso della storia e scelte a sinistra, “Corriere della sera”, 19 gennaio 1998. “Sono anch’io d’accordo che bisognerà, prima o poi, scordarsi il passato. Ma il passato lo neutralizzeremo solo quando i pidiessini renderanno final­mente omaggio a quegli anticomunisti della Prima Repubblica i cui errori, anche i più gravi, non possono comunque oscura­re il grande merito: quello di avere difeso dai comunisti quella libertà di cui oggi possiamo godere tutti”.50 E. Galli della Loggia, La storia d’Italia riscritta dal Pds, cit.51 B. Spinelli, La memoria oscurata, cit.52 Leonardo Paggi, Ma cosa c’entra la sinistra con i crimini di Stalin, “l’Unità”, 6 gennaio 1998.53 M. Pirani, Quando si confonde la storia con la politica, cit.

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comunismo. Alcuni degli interventi qui riportati testimoniano la ricaduta politica di questo revi­sionismo (che aveva trovato in François Furet uno dei più alti punti di riferimento), tendente a ri­scrivere la storia nell’ottica dei vincitori della guerra fredda, screditando e delegittimando l ’o­perato del movimento comunista, della Resisten­za europea e quindi dell’antifascismo, e operan­do, al tempo stesso, una rivalutazione dell’anti­comunismo sino a riconsiderare positivamente in questa chiave gli stessi regimi fascisti54. Furet, ne Il passato di un’ illusione, aveva offerto la base sostanziale alla delegittimazione dell’antifasci­smo55. Lo storico francese, partendo dall’assun­to cardine del revisionismo storico che tutta la po­litica comunista è “espediente propagandistico”, “inganno” e “dissimulazione”, ne deriva che an­che la problematica antifascista è espediente stru­mentale. Il comunismo, quindi, si appropria del­l’antifascismo per occultare la natura del regime sovietico e per facilitare il radicamento dell’idea di un comunismo democratico, ponendo così le premesse per la condanna senza appello dell’an­ticomunismo56.

Il carattere strumentale che viene attribuito al­l’antifascismo (succube di una presunta “egemo­nia” comunista, nel senso di un pieno controllo e indirizzo) sfocia nella delegittimazione del mo­vimento antifascista stesso. In realtà, come argo­menta Gianpasquale Santomassimo57, l ’antifa­scismo italiano è stato fenomeno ricco e compo­sito, e il comunismo italiano proprio in virtù del­l’intreccio con altre culture antifasciste è stato in­dotto a diventare “elemento indispensabile, co­

stitutivo, per la costruzione e la difesa della de­mocrazia in Italia”. Non a caso il movimento co­munista si trovò a combattere per l’attuazione del­la Costituzione, mirante a una trasformazione in senso democratico e solidale dello Stato, negli an­ni in cui Sceiba teorizzava che la Costituzione re­pubblicana era una “trappola” in cui il governo avrebbe dovuto guardarsi dal cadere58.

Se l’antifascismo è, come ha ricordato Franco De Felice, sanzionato come forza politica dalla guerra, è però con la Resistenza che acquista mo­tivazioni e finalità radicandosi nelle masse, per cui si presenta come un processo di lungo periodo. “L’atipicità dell’antifascismo come partito in fie­ni...] è quello di essere portatore di una proposta metapolitica: in questo senso Vanti è costitutivo come la pluralità degli elementi che la compon­gono”59. E certamente vero che l’antifascismo co­nobbe anche, in vari momenti, un uso retorico e propagandistico, ma questo è solo un aspetto, mar­ginale, della sua vicenda, in quanto l’antifascismo è stato una componente reale dei partiti e dei mo­vimenti popolari che si erano opposti al nazifa­scismo; e questo elemento costitutivo è il cardine della Costituzione italiana, come “negazione del­la negazione fascista della democrazia”, e quindi come sua piena affermazione. Ma la svalutazione dell’antifascismo e della Resistenza è da molti an­ni, del resto, un impegno quotidiano del revisio­nismo a senso unico dei mass media italiani, e 1 ’ ap­porto del Libro nero è stato, da questo punto di vi­sta, del tutto secondario: un piccolo affluente in un mare in piena.

Giulio Petrangeli

54 Da segnalare in proposito l ’operazione di Sergio Romano in un libretto edito da “Liberal” (La guerra di Spagna nei ricor­di personali di opposti combattenti di 60 anni fa) che concede a Franco un passaporto di liberale, mettendo in discussione il carattere fascista della sua dittatura.55 François Furet, Il passato di un’illusione, Milano, Mondadori, 1995, pp. 243, 257, 414,433.56 Quindi, nella rilettura di Furet, la seconda guerra mondiale si conclude non con una vittoria dell’idea politica democratica, bensì dell’idea comunista. Con il 1945 l’idea fascista continuerà ad esistere soltanto in “forma demonizzata”; man mano che vengono scoperti gli orrori nazisti, questi vanno a costituire “la sanzione morale della vittoria militare”. “L’idea fascista è di­sonorata non solo dalla sconfitta [...] ma dagli ultimi anni del nazismo che ormai la definiscono". Non importa che in Ger­mania, fino al 1941, gli arresti e gli assassinii siano stati meno massicci di quelli perpetrati in Unione Sovietica, perché, insi­ste Furet, “la verità del fascismo è contenuta negli ultimi quattro anni del nazismo”. Cfr. F. Furet, Il passato di un’illusione, cit., pp. 403-404 sg.57 Gianpasquale Santomassimo, Libertà comunista vo’ cercando, “Il Manifesto”, 17 maggio 1998.58 Cfr. Enzo Santarelli, Storia critica della Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1996.59 Franco De Felice (a cura di), Antifascismi e Resistenze, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pp. 14 e 27.

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Politica e polemiche nel dibattito storiografico su Palestina e Israele

Guido Valabrega

Da oltre dieci anni è in atto in Israele una vivace discussione sulle caratteristiche della storiogra­fia che ha tentato di analizzare il primo mezzo secolo di esistenza dello Stato. Tale dibattito è di fatto iniziato quando un nutrito gruppo di storici appartenenti alle nuove leve ha giudicato indi­spensabile indicare, verso la metà degli anni settanta, una via di emancipazione da quelli che considerava i prevalenti atteggiamenti di auto­glorificazione e di superficialità delle tradizio­nali ricerche gestite da\Y establishment. Come è comprensibile, il confronto si è presto dilatato de­stando pure T interesse di studiosi palestinesi, ara­bi e non ebrei specie negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia, desiderosi di verificare co­me veramente si siano mossi gli ambienti sioni­sti prima della fondazione dello Stato, quali i lo­ro obiettivi ed il senso dei miti fondativi della compagine statuale in cammino costruiti negli anni trenta e quaranta, e poi quali i rapporti con la dirigenza palestinese, gli Stati arabi e la po­tenza mandataria, come le organizzazioni mili­tari sioniste semiclandestine si sono trasformate in esercito assai efficiente, eccetera.

Di questo elevato numero di temi sui quali vec­chi e nuovi storici si sono confrontati con una po­lemica di grande impegno e tuttora in corso, non è evidentemente possibile dare adeguatamente conto in una semplice rassegna. Resta comunque il fatto abbastanza singolare che, mentre in vari paesi europei si nota una crescente presenza del­le tendenze rivalutative di ispirazione negazioni- stica e revisionistica, in Israele ed in campo ebrai­co-palestinese la ricerca più spregiudicata è im­

pegnata nel superamento delle descrizioni cele­brative e delle rievocazioni edificanti.

Muovendosi contro le forzature e le omissio­ni che hanno spesso occultato vicende ed acca­dimenti, quella che si è soliti definire la nuova storiografia israeliana sta, cioè, portando avanti un’approfondita opera di utilizzazione degli ar­chivi, di indagine sulle svariate fonti, di recupe­ro di testimonianze, di analisi della memoriali­stica e di confronto tra i testi. Tutto questo, riba­diamo, in molti importanti settori: il recente pas­sato ebraico e sionista con la persecuzione nazi­fascista, i complessi rapporti tra la popolazione palestinese ed i pionieri ebrei, il nodo del con­flitto del 1947-1949 che, attraverso l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi, portò alla fondazione dello Stato e, d ’intesa con la Tran- sgiordania ed il patrocinio britannico, ai nuovi confini; gli sviluppi successivi con gli armistizi che non divennero pace e la riapertura delle osti­lità nel 1956, 1967, 1973 o 1982; i caratteri del clima politico e culturale che s ’è affermato in Israele in parallelo con l’egemonia in campo sto­rico della mitologia nazionalistico-militare.

Di fronte alla quantità di pubblicazioni che ne sono scaturite pare quindi opportuno limitarsi a fornire qualche elemento in riferimento a taluni approdi ai quali s’è pervenuti ultimamente: an­che se non è sempre agevole orientarsi sia a cau­sa della difficoltà a recuperare libri, articoli ed interventi, sia per i problemi che si pongono nel cercare di seguire una controversia sovente spe­cialistica, in corso da parecchi anni nelle facoltà, negli istituti e nelle accademie militari israelia-

‘Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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ni, nelle redazioni delle riviste e dei giornali di mezzo mondo, in convegni ed in simposi con un continuo arricchimento di aggiornamenti e mes­se a punto.

Rinviando per una valutazione più completa al tentativo di bilancio sulla nuova storiografia israeliana che apparirà nella rivista “Studi pia­centini” dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea attivo nella città emilia­na, forse la cosa più semplice è prendere le mos­se dal volume di Norman C. Finkelstein, Image and Reality ofthè Israeli-P ale siine Conflict (Lon­dra, Verso, 1995) che, affrontando parecchi temi, può costituire una positiva occasione di rifles­sione in diverse direzioni.

Tale opera è suddivisa in vari capitoli che in­tendono mettere a fuoco e ridimensionare alcuni “miti” tipici della temperie statuale israeliana. Ad esempio, nel capitolo 2, essa si sofferma su Una terra senza popolo. Il mito del “deserto” di Joan Peters. In tali pagine l ’autore, docente all’Uni­versità di New York, si volge indietro per rico­struire con forte partecipazione personale la gran­de discussione, sviluppatasi principalmente ne­gli Stati Uniti alla metà degli anni ottanta, ap­punto sul volume della Peters From Time imme- morial. The Origins ofthe Arab-Jewish Conflict in Palestine (New York, Harper & Row, 1984). In breve, quello della Peters fu forse l’ultimo ten­tativo rilevante, in quanto appoggiato dall’intero apparato sionistico israelo-americano con ecce­zionale sostegno dei mezzi di comunicazione di massa, di cancellare, almeno teoricamente,‘i pa­lestinesi dalla faccia della terra. La tesi centrale della Peters — centrale quanto scarsamente fon­data, come contribuisce a dimostrare Finkelstein — era che la maggioranza della popolazione pa­lestinese non fosse palestinese, ma costituita da arabi immigrati in Palestina dai paesi circostan­ti per usufruire delle possibilità di lavoro e dei vantaggi complessivi che sarebbero stati offerti dalla presenza della colonizzazione sionista. Per tali presunti motivi, l ’allontanamento e la fuga durante il conflitto del 1947-1949 sarebbero sem­plicemente ritorno alle sedi d ’origine, con buo­na pace delle indicazioni della giurisprudenza sui

diritti acquisiti dai residenti oltre che di quelli dei cittadini. Inesistenti risulterebbero dunque le re­sponsabilità israeliane per l ’espulsione, nulle le pretese dei palestinesi di essere reintegrati nei lo­ro beni, nulle le facoltà di rimpatrio.

Assai interessante è il capitolo 4, intitolato In­sediamento, non conquista. Il mito delle “buone intenzioni” e dedicate alla storica israeliana Ani­ta Shapira ed al suo libro Land and Power: thè Zionist Resort to Force 1881-1948 (New York, Oxford, University Press, 1992). Qui vengono messi in discussione tre generi di miti che hanno avuto ed hanno tuttora larga risonanza in Israele quali strumenti per indirizzare specialmente i set­tori dell’opinione pubblica che si riferiscono al­l’area laburista.

La prima di queste costruzioni retoriche d ’ im­pronta nazionalistica riguarda il significato del­l’insediamento in Palestina delle colonie ebrai­che. Esso non viene considerato dalla Shapira per quello che è, bensì come strada per l ’afferma­zione d ’una visione etnica misticheggiante che avrebbe dovuto contrassegnare il futuro Stato se­condo una concezione tipica del pionerismo la­burista-sionista. L’opera di redenzione della ter­ra attuata dai colonizzatori sarebbe l’avvio d ’un processo di trasformazione e rigenerazione del paese realizzato in zone vaste e semispopolate o con proprietari assenteisti ed incapaci, un’opera che si pretende differente dalla logica della con­quista colonialistica dei territori strappati alla po­polazione locale. In verità, come ram m enta Finkelstein, si tratta d ’un ragionamento capzio­so, ripetuto in molte versioni dai colonialisti di ogni latitudine.

Un secondo mito portato avanti dalla Shapira è quello della presunta autodifesa sionista, di fat­to un mascheramento per occultare la conquista protetta, se del caso, dalle armi, riversando sui palestinesi la responsabilità del ricorso alla for­za. In collegamento con tutto ciò è preso in esa­me, in terzo luogo, il mito della purezza nell’u­so di quelle armi da parte delle organizzazioni sioniste-socialiste. Tale impiego sarebbe stato sempre guidato, in linea di principio ed in confor­mità con un severo inquadramento dottrinale, da

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criteri di impersonalità e razionalità. In effetti i risultati finali non sarebbero stati, tutto somma­to, molto diversi da quelli ottenuti dai militanti dell’estrema destra sionista con abusi, eccessi e gesti di violenza indiscriminata. Pur nella asso­luta convinzione di dover usare senza esitazione alcuna la forza allorché giudicato necessario, la Shapira è nondimeno impegnata a sottolineare l’ipotetica superiorità dell’azione pedagogica del laburismo che educava a non odiare il nemico e a non seguire un atteggiamento pregiudizialmente ostile verso gli arabi. Ciò fece sì che il compor­tamento “virtuoso” predicato, oltre a non impe­dire le “necessarie” soperchierie, durezze e re­pressioni, perdi più favorisse l ’ottundimento del­le coscienze di fronte ad azioni riprovevoli, il rammarico ipocrita di essere indotti dalle circo­stanze a fame di ogni sorta e quasi la colpevo- lizzazione delle vittime per i turbamenti indotti negli autori delle malefatte.

Detto di sfuggita, la Shapira non ha mancato di reagire alle argomentazioni di coloro che han­no saputo rilevare la scarsa fondatezza del lungo lavoro diretto a circondare d ’una aureola di di­gnità e correttezza l ’impresa sionista-socialista. Al riguardo si veda la rassegna di attacchi piutto­sto inviperiti contro diversi nuovi storici — an­che se non esplicitamente contro Finkelstein — in Anita Shapira, Politics and collective Memory: thè Debate over thè “New Historians" in Israel (“History and Memory”, Tel Aviv University, In­diana University Press, voi. 7, n. 1, primavera- estate 1995).

Il terzo capitolo del libro di Finkelstein, “Sca­turito dalla guerra, non da un progetto". Il mito della felice condizione intermedia, è dedicato, sempre con spirito critico, al più noto autore del­la nuova storiografia israeliana, vale a dire a Benny Morris ed al suo famoso volume sull’e­spulsione dei palestinesi The Birth o f thè Pale- stinian Refugee Problem 1947-1949 (New York, Cambridge University Press, 1987). In parte ri­prendendo giudizi negativi già espressi altrove, lo studioso americano cerca, comunque, di di­stinguere sin dall’inizio i meriti e le inadegua­tezze dei nuovi storici. Essi hanno saputo, per

esempio, mettere opportunamente in evidenza pa­recchie deformazioni esistenti nella ricostruzio­ne tradizionale del periodo incentrato sul con­flitto del 1947-1949: il movimento sionista sa­rebbe stato, invero, contrario alla spartizione del­la Palestina decisa dall’ONU puntando al con­trollo dell’intero paese; gli Stati arabi circostan­ti erano tutt’altro che compatti, anche nell’inten­zione di volere la distmzione del nascente Stato ebraico; la guerra non avrebbe posto a confron­to un fragile Davide ebraico contro un Golia ara­bo relativamente potente; i palestinesi non pre­sero la fuga in ossequio ad ordini di capi arabi; Israele non si sarebbe impegnato effettivamente nella ricerca della pace quando si conclusero le operazioni belliche.

D ’altro canto, non mancherebbero nelle ana­lisi di Morris appunto contraddizioni e carenze. Se nella maggior parte dei casi i palestinesi fu­rono effettivamente espulsi dalle loro terre, di­venterebbe impossibile sostenere, come invece fa questo autore, che la loro tragedia sia stata de­terminata dalle circostanze della guerra e non da un disegno prestabilito. In pratica, Morris tende­rebbe a lasciare in secondo piano la verifica del­le origini e della dinamica della prima guerra ara­bo-israeliana, sottovalutando i motivi centrali che sono a fondamento della volontà di cacciare i pa­lestinesi e di allargare le frontiere dello Stato. In altre parole, egli invertirebbe i termini del rap­porto tra aspetti politico-ideologici e sicurezza: per gli israeliani non si trattava tanto di ottenere garanzie diplomatiche e militari, quanto di ripu­lire l ’ambito del futuro Stato dal massimo nu­mero possibile di cittadini non ebrei.

In conclusione, Finkelstein giunge a sottoli­neare che molti degli spunti sui quali si sofferma la più recente storiografia israeliana non sareb­bero veramente nuovi, ma rinvenibili, in una for­ma o nell’altra, pure in talune opere dei compi­latori della storia ufficiale. Sotto un profilo com­plessivo, gli studi di Morris e degli altri costitui­rebbero comunque tappe significative per proce­dere verso l’auspicata svolta.

Gli esponenti della nuova corrente storiogra­fica — un gruppo, per la verità, assai frammen­

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tato, di cui può dirsi al massimo che tre ne siano i personaggi di punta, Morris, Ilan Pappé ed Avi Shlaim — non hanno mancato di replicare alle osservazioni ed alle stroncature provenienti dai vari angoli visuali. Per quanto riguarda Morris, chiamato in causa innumerevoli volte, desideria­mo richiamare l’attenzione sul saggio The New Historiography: Israel and its Past (che apre la sua raccolta di scritti 1948 and After. Israel and thePalestinians, Oxford, Clarendon Press, 1990), aggiornato ed ampliato nell’edizione del 1994. Ne\V Aggiunta-maggio 1993 (p. 35), Morris ri­sponde ai detrattori più rigidi tanto in campo ara­bo ed antisionista, quanto tra i fautori dell’apo­logetica filoisraeliana. Negli uni e negli altri sa­rebbe da notare una speculare volontà di sche­matizzazione e l ’intento di ridurre, se possibile, ad un’unica e singola causa esplicativa l’intero esodo palestinese del 1947-1949 che riguardava, ricorderemo, circa 800.000 persone. Se per i pri­mi tutto si ridurrebbe al premeditato e sistemati­co intento di attuare la cacciata, per i secondi ogni vicenda si spiegherebbe con gli ordini dei diri­genti palestinesi ed arabi — ordini di fatto mai reperiti — che ingiungevano alla popolazione di allontanarsi.

Morris ha cercato, dunque, di portare avanti un’indagine scrupolosa su tutti gli avvenimenti grandi e piccoli verificatisi durante la graduale occupazione israeliana evidenziando analogie _e differenze nella situazione di ogni città e villag­gio palestinese. Egli ha potuto così ricostruire il quadro generale delle iniziative e delle reazioni, dei timori e delle suggestioni, delle impressioni e delle prevenzioni che muovevano singoli re­parti o formazioni più estese dell’esercito israe­liano vittorioso. In realtà vi furono molti casi di massacri ed espulsioni forzate, in altri la fuga av­venne per il clima complessivo determinatosi sen­za che in precedenza si fossero verificate ucci­sioni o violenze; in altri ancora la molla della mi­naccia e dell’azione contro i civili e della spinta all’esodo scaturì da imprevedibili meccanismi lo­cali. Se non ci si impegna in queste verifiche me­ticolose ed equilibrate, quale storia complessiva sarà possibile delineare?

Ma per comprendere l ’ambiente in cui opera­no i nuovi storici e la difficile battaglia da essi condotta è indispensabile tenere presenti gli in­dirizzi di quegli orientalisti ed esperti del Vicino Oriente che Morris, pungentemente, definisce “i nuovi vecchi storici”, cioè di coloro che, soven­te collegati con i servizi segreti o con altri uffici governativi, formano larga parte dei dipartimen­ti universitari e dei centri di ricerca. Ciò che li ac­comunerebbe al passato e tra di loro sembra es­sere la convinzione che Israele abbia avuto sem­pre o quasi sempre ragione e che gli arabi abbia­no sempre avuto torto, che gli israeliani siano sta­ti buoni ed i palestinesi cattivi, che i primi vo­lessero la pace e gli altri no, che gli israeliani fos­sero deboli ed i combattenti avversari più nume­rosi e più armati. Per definire sinteticamente l ’im­postazione a cui si rifanno i vecchi nuovi storici, ci si può riferire al giudizio espresso, secondo Morris, da uno di loro, Itamar Rabinovich, già rettore dell’Università di Tel Aviv e direttore del Centro Dayan e successivamente ambasciatore negli Stati Uniti: della storiografia israeliana “è necessario correggere ed affinare la versione or­todossa”.

Va aggiunto che, ovviamente, dietro gli attac­chi accademici vi sono sovente finalità politiche. Ad esempio Immanuel Sivan dell’Università ebraica di Gerusalemme, illustre rappresentante dei nuovi vecchi storici, per denunciare il pre­sunto filo arabismo fuorviarne di Morris giunge a contestarne in modo quasi provocatorio la com­pletezza della documentazione relativa a ll’e­spulsione da Lydia e Ramle nel luglio 1948 in quanto non avrebbe fatto riferimento alle me­morie di George Habbash, capo del Fronte po­polare per la liberazione della Palestina. Morris ha buon gioco nel ribattere che non risulta ne­cessario ricorrere ai ricordi del dirigente palesti­nese scritti decenni dopo i fatti, dato che è pos­sibile disporre ampiamente di documenti israe­liani ed occidentali dell’epoca che descrivono quanto accadeva nelle due città ora per ora e tra­gico passo dopo passo. Per sottolineare poi le cen­sure e le autocensure che incidono in modo con­tinuo sull’attività degli storici, Morris racconta

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come, durante la conferenza sulla nuova storio­grafia tenutasi nel 1989 all’Università di Tel Aviv, uno dei partecipanti gli dicesse in una pausa: “So molto di più sulle atrocità commesse dalle trup­pe israeliane nel 1948 di quanto è stato scritto nel vostro libro, ma non ne scriverò mai”.

Infine si possono ricordare con Morris le con­clusioni delineate da Uri Bialer dell’Università ebraica di Gerusalemme, nella conferenza tenu­tasi in tale ateneo nell’aprile 1993. Con un at­teggiamento un poco olimpico il cattedratico si era impegnato a delineare il gioco dialettico tra gli storici degli opposti schieramenti in termini di confronto tra vecchio e nuovo, che una sinte­si ulteriore avrebbe portato a superare. Secondo altri, occorreranno invece decenni di scavo e la­voro su tutto un arco di temi di grande rilievo pri­ma di pensare non ad un qualche recupero dei vecchi indirizzi, ma al delinearsi di nuove impo­stazioni.

Quanto alle pubblicazioni più recenti, richia­merei l ’attenzione su almeno un saggio che fa parte della raccolta curata da Ilan Pappé Jewish- Arab Relations in Mandatory Palestine. A new approach in thè historical research (in ebraico, Ghivat Chaviva , Israel, Jewish Arab Center for Peace, 1995). Fra numerosi interventi assai ori­ginali, spicca il testo di Ioel Beinin, Knowingyour Enemy, Knowing your Ally. The Arabists ofHa- shomer Hatzair, che esamina in particolare qua­li fossero gli indirizzi, le proposte, le divergenze e le remore nell’affrontare la questione palesti­nese all ’ interno del gruppo sionista-socialista del­la Giovane Guardia (Hashomer Hazair), il movi­mento trainante della sinistra sionista che costi­tuì larga parte del Mapam (sigla di Partito ope­raio unificato) dal momento della fondazione, nel 1948. Ricordiamo per inciso, per avere un riferi­mento quantitativo, che il Mapam alle prime ele­zioni israeliane del 1949 otterrà 19 seggi su 120 e alle elezioni del 1996, nella nuova cornice del Merez, 9 deputati.

In questa sede, ci limitiamo a sottolineare co­me la parte più incisiva del saggio di Beinin, pro­fessore di Storia del Medio Oriente presso l’U­niversità di Stanford in California, riassuma l’at­

tività della Sezione araba del Kibbus Arzì (la Fe­derazione di colonie collettive — kibbuzzim — promossa e guidata dall’Hashomer Hazair), isti­tuita nel 1941 con il compito di organizzare un’a­zione politica comune arabo-ebraica. Ricordia­mo che già allora tra palestinesi e sionisti esiste­vano incomprensioni di fondo che minavano al­la base ogni prospettiva conciliativa; nondime­no, stante la posizione minoritaria nel campo sio­nista dell’Hashomer Hazair, allora impegnato a disegnare un progetto di futuro Stato binaziona- le, e considerato il clima d ’unità antifascista del­la seconda guerra mondiale (le truppe tedesche minacceranno d ’invadere dall’Egitto la Palesti­na), tenendo inoltre presenti le incertezze nel cam­po palestinese, piuttosto disunito, tale organismo ebbe una sua discreta sfera d ’azione.

Alla testa della Sezione araba si ritrovarono tre personaggi: Aharon Cohen (1910-1980) del kibbuz Shaar Hamakim, che ne fu a lungo la gui­da e l’animatore, Eliezer Be’eri (1914-1986) del kibbuz Hazorea e Yosef Vaschitz (1910-1992) del kibbuz Dalia. Orbene, pur nell’ambito d ’una vi­sione comune che presumeva che il sionismo so­cialista avrebbe recato ai palestinesi consapevo­lezza politica e di classe, tra Cohen da un lato e Be’eri e Vaschitz dall’altro vi furono in perma­nenza dissensi nell’approccio ai problemi e sui metodi per affrontarli: mentre Cohen s ’impegnò per una valutazione che viene definita realistica della situazione economica e sociale del mondo arabo, gli altri due inclinavano a una concezione paternalistica ed europeocentrica che sottolinea­va la scarsa consistenza del movimento naziona­le arabo insieme alla quasi inesistenza d ’una au­tonoma consapevolezza palestinese. Le disar­monie non erano solo ideologiche. Nel 1942, Cohen riuscì, come rappresentante della Confe­derazione del lavoro sionista, a farsi mandare in missione in Siria e in Libano dove ebbe intensi contatti con esponenti locali comunisti o sim­patizzanti. Nel 1943, con altri sostenitori della possibilità del dialogo con i palestinesi, partecipò ai colloqui con l’intellettuale comunista Abdal­lah Bandek di Betlemme (poi tra i dirigenti del­la Lega per la liberazione nazionale) allo scopo

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di dare concretezza all’idea dello Stato binazio- nale arabo-ebraico. La segreteria del Kibbuz Ar- z i \ però, respinse quel tentativo anche perché Be’eri minacciò le dimissioni se Cohen avesse insistito nello sviluppare le conversazioni.

La disparità di vedute è constatabile anche ne­gli scritti dei tre dirigenti della Sezione araba. Se­condo quanto riporta Beinin, ad esempio, Va- schitz si dilungava sui benefici che i palestinesi avrebbero alla fine tratto dal sionismo (cfr. Yo- sef Vaschitz, Gli arabi nella terra di Israele, in ebraico, Merhavia, 1947, p. 31. Di Vaschitz si possono leggere alcune pagine in italiano: Pace e non pace nel paese della pace, in Israele, nu­mero speciale della rivista “Il Ponte”, dicembre 1958, p. 1818). Dal canto suo Be’eri, in termini pessimistici, segnalerà che non era tanto il caso di chiedersi perché fosse scoppiato il conflitto tra arabi ed ebrei, ma quando e come (cfr. Eliezer Be’eri, Gli inizi del contrasto tra Israele e Ara­bi 1882-191P, in ebraico, Sifriat Paolim e Uni­versità di Haifa, senza data, p. 20). Di contro Cohen, sebbene a volte in modo non pienamen­te convincente, era più ottimista: una valida ini­ziativa politica ispirata a criteri socialisti avreb­be potuto permettere di arrivare alla compren­sione tra i due popoli.

In realtà, quando divampò la guerra del 1947- 1949 Cohen, assai informato, cercò di opporsi al­le peggiori violenze antiarabe e di indurre gli or­gani del partito a respingerle condannando i mi­litari membri del partito che avevano infranto le direttive. Gli altri due, invece, furono in sostan­za tra coloro che si allinearono rapidamente, e nonostante qualche protesta, alla nuova cornice organizzativa del Mapam, più disposta ad accet­tare l’oltranzismo del capo del governo e mini­stro della Difesa, David Ben Gurion.

Alla fine delle ostilità nel Mapam si aprì una polemica sul diritto dei palestinesi di iscriversi al partito come membri di pieno diritto. Nel no­vembre 1949 venticinque palestinesi formula­rono una richiesta in tal senso: fu loro conces­

so di costituirsi in Dipartimento arabo del par­tito, ma senza diritto alla partecipazione ad ogni sua attività. Pure a causa di questi scontri, Cohen si dimise nel novembre 1950 dalla Sezione ara­ba. Colui che si rammaricherà di più per quella decisione sarà il palestinese Rustum Bastuni, se­gretario per i problemi arabi del gruppo parla­mentare del Mapam. In seguito Cohen, che tra il 1958 ed il 1963 subì le persecuzioni ed il car­cere ad opera dei servizi di sicurezza, avrebbe scritto parecchi volumi sulla storia degli arabi e sulle vicende arabe contemporanee scegliendo sempre uno stile equilibrato, ostile allo spirito di superiorità europeocentrica, cercando, come affermò, di scrivere del popolo arabo così come avrebbe voluto che un arabo scrivesse del po­polo ebraico (A. Cohen, Israel and thè Arab World, in ebraico, Merhavia 1964, p. 14. Qui Beinin cita l’edizione inglese, London, W. H. Alien, 1970).

È sembrato utile richiamare alcuni dati d ’uno studio su una formazione del cosiddetto sionismo socialista (un binomio oggi prossimo a scom­parire dal panorama politico israeliano) per re­care una testimonianza circa l’impegno alla ve­rifica la più puntuale possibile della condizione israelo-palestinese da parte della nuova storio­grafia. Di questa tendenza, impegnata ad abbat­tere il muro delle deformazioni ed a restituire al­la storia i suoi caratteri di problematicità, pure gli ambienti culturali italiani cominciano a prende­re atto. Ciò sarebbe attestato, tra l’altro, dalla gior­nata di studio su questi temi tenutasi a Roma al­l’Istituto per l’Oriente nel dicembre del 1997 in occasione del centenario del Primo congresso sio­nistico di Basilea. Si tratta solo dell’inizio d ’un ripensamento sui palestinesi, gli israeliani ed i conflitti del Vicino Oriente che dovrebbe porta­re molto lontano: all’abbattimento di tabù anco­ra orgogliosi come gli storici israeliani più co­raggiosi, insieme ai colleghi palestinesi, hanno saputo fare.

Guido Valabrega

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Traforiti e ricerca

A scuola di razzismoIl corso allievi ufficiali della Gnr di Fontanellato

a cura di Paolo Ferrari e Mimmo Franzinelli

I documenti che presentiamo si riferiscono al “Corso di cultura politico-razziale” organizzato aH’intemo del corso per allievi ufficiali della Guardia nazionale repubblicana, svoltosi a Fon­tanellato, in provincia di Parma, tra il 15 marzo e il 22 agosto 19441. Si tratta del programma (do­cumento n. 1) e di sette dei tredici temi — con­servati nel carteggio riservato della Segreteria particolare del duce — prodotti dagli allievi alla fine del corso; per la quasi totale assenza di can­cellature, si può supporre che i testi costituisca­no delle ‘belle copie’, quasi tutte conservate ma­noscritte e poi battute a macchina evidentemen­te per essere conservate e rese più facilmente con­sultabili. Non si hanno molti elementi per ipo­tizzare i criteri con i quali questi tredici temi so­no stati selezionati, mentre il contenuto del fa­scicolo personale del maggiore Sergio D ’Alba—

componente dell’ufficio studi della scuola2 ed elemento di collegamento tra la Gnr e il Sid3 — nel quale le carte sono conservate, consente di di­re qualcosa sui motivi della loro presenza tra le carte di Mussolini.

Va subito detto che la rilevanza della docu­mentazione è legata, a nostro giudizio, essen­zialmente a tre fattori. In primo luogo essa testi­monia un impegno, nella formazione dei quadri della Gnr, non soltanto dimenticato da chi, agio- graficamente, si è occupato direttamente della scuola di Fontanellato4, ma comunque rilevante per quanti vogliano approfondire la vicenda, nel suo complesso, delle idee e delle pratiche anti- semite e razziste dell’ultimo fascismo, per il qua­le, programmaticamente, “Gli appartenenti alla razza ebraica sono nemici. Durante questa guer­ra appartengono a nazionalità nemica”5.

Queste pagine si basano sulla documentazione reperita presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma nel giugno 1997 e avreb­bero dovuto aprirsi con una introduzione scritta insieme a Massimo Legnani, al quale la documentazione era stata sottoposta e che ne aveva apprezzato l’interesse. La sua scomparsa costringe a presentare un testo sicuramente meno interessante in quan­to privo delle osservazioni di uno dei migliori conoscitori dell’Italia in guerra, sulla quale, per il periodo 1940-1943, stava scrivendo una monografia. Dedichiamo questo lavoro al ricordo di Massimo Legnani.11 documenti sono conservati nel fascicolo n. 498, “D’Alba Sergio”, in Archivio centrale dello Stato, Repubblica sociale ita­liana, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 47. Il fascicolo riporta a stampa l’acronimo Gnr e l’indicazione dattiloscritta: “Il corso di cultura politico-razziale tenuto dal marzo all’agosto XXIT presso la scuola allievi ufficiali della G.N.R. di Fontanellato”. Le date di inizio e fine del corso sono tratte dal programma del corso stesso (documento n. 1).2 Cfr. Emilio Cavaterra, Quattromila studenti alla guerra. Storia delle scuole Allievi Ufficiali della G.N.R. nella Repubblica Sociale Italiana, Roma, Editore Dino, 1987, p. 67.3 Cfr. Aldo Gamba, Cenni sui servizi militari e politici di spionaggio e di informazione, “Annali” della Fondazione Luigi Mi­cheletti, 1986, n. 2, p. 278.4 Cfr. E. Cavaterra, Quattromila studenti alla guerra. Storia delle scuole Allievi Ufficiali della G.N.R. nella Repubblica So­ciale Italiana, cit., nel quale Sergio D’Alba è indicato come incaricato di “Armi e Tiro”, senza riferimenti al corso di cui ci occupiamo. Si veda inoltre Id., Mezzo secolo in trincea. I "quattromila studenti" della Repubblica Sociale Italiana dalla guer­ra alla pace, Pisa, Nistri-Lischi, 1995.5 Così recita il settimo punto del “manifesto di Verona”, approvato dall’assemblea del Partito fascista repubblicano il 14 no­vembre 1943. Sul razzismo e l’antisemitismo della Rsi si vedano, oltre a Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il

‘Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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Più specificamente, confermano la tesi del- 1 ’ autonomia e specificità dell ’ antisemitismo e del razzismo fascista, rispetto alle interpretazioni ri­duttive che avvalorano la marginalità dell’espe­rienza italiana sulla base del confronto con quel­la tedesca (con l’implicita negazione di uno dei caratteri tipici del fascismo e di maggiore osta­colo a una sua riabilitazione) o, in alcuni casi, hanno addirittura sostenuto un’opera di attenua­zione da parte della Rsi delle iniziative tedesche. Come ha sintetizzato David Bidussa, “Non tutti gli antisemitismi portano ad Auschwitz e dunque P ‘assenza’ di Auschwitz non significa che si pro­duca un antisemitismo ‘posticcio’ e alla fine ‘in­nocuo’, oppure non si produca antisemitismo af­fatto”6 . I documenti qui presentati confermano l’osservazione di Liliana Picciotto Fargion che “gli organi dello Stato [repubblicano] furono in quanto tali pesantemente coinvolti nella perse­cuzione”7; “nella Rsi”, ha aggiunto Michele Sar- fatti sottolineando una prospettiva per ricerche in gran parte ancora da compiere, “l’antisemitismo costituiva un elemento fondante dello Stato e rap­presentava un fattore di dinamizzazione del par­tito fascista e della società tutta”8.

In terzo luogo, per lo studio della propaganda queste carte rivestono un duplice interesse. Da un lato permettono di conoscere un anello impor­tante del meccanismo propagandistico, che pre­vedeva cioè anche un’influenza diretta sulla for­mazione dei quadri della Gnr; d ’altra parte costi­tuiscono un tipo di documentazione tanto impor­tante quanto raramente disponibile, quella cioè che attesta la ricezione dei messaggi, nella fatti­specie dal contenuto razzista. Non si deve co­munque trascurare che, in questo caso, il ‘gene­re’ del documento — il tema cioè di fine corso (dal titolo “Come concepite un’azione razzista nella Repubblica Sociale”), funzionale alla valu­tazione del risultato dell’insegnamento, ma an­che, con ogni probabilità, burocratico suggello formale alla sua conclusione — sicuramente ha influenzato gli autori, giovani tra i 19 e i 25 anni di età, diplomati o studenti universitari9. Non a caso, si ripetono, spesso anche nell’ordine del­l ’esposizione, argomenti e concetti, dalla re­sponsabilità degli ebrei per la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre, ai caratteri attri­buiti alla “congiura ebraica”, ai concetti di stirpe, sangue, razza ariana e casta, alle iniziative razzi-

fascismo, Torino, Einaudi, 1971 (terza edizione riveduta e ampliata, ed. orig. 1961), la recente sintesi di Michele Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in Storia d'Italia. Annali 11, Gli ebrei in Italia, voi. Il, Dall’e­mancipazione a oggi, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1997 (le pp. 1741-1764 sono dedicate alla Rsi); si veda inol­tre Id., Le “carte di Merano" : la persecuzione antiebraica nell'Italia fascista, “Passato e presente”, 1994, n. 32, e soprattut­to i saggi compresi in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del centro Furio Jesi, Bologna, Grafis, 1994, in particolare gli studi di David Bidussa, 1 caratteri “propri" dell’antisemitismo ita­liano', Enzo Collotti, V antisemitismo tra le due guerre in Europa', Liliana Picciotto Fargion, La persecuzione degli ebrei 1943- 45; Mauro Raspanti, I razzismi del fascismo. Si vedano infine le relazioni di E. Collotti, Il razzismo negato, e Gianpasquale Santomassimo, Il ruolo di Renzo De Felice, presentate al convegno “Fascismo e antifascismo: rimozioni, revisioni, negazio­ni. La storia d’Italia dal fascismo alla Repubblica nel contesto europeo” (Roma, 21-23 aprile 1998), organizzato dalla Fon­dazione Corpo volontari della libertà con la collaborazione scientifica dell’Insmli e della Fondazione Luigi Micheletti.6 D. Bidussa, I caratteri “propri" dell’antisemitismo italiano; cit., p.l 14. Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., p. 450, secondo il quale “anche la tragedia degli ebrei italiani era in nuce nel fascismo” (ma su questo lavoro si veda quanto ricorda G. Santomassimo, Renzo De Felice e il fantasma di Mussolini, “Passato e presente”, 1998, n. 43, p. 130).7 L. Picciotto Fargion, La persecuzione degli ebrei 1943-45, cit., p. 136.8 M. Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, cit., p. 1744. Sulla questione si veda E. Col­lotti, Fascismo, fascismi, Firenze, Sansoni, 1989, pp. 56-57.9 Gli autori dei temi sono gli allievi ufficiali (tra parentesi l’anno di nascita) Luciano Chitarrini (1923), Piero (Pier Giulio se­condo il “Bollettino” sotto citato) Dalla Verità (1924), Araldo Forbicioni (1923), Gilberto Govi (1924), Nicola Guccione (1920), Giovanni Marconi (1923), Giovanni Meccoli (1925), Ermanno Migliarini (1925), Cesare Mosconi (1919), Nino (An­tonio secondo il “Bollettino” sotto citato) Muccioli (1922), Elio Rinonapoli (1925) Giglio Rustignoli (1922) ed Enzo Spinel­li (1924). Cfr. E. Cavaterra, Quattromila studenti alla guerra. Storia delle scuole Allievi Ufficiali della G.N.R. nella Repub­blica Sociale Italiana, cit., pp. 332-381, che riproduce il “Bollettino” del Comando generale della Gnr del 16 novembre 1944. In apertura all’elenco dei 2.175 allievi si legge: “Sotto la data del 10 settembre 1944-XXII i seguenti Allievi Ufficiali sono nominati sottotenenti di Complemento della G.N.R., con anzianità relativa corrispondente alla graduatoria”.

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ste che la Rsi avrebbe dovuto prendere, al ruolo che la propaganda e la scuola avrebbero dovuto avere10. Complessivamente i temi esprimono un giudizio implicitamente negativo sulle realizza­zioni del regime — anche in campo razziale — e veicolano posizioni mutuate dalla propaganda na­zista, con uno sforzo di ‘italianizzazione’ di teo­rie di importazione. Al di là delle citazioni quasi obbligate e di maniera, Mussolini non emerge co­me il demiurgo della Rsi: se lo si loda per la lot­ta antibolscevica ingaggiata nel primo dopoguer­ra e per il ruolo di legislatore razziale nel 1938, al di fuori di questi due momenti la sua figura si attenua e svanisce. Al contrario, Hitler non è mai nominato, ma dai temi stilati nella scuola di Fon- tanellato si desume che sono le sue teorizzazioni a campeggiare nelFimmaginario collettivo dei giovani allievi ufficiali della Gnr. Le elaborazio­ni dei corsisti di Fontanellato denotano l’assenza di valori specificamente nazionali, a livello poli­tico come sul piano culturale, se si astrae dai ri­ferimenti manierati alla ‘romanità’; idee guida e prospettive di vittoria sono significativamente mutuate dal bagaglio ideologico nazista. S’in- travvede, dietro affermazioni apodittiche e ot­timismi di facciata, la consapevolezza di trovar­si attestati nell’ultima trincea della storia e di po­terne uscire soltanto adottando il modello ger­manico. Ne scaturisce l ’insistente riproposizione — nella prospettiva del dopoguerra — di una so­cietà gerarchicamente ordinata, senza diritto di cittadinanza per i diversi e per i più deboli. Espres­sioni di avversione spietata verso chiunque non possa o voglia concorrere all’edificazione dello Stato nazifascista si alternano ad argomentazio­ni suffragate da fragili supporti tautologici.

I giovani allievi ufficiali della Gnr, addestrati in una palestra di odio e di fanatismo, sbandiera­no coordinate ideali piuttosto grezze, con som­marie rimasticazioni di concetti rintracciati nel­le opere di intellettuali fascisti (dall’antiborghe­se Gog del Papini all’esoterico II mito del san­gue di Evola) e parole d ’ordine recuperate dal­l ’arm am entario propagandistico del regim e (l’impero, il destino superiore assegnato all’Ita­lia, ecc.). Per l ’affermazione di questa piattafor­ma eterogenea e confusionaria, cementata da un patriottismo razzista, gli ufficiali dei “ragazzi di Salò” si batterono contro il nemico interno, che ai loro occhi rappresentava l’antitesi dei valori razziali e ideologici da essi propugnati. La lettu­ra dei temi — scritti da ventenni fieri “di avere una fede oltre che di fascisti, d ’italiani fanatici e coscienziosi” — evoca inquietanti domande sul­le responsabilità dei cattivi maestri che adde­strarono quei ragazzi all’odio cieco per mandar­li subito dopo allo sbando, a uccidere e a corre­re il rischio di venire uccisi per “l’idea-mito di una nuova era, alla costruzione della quale noi, pionieri, stiamo combattendo questa estrema guerra di razza” (Nino Muccioli).

Almeno tre dei tredici allievi del corso sull’a­zione razzista nella Rsi i cui temi sono giunti fi­no a noi persero la vita nella primavera 1945. Se­condo le indagini di Giorgio Pisano11, Ermanno Migliarini, appartenente al Battaglione “Perugia” della Gnr, fu tra gli ufficiali catturati e giustizia­ti il 28 aprile dai partigiani nel lecchese, in loca­lità Pescarenico. Giglio Rustignoli morì a Pia­cenza il 1° maggio, messo al muro col capo del­la provincia e altri notabili fascisti. Cavaterra, in­fine, riporta la notizia della morte di Enzo Spi-

10 Per la valutazione delle tematiche presenti in questi testi rimandiamo nuovamente a La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell' antisemitismo fascista, cit., e in particolare al saggio di M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit., e all’ampia bibliografia; per un confronto con vicende straniere, ai recenti saggi di Valentina Tortelli, La propaganda an­tisemita nella pubblicistica austrìaca dopo l’Anschluss e Valeria Gaiimi, La ‘‘guerre juive". La propaganda antisemita di "Je suis partout” nella Francia occupata, “Italia contemporanea”, 1997, rispettivamente pp. 229-256 e pp. 257-284. Alcuni temi degli allievi di Fontanellato riportano l’indicazione di alcuni “libri consultati”. Si tratta dei testi di S. D’Alba, Lezioni di cul­tura politica razziale (testo probabilmente a uso interno); Julius Evola, Il mito del sangue, Milano, Hoepli, 1937 (per un’edi­zione recente: Padova, Edizioni Ar, 1978); Giovanni Papini, Gog, Firenze, Vallecchi, 1931 (varie edizioni successive; tra le recenti: Firenze, Giunti, 1995, con prefazione di Enzo Siciliano); Giovanni Preziosi,1 protocolli dei savi anziani di Sion (va­rie edizioni, tra le quali Milano, Mondadori, 1945, 8“ edizione).11 Giorgio Pisano, Storia della guerra civile in Italia 1943-45, voi. Ili, Milano, Ed. Val Padana, 1974, pp. 1650 e 1751.

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nelli, nell’aprile del 1945, a Carbonera, in pro­vincia di Treviso12.

Il ripetersi delle argomentazioni fa pensare da un lato a convincimenti radicati e diffusi, dall’al­tro al mero adeguamento a un adempimento bu­rocratico, insomma alla volontà di dare una di­mostrazione voluta e apprezzata dai superiori. In ogni caso, come abbiamo detto, non sappiamo quanto siano rappresentativi i lavori giunti fino a noi, selezionati dallo stesso D ’ A lba, che li ha giu­dicati “alcuni dei più caratteristici o per maturità di pensiero o per sensibilità politica o per profon­dità di preparazione” (documento n. 1). D ’altra parte gli autori si sentivano probabilmente più li­beri di esporre il proprio estremo razzismo e an­tisemitismo proprio perché stavano scrivendo un testo a uso interno, per pochi lettori. Abbiamo ri­tenuto più utile pubblicare integralmente circa la metà dei temi — a nostro parere espressivi del lo­ro tono complessivo, scartando, per motivi di spa­zio, la possibilità di riprodurre tutti gli elaborati — piuttosto che proporre una antologia di brani tratti dai tredici lavori, mentre lasciamo ovvia­mente agli esperti di antisemitismo una loro più approfondita valutazione.

Qualche osservazione sugli elaborati proposti. Secondo Luciano Chitarrini (documento n. 2), l’attuazione dei principi razzisti è fallita per una serie di ragioni: il ritardo con cui si legiferò con­tro gli ebrei, la mitezza dei provvedimenti del 1938 e il cedimento a sentimenti pietistici nella fase re­pressiva; fatto tesoro degli errori commessi, i membri del “superstite ceppo ariano” anniente­ranno gli impuri, applicando estensivamente i principi dell’eugenetica razziale. Ai vertici della società si collocheranno “i discendenti puri e di­retti del ceppo di Ario”. Gli italiani, privi di ner­bo, sono recuperabili sul piano politico-militare con un’intensa opera propagandistica imperniata sul concetto di ‘romanità’, in chiave attualizzan­te. Si può notare che la valutazione negativa for­mulata da Gilberto Govi (documento n. 3) sulla legislazione razziale del 1938 — ritenuta poco funzionale, contraddittoria e non sufficientemen­

12 E. Cavaterra, Quattromila studenti alla guerra, cit., p. 72.

te punitiva — si coniuga con la rigida adesione al modello germanico, la cui adozione consentireb­be al popolo italiano, nella prospettiva dell’auto­re, di ritrovare le proprie radici imperiali. Una massicciaprofilassi etnica eliminerebbe “elementi bastardi che purtroppo oggi sono il punto nero del­la nazione”. Il suo antiebraismo costituisce un punto programmatico dell’“Ordine nuovo” tota­litario, egemonizzato dalla casta dei guerrieri, mentre allo Stato dovrebbe competere l’educa­zione dei fanciulli in strutture collettive.

Nicola Guccione (documento n. 4) concepisce la Gnr come l’equivalente fascista delle SS: un corpo rigidamente selezionato per epurare la re­pubblica, eliminando ebrei e massoni. L’azione razzista “assoluta e definitiva” dovrà essere con­dotta senza riguardi: “non conta se qualche inno­cente resta colpito: i nostri morti gridano a noi vi­vi di non avere pietà”. Sotto la scorza dell’odio razziale affiorano concetti avvitati su se stessi (“questi giovanissimi dovranno un giorno essere con noi, perché l’avvenire deve essere nostro”) e luoghi comuni (supremazia italica per privilegio divino e diritto acquisito, avendo Roma prodotto “sì larga schiera di santi, di navigatori, di inven­tori, di eroi”). E la categoricità con cui l ’allievo ufficiale auspica la soluzione finale contrasta con la consapevolezza della mancanza, nel popolo, di “una coscienza della razza italiana”.

L’antigiudaismo di Giovanni Meccoli (docu­mento n. 5) deriva da suggestioni religiose (“Ebreo, dunque, essere spregevole, specialmen­te dopo l’anno zero di Cristo”), patriottiche (ne­cessità di sconfiggere l’internazionalismo ebrai­co), autobiografiche (il ricordo dell’insegnante “ebreo tedesco” che g l’impartiva lezioni priva­te). La soluzione finale — eliminazione degli ebrei da compiersi con “segretezza, sorpresa, se­verità, estirpazione totale” — è concepita quale premessa programmatica della Rsi e denota una visione repressiva poliziesca: scavando nel pas­sato “di certi individui” e analizzandone il com­portamento presente “qualche cosa vien sempre a galla”, consentendo di schiacciare i soggetti ba­

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cati. Il tema si conclude a effetto, con una proie­zione in chiave pseudo-lombrosiana dell’imma­gine stereotipata con cui si apre la dissertazione: un mostruoso feto ‘ebraico’, da esibire nel pro­prio museo personale quale reperto arcaico di una sottospecie bonificata dalla profilassi fascista.

Non nuovo a dissertazioni sul tema della raz­za, Ermanno Migliarini — che tra l’altro aveva partecipato a un congresso universitario nazio­nale nel 1942 — si richiama a un razzismo spi­rituale e non già biologico, con la pretesa di ap­plicare criteri razzisti a ogni aspetto della vita so­ciale (documento n. 6). Critica quindi senza mez­zi termini la concezione di ‘romanità’ in auge nel regime (“parodia di Aquile e fasci che abbiamo purtroppo conosciuto”), ritenuta un’esercitazio­ne dilettantesca, sulla base di riferimenti ideolo­gici contraddittori: da un lato si ispira a un cri­stianesimo romanocentrico, dall’altro indica co­me obiettivo da perseguire il paganeggiante “mi­to del sangue” evoliano.

Cesare Mosconi (documento n. 7) ripercorre invece, in una sintesi banale e dall’andamento fia­besco, le vicende del fascismo, con un fraseggio impacciato, in un impressionante guazzabuglio ideologico. La terapia da lui proposta per inverti­re la tendenza al declino razziale italiano (dopo vent’anni di fascismo...) è un improbabile sincre­tismo di ‘ materialismo cristiano ’, di pedagogia so­cialistoide e di aspirazioni autarchiche. Significa­tivo il passo autobiografico dell’incontro — av­venuto in Croazia— con ebrei internati, marchiati col distintivo della stella di David, nell’atteggia­mento dimesso di chi sa di venire condotto al ma­cello: l ’osservazione diretta dell’attuazione delle dottrine razziali provoca nel giovane fascista un attimo di smarrimento e di pietà, ma il riflesso con­dizionato delle cristallizzazioni antiebraiche ha il sopravvento e lo induce a giustificare il genocidio nel supremo obiettivo di scongiurare la “rovina spirituale e materiale della nostra patria”.

Enzo Spinelli appartiene alla corrente anticle­ricale del fascismo repubblicano, che propugna 1 ’ asservimento della Chiesa allo Stato in nome del comune interesse all’affermazione dei valori del­la gerarchia e dell’ordine sociale (documento n. 8). I suoi referenti sono Farinacci a livello politi­co e, sul piano ideologico, Preziosi. Significativi il riferimento al jazz come elemento di diabolica corruzione degli spiriti (tema peraltro accennato anche da altri) e l’insistenza ossessiva sul refrain della congiura ebraico-massonica.

Con ogni probabilità l ’inclusione dei temi nel carteggio riservato della Segreteria particolare del duce è da ricondurre ad accuse nei confronti del generale Auro D ’Alba — capo dell’Ufficio storico della Gnr — e del figlio Sergio, che por­tarono nell’aprile del 1945 all’arresto di que­st’ultimo. Si tratta di denunce — sulla cui fon­datezza nulla si può dire senza un’apposita ri­cerca, non essendo affatto raro trovare nelle car­te della Rsi testimonianze di accuse e sospetti reciproci, significative del clima di lotte intesti­ne e dell’affannosa ricerca di soluzioni indivi­duali alla fine dell’esperienza fascista — nate al­l’interno stesso della Guardia nazionale repub­blicana. Due ufficiali presentarono infatti il 29 marzo 1945, “presso la Segreteria Particolare del Capo di Stato Maggiore della Guardia nazionale repubblicana in B rescia”, una dichiarazione contenente una serie di addebiti nei confronti di Sergio D ’Alba, che secondo loro avrebbe a sua volta accusato il generale Nicchiarelli di essere un “traditore”, pronto “a fuggire in Svizzera” do­po aver “prelevato dall’Amministrazione del Co­mando Generale quattro milioni”13. Va segnala­to che la dichiarazione contro D ’Alba era inol­trata dallo stesso incolpato, generale Nicchiarel­li. Ma nel fascicolo è conservata anche una pre­cedente informativa, che risale a ll’inizio del­l’anno, contenente accuse nei confronti del ge­nerale Auro D ’Alba e del figlio Sergio14. Que­

13 Deposizione firmata. A D’Alba era poi attribuita la frase: “Ormai tutti i Generali della Guardia sono convinti che i Tede­schi perderanno la guerra e perciò cercano di mimetizzarsi [...] Voi non fidatevi di nessuno di quelli che sono vicini al Capo di Stato Maggiore”.14 “DELL’ATTIVITÀ' DEL GENERALE AURO D’ALBA. Risulta in modo inequivocabile che il figlio del generale D’Al­ba, fa incetta di giovani ufficiali della G.N.R. ai quali, con la scusa di affidare Tincarico della propaganda, li incarica di rac-

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st’ultimo documento è accompagnato da una no­ta che ne nega recisamente l’attendibilità, tranne che per quanto riguarda i rapporti, ritenuti “nor­mali”, con Preziosi: “Come studioso di materie Razziali nessuna meraviglia il Maggiore D ’Alba avesse contatti con Giovanni Preziosi che risul­ta essere un Ambasciatore della Repubblica So­ciale Italiana eppertanto Fascista evidentemente sufficientemente considerato” 15. Lo scontro tra i D ’Alba e Nicchiarelli è probabilmente legato a radicali diversità di strategie politico-militari. Il 18 agosto 1944 Mussolini tolse a Ricci il comando della Gnr, con conseguente rafforzamento della posizione del generale Niccolò Nicchiarelli, ca­po di Stato maggiore della Gnr, sgradito ai set­tori estremistici, che— nonostante i suoi trascorsi (ex squadrista e già comandante della divisione Camicie nere “XXIII Marzo”) — lo ritenevano un moderato16.

L’attività della scuola era peraltro attentamente seguita sia dai tedeschi sia dagli organi della Rsi. L’interesse dell’occupante è testimoniato da una “Relazione pervenuta dal Servizio informazioni germanico in Italia”, in data 18 luglio 1944, con­servata sempre nel carteggio riservato della Se­greteria particolare del duce e contenente nume­rose accuse nei confronti del comandante della scuola allievi ufficiali di Fontanellato, il tenente

colonnello Giovanni Baccarani, e della gestione della scuola nel suo complesso. Le sei pagine dat­tiloscritte sono accompagnate da un testo, con ogni probabilità destinato a Mussolini, volto a contestare punto per punto le accuse formulate dai tedeschi 17. Il quadro delineato dai tedeschi — dalla mancanza di direttive politiche e milita­ri, alla mancanza di disciplina, alla scarsezza di mezzi18 — era ritenuto del tutto infondato e, ol­tre a negare l’esistenza di uno scontento genera­lizzato, il testo per Mussolini precisava: “Il pro­gramma della scuola è stato quello fissato dal Co­mando generale della G.N.R. — L’inizio delle le­zioni subì un ritardo determinato dal mancato tempestivo arrivo del contingente Allievi. — Il Btg. Allievi impiegato in un lungo ciclo di ope­razioni contro ribelli, alle dipendenze del Co­mando Germanico, è stato vivamente elogiato dal Comandante stesso. — Gli Allievi hanno avuto 6 morti e 3 decorati della ‘Croce di ferro’ di 2A classe. [...] Su 400 Allievi effettivi alla scuola sol­tanto 6 furono dichiarati non idonei”. Resta in so­stanza da fare uno studio critico sulla scuola di Fontanellato come sulle altre scuole allievi uffi­ciali della Gnr, e non è detto che la ricerca non riservi altre inaspettate scoperte.

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cogliere le prove che BUFFARINI non è un leale Ministro del DUCE e che ha tutta una cerchia di amici e collaboratori che perseguono una politica del tutto personale. Il centro maggiore dell’attività di costoro è Como, seguito immediatamente da Brescia. Per quanto riguarda l’uso delle notizie, viene assicurato che il figlio trasmette al padre che ha [sic] sua volta le co­munica direttamente al DUCE. Il figlio di Auro D’ALBA ha anche contatti con Giovanni PREZIOSI e, pare, che sia stato, e sia anche ora, a contatto con il movimento dei ‘Giovani Repubblicani’. Milano li, 3 gennaio 1945”.15 Cfr. la nota dattiloscritta, senza titolo e data, all’ultimo capoverso. Per una sintesi della carriera di Preziosi, cfr. R. De Fe­lice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., pp. 440-446.16 Nella memorialistica della Rsi Nicchiarelli gode di cattiva stampa: “Nei giorni precedenti il 25 aprile egli s’era reso pres­soché irreperibile facendo solo fugaci apparizioni a Milano, dove nelle ore più dure venne cercato invano” (Rodolfo Orazia­ni, Ho difeso la Patria, Milano, Garzanti, 1948, p. 396). Vincenzo Costa gli imputa “debolezze traditrici” e nella cronaca del­l’ultima settimana dell’aprile 1945 lo sospetta di approcci col nemico (L'ultimo federale. Memorie della guerra civile 1943- 1945, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 134, 274 e 296).17 I due testi, dattiloscritti senza indicazione del destinatario, sono conservati nel fascicolo 495, “Baccarani Giovanni Ten. Col.”, in Archivio centrale dello Stato, Repubblica sociale italiana, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 47.18 L’estensore non era al corrente del “Corso di cultura politico-razziale” se scriveva che “La Scuola di Fontanellato è totalmen­te priva di qualsiasi indirizzo sia politico che militare. Di cultura politica non se ne parla neanche lontanamente. Di addestramento militare non se ne fa per mancanza di munizioni e materiali. A prescindere dalle tre ore di lezioni in aula, le rimanenti sono dedi­cate quasi esclusivamente alle istruzioni formali ed alla ginnastica [...] Nella Scuola lo scontento è generale [...] Il morale è bas­sissimo: nessuno vede la fine del corso che, a detta degli ufficiali, è imprecisato”. La scarsa attendibilità delle accuse è suggerita da affermazioni di questo genere: “Inoltre bisogna considerare che intorno al gruppo primitivo dei volontari del settembre 1943 sono stati raccolti elementi richiamati, carabinieri e perfino renitenti alla leva e degli appartenenti alla razza ebraica”.

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Documento n. 1

Il corso di Cultura politico-razziale, tenuto presso la Scuola Allievi Ufficiali della G.N.R. di Fontanel- lato dal 15 Marzo al 22 agosto XXIF, era stato divi­so in tre parti, come appare dal programma allegato.

La prima parte (Le razze umane) doveva fornire agli Allievi un orientamento preciso in fatto di razzi­smo, soprattutto tenendo conto dell’enorme impor­tanza che oggi, e ancor più domani, ha questa Idea che può considerarsi il Mito del secolo.

La seconda parte (ebraismo e massoneria) era de­stinata ad un esame più dettagliato della natura psi­chica e spirituale dell’ebreo, esame che costituisce la base indispensabile per comprendere il fenomeno massonico e i retroscena della storia.

La storia, infatti, nell’approfondito esame della concatenazione di cause ed effetti e quindi nella più esatta valutazione degli eventi è il solo vero mezzo di educazione politica.

Nella terza parte si sarebbero dovuti esaminare i più recenti avvenimenti a partire da quella rivoluzio­ne francese che segna il più grande trionfo dell’e­braismo intemazionale.

L’esame si sarebbe soffermato sui veri moventi — recenti e lontani — della guerra attuale e sulla dottri­na del Fascismo.

Il disegno era forse un pò [sic] vasto e varie cau­se (ristrettezza del tempo assegnato alla materia, so­spensione dovuta al periodo di rastrellamento, pre­minenza accordata alle m aterie militari) hanno concorso ad impedire la completa realizzazione.

Tuttavia, al termine del Corso, si è posto agli Al­lievi il tema: “Come concepite un’azione razzista nel­la Repubblica Sociale Italiana”.

Tra i lavori sono stati scelti alcuni dei più carat­teristici o per maturità di pensiero o per sensibilità politica o per profondità di preparazione. Ma tutti gli Allievi — sia pure in forme e modi diversi derivan­ti dal diverso grado di preparazione o di interesse al­l’argomento — tutti hanno auspicato un ritorno ad una forma di aristocrazia spirituale che — autenti­ca casta dirìgente — presieda alle sorti della Na­zione.

Tutti sostengono la necessità di una minoranza irre­prensibile sopratutto dal punto di vista morale, che vigili su tutta la vita della Nazione e ne tenga il [in] pugno il popolo.

Selezione razziale — selezione morale — sele­zione intellettuale: ecco i concetti fondamentali espressi in varia forma e con diverso sviluppo da que­sti giovani che primi risposero all’appello della Ma­dre tradita.

Le proposte che essi formulano possono peccare di unilateralità o eccesso di rigore; risentono, com’è

logico, dei loro vent’anni, della generosa assolutez­za che è propria dei giovani.

Ma questi giovani costituiscono il fiore della raz­za e — in germe — la sua autentica aristocrazia; sa­ranno essi i realizzatori delle speranze di tanti nostri Caduti: la loro voce deve essere raccolta.

CORSO DI CULTURA POLITICO-RAZZIALE LE RAZZE UMANEFattori ereditari e fattori ambientali — Cenni di tipo­logia razzista — Razze dell’anima e razze dello spi­rito — Le razze ariane e le altre razze — Il meticcia- to — Senso della razza e potenza di un popolo — Il razzismo tedesco — Il razzismo italiano — Inqua­dramento razziale della nostra storia.

L'EBRAISMO E LA MASSONERIA Caratteri sematici e spirituali dell’ebreo — Compor­tamento dell’ebreo attraverso la storia — I Protocol­li dei Savi Anziani di Sion — Il Talmud — Sistemi di lotta dell’ebraismo — Che cosa è la massoneria — Caratteri, mezzi, scopi — Sua penetrazione nel mon­do moderno — Sistematica falsificazione nella cul­tura e nell’insegnamento — Sistematica disgregazio­ne dei valori spirituali delle civiltà arie — Gli Stati anglosassoni e bolscevici strumenti del giudaismo — La borghesia e le classi intellettuali.

IL MONDO MODERNO E LE SUE GUERRE Armi e fasi dell’attacco ebraico-massonico alla tra­dizione europea — Risultati visibili dell ’opera ebrai­ca di disgregazione— La progressiva caduta del mon­do moderno — Liberalismo, democrazia, materiali­smo, plutocrazia, bolscevismo — Il Fascismo tenta­tivo di ritorno ad una spiritualità ario-romana — Le sue concezioni sociali — Le vere cause della guerra attuale — La guerra attuale: guerra di “concezioni del mondo” e di razze — La massoneria e gli ultimi av­venimenti d ’Italia — L’anima italiana e l’ambiente razziale italiano— Necessità di una rettificazione del - la razza in Italia — Necessità di una rieducazione del popolo Italiano — L’educazione militare e la forma­zione del carattere.

Documento n. 2

Come concepite un’azione razzista nella R.S.I.

Il problema razziale in Italia, nel clima purificato- re del Regime Fascista si è rivelato importantissimo.

Ma purtroppo il superarla è diventata una cosa che, se non impossibile, è indubbiamente ardua: e il mio parere lo esprimerò chiaramente: non nutro eccessi­ve speranze nella risoluzione della Questione razzi­

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sta in quanto troppo tardi ci siamo decisi ad affron­tarla (e, malgrado tutto, ancora non si emanano ener­giche disposizioni in proposito).

Le invasioni straniere, le conseguenti dominazio­ni più o meno lunghe di genti d ’altre razze, d’altri co­stumi, il nostro volente o nolente asservimento agli stranieri, hanno fatto sì che la questione dell’orgoglio di razza passasse in seconda, terza ed anche ultima li­nea. E la purezza del sangue, di origine ariana, è sta­to purtroppo compromessa in modo gravissimo.

In Italia vi è troppo sangue misto.E con la varietà dei globuli, infiniti i principii, le

idee. La maggior parte del popolo italiano si è afflo­sciato, smidollato di fronte alle esteriorità d ’oltre Al­pe ed in special modo dinnanzi alla plutocrazia stra­niera. Onde ebraismo e massoneria (binomio inscin­dibile: ciò è bene tenerlo sempre presente) hanno po­tuto compiere la loro opera disgregatrice delle doti morali, storiche, culturali del nostro paese in tal mo­do da condurci sempre più in basso, sino al più profon­do abisso in cui la nostra Patria e gli italiani siano mai piombati: il tremendo 8 Settembre. E in questo sen­so che bisogna impostare una forte e seria azione pro­pagandistica; bisogna risvegliare nel popolo italiano quel senso di onore e di fedeltà, facendogli com­prendere che senza di questi un popolo non ha ragio­ne di esistere come potenza in quanto non potrà la­sciare attraverso i tempi un’impronta indelebile (al- l’infuori del ricordo del suo tradimento) e la sua pa­rola non avrà più alcun credito nel consesso delle na­zioni.

E occorre far leva sul popolo italiano risveglian­do in lui quella dignità e dirittura che, al tempo di Ro­ma, facevano dei latini il popolo più grande del mon­do.

L’idea di Roma sia tenuta sempre viva davanti al popolo italiano. Ma in tale campo la propaganda ope­ri con molta circospezione e serietà onde evitare gli errori che si commisero in passato con l’abusare trop­po e troppo spesso di tale meraviglioso tema che, no­tato da tutti, appunto perché bellissimo, diventò, col darlo in pasto continuamente al pubblico, se non noio­so, molto falso e comune.

Si prese allora l ’argomento alla leggera e, ad ogni piè sospinto, nei più disparati campi, nelle più sva­riate occasioni, si facevano abbondanti elargizioni di temi romani.

Sino a che il popolo si stancò; il profondo senso critico degli italiani cominciò a mal sopportare tale sistema propagandistico e, infine, il loro acuto spiri­to umoristico compì l’opera.

E si ottenne così l’effetto contrario.Ma, se per ora almeno, la questione razziale non

offre immediata, radicale, assoluta risoluzione (e sembra chieder troppo il pretendere che essa si ri­

solva nel breve giro di pochi anni!) occorre in ogni modo e al più presto possibile arginare (in un se­condo tempo si potrà parlare di annientare) questo dilagarsi di sangue impuro che corrode alle basi il patrimonio morale e culturale del superstite ceppo ariano.

La materia non è di mia competenza, ma credo, a mio modesto parere, che i punti principali da osser­vare ai fini del buon esito della campagna razziale, siano, oltre quello già accennato circa la propaganda, i seguenti:

1 °) Cacciata assoluta (nel senso più lato della pa­rola) degli ebrei dal suolo italico senza alcuna ecce­zione.

I dirigenti addetti all’azione razzista nel periodo prebellico e bellico si sono dimostrati non all’altezza della situazione quando, con inopportuni e quanto mai dannosi pietismi umanitari, cercavano in ogni modo di “discriminare” (il 70% degli ebrei erano discrimi­nati) questi giudei che pur tanto male hanno apporta­to alla nostra Italia.

Ma erano poi semplici pietismi? O v ’era forse lo zampino dorato dell’Intemazionale e della Massone­ria? E perché proprio in quel periodo fu posto al [mi­nistero] della Educazione Naz. un individuo dal san­gue misto?

Indubbiamente gli errori furono tanti, infiniti.Sarebbe criminale ripeterli ora, dopo tante espe­

rienze.2°) Un’azione medica intesa a sottoporre e seve­

re, scrupolose visite fisiche e psichiche tutti i cittadi­ni d’ambo i sessi che hanno intenzione di contrarre matrimonio.

L’analisi del sangue dovrebbe costituire la prima fase di tali visite. Tale provvedimento non servireb­be soltanto ai fini di favorire la prova inconfutabile della razza cui appartiene l’individuo esaminato, ma anche allo scopo di controllare il suo stato di salute che, se risultasse minimamente negativo, lo condur­rebbe alla conseguente proibizione, da parte dello Sta­to, di contrarre qualsiasi legame con elementi del ses­so opposto.

Imperdonabile è l ’incoscienza di colore che con­traggono matrimoni pur essendo affetti da malattie gravissime quali la tubercolosi, la sifilide, l’epilessia; ed anche altre ereditarie. Ed è pur chiaro ormai che l’80 per cento dei degenti negli ospedali e nelle cli­niche psichiatriche, psicopatiche, neuropatiche, ecc, sono il frutto di tali connubi.

Chi, come colui che scrive, ha avuto occasione di visitare luoghi di cura ospitanti ogni genere di alie­nati, dai calmi ai criminali, o leggere trattati su tali argomenti, avrà potuto constatare che la maggior par­te di essi sono figli di genitori bacati da gravi malat­tie: in special modo sifilitici e alcolizzati.

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Complementare alla suddetta azione scientifica ve ne potrebbe essere una giuridica mediante la quale impedisce (con 1’emissione di leggi apposite) la pro­creazione agli individui che non siano stati sottopo­sti precedentemente alle apposite visite (alle quali vi­site verranno ammessi soltanto coloro che hanno l’in­tenzione di contrarre matrimonio).

Ciò apporterebbe un’altro [sic] vantaggio impor­tantissimo, oltre a quello dal punto di vista razziale: quello cioè di impedire il dilagarsi della corruzione a prova della quale è il grande numero di nascite non legalizzate. Negli ospedali della città M. dell’Italia Sett. su cento nascite ve ne sono 70 non legali. E la città non supera i 40.000 abitanti. Ma purtroppo in quella città v ’è anche un ghetto con una popolazione di giudei che forma il 10% della popolazione totale. E, non a caso, vi è maggior corruzione proprio nelle città in cui vi è maggior numero di semiti.

3°) Azione di controllo su tutti i registri degli Uf­fici Anagrafe e privare del titolo di nazionalità ita­liana (con conseguente espulsione dal territorio na­zionale) tutti coloro i quali risultino discesi in un tem­po più o meno lontano, da stranieri ed in particola­re da non ariani.

Questa azione formerebbe una duplice prova, ol­tre a quella scientifica, della appartenenza o meno, al­la razza ariana.

4°) Impedire con le leggi più severe (contemplan­ti anche la pena capitale, se occorre) qualsiasi forma di connivenza tra italiani ariani ed italiani di origi­ne non ariana ed in genere con stranieri.

A questo punto, in fin dei conti, è bene che la leg­ge razziale precisi netto e chiaro che è solo permes­so contrarre matrimonio con cittadini italiani di raz­za ariana. Ciò ad evitare qualsiasi eventuale discus­sione in sede giuridica.

5°) Ai posti di responsabilità (militari, politici, eco­nomici, amministrativi) porre unicamente i cittadini di provata appartenenza alla razza ariana.

In special modo soltanto a questi ultimi permette­re l’appartenenza ai Corsi Militari e agli Studi Poli­tici.

6°) Evitare in ogni modo e con qualsiasi mezzo in­gerenze nelle cose dello Stato da parte di elementi non appartenenti alla razza ariana.

Nel secolo in cui viviamo sarebbe forte stonatura parlare di mantenere altre aristocrazie che non siano quella del lavoro. Il lavoro è oggi la vera fonte di vi­ta e di ricchezza per un popolo e perché esso renda sia allo stato che al cittadino occorre qualcuno che, con competenza, serietà e dedizione lo sappia orga­nizzare.

A tale fine è necessario creare una vera e propria “casta dirigente”, cioè un gruppo di uomini di prova­ta dirittura di costumi che prenda in mano le redini

dello Stato e in ogni campo sappia dare il proprio im­pulso e far valere la propria esperienza.

E tali uomini non potranno essere che i discendenti puri e diretti del ceppo di Ario.

Sono certo che essi, apportando allo Stato quella dote ch’è puramente ariana e latina, la generosità d’a­nimo, condurranno con tutte le loro energie il nostro Paese a calcare ancora una volta quelle vie che la la­boriosità, l ’intelligenza e l’amor patrio dei nostri avi antichi seppero tracciare.

E dietro di essi il popolo italiano, puro d ’ogni sco­ria e d ’ogni parassitismo, marcierà [sic] diritto nel nuovo clima creato dalla riacquistata fedeltà nei Ca­pi e nei destini dell’Italia immortale.

[Luciano Chitarrini — III Compagnia “Tigre” 21.8.1944-XXH]

Documento n. 3

Govi Gilbertol a Compagnia

17 agosto 1944 XXII

Come concepite un’azione razzista nella Repubblica Sociale Italiana.

Il problema razzista in Italia ebbe le basi alle origini del fascismo. Mussolini fin dal 1921, al congresso del Partito, tenutosi a Roma, affermò solennemente che il fascismo doveva preoccuparsi del problema della razza; cioè della sanità e della purezza della razza con la quale si fa la storia di un popolo. Infatti una na­zione non è soltanto una riunione di individui che ve­getano pensando al loro meschino tornaconto, ma un organismo che comprende una serie infinita di gene­razioni “di cui i singoli non sono altro che elementi transeunti e la sintesi suprema di tutti i valori mate­riali e immateriali della stirpe”.

Da allora un piano, una legislazione per la difesa della razza non venne alla luce. Continuò, però, ad esistere un orientamento e vari provvedimenti legi­slativi per il rafforzamento e il miglioramento quan­titativo e qualitativo della stirpe: politica demografi­ca, Opera maternità e infanzia, previdenza, assisten­za e igiene del lavoro, tutela penale dell’integrità e sanità della stirpe. Tutto questo, pur avendo apporta­to un notevole miglioramento alla società, non si può certo definire ancora razzismo, come alcuni hanno af­fermato, perché razzismo vero e proprio si ha soltan­to quando nascono rapporti e contrasti fra razze in contatto.

Con questi vari provvedimenti si arrivò fino al 1938 che avrebbe dovuto segnare l’anno di una vera e pro­pria campagna antisemitica e rafforzatrice della raz­

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za italiana, che però si risolse in un’autentica rete di leggi, Puna in contraddizione con l’altra, che porta­va varie fàlle attraverso le quali sfuggiva la maggior parte degli individui che avrebbero dovuto essere col­piti. Possiamo affermare, senza tema di essere smenti­ti, che in Italia non è mai stato eseguito un razzismo vero e proprio, sul genere di quello tedesco, che van­ta la priorità su qualunque lotta razziale e il pregio della rigidità e dell’inflessibilità delle sue leggi.

Dal caos etnico derivato dallo sfasciamento del­l’impero Romano, si è conservato puro ed intatto sol­tanto il carattere del sangue germanico che, come af­ferma lo Schlegel, è il principio che regge il mondo. Poiché questa purezza razziale germanica doveva es­sere salvaguardata, non solo da incroci dannosi, ma anche da una sua possibile degenerazione, furono am­mirate ed anche adottate le vecchie istituzioni greco­romane che eliminavano immediatamente gli ele­menti tarati fino dalla nascita e si auspicava l’alleva­mento selezionato come per le culture zoologiche o botaniche. Le attuali dottrine naziste, pur avendo net­tamente abbandonato la vecchia teoria del popolo te­desco come razza pura, attribuiscono un valore asso­luto all’eredità dei caratteri e all’ordinamento del san­gue tedesco subordinando ogni attività intellettuale alle esigenze razziali. Bisogna tener presente che il razzismo nazionalsocialista è risultato dalla compo­sizione non solo di motivi pangermanisti, ma anche dall’intrecciarsi della tradizione mistica dell’antica Germania medioevale riaffiorata oggi nella nuova re­ligione del sangue e della razza.

La razza s’impone ad un tempo come fattore po­litico, in quanto entra come elemento primo e fonda- mentale nella formazione storica del popolo, e come elemento religioso, in quanto la diversità razziale ha valore divino, poiché sviluppando quei caratteri fisi­ci, spirituali e morali, trasmissibili soltanto col san­gue, che formano l’individualità dei popoli, si com­pie così la volontà di Dio. La razza, precisamente, è l’insieme di particolari attitudini e disposizioni inna­te ed ereditarie che l’individuo porta con sé dalla na­scita e che ordinariamente non vanno disgiunte da net­te differenze nel carattere, nel temperamento e nella struttura fisica. Per conoscere, comprendere, studia­re la storia politica, filosofica e letteraria di un popo­lo non si possono ignorare le sue origini e le sue ca­ratteristiche razziali che spiegheranno e giustifiche­ranno in seguito tanti interrogativi che possono sor­gere durante uno studio profondo.

In un popolo, come l ’italiano, l ’azione razzista de­ve essere fatta agendo molto in profondità, cioè crea­re una legislazione che possa veramente addentrarsi in ogni intelligenza ed essere soprattutto capita come indispensabile per l ’integrità e la salvaguardia di una stirpe, che avendo tradizioni così alte come quella la­

tina, si è ora abbandonata a contrastanti connubii. Con­temporaneamente, o prima di emanare una vera e pro­pria serie di rigide leggi, a cui non si possa in alcun modo sfuggire, bisogna far sorgere in ogni individuo il sentimento di razza, la coscienza di appartenere ad una schiatta che fu pura, che dettò legge a tutto il mon­do, che non conobbe mai sconfitte finché fu integra e unita e che ora, dopo un periodo di ibridismo e di decadenza, deve risorgere informandosi alla primiti­va purezza che si dovrà mantenere per secoli. Costi­tuendo questa mistica del sangue il popolo italiano ri­troverebbe sé stesso, le sue nobili origini e soprattut­to, eliminate le tare che l ’appesantiscono, ritrovereb­be quella purità di razza che fece dei suoi progenito­ri, i Romani, i dominatori del mondo.

Purtroppo fino ad ora non si è mai pensato (oppu­re: fu progettato ma non attuato) ad educare spiri­tualmente il popolo, ad instillargli un sentimento di razza, ad indicargli quali gravi conseguenze sarebbe­ro sorte dalla mescolanza di stirpi che avevano ca­rattere e spirito orientati al polo opposto al nostro. Senza una legge che regolasse, anzi vietasse, l ’unio­ne di connazionali con elementi razzialmente impu­ri, si ebbero spaventosi connubii che diedero vita ad elementi bastardi che purtroppo oggi sono il punto nero della nazione. Fino ad ora, e specialmente dopo le leggi dell’agosto 1938, si è curata maggiormente la sanità della razza e non la sua purezza. Ci si preoc­cupava che i contraenti matrimonio, a qualunque raz­za appartenessero, fossero fisicamente sani; quale fos­se la loro origine, i loro caratteri somatici ed eredita­ri, nessuno, o meglio nessuna legge, se ne interessa­va. L’importante era la sanità ed a volte, nemmeno quella. Questo fu un grossolano errore perché si per­mise a molti elementi tarati, che avrebbero dovuto es­sere espulsi senza misericordia, di infestare il territo­rio nazionale con idee politiche e sociali contrarie al­le nostre e di inquinare maggiormente la nostra raz­za che con ogni sforzo cercava di purificarsi e por­tarsi all’altezza di razza pura. Occorre quindi che la risorta repubblica italiana si preoccupi della consi­stenza e del rafforzamento della razza e crei dei prov­vedimenti intesi alla sua ottima conservazione.

Di qui la difesa della stirpe che è duplice: interna ed esterna. Difesa interna che provvede a migliorare quantitativamente (campagna demografica) e quali­tativamente (profilassi sociale di malattie ereditarie e contagiose, provvedimenti per la maternità e infan­zia) la stirpe nella struttura fisica dei suoi componenti e nel perenne suo rinnovarsi; difesa esterna cioè di­fesa della razza in senso ristretto, inteso ad evitare in­croci con razze inferiori (leggi contro il meticciato) nonché gli incroci con elementi appartenenti a razze che sperimentalmente sono apparse incapaci di amal­gamarsi nel nostro complesso razziale in Italia e a li­

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mitare, o addirittura vietare, i matrimoni con elementi stranieri. La razza quindi agirebbe come forza nazio­nalizzante e porterebbe i suoi germi spirituali a for­mare l’animo della nazione. Questi germi spirituali, di cui non si può asserire la trasmissibilità ereditaria, formano il sentimento e la coscienza della razza, che per virtù dei quali trapassa dal piano di puro fatto na­turale a quello di forza coesiva e unificatrice degli in­dividui e conseguentemente da principio nazionaliz­zante. Inoltre il sentimento della razza, in quanto sen­tito da più individui, contribuisce alla formazione di una volontà e di una moralità collettiva, cioè di prin­cipi regolatori dei rapporti sociali, principi la cui os­servanza viene assicurata spontaneamente attraverso il costume e l’opinione pubblica e coattivamente at­traverso le leggi e le istituzioni.

* * *

Per sapere creare nel popolo italiano un sentimento profondo di coscienza di razza, di tradizione del san­gue, ci si deve accingere ad una educazione morale e spirituale che si dovrà informare ai valori più alti del­le origini della razza italica.

Per giungere a questo una classe dirigente oppor­tunamente scelta e convinta dei principii che dovrà dispensare alla massa, agirà in ogni ceto del popolo ed in ogni campo sociale della nazione. Nessuna bran­chia dell’attività nazionale dovrà sfuggire a questo controllo di coscienza e di intenti. Prima però di ini­ziare una epurazione della massa, un vaglio assai ri­stretto dovrà rigorosamente selezionare una mino­ranza che sappia infondere nell’animo dell’individuo un orientamento verso quel sentimento di razza, che dovrà poi svilupparsi al massimo grado negli anni av­venire, e potrà riportare il popolo italiano, inquinato, imbastardito da tante vicende storiche, a quella pu­rezza primitiva che tanto potè nella formazione del­l’impero romano. Questa educazione politico-razzia­le deve essere impartita sapientemente e razional­mente, non con false propagande sino ad ora usate o con argomenti poco tangibili e inafferrabili dalle men­ti popolari, ma diffondendo a poco a poco quelle no­zioni storico-politiche che possano mettere in chiaro la vera situazione del nostro popolo, di quello che fu, che è e di quello che dovrebbe essere.

Chi potrà coscienziosamente assolvere questo ar­duo compito nei confronti di tutto il popolo?

Di qui, ripeto, la necessità di creare una élite, una minoranza che sappia guidare e trascinare ogni co­scienza. Dalla fucina rigeneratrice di questa guerra si trarranno le nuove menti, i nuovi spiriti che sapranno ricondurre il popolo al sentimento più puro della razza ed a renderlo fiero di appartenere ad una razza pura.

La compagine militare sarà la prima ad essere epu­rata. Senza ambagi, senza indecisioni, si procederà ad una eliminazione, ad una radiazione dai quadri di qua­

lunque ufficiale che non sia discendente dal ceppo ario, si sia reso colpevole di disonore politico e non sia completamente imbevuto delle dottrine fasciste che stanno al centro del movimento razzista. Infatti dalla storia è dimostrato che l’esercito ha salvato dal­la rovina il popolo, e spesso la rilassatezza, il malu­more del soldato ha portato alla dissoluzione del po­polo, della nazione. L’appartenenza alle forze arma­te, deve essere un motivo di fierezza e d’orgoglio per il cittadino della R.S.I. L’ambiente militare, quindi, dovrà essere il più puro ed il più fidato. Come esem­pio di militarismo puro possono essere additati tutti coloro che dopo l ’8 settembre 1943 si sono riuniti in battaglioni ed hanno continuato a combattere se­guendo la via dell’onore che non era dettata altro che dalla voce del sangue. Soltanto questa voce interna, non sentita da tutti, ha rivelato gli italiani dal sangue puro, coloro che non hanno subito inquinazioni, e non si sono abbassati, perché sentivano di appartenere ad una razza superiore, a patti con bastardi e barbari. Chi è che fa compiere rischiose azioni nel martoriato me­ridione se non la voce di quel sangue che ha domina­to il mondo? Chi è che fa credere così infallibilmen­te in una vittoria del fascismo se non quel sentimen­to interno, nascosto e quasi inavvertito, che è la co­scienza di sentirsi superiore a qualsiasi popolo? Co­me si vede l’unità razzista è una grande molla, una potente leva che fa superare ogni ostacolo ed affron­tare qualunque privazione e sacrificio pur di essere raggiunta dai medesimi membri che tendono ad essa.

Formato nell’esercito uno Stato Maggiore vera­mente saldo, puro nel sangue e negli intenti (il per­sonale si dovrà trarre da elementi che abbiano com­battuto, lottato per il fascismo ed aventi la massima preparazione tecnica ed esperienza professionale), si procederà alla formazione di quella minoranza che dovrà educare, indirizzare il popolo in ogni sua ini­ziativa. Le scuole medie e le università saranno puri­ficate da tutti coloro che si sono macchiati di inde­gnità politica negli ultimi tempi, che non siano con­vinti fascisti repubblicani e che appartengano ad una razza che non sia quella ariana. Da queste scuole e da queste Università, divenute vere fucine di nuove idee, potrà uscire la classe dirigente a cui spetta il compi­to di condurre le nuove generazioni sulla strada da es­si percorsa con tanto entusiasmo e convinzione.

Anche il campo educativo-sociale non deve essere privo di saggie [sic] guide, che saranno tratte da per­sone moralmente inattaccabili che attueranno in pieno tutte quelle idee fino ad ora professate ed assimilate.

Creata una casta, chiamiamola così per dare mag­giore riservatezza e inaccessibilità, che sappia regge­re e guidare la nazione in ogni sua attività, saremo or­mai tranquilli che il popolo, selezionato razzialmen­te, segue quanto vede ed obbedisce a quanto gli vie­

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ne imposto. Questa minoranza comprenderà persone ineccepibili, competenti ciascuno nel proprio campo, che dovranno dare alla massa la prova di essere al­l’altezza di sapere epurare gli individui e instillare in loro quel sentimento di razza che agirà come forza coesiva di tutta la nazione nei secoli avvenire. Que­sta classe dirigente emanerà un piano, una carta del­la razza che, opportunamente elaborata, dovrà costi­tuire le fondamenta di una legislazione severa e rigi­da, che sarà retaggio delle generazioni future. Il pia­no razziale dovrebbe toccare i seguenti punti:— Escludere dalla R.S.I. tutti gli stranieri, compresi i naturalizzati italiani e meticci.— Escludere gli ebrei e confiscare i loro immobili.— Divieto da parte di cittadini italiani di contrarre matrimonio con elementi stranieri ed ebraici.— Divieto di contrarre matrimonio da parte di ele­menti fisicamente tarati o da cui si prevede una filia­zione malata o fisicamente debole.— Costituire speciali corpi medici che, a loro giudi­zio insindacabile, vietino a un individuo di contrarre matrimonio dopo avere subita la visita prematrimo­niale resa obbligatoria in tutto il territorio della R.S.I.— Vigilanza degli stranieri che soggiornano in Italia. — Curare che il soldato riceva nelle caserme oltre che ad una adeguata educazione fisica, un ’ educazione mo­rale, un indirizzo a quella coscienza di razza che do­vrà essergli sapientemente instillata dal suo ufficiale.— Creare opportuni sanatori che accolgano gli indi­vidui impediti a contrarre matrimonio.— Istituzione di numerosi brefotrofi per l’assistenza dell’infanzia abbandonata.— Istituzione, presso il tribunale, di una commissione per giudicare severamente i reati contro la maternità.— Istituzione di una sezione, presso il tribunale, che risolva ogni divergenza sociale (questioni razziali, matrimoniali ecc.)— Creare edifici vasti e colonie marine e montane per accogliere fino agli undici anni i figli di coloro che intendano affidarne allo stato l’educazione morale e politica.— Creare appositi edifici o casermette-convitto, con annesse palestre, che ospitino quei giovani, dagli un­dici anni all’età del servizio militare, che desiderino sviluppare la propria capacità fisica ed intellettiva. Qui si potrà volontariamente attendere o allo studio o al lavoro conducendo una vita moralmente e fisi­camente sana. La permanenza in questi edifici sarà obbligatoria per tutti i giovani durante i mesi estivi. Si informerà così la gioventù, durante questo perio­do addestrativo, alla disciplina e all’educazione mi­litare che qualche anno dopo li dovrà ospitare.— Abbattere edifici e locali vecchi e cadenti per so­stituirli con nuove costruzioni in cui entri copiosa­mente aria libera e sole.

— Istituzione nelle scuole di una disciplina intesa a studiare lo sviluppo e l’importanza della purezza del­la stirpe italiana e ad orientare i giovanissimi alle teo­rie razzistiche.— Abolizione assoluta di pellicole e libri, opuscoli stranieri, soprattutto ebraici, che possono offendere e danneggiare il nostro sentimento di razza.— Proiettare pellicole e pubblicare libri, possibil­mente documentati, trattanti l’azione disgregatrice sui popoli da parte degli ebrei.— Promuovere fra il popolo (nelle fabbriche, alla ra­dio ecc.) manifestazioni oratorie che, senza essere pe­santi, penetrino nel cuore dell’individuo e, inavverti­tamente, lo convincano delle necessità che si vanno diffondendo.— Mettere in evidenza, mediante la stampa, quanti delitti siano stati commessi ai nostri danni dagli ebrei e di quanti raggiri ed inganni sia rimasta vittima la nostra razza da parte di Israele.

L’attuazione di questi punti essenziali sta nel riu­scire a non pesare sul popolo a non fargli sentire che gli si vuole imporre una nuova dottrina con la forza, ma nel riuscire a fare breccia nel suo animo a poco a poco, gradatamente in modo che s’accorga della sua metamorfosi quando avrà già assorbito le nuove idee. Ed in questo sta la virtù, cioè di fare un’ottima pro­paganda sottile ed accessibile a tutti.

L’azione politica va attuata senza falsi pietismi o parzialità, senza nessuna compassione specialmente per gli ebrei cacciati da ogni nazione ariana e per gli stranieri che tendono soltanto a sovvertire l’ordine so­ciale del nostro popolo. Avere compassione di questi reietti da ogni consorzio umano sarebbe un delitto di lesa Patria, significherebbe rendere schiava per sem­pre la nostra nazione, sarebbe un tradire ogni più pu­ra tradizione italiana, sarebbe, in una parola, la fine della libertà italiana. Di qui la necessità di stroncare con provvedimenti e con una legislazione severa, ogni tentativo di ostacolare questa marcia verso le pure ori­gini del nostro sangue e verso un sentimento di raz­za che tornerà ancora a compiere grandi cose e riu­scire di nuovo a dominare il mondo. Solo così può compiersi ed avere un significato decisamente italia­no quella rivoluzione di sangue, di razza e di caratte­re che da tempo i migliori italiani auspicano.

Documento n. 4

Tema di cultura politico-razziale A.U. Guccione Nicola l a Compagnia

8 settembre 1943. Non so se considerare questa data come la più infausta della storia d ’Italia o come

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quella che segna l’inizio della nostra rinascita. L’8 settembre dello scorso anno si sono rivelati tutti i va­lori negativi della nostra razza; negativi in quanto rin­negano il concetto di Patria, negativi in quanto, per solo livore contro un uomo ed un’idea, gettano nel fango il proprio onore e quello di tutta la nazione di fronte alla storia.

Non parlo qui affatto di sentimento di nazionalità: è lo spirito dell’uomo di buona razza, di razza pura, che deve sentire l’amore per la propria Patria, così co­me necessariamente lo sente per la propria famiglia. È nella purità della razza che sorgono e si sviluppa­no i migliori sentimenti.

Come spiegare, quindi, gli avvenimenti del 25 lu­glio e dell’ 8 settembre ‘43 se non come la conseguenza della decadenza della nostra razza? Non parlo per spi­rito di parte: nel 25 luglio non bisogna vedere solo la caduta di un partito, ma la fine di un onore che per noi era sacro, perché dal 25 luglio si dipartono le ma­glie di quella tragica catena che ci ha condotti all’ar­mistizio, al tradimento, al disonore, alla lotta fratri­cida, alla derisione da parte di tutto il mondo.

Solo esaminando le cause motrici del tragico 8 set­tembre si può giungere ad avere una spiegazione del­la nostra miseria attuale, data dal parziale imbastar­dimento della nostra razza, che tanta rovina ha pro­vocato.

A che dobbiamo tale imbastardimento? Chiedia­molo al destino più che agli uomini: le “passeggiate” dei popoli di tutte le razze sulla nostra penisola e sul­le nostre isole attraverso i secoli; la piaga delle emi­grazioni della nostra gente oltre oceano in cerca di fortuna, col successivo rientro in patria dei discen­denti, nati dall’unione con elementi eterogenei della cosiddetta terra della libertà; la conseguente esterofi­lia nata dal contatto del popolo con gli immigrati; l’immigrazione di gente di tutti i paesi pronti a sfrut­tarci in tutti i sensi in cambio di un pugno d’oro per raddolcire la tristezza della nostra eterna miseria.

Queste, forse, potrebbero essere alcune delle cau­se della nostra decadenza, della decadenza della no­stra gente che gradatamente va perdendo ogni orgo­glio e si fa attrarre dal miraggio d ’un benessere che, in effetti, esiste in gran parte nella fantasia di chi lo decanta.

Esaminate in grandi linee le cause, occorre trova­re rimedi. Ecco il punto. E l’unico rimedio che si pro­spetta è quello di condurre a fondo un’azione razzi­sta, con la conseguente estromissione o distruzione degli elementi negativi; un’azione che risollevi il po­polo moralmente e praticamente, ripulendone l’ani­mo e lavandone il sangue nei limiti del possibile, rin­vigorendo la razza con l’isolamento dalle altre razze, togliendo di mezzo sette e partiti avversi alla nostra rinascita, ridonando a tutti il senso della fiducia.

Ritengo che il momento che stiamo attraversando non dia la possibilità di condurre a fondo un’azione di vera e propria “pulizia” razziale, intendendo per “pulizia” una larga epurazione condotta su vasta sca­la in ogni minimo settore della vita nazionale. Pre­scindendo, ad ogni modo, dalle possibilità attuali, è possibile esaminare il problema in un campo che chia­merei ideale.

Ebraismo. Si è tanto parlato del problema ebrai­co, lo si è studiato nei suoi particolari, si sono espo­sti tutti i mali che dagli ebrei abbiamo ricevuto, ma non si è giunti ad una conclusione: l ’estromissione degli ebrei, assoluta e definitiva. Bella cosa è la teo­ria, ma da sola non può dare i suoi frutti ed è nella pratica che si rivela la sua bontà. Nella mancata o par­ziale applicazione dei suoi principi è, secondo me, uno degli errori fondamentali del Regime prima del 25 luglio ‘43. Furono promulgate varie leggi per l’e­stromissione degli ebrei, il certificato di razza ariana divenne il principale per importanza nella lotta per la vita; ma quanti ebrei, per vari motivi, sono stati di- scriminati e lasciati ai propri posti? Quanti hanno po­tuto continuare tranquillamente nell’opera disgrega­trice già intrapresa? Abbiamo avuto pietà per i sin­goli casi, per le singole benemerenze, si è sviluppato in tutti quel certo “pietismo” incosciente, e non ab­biamo pensato che poche eccezioni non avrebbero mai pareggiato tutto il dolore di tanti anni e tutto il sangue versato in tante lotte ed in tante guerre fo­mentate dall’oro ebraico. Un attacco a fondo ci avreb­be risparmiato tanti lutti, un attacco a fondo può an­cora risparmiarcene tanti e tanti altri; non conta se qualche innocente resta colpito: i nostri morti grida­no a noi vivi di non avere pietà.

L’isolamento in un territorio ben delimitato ed as­solutamente riservato, con la possibilità di un lavoro utile a tutti, di commercio con la nazione, di sov­venzioni da parte dello stato, pronto a favorire tutte le iniziative o l’espatrio verso terre più ospitali; il tra­sferimento delle comunità ebraiche in una colonia ad esse riservata e sempre sotto controllo dello stato e che dovrebbe riservarsi i posti di comando per l’e­conomia, e l’occupazione militare per la difesa e l ’or­dine. Queste potrebbero anche essere delle soluzio­ni, che dovrebbero essere precedute da un provvedi­mento veramente draconiano: rendere impossibile la procreazione per l’estinzione della razza nel nostro paese.

Ma non posso certo pretendere, di fronte alla com­plessità del problema, di dire la mia parola; le possi­bilità del Governo dovrebbero dettare le soluzioni ai Governanti, ma senza mai dimenticare che la totale cacciata degli ebrei da ogni angolo della vita nazio­nale è di vitale importanza per la nostra stessa esi­stenza.

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430 Paolo Ferrari e Mimmo Franzinelli

Massoneria. Non so se unire in un unico fascio ebraismo e massoneria, che sotto alcuni punti di vi­sta si identificano, sotto altri si compendiano, sotto altri divergono. Resta il fatto che la rete tesa dalla massoneria con una organizzazione impeccabile e se­condo un programma capillare ci ha irretiti e portati alla rovina. Bisogna riconoscerlo: in questo campo la massoneria ha lavorato molto più a fondo dell’ebrai­smo: ha colto nella sua rete ebrei e non ebrei, fasci­sti e non fascisti; ha lavorato sodo ed ha vinto.

Ma di chi è la vittoria? Chi si nasconde dietro la massoneria? È stata una lotta di nazionalità, di razze, di partiti, di idee? Tutto questo non ha importanza per noi, che da questa lotta siamo usciti sconfitti ed umi­liati; a noi interessa solo il fatto che chi lavora per la massoneria non lavora per l ’Italia o la tradisce addi­rittura. L’unico mezzo di liberazione lo vedo nella “eliminazione” degli affiliati; il volontario allontana­mento della setta massonica non scioglie il legame; bisogna assolutamente eliminare chi ha compiuto 1 ’ er­rore.

Ebraismo e massoneria formano, insieme ad altri minori eliminabili contemporaneamente, gli elemen­ti negativi che ostacolano l’epurazione della nostra razza: i “pericoli”.

Esaminiamo ora gli elementi positivi, le speranze che dovrebbero aiutare la nostra rinascita.

La G.N.R., nata in seguito al tradimento per evi­tare altri tradimenti, viene formandosi sulla falsariga della S.S. Tedesca, forza direttrice della vita nazio­nale del Reich.

Il compito della Guardia è arduo: salvaguardare tutta la vita della Nazione nella politica, nell’econo­mia, nel commercio, negli scambi, nell’educazione popolare, in tutti i settori, insomma, interessanti r e ­sistenza stessa della Nazione. E soprattutto per mez­zo della Guardia che dovrebbe avvenire la graduale epurazione degli ebrei, dei massoni e degli apparte­nenti a razze e sette di minore importanza. Come ot­tenere questo? Guardiamo bene ciò che avviene per la S.S. Tedesca: il primo requisito per gli appartenenti è quello della purità della razza; è il segno più sicu­ro di fedeltà.

Noi della Guardia non dobbiamo accettare nei no­stri ranghi tutti coloro che ne facciano richiesta: è as­surdo e delittuoso. E assolutamente necessario inda­gare a fondo su ciascun elemento, in ogni senso, pri­ma di accoglierlo nei ranghi. Siamo noi che dobbia­mo epurare ed è quindi necessario che nei nostri ran­ghi vi siano soltanto dei “puri”; noi dobbiamo essere gli iniziatori di una nuova Italia, ma se elementi spi­ritualmente avversi alla nostra idea si insinuano tra di noi sotto la maschera del volontariato, potremmo di­venire gli avversari dell’Italia, i nemici di noi stessi, i continuatori del sistema dei tradimenti involontari.

Nessuno è obbligato ad entrare nella Guardia; quin­di chi è dentro è con noi. Chi, appartenendo alla Guar­dia, tradisce o, comunque, dimostra poca onestà in qualsiasi campo, deve essere soppresso. Non ci vo­gliono mezzi termini; non basta espellere i disonesti: bisogna eliminarli dalla Comunità. Solo così, forse, la Guardia potrà svolgere il suo compito. Organo squi­sitamente politico, deve lottare sul fronte di guerra per cementare la propria dottrina, sul fronte interno per imporla agli altri.

Esercito. È il punto nero del momento. La discus­sione è sempre aperta: sono mancati i capi o i grega­ri? Comunque siano andate le cose, un fatto resta scol­pito in una data: 8 settembre ‘43.

10 sono però certo di una cosa: che il soldato ita­liano è, se non il migliore, tra i migliori del mondo, capace di tutti gli eroismi. Sono certo di non sbaglia­re se affermo che il crollo dell’esercito è venuto dal­l’alto; il soldato è stato scoraggiato ad arte facendo­gli mancare il minimo indispensabile, dal vitto alle calzature, dal vestiario ai mezzi di locomozione, dal­le armi alle munizioni; tutto fu studiato per demora­lizzare l’animo delle truppe che pur in questa guerra hanno dato tante superbe prove di valore. Si è pro­spettata quindi la necessità di un’epurazione che, pe­raltro, è già in atto.

11 soldato deve essere curato, oltre che fisicamen­te e militarmente, sopratutto moralmente, fargli com­prendere (non soltanto perché così vuole il Regola­mento) l ’altezza del compito che gli è assegnato, par­largli dell’avvenire della Patria, delle nostre tradizio­ni militari, della eterna superiorità della nostra razza nel tempo; il soldato deve essere entusiasmato: non deve mai più parlare di “naia”; l’Ufficiale deve esse­re tale nel senso più bello della parola.

E la razza che in prima ed ultima analisi detta la sua legge nella cernita di coloro che hanno il compi­to di difendere l’onore del paese.

La scuola. È di importanza fondamentale che co­loro che assumono nelle proprie mani l’educazione dei giovanissimi siano veramente all’altezza del com­pito come preparazione tecnica e come serietà mora­le. L’insegnante deve essere assolutamente compre­so della bontà della nostra idea, deve essere scelto tra coloro che per discendenza e per passato proprio non lascino adito al minimo dubbio. Si fa presto ad insi­nuare nell’animo dei ragazzi il germe delle idee con­trarie; la mente del giovane ragiona più di quanto non si creda. E nel corpo degli insegnanti che la Guardia dovrebbe ben fissare la propria attenzione, perché se l’opera dei giovanissimi di oggi dovrà svolgersi sol­tanto nel futuro, bisogna ricordare che questi giova­nissimi dovranno un giorno essere con noi, perché l’avvenire deve essere nostro.

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A scuola di razzismo 431

L’azione razzista si compie lentamente, per gradi successivi. Tutti i settori devono essere ripuliti ine­sorabilmente. Mentre le forze sane della Nazione la­vorano, deve entrare in campo un’altra arma di im­portanza capitale: la propaganda.

La propaganda deve aiutare, per mezzo degli uo­mini, l’opera degli uomini, deve far comprendere al nostro popolo avvelenato dalle promesse tutto l’or­rore delle sue vane speranze; deve far comprendere la grandezza della nostra idea di liberazione; deve far sì che le madri e le spose dei nostri caduti non male­dicano il sacrificio dei propri cari; deve risvegliare in tutti il sentimento dell’onore. Gli uomini devono la­vorare e lottare per ridare un po’ di dignità alla nostra razza maltrattata e vilipesa, alla nostra razza soltan­to italiana, senza “fratellanze e cuginanze”; la propa­ganda deve aiutare questi sforzi, la propaganda intel­ligente che pensi solo all’idea e non agli uomini, che dia solo uno sguardo al passato e punti diritta all’av­venire, oggi così minaccioso, ma che non può non ar­riderci.

Per far questo occorre che della propaganda si in­teressino uomini che sentano l’orgoglio di essere ita­liani, sentano 1 ’ orgoglio di appartenere alla nostra raz­za e cerchino di trasmettere al popolo i propri senti­menti; bisogna dare una coscienza della razza agli ita­liani, che hanno dimostrato di non averne affatto; l ’i­taliano deve sentire la superiorità che gli compete ri­spetto a tutte le altre razze del mondo per diritto di­vino e per diritto acquisito attraverso i secoli della storia; l’italiano non dovrà più inchinarsi di fronte al­la potenza dell’oro, ma soltanto di fronte a chi, col sangue, lotta per la vita e di fronte a chi appartiene ad una razza che, nel corso della sua storia, ha dato al­l’umanità sì larga schiera di santi, di navigatori, di in­ventori, di eroi.

Documento n. 5

Come immaginate un’azione razzistica nella Repubblica Sociale Italiana.

Capelli crespi, occhi bovini placidamente asson­nati fra palpebre e grasso, labbro inferiore sporgente e naso, classico inconfondibile naso gibboso dalle lar­ghe narici adagiate. A questo punto un umorista at­taccherebbe una delle solite storielle sull’avarizia e sull’atavico istinto all’affare del nostro personaggio; forse anch’io mi darei all’umorismo se non dovessi affrontare una questione molto seria, una questione un po’ più grande di me. “Ebreo”, dunque, essere spre­gevole, specialmente dopo l’anno zero di Cristo, per una serie di maledizioni; ma soprattutto emerito cor­ruttore di popoli, roditore indefesso delle basi eco­

nomico-sociali più robuste, accanito accentratore in­fine delle risorse finanziarie di nazioni intere, per cui presto il mondo avrebbe dovuto diventare un mono­polio ebraico. Sembra quasi unaritorsione nei riguardi dell’Eterno: “Ah sì, niente Patria? E noi ci becchia­mo tutto il mondo”. Del resto a una patria non sareb­bero più abituati; si accontentano di rovinare quelle degli altri. Cosicché la R.S.I. ha dovuto inscrivere fra i problemi di importanza vitale per la sua campagna razzistica la totale eliminazione di questa “vitis ru- pestris”, che era penetrata sotto i più pesanti blocchi marmorei — scalzandoli — dell’edificio nazionale. In tal modo siamo entrati nel vivo dell’argomento: azione della Repubblica per un ritorno alla razza, al­la nostra antichissima razza di dominatori. Che sia perciò necessaria l’eliminazione degli ebrei, non di­co come conseguenza del nostro lavoro, ma addirit­tura come premessa logica della sua buona riuscita, non credo ci sia ancora bisogno di dimostrarlo. Resta da vedere “come” eliminare; in questo caso userei si­stemi radicali.

Ricordo — non so più quanto tempo fa — quan­do vennero promulgate certe draconiane disposizio­ni a proposito dei giudei fino alle settime generazio­ni. Prendevo allora lezione -— in mancanza di meglio — da un professore ebreo tedesco, internato a modo nostro nella nostra bella Italia. Un giorno— con mol­te cerimonie — (era straordinariamente piccolo e ri­dicolo: lo chiamavamo il “nanetto”) mi si presentò, avvisandomi la sospensione momentanea delle lezioni per — ehm! — motivi di salute. L’indomani venne fuori il bando della settima generazione, ma il nanet­to era scomparso. Ritornò pacifico più tardi, al “ces­sato pericolo”.

Secondo me, noi italiani abbiamo sempre manca­to nel procedimento, nell’attuazione pratica delle no­stre “cattiverie”; siamo troppo delicati: “il signore permette che lo arresti?”. Userei — ripeto — in que­sto caso sistemi decisivi, senza compromessi o vie di mezzo. Segretezza, sorpresa, severità, estirpazione to­tale. Ecco come inizierei la campagna per il trionfo della Razza nella Repubblica.

Assieme agli ebrei, i massoni. Gente non meno de­leteria, questa ultima, e spesso subordinata o com­plementare della precedente categoria. Specialmente nociva nei riguardi del Regime e delle sue più alte ini­ziative, destinate a nobilitare le coscienze della mas­sa e ad additarle la via dell’imperio. Sono più che cer­to, che essi saboterebbero in avvenire — come han­no costantemente fatto in Italia e all’Estero prima del 25 luglio — tutti i nostri tentativi di ripresa sotto l’e­gida del simbolo repubblicano. Selezionamento rigi­dissimo, dunque, dei massoni superstiti. Non è mol­to difficile pescarli, son quelli che hanno fatto le por­cherie più grosse e si sono valsi dei mezzi più bassi

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432 Paolo Ferrari e Mimmo Franzinelli

per il loro operare. Tutto sta risalire nel passato di cer­ti individui, e studiarne attentamente il presente: qual­che cosa vien sempre a galla; da quel qualche cosa al­lora per induzioni e scoperte, si trova il bandolo, e la matassa si svolge poi pian piano nelle sue rivelazio­ni e nelle sue accuse. Non dico “epurare”, perché la parola ha acquistato ora un suono tristemente noto, dico solo selezionare, rigidamente selezionare.

I disonesti infine che, pur non appartenendo alle suaccennate categorie hanno tenuto o tengono, in po­sti di comando o di responsabilità, contegno incom­patibile nei riguardi della Rinascita, vanno cataloga­ti fra gli “ibridi pericolosi”, eliminabili anch’essi con severità e decisione. Una volta posti in condizione di non nuocere ai fini della purificazione razziale ebrei, massoni e questi ibridi pericolosi, eccoci di fronte al­la massa, povero popolo troppo intelligente da ripor­tare alla Dignità di Razza. Tuttavia ritrovare l’antico ceppo italico e restituire alla purezza delle origini tut­to un popolo di milioni d’abitanti è cosa ardua e dif­ficile. Un’opera secolare di accuratissime selezioni scientifiche, igieniche, morali, e il più delle volte agen­ti su di un terreno reso scabroso da diffidenze, rilut­tanze e falsità.

Dico subito che di problemi razziali — specie quando si entri in campo di crani e di indici cefalici — possiedo una assai modesta cultura; tuttavia ho in proposito delle opinioni personali che tenterò di espor­re.

II vero italiano — colui che serba intatta nel san­gue l’antica nobiltà del “vir”, del “civis” romano — ci si rivela subito per una incondizionata onestà, nel senso più lato della parola; come se onestà fosse si­nonimo di purezza della Razza. Onestà dei principi, onestà della morale, scrupolosissima onestà verso la Religione, la Patria, la Famiglia... Finché il passag­gio da onestà a Fede non è più che un passo, diventa dedizione assoluta alle leggi, ai destini della nazione, culto delle glorie passate, emulazione costante dei mi­gliori, rispetto alle tradizioni della Patria; come la semplicità dei costumi ispirava le forze migliori del­l’antica Repubblica — e le aquile d ’argento non ave­vano ancora spiccato il volo sul mondo. Questa è Raz­za, linfa purissima di quercia millenaria, in cui tutte le virtù sembrano sintetizzarsi e darci il tipo dell’ita­liano nuovo, quello che dovremo risuscitare nella e dalla massa.

Qui però ci si presenta la solita vignetta del solito Diogene con la non meno consueta lanterna, e ci sen­tiamo un po’ titubanti di fronte alla vastità e alla dif­ficoltà della impresa. Ma non è detto che tutta la mas­sa debba subire questo raddrizzamento totale; basta una forte rieducazione, un energico antidoto alla mo­struosa propaganda giudaico-americana che per lustri interi si è riversata sulla nostra Italia, azione coordi­

nata alle altre nella gigantesca offensiva contro il pro­gramma razziale e imperiale del Fascismo. Il perver­timento di tutti i gusti artistici, di tutti i sentimenti moraleggianti della nostra razza è stato come una gi­gantesca nuvola di temporale, che si era a poco a po­co protesa nel nostro purissimo cielo, sconvolgendo le menti e le coscienze...

...Grottescogrottescogrottesco 10 girls 10 ululati musicali pareti lisce di cubipiramidisfere colossali sincopi sonore uh-lalà biancaneve e i sette nani. “Co­sì si divertono i bimbi americani?” — bambini nostri atterriti... swing tip tap negri con labbra tumide sma­niami alveari egizi che toccano il cielo... Incubo; mu­sica, arte, tutto distrutto; irrimediabilmente perduto...

Tiro il fiato; non me ne fate una colpa: ho presen­tato l ’argomento con il suo stesso stile... Ed è mia fer­ma convinzione che per il risanamento morale del no­stro popolo tutto ciò deve assolutamente sparire dal ricordo di ciascuno. Si tomi al gusto italico, il classi­co “buon gusto”, quello che ha creato i più insigni ca­polavori del genio umano. Arte del più raffinato ce­sello, gioielli musicali, immortali creazioni della pit­tura, della scultura; concezione del bello. Il bello! Che cosa intendano ormai per “bello” questi italiani? Tip tap, tip tap... e volevamo che avessero coscienza im­periale. Risaniamo perciò il gusto, ingentiliamo nuo­vamente gli animi al culto delle divine manifestazio­ni del nostro genio. Quando questa massa sarà torna­ta a valutare il bello, e quindi il giusto e l’onesto, al­lora potrà iniziare nuovamente la sua marcia verso il futuro sotto la guida... sotto la guida, di chi?

Il prototipo dell’italiano ideale l ’abbiamo già pre­sentato con riferimenti alla famosa lanterna; ma il pro­blema non è poi tanto arduo come sembra.

Se il nostro Diogene fosse stato — invece d’un ci­nico abitatore di botti — uno spirito avventuroso, l ’a­vrebbe trovato, ai nostri tempi, l’uomo”.

L’uomo che, quando tutto per la Patria sembra per­duto, osa l’inosabile e lotta, disinteressato nei suoi al­tissimi ideali, contro le forze preponderanti del Ma­le.

L’uomo che non vede più sé stesso, vede soltanto l’Idea e per Lei dona tutto sé stesso, onestamente, eroicamente, senza “arraffare”, senza ricompensarsi, senza approfittare mai di nessuna circostanza. Que­sto è l’uomo che risponde ai nostri interrogativi; a lui diamo dunque questa massa da rieducare, da plasma­re sulla sua rettitudine... suo sia il comando, sue la re­sponsabilità e la guida. Dopo l’8 settembre questi uo­mini si sono rivelati in veste di molti giovani e gio­vanissimi; con essi, i “puri”, si crei la nuova casta di­rigente, fiore della Razza, sostegno della Nazione. Torneremo per una serie di conseguenze all’Idea del­l’Impero; ma questa volta il popolo, riconosciuta di­gnità di Razza e aspirazione di grandezza, si libererà

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A scuola di razzismo 433

dalle sue miserabili grettezze, del suo vergognoso ser­vilismo per respirare a pieni polmoni l’aria della su­periorità razziale su ogni altro popolo della terra.

Sul paradigma razzistico abbiamo così scelto gli “onesti-puri” che rieducheranno la coscienza stordi­ta del popolo con serena virilità. E questo popolo ec­colo venire a noi prima incerto e forse ostile: l’oppio ebraico era così dolce! Ma i fumi scompaiono nella fresca mattinata della rinascita, la massa attende il nuovo alimento agli spiriti. “Abbiate coscienza di voi, sentitevi dominatori, antica razza imperiale”. Soltan­to ora gli animi sono tutti protesi alla riscossa: vive­re, combattere, dominare.

“O Sole, che sorgi...” il mito riprende sui colli fa­tali, l ’antica divinità irradia di nuova luce l’antica “Urbs” risorgente...

Se questo programma potessi vederlo attuare, vor­rei — nella mia vecchiaia— metter su un piccolo mu­seo di ricordi. Vi inviterei tutti — naturalmente — a visitarlo.

Solita scena più o meno misteriosa con contorno di storte, alambicchi, fumi azzurrognoli, mummie e coccodrilli imbalsamati. Al centro il pezzo più inte­ressante della mia collezione: un vaso cilindrico in vetro, e dentro, sotto spirito, un gigantesco feto nero, mostruoso, grottesco. Ha capelli crespi, occhi bovi­ni... Scommetto che l’avete già riconosciuto: è un esemplare rarissimo. L’etichetta giallastra porta un ’ in­dicazione un po’ sbiadita: “Aebreus maleficus”...

All. Uff. Meccoli Giovanni 2° compagnia

Documento n. 6

Come concepite una soluzione del problema razzi­sta nella Repubblica Sociale Italiana

Esiste una razza italiana? Questo problema che ri­veste un’importanza capitale ai fini stessi della vita d’un popolo (e prova netta ne abbiamo avuto con le due date che segnano le tappe della nostra vergogna) fu per troppo tempo dimenticato. Solo nel 1938 (cioè solamente due anni prima dello scoppio di questa guerra), furono poste le basi per la risoluzione del pro­blema razziale italiano.

A parte il fatto che due anni sono pochi per poter operare in profondità, poco o nulla si è fatto per po­ter ottenere risultati concreti. È inutile tornare sul­l’argomento: non si farebbe che rimettere il dito su una piaga dolorante, perché è purtroppo vero che sen­timento di dignità nazionale vuol significare orgoglio di razza. Considerando come verità questo principio, si dovrebbe venire alla conclusione logica che in Ita­

lia manca una “pura razza italiana”, la quale, se pur è esistita, si è imbastardita e si è dispersa per cause esteriori.

Noi non siamo così pessimisti: seguitiamo a concordare in pieno col manifesto del ‘38, che asse­risce al punto 6: “esiste ormai una pura razza italia­na”. Non concordiamo con quella parte del punto 7 in cui si afferma che “la questione del razzismo in Ita­lia deve essere trattata da un punto di vista biologi­co”.

Oggi la storia ci ha dimostrato che in particolare in Italia la questione razzista investe il campo socia­le, culturale, artistico e filosofico, forse anche più che biologico.

Dicemmo che orgoglio di razza coincide col sen­timento di dignità nazionale. Pure il popolo italiano ha voluto dimenticare questa parola “orgoglio”. L’ho [ha] forse trovata troppo forte; certo è che nella stes­sa educazione della gioventù si cercò di combatterla, tratteggiando come un difetto quello che è una affer­mazione d ’una superiorità spirituale. Non si può es­sere “orgogliosi” se non si ha la coscienza di essere spiritualmente superiori. E questo può essere il pri­mo gradino per una rieducazione morale del popolo.

Sarebbe interessante domandarsi perché questo po­polo ha dimenticato quell’antico sentimento che lo spingeva a dichiarare al mondo: “civis Romanus sum”, affermazione su cui si fondava l’essenza della Romanità, come idea di forza nazionale.

Ricordo — sono ormai passati due anni — un con­gresso nazionale della gioventù universitaria italiana svoltosi a Firenze, impostato su un problema all’in­circa uguale a questo. Sarebbe interessante poter ri­portare l’intera discussione, cosa impossibile per ra­gioni di spazio. Ricordo però come ad una mia do­manda del genere di quella che ci siamo fatti qui so­pra, uno degli intervenuti rispose facendo risalire par­te della colpa a quella che egli chiamava “rivoluzio­ne cristiana”.

Risalendo cioè ad un concetto che è proprio del razzismo tedesco più spinto, egli intravedeva nel ros­so Galileo che sale il Golgota le stimmate indiscusse d ’una razza inferiore. Da un punto di vista biologico (proprio di quel razzismo tedesco) non aveva torto. Già in Manacorda (su uno degli ultimi capitoli de “la selva e il tempio”) troviamo lo stesso accenno. Ma la mia opposizione allora fu netta. Se pur Cristo era un giudeo, l’idea di Cristo nacque in Roma, in Roma ri­cevette lo sviluppo necessario, da Roma passò nel mondo. Qui bisogna lasciare ogni idea biologica, per­ché infatti biologicamente Cristo non ha avuto di­scendenti. Ma la sua idea, anche se venuta dall’O­riente, è Romana per sviluppo e tradizioni. Lo stesso Mussolini, in un lontano ‘21, affermò alla Camera “Se, come diceva Momsen [Mommsen], non si resta

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434 Paolo Ferrari e Mimmo Franzinelli

a Roma senza un’idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale che oggi esiste a Roma è quella che s’irradia dal Vaticano”. E nel Vaticano non dobbiamo vedere quella combutta di Cristianesimo semi-massone e anti-italiano che oggi vi impera, ma l’idea universale che trova la sua prima radice nella forza d ’una razza.

E d’altronde, questo ritorno ad una spiritualità, ad una rettitudine morale di cui oggi è impellente la ne­cessità, la si può trovare benissimo prendendo come modello la morale cristiana nello spirito della Roma­nità, quella morale che ha impermeato di sé il calmo razionalismo kantiano, lo spiritualismo di Hegel e di Nietche [sic], e tutta quella moderna filosofia che po­ne lo spirito a base dell’essere, e che sembra culmi­nare negli ultimi scritti di Giovanni Gentile, nei qua­li gettò le basi per quella che dovrà essere la nostra rinascita spirituale. Ma la colpa del graduale imba­stardimento di questa razza italiana, è dovuto ad al­tre cause, di cui lunga è l’analisi, ma di cui una delle principali è l’influsso d’una cultura esterofila e più o meno evirata, di un’arte volutamente rammollita ed estranea a qualsiasi movimento rinnovatore o purifi­catore, di un materialismo storico e di un pessimismo voluto.

Nessuno di noi è rimasto estraneo a questo che non è illogico chiamare “regresso dello scibile umano”. Il freddo pessimismo d ’una società materialmente ab­bruttita è arrivato fino a noi, dopo aver varcato l’O­ceano nelle traduzioni dei testi di Cronin, Steinbech [sic] e simili. La psicoanalisi standardizzata di una fa­cile letteratura più o meno slava (Zilai, Fòldi, Kor- mendi e simili) hanno trovato facile presa nelle po­vere menti malate di questa nuova forma di romanti­cismo. Freud ritorna, ma il suo materialismo assume questa volta un nuovo aspetto. C’è un pessimismo crudo, amarissimo, invincibile. Di redenzione, non c ’è la più lontana idea. I risultati sono quelli che so­no, è inutile descriverli: è la triste realtà di oggi. “Ame­rica amara” è il titolo del libro d ’un nostro scrittore di gusto italico che molto comprese della gente d ’ol- tre Oceano. Ma la nostra gioventù non legge di tali li­bri.

D ’ altra parte, errore sarebbe addossare ad essa ogni colpa. Non dimentichiamo che questi sono i frutti di una educazione volutamente falsata. Chi ha frequen­tato le aule dei licei e soprattutto le aule universitarie sa cosa voglio dire. Si è schematizzata la storia in un positivismo assurdo, si è falsata la filosofia, si è ma­terializzato con una critica spesso ironica e sempre demolitrice ogni concetto di morale. Si è troppo spes­so dimenticato che la vita dei popoli come la storia degli uomini soggiace a leggi spirituali e universali che trascendono la fredda critica scolastica per rien­trare nell’ordine eterno di Dio. Si è troppo spesso di­

menticato che è meglio educare lo spirito, lasciando­gli nel contempo libertà di pensiero, che imbavaglia­re la mente di fredde cognizioni scolastiche: ovvero, nel migliore dei casi, si è troppo parlato di spirito, spi­ritualità, spiritualismo senza convinzione o senza co­noscenza.

Ecco dunque la necessità della creazione d ’un mi­to, un mito che ci riporti alla Romanità, ma quella Ro­manità che ha per sfondo di vita l’“honestas”, non quella parodia di Aquile e fasci che abbiamo purtroppo conosciuto. Onestà non solo nel senso letterale della parola, ma, come ebbe ad affermare Mussolini in uno dei suoi ultimi scritti, onestà morale, che si identifi­ca con rettitudine, o, come dicevano i nostri padri: una “ratio et modus vivendi”.

Non intendiamo con questo arrivare alla fredda pu­rezza di Sigfrid [sic], il biondo eroe che impersonifi­ca la razza tedesca. Siamo essenzialmente latini noi, e tra Enea e Sigfrid c ’è una sostanziale differenza. Sigfrid è l’eroe tedesco incestuosamente concepito ma puro secondo un concetto a noi inconcepibile (cioè anche sessualmente), impermeato di un pessimismo radicale nascosto sotto un superficiale ottimismo. Enea è considerato non come eroe invincibile di fron­te agli dei e di fronte agli uomini, sul tipo dell’Achille Omerico, ma “pius” prima che eroe, puro secondo un concetto prettamente latino, che obbedisce al destino degli dei, ma che è anche uomo, e stenta a vincere la forza dell’amore. Nella storia di Sigfrid, al di là del corno delle spade e del sangue del mostro, s ’intrave­de la Wurd. Al di là di Enea, nello sfondo mistico del mare di Roma, s’intravvede Cristo. Enea e Cristo dun­que, che si confondono in questa “honestas”, in que­sta “pietas” che dà all’uomo la sua legge morale.

Ecco dunque uno schema per la soluzione d ’una parte del problema: la rieducazione del popolo, par­tendo appunto dal concetto che il popolo nostro ha già in sé i germi della buona razza, e che, se ben edu­cato, non rimarrà sordo a quello che Evola chiama il “mito del sangue”.

Ma se questa è l ’impostazione del problema da un punto di vista che chiameremo sociale, più rapida an­cora in quanto più decisa, ma non per questo meno importante deve essere l’azione sotto l’aspetto poli­tico.

L’azione politica è formata di due momenti prin­cipali: uno che potremo chiamare di forza, tendente ad eliminare i nuclei di razza inferiore, l ’altro che chiameremo creatore, allo scopo di formare una ca­sta politicamente e moralmente atta a governare la nuova Italia.

In Italia esistono ancora nuclei di razze troppo di­verse e inferiori alla nostra — in particolare ebrei — o di uomini che, spesso anche inconsapevolmente, hanno legato la loro esistenza agli interessi ebraici (v.

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gli appartenenti alle loggie [sic] massoniche). Nei lo­ro confronti la nostra politica dovrà essere spietata. Una sola è la via da seguire: l’eliminazione totale, co­sti quel che costi, o con l’estradizione o con mezzi anche più radicali se occorrerà. E ora di dir basta agli scrupoli, ai falsi pudori, alle mezze misure. Questi mezzi dispiaceranno senz’altro a quanti hanno di­menticato la voce del sangue, a quanti si son fatti im­bastardire eia una propaganda pietistica a bella posta falsata.

Ci accuseranno di essere degli estremisti, degli uo­mini di parte. Ma lo gridino a pieni polmoni, almeno, non si rincattuccino dietro le false barricate delle mez­ze parole: siamo orgogliosi di queste accuse. Ci ac­cuseranno, come già ci hanno accusato del resto, di essere in contraddizione con quella legge morale che noi vorremmo a base del nostro “modus vivendi”. Su questo punto siamo pronti a ribattere. E non voglia­mo abusare della facile difesa della maledizione di­vina che pesa sulle spalle del “popolo eletto”.

La ragione essenziale è un’altra. La nostra legge morale, che si basa essenzialmente sul ritorno ad uno spiritualismo, non può non contrastare con una legge morale che ha per base il disgregamento di ogni ci­viltà e che adopera come mezzi il ritorno ad un ma­terialismo sociale, ad un positivismo storico, ad un razionalismo filosofico.

Contro di noi furono usate tutte le armi, dal dena­ro che corrompe al coltello che uccide dietro l’ango­lo d ’una via, dall’ inganno culturale all ’enorme “bluff” sociale. In questi casi una mezza misura è colpa. An­che Cristo schiacciò il serpente del male e non ven­ne meno alla sua morale. Lotta spietata, dunque, lot­ta senza quartiere. Ma per poter giungere a questo, è necessaria anzitutto la creazione di una casta dirigente munita di quei requisiti di “honestas” di cui già par­lammo. Onestà, come già dicemmo, che si identifica con rettitudine morale, in senso lato, senza mezzi ter­mini, e che dovrà essere alla base della nuova idea nazionale.

E questo un punto difficile a raggiungere. Anzitut­to per la difficoltà di trovare questi che dovrebbero es­sere i veri “uomini nuovi”; questi li potrà dare solo la nuova generazione, moralmente purificata dal sangue d’una guerra e d ’una rivoluzione già in atto, temprata dai lutti e dalle sciagure, politicamente preparata a cau­sa d ’una nuova concezione della parola “responsabi­lità”. Non credo che questa gioventù mancherà all’at­tesa: a noi l’onore e l’onere della selezione.

La seconda difficoltà è costituita dall’avversione naturale che ha il popolo, infarcito di idee democra­tiche e comuniste per l’idea di casta.

Il popolo vuole aver l ’illusione di governare, di avere lui in mano le redini della nazione. E questa l’arma più terribile in mano all’ebraismo mondiale:

ha preso il nome di democrazia, ha preso il nome di comuniSmo, è sempre il primo passo verso il disor­dine. Non sono parole queste: lo stesso nemico ha chiaramente palesato i suoi piani: “I governi li ab­biamo trasformati in arene dove si combattono le idee di partito” “Sosteniamo i comunisti fingendo di amarli giusta i principi di fratellanza e dell’interes­se generale dell’umanità, promosso dalla nostra mas­soneria socialista.....Il nostro scopo è l ’opposto, va­le a dire la degenerazione dei Gentili” (dai “Proto­colli dei Savi Anziani di Sion” protocollo III, p. 60- 61).

Ecco quindi la necessità della creazione di un’ari­stocrazia, ma che sia veramente formata dagli “a p t - axo t” [i migliori, gli aristocratici]. Non a caso aria­no e aristocrazia hanno la stessa radice “a p ” di “a p t - axos” [il migliore, l ’aristocratico]. Migliori dunque, nel senso più puro della parola.

Quello che abbiamo scritto non è che uno schema, una base per il nostro programma di ricostruzione. Ogni punto è suscettibile naturalmente di nuove idee, di più ampia elaborazione. La mancanza di tempo c ’impedisce una ulteriore digressione sull’argomen­to; ma credo che partendo da queste basi e solo con questo sia possibile portare il problema nel campo pratico ed agire in profondità.

Dio salvi l’Italia! Che forse oggi, in questa Italia c ’è il germe della nuova ricostruzione morale, la so­la che possa salvare l ’Europa. Se cade l’idea di Ro­ma, è la tenebra che ha vinto. Per questo non possia­mo non credere nella vittoria, per questo noi ancora combattiamo.

A. U. Ermanno Migliarini IV Compagnia

Documento n. 7

V. Brig. All. Uff. Mosconi Cesare 2A Compagnia Allievi

Tema:COME CONCEPITE U N ’AZIONE POLITICA RAZZIALE NELLA REPUBBLICA SOCIALE ITA­LIANA

Libri consultati:G. Papini — GogS. D’Alba — Lezioni di cultura politica razziale

PREMESSE E CONSIDERAZIONI Con quanto andrò trattando non ho nessuna inten­

zione o pretesa di fare della dialettica sperimentale

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ma solo esprimere quanto la mia coscienza d ’italia­no e di fascista mi detta.

Sono perfettamente convinto che fino a quando in Italia non saremo giunti al punto di avere almeno un gruppo razziale abbastanza forte non potremo pre­tendere nulla da nessuno, per nessuna legge di socia­lizzazione.

Prima di tutto è necessario ritrovare ‘T humus vi­tale” che dia vita a questa specie di amorfismo nel quale è caduto il popolo italiano e secondariamente qualche buon italiano metta la propria esperienza al lavoro, il proprio sapere a disposizione dei volente­rosi.

Noi giovani, pieni di fede fascista e amor di Pa­tria, opereremo obbedienti, ma pretendiamo, dopo la vittoria con le armi, la immediata rinascita del Paese: culturalmente, razzialmente, materialmente. Preten­diamo si ritracci il solco di Roma. Non nuocerà se qualche volta divento epico.

Mi sovvengono in tal modo l’età lontane della “Rexpubblica” [sic] e della Grecia dominante il vec­chio mondo antico. E questo come? In virtù di un le­game razziale perfetto: cittadini fisicamente e cultu­ralmente a posto.

Lo Stato che detta leggi, costumi, religione al pri­vato cittadino, censura senza riguardi i mancanti ai doveri che gli sono imposti, regola con avvedutezza le finanze, il commercio, consiglia le madri alla edu­cazione fisica ed intellettuale dei figli, secondo una conformità di principi eguale per tutti, è per me — e questo è dimostrato — la forma migliore per fare del­lo Stato una cosa venerabile — sacra, del cittadino un essere intelligente, coscienzioso, religioso.

La storia della Repubblica romana è il principio e la fine di un esempio pratico che non si discute. Io mi confesso propenso per questo.

Oggi poi che la Repubblica è tornata e gli è a ca­po il Cesare dei tempi moderni mi riempie d’orgoglio tanta fama sì che la mia volontà è pronta a tutto fare pur di raggiungere di nuovo quel legame razziale che la caduta dell’impero romano sciolse.

È risaputo che nel corso di una storia millenaria non v’è stato popolo che non abbia avuto il suo trapasso storico-culturale. Così fu di Roma e le cause sono ben note. Se d ’altri popoli grandi tutto andò in fumo, di Roma rimase il germe di una razza superiore fatta di geni sommi, e per di più, una cultura tramandata, col­tivata, approfondita attraverso secoli di sottomissione, d’invasione e di devastazione, ma una cultura supe­riore che ha lasciato ovunque il segno della sua roma­nità e conseguenzialmente [sic] d’italianità.

Gli eventi storici furono avversi perché si avesse l’unione politica della razza in un periodo relativa­mente breve, per una divisione e suddivisione di pic­coli stati alleati delle potenze allora dominanti la vi­

ta militare e politica dell’Europa. Attraverso secoli di barbarie solo i nostri poeti e scienziati seppero tener vivo quel prestigio di comando che Roma aveva sa­puto crearsi con la forza militare, forza retta da un co­dice di leggi che non s’ha l’eguale. E quando attra­verso sacrifici materiali e spargimento di sangue l’I­talia di Mazzini e di Garibaldi giunse all’indipende- na nazionale ben poco di romano gli [sic] era rima­sto ancora.

In tutti è vero si era riacceso il desiderio di vede­re e di avere questa Italia libera, ma senza vedute po­litiche, ma senza la concezione di uno stato sano e forte.

Così nella vita della Nazione pullulano i partiti, la massoneria s’insedia al governo, s’accende la lotta. Da questo misero stato di cose l’ebreo trova via libe­ra e fomenta compiacente i deboli ministri alla lotta politica. Vediamo allora Cavour, il grande Cavour co­stretto ad affiancarsi l’ebreo Artom. Ma questo non solo in Italia succede ché anche Bismark [sic] ha per antagonista l ’ebreo Lassalle e in tal modo tutta la po­litica europea la vediamo dominata da elementi ebrei.

L’ebraismo ormai ha invaso l’Europa e la grande civiltà aria è abbruttita [sic] da questo male, insidia­ta nelle sue fondamenta.

EBRAISMO: — sguardo generale —Premetto che questo male dilagato in tutti i ceti

delle nazioni ha origini remote.Possiamo dichiarare abbia avuto inizio con la lot­

ta contro la Chiesa e notiamo subito come abbia por­tato un cambiamento nella vita di tutti i popoli ed in particolare degli americani, inglesi, francesi. Basta guardare la rivista filmistica per vedere che tutto quan­to è classico è scomparso; così dicasi della poesia, dell’architettura, della musica. Si vede un tutto nuo­vo, si corre in cerca di questo “nuovo” con una fre­nesia spasmodica, si cerca di cogliere l’attimo fug­gente benché certi di non raggiungerlo. Considerate e vi pare di vedere il mondo girare a rovescio e se vi lasciate incuriosire vi sentite attratti e solo non pre­cipita chi s’accorge del vuoto e teme la rovina mate­riale e morale.

Questo movimento lontano dalla vita etica, dal mondo del reale ha sconvolto le menti degli uomini.

Ma questo è il risultato di tutto quanto il lavoro occulto e velenoso dell’ebraismo [sic] ha condotto per secoli, il punto d ’arrivo cui si era proposto giungere: sconvolgere la mente degli uomini.

Adoperata in questo senso la propria intelligenza ha convinto l’umanità con fatti tangibili, pratici, ma­teriali. Con il denaro ha comprato e depravato le mol­titudini e le [sic] ha poi insegnato il mestiere: non ac­cettare e non fare nulla senza interesse. Così in Ame­rica, paese della felicità, paese del “NUOVO” o mo-

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demo, l’ebraismo ha attecchito più che non in In­ghilterra ed in Francia.

Ma guardiamo più d ’appresso questi ebrei.Facile, se avete visto qualche volta di questa gen­

te, farvene un concetto, un’idea tanto che ve ne ri­manga il ricordo. È vero: sono tutti eguali.

Io li ho visti nei campi di concentramento della Croazia, li ho conosciuti “liberi” con quella grande patacca gialla, affissa sul petto, in segno di ricono­scimento. Se non avessi saputo chi fossero stati, per quel loro marchio di riconoscimento, per quel loro volto dimesso il mio animo ne avrebbe avuto com­passione.

Guardandoli vi sembran paurosi, fisicamente e materialmente, ma nel loro sguardo notate un corag­gio temerario. Le affinità intellettuali ebraiche sono evidenti e basta vedere due soli di questi.

“Nati in mezzo a popoli diversi, — dice Benrubi — consacrati a ricerche diverse, tutti quanti hanno un carattere comune, un fine comune: quello di mettere in dubbio le verità riconosciute, di abbassare ciò che è in alto, di sporcare ciò che sembra puro, di far va­cillare ciò che par solido, di lapidare ciò ch’è rispet­tato”.

In questo modo ci si spiega la diversa interpreta­zione e spiegazione di correnti filosofiche e lettera­rie, di religione, di politica.

Notate l’ebreo Heine che vuol dimostrare e si bef­fa di romanticismo e cattolicismo [sic], Marx che di­strugge l’idea secondo cui politica, vita morale e re­ligione, arte non sono manifestazione superiore del­lo spirito ma bensì interesse [sic]. Questa loro avver­sità, quest’odio alla cristianità ce lo possiamo spie­gare solamente pensando che per non essere stermi­nati del tutto dovettero ricorrere, ingegnandosi, a dei ripari e questi loro ritrovati furono: il denaro procu­rato con un fine lavorio mentale. La ricchezza li rese subdolamente superbi e vendicativi e si ingegnarono di avvilire, dissolvere ogni ideale, distruggere i valo­ri sui quali vive la cristianità. Un lavorio lento, ma ef­ficace condotto con pertinacia crudele. Questa propi- nazione [sic] di veleni è la grande vendetta contro il mondo greco, latino, cristiano. Scherniti dai Greci, decimati e dispersi dai romani, furono depredati e tor­turati da molti cristiani ed essi impotenti con la for­za hanno condotto quell’offensiva tenace e corrosiva contro la civiltà dell’Atene di Platone e della Roma dei Cesari.

L’ebreo per questa secolare vendetta rimasta e tra­mandata di generazione in generazione riunisce in sé gli estremi più temibili: materialmente despota, spi­ritualmente anarchico.

Come possono vedere uno stato forte, essi, senza patria?

Date uno sguardo ai filosofi ebrei e considerate

quale perversione abbiano commesso. La donna, da noi considerata come un idolo, come un vaso di per­fezioni, la custode materna della famiglia è infamata da Weininger quale essere ignobile e repugnante [sic] ; Reinach s’ingegna di dimostrare che le religioni, rite­nute da quasi tutti, l ’opera di una mirabile collabora­zione tra Dio e lo spirito più alto dell’uomo, sono un avanzo di vecchi tabù, di ideologie continuamente va­riabili; Lombroso, altro ebreo, asserisce che [“] l’uo­mo di genio non è un essere divino bensì un semi­pazzo epilettico”. Come dire: Dante — Galileo — Manzoni — Marconi ecc. pazzi e neanche italiani.

Tutto questo fine e sottile lavoro ha sconvolto e creato correnti politiche e religiose nettamente con­trarie, ha dato adito ad una libera, ipotecaria [sic], di­vergente interpretazione di tutto quanto è sapere, cre­dere.

Visti in questo modo gli Ebrei e fattene le dovute considerazioni possiamo renderci perfettamente con­to della rovina spirituale e materiale della nostra Pa­tria.

FASCISMO — EBRAISMO E MASSONERIATra una politica incerta e vacillante, tra un susse­

guirsi spasmodico di ministri giungiamo al periodo prebellico del 1914. L’Europa è in fermento: gli in­contri e le riunioni dei governi sono troppo frequen­ti.

In Italia intanto s’affacciano alla ribalta Mussoli­ni e D’Annunzio. E Mussolini che bolla a fuoco i non interventisti e tutti coloro che osano schierarglisi con­tro. Qualche cosa c ’è di nuovo nel mondo. In Mus­solini v’è quel tanto che lo stacca da tutti, lo fa uomo vivo, un “vir romanus”.

Ma la guerra chiude questo ribollire di nuovi spi­riti e tutti tacciono perché la guerra è una cosa più grande delle discussioni politiche.

In pieno conflitto si tenta il colpo mancino a Ca- poretto ma tutto viene superato. A fine guerra però si ritorna all’attacco.

Quelli che dalla guerra hanno tratti immensi van­taggi, hanno fatto soldi giocano la loro carta di falsa­ri e di traditori: “Avete fatto la guerra — insinuano — e che vantaggi ne avete avuti? siete diventati ric­chi, forse? non vedete che Ci hanno traditi? la colpa è degli interventisti”.

Povero popolo, ignorante senza colpa! Così pro­pinato il veleno della vendetta si buttò la Nazione nel­la miseria e nel disonore.

Quello che la rivoluzione fascista risparmiò al po­polo italiano non fu mai detto e a Mussolini ben po­chi gli furono riconoscenti.

Il Fascismo uscito vittorioso dalla lotta annichilì, per il momento, massoni, partito di sinistra, sociali­sti — comunisti e paralizzò le trame degli ebrei. Fu

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438 Paolo Ferrari e Mimmo Franzinelli

così che Mussolini avviò la Nazione verso il progresso con metodi e con vedute di sapiente condottiero. Lui che vide nell’ebraismo in [il] nemico acerrimo e na­scosto lo additò al disprezzo prima e al bando poscia. Ma non era possibile fare tutto in un periodo relati­vamente breve e per di più andava a cozzare contro uomini ormai reputati unanimamente [sic] ligi alla Monarchia, amici del popolo. Difficoltà immense. Bi­sognava pertanto lasciare lavorare il tempo.

Ed intanto visto che la rivoluzione fascista non era il mostro tanto temuto tutti con buona o mala fede si mostrarono devoti al Duce e si dichiararono pronti a seguire ed aiutare il nuovo partito. Ma quelli che era­no stati battuti, toccati nel loro io, sbalzati dagli ono­rifici posti della Camera e del Parlamento giurando fedeltà al Capo promettevano in cuor loro la vendet­ta, una vendetta criminosa a danno di tutto il popolo.

Mussolini rinnovò tutto; lasciò intorno a sé una schiera di fedeli “collaboratori”, dovevano esserlo al­meno, e tutti coloro che avevano mostrato per lo me­no fiducia. Questi giurarono e rigiurarono che l’a­vrebbero seguito fino in fondo. E si mise al lavoro fi­ducioso più che mai. Era certo che il buon germe ita­liano avrebbe saputo riprendere vita e compatto in­travedere la grandezza e il benessere tanto sperato e da tanto aspettato.

Alle Potenze estere presentò e chiese senza timo­re le naturali rivendicazioni italiane e la strada che avrebbe seguita in caso negativo. All’intemo pro­mosse al massimo l’educazione scolastica e lasciò al­la Chiesa tutta la libertà di culto. Anzi subito s’acco­stò al Vaticano e sì avveduta e intelligente fu la sua cura che si giunse a quella santa ed agognata conci­liazione che vide di nuovo tutto il popolo italiano cat­tolico riconciliato con la Chiesa Romana. Il mondo cattolico e non cattolico esultò e i nemici ristettero.

Egli che amava il suo popolo altro desiderava; la gloria di Roma antica lo faceva fremere. Ritornò al romano con fanatismo, lo predicò, lo raccomandò, lo praticò. Per il prestigio italiano creò un ’ aviazione nuo­va, una flotta navale, un esercito forte. Per il suo man­tenimento promosse l’industria moderna della mec­canizzazione, curò al massimo l ’agricoltura e i risul­tati primi furono confortanti. — Il suo sogno era bel­lo, seppur audace, ma conseguibile.

La Nazione tutta, vale a dire il popolo, credette ve­ramente di essere ritornato “romano ancora”, ricordò con commozione i racconti storici, sentiti da bambi­no, di Garibaldi, di Mazzini, le glorie di Roma e in­travide un poco di benessere, un poco di felicità al suo travaglio.

Mussolini aveva saputo instradare questo popolo intelligente e lavoratore, renderlo orgoglioso di sé. Bastava staccarlo dal mondo fantasioso americano e straniero, riportarlo al normale svolgimento di un me­

todico lavoro quotidiano. Bastava toglierli [sic] quel barlume di “nuovo moderno” che era giunto dai pae­si ebraicizzati, dal paese del jezz [sic], del divorzio, della scostumatezza.

In pochissimo tempo avremmo avuto un popolo veramente sano, forte, colto. Mussolini che s’accor­se del male lo additò e mostrò la via da seguire: ri­torno alla romanità, all’etica, al classico, alla morale cristiana. Ma quello che Mussolini voleva fare era troppo grande, pensarono i maligni. Concepirono il disegno lungimirante del Duce e giocarono sulle pa­role: ritorno alla romanità, ritorno a quei principi di superiore spiritualità che costituirono l’essenza di tut­te le civiltà arie. Sorse così la parodia della romanità capeggiata dai massoni e i seguaci del nuovo partito, preposti a insegnare la nuova dottrina, mancarono in pieno alla loro missione. E tutto il programma idea­to da Mussolini, sì bello e pratico, fu minato al suo sorgere.

Quello che nel lontano 1922 aveva chiesto alle Po­tenze Alleate lo richiese nel 1934, solennemente. A nulla valsero i suoi sforzi e l’atmosfera si riscaldò. Tutti aspettavano qualche cosa di nuovo, credevano fermamente nel Duce: troppe prove ormai aveva da­to di grandezza.

Tutta la cricca filo-ebraica allora gli fu contro ma non si fermò ché le aquile romane spiegarono il volo verso l’Africa e vi si stabilirono: l ’Impero, ormai ri­cordo lontano, era risorto! !

Nessuno dei nemici avrebbe mai creduto a tanto perché altrimenti una nuova guerra mondiale sareb­be stata scatenata ancora allora.

Crebbe pertanto l’odio dei massoni per il trionfan­te partito fascista. Da allora si cominciò non solo con la propaganda, con mene politiche a criticare il fatto dei cattivi fascisti ma dagli stati maggiori militari si cominciò a mettere in dubbio le reali aspirazioni del Fascismo. Alla Corte, tra gli ufficialoni, gli altilocati si temeva un colpo di scena. Dove voleva arrivare que­sto Mussolini? L’invidia prese campo neO’animo me­schino di quei disgraziati. Si creò in tal modo una cor­rente circospetta prima, avversa e maldicente poi. Pur riconoscendo i meriti il popolo credette e fece semen­za delle male insinuazioni dei partiti massoni ed ebrei che lavoravano coperti dagli alti papaveri dei gerarchi. E mentre Mussolini disponeva il massimo incremen­to per la produzione bellica, agricola costoro sabota­vano e preparavano la rovina d ’Italia.

Ritornata la guerra quale triste esperienza di que­sto tradimento!!

CONCEZIONE RAZZIALEDa queste tristi esperienze è necessario trame i do­

vuti insegnamenti. Molti sono evidenti, tanti sono da tentare. Ormai tutto dobbiamo osare.

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A scuola di razzismo 439

Secondo me il concetto di razza abbraccia tutti i momenti della vita del singolo individuo e l’indivi­duo in ogni suo atteggiamento, manifestazione cul­turale, spirituale, industriale, commerciale, sportiva esprime i caratteri della razza cui appartiene.

È indiscutibile che la razza italiana è inconfondi­bile per ragioni politiche, fisiche ed in particolare per ragioni culturali. Ma la nostra razza sta decadendo e bisogna ricondurla sulla buona strada. Visto che la nostra decadenza ha dipeso per l’ignoranza di una grande concezione politica mondiale moderna ecco quale sarebbe il mio tentativo: educazione politica della massa secondo una concezione, oltre che etica, materiale della vita: un materialismo, ben s’intende, cristiano.

L’educazione politica della massa dovrebbe esse­re pertanto la prima e più importante azione della Re­pubblica sociale.

Lo Stato deve impartire questa educazione politi­ca secondo un metodo facile, di pratica attuazione che invogli il cittadino a seguirlo perché di giovevole in­teresse per lui e per lo Stato medesimo, in definitiva secondo un concetto prettamente socialista.

Questo bisogna fare perché il popolo esca da quel tabernacolo di incertezza, di sfiducia e non rimanga assente dalla vita nazionale. Tutti i problemi gli deb­bono essere noti. Materializzata, socializzata questa educazione politica — materialistica — l’aspirazio­ne per essa sarà più forte e vedremo il popolo seguirla con passione, con orgoglio. Insomma da questa edu­cazione il cittadino deve trame tangibile interesse su­bito. Non bisogna deluderlo neanche un attimo. Una simile concezione e insegnamento materiale delle sin­gole azioni renderebbero senz’altro orgoglioso il po­polo che per noi vorrebbe dire avere cinquanta mi­lioni d’uomini, una potente macchina pronta a seguirci ovunque, che lavora per uno scopo materiale eviden­te, ma che da questo trae sollievo, prepara e tempra10 spirito per il conseguimento anche delle mete idea­li.

L’intelligenza per questa materializzazione non dovrebbe venir meno e dovremmo pertanto vedere in ogni campo, in ogni cellula il popolo lavorare per l’in­teresse della Nazione. Ecco come è da me concepita in sintesi questa materializzazione o educazione po­litica, prima di tutto alTintemo del Paese e quindi al­l’Estero.

Vengo subito al fine materiale e premetto: perché11 nostro Esercito non era armato bene? Due sono le cause. La prima quella del sabotaggio, la seconda mancanza di tecnici quantitativamente occorrenti. Ve­dete manca la materia, perché qualitativamente i po­chi che avevamo erano da mettere alla prova. Da que­sto nasce chiaro il bisogno di indirizzare molti gio­vani allo studio scientifico: non dimenticare però l’e­

ducazione politica, mai. Una scuola scientifica, però, dev’essere sopratutto scientifica. È inutile protestare in nome dell’Umanesimo, nostra ricchezza e tradi­zione: un umanesimo male assimilato diventa retori­ca, e fu proprio tutta questa retorica a rovinarci. E mi si lasci dire che un ragioniere, un geometra, un peri­to appena sfornati dalla scuola e patentati devono po­ter essere immessi nel lavoro senza ulteriori perdite di tempo per acquistare pratica. Questo deve dimo­strare quanto ho detto sopra: mirare diritto allo sco­po materiale, vedrete che ne avremo giovamento con molta soddisfazione tutti. E per quanto riguarda l ’e­ducazione incrementarla ancora; l ’umanesimo deve trionfare ancora in tutte le scuole italiane, ma con una concezione moderna, con lo spirito materialista d ’og­gi, però.

Creato l’interesse della massa ne deriva di conse­guenza quello dello Stato o viceversa, ed allora biso­gna sviluppare al massimo tutte le industrie sì che non s’abbia a sentire dire: all’estero hanno fatto questo, hanno inventato quest’altro e noi a rimanere lì ad at­tendere la manna. Pertanto non dev’essere l ’indu­striale privato o lo scienziato soltanto a tentare la pro­va e fame magari il copione — è solo qualche cosa — ma tutte le case industriali, ma tutti gli scienziati riuniti in corpi.

Lo Stato questo deve pretendere da essi al fine di inculcare nei medesimi l ’amore e l ’orgoglio del trionfo del nome d ’Italia. E solo da essi che si può pretendere quel tanto che trascini la massa, faccia del nome italiano ancora una volta una luce di sapere, d ’esempio e scaturisca da questo legame di progres­so il fermento spirituale che conduce a mete superbe per cui si intravede il divino e si raggiunge la gloria, il trionfo. Però sarà bene non fare della retorica, as­solutamente: sarebbe deludere ancora una volta il no­stro popolo. Il passato teniamolo quale ricordo ed esempio perché è meglio creare, perché il nuovo, il reale oggi impressiona maggiormente le menti dei po­poli. E debbono essere i capi a dare l ’esempio di que­sto nuovo, di questo progresso, creare il mito di una superiorità intellettuale-industriale italiana. Nel cam­po agricolo poco c ’è da raccomandare in quanto il no­stro contadino conosce abbastanza bene il suo me­stiere, solo tener vivo l’amore per i campi e dargli qualche soddisfazione.

Il secondo mio punto tocca la politica estera. — Si deve indirizzare un corpo d ’uomini virtuosi, i mi­gliori della razza, e devoti che della Patria nutrano sentimenti profondi ed intenti altissimi, siano addi­rittura tifosi della loro italianità. Saremmo certi che in ogni circostanza saprebbero ritrarre o almeno sal­vaguardare quei diritti ed interessi che la mia politi­ca razziale perseguirebbe. Io, per molte ragioni, pen­so che disponendo di un detto corpo d ’uomini diplo­

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matici il compito di organizzazione all’interno del Paese sarebbe facilitato moltissimo. In tal modo il cor­po diplomatico estero dovrebbe essere un termine re­golatore: d’informazioni vere e proprie — notizie — e di problemi scientifici — culturali — industriali in atto nel paese straniero.

A questo compito indirizzare uomini della Guar­dia, esclusivamente, ma quelli nuovi, i giovani per­ché hanno dimostrato di avere una fede oltre che di fascisti, d ’italiani fanatici e coscienziosi.

LA SCUOLA. — I professori ed i maestri sono i responsabili dell’educazione morale-professionale e massimamente politica degli scolari. Da essi dipen­de la formazione di bravi cittadini o meno. Il maestro dev’essere il fedele interprete del Governo e come ta­le deve comportarsi. Su di lui il Governo deve vigi­lare seriamente e allontanarlo dall’insegnamento co­me lo sorprende una sola volta in fallo. Bisogna crea­re in questo campo una severità estrema: per il mae­stro provare la sua dirittura morale e professionale e per lo scolaro il suo profitto. Dato che lo scolaro si appropria le qualità buone o i difetti del maestro, que­sti dev’essere pertanto virtuoso — colto — politica- mente e civilmente a posto, o altrimenti lo si manda a zappare la terra.

Indirizzare allo studio classico un numero di stu­denti ben selezionato e preparato in modo di non crea­re — come è avvenuto in clima fascista — un bran­co di intellettuali ignoranti professionalmente e svo­gliati — maldicenti — criticoni che hanno rovinato la massa con la loro politica disfattista.

Alla educazione del bambino devono concorrere seriamente la madre, il padre, il maestro. Il padre e la madre fattivamente non come è sempre stato: educa­zione superficiale. Questi tre esseri devono coordi­nare il loro insegnamento in modo che il ragazzo non subisca dei disguidi. La prima maestra del bambino è però la mamma ed ecco presentarsi adunque la ne­cessità di educare la donna: in Italia purtroppo è ri­masto un problema insoluto.

Ma che non si potrebbe ritornare all’insegnamen­to materno quale era presso le matrone romane?

Quali esempi di soldati e di cittadini non dettero quelle donne?!

L’insegnamento religioso spetta alla mamma e quindi al Ministro di Dio. E bene intendersi subito però con questi ministri d ’oggi. Noi siamo cattolici ed anche noi abbiamo avuto un insegnamento reli­gioso e da questo non vogliamo allontanarci perché sappiamo di far male.

Guardino bene loro, però, che stanno rovinando questo nostro popolo per la semplice ragione di ave­re “dimesso” l’abito talare e vestito l’abito civile e dal pulpito predicare un verbo che non è quello di Cri­sto.

Voglio dire che questo non è il loro mestiere e ine­sperti ci fanno brutta figura.

Noi vogliamo che insegnino bene la religione, che la inculchino profondamente, saremo loro grati e ri­conoscenti di averci saputo preparare degli uomini virtuosi, coscienziosi, dignitosi.

Altrimenti lo Stato farebbe bene dare una educa­zione religiosa servendosi del maestro esclusiva- mente: sempre però una educazione religiosa cristia­na.

Per avere una razza che risponda pienamente a tut­ti i requisiti è necessario che si guardi e si curi in par­ticolare il matrimonio. Non è ammissibile che il cor­po di polizia e dipendenti uomini dei servizi e am­ministrazioni statali e dell’esercito sposino la prima donna che una qualsiasi avventura gli può presenta­re, ma dev’essere il Governo a stabilire se conveniente o meno. Per quanto riguarda il matrimonio con don­ne straniere sarei d ’avviso di abolirlo quasi del tutto. È risaputo che da queste donne od uomini, provenienti dai paesi stranieri, nasce un deviamento nell’educa­zione del bambino in quanto la madre od il padre ri­corderanno sempre il loro paese e cercheranno di ab­bellirlo brutto pur che sia. Il bambino pertanto sarà portato ad amare più il paese materno o paterno con grande scapito della nostra unione spirituale e raz­ziale.

Queste sarebbero le più evidenti concezioni raz­ziali da mettere in atto senza aver toccato quelle ri­guardanti il commercio: vale a dire esportazione ed importazione e benché sia mia ferma convinzione che sarebbe necessario inculcare nella mente degli italia­ni la convenienza di preferire al prodotto, al ritrova­to straniero il prodotto nazionale con conseguente vantaggio della produzione.

Documento n. 8

Spinelli Enzo

Razza

Opere consultate: Corso di Cultura politico-razziale del Magg. S. D’Alba

Infinite e considerevoli sono le cause che hanno determinato il crollo materiale e spirituale della no­stra Patria: molti oggi a breve distanza dagli avveni­menti fatali cercano di individuarne quali principali ragioni: la scarsa potenza industriale, la povertà di materie prime, la strapotenza del nemico, i bombar­damenti; altri parlano di tradimenti, d ’impreparazio­ne spirituale del popolo e dei quadri delle Forze Ar­mate oltreché degli effettivi di esse, di corruzione del­

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A scuola di razzismo 441

la gerarchia direttrice italiana, di propaganda mala­mente concepita ed attuata e scoprono la giovinezza dell’unità italiana. Questi ultimi evidentemente han­no ragione, ma pochi ricercano le origini profonde che hanno determinato un simile stato di cose, men­tre pochissimi che da tempo hanno veduto giusto og­gi affermano che il 25 luglio 1943 ed il conseguente tristemente famoso 8 Settembre dello stesso anno, stanno ormai nella Storia d ’Italia a documentare la tragica conseguenza di un errore che è stato e sarà sempre fonte di infiniti mali ad ogni nazione: il non aver curato, anzi l’aver trascurato il fattore razza. La storia insegna che, contrariamente a quanto venne af­fermato da interessati per più secoli, non crolla una nazione per scarsa morigeratezza dei sessi, per nu­mero di nemici e per tante altre cause che ad esem­pio oggi, si cerca forse involontariamente di mettere in primo piano, se la sua struttura interna è salda e compatta, mantenendo conseguentemente nell’insie­me un’[sic] atteggiamento dello spirito che ha per ba­se il senso dell’onore e la coscienza di razza.

Razza! Questa parola, ancor oggi costituisce una enorme eresia per la grande massa italiana, bendata inizialmente da un preconcetto religioso che, soste­nuto con ogni mezzo da chi non vuol morire o alme­no riformare i suoi superati principi, ha per fonda­mento l’uguaglianza del genere umano. A questa ce­cità iniziale sono da aggiungersi gli sforzi che l ’e­braismo intemazionale sotto svariate forme di sette già da gran tempo oppone a questa novella verità del secolo, che sarà la luce che illuminerà le menti e gui­derà l ’operato delle nuove generazioni. Già dai tem­pi di Omero e di Erodoto ci s’interessava a questo pro­blema, Aristotele non lo trascura e i Romani lo ten­gono presente nella loro legislazione. Tutti gli anti­chi, come si può dimostrare con numerose documen­tazioni specie di carattere artistico, ebbero coscienza di razza; ancor oggi se si guarda la costruzione della società indiana si denota la sua suddivisione in caste, forse primitiva, ma di innegabile carattere razzistico. Oggi il grande mito stà [sic] per assurgere a verità e sarebbe criminale per gl’italiani trascurarlo ancora per l’avvenire.

Non si deve ancora ignorare che il cosiddetto ge­nere umano non si suddivide, come finora affermato, in razza bianca, bruna, nera, gialla, — non si diffe­renzia nemmeno per confini politici, per religioni, per costumi, tradizioni, — non esiste uguaglianza del ge­nere umano, esiste invece come norma naturale la di­suguaglianza: essa è da ricercarsi nel sangue dell’uo­mo. E il sangue quindi che caratterizza l’atteggia­mento spirituale e psichico oltreché la conformazio­ne fisica dell’individuo: tale concetto costituisce il fondamento dell’ideologia razzista e trova sempre più conferma nella realtà con le recenti scoperte scienti­

fiche. Le masse umane quindi si distinguono per san­gui, [sic] dando origine alle diverse razze: perciò ogni individuo, in misura maggiore o minore, agisce e rea­gisce in conseguenza del sangue che ha ereditato, quindi con lo stile della razza a cui appartiene. Esi­stono quindi individui di buona razza e di cattiva, uo­mini di superiore spiritualità ed altri di nessuna, c ’è l’uomo che appartiene alla razza superiore fatta per produrre, dominare, conquistare, e l’individuo infe­riore, senza alcuna capacità ideale e spirituale, nato per strisciare, portar catene, servire. Ad esempio il ti­po ebraico costituisce la razza dei parassiti insaziabi­li, assetata di vendetta e di dominio, capace solo di dissolvere mai di costruire; al contrario, l ’uomo di ceppo ariano, attivo, creatore, dominatore, guerriero incurante della vita ed emanante superiore spiritua­lità in ogni sua manifestazione, è la luce che dà vita agli individui delle razze inferiori: egli possiede la ca­pacità di trasumanarsi nei momenti più tremendi che supera con la più virile ed eroica volontà. La morte non ha valore per l’ariano, essa non informa le sue azioni che s’ispirano sempre ad una sovrana compo­stezza che non conosce abbandoni ed entusiasmi fre­netici. A questa razza appartiene parte della popola­zione europea ed indiana e gli studiosi quasi tutti nor­dici riferiscono l’appartenenza a tale razza alle po­polazioni indo-slave-germaniche dimenticando la raz­za di Roma: qualcuno perfino, come il Chamberlain, osa chiamare semitica la civiltà. Dovendo stare alla tipologia del Günther noi italiani dovremmo essere una razza di espressionisti, cioè di gente, che in­fluenzata nei secoli dall’ambiente, si cura più “di vo­ler apparire qualcosa che non nell’essere qualcosa”. Oggi abbiamo anche noi studiosi di razzismo, quali il Preziosi e lo Evola, i cui meriti sono ampiamente riconosciuti all’estero, essi hanno finora sostenuto sul­la base di incontestabili prove Tarianità della razza di Roma alla luce di una superiore concezione razzista squisitamente italiana. Nessuno può contestare oggi che una buona parte degli attuali italiani proviene dal ceppo ariano, secoli anzi millenni di storia gloriosa e di innumerevoli conquiste in tutto il campo delle ma­nifestazioni umane, lo documentano con inequivoca­bile chiarezza. L’arianità delle romanità delle origini e più particolarmente della repubblica non è discuti­bile. Rimane da stabilire in che misura abbiano no­ciuto gl’incroci e le mescolanze che si sono verifica­ti dalla caduta della repubblica romana ad oggi a cau­sa della revisione della legislazione razzista dell’Im­pero, e delle innumerevoli invasioni barbariche che si sono abbattute sulla penisola durante i secoli: mal­grado ciò alla luce di studi e di statistiche seriamen­te attuati si può affermare che almeno i tre quarti del­la popolazione italiana attuale sono ariani, cioè pos­seggono in sé stessi immense risorse, tesori insosti­

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tuibili che mancano all’altro quarto. Dunque dal pun­to di vista biologico non ci troviamo in cattive con­dizioni: altrettanto, sarebbe inutile negarlo, non si può dire per l’attuale atteggiamento spirituale della nostra popolazione: io ritengo fermamente che ciò sia do­vuto ad un lento e prolungato nei secoli processo di degenerazione sviluppatosi, oltre che per il servaggio del nostro popolo, anche è [e] più specialmente per la deleteria influenza di alcuni principi della Chiesa cri­stiana, ad esempio: la uguaglianza, la fratellanza, la libertà, specchietti per le allodole per chi non è mai riuscito a compenetrarsi dell’utopia contenuta in que­sti tre innocentissimi principi che, come insegna la storia, non hanno mai avuto pratica attuazione, anche per la refrattarietà e rirrazionalismo propri dell’uo­mo; non và [sic] dimenticata la concezione cristiana del peccare, concezione, che agendo profondamente sulla massa del popolino ha portato il nostro conta­dino, il nostro operaio ad avere innata per ereditarietà la convinzione che il maggior peccato sia quello car­nale: No! E un peccato ma non il maggiore: la soddi­sfazione più grande della coscienza umana e la supe­riore spiritualità di quest’ultima stanno nel senso del­l’onore che l’individuo possiede in misura maggiore e minore. Chi è capace di mantenere integramente, a costo della vita e di terribili prove, una fede ed infor­ma con sincerità tutte le sue azioni unicamente per essa, quegli è un uomo di razza, spiritualmente puro, degno del più sacro e venerato altare. Esiste, quindi, in Italia soltanto una sparuta minoranza di spiritual- mente puri, sono essi che nei momenti critici emer­gono dalla massa e tengono alta la fiaccola dell’ono­re e della verità, poiché in essi è insita la risorsa di veder giusto perché portano con sé l’esperienza mil­lenaria della razza. Questa minoranza fece l’unità d ’I­talia, la salvò dal bolscevismo nel 22, lotta con estre­ma disperazione oggi per difenderla, redimerla, ri­sollevarla.

Alla millenaria influenza cattolica è da aggiungersi l ’opera dissolvitrice e falsatrice dell’ebraismo e dei suoi derivati, primi tra essi: il bolscevismo, la mas­soneria e il capitalismo. Questa piaga contro cui il Duce si scagliò coraggiosamente nel lontano 1919 col famoso articolo antisemita del Popolo d’Italia, male­detta da Dio e da tutti coloro che oggi ne conservano le cicatrici, sparsa per il mondo per innata attitudine del sangue, tenuta insieme da un vincolo religioso, di cui il Talmud, caotico volume, al quale da secoli s’i­spirano gli ebrei, è la più alta espressione, spinta da insaziabile sete di dominio e di odio s’impadronì dei posti di comando, specie dell’alta finanza in quasi tut­ti gli stati, servendosi dell’intrigo, della calunnia e dei più riprovevoli mezzi, quali il ricatto e la corruzione, per influenzare la vita politica mondiale, facendo sen­tire i suoi malefici effetti sin dalla Rivoluzione fran­

cese di cui è responsabile e in cui tornano motivi do­minanti: la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza ecc. ecc. Da allora, incominciò a minare tutto ciò che di bello e grande le razze del mondo avevano accumu­lato per secoli allo scopo di disgregarne l’intima es­senza e, lanciata al dominio della terra intera, pro­curò, con astuzia diabolica, le cause di tante guerre ed anche di questa che viviamo, allo scopo di dissol­vere e di logorare tutto ciò che presentavasi troppo duro per i suoi denti. Questa guerra infatti, più che questione di colonie e di sfarzi, di materie prime e di egemonie è lotta di razze quindi di lotta di vita e di morte. Come altrimenti si potrebbe spiegare l’inter­vento statunitense in questo conflitto se non attri­buendolo all’ebraismo che occultamente e aperta­mente manovra gli uomini di stato americani? Sa­rebbe esistito in Italia “il tempo del bastone e della carota” se con la propaganda falsata specie della stam­pa, della cinematografia, delle varie manifestazioni culturali, se con l’introduzione del’[sic] “jazz”, col sabotaggio, se con la corruzione degli spiriti mediante il denaro, — con innumerevoli, insospettabili, finis­sime astuzie l’ebraismo e la massoneria non l ’aves­sero generato facendo crollare la nazione italiana men­tre col suo sforzo maggiore tendeva alle mete che tut­ti conosciamo, ed alle quali, costi quel che costi, noi fascisti non intendiamo rinunciare?

Da quanto detto in precedenza, risulta che non si può ricostruire l’Italia, se non impostando seriamen­te un’azione che tenda, in un primo tempo, a mettere d’accordo e unificare le vedute degli attuali razzisti italiani onde creare una scuola di minoranza che, op­portunamente indirizzata, si svilupperebbe in un se­condo tempo, improntando col suo operato tutta la vi­ta nazionale e mirando alla rieducazione spirituale della parte fisicamente sana del nostro popolo ed al­la cura della bastarda onde migliorarla di generazio­ne in generazione. Soprattutto però, e forse prima d ’i­niziare tale opera è necessario formulare uno statuto onde impedire e stroncare ogni tentativo di sviamen­to e di travisamento nel tempo. Non si deve dubitare della riuscita finale, nell ’ affrontare molti problemi ap­parentemente insormontabili, l’operazione è doloro­sa e non è di un giorno ma l’Italia dei posteri non si troverà di fronte al dilemma: dell’“essere o non es­sere grande”. Abbiamo a portata di mano l’esperien­za germanica, adattiamola dunque alla nostra conce­zione razzista e scendiamo in campo: la lotta sarà più difficile che dura, ma l’intelligenza degli uomini che saranno preposti all’opera, se si saprà accuratamente selezionarli, trionferà della astuzia avversaria.

Il primo e forse il più grande problema da affron­tare è quello religioso: o la Chiesa riforma parte dei suoi principi anche dogmatici e permette il giuramento delle sue gerarchie nelle mani dei Capi della vita ita­

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liana, o essa và [sic] radicalmente ricostruita da noi: molti buoni italiani hanno potuto convincersi, me­diante l’esperienza di questa guerra, che la Chiesa co­stituisce uno stato entro lo stato che informa ed in­fluenza l’azione e il pensiero delle masse italiane (per stare alle cose di casa nostra) secondo gli scopi della sua politica estera. In Italia dovranno rimanere sa­cerdoti italiani che pensino italianamente e che col- laborino all’opera del governo: io però penso, che quanto più energica e radicale sarà l’azione anticleri­cale, tanto più grandi saranno i risultati, tali almeno da compensare di gran lunga le nostre fatiche e da creare un’Italia futura senza dualismi spirituali.

Per raggiungere tale scopo è necessario trasfor­mare lentamente l ’attuale concezione religiosa, in un’altra a carattere nazionale a sfondo eroico-spiri- tuale, improntata alle esigenze del razzismo. Que­st’azione contribuirà decisivamente [sic] alla riedu­cazione spirituale delle nostre masse, in quanto offre un mezzo potente, quale la religione per inculcare in esse la coscienza di razza e di razza d ’onore, per im­beverle di principi che le potranno immunizzare dal­la infezione ebraico-massonica. Per impedire però che tale compito venga sabotato e falsato è necessario pre­porvi uomini che alla conoscenza perfetta di esso pos­sano aggiungere un’arianità biologica e soprattutto spirituale inequivocabile: tali da essere intangibili a qualsiasi allettamento o corruzione, a qualunque in­nocente suggerimento. “Il tempo del bastone e della carota” ha permesso in Italia, seppure grossolana­mente, la selezione dell’aristocrazia del sangue e del­lo spirito, quest’aristocrazia non và [sic] trascurata ma valorizzata al massimo perché possano concre­tarsi le enormi possibilità che essa possiede poten­zialmente.

Contemporaneamente all’azione sul campo reli­gioso và [sic] condotta una non meno difficoltosa of­fensiva contro l’ebraismo e la massoneria. Per quan­to riguarda gli ebrei ed i massoni che si riconoscono tali il mezzo più utile non è quello di espellerli, ché all’estero potrebbero nuocerci, ma di distruggerli; per quelli che invece non possono venire identificati, il mezzo migliore per disarmarli e renderli innocui stà [sic] soprattutto nel sapiente controllo della propa­ganda, sia di stampa, sia cinematografica, sia a ca­rattere di manifestazione culturale: letteraria, scien­tifica, artistica. Controllo vigilissimo specie della stampa: molti sono i libri in circolazione che stareb­bero bene all’indice, moltissimi sono gli scritti antie­braici che stampati dopo vere e proprie lotte contro il sabotaggio delle case editrici, scompaiono dal mer­cato per preventivo accaparramento di migliaia di co­pie ad opera di misteriosi personaggi. È tempo di apri­re gli occhi e di mantenerli bene aperti. La direzione delle case editrici ed il loro personale devono essere

saldi strumenti in mano dello stato anch’essi quindi richiedono uomini razzialmente puri di chiara com­petenza e fedeltà. Non minore attenzione deve esse­re rivolta alle rivendite librarie per facilitare la ripar­tizione e la totale immissione delle opere negli strati della popolazione. Non da scartarsi l ’impostazione di un ente statale di rivendite librarie con rappresentan­ze in tutte le città d ’Italia. Nessuno deve abbando­narsi a scetticismi o ad ironia se si afferma che anche il nostro vocabolario ha bisogno di essere riveduto: classico è l’esempio della parola Virtù che perso il si­gnificato dell’originaria “Virtus” dei romani è stata trasformata da una corrente letteraria ebraica, ester­na ed interna, che l’ha ridotta al significato di qual­che qualità femminile. Ultimo mezzo per immobiliz­zare gli ebrei è il controllo attentissimo delle sfere fi­nanziarie dello stato specie di quelle industriali e com­merciali: tutte le varie manifestazioni di questo ramo della vita nazionale sono e devono rimanere in fun­zione del lavoro sudato.

Per completare il programma rimane da esamina­re la possibilità di una riforma dell’attuale legisla­zione italiana, riforma che ispiri i codici alla nuova ideologia razzista e basata soprattutto, sulla severis­sima punizione per coloro che manchino alle leggi dell’onore, indipendentemente dal danno derivante dalla mancanza.

Tutto insomma dalla religione, alla legislazione, alla propaganda dovrà indicare l ’unica strada che la razza biologica deve percorrere per ritrovare quella dell’anima, per ritrovare cioè quell’orgoglio di razza, quella spiritualità, quella coscienza di missione civi­lizzatrice che secoli di dominio straniero e di influenze malefiche son riusciti a portare allo stato latente. Co­me infatti afferma il Clauss è cosa facilmente prova­bile che una data idea, che permei di sé con continuità un dato periodo storico, genera una razza dell’anima che, col persistere dell’azione, forma le generazioni anche fisicamente.

Tutto ciò detto, rimane da considerare il proble­ma, non meno irto di difficoltà, che riguarda pura­mente la entità biologica della nazione. Non mi di­lungo a citare tutte le leggi di Mendel i suoi incroci e le sue mescolanze. In questo campo una cosa è cer­ta e precisamente che, circa i tre quarti della popo­lazione italiana attuale sono costituiti da ariani, si tratta quindi, sempre nel campo biologico, di inte­ressarsi all’altro quarto cui vanno dedicate le mag­giori cure che richiedono medici di particolare com­petenza e abilità. Pertanto, è urgente istituire in Ita­lia la visita prematrimoniale per impedire la mesco­lanza fra individui di razza diversa, agendo con se­verità nei riguardi del peccato contro il sangue. E ne­cessario inoltre cercare di valorizzare al massimo questa parte onde esaltarne le qualità migliori im­

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partendole un’adeguata educazione spirituale non dissimile a quella accennata e tenendo sempre pre­sente la terza legge di Mendel, relativa all’indipen­denza dei caratteri, la quale stabilisce che una per­sona può avere un aspetto fisico ariano ma un’ani­ma levantina e viceversa, perciò è necessaria un’a­zione oculata di selezione razziale che và [sic] man mano svolta con prudenza e senza crudeltà: questo il Duce aveva impostato, con saggezza veramente romana col manifesto del 1938.

Complessivamente è un’opera immane, non mi­nore di quella che affrontiamo, per salvare l’Italia, in

questo momento; se riusciamo a salvare la patria, ri­vendicheremo a noi fascisti il diritto di iniziarla e di condurla a termine attraverso le generazioni, tutti po­tranno collaborare se ne saranno capaci, ed il popolo non risentirà eccessivamente il bisturi dato che at­tualmente si accontenta, come diceva Re Bamba, di feste, farina, forca.

All’opera quindi nobiltà italiana col braccio e con la mente per la grandezza della Patria.

V. Brig. All. Uff. Spinelli Enzo IIa [sic] Comp. 111° [sic] Plotone.

STUDI STORICIRivista trimestrale dell’Istituto Gramsci Sommario del n. 1, gennaio-marzo 1998

Mario Liverani, Uimmagine dei fenici nella storiografia occidentale-, Vittorio Frajese, Riforma e antiriforma nella storia dei volgarizzamenti biblici-, Marina Cedronio, Illuminismo e modernità

Opinioni e dibattitiMaurice Aymard, Andrea Giardina, Ruggiero Romano, La storia spezzata

RicercheMario Caricchio, L’"utopia” di Winstanley nel dibattito politico dell’Inghilterra-, Silvia Sebastiani, Storia universale e teoria stadiale negli "Sketches of thè History of Man” di Lord Kames\ Gio­vanni Lombardi, Tipografia e commercio cartolibrario a Napoli nel Seicento-, Anna Gianna Man­ca, Il funzionario-deputato tra parlamento e governo nella Prussia dell’Ottocento-, Daniela Ador­ni, Conflitti elettorali: la candidatura di Crispi a Palermo; Mario Scavino, “Alla scuola rude del­l ’esperienza". Il Partito operaio a Torino

Note critichePaolo Grillo, Spazi privati e spazi pubblici nella Milano medievale-, Francesco Senatore, Poeta­no storico-, Rossano Pisano, Nuove questioni di storia del socialismo

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Note a convegni

La politicizzazione delle società rurali nell’Europa meridionale e mediterranea

Maurizio Ridolfi

Se può apparire che lo studio delle società rura­li abbia goduto di scarsa fortuna negli studi re­centi di storia contemporanea, in realtà occorre rilevare non tanto un suo generalizzato oblio quanto la riconsiderazione del tema sotto punti di vista diversi rispetto a una tradizione di ricer­ca che, anche in Italia, per quanto attraversata fortemente dalle contingenze politico-ideologi­che, nel secondo dopoguerra ha vantato un largo credito (Giacomina Nenci, Le campagne italia­ne in età contemporanea. Un bilancio storio­grafico, Bologna, Il Mulino, 1997, recensito in “Italia contemporanea”, 1997, pp. 441-445). Il “lungo periodo”, la comparazione, una più arti­colata dimensione spaziale (in primo luogo re­gionale) e un approccio interdisciplinare risulta­no i caratteri propri di un interesse storiografico che tende ad accomunare in Europa i gruppi di studiosi delle diverse storiografie nazionali im­pegnati a delineare nuove sintesi interpretative; basti pensare ai fascicoli della rivista “Histoire et sociétés rurales”, che si pubblica con cadenza se­mestrale dal 1994 in Francia. Per quanto concer­ne l’Italia, sia sufficiente richiamare il felice af­fresco realizzato da Guido Crainz sui proletari rurali della Valle padana {Padania. Il mondo dei braccianti dall’ Ottocento alla fuga dalle cam­pagne, Roma, Donzelli, 1993) e il progetto edi­toriale in corso di Renato Zangheri sulla storia del socialismo italiano prefascista (con le sue profonde radici contadine), in cui l’analisi delle trasformazioni sociali ed economiche permette di disegnare i quadri mentali e le forme di inter­relazione in cui maturarono consapevoli identità

politiche. In questo panorama storiografico, nel quale il terreno di indagine è venuto delineando­si attorno al concetto e agli spazi delle società ru­rali, la politicizzazione degli studi sulle campa­gne si è stemperata, permettendo altresì di im­mettere il mondo contadino negli studi sui pro­cessi di integrazione nello stato nazionale e sul­la politicizzazione della vita di relazione tra i gruppi sociali. È muovendo da queste domande nonché dall’utilizzo privilegiato di categorie so­ciali come quella della sociabilità nell’indagine sui processi di politicizzazione (si veda l ’effica­ce messa a punto di Gilles Pécout, La politisa­tion des paysans au XIX siècle. Réflexions sur l’histoire politique des campagnes françaises, in “Histoire et Sociétés Rurales”, n. 2, II semestre 1994, pp. 91-126) che ha preso forma l ’intento di avviare una riflessione comparativa per le di­verse realtà dell’Europa meridionale. Nel feb­braio del 1997 infatti, a Roma, si è svolto un con­vegno intemazionale di studi sul tema “La po­litisation des campagnes au XIX siècle (France, Italie, Espagne, Portugal et Grèce)”, promosso dall’École Française di Roma con la collabora­zione della facoltà di Lingue e Letterature mo­derne dell’Università di Viterbo, dell’École Nor­male Supérieure di Parigi e dell’Università di Gi- rona. Il convegno voleva contribuire a meglio de­finire lo spazio delle società rurali tra il Medi- terraneo e l ’Europa (in tal senso, si possono ri­cordare sia il volume Le trasformazioni delle so­cietà rurali nei paesi dell’Europa occidentale e mediterranea (secoli XIX-XX), a cura di Pasqua­le Villani, Napoli, Guida, 1986, sia le iniziative

‘Italia contemporanea”, giugno 1998, n. 211

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italo-spagnole del Seminario di Historia Agraria, presieduto da Ramón Garrabou), mettendo al cen­tro dell’attenzione le peculiari forme tanto di ac­cesso alla sfera della politica che della sua “rap­presentazione” nel corso del “lungo” Ottocento prebellico.

Introducendo i lavori del convegno, il quadro problematico e teorico degli studi sulle società rurali nell’Europa meridionale e mediterranea è stato rimotivato sia da Maurice Agulhon che da Alain Corbin — con richiami diretti e ricorrenti alla storiografia sulla Francia rurale — , mentre è toccato a Ramón Villares per la Spagna e a Re­nato Zangheri per l ’Italia tracciare un attento sta­tus quaestionis. Già all’esordio è apparso, anco­ra una volta, quanto sia difficile approntare un ef­fettivo approccio comparativo. Nonostante le pre­messe e le sollecitazioni di quanti avevano con­figurato l’articolazione tematicadel convegno (in primo luogo Gilles Pécout, con il prezioso coor­dinamento organizzativo di Catherine Brice), nel corso dei lavori la dimensione comparativa solo a volte è divenuta parte integrante del discorso storico, mentre hanno prevalso le piste di ricer­ca e sono stati ribaditi gli indirizzi riconducibili al milieu delle diverse storiografie nazionali. Il venire meno, inoltre, di alcuni rapporteurs, a cui si era affidato il compito di immettere i diversi contributi in una comune griglia tematica, ha re­so ancor più frammentaria e parziale l’aspirazio­ne comparativa.

Eppure, nonostante la mancata corrisponden­za tra aspettative e alcuni risultati dei lavori, in ragione della trasversalità nazionale con la qua­le i principali temi sono stati affrontati nelle di­verse sessioni del convegno, esso ha permesso comunque di arricchire il quadro problematico e concettuale oltre le autoreferenze nazionali, contribuendo in modo fecondo a ricondurre i pro­cessi di politicizzazione delle società rurali non tanto a un indistinto modello mediterraneo, ma in uno scenario ricco di tipologie diverse per quanto accomunate da uno spazio generalmen­te di carattere regionale (una scala di indagine che si sta dimostrando efficace non solo nella storia della Francia — lo ha sottolineato Peter

Me Phee — , ma anche per altre realtà come la penisola iberica, l ’Italia e la Grecia). E sembra­to allora delinearsi un comune percorso analiti­co capace di far emergere i diversi “sud” del­l ’Europa dal consueto limbo di atavica arretra­tezza in cui erano stati marginalizzati e di foca­lizzare le complesse implicazioni di società con­trassegnate da uno sviluppo più lento e contrad­dittorio che nei paesi dell’Europa centro-setten­trionale. N ell’intento di misurare rincontro tra “grande politica” (il potere centrale dello Stato e il potere locale, lo spazio simbolico della na­zione, l ’operato di istituzioni come la scuola, i sistemi e le pratiche elettorali, ecc.) e “piccola politica” (i quadri sociali ed economici comuni­tari in cui le nuove idee penetrano e si confron­tano con le culture tradizionali, la conflittualità tra gli interessi organizzati e il ruolo delle strut­ture associative di socializzazione, la presenza e il protagonismo delle donne, le diverse implica­zioni dell’emigrazione nella formazione delle identità politiche di gruppo, il ruolo egemone delle élites rurali e l ’intermediazione socio-cul­turale dei ceti borghesi, gli effetti di cleavages come il legittimismo, la religione e il rapporto tra città e campagne), è stato possibile coniuga­re interessi di storia istituzionale e di storia so­ciale (antropologico-culturale) che soprattutto nello studio del processo di modernizzazione del­la vita politica nelle società rurali rimangono spesso disgiunti, confinando l’Europa meridio­nale e mediterranea in una sorta di sotto-model­lo del liberalismo continentale. Sotto questo pro­filo, almeno tre sembrano i temi sui quali r a p ­porto del convegno è risultato importante: la pro­blematizzazione per le società rurali mediterra­nee del concetto di “tradizione” e “tradizionale” in rapporto all’avvento della “modernità”; la cor­relazione tra identità culturali, interessi sociali dei gruppi rurali e loro rappresentanza politica nella cronologia e nelle modalità differenziate attraverso le quali si sarebbe affermato l ’eserci­zio del diritto di voto; il superamento dell’omo­logazione tra processo di politicizzazione e ruo­lo svolto da ideologie e formazioni della sinistra, con la riconsiderazione della funzione in tal sen-

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Note a convegni 447

so svolta anche da movimenti di opinione e isti­tuzioni riconducibili al legittimismo monarchi­co o ai movimenti cattolici sorti nel secondo Ottocento nel nome di identità religiose e a di­fesa delle prerogative della Chiesa.

Il processo di politicizzazione delle società ru­rali mediterranee — ha osservato Zangheri nel corso della discussione, riprendendo una catego­ria concettuale di Jürgen Habermas a proposito della costruzione della sfera pubblica— può for­se riassumersi nel passaggio da consuetudini e comportamenti culturali di natura ristretta a una sorta di “agire comunicativo” sempre meno cir­coscritto dai piccoli spazi del villaggio e del bor­go rurale; in altre parole, con una ridislocazione dell’autorità e dell’egemonia sociale nella co­munità a cui corrisponde il passaggio da una so­cialità senza politica a una sociabilità impregna­ta di valenze e motivazioni politiche. In realtà però, come ha rilanciato Corbin in un intervento che tentava di estrarre alcune tessere dal mosai­co degli interventi succedutisi, la demarcazione tra tradizione e modernità risulta alquanto sfu­mata, dimostrandosi spesso le mentalità e i com­portamenti ritenuti solitamente “tradizionali” come gli effettivi agenti di un primo accesso dei ceti rurali alla politica. Il complesso rapporto tra culture comunitarie e apprendistato politico in­dotto dalla costruzione delle nuove identità na­zionali ne è una riprova, così come per l’Italia ru­rale del secondo Ottocento hanno messo in evi­denza Marco Fincardi (a proposito del rapporto tra pratiche folcloriche e emergenza di moderne forme di conflittualità sociale) e Stefano Pivato (che ha esaminato la rielaborazione delle memo­rie risorgimentali e delle identità politiche nel­l’onomastica); o come si potrebbe osservare in relazione ai nessi tra forme di sociabilità in qual­che misura pre-politica (ricreativa, educativa, so­lidaristica, generazionale) e apprendistato alle competizioni elettorali, quando una certa ma li­mitata pratica alla democrazia del voto propria della vita associativa sarebbe stata immessa in forme di mobilitazione più ampie, con una esten­sione del suffragio che avrebbe comportato l’al­lestimento di moderne campagne elettorali.

Se consideriamo che la qualità della cittadi­nanza politica, specialmente in realtà come quel­le dell’Europa meridionale dove nel secondo Ottocento solitamente non si avevano partiti con una organizzazione e una capacità d ’azione sul piano nazionale, trova un prioritario terreno di ve­rifica nella costruzione del corpo elettorale e nel­l ’esercizio del diritto di voto, si comprende quan­to questo scenario possa risultare interessante per l ’analisi dei processi di politicizzazione delle so­cietà rurali. Se gli studi hanno dimostrato non es­servi un diretto legame tra estensione del suffra­gio e uso consapevole del diritto di voto — basti pensare alla storia della Francia tra II e III Re­pubblica (temi sui quali nel convegno sono ritor­nati Agulhon e un intervento mirato di Jean- François Chanet) — , non è fuori luogo attestare un diverso grado di “intensità” della politicizza­zione rurale in relazione alla cronologia che l’in­troduzione del suffragio universale maschile re­gistrò nell’Europa meridionale (nel 1848 in Fran­cia, come sappiamo il primo Stato a sanzionarlo sul continente europeo, nel 1890 in Spagna, nel 1912 e compiutamente solo nel 1919 in Italia). Mettendo in relazione i caratteri normativo-giu- ridici del sistema elettorale e il meccanismo di ef­fettiva “costruzione” del corpo degli aventi dirit­to al voto nell’Italia liberale, il disegno di uno spa­zio nazionale per la politica è parso fortemente condizionato non solo dagli orientamenti della classe dirigente circa il ruolo e il peso che alle campagne si voleva attribuire ma anche dai com­portamenti dell’elettorato dislocato nelle campa­gne e nella diffusa provincia rurale (temi su cui mi sono personalmente intrattenuto). Analoga­mente infatti a quanto avvenne in Francia con gli arrondissements maggioritari (un sistema eletto­rale che garantiva maggioranze parlamentari ai repubblicani ma che, per la prevalenza assicura­ta alla rappresentanza del mondo rurale e delle piccole città, giustapponeva l ’integrazione na­zionale dei contadini ad una più matura moder­nizzazione politica) e in Spagna coi distritos — nel quadro dell’artefatto sistema della candidatu­re (encasillado) e di quella forma degenerata di patronage politico conosciuta come caciquismo

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che proprio nelle circoscrizioni rurali trovava una maggior espressione (ne hanno ripreso le coordi­nate storiografiche Villares e Jesu Millàn, men­tre Jose Tengarrinha ne ha ripercorso la variante portoghese tra “Rigenerazione” e I Repubblica) — , in Italia lo spazio dello scambio politico di­viene percepibile proprio nell’ambito della sfera di relazioni che si costruisce nel collegio eletto­rale e, nel suo contesto, preferibilmente attorno al Municipio. E su questo terreno che è parso pos­sibile verificare il processo di allargamento del­la politica nella sfera pubblica e nella provincia rurale, emersa come lo spazio forse più adatto per cogliere il rapporto tra religione civile nazionale promossa dalle istituzioni, culture comunitarie e emergenti culture politiche territoriali di quanti (movimento socialista e movimento cattolico in particolare) si stavano organizzando in alcune re­gioni ai margini del sistema rappresentativo.

Il processo di politicizzazione non può infatti restringersi ai soli soggetti sociali a cui si attri­buisce solitamente un orizzonte progressivo. Può anche darsi — solitamente così è stato nei prin­cipali paesi dell’Europa meridionale — che re- pubblicani, radicali e quindi socialisti, abbiano concorso più di altri a diffondere principi e pra­tiche attraverso cui la democrazia divenisse un condiviso orizzonte di valori e di comportamen­ti pubblici. A ll’apprendistato alla politica però concorrono anche sentimenti e richiami simboli- co-rituali legati alla tradizione e alla sua difesa, quando essi divengano fattori di identità e quin­di di mobilitazione organizzata. E quanto pos­siamo rilevare a proposito della configurazione dei movimenti di ispirazione religiosa nei paesi dell’Europa meridionale con una prevalente con­fessione cattolica (con diversi approcci, ne han­no parlato Philippe Boutry, Caroline Ford e Ro­ger Dupuy a proposito della Francia rurale), co­sì come in relazione al legittimismo popolare di cui si alimentavano le istituzioni monarchiche della maggioranza di quegli stessi stati (con l’ec­cezione appunto della III Repubblica francese). In questo secondo caso, lordi Canal ha analizza­to le peculiarità del legittimismo popolare nel mo­vimento “carrista” (nel nome di Carlo VII, preten­

dente al trono) e nella rivendicazione della rega­lità nella monarchia invece restaurata dopo il 1875 dai Borboni, laddove i tre pilastri di una ideologia controrivoluzionaria e antiliberale — “Dio, Patria e Re” — divennero i fattori propul­sivi della sua cultura politica e del suo radica­mento soprattutto nelle aree rurali del nord della Spagna mediterranea, sulla base di moderne strut­ture di aggregazione. E comunque un percorso di ricerca che si potrebbe approfondire a proposito del legittimismo popolare nelle regioni del Mez­zogiorno italiano, laddove la consuetudine del mondo rurale a guardare all’ex sovrano dei Bor­boni come al garante dell’ordine gerarchico ma anche all’autorità capace di esercitare una prote­zione sociale sussidiaria avrebbe comportato una rinnovata devozione popolare verso la monarchia nazionale dei Savoia. Ne furono espressione la nuova ritualità pubblica in onore della famiglia reale, con la riedizione di liturgie che parevano rinverdire il passato di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie. Nel Mezzogiorno d ’Italia più che altrove, quando l’esercizio dei diritti politici risultava alquanto compresso dal sistema eletto­rale e imbrigliato in stringenti logiche notabilar- clientelari, il mondo rurale era chiamato a parte­cipare alla vita pubblica come spettatore passivo di rappresentazioni rituali di stampo antico, in cui si riproponeva con maggiori tensioni la dialetti­ca tra tradizionale fedeltà del suddito e il pur ven­tilato orizzonte della cittadinanza politica in cui si iscrivevano le nuove istituzioni liberali dello stato nazionale (un tema affrontato più ampia­mente da Gilles Pécout).

Giova forse anticipare che l’interesse suscita­to dal convegno (i cui atti sono in corso di stam­pa presso la collana dell’École Française di Ro­ma) e le sollecitazioni raccolte hanno indotto le stesse istituzioni a farsi promotrici di un nuovo convegno intemazionale di studi che si terrà a Vi­terbo nel corso del 1999, volto ad analizzare le trasformazioni e la crisi della società mrale nel Novecento — il suo “lungo addio” — , sempre con riferimento alle principali realtà dell’Europa meridionale e mediterranea.

Maurizio Ridolfi

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Note a convegni 449

I partiti fascisti in Italia e in Germania

Pietro Margheri

L’Istituto piemontese per la storia della Resi­stenza e della società contemporanea ha orga­nizzato un importante seminario intemaziona­le su “Struttura e base sociale dei partiti fasci­sti. Le fonti nominative e la loro elaborazione” (Torino, 28-29 novembre 1997), volto a com­parare i risultati e i metodi delle ricerche con­dotte in Germania e in Italia. L’iniziativa, rea­lizzata con la collaborazione dell’Archivio di Stato di Torino, del Centro studi Piero Gobetti e del Goethe-Institut, è stata aperta da Giorgio Vaccarino e da Isabella Ricci; Paul Corner ha introdotto la sessione sull’Italia con una rifles­sione sullo stato delle ricerche e sulle differen­ze regionali, Antonio Dentoni-Litta ha presie­duto la sessione sull’analisi dei fascismi urba­ni e le conclusioni generali sono state di Hans Mommsen. Il seminario va segnalato sia per la qualità delle relazioni sia per il vivace dibatti­to. Sono state confrontate le diverse metodolo­gie di ricerca e le interpretazioni storiografiche sulle basi sociali del fascismo nei due paesi, che hanno utilizzato una grande mole di dati sugli iscritti al Partito nazionalsocialista tedesco e ad alcuni Fasci italiani (Torino, Pistoia, Siracusa). Il trattamento informatico delle fonti è risulta­to necessario ma non sufficiente per delineare l ’evoluzione delle strutture e della composi­zione sociale dei due partiti, ma soprattutto m ol­to lavoro di scavo si è reso indispensabile per comprendere le motivazioni delle adesioni ai partiti fascisti, la natura della militanza e la men­talità dei diversi gruppi di iscritti. La paziente ricostruzione delle biografie individuali ha do­vuto integrare i sapienti incroci di dati, resi pos­sibili dall’archiviazione elettronica.

Wolfgang Schieder ha mostrato gli elemen­ti fondamentali della grande affinità di struttu­re e di ideologie della Nsdap e del Pnf, e non solo perché Hitler ebbe sempre davanti a sé l ’e­

sempio di M ussolini. Entrambi diventarono partiti “om nibus” , con ideologie che erano “conglomerati di elementi mobili, che si la­sciavano combinare a piacimento in senso an­tisocialista ma anche anticapitalista, antilibera­le ma anche anticonservatore”. Sia la Nsdap sia il Pnf erano formati da un braccio politico e uno militare, per conquistare la piazza con la vio­lenza e insieme consensi alle elezioni. Tutti e due avevano una struttura fortemente gerarchi­ca, progressivamente sottoposta al principio di autorità assoluta del capo grazie anche a epu­razioni o eliminazioni fisiche; ma avevano an­che diversi centri di potere che, in conflitto tra loro, rendevano ancora più indispensabile il ruolo del Fiihrer, una specie di “superuomo po­litico”, o dèi tiranno demagogo, predestinato alla conquista di un impero degno della stirpe italica. In Germania fu realizzata una rete di centri su tutto il territorio nazionale, grazie al­le organizzazioni corporative per gli insegnan­ti, i medici, gli avvocati, gli agricoltori orien­tate da ideologie vòlkish e alle associazioni stu­dentesche che ebbero un successo particolare. Entrambi i partiti, infine, riuscirono ad attrarre progressivamente un ampio spettro di classi so­ciali. Il partito nazista mise le sue radici nei pic­coli centri urbani e nelle campagne; dalla sua rifondazione nel 1925 fino alle elezioni del 1930 tutelò gli interessi del ceto medio insoddisfat­to: nel 1930, il 17 per cento dei suoi iscritti era costituito da piccoli commercianti e artigiani, che erano il 9 per cento della popolazione e rap­presentavano il “vecchio” ceto medio, e per qua­si il 26 per cento da impiegati, il ceto medio “nuovo”; i contadini erano rappresentati con il 14 per cento (6,7 per cento rispetto alla popo­lazione). Dopo le elezioni del 1930, la Nsdap attrasse anche il ceto medio superiore: gli ac­cademici per esempio furono molto importan-

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ti per la formazione degli apparati di governo. Fino al 1933, quando divenne il primo partito con 850.000 iscritti, alla Nsdap affluì un nu­mero non irrilevante di operai (un terzo delle nuove iscrizioni tra il 1930 e il 1933). Le mas­se che si iscrissero al partito erano composte principalmente da neofiti della politica e da gio­vani (nel 1930 il 36,8 per cento degli iscritti e il 26,2 per cento dei gerarchi avevano meno di trent’anni). Grazie a questi caratteri, la Nsdap riuscì a trasformarsi, da partito di protesta con forti fluttuazioni degli elettori, in potente par­tito di massa, gerarchico, strutturalmente nuo­vo, in grado di attrarre consensi e adesioni da ogni parte sociale, un partito, dopo la presa del potere, molto più efficace del Pnf nella repres­sione di massa, molto più capace di annullare movimenti sociali e di coagulare le forze eco­nomiche, culturali e civili in un regime tota­litario.

Michael K aterha confrontato i dati e le infor­mazioni sugli iscritti di due categorie sociali molto diverse: quella dei musicisti, sottorap­presentata nel partito nazista (1.700), e quella dei medici molto sovrarappresentata (79.000), chiedendosi per quali motivi fosse iscritto al partito il 22 per cento dei musicisti a fronte del 45 per cento dei medici, o perché solo il 3 per cento dei musicisti si sia inserito nelle SS men­tre la percentuale dei medici sia stata superio­re al 7 per cento. Sicuramente, secondo Kater, i motivi socioeconomici sono stati sopravvalu­tati rispetto ai motivi ideologici e alle scelte in­dividuali, e quindi si deve scavare più a fondo, tornando a studiare le biografie anche di colo­ro che, per esempio, pur essendo nazisti non si iscrissero mai al partito.

Come fece la Gestapo, si è chiesto Robert Gellately, il corpo di polizia numericamente più esiguo d ’Europa, a controllare la società in mo­do così efficace e capillare? La risposta riman­da a un lavoro autonomo degli apparati repres­sivi tutto sommato molto ridotto e a una gran­de massa di delazioni: le carte della polizia se­greta mostrano la versione radicale di una so­cietà che si autocontrolla di continuo, nei pae­

si, nei quartieri, nelle case e perfino aH’intemo delle famiglie. I reati, per esempio in Franco- nia, venivano denunciati grazie alle ‘soffiate’, in misura superiore al 60 per cento (per que­stioni razziali solo il 27 per cento); le false de­nunce, così utili per costruire un clima di an­goscia e terrore, venivano opportunamente in­canalate e quasi mai sanzionate. Gellately ha inoltre insistito sulla pressione che, nonostan­te la strategia della paura e del sospetto, veni­va esercitata dal basso, quasi una manipolazio­ne del regime totalitario da parte delle grandi masse di tedeschi, per esempio attraverso l ’e­levato numero di lettere inviate direttamente a Hitler (più di mille al giorno) oppure a Goering (duemila al giorno nel maggio del 1933).

Jürgen Falter ha mostrato i risultati dell’a­nalisi di un ampio campione delle schede di iscrizione alla Nsdap dal 1925 al 1933, perio­do nel quale le informazioni sono più scarse ri­spetto a quello successivo, ben studiato per esempio proprio da Michael Kater. Le 42.000 schede hanno una minuta specificazione dei da­ti economici, ma contengono un numero trop­po ampio di categorie professionali. Il partito nazista è per eccellenza un partito di uomini di cui il 13 per cento circa si iscrive nel 1932 e il 60 per cento nel 1933; un partito nel quale, tra il 1925 e il 1932, il 40 per cento dei nuovi iscrit­ti sono operai, e nel quale, rispetto alla popo­lazione, sono sovrarappresentati, oltre ai medi­ci, gli artigiani e gli impiegati dei servizi pub­blici, e invece sottorappresentati i braccianti. Certam ente sarà necessario approfondire la condizione delle singole categorie sociali e la distribuzione regionale degli iscritti, se è vero che le regioni cattoliche, per fare un solo esem­pio, seppero resistere di più rispetto a quelle protestanti alla diffusione del totalitarismo, del- F ideologia e dei miti del nazismo.

Per il caso italiano, Gerardo Padulo ha vo­luto confutare, con molti riferimenti documen­tari, le tesi degli storici che “imperniano le for­tune del fascismo sui ceti medi”. Lo studioso ha sottolineato la scarsa presenza dei termini ceto medio, classe media, piccola e media bor­

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ghesia nei principali giornali e nei periodici tra il 1915 e il 1925; la sostanziale irrilevanza nei programmi e nei testi del partito fascista dei problemi delle classi medie; l ’arretratezza del­la società e dell’economia italiana (dalla po­vertà cronica degli insegnanti alla diffusione di imprese a conduzione familiare piuttosto che di piccole e medie aziende moderne); la riorga­nizzazione fascista della società con un regime dittatoriale che “orchestra tutti i poteri dello Stato, fino a crearne di nuovi”, togliendo così spazio e centralità alle forze sociali; la distri­buzione in tutti i partiti politici e la scarsa pre­senza nel fascismo agrario e giovane del 1920- 1922, dei ceti medi, presenti a Torino ma as­senti nel fascio di combattimento torinese. In estrema sintesi, si potrebbe dire che l ’assenza di una coscienza specifica delle classi medie, 1 ’ ambigua e lenta modernizzazione della società italiana e la mancanza di programmi politici fa­scisti mirati alla conquista del consenso delle masse piccoloborghesi rimettono in discussio­ne la storia del movimento rivoluzionario fa­scista, una storia secondo Padulo, quindi, tutta da riscrivere.

Nicola Tranfaglia, interpretando il fascismo come “autobiografia della nazione”, ha ripre­so i temi della lunga durata dei caratteri della società italiana: già alla fine del Settecento la mancata conciliazione di utilità (economia) e virtù (morale) aveva pregiudicato, con il con­corso dei Savoia e della monarchia papalina, lo sviluppo di una borghesia moderna, in grado di avviare una trasform azione profonda delle strutture del potere, della cultura e della men­talità del nostro paese. Proprio un blocco so­ciale che interpretò i caratteri nazionali accen­tuando la divaricazione tra interessi e principi morali sostenne il regime: il fascismo ereditò così, soprattutto dal fallimento dell’esperienza giolittiana, quel “miscuglio di populismo e de­magogia” che fu fondamentale per il radica­mento nelle diverse classi, grazie anche al tra­sformismo del ceto politico e burocratico. Tre elementi possono mostrare chiaramente la len­tezza della modernizzazione fascista e le con­

traddizioni che sarebbero scoppiate con l’in­gresso dell’Italia nella seconda guerra mon­diale: in primo luogo, la scarsa efficacia e ef­ficienza del sistema di potere dal 1926 al 1936 (già dopo il 1932 il partito unico, i vertici m i­litari e il Gran Consiglio non avevano un ef­fettivo potere e la concentrazione di cariche e di responsabilità nella persona del duce lascia­va ampie facoltà decisionali alle diverse buro­crazie come in Germania); in secondo luogo, il fatto che la relativa autonomia del regime por­tava al centro della strategia politica l ’impe- rialismo e la militarizzazione, relegando i pro­grammi di sviluppo economico a una funzione subalterna; infine, l ’accentuazione del divario tra le condizioni di vita tra le classi medie ur­bane e quelle del proletariato, sia operaio sia contadino. Nei dati relativi a ll’istruzione, ai consumi, a ll’edilizia privata, alle vacanze e al­le ore di lavoro è possibile riscontrare i risul­tati di una politica che finiva per difendere gli interessi tradizionali.

Le domande sull’uso della violenza o sulla presenza non indifferente di aristocratici nei pri­mi anni, i problemi della “m itografia” dello squadrismo o relative alla provenienza sociale degli iscritti al Pnf possono trovare risposte con­crete, secondo Gianni Perona, proprio grazie ai progetti di indagine informatizzata, senza però trascurare i percorsi biografici individuali e il lungo lavoro ancora necessario per rendere pri­ma compatibili e poi omogenei i dati sul Pnf nelle diverse province. Se i mezzi informatici ci danno spesso un quadro che, paradossal­mente, è quasi più raffinato dell’immagine più ampia che il gruppo dirigente fascista poteva avere attraverso un’analisi manuale dei dati, i dati quantitativi (31.456 pratiche personali su 80.300 per una media di 17 documenti a fasci­colo) non ci restituiscono le motivazioni del­l ’adesione al fascismo, né la comprensione del­la rassegnazione di alcuni strati sociali o del­l ’appoggio esterno di alcune forze. A ll’esame delle schede si deve quindi aggiungere la pa­ziente ricostruzione del mosaico dei fascismi locali.

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Nonostante la sparizione della schedatura centrale degli iscritti al Partito fascista repub­blicano, la sistematica opera di cancellazione di tracce documentarie (dalla diffusione della circolare Pavolini dell’11 giugno del 1944 in avanti), il depauperamento del dopoguerra, sia naturale sia artificiale, e la dispersione delle carte di molti archivi fascisti (cui si m escola­no non di rado documenti falsi); nonostante ci manchino dunque gli elenchi dei ripiegati al Nord con le loro famiglie o gli organigrammi delle Brigate nere, le relazioni, i progetti e le lamentele della base, Dianella Gagliani ha sa­puto tracciare le strade che, grazie anche al pri­mo archivio “completo” di una federazione del Pfr, Pesaro (reperito nel fondo Gaimozzi), ci portano ad un paziente e fecondo lavoro di in­treccio dei dati che si evincono dai documenti degli archivi degli Istituti per la Resistenza del Piemonte, di Como, di Parma e di Reggio Em i­lia. I fatti che emergono cancellano la “vulga­ta salotina” e la facciata demagogica di un par­tito di lavoratori e combattenti. Se in origine il vecchio fascismo cercò un nuovo volto, lenta­mente il Pfr si trasformò sostanzialmente in “partito degli impiegati”, dei dipendenti pub­blici, dei notabili e dei burocrati. La presenza di molti studenti universitari e del “popolo del­le scimmie”, dipendente e non autonomo, im ­pone un nuovo modo di osservare il Pfr: lo stu­dio parallelo e integrato di dati quantitativi e dei lunghi percorsi biografici permette di con­siderare la documentazione illustrata da Ga­gliani nuova e rilevante per cominciare a chia­rire il tema degli ex fascisti e per l ’intera sto­ria della Rsi.

Nella sezione sui fascismi urbani, tre rela­zioni sono state dedicate al Pnf nella società to ­rinese, dinamico coacervo di diverse classi so­ciali, culture e generazioni; ne è emersa l’im­magine di una Torino impegnata nella lenta transizione da nobile capitale a metropoli in­dustriosa, che non perse, soprattutto negli stra­ti intermedi, il suo tradizionale moderatismo, la sua devozione alla monarchia sabauda. E la cautela sulle generalizzazioni quantitative e

qualitative, revisioniste o di tradizione demo­cratica, risulta sempre più necessaria; proprio con la crescita del paziente lavoro di scheda­tura del fondo Pnf dell’Archivio di Stato di To­rino e il relativo lavoro di scavo biografico emergono nuovi intrecci con le grandi questioni nazionali del consenso, della fascistizzazione e dei ceti che appoggiarono il movimento fa­scista, offrendo più in generale materiale per l’analisi della società torinese tra le due guer­re. Lo studio del partito come strumento di con­trollo sociale è stato illustrato da Nicola Ad- ducci, che ha esaminato lo squadrismo, le avan­guardie studentesche e la zona grigia e da Mi- chelarcangelo Casasanta, che ha esposto li r i­sultati delle ricerche sui garanti fascisti, la lo­ro funzione e la loro collocazione sociale. N el­la prima relazione sono stati rintracciati i le­gami dello squadrismo torinese (per i due ter­zi giovane) con il “combattentismo eroico”, si è ricordata la necessità di gonfiare le cifre dei militanti anziani in concomitanza con varie ce­lebrazioni della fine degli anni trenta, il peso maggiore di ufficiali e sottufficiali rispetto al­la truppa, la rilevante presenza degli studenti medi e universitari tra gli “irregolari”, per i qua­li contava l ’azione più che l ’iscrizione, che van­no a formare una zona grigia dello squadrismo. Dalla seconda relazione è emersa l ’immagine di una società “rigidamente gerarchizzata” (non c ’è traccia, tra le migliaia di carte relative ai referenti, di garanti che appoggino richieste di iscrizione di individui socialmente superiori) e di una direzione del partito che tendeva ad ac­cogliere le domande anche di persone prece­dentemente ostili al regime piuttosto che scar­tarle, per controllare più efficacem ente vari strati sociali.

Le origini del fascismo femminile, esaltato poi dalla propaganda fascista ma in realtà sem­pre subordinato alle logiche maschili e milita- riste, sono state l ’oggetto della relazione di Hel- ga Dittrich-Johansen: da un’associazione na­zionalista e interventista emergono le protago- niste della costruzione del Fascio femminile to­rinese, che viene rapidamente normalizzato, nel

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quadro dei cambiamenti al vertice dopo il de­litto Matteotti a partire dalla sostituzione di Co­lisi Rossi nella carica di federale. Viene can­cellata l ’autonomia del gruppo originario delle aristocratiche, il fascio viene finalizzato unica­mente alla propaganda e a ll’assistenza per l’in­fanzia, rimanendo così sempre formato da un numero esiguo di iscritte.

La varietà delle dinamiche sociali e dei sog­getti rispecchiati dal Pnf, nel complesso in­treccio tra caratteri nazionali e il ‘particulare’ dei cento cam panili, ha trovato un’ulteriore conferma nel caso di Siracusa, studiato da M a­rie-Anne Matard-Bonucci e di quello di Pistoia, esaminato nelle relazioni di Gabriele Turi e Marco Palla, soprattutto a partire dal diffon­dersi dello staracismo e della burocrazia di pro­fessione, nel momento in cui Mussolini era or­mai incapace di formare una classe dirigente statale in grado di risolvere i problemi di go­verno. A Siracusa e nei comuni vicini il prole­tariato, il ceto basso, medio basso e medio al­to si distribuiscono lungo un ’ ampia scala di gra­dazioni, dai militanti iscritti dall’ottobre del 1922 al 1924 fino agli aderenti ‘effim eri’, in gran parte poveri, che aderiscono con estrema instabilità, quasi per scommessa. E diverse so­no le modalità di coinvolgimento dei pescato­ri di Augusta (25 per cento di fascisti rivolu­zionari) o dei braccianti agricoli di Feria e di Fioridia; forse i fasti imperialistici, che coin­volgono un dieci per cento di fascisti della pri­ma ora poi iscritti al partito della città, non si addicono alle prospettive settecentesche del­l’isola di Ortigia o alla più antica tradizione della Magna Grecia della fonte Aretusa. I 109 schedari, conservati a ll’Archivio centrale del­lo Stato a Roma, mostrano che, quando cresce il rinnovamento, cresce anche la depoliticizza­zione e si complica l ’immagine che il Pnf ci ri­manda della società. Anche a Pistoia il partito, dopo il 1932, d iven ta uno specchio m eno deformante della varietà delle dinamiche so­ciali, delle differenze tra città e comuni della provincia, perfino tra i quartieri, anch’essi con una loro storia particolare. Il fascismo pistoie­

se è diverso da quello fiorentino o lucchese, e diversa è la composizione sociale del partito, che non vede la prevalenza di un nucleo di pro­fessionisti della politica fascista, secondo il mo­dello regionale toscano, ed è particolarmente attivo nel controllo minuzioso della vita pub­blica e privata di tutti gli iscritti e delle loro fa­miglie.

La sessione di chiusura del convegno è sta­ta dedicata ai problemi gravissimi che sorgono per gli studi su serie nominative e per tutti gli studi di storia contemporanea da una possibile applicazione restrittiva della normativa sulla privacy. La discrezionalità con cui intervengo­no i diversi enti pubblici nel rilasciare perm es­si per la ricerca storica sui documenti è sempre più invadente e assurda, soprattutto in assenza di regole chiare. Al dibattito su questo tema hanno partecipato Maria Grazia Pastura del m i­nistero dei Beni culturali e ambientali, studio­si francesi e tedeschi e altri di campi non stret­tamente storiografici, come demografi e ge­netisti, che hanno sottolineato la straordinaria rilevanza della questione per gli studi di medi­cina.

Nel seminario di Torino sono stati quindi esposti i risultati di un lungo lavoro di ricerca, risultati che possono fornire indicazioni ai pro­grammi futuri, sia per la classificazione e la pro­gettazione informatica, sia per evitare i perico­li insiti in molte generalizzazioni interpretati­ve, che spesso non tengono conto della realtà delle fonti spesso incomplete o disperse, sia in­fine per selezionare tra i fascicoli, con pazien­za, la campionatura più efficace (campionatu­ra comunque necessaria data la grande mole di informazioni presenti nelle carte fasciste). Mol­te sono le questioni che non potevano essere analizzate nei tempi serrati delle due fitte gior­nate di lavoro (dagli esiti della fascistizzazio­ne delle masse rurali alle principali diversità re­gionali nella diffusione della Nsdap, alla sotto­rappresentazione dei braccianti nel partito na­zista), che però hanno suggerito molteplici di­rezioni di ricerca.

Pietro Margheri

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Servizi e tecnologie in biblioteca

Giulia Buffardi

Si è svolta a Napoli, dal 25 al 27 marzo, nel Tea­tro di Corte del Palazzo Reale, la prima confe­renza nazionale delle biblioteche, promossa dal ministero per i Beni culturali. Tre giorni ricchi di appuntamenti su “La Biblioteca e il Cittadino. Nuovi servizi e tecnologie per l ’utenza”.

Ma perché proprio a Napoli questo primo e importante appuntamento? Napoli come città d ’arte è stata ormai riscoperta. Resta invece an­cora sconosciuta come città dei libri, come luo­go dotato di uno dei più grandi patrimoni libra­ri europei. Mauro Giancaspro, direttore della Bi­blioteca nazionale di Napoli, evidenzia che il po­lo bibliotecario partenopeo è leader all’interno del servizio nazionale e può contare su 15 bi­blioteche in rete. Il programma sulla multime­dialità, tra l ’altro, riguarda essenzialmente gli istituti del Mezzogiorno e la Biblioteca nazio­nale di Napoli aderirà alla Fondazione progetto mediterraneo, affiancando, unica in Italia, una grande biblioteca, già in costruzione, ad Ales­sandria d ’Egitto. A Napoli, ancora, sarà creata “la città del libro”, forse a Bagnoli, e a Secon- digliano la Biblitoeca comunale diventerà me­diateca, in linea con il programma ministeriale Mediateca 2000. Napoli quindi come segno di riconoscimento di un rinnovato impegno cultu­rale del Mezzogiorno, in sintonia con le istitu­zioni del territorio.

Gli interventi, in genere, sono finalizzati ad esperienze e prospettive delle biblioteche e me­diateche, ad un dialogo e cooperazione fra le va­rie istituzioni, ad un impegno a favore della for­mazione professionale che accompagni gli inve­stimenti nelle risorse tecnologiche. Ma, se c ’è la prospettiva di una biblioteca virtuale, grazie a Sbn e al collegamento Internet (Fabio Roversi Monaco e Giovanna Mazzola Merola), restano sempre notevoli le disparità tra Nord e Sud del­l ’Italia per quanto riguarda la possibilità di acce­

dere alle biblioteche pubbliche. Francesco Sici­lia sottolinea, infatti, che il Nord è più ricco di luoghi di pubblica lettura, “di quelle biblioteche piccole dove il cittadino trova da solo i libri sul­lo scaffale”. Là dove non vi sono realtà locali, suppliscono le biblioteche statali (46 in Italia), perché non si interrompa il dialogo tra i cittadi­ni, i giovani e la cultura. E la scelta del Mezzo­giorno per la Conferenza conferma la possibilità e T auspicio di un miglior sviluppo del sistema bibliotecario del Sud.

Anche a Napoli comunque è presente il Ser­vizio bibliotecario nazionale con un polo infor­matico, al quale possono collegarsi più di 700 bi­blioteche riunite in rete. Sbn, quindi, come prin­cipio cooperativo tra le biblioteche senza distin­zione di appartenenza o dimensioni, e valorizza­zione delle stesse quali “porte d ’accesso” al­l ’informazione e veicoli di “democratizzazione” della cultura.

In sintonia con Francesco Sicilia è la relazio­ne di Marzio Tremaglia: anch’egli infatti ricorda la necessità di integrare nelle biblioteche, senza nulla togliere alla lettura e all’editoria, l’applica­zione degli strumenti multimediali. La bibliote­ca quindi alla luce delle novità tecnologiche, del­la velocità di informazione, di una riformulazio­ne dei servizi e dei suoi ruoli tradizionali. Ma la biblioteca anche come identità culturale e riva- lutazione della figura del bibliotecario e della sua professionalità, non quale esecutore di compiti, ma responsabile della conoscenza e gestore del patrimonio culturale.

Necessaria è comunque la cooperazione tra Stato e regione per la condivisione di obiettivi e di politiche gestionali. I processi operativi che ci­ta Tremaglia riguardano, oltre alla Nazionale di Potenza, la Mediateca di Santa Teresa a Milano, primo esempio di grande “biblioteca senza libri”, sorta in un’antica e abbandonata chiesa barocca

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nel cuore della metropoli lombarda grazie alla collaborazione pubblico-privato (la relazione sul progetto, l ’edificio e la pianta della Mediateca è stata presentata da Stefano Mainetti) e la Nazio­nale centrale di Firenze.

L’esperienza sta quindi prevalentemente al Nord? La pensa diversamente Guido D ’Agosti­no, che definisce Napoli una città “ricca di li­bri”, anzi, una città che con il suo patrimonio culturale (7 università e 133 biblioteche) costi­tuisce uno dei bacini più importanti delle bi­blioteche mediterranee; forse, il punto di con­traddizione sta nello scarso interesse dei citta­dini alla lettura. Non sa D ’Agostino che di lì a poco l ’onorevole Alberto La Volpe denuncerà la mancanza di reti civiche di biblioteche e de­finirà Napoli, hinterland e regione, “un buco ne­ro”, e accusando la città di una stucchevole “re­torica culturale”.

Ma, polemiche a parte, la prima giornata si è conclusa con una rassegna delle esperienze stra­niere: della Biblioteca nazionale di Francia (Su- zan Jouguelet) sui fondi digitalizzati, e dell’Uni­versità di Edimbugo (Michael Break) sul pro­gramma delle biblioteche elettroniche del Regno Unito.

Nella seconda giornata la discussione si è spo­stata sulle nuove progettualità nei multimedia in Europa. Le relazioni sono state dedicate ai pro­grammi e ai finanziamenti comunitari per i beni culturali e sono state denunciate anche le ingen­ti somme di danaro stanziate a favore dell’Italia ma quasi mai o, almeno, poco e male, utilizzate (Silvana Amadori).

L’interesse della politica comunitaria verso i beni culturali è comunque in aumento e offre di­verse possibilità di azione nell’ambito dei fondi comunitari. Tutti i programmi di cooperazione e di ricerca dell’Unione Europea, tramite lo scam­bio di esperienze fra paesi diversi, la sperimen­tazione di nuove tencologie e la realizzazione di nuovi progetti, possono contribuire a realizzare la società dell’informazione, a migliorare l ’of­ferta dei servizi culturali e formativi, a sostene­re lo sviluppo tecnologico, sociale ed economi­co.

Per quanto riguarda in particolare il settore delle biblioteche, vi saranno possibilità di azio­ne sia nell’ambito del V programma quadro, il­lustrato da Monika Seghert, sia nell’utilizzo dei fondi strutturali (fondi territoriali europei mes­si a disposizione di vari stati membri per fi­nanziare le attività legate allo sviluppo regio­nale o locale) a partire dal 2000 (Giampiero Marchesi).

Nel campo della multimedialità è stato poi an­nunciato da Angelo Sferrazza un progetto che ve­de la Rai al primo posto in Europa nel settore del­la diffusione dei materiali audiovisivi e che per­metterà alle strutture statali di accedere ai docu­menti custoditi nell’audioteca della Rai.

Il tutto visto in un ambito più completo che contempli l ’interattività del settore biblioteche con quello dei musei, degli archivi, del turismo. Necessaria in questa nuova fase la presenza del­le università, sia come biblioteche di settore che come facoltà tecnico-scientifiche. Riportano a questo proposito la loro esperienza Laura Talla­dini dell’Università di Padova e Iacopo di Coc­co dell’Università di Bologna.

Da relazioni molto tecniche e rivolte agli “ad­detti ai lavori”, si è passati, nella giornata con­clusiva, al tema dominante della Conferenza, il rapporto biblioteche-cittadino, e al ruolo e alle funzioni degli istituti bibliotecari, qualunque sia la loro appartenenza, perché siano orienta­ti esclusivamente alla soddisfazione dei biso­gni culturali della collettività. Le biblioteche sono intese come porte di accesso a ll’informa­zione, capaci di prevedere servizi di mediate­ca, di porsi come intermediari tra lo Stato e il cittadino in quanto garanti dell’aggiornamento culturale della comunità. Ma la biblioteca è in­tesa anche come avamposto di socialità, come luogo d ’incontro culturale versatile, capace di ridurre la distanza tra il cittadino e il libro. Ap­prezzata a questo punto la provocazione di Gui­do D ’Agostino di offrire tè e caffè agli utenti. Una provocazione condivisa da Maria Berto­lucci, che ha riferito dell’esperienza della bi­blioteca circolante di Sesto Fiorentino, tutta ba­sata sul volontariato, ma non dal rappresentan-

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te dell’Assubac, che punta sulla funzionalità e non sulla socialità, come se l ’una escludesse l ’altra.

In conclusione la Conferenza, nel suo insieme, ha inteso richiamare l’attenzione sulla necessità di consolidare la cooperazione tra istituzioni ed enti pubblici e privati, sul coordinamento di pro­getti di sviluppo comuni finalizzati ad accrescere

la quantità e la qualità dei servizi rendendoli omo­genei e rispondenti su tutto il territorio agli stan­dard intemazionali, sull’opportunità di estendere l’utilizzo delle tecnologie multimediali, di au­mentare il numero e le funzioni delle biblioteche di pubblica lettura, di rivalutare la figura del bi­bliotecario e la sua professionalità.

Giulia Buffardi

RIVISTA STORICA DELL’ANARCHISMOSommario del n. 1, gennaio-giugno 1998

SaggiEttore Cinnella, Marxismo, populismo e anarchismo, perché?] François-Xavier Coquin, La no­zione di “maschera"nel movimento rivoluzionario russo] Bruno Bongiovanni, Marx, la Russia e la politica internazionale] Boris S. Itenberg, Marx e i populisti russi] Valentina A. Tvardovskaja, Bakunin e Marx nella storiografia russa] Pier Carlo Masini, Bakunin e l'Italia; Marianne Enckell, Bakunin, l'Internazionale e la Federazione del Giura] Natale Musarra, Nichilisti a Ginevra. Dal­le carte del Servizio italiano di polizia internazionale] Jules Elisard, Profili libertari. Ursula Le Guin

Recensioni e schede bibliografichea cura di Claudio Albertani, Roberto Bernardi, Franco Bertolucci, Marco Gervasoni, Jules Eli­sard, Diego Giachetti, Charles Jacquier, Elisa Marraccini, Natale Musarra, Giorgio Sacchetti, Franco Schirone

Notiziarioa cura di Alberto Ciampi e Franco Bertolucci

Archivi, biblioteche, centri di documentazione e fondazioniIl “fondo russo” alla Bdic di Nanterre, a cura di Gianni Carrozza; L’inno dei nichilisti, a cura di Franco Schirone