fascicolo darwish

35
1 BIOGRAFIA DI MAHMUD DARWISH Birwa 13.03.1941 Houston 9.08.2008

Upload: assopace-palestina

Post on 28-Jul-2015

115 views

Category:

News & Politics


8 download

TRANSCRIPT

Page 1: Fascicolo Darwish

1

BIOGRAFIA DI MAHMUD DARWISH Birwa 13.03.1941 – Houston 9.08.2008

Page 2: Fascicolo Darwish

2

Mahmoud Darwish nacque nel 1941 nel villaggio di al-Birwa, situato in Alta Galilea a est della città di Akko (Acri). Il suo villaggio natale oggi è distrutto e non più presente sulle carte. Nel 1948 - durante il primo conflitto arabo-israeliano - i genitori di Mahmoud per sfuggire ai rischi della guerra cercarono rifugio in Libano con il resto della popolazione, ma furono tra i pochissimi che riuscirono rientrare nel loro paese, illegalmente, dopo appena un anno. Nel frattempo però la loro terra d'origine era diventata parte dello stato di Israele, i loro beni confiscati.

In questa condizione fin da bambino Darwish si trovò nello status legale di “alieno”, cittadino che risiede come “ospite illegale”. Da giovane fu arrestato e condannato più volte a pene detentive, per la sua presenza in Israele senza permesso e per aver recitato poesie sovversive in pubblico. Studiò peraltro la lingua ebraica israeliana, perfezionando la conoscenza della sua lingua natia. Cominciò l'attività pubblicistica a diciannove anni. Iscritto all'università non ebbe la possibilità di laurearsi a causa delle interruzioni degli studi nei periodi trascorsi in prigione, anche se in Unione Sovietica, a Mosca, si costruì nel 1971 una solida preparazione linguistico-letteraria.

Pubblicò la sua prima raccolta di poesie, Foglie d'Ulivo, nel 1964. È un'opera che trasfigura in quadri di forte impatto emotivo l'identità nazionale palestinese. Divennero famose alcune poesie che raccontano la condizione dolorosa e folle dell'esilio. La carriera poetica di Mahmoud Darwish, dall'epoca della prima pubblicazione, mantiene legami ideali con la lotta armata del popolo palestinese per il ritorno alla sua terra (l'attività dei gruppi armati cominciò anch'essa nel 1964). La poesia di Darwish assumeva un ruolo di riferimento collettivo per la causa palestinese.

Fu direttore del quotidiano locale “Ittiḥād” (Unità) fino al 1970. In quell'anno abbandonò definitivamente la Palestina/Israele per un periodo di studio in Unione Sovietica. Da allora trascorse la sua vita risiedendo per periodi diversi nelle principali città del mondo arabo: Il Cairo, Beirut, Tunisi, Amman. A Beirut diresse un mensile palestinese (Shuʿūn Filasṭīniyya, "Affari Palestinesi"), quindi divenne direttore della rivista letteraria palestinese "al-Karmel", pubblicata da un dicastero dell'OLP. Visse per un lungo periodo a Beirut fino al 1982, quando la città fu assediata dall'esercito israeliano. Darwish dovette abbandonare il Libano insieme allo Stato Maggiore e al Comitato Esecutivo dell'OLP. Dopo un periodo di esilio a Cipro, visse tra Beirut e Parigi. Lavorò anche al Cairo presso il quotidiano nazionale "al¬ Ahrām".

Page 3: Fascicolo Darwish

3

La seconda metà degli anni ottanta fu l'epoca del suo maggiore impegno politico. Nel 1987 fu eletto nel Comitato Esecutivo dell'OLP. Sempre nell'87 Darwish partecipa a Firenze alla rassegna "Poeti del Mediterraneo per la Pace", organizzato dagli Enti locali e dalla rivista culturale Collettivo R. ConDarwish ci sono lo spagnolo Goytisolo, l'italo-jugoslavo Damiani, l'israeliana Ravilovich, il greco Apostolatos.

Mahmoud Darwish ha redatto il testo della Dichiarazione d'Indipendenza dello Stato Palestinese, documento promulgato nel 1988 e riconosciuto da diversi stati.

Solo nel 1996, dopo 26 anni di esilio, ottenne un permesso per visitare la sua famiglia nello stato di Israele. Fu nuovamente direttore di "al-Karmel" (rifondata nel frattempo) e fu eletto nel Consiglio Legislativo Palestinese nei Territori, oggi tuttora occupati.

Mahmoud Darwish è morto all'età di 67 anni a Houston (Texas) il 9 agosto 2008, per le complicanze di un intervento al cuore. Già nel 1984 e nel 1998 aveva subìto interventi al cuore.

Mahmoud Darwish è la prima e, ad oggi, unica personalità palestinese dopo Arafat alla quale sono stati concessi i funerali di Stato.

SCHEDA DEL LIBRO A cura di Elisabetta Bartuli Feltrinelli, Milano, 2014

Una trilogia palestinese raccoglie tre scritti in prosa sostanzialmente autobiografici che disegnano un affresco storico e culturale della Palestina. E’ un testo impegnativo sia sotto il profilo emotivo, sia sotto quello della lingua e della densità culturale, con una corposità forte dal punto di vista teoretico, sebbene il suo incedere sia soave e molto scorrevole. E’ anche un grande affresco storico-sociale, quello di un popolo costretto ad essere profugo in casa propria.

Mai testo potrebbe essere più attuale in questo drammatico frangente nel quale la Striscia di Gaza è tornata ad occupare spesso i nostri telegiornali, con alcune date cruciali quali il 1948, la strage di Qasim del 1956, il 1967, la strage di Damur del 1976, l’invasione del Libano da pare di Israele nel 1982.

Un’altra delle ragioni per leggerlo è la profondità dell’analisi sulla condizione umana in situazioni drammatiche nelle quali l’uomo si trova in contesti di

Page 4: Fascicolo Darwish

4

sradicamento come profugo, di violenza permanente come carcerato, allo stesso tempo perseverante nel coltivare la propria umanità, nel segno della dignità e del rispetto.

Infine, le pagine di Darwish sono una grande riflessione sul valore della scrittura e in particolare della poesia; su come la parola dia voce e consistenza al pensiero rendendo la realtà quella che è. Il poeta, come Dio è creatore quando dà i nomi alle cose e nominandole le fa essere.

Quello che colpisce in Darwish è che il suo pensiero ben si adatta a chiunque, anche all’uomo più semplice perché in fondo le cose, la vita, sono per tutti uguali; solo che cambia il modo e la consapevolezza di guardarle. In tal senso la missione del poeta si rende sociale e ‘utile’ nel senso più stretto al nostro vivere, capace di raccontare attraverso una tazzina di caffè uno stile di vita. Quanto alla lingua del poeta palestinese, le sue liriche sono diari intimi dove il confine con la prosa sfuma in versi di grande modernità, senza ornamento nel senso classico, anche se utilizza spesso il refrain come nella lirica che chiude la Trilogia “Il giocatore d’azzardo”: ‘Chi sono io per dirvi quel che vi dico?’. In questa domanda e nella sequenza di negazioni che fanno seguito c’è tutta l’umiltà del poeta di fronte alla vita che in fondo anche nello stato più penoso è un dono. Questo vale di per sé ed è sufficiente nel senso che l’esistenza non ci deve altro. In fondo l’azzardo è il caso che gioca con noi. Esistiamo per un caso, perché Dio ci ha fatti essere mentre avrebbe potuto non farlo o non sceglierci, perché siamo scampati ad un incidente. Quello che è da sottolineare della lirica di Darwish è che non si tratta di fatalismo: nessuna rinuncia, ma una profonda autentica fede che porta all’umile accettazione della realtà che non toglie responsabilità all’uomo, anzi lo stimola a lottare per la libertà anche quando il risultato è una condanna. Nei suoi versi non si può non scorgere la traccia lasciata dalla storia, quella precarietà e fragilità che attraversa un popolo che ha nome Palestinese.

L’edizione curata da Elisabetta Bartuli riunisce per la prima volta tre testi che rappresentano tre momenti diversi della vita di Mahmud. Il primo testo che incontriamo è Diario di un’ordinaria tristezza: Darwish ha trent’anni e dopo aver già pubblicato cinque raccolte di poesie, trascorso un periodo di studi a Mosca (l’Urss del tempo ospitava molti dissidenti. Sono gli anni dell’amicizia sovietica per molti paesi arabi come l’Algeria ad esempio) e un soggiorno al Cairo, prende casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina dove aveva provato la condizione di profugo incarcerato più volte. Con quest’opera nella quale racconta tutto il suo travaglio chiude secondo molti critici la fase più patriottica del suo impegno iniziato nel 1964 con al struggente lirica “Carta d’identità”, con il suo ‘ritornello’, ‘Scrivi! Sono un arabo…’ gravido di futuro e preludio di quello che sta succedendo in quei luoghi. Un episodio importante è certamente la bruciante sconfitta ad opera di Israele del 1967 che ha determinato una cesura nella storia del Medioriente.

Page 5: Fascicolo Darwish

5

Nel 1987 è la volta di Memoria per l’oblio. Darwish ha lasciato Beirut e, dopo una breve sosta a Tunisi, quindi al Cairo, si trasferisce a Parigi. E’ ormai consacrato come uno dei più grandi poetici arabi. Si sente il travaglio dell’elaborazione della sua poetica di pari passo con il suo cammino esistenziale che diventa una riflessione articolata e meditata, non più ‘a caldo’.

Infine In presenza d’assenza troviamo una grande riflessione e un testamento poetico sull’arte e le possibilità della parola. Ad esso è affidato anche il canto d’amore per una poetessa israeliana di cui non rivela il nome. Lei diventa il simbolo dell’amore che è libertà e vita, che spesso è struggente dolore.

Il libro merita più livelli di lettura. Il primo piano è certamente quello storico che parte nel 1948 quando la nascita dello Stato di Israele pone la questione palestinese dove emerge la dignità. Scrive Darwish “...per carattere e per dignità, pur di conservare sempre e ovunque il proprio diritto, tutti i palestinesi in Israele hanno preferito vivere in una prolungata situazione asfissiante, anziché trovare un po’ di sollievo rinunciando a un pezzo di terra… Quella dei padri era un’attesa negativa, per loro la terra significava cose concrete… Per i figli, ossia per la mia generazione, in aggiunta a questo, terra significava futuro e campo di lotta. Se la nostalgia è un potenziale umano passivo, un’arma negativa, la lotta no”. Nell’ultima parte del libro parlando della nostalgia la descrive come un dolore: “Però non è un dolore grave perché ci ricorda che siamo malati di speranza”: un passaggio magnifico, un grande inno alla vita. Sul tema della terra e della patria ci sono pagine molto dense dove ad una riflessione più politica si unisce sempre il lato del vissuto e l’amore per il mare, quel mar Mediterraneo unico che ci unisce anche se a volte ci separa. Di tutt’altro respiro l’elogio del caffè che per chi lo ama è ‘la chiave del giorno’, scrive Mahmud, e dal suo gusto si risale alla personalità e alle inclinazioni di chi lo prepara. tema del caffè è lo spunto per raccontare la pena per la privazione della bevanda in carcere, il senso di colpa per non aver voluto dividerlo con un compagno e la giusta punizione avvertita quando un carceriere rovescia il thermos che sua madre gli porta in visita. Darwish è così, riesce a parlare del cielo citando il sottosuolo e viceversa. Sulla stessa vena racconta del calcio, una follia che però riesce a far sedere insieme i nemici e perfino a sospendere la guerra e sono righe di un’attualità estrema. Nelle pagine di Darwish, infine, c’è anche una grande spiritualità che affiora naturalmente, anche se bene si intuisce la sua conoscenza documentata dei testi sacri, l’averla metabolizzata con licenza poetica e c’è tanto Cristianesimo accanto all’islam, perché, come ha scritto qualcuno ‘pensiamo la Palestina come un mondo arabo ma è una terra di cristiani’.

(Estratto da un articolo di Ilaria Guidantoni)

Page 6: Fascicolo Darwish

6

Antologia di passi estrapolati dall’opera edita da Feltrinelli, 2014 (Per ciascun estratto sono indicate le pagine del libro).

Prima parte: Diario di ordinaria tristezza. (prima pubblicazione:1973)

Seconda parte: Memoria per l’oblio. (p.p. 1987)

Terza parte: In presenza d’assenza. (p.p. 2006)

Vorrei un funerale con mazzi di rose rosse e gialle vorrei che a celebrare fosse qualcuno di poche parole con la voce un po' roca, qualcuno che sappia simulare sufficiente tristezza e che alterni la sua orazione alla registrazione della mia voce; vorrei un funerale tranquillo semplice e partecipato. Pag.159

1 - DIARIO DI ORDINARIA TRISTEZZA p.19

Pag.7 Quando, nel 1973, dà alle stampe diario di ordinaria tristezza, Darwin ha trent’anni , ha pubblicato cinque raccolte di poesie e, al termine di un biennio scivolato via tra gli studi all’Università di Mosca e un lungo soggiorno al Cairo, ha preso casa a Beirut. Prima aveva sempre vissuto in Palestina. In Palestina era nato, in Palestina aveva trascorso infanzia e adolescenza, in Palestina aveva studiato, era diventato un giovane uomo e aveva dato forma alla sua coscienza politica. Prima profugo, poi presente-assente e arabo di Israele senza cittadinanza, più volte incarcerato più volte condannato agli arresti domiciliari nella sua casa di Haifa, aveva patito nella sua carne la condizione vissuta dalla sua gente: l’esilio, l’esilio in patria, la sete di libertà, le miserie del vivere quotidiano, l’atroce dolore della disfatta del giugno 1967.

Pag, 8 Con diario di ordinaria tristezza chiude quella che i critici chiamano la fase rivoluzionaria patriottica del suo percorso poetico, una fase che si era inaugurata nel 1964 con la sua poesia forse più famosa:

carta d’identità :

Scrivi sono arabo/defraudato delle vigne dei miei avi /E della terra che coltivavo/Insieme ai miei figli/A noi e a tutti i nostri posteri/Non hai lasciato/Che queste pietre.

Più tardi nel 1987 quando pubblica memoria per l’oblio Darwish ha lasciato Beirut e dopo una breve sosta prima a Tunisi poi al Cairo vive a Parigi.

Page 7: Fascicolo Darwish

7

L’altro, il nemico, lo straniero

Il rapporto di M. Darwish con l’altro, il nemico, lo straniero, è parte importante dell’analisi dell’opera di M. Darwish.

p.13 L’altro, per Darwish. non è solo Rita. L’altro sono tutte le persone, illustri e sconosciute, che pervicacemente allinea una accanto all’altra nel secondo e terzo capitolo del diario di ordinaria tristezza in cui la denuncia dell’ideologia sionista e le distorsioni del pensiero politico sono supportate da una profonda conoscenza della società e della psiche israeliane.

p. 54 - il senso di colpa

Nella letteratura ebraica moderna si trovano vari esempi di trasfigurazione del senso di colpa. Tuttavia è un sentimento che emerge dalla fiducia in se stessi, una sorta di confessione del più forte, fuori dai denti, in cui forza e vittoria si mescolano a un velo di cipria liberalista e umanista, ma solo molto più tardi e a strage avvenuta. E a ogni modo non sta a significare né pentimento né rammarico. Somiglia molto di più ai monologhi interiori dell’assassino, a omicidio commesso. Come, per esempio, l’intellettuale americano che descrive la tragedia dei pellerossa simpatizzando con i vinti.

Questa conclusione è tratta dalla lettura del romanzo di Ioshua, Di fronte ai boschi, Torino 1999 (p.52-54 della Trilogia)

Se ne consiglia la lettura.

Cosa significa la parola patria:

p.55

La carta geografica non ha la risposta perché somiglia molto più a un disegno astratto. La tomba di tuo nonno non è una risposta, perché un boschetto può farla scomparire. Non hanno occupato soltanto la terra e il lavoro, ma anche la tua psiche, il tuo carattere e quello che ti lega alla patria tanto da farti sorgere domande sul significato di patria.

Ti hanno strappato la terra da sotto i piedi, così l’hai nascosta sotto la pelle. Ti hanno torturato, ma hai confessato un amore ancora più folle per quel che ha causato la tua tortura.

Sotto lo stridio delle catene, l’alienazione che ti viene da ogni singolo giorno, si trasforma in una tregua con il vento. In prigione ti abbraccia la libertà, in prigione ti riempi anche di patria. La lotta è la risposta. Se combatti appartieni a qualcosa. La patria è lotta. Tra valigia e memoria non c’è altra soluzione che la lotta. Diritto, libertà, appartenenza, merito si dichiarano soltanto con la lotta.

Page 8: Fascicolo Darwish

8

Palestina ( vedi pagine 39-57).

p.42 - molto presto la parola Palestina è diventata proibita. Se tu ammetti di essere venuto dal Libano sei considerato un infiltrato clandestino: non ottieni più la carta d’identità. A cinque minuti di distanza da questo paese passa la strada che da Acri porta a Safed. Per te non è una strada, ma un confine che divide la terra del tuo esilio e del tuo rifugio dalla tua patria. A sud della strada c’è la terra di tuo padre e di tuo nonno oggi coltivata da immigrati ebrei yemeniti. Nel momento in cui sono arrivati lì definendo il loro destino e quello dei loro figli, in quello stesso momento hanno definito anche il tuo destino. Nel momento in cui loro sono diventati cittadini tu sei diventato profugo.

p.44 Un soldato israeliano, un poeta, mi ha raccontato che soltanto un giorno in vita sua si era sentito straniero in Palestina, quando era entrato in un paese arabo in Cisgiordania dopo la guerra del 1967. Era in uniforme e per strada aveva visto una bambina che lo guardava in modo da fargli tremare la terra sotto i piedi. Da quegli occhi, da quello sguardo inspiegabile si era reso conto che lui era un occupante.

p.117-120 (estratto) Silenzio per Gaza

Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere. Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. È il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere. Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e verso il suo sangue. Gaza non è un fine oratore, non a gola. È la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme. Per questo, il nemico lo odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue. Per questo gli amici suoi cari la mano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza e Barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici. Gaza non è la città più bella. Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono dei migliori del bacino del Mediterraneo.

Gaza non è la città più ricca. (Pesce, arance, sabbia, tende abbandonate dal vento, merce di contrabbando, braccia noleggio.) Non è la città più raffinata, nella più grande, ma equivale alla storia di una nazione. Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed il suo incubo. Perché arance esplosive, bambini senza infanzia, vecchi senza vecchiaia, donne senza desideri. Proprio perché, nella più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi. Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito, perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente di più di una piccola e povera città che resiste. Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo. Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla. Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà. Non ha cavalleria, né

Page 9: Fascicolo Darwish

9

aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere. In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori. Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione. La resistenza a Gaza non si è trasformata in una istituzione. Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno. La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche. Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori. Per questo sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi. La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie. Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone nel congresso nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo nella parte est della luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato. Niente la distoglie. È dedita al dissenso: fame e dissenso, site e dissenso, diaspora e dissenso, tortura e dissenso, assedio e dissenso, morte e dissenso. I nemici possono avere la meglio sul Gaza. Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola. Possono tagliarle tutti gli alberi. Possono spezzarle le ossa. Possono piantare i carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue. Ma lei: non ripeterà le bugie. Non dirà sì agli invasori. Continuerà a farsi esplodere. Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere. (Scritto nel 1973!)

LE DUE MEMORIE p.45 La memoria ebraica ha trasformato una delle sue pretese basilari in rivendicazione di diritto alla Palestina, eppure è incapace di riconoscere il diritto altrui e di apprezzarne il senso della memoria. Gli israeliani rifiutano di convivere con la memoria palestinese, rifiutano di riconoscerla, nonostante uno degli slogan nazionali ebraici sia “non dimenticheremo”.

Mantenere la coscienza collettiva in stato di perenne ricordo per polarizzare il sentimento nazionale è una delle materie fondamentali insegnate nella scuola israeliana, la prima nella scala delle priorità sioniste. Ripetono sempre: “possa io dimenticare la mia mano destra, se ti dimentico, Gerusalemme!”. Dopo l’olocausto a cui gli ebrei europei sono stati sottoposti dal nazismo, il loro motto fondante è diventato “non dimenticheremo e non perdoneremo”.

Ogni anno gli israeliani commemorano le proprie vittime. Israele si ferma. Ci sono un museo specifico, un insegnamento specifico, un programma specifico per ricordare l’olocausto alle nuove generazioni. Nel libro di Amos

Page 10: Fascicolo Darwish

10

Elon intitolato Israeliani, c’è un capitolo specifico dedicato a questo argomento che dice: “Agli occhi della giovane generazione post-sionista, l’olocausto ha perciò confermato uno dei temi fondamentali del sionismo classico del 19º secolo: senza un paese proprio si è la feccia della terra, preda inevitabile delle belve”. Nel libro viene riconosciuto il fatto che la politica israeliana strumentalizza l’olocausto come ricatto emotivo.

La cultura israeliana insiste nel saturare i cittadini con le memorie dell’Olocausto avvenuto in Europa per acuire la sensazione di esilio e isolamento dal resto del mondo. Sensazione essenziale nella psicologia e nel temperamento israeliani. Alimentare la memoria israeliana ha un intento politico preciso: acuire la rivendicazione sionista della Palestina inculcando negli israeliani la convinzione che la minaccia dello sterminio rimane costante e che tornare e rifugiarsi in “terra d’Israele” è l’unica garanzia di sicurezza storica e politica.

p. 46 L’olocausto e sua utilizzazione a fini politici

Non dimenticare le stragi naziste è un dovere di tutti, non soltanto degli ebrei. Qualsiasi livello di antagonismo arabo-israeliano si sia raggiunto, nessun arabo ha il diritto di simpatizzare con il nemico del proprio nemico, perché il nazismo è nemico di tutti i popoli. E questa è una cosa. Però Israele sfoga i suoi rancori su un altro popolo chiedendo ai palestinesi e a qualsiasi altro arabo di pagare il prezzo di crimini che non hanno commesso. E questa è un’altra cosa. Gli israeliani si vantano di fronte al mondo di essere i primi profughi ed esiliati nella storia dell’umanità, fino al punto di trasformare questo attributo in un segno distintivo. Però sono completamente incapaci di comprendere che anche altri possono possedere lo stesso senso. Non è crudele affermare che il comportamento dei sionisti contro il popolo palestinese è paragonabile alle pratiche naziste applicate contro gli stessi ebrei. Non è crudele affermare che il comportamento israeliano e quello del movimento sionista nei rapporti internazionali strappano proprio di bocca il commento: commerciano con il sangue delle vittime ebree. Con i soldi e l’equipaggiamento ricevuti in risarcimento delle vittime del nazismo uccidono un altro popolo. Dunque non è crudele nemmeno affermare che il modo in cui Israele commemora le vittime del nazismo è caratterizzato dal ricatto emotivo;; in quanto saturare gli israeliani tramite il senso dell’olocausto spinto all’eccesso e contemporaneamente tramite il bisogno di vendicarsi non del proprio carnefice ma di un’altra vittima, ossia il popolo palestinese, è un obiettivo politico. il sionista arrogante non si vergogna di vantare che la perdita di 6 milioni di ebrei, o giù di lì, gli è valsa una patria.

(Mahmud Darwish, Una trilogia palestinese, Feltrinelli ed., 2014, p.46-47)

Page 11: Fascicolo Darwish

11

KAFR QASIM p.79

Nel 1956 alla vigilia dell’aggressione tripartita anglo franco israeliana contro l’Egitto, il colonnello Shadmi convoca il colonnello Malinki nel quartier generale assegnandogli la missione per il suo distaccamento. È una di quelle missioni affidate alla guardia di frontiera nel distretto centrale con l’ordine operativo di imporre il coprifuoco dalle cinque di sera alle sei di mattina nel paese di Kafr Qasim e in quelli circostanti. Shadmi: non è ammessa alcuna eccezione al coprifuoco. Svolgete sorveglianza con pugno di ferro. Non arrestate i trasgressori, sparategli. Meglio ucciderli piuttosto che incorrere nelle complicazioni che comportano gli arresti. Malinki: che ne sarà dei cittadini che, tornando dal lavoro ignari dell’ordine di coprifuoco, con tutta probabilità s’imbatteranno delle pattuglie della guardia di frontiera all’ingresso del paese? Shadmi: Niente sentimentalismi. Pace all’anima loro.

Il seguente dialogo si svolge tra Malinki e i suoi soldati:

cosa dobbiamo fare dei feriti?

Malinki: Non è a far vostro. Non rimuoveteli. Non ci saranno feriti.

Che cosa dobbiamo fare con donne e bambini?

Malinki: Niente sentimentalismi.

Che cosa dobbiamo fare con chj torna dal lavoro?

Malinki: Stesso trattamento per tutti. Pace all’anima loro. Così ha dato ordine il comandante.

A un bambino di otto anni, di nome Talal Shakir ‘Issa, scappa una capra dal cortile di casa e finisce in strada. Né il bambino né la capra sanno che il coprifuoco in paese è già in vigore da qualche minuto. Il bambino corre dietro alla capra, le pallottole gli scrosciano addosso e lo colpiscono a morte. Il padre raggiunge il figlio e il fucile spara portando a termine la propria missione. La madre corre verso il figlio e marito e il fucile spara portando a termine la propria missione. La figlia Nura raggiunge genitori e fratello e il fucile spara portando a termine la propria missione.

Il superstite:

Quel giorno lavoravo in un frutteto con due miei cugini. Poco dopo le quattro avevamo terminato e stavamo tornando al paese in bicicletta. Per strada, abbiamo incontrato altri braccianti, ci hanno raccontato che in paese c’era il coprifuoco e sparavano, ma nessuno sapeva il perché. Dopo qualche esitazione

Page 12: Fascicolo Darwish

12

abbiamo deciso di proseguire. Nel frattempo eravamo diventati 15. Siamo arrivati a qualche chilometro dal paese, senza essere seriamente preoccupati. Immaginavo che alla peggio ci saremmo imbattuti in Blum, l’ufficiale della guardia di frontiera. Magari ci avrebbe umiliato e picchiato un po’, come al solito, ma non mi sarei mai aspettato qualcosa di diverso. Poco dopo abbiamo sentito degli spari e mi sono reso conto che la faccenda era pericolosa. “Torniamo indietro”, ho detto a mio cugino. Lui mi ha fatto coraggio. All’improvviso un uomo della guardia di frontiera ci ha sbarrato la strada: “alt”. Siamo scesi dalle biciclette. Il soldato ci ha ordinato di mettersi in fila:

“di dove siete?”

Di Kafr Qasim, abbiamo gridato in coro.

Dove eravate?

Al lavoro.

È indietreggiato di 5 m, quando è stato all’altezza dei due commilitoni che imbracciavano le mitragliatrici, ha gridato: falciateli. Non ho creduto a quel che stava succedendo, finché le pallottole non hanno cominciato a pioverci addosso. La prima raffica mirava alle gambe, la seconda più in alto. Sono caduto a terra con gli altri. … Poco dopo è arrivato un camion. Gli israeliani lo hanno fermato e hanno ordinato di scendere a tutti i passeggeri. Si trattava per la maggior parte di braccianti della ditta agricola Osamia, in seguito ho saputo che erano 23. I tre assassini sono tornati verso di me e verso gli altri ciclisti uccisi e hanno cominciato ad ammassare i corpi in un mucchio a 3 m di distanza. Davano il colpo di grazia ai feriti con le pistole. Ho stretto i denti per non gridare, fingendo di essere morto. Mi hanno trascinato per aggiungermi al mucchio e si sono allontanati. Dopo è arrivato un altro carretto con due persone a bordo. Hanno ammazzato anche loro. Ho visto i tre assassini sedersi al pozzo. Dopo un po’ è arrivato un altro camion. … Più tardi ho saputo che dentro c’erano quattro ragazzi e tredici ragazze dai 12 anni in su. All’improvviso di tre assassini hanno iniziato a correre dietro al camion, lo hanno bloccato e hanno intimato a tutti i passeggeri di scendere.. … I fischi delle pallottole si mescolavano agli strilli delle ragazze e ai tonfi dei corpi che cadevano a terra.

Dagli atti del processo:

avvocato: è vero che lavora al servizio del paese e che per tutta la vita avuto la sensazione che gli arabi sono nostri nemici?

Soldato: sì, è vero.

Avvocato: è vero che ha questa sensazione sia verso gli arabi d’Israele che verso quelli fuori da Israele?

Page 13: Fascicolo Darwish

13

Soldato: sì. Non faccio differenza.

Avvocato: è vero che se non avesse eseguito l’ordine di uccidere tutti gli arabi che erano fuori casa si sarebbe sentito un traditore dello spirito inculcato dall’esercito e dalla guardia di frontiera?

Soldato: sì, è vero.

Giudice: supponga che fosse accaduto quanto segue a Qasim: dopo le cinque di sera una donna la chiama, sicuramente non costituisce un pericolo né una minaccia per la sicurezza, la chiama soltanto per chiedere il permesso di tornare a casa. Supponiamo per esempio che siano le cinque e venti e quella donna sia a 10 metri da casa sua e le chieda il permesso di entrarci. Che cosa farebbe?

Soldato: non glielo permetterei.

Giudice: che cosa farebbe?

Soldato: se fosse per strada le sparerei.

Il giudice: ma non c’è alcun pericolo. Non è altro che una persona che, o per errore o perché non sa che vige il coprifuoco, si dirige verso di lei e le chiede il permesso di attraversare la strada. La domanda è: lei, nonostante questo, ucciderebbe chiunque si presentasse oppure farebbe distinzione e non sparerebbe in casi specifici?

Soldato: non farei distinzione.

Giudice: ucciderebbe chiunque?

Soldato: sì.

Giudice: persino donne e bambini?

Soldato: sì.

Giudice: ucciderebbe chiunque vede?

Soldato: sì.

… pag. 90

Il processo si è svolto rapidamente. Il tribunale ha trovato Shadmi colpevole soltanto di “un errore tecnico”, per cui è stato condannato a una tirata d’orecchie e all’ammenda di un centesimo. Il crimine di Kafr Qasim è stato un crimine pianificato ed eseguito “per futili motivi”. Un crimine fine a se stesso. Ossia la più alta forma di crimine mosso da istinti di omicidio e di vendetta. Il famoso terrorista Menachem Begin alludeva a questo tipo di violenza armata quando scriveva che i metodi violenti a cui hanno fatto ricorso dei sionisti prima del

Page 14: Fascicolo Darwish

14

1948 erano l’unico modo efficace per assicurare gli obiettivi nazionali in Palestina e per “saziare la brama repressa di vendetta degli ebrei”. Questo prima del 1948. Perché Kafr Qasim, dunque, nel 1956? Forse perché l’assioma esistenzialista dei terroristi sionisti “combatto dunque sono” ha bisogno di pratica costante e continue dimostrazioni. O forse perché il sionista israeliano che nutre un desiderio represso di vendetta, come afferma Begin, ha bisogno di rigenerarsi in un unico modo, ossia con la guerra, e di riempire la propria esistenza con nuove ragioni per distinguersi, ossia uccidere, uccidere, uccidere. “Sii mio fratello, altrimenti ti uccido” aggiunge il filosofo del crimine. E siccome gli arabi sotto il giogo israeliano non riescono a fraternizzare con il loro assassino, il cerchio dell’omicidio non si chiuderà mai. Come non avranno mai fine nel pensiero sionista le innumerevoli giustificazioni della violenza armata ispirate persino dalla religione. Infatti, il Giosuè biblico è diventato un eroe israeliano contemporaneo per la ferocia con cui trattava i non ebrei. Il popolo arabo in Palestina ha saputo come vendicare i propri figli, si è aggrappato alla patria con le unghie e con i denti e ha urlato agli invasori: “Non firmerò l’atto di perdono”. Le autorità hanno continuato a vendicarsi di questo popolo, raggiungendo l’apoteosi della vendetta con l’inaugurazione della città del furto, Karmiel, fondata sulle macerie di tre villaggi arabi in Galilea proprio il giorno dell’anniversario del massacro di Kafr Qasim.

COLLOQUIO TRA UN GIOVANE PALESTINESE E UN GIOVANE ISRAELIANO

p.62 "Scriviamo una pièce insieme?

“Va bene scriviamola”.

"Cerchiamo un punto d'incontro?"

"Va bene, cerchiamolo. "

"Svisceriamo per bene la questione?"

"Va bene, svisceriamola. "

"Una casa contesa potrebbe essere il fulcro della pièce?"

"Certo, potrebbe."

"Ci incontriamo tra un mese?"

" A tra un mese."

In quel momento, nel campo profughi, Khadija stava salutando il figlio, gli consegnava le chiavi della casa che gli era appartenuta a Haifa, chiamata " Ia casa rossa ". Nello stesso momento Sara, che ora abitava nella "casa rossa", stava

Page 15: Fascicolo Darwish

15

salutando il figlio, richiamato da un comunicato radio che gli ordinava di raggiungere la sua unità militare. I due ragazzi, provenienti da direzioni opposte si incontrano in qualche parte nel bosco e si affrontano. Non importa sapere chi dei due uccide l'altro.

"Hai finito il capitolo?"

"Sì, ho finito"

In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha insegnato a-rinunciare alla mia identità ebraica, mi ha cresciuto con l’idea che ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.

"E tu cosa hai scritto?"

In esilio, mio padre non mi ha insegnato il suicidio né la disperazione, non mi ha insegnato a rinunciare alla mia identità palestinese. Mi ha cresciuto con l'idea che ero stato cacciato e malgrado questo mi ha insegnato a vivere.

"Questo è un punto d'incontro importante"

"La casa che polarizza i nostri destini è un punto d'incontro o un punto d'addio?"

"E un punto di scontro."

"Come lo risolve la pièce?"

"Possiamo dire che il diritto di proprietà non scaturisce dall'eredità ma dal bisogno e dal merito. Secondo questo fondamento, l'uomo che ha costruito questa casa cinquant'anni fa, ora non ne è più il proprietario di diritto, perché abbandonandola, non importa per quali circostanze, è come se avesse rinunciato al suo diritto, non avendone più bisogno.

Quanto al proprietario attuale ha fatto tutti gli sforzi possibili per impadronirsi di questa casa che non appartiene a nessun altro."

"Dov'è la giustizia in questa pièce?"

" Giustizia, giustizia. Cerchiamola ora, insieme. Facciamo in modo che il senso di rimorso domini nella casa finché il tempo non fa il suo corso. Facciamo in modo che, esprimendo i sensi di colpa, gli ebrei risarciscano la perdita della casa da parte degli arabi."

"Incontriamoci tra un mese affinché possa proporre un'altra formula di giustizia più equa."

"Va bene, a tra un mese."

Page 16: Fascicolo Darwish

16

In quel momento, c'erano altre case, in altre città, che stavano cambiando proprietario. Chiavi nuove si ammucchiavano sopra quelle vecchie nei campi profughi palestinesi che, guerra dopo guerra, diventavano sempre più stretti. Di notte, dei ragazzi prendevano quelle chiavi e non tornavano più.

VUOI TORNARE A CASA IN TAXI?

p.68

Ti rivolgi al tassista in perfetto ebraico. Il tuo aspetto non denuncia la tua identità.

"Dove andiamo, signore?" chiede il tassista.

"Via al-Mutanabbi."

Accendi una sigaretta per te e una per lui perché è gentile. All’improvviso dice: "Fino a quando dobbiamo sopportare questo schifo? Siamo stufi".

Credi che sia stufo dello stato di guerra, dell'aumento delle tasse, del prezzo del latte e condividi: "Ha ragione, siamo proprio stufi".

Fino a quando il nostro stato manterrà questi sporchi nomi arabi? Deve cancellare loro e i loro nomi dalla faccia della terra. "

"Loro chi?"

"Gli arabi, ovvio," esclama disgustato.

Gli chiedo il motivo e risponde: "Perché sono sporchi".

Dall'accento riconosci che è un ebreo immigrato da Marrakesh.

"Sono sporco fino a questo punto? Lei, per esempio, è più pulito di me?"

"Cosa intende?" sbotta sorpreso.

Gli chiedi di arrivarci da solo, allora capisce ma non ci crede.

"La smetta di scherzare!".

Solo dopo aver visto la tua carta d'identità crede davvero che sei arabo.

"Non intendevo i cristiani, intendevo i musulmani."

Precisi che sei musulmano e lui: "Non intendevo tutti i musulmani, intendevo quelli di paese".

Page 17: Fascicolo Darwish

17

Allora gli racconti che sei di un paese arretrato che è stato raso al suolo e cancellato dalla faccia della terra a piacimento dello stato d'Israele'

"Con tutto il rispetto per lo Stato," esclama.

Scendi dal taxi decidendo di tornare a casa a piedi. Ti viene voglia di leggere i nomi delle strade. In effetti li hanno cancellati. Via Salah al-din è diventata via Shlomo. Allora ti domandi: "Come mai hanno mantenuto il nome di al-Mutanabbi?".

Ma quando arrivi là, per la prima volta, leggi il nome della via e ti sembra Monte Nebo in ebraico e non al-Mutanabbi come credevi tu.

p.121 A tarda notte il mondo va a dormire.

Uccidiamo la memoria

Così il mondo va a dormire e mi dimentica.

- Non svegliare la vittima, potrebbe gridare -.

- Chi l’ha svegliata? Chi è stato -?

- Un vento che soffia all’improvviso, rianima i morti -.

- Da dove soffia -?

- Da ogni direzione, dalla patria -.

- Chi ha insegnato loro questo termine desueto -?

- Poeti che cantano al suono del rababà -.

- Uccideteli -.

- Li abbiamo uccisi, ma hanno inventato un altro termine: libertà -.

- Chi ha insegnato loro questo termine sedizioso -?

- Ferventi rivoluzionari –

- Uccideteli -

- Li abbiamo uccisi, ma hanno imparato un’altra parola: giustizia -

- Chi ha insegnato loro questo termine? -

- L’oppressione. Possiamo uccidere l’oppressione? -

- Se annientate l’oppressione, annientate voi stessi -

Page 18: Fascicolo Darwish

18

- Che facciamo? -

- Uccidiamo la memoria. -

2 - MEMORIA PER L'OBLIO (Pag. 139 ) Pag. 9 Memoria per l’oblio è un testo polifonico che accosta discorsi diretti e indiretti, monologhi interiori, narrative contrapposte, sogni, descrizioni, poesie e articoli di giornale, citazioni delle sacre scritture, esegesi mussulmana, storiografia araba e non araba, lessicografia e letteratura europea.

Il caffè. 154

Gli invasori sono capaci di tutto, sono in grado di scatenarmi contro il mare, l’aria e la terra, ma non riusciranno a strapparmi l’odore del caffè. Mi farò un caffè, adesso, subito. Berrò il mio caffè, adesso, subito. Adesso, subito, mi ubriacherò d’odore di caffè. Lo farò per distinguermi dalle pecore, per vivere ancora un altro giorno, oppure per morire avvolto nell’odore di caffè.

… Allontanare il recipiente dal fuoco basso per permettere che la mano realizzi la prima delle sue opere. Non badare ai missili, ai proiettili e agli aerei. Perché questa è la mia volontà, questo è ciò che voglio: spargerò odor di caffè per riappropriarmi della mia alba. Non guardare verso la montagna che sputa matasse di fuoco contro la mano.

Una cucchiaiata di caffè esaltato dal cardamomo, un’unica cucchiaiata, getta l’ancora, maestosa, sull’incresparsi dell’acqua bollente. Tu mescola muovendo piano il cucchiaio, prima in tondo e poi dall’alto verso il basso. Aggiungi la seconda cucchiaiata, porta la polvere da su a giù e poi, con un movimento circolare, da sinistra a destra. Versa la terza cucchiaiata. Fra l’una e l’altra, ogni volta, allontana per un momento il recipiente dal fuoco, e subito dopo “carica” il caffè, ossia riempi il cucchiaio di polvere che va sciogliendosi, sollevalo bene in alto e rituffalo nell’acqua, più e più volte, fino a quando non riprende a bollire e forma una pellicola bionda che si addensa in superficie e quasi affonda. Non lasciare che vada a fondo. Spegni il fuoco e non badare ai missili. Porta il caffè nel tuo angusto corridoio. Versalo, teneramente, con eleganza, in una tazza bianca - quelle scure attentano alla libertà del caffè -. Osserva le volute di vapore, il velo profumato che si leva. Accenditi una sigaretta, adesso, la tua prima sigaretta, appositamente rollata per questa tazza di caffè; sarà una sigaretta dal sapore galattico, ineguagliabile non fosse per quella che segue l’amore, quella che fumi mentre la donna che è con te secerne la sua ultima goccia di sudore e sospira.

Page 19: Fascicolo Darwish

19

Eccomi, sto tornando al mondo. Nelle vene mi scorre una stimolante droga, un fiume di vita nata dal matrimonio tra caffeina e nicotina, una cerimonia officiata dalla mia mano. Chissà come fa a scrivere, mi chiedo, una mano che non sa preparare il caffè. E che dire di tutti cardiologi che, fumando come ossessi, mi hanno ripetuto: “non fumare e non bere caffè”. A tutti ho risposto, scherzando: “gli asini non fumano e non bevono caffè, però nemmeno scrivono”.

Conosco il mio caffè, il caffè di mia madre e il caffè dei miei amici. Li riconosco da lontano, so bene in cosa sono diversi. Non esistono due caffè che si somiglino. E il mio panegirico del caffè è anche un’apologia della diversità. Non c’è sapore che possa essere definito “di caffè”. Il caffè non è un concetto, non è un unico elemento, non è un assoluto. Ognuno ha il proprio caffè, talmente particolare, talmente specifico che io, dal sapore del caffè che mi offre, riesco a farmi un’idea di una persona, a stabilirne il grado di eleganza interiore. Se il caffè sa di coriandolo, significa che la padrona di casa non tiene in ordine la cucina. Se ha un retrogusto di carruba, il padrone di casa è avaro. Se odora di profumo, la signora che l’ha fatto è molto attenta all’esteriorità. Se lascia in bocca una patina muschiata, l’ha preparato un sinistrorso mai cresciuto. Se sa di vecchio da quanto è stato lasciato bollire, è l’opera di un estremista di destra. Se si sente solo il cardamomo, è cosa da arricchiti.

Non esistono due caffè che si somiglino. Ogni casa ha il suo caffè, ogni mano il suo, perché nessuno somiglia davvero a qualcun altro. Io lo sento arrivare da lontano: inizialmente si muove in linea retta, poi serpeggia, si attorciglia e si contorce, si lamenta avvolgendosi a declivi e pendii, si aggrappa a querce e a pioppi, lotta per scendere a valle, si gira all’indietro, si strazia dal desiderio di risalire la montagna e poi, posato sulle note di un flauto, si dirige di nuovo verso la sua prima dimora.

L’odore del caffè è un ritorno, un rientro nell’elemento primigenio, perché rimanda all’essenza del luogo d’origine; è un viaggio iniziato migliaia d’anni fa ed eternamente ripetuto. Il caffè è un luogo. Il caffè è una porosità da cui l’interno traspira all’esterno, è un’interruzione che unisce quel che solo l’odore di caffè può unire. Il caffè è l’antitesi dello svezzamento, è una mammella che nutre da lontano, un mattino che nasce da un sapore amaro, è l’arte della virilità. Il caffè è geografia.

L'acqua

p.165

mi importa poco di quel che succede al di là del vetro. Bombe. Missili. Sirene. Aerei. Corazzate. Mi soffiano contro come soffia il vento. Piovono come pioggia che cade. Sussultano come farebbe un terremoto. La volontà umana non può far nulla per fermarli, pare sia un destino ineluttabile. Sui nostri corpi,

Page 20: Fascicolo Darwish

20

oggi, si sta testando ogni nefandezza che l'ingegno umano ha potuto partorire e, in aggiunta, tutto un bagaglio di innovazione tecnologica. Sarà il giorno più lungo della storia? Nessuno lava i morti, siano quindi i morti a lavarsi da sé. Col sangue, intendo, visto che l'acqua è introvabile. Faccio sempre tesoro, io, delle mie preziose riserve idriche, utilizzo ogni goccia con estrema parsimonia. Ogni goccia ha il suo ruolo. Le conto, quasi. 500 per lavarmi i capelli. Duemila per il corpo. 100 per la bocca. 100 per farmi la barba. 20 per ogni orecchio. 50 per ogni ascella e via di seguito. Ogni goccia ha il suo pezzetto di corpo.

p.166

L'acqua è aria in gocce, palpabile, tangibile, pegno di luce. È per questo che i profeti hanno voluto che i loro popoli la amassero: dall'acqua abbiamo fatto germinare ogni cosa vivente (Corano, 21º, 30).

A Tell al-Za’tar i cecchini aspettavano le donne palestinesi vicino all'acqua, vicino alle condutture bucate, esattamente come fanno i cacciatori quando braccano le gazzelle assetate. Acqua assassina. Acqua che diluisce il sangue di gente disidratata, disposta a rischiare la vita pur di inumidirsi le labbra. Acqua che ha mosso i re degli arabi e li ha costretti loro malgrado a telefonare al presidente americano per proporre uno scambio vantaggioso: sangue in cambio dell'acqua. Petrolio in cambio dell'acqua. Noi stessi in cambio dell'acqua.

Il rumore dell'acqua è come uno schiamazzo di nozze, più forte, molto più forte di qualsiasi aereo. Il rumore dell'acqua fa da specchio alle vene della terra che vive, il rumore dell'acqua è libertà. Il rumore dell'acqua è umanità.

179

Nell’area invasa, sul mare invaso, sulla montagna invasa e sulle sue distese di pini continuano a piovere bombe, bombe di paure primordiali; la cacciata di Adamo dal paradiso terrestre si inserisce nella moltitudine di storie che raccontano un esodo. Non ho patria, non ho più corpo. Continuano a piovere bombe sui cantici di gloria, sul conversare di morte che scorre nel sangue come luce che infiamma domande gelide. I missili mi penetrano in ogni poro della pelle e ne escono indenni. Non sento l’inferno che l’area diffonde, perché lo respiro, lo sudo in ogni goccia di sudore.Voglio cantare. Sì, esatto, voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che muteranno la lingua in acciaio dell’anima, una lingua che sappia battere questi aerei, questi insetti d’argento scintillante. Voglio cantare. Inventare una lingua che mi sostenga e che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine universale. Voglio cantare e poi andar via.

Page 21: Fascicolo Darwish

21

p.197

quante incongruenze tra noi palestinesi.

Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere calunnie e maldicenze. Qualche gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri: ce ne servirebbero altri 20 per portarci al livello.

E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva l’affiliazione. Si è messo a morte un combattente perché ha rifiutato di sparare a un amico che militava in un’altra organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e lì è rimasto finché una veggente non l’ha ritrovato.

p.200 Begin come Giosuè (VI,16-26)

testo di cui si consiglia la lettura.

223 Il calcio e Paolo Rossi

Anche noi amiamo il calcio. Anche noi abbiamo il diritto di amare il calcio. E abbiamo il diritto di assistere alla partita. Perché no? Perché non sfuggire un po’ alla routine della morte? In un rifugio, siamo riusciti a procurarci l’energia elettrica usando alla batteria di un’automobile. In un battibaleno Paolo Rossi ci ha trasmesso la gioia che ci mancava. È un uomo che, in campo, si vede solo dove conviene che lo si veda. Un diavolo smilzo che noti solo dopo che ha segnato la rete, esattamente come un aereo da bombardamento si vede solo dopo che i bersagli sono esplosi. Dove c’è Paolo Rossi c’è un gol, c’è un’ovazione. Poi lui scompare, oppure si nasconde per aprire nell’aria un varco per quei suoi piedi pronti a cercare le buone occasioni, a portarle a maturazione, a raggiungerle in un picco di voluttà. Non è mai chiaro se sta giocando a calcio oppure facendo l’amore con la rete, una rete ritrosa che lui, sul torrido campo spagnolo, tenta e seduce con una raffinata galanteria italiana. Che lusinga come farebbe un gatto in calore. E poi, infine, ecco che Paolo Rossi, sotto gli occhi dei guardiani della virtù, un imene di 10 uomini posto a protezione della verginità della rete, ecco che Paolo Rossi avanza, avanza in un impeto di lussuria, avanza, muscolo d’aria, e sfonda. Ed ecco che la rete, incapace di resistergli, si rilassa e si arrende al suo ineffabile stupro.

Il calcio: cos’è quest’incantevole follia capace di imporre una tregua che ci fa godere di un piacere innocente? Questa follia in grado di attenuare la violenza della guerra e di ridurre i missili alla stregua di fastidiosi mosconi? Cos’è questa follia che, per un’ora e mezzo, sospende la paura? Che

Page 22: Fascicolo Darwish

22

rasserena corpo e anima più dell’ardore della poesia, più del vino e più del primo incontro con una sconosciuta? È stato il calcio. Il calcio ha fatto il miracolo, ha risvegliato un popolo che pensavamo morto, morto di paura e di noia.

Video Youtube (3 minuti): http://youtu.be/gdtPuMxAjvI

225-229 In quell’anno i franchi conquistarono Gerusalemme

Ibn Kathir (1301-1373) l’inizio e la fine.

Testo di cui si consiglia la lettura.

229 presso i franchi non c’è ombra di senso dell’onore e di gelosia.

Usama ibn Munqidh (1095-1188), Il libro dell’ammaestramento con gli esempi.

Testo di cui si consiglia la lettura.

i tacchi alti e l’amore in tempo di guerra

p.238 Sbatti i tuoi tacchi alti sulla pietra delle scale e maciulla le pareti del mio cuore facendone pastura per i cani randagi. Ah, quanto mi piacciono i tacchi alti che fanno stendere le gambe in un assoluto di femminilità pronta a esplodere, che rimpiccioliscono il ventre, lo fanno arcuare quando è raggrinzito per la sete, che arrotondano i seni e li fanno passare alti e superbi sopra le teste dei passanti al cui desiderio si negano. I tacchi alti fanno sì che il collo si tenda come quello di un cavallo quando sta per precipitare in un baratro, fanno sì che la lancia si rizzi su un pulpito d’aria solidificata. Sbatti contro il selciato con l’ombrosità di una gazzella che né braccia né parole possono afferrare. Mostrati pian piano da dietro la porta chiusa. Dall’altro lato c’è una poltroncina in pelle. Ci potrà reggere, è abbastanza larga per noi due. Ma non toglierti i vestiti perché la morte non ci veda nudi. C’è tempo solo per un amore frettoloso, per un sobbalzo di eternità temporanea.

p.246 … Facciamo attenzione alle armi letterarie capaci di nascondere il loro tradimento e la loro pretesa di santità, capaci di infrangere i nostri sogni fingendo disgusto per la politica - detto in altri termini: disgusto per la lotta. Un uso corretto della lingua è diventato sinonimo di arretratezza, la precisione della metrica, regresso. La chiarezza è diventata una vergogna, la parola e l’effetto della parola sul pubblico, inciviltà. Per dirla in breve: siamo in piena reazione. Lo spirito reazionario, spacciandosi per sinistrorso, si è fatto

Page 23: Fascicolo Darwish

23

avanti con tutto l’armamentario tipico della modernità, stracolmo però di tutte le teorie sul ritorno al passato.

…E intanto il figliol prodigo faceva ritorno alla sua comunità confessionale, al suo ascetismo o al suo esoterismo e dichiarava a gran voce che era pentito di essersi rovinato la vita partecipando a quei movimenti di liberazione che avevano prodotto solo difficoltà impreviste e a quella rivoluzione che ha dimostrato di avere costi troppo elevati.

p.260… Il cambiamento degli arabi.

Io non credo, né voglio credere, che la storia del medio oriente continuerà meccanicamente a ripetere se stessa, né che lo farà per guizzi creativi. Per quanto gli slogan della moderna politica siano ormai lontani anni luce dai principi che li hanno generati, per quanto i discorsi siano vuoti di contenuto, io, comunque, non mi convincerò che il cambiamento degli arabi, che il progresso degli arabi, verrà dall’esterno, da qualcosa che non sia arabo. Secondo me, un modello che si prefigge di sedurre con la fede quanti non hanno fiducia nel presente non può che riportarci a un conflitto che affonda in questioni non più nostre. E io cosa ho a che spartire con gli errori del terzo successore del profeta, il califfo Uthman ibn ‘Affan? Ho altre storie, io: questa non è l’unica che mi riguarda.

3 – IN PRESENZA D’ASSENZA (p.283)

p.10 …Nel 2006, quando pubblica in presenza d’assenza, Darwish vive tra Ramallah, in Palestina, e Amman in Giordania. Nell’ultimo decennio si è quasi totalmente liberato della pressione politica che gli pesava addosso in quanto “poeta nazionale”. Ha potuto e voluto essere in prima istanza semplicemente un poeta. I critici chiamano questa fase “lirico-epica” e “dei temi indipendenti”.

…E mentre si interroga sul posto che la Palestina occupa nel mondo, il lirismo intimista e il lirismo epico si riconciliano nell’immagine del palestinese non più eroe e vittima, ma come essere umano che anela a una vita banale, semplice, ordinaria.

p.11…A un certo punto la sua traiettoria poetica si spinge verso l’alto alla ricerca di un punto di equilibrio in cui prosa e poesia si avvicinino l’una all’altra, tanto da arrivare a confondersi.

In presenza di assenza il poeta si sforza di elevare al suo massimo potenziale la prosa in arabo. Ed è una sorta di addio a se stesso quando si dice: allora riposa in pace, se possibile. Riposa in pace nelle tue parole.

Page 24: Fascicolo Darwish

24

(pag.287)…Secondo le tue volontà, eccomi qui, in piedi, a ringraziare a nome tuo chi è venuto a darti l’estremo saluto per quest’ultimo viaggio. L’invito a non dilungarsi troppo nel congedo per passare un banchetto più consono a ricordarti.

Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te e il tuo nome come fanno i passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due direzioni diverse: tu, verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che forse sopravviverà all’impatto della cometa con la terra; io, verso l’appuntamento più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino rosso.

p.289-290 …Mentre ci separiamo presso questo limbo dalla vita alla morte, lasciami, dunque, rescindere il contratto stipulato tra me e te, tra un’assurdità e l’altra. Non sappiamo chi di noi ha vinto e chi ha perso, se io, tu o la morte. Tu, mio opposto, sei sempre alla spasmodica ricerca di un’assurdità necessaria ad allenare lo spirito alla tolleranza e a esercitare il privilegio di contemplare acqua che ride nelle fossette, o vola di farfalla in farfalla e crea poesia da ogni viva forza. Perché la leggerezza, come la rugiada, vince il metallo, lei vergine del tempo, lei che insegna alle bestie a suonare il flauto.

… Ti hanno buttato fuori dal campo. La tua ombra, però, non ti ha seguito né tradito, si è pietrificata e inchiodata laggiù, poi si è trasformata in una pianta di sesamo: verde di giorno, blu di notte. È cresciuta fino a diventare alta come un salice, verde di giorno, blu di notte.

Nonostante tu sia lontano sarai vicino/nonostante ti abbiano ammazzato vivrai/non credere di essere morto laggiù/sei vivo qui./Solo la metafora a comprovarlo,/la metafora che ha insegnato il gioco delle parole alle creature/la metafora che ha reso l’ombra geografia/la metafora che raccoglierà te e il tuo nome./…Scrivi tu stesso la storia del tuo cuore/da quando Adamo si è innamorato/fino a quando il tuo popolo è risorto./… Alzati affinché ti porti/avvicinati affinché ti riconosca/allontanati affinché ti riconosca.

L’esilio

p.334-336 …L’esilio non è un viaggio, un andare e tornare, né un soggiornare nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia.

…In esilio ti scegli uno spazio per domare l’abitudine, uno spazio personale per il tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola possiamo dire: qui abbiamo una strada

Page 25: Fascicolo Darwish

25

laterale/un fornaio/una lavanderia/una tabaccheria/un angolino/un odore che ricorda…

…L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto al test della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è l’accordo dei simili. Non tutto ciò che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie.

Le città sono odori: San Giovanni d’Acri è l’odore di iodio e spezie, Haifa, l’odore di pini e lenzuola sgualcite. Mosca, l’odore di vodka con ghiaccio. Il Cairo, l’odore di mango e zenzero. Beirut, l’odore di sole, mare, fumo e limone. Parigi, l’odore di pane fresco, formaggi e prodotti di seduzione. Damasco, l’odore di gelsomino e frutta secca. Tunisi, l’odore di muschio notturno e sale. Rabat, l’odore d’hennè, incenso e miele…

Gli esili hanno un odore condiviso: odore di nostalgia per qualcos’altro, odore che ne rievoca un altro. L’odore del luogo d’origine. L’odore è memoria e tramonto.

(p.336) Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono una patria.

La nostalgia

p.355 La nostalgia è l’ospite della sera che arriva quando cerchi le tue tracce in quel che ti circonda e non le trovi, quando un passerotto si posa sul balcone e ti sembra un messaggio inviato da un paese che, quando ci abitavi, non amavi come lo ami adesso che è dentro di te. Prima era aria, terra e acqua, ora è poesia. La nostalgia è il lamento del diritto incapace di dimostrare la forza del diritto davanti al diritto della forza.

356…La nostalgia è il dolore che non ha nostalgia del dolore. E’ il dolore provocato dall’aria pura che viene dall’alto di un monte lontano, il dolore della ricerca di una gioia passata.

Però è un dolore di quelli sani, perché ci ricorda che siamo malati di speranza e inguaribilmente sentimentali.

L’amore

p.357 L’amore è un cammino battuto come il significato, ma impervio come la poesia. Richiede talento, tenacia e foggia valente perché ha molti gradi. Non basta amare, quella è una delle magie della natura simile al cadere della pioggia o all’abbaglio del lampo. L’amore ti porta su un’altra orbita e poi te la devi sbrigare da solo. Non basta amare, devi sapere come amare. Hai imparato come?

Page 26: Fascicolo Darwish

26

p.360 …Tu sei quello che conosce l’amore solo quando ama e non si chiede cos’è né lo cerca. Una volta una donna ti ha chiesto se amavi l’amore in sé e per sé, hai glissato e te la sei cavata rispondendo: “Amo te”. “Non ami l’amore?” ha insistito. E tu: -Ti amo per quello che sei-. Ti ha lasciato, non eri affidabile quando lei non c’era. L’amore non è un’idea. È un sentimento che riscalda e raffredda, che viene e va. Un sentimento che prende forma e corpo, che ha cinque sensi e più sensi. Talvolta ci appare in forma d’angelo, dalle ali lievi, capace di sollevarsi in aria. Talvolta ci travolge in forma di toro: ci scaraventa a terra e se ne va. Alcune volte si abbatte in forma di tempesta che riconosciamo soltanto poi, dagli effetti devastanti che si lascia alle spalle. Altre volte ancora scende su di noi in forma di rugiada notturna, quando una mano magica punge una nuvola vagabonda.

La frutta come un’allegoria cerebrale

p.364 …La mela è forma da mordere, senza la punizione della conoscenza. La pera è un seno di perfetta proporzione, né più né meno di un palmo di mano. L’uva è il richiamo dello zucchero: spremimi in bocca o nei tini. L’albicocca è il ritorno della nostalgia alla sua pallida origine. L’arancia è un’idea che illumina, nella notte, e può essere mangiata sempre. Il fico è un paio di labbra che si schiudono con due dita per ricevere erotico significato in un colpo solo. Il fico d’India è la vergine che difende il suo tesoro. La ciliegia è accorciare la distanza tra il desiderio degli occhi e la fregola delle labbra. La mela cotogna è la femmina che litiga per il maschio, lasciando al deluso un groppo in gola. Il mango è la bava che cola per visibile piacere. La fragola è un insieme di acini di colore, né rossi né altro, che rinvia allo scandalo della similitudine. Il gelso, color zucchero o nero, è il ricordo del primo bacio. Il melograno è il rubino celato nell’allusione.

In viaggio da Ramallah a Gerico.

Il papavero e l’erba.

p.371 …La vita è arrivata qui in fuga dal Mar Morto? Eppure, dalla desolazione del luogo, ecco spuntare papaveri, ecco le loro piccole corolle affacciarsi dalle rocce grigie e nere. Bastano un po’ di pioggerellina e di luce, a che la vita prevalga sul nulla. Bastano un po’ di speranza e di tempo, a che tu attraversi le diramazioni del mito risparmiato dai destini dei tuoi avi. Prendi in prestito la saggezza dai papaveri e di’: “Non ho niente a che fare con il nulla, sebbene sia circondato dalla morte”.

E se ti chiedono della forza della poesia rispondi: - l’erba non è così fragile come pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra, non si spezza più. Nell’erba spuntata dalla roccia c’è il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di trombe. L’erba è profezia spontanea, senz’altro profeta che il proprio colore opposto a quello della terra arida. L’erba è la salvezza del viaggiatore scampato alla bruttura del paesaggio e

Page 27: Fascicolo Darwish

27

a un esercito che preclude la strada al possibile. E’ l’avvicinarsi della lingua al significato e il connubio del significato con l’ospitalità della speranza -. E se ti chiedono della lotta tra poesia e morte, guarda l’erba e di’ quello che rasenta la verità: - nessuna poesia sconfigge la morte nell’ora dell’incontro, però può posticiparla per il tempo necessario a saggiare l’utilità del canto fino alla fine di un lungo concerto, dopodiché il cantante cade nelle mani del suo cacciatore ritto dietro la porta. Forse nessuno si accorgerebbe della morte del cantante, se la canzone diventasse collettiva e i compagni di veglia continuassero il canto. E in quel posticipo, immaginando che la morte si sia addormentata, i nuovi cantanti si sveglieranno senza badarle, affacciandosi su papaveri che danno loro il benvenuto, come gli incipit cananei lasciati incompiuti dai pastori di gazzelle, occupati a dare la caccia ai lupi e sciacalli. …

p.371 …All’improvviso, una pioggia leggera bagna la tua anima, bagna le farfalle. Luce, pioggerella, farfalle che svolazzano radenti alla litoranea. Le farfalle, pensieri sparsi, sensazioni che volano nell’aria.

A cura di Elvira Paietta, Gianna Maestrelli, Isabella Donati, Rossella Fortini Englaro, Urbano Cipriani.

Page 28: Fascicolo Darwish

28

DANTE E DARWISH LA PERLA E L’OSTRICA

La Perla è un prodotto del dolore, risultato dell'entrata di una sostanza estranea o indesiderabile nell'interno dell'ostrica, come un parassita o un granello di sabbia. Un'ostrica che non è mai stata ferita, in un modo o in un altro, non produce perle, perché le perle sono ferite cicatrizzate.

O vos omnes qui transitis per viam attendite et videte si est dolor vester sicut dolor meus. (Bibbia, Geremia,I,12 )

Page 29: Fascicolo Darwish

29

O voi che per la via d'Amore passate attendete e guardate s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave. (Dante, Vita Nova, VII, 3-6) Ahi dal dolor comincia e nasce l'italo canto. (Leopardi: ad Angelo Mai) La mia letteratura corrisponde a un preciso momento storico: Il poeta in fin dei conti cerca di umanizzare la storia e fa emergere la bellezza come risposta alla crudeltà dei nostri tempi. Io sono orgoglioso di essere palestinese, ma auspico che l’occupazione non sia condizione necessaria per diventare poeta. (Darwish – Intervista fatta a Firenze nel 2005) Sono tutti e due poeti dell’esilio e della sconfitta; Tutti e due hanno fatto esperienze di governo; Tutti e due hanno trovato nella poesia la fuoriuscita dalla banalità del male presente intorno a loro.

LA TRILOGIA PALESTINESE E LA DIVINA COMMEDIA A CONFRONTO: L’Inferno e il Purgatorio di Dante li apparento al “Diario di ordinaria tristezza” e “Memoria per l’oblio” di Darwish;; il Paradiso ci fa vedere Dante che si distacca dall’”aiuola che ci fa tanto feroci” volando in cielo con Beatrice-teologia;; “In presenza d’assenza” Darwis supera le barriere della morte con la poesia che “vince di mille secoli il silenzio”, per dirla con Ugo Foscolo. Dante è la farfalla che vola via libera:

Non v’accorgete voi che noi siam vermi

Nati a formar l’angelica farfalla

che vola alla giustizia sanza schermi?

(Purgatorio, X, 24-27)

Darwish esce da se stesso, finalmente libero, verso una seconda vita:

Lascia che ti guardi, ora che ti sei staccato da me, indenne come pura prosa su di una pietra che si tinge di verde o di giallo in tua assenza, lascia che ti guardi, ora che mi sono staccato da te. Lascia che raccolga te il tuo nome come fanno i passanti con le olive dimenticate, nascoste tra i sassolini. Andiamocene insieme, tu e io, in due direzioni diverse: tu verso una seconda vita, promessa dalla lingua, in un lettore che forse sopravvivrà all’impatto di una cometa con la terra;; io, verso un appuntamento

Page 30: Fascicolo Darwish

30

più volte posticipato con la morte a cui, in una poesia, ho promesso un calice di vino rosso. (Trilogia palestinese, p. 287)

Dante ci saluta dal cielo, finalmente libero:

O insensata cura de’ mortali,

quanto son difettivi silogismi

quei che ti fanno in basso batter l’ali!

Chi dietro a iura, e chi ad amforismi

sen giva, e chi seguendo sacerdozio,

e chi regnar per forza o per sofismi,

e chi rubare, e chi civil negozio,

chi nel diletto de la carne involto

s’affaticava e chi si dava a l’ozio,

quando, da tutte queste cose sciolto,

con Beatrice m’era suso in cielo

cotanto gloriosamente accolto.

(Paradiso, XI, 1-12)

Darwish: Voglio cantare e poi andar via.

Voglio cantare. Sì, esatto voglio cantare questo giorno bruciato. Voglio cantare. Trovare le parole che muteranno la lingua in acciaio dell’anima, una lingua che sappia battere questi aerei, questi insetti d’argento scintillante. Voglio cantare. Inventare una lingua che mi sostenga, che sosterrò, la lingua che mi dia prova e a cui darò prova della forza che ci abita, una forza capace di trionfare sulla solitudine universale. Voglio cantare e poi andare via. (Trilogia p. 179)

Dante contempla il mondo dalla costellazione dei Gemelli (La sua):

Col viso ritornai per tutte quante

Le sette spere, e vidi questo globo

Tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;;

e quel consiglio per migliore approbo

Page 31: Fascicolo Darwish

31

che l’ha per meno;; e chi ad altro pensa

chiamar si puote veramente probo …

E tutti e sette mi si dimostraro

Quanto son grandi e quanto son veloci

E come sono in distante riparo.

L’aiuola che ci fa tanto feroci,

volgendom ’io con li eterni Gemelli,

tutta m’apparve da’ colli alle foci;;

poscia rivolsi gli occhi a li occhi belli.

(Paradiso, XXII, 133 sgg)

Darwish, più modestamente ma non meno acutamente, guarda i passanti dalla finestra:

Fa’ quel che devi: difendi il diritto della finestra di guardare i passanti. Non schernirti se non sei capace di addurre prove: l’aria è l’aria, non ha bisogno di certificato del sangue. Non abbandonarti al rimpianto. Non rimpiangere quel che hai perso quando ti sei assopito annotando i nomi degli invasori nel libro di sabbia. La formica racconta, la pioggia cancella. Quando ti svegli non rimpiangere di aver sognato. (Trilogia, p.289)

Dante rifiorisce come una pianta tramite la poesia: Trasumanar significar per verba Non si potria… Io ritornai da la santissima onda rifatto sì come piante novelle rinovellate di novella fronda, puro e disposto a salire alle stelle.

(Purg. XXXIII, 136-144)

Darwish: La poesia fa spuntare l’erba dalla roccia:

“l’erba non è così fragile come pensiamo. Da quando ha nascosto la sua ombra modesta nel segreto della terra, non si spezza più. Nell’erba spuntata dalla roccia c’è il prodigio della parola rivelata dal mistero divino, senza clamore né squilli di trombe. L’erba è profezia spontanea, senz’altro profeta che il proprio colore opposto

Page 32: Fascicolo Darwish

32

a quello della terra arida. L’erba è fluente poesia di intuizione, semplicemente inafferrabile e inafferrabilmente semplice. È l’avvicinarsi della lingua al significato e il connubio del significato con l’ospitalità della speranza”. ( Trilogia, p.372)

Dante: La poesia mi riporterà in patria:

Se mai continga che il poema sacro

vinca la crudeltà che fuor mi serra

del bell’ovile ov’io dormì’ agnello,

nimico ai lupi che mi danno guerra,

con altra voce ormai, con altro vello

ritornerò poeta, e in sul fonte

del mio battesmo prenderò il cappello.

(Paradiso 25,1-19 )

Darwish: Le parole valgono una patria

In questo tramonto soltanto le parole sono qualificate a riparare il tempo e il luogo spezzati e a nominare dei che ti hanno trascurato e si sono gettati nelle proprie guerre con armi primitive. Le parole sono le materie prime per costruire una casa. Le parole sono una patria.

(Trilogia, pag. 336)

Dante ha problemi con i compagni di sventura:

“Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e il salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,

sarà la compagnia malvagia e scempia

con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia

si farà contr'a te; ma, poco appresso,

Page 33: Fascicolo Darwish

33

ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.

Di sua bestialitate il suo processo

farà la prova” …ma, poco appresso,

ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.”

(Paradiso XVII, 58-66)

Darwish: “Quante incongruenze tra noi palestinesi”

“quante incongruenze,” ho esclamato, “tra noi palestinesi. Ci sono interi uffici con tanto di aria condizionata e saloni di rappresentanza che servono solo a diffondere calunnie maldicenze. Quel gruppuscolo si è specializzato nel commercio di martiri: ‘ce ne servirebbero altri 20 per portarci al livello’. E così si è combattuto per accaparrarsi un martire di cui non si conosceva l’affiliazione. Si è messo a morte un combattente perché ha rifiutato di sparare a un amico che militava in un’altra organizzazione. Si è buttato il suo cadavere in un pozzo abbandonato e li è rimasto finché una veggente non l’ha ritrovato”. (Trilogia, p.197)

Il materiale di cui si compongono le opere di Dante e Darwish comprende tutto lo scibile a loro contemporaneo, impastato con le loro esperienze di vita:

Nel “ poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra” trovi l’impegno politico di Dante, l’esilio, i classici latini (Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, Orazio, Cicerone…), I padre della chiesa, la bibbia, la letteratura romanza, la filosofia e letteratura araba.

Nella Trilogia palestinese Darwish inserisce le vicende della patria e della famiglia, la Bibbia, il Vangelo, la Thora, il Corano, i filosofi e saggi arabi:Abd Allah ibn Salam, Ka’ab, Dahhak, Mujahid, Akrama. Al-Sirri, Abi Salik e Abu Malik, Murra al-Hamadhani, Ibn Mas’ud, Ibn al-Athir …

Vedi a p. 186, in Matteo XIII Gesù che, cedendo alle insistenze di una madre, le guarisce la figlia ( leggi: Palestina), vedi a p. 200 Begin marchiato da terrorista crudele come il Giosuè biblico ( Bibbia, libro di Giosuè, VI, 6-26).

Vedi a p. 173-74 la sura del Calamo dove si evidenziano i vaneggiamenti pseudo religiosi dei cosiddetti saggi.

IL TEMA DELL’ESILIO Dante affronta così l’esilio:

E io, che ascolto nel parlar divino

Consolarsi e dolersi

Così alti dispersi,

Page 34: Fascicolo Darwish

34

I'essilio che m'è dato, onor mi tegno.

(mi ritengo onorato di soffrire l’esilio

visto che così nobili esiliati soffrono

e si consolano col loro parlare divino.)

(Dante, la canzone dell'esilio )

E ancora:

…lungi da un uomo che predica la giustizia il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il suo denaro ai persecutori come a benefattori.

Non è questa la via del ritorno in patria; ché se non si entra Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai.

E che mai? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? Forse che non potrò meditare dolcissime verità dovunque sotto il cielo, se prima non mi riconsegni alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà. (Dante, lettera all’amico fiorentino, 1215)

Darwish affronta l’esilio, lo sfida e lo elogia:

l’esilio non è un viaggio, un andare e tornare, né un soggiornare nella nostalgia. Forse è visita, attesa degli effetti del tempo, uscita da se stessi incontro agli altri per fare conoscenza e stare in armonia o per tornare nella propria conchiglia. …In esilio ti scegli uno spazio per domare l’abitudine, uno spazio personale per il tuo diario e scrivi: il luogo non è trappola, possiamo dire: qui abbiamo una strada laterale/un fornaio/una lavanderia/una tabaccheria/un angolino, un odore che ricorda…

L’esilio è un ponte tra le immagini per attraversare la fragilità, è il narciso sottoposto al testo della superbia e della modestia al contempo, è la disputa dei diversi, è l’accordo dei simili. Non tutto ciò che qui ti rifiuta, laggiù ti accoglie. Non tutto ciò che somiglia al laggiù, qui chi accoglie. E non dimenticare di ringraziare l’esilio con magnanimità: “ti elogerò, esilio, degno di elogio, laggiù, sotto un fico che mi darà ospitalità, presso la casa di mia madre, come un passante in un autunno passeggero”.(Darwish, Trilogia, p.334).

Post scriptum: Concludiamo con le seguenti parole di Dante che dedichiamo ai palestinesi figli della Nakba, esiliati in patria e dispersi in ogni parte del pianeta Terra:

“Soffro per tutti coloro che soffrono, ma maggior pietà provo per coloro che visitano la loro patria soltanto in sogno”. (Dante, De Vulgari Eloquentia, II,6)

Firenze, BibliotecaNova dell’Isolotto, 12 marzo 2015 Urbano Cipriani

Page 35: Fascicolo Darwish

35