epic uro

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Epicuro Lettera a Meneceo L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo è mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l'età per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, è come se dicesse che non è ancora giunta, o è già passata, I'età per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perché invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perché, pur restando giovane d'età, sia maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ciò che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo. Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di esse, perché sono i princìpi necessari fondamentali per una vita felice. Per prima cosa tu devi considerare la divinità come un essere indistruttibile e felice, così come comunemente gli uomini pensano degli dèi; non attribuire quindi nulla alla divinità che contrasti con la sua immortalità e la sua beatitudine, e ritieni vero invece tutto ciò che ben si accorda con la sua felice immortalità. Gli dèi infatti esistono, ed è del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli dèi caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli dèi in cui credono gli uomini, non è quindi empietà. Empietà è piuttosto attribuire agli dèi le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perché non sono idee corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli dèi l'uomo trae i più gravi danni e vantaggi. Infatti gli dèi, che di continuo sono dediti alle loro virtù, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ciò che non è simile ad essi. Abìtuati a pensare che per noi uomini la morte è nulla, perché ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte è assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte è niente per noi rende felice la vita mortale, non perché questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perché toglie il desiderio dell'immortalità. Infatti non c'è nulla da temere nella vita se si

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Epicuro Lettera a Meneceo

L'uomo cominci da giovane a far filosofia e da vecchio non sia mai stanco di filosofare. Per la buona salute dell'animo, infatti, nessun uomo mai troppo giovane o troppo vecchio. Chi dice che il giovane non ha ancora l'et per far filosofia, e che il vecchio l'ha ormai passata, come se dicesse che non ancora giunta, o gi passata, I'et per essere felici. Quindi sia l'uomo giovane che il vecchio devono far filosofia: il vecchio perch invecchiando rimanga giovane per i bei ricordi del passato; il giovane perch, pur restando giovane d'et, sia maturo per affrontare con coraggio l'avvenire. E' bene riflettere sulle cose che possono farci felici: infatti, se siamo felici abbiamo tutto ci che occorre; se non lo siamo, facciamo di tutto per esserlo. Metti in pratica le cose che ti ho sempre raccomandato e rifletti su di esse, perch sono i princpi necessari fondamentali per una vita felice. Per prima cosa tu devi considerare la divinit come un essere indistruttibile e felice, cos come comunemente gli uomini pensano degli di; non attribuire quindi nulla alla divinit che contrasti con la sua immortalit e la sua beatitudine, e ritieni vero invece tutto ci che ben si accorda con la sua felice immortalit. Gli di infatti esistono, ed del tutto evidente la conoscenza che ne abbiamo; ma gli uomini attribuiscono agli di caratteristiche contrarie alla stessa idea che se ne fanno. Negare gli di in cui credono gli uomini, non quindi empiet. Empiet piuttosto attribuire agli di le idee che gli uomini comunemente se ne fanno, perch non sono idee corrette, ma gravi errori. Dall'idea che si fa degli di l'uomo trae i pi gravi danni e vantaggi. Infatti gli di, che di continuo sono dediti alle loro virt, accolgono i loro simili, mentre considerano estraneo tutto ci che non simile ad essi. Abtuati a pensare che per noi uomini la morte nulla, perch ogni bene e ogni male consiste nella sensazione, e la morte assenza di sensazioni. Quindi il capir bene che la morte niente per noi rende felice la vita mortale, non perch questo aggiunga infinito tempo alla vita, ma perch toglie il desiderio dell'immortalit. Infatti non c' nulla da temere nella vita se si veramente convinti che non c' niente da temere nel non vivere pi. Ed sciocco anche temere la morte perch doloroso attenderla, anche se poi non porta dolore. La morte infatti quando sar presente non ci dar dolore, ed quindi sciocco lasciare che la morte ci porti dolore mentre l'attendiamo. Quindi il pi temibile dei mali, la morte, non nulla per noi, perch quando ci siamo noi non c' la morte, quando c' la morte non ci siamo pi noi. La morte quindi nulla, per i vivi come per i morti: perch per i vivi essa non c' ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci. La maggior parte delle persone, per, fuggono la morte considerandola come il pi grande dei mali, oppure la cercano come una liberazione dai mali della vita. Il saggio invece non rifiuta la vita e non ha paura della morte, perch non contro la vita ed allo stesso tempo non considera un male il non vivere pi. Il saggio, cos come non cerca i cibi pi abbondanti, ma i migliori, cos non cerca il tempo pi lungo, ma cerca di godere del tempo che ha. da stolti esortare i giovani a vivere bene ed i vecchi a morire bene, perch nella vita stessa c' del piacere, ed la stessa cosa l'arte di vivere bene e di morire bene. Certo, peggio chi dice: bello non esser mai nati "ma, se si nati, bello passare al pi presto le soglie dell'Ade". Se chi dice queste cose ne convinto, perch non abbandona la vita'? in suo potere farlo, se questa la sua opinione e parla seriamente. Se invece scherza, parla da stolto su cose su cui non c' proprio da scherzare. Dobbiamo inoltre ricordarci che il futuro non interamente nelle nostre mani, ma in qualche modo lo , anche se in parte. Quindi non dobbiamo aspettarci che si avveri del tutto, ma non dobbiamo neppure disperare che esso non si avveri affatto. Dobbiamo poi pensare che alcuni dei nostri desideri sono naturali, altri vani. E di quelli naturali alcuni sono necessari, altri non lo sono. E di quelli naturali e necessari, alcuni sono necessari per essere felici, altri per la buona salute del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza dei desideri naturali necessari guida le scelte della nostra vita al fine della buona salute del corpo e della tranquillit dell'animo, perch queste cose sono necessarie per vivere una vita felice. Infatti noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l'animo turbato. Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placher, perch il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, n ha altro da cercare perch sia completo il bene dell'anima e del corpo. Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perch esso non c'. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere. Per questo motivo noi diciamo che il piacere il principio ed il fine di una vita felice. Noi sappiamo che esso il bene primo, connaturato con noi stessi, e da esso prende l'avvio ogni nostra scelta e in base ad esso giudichiamo ogni bene, ponendo come norma le nostre affezioni. Ma proprio perch esso il bene primo ed a noi connaturato, noi non ci lasciamo attrarre da tutti i piaceri; al contrario, ne allontaniamo molti da noi quando da essi seguano dei fastidi pi grandi del piacere stesso. Allo stesso modo consideriamo molti dolori preferibili ai piaceri quando la scelta di sopportare il dolore porta con s come conseguenza dei piaceri maggiori. Tutti i piaceri quindi che per loro natura sono a noi congeniali sono certamente un bene; tuttavia non dobbiamo accettarli tutti. Allo stesso modo tutti i dolori sono un male, ma non dobbiamo cercare di sfuggire a tutti loro. Queste scelte vanno fatte in base al calcolo ed alla valutazione degli utili. Per esperienza sappiamo infatti che a volte il bene per noi un male ed al contrario il male un bene. Consideriamo un grande bene l'indipendenza dai desideri non perch sia necessario avere sempre soltanto poco, ma perch se non abbiamo molto sappiamo accontentarci del poco. Siamo profondamente convinti che gode dell'abbondanza con maggiore dolcezza chi meno ha bisogno di essa e che tutto ci che la natura richiede lo si pu ottenere facilmente, mentre ci che vano difficile da ottenere. Infatti, in quanto entrambi eliminano il dolore della fame, un cibo frugale o un pasto sontuoso danno un piacere eguale, e pane e acqua danno il piacere pi pieno quando saziano chi ha fame. L'abituarsi ai cibi semplici ed ai pasti frugali da un lato un bene per la salute, dall'altro rende l'uomo attento alle autentiche esigenze della vita; e cos quando di tanto in tanto ci capita di trovarci nell'abbondanza, sappiamo valutarla nel suo giusto valore e sappiamo essere forti nei confronti della fortuna. Quando dunque diciamo che il piacere il bene completo e perfetto, non ci riferiamo affatto ai piaceri dei dissoluti, come credono alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male la nostra dottrina; il piacere per noi invece non avere dolore nel corpo n turbamento nell'anima. Infatti non danno una vita felice n i banchetti n le feste continue, n il godersi fanciulli e donne, n il godere di una lauta mensa. La vita felice invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi turbamenti dell'animo. La prudenza il massimo bene ed il principio di tutte queste cose. Per questo motivo la prudenza anche pi apprezzabile della filosofia stessa, e da essa vengono tutte le altre virt. Essa insegna che non ci pu essere vita felice se non anche saggia, bella e giusta; e non v' vita saggia, bella e giusta che non sia anche felice. Le virt sono infatti connaturate ad una vita felice, e questa inseparabile dalle virt. E adesso dimmi: pensi davvero che ci sia qualcuno migliore dell'uomo che ha opinioni corrette sugli di, che pienamente padrone di s riguardo alla morte, che sa sino in fondo che cosa sia il bene per l'uomo secondo la sua natura e sa con chiarezza che i beni che ci sono necessari sono pochi e possiamo ottenerli con facilit, e che i mali non sono senza limiti, ma brevi nel tempo oppure poco intensi? Un uomo cos ha imparato a sorridere di quel potere - il fato - che per alcuni il sovrano assoluto di tutto: di fatto ci che accade pu essere spiegato non soltanto attraverso la necessit, ma anche attraverso il caso o in quanto frutto di nostre decisioni per le quali possiamo essere criticati o lodati. Quanto al fato, di cui parlano i fisici, era meglio credere ai miti sugli di che essere schiavi di esso: i miti infatti permettevano agli uomini di sperare di placare gli di per mezzo degli onori, il fato invece ha un'implacabile necessit. E riguardo alla fortuna non bisogna credere n che sia una divinit, come fanno molti - gli di infatti non fanno nulla che sia privo di ordine ed armonia - n che sia un principio causale; non bisogna neppure credere che essa dia agli uomini beni e mali che determinano una vita felice; da essa infatti provengono solo i princpi di grandi beni e di grandi mali. E' meglio quindi essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati, perch preferibile che nelle nostre azioni una saggia decisione non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione poco saggia sia coronata dalla fortuna. Medita giorno e notte tutte queste cose, e ci che connesso con esse, sia in te stesso che con chi ti simile: cos mai, sia da sveglio che nel sonno, avrai l'animo turbato, ma vivrai invece come un dio fra gli uomini. L'uomo infatti che vive tra beni immortali non in niente simile ad un mortale.

Il Giardino dei Pensieri - Studi di storia della FilosofiaFebbraio 2002Elio RindoneLa felicit nel pensiero antico [1]

I Greci, scrive un noto studioso del pensiero antico, "si trovano alle sorgenti stesse della civilt occidentale. Hanno posto le basi della scienza, della filosofia e dellarte e hanno segnato a tutta la vita spirituale dellet moderna la direzione che lunica in cui essa possa muoversi e progredire"(M. POHLENZ, Luomo greco, Firenze 1989, pp. 868-869). Se opinabile che la direzione indicata dai Greci sia lunica in cui possa muoversi la civilt contemporanea, mi pare, per, che si possa almeno affermare con certezza che le scelte e gli orientamenti della nostra societ risultano semplicemente incomprensibili per chi ignora le prospettive elaborate nellantica Grecia, delle quali siamo eredi anche quando le contestiamo radicalmente. Ecco perch chi voglia riflettere oggi su cosa possa significare per luomo la parola felicit credo che debba ancora prendere le mosse da quella cultura che effettivamente allorigine della nostra civilt.Le origini In che cosa consiste la felicitNellesperienza dei Greci lidea di felicit collegata allo stato psichico conseguente a una sensazione di pienezza, di appagamento delle proprie aspirazioni, di espansione del proprio essere che in qualche modo giunge a compimento. La felicit, infatti, chiamata dai Greci macara, termine collegato alla radice di mgas (ampio, esteso). Questo termine, comunemente tradotto in italiano con beatitudine, usato prevalentemente per indicare la vita piena e indefettibile degli dei, mentre luomo sembra capace di sperimentare in maniera solo transitoria tale pienezza.Che cosa d questo senso di pienezzaTale sensazione di pienezza si sperimenta in momenti particolarmente significativi, come quando si in pace con se stessi, si guarda la persona amata o si avverte unirripetibile armonia col mondo circostante e divino: allora ci si sente felici, ci sembra che tutti i nostri desideri siano soddisfatti. Gi i Greci hanno osservato che anche il ricordo di questi momenti d felicit, meno intensa ma forse pi durevole. Pur se sperimentata nellattimo, essi hanno sottolineato che la felicit appaga tuttavia interamente, perch ha il potere di sospendere il tempo, di dilatare lattimo in una durata avvertita come eterna.La felicit umana: unesperienza di cui non siamo padroniLattimo tuttavia svanisce e la vita riprende il suo corso, spesso noioso o addirittura doloroso. La condizione umana appare dunque instabile e incerta: non riusciamo a padroneggiarla. I momenti belli sono sentiti perci come un dono e infatti il termine pi frequentemente usato dai Greci per designare la felicit, eudaimona, indica proprio la vita buona assegnata alluomo da un demone. Parimenti il termine eutucha pone laccento sul fatto che felici sono quelli nei cui confronti la sorte si mostrata favorevole. E, al contrario, non chiamiamo ancora oggi sventurati gli infelici? Non appaiono immeritate e prodotte dalla cattiva sorte le sofferenze di chi vittima di malattie particolarmente dolorose, viene torturato o rinchiuso in un lager?Come conquistare la felicitE naturale perci che luomo cerchi di controllare il corso degli eventi, per sperimentare stabilmente quella felicit che di solito gusta solo fugacemente. La felicit, da esperienza, diventa allora problema: ci si sforza di capire cosa possibile fare non per godere di attimi di straordinaria pienezza ma per avere una vita piena, felice. La filosofia sin dallinizio si proposta proprio questo scopo. Agostino riecheggiava una lunga tradizione quando scriveva: "nulla est homini causa philosophandi nisi ut beatus sit"(De civitate Dei XIX, 1.3).La vera felicitE sin dallinizio si imposta questa conclusione: luomo pu sperimentare una felicit durevole solo se appaga i suoi desideri in maniera durevole, cio se possiede un bene stabile. I filosofi, quindi, cominciano a distinguere la vera felicit, dipendente dal possesso del vero bene, da quella apparente, momentanea. La felicit vera non pu consistere negli stati danimo, negli istanti di particolare pienezza, nellesperienza dei piaceri pi intensi, generalmente legati alla sensibilit, di per s tanto instabile: essa non si identifica con limmediatezza del godimento ma un obiettivo strategico, da perseguire con saggezza e costanza.La felicit non il piacereAllopinione dei poeti e del senso comune, che identifica la felicit con i piaceri, e in particolare con quelli sessuali [vedi per es. Mimnermo (fiorito intorno al 585): "Vita gioia che sono senza laurea Afrodite? Meglio la morte, quando non pi caro mi sia lamore occulto, i doni delicati, il letto"(fr. 1)], Socrate (469-399), che pure non nutre alcuna diffidenza nei confronti del piacere, obietta che felice solo la vita di chi conosce i propri desideri e sa agire per appagarli. La felicit, quindi, pi che con limmediatezza del godimento, si identifica con il sapere, che permette di discernere ci che effettivamente ci appaga, e con lagire di conseguenza. Una vita che non sia fatta oggetto di riflessione per Socrate indegna di esseri umani: "proprio questo per luomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virt [] e far ricerche su me stesso e sugli altri: una vita senza ricerca non degna di essere vissuta"(Platone, Apologia di Socrate 38a).Platone (427-347) Lantropologia platonicaMa per sapere che cosa appaga luomo bisogna sapere che cosa luomo. Platone, ispirandosi ai miti orfici, lo identifica con una realt spirituale, lanima, eterogenea rispetto al corpo e che pure si trova a convivere con esso. I desideri del corpo sono quindi ben diversi dai desideri dellanima. Questa, essendo immortale, aspira al Bene in s, immateriale ed eterno, e trova in esso la sua felicit ["le persone felici sono felici perch posseggono il bene"(Simposio 205a)]: vuole, mediante la contemplazione, possederlo per sempre e sente il corpo come un ostacolo alla propria vera realizzazione. Da ci la diffidenza nei confronti dei piaceri sensibili, che sono i pi veementi ed elementari, ma che proprio per questo legano lanima al corpo e le impediscono di elevarsi al mondo spirituale. Il platonismo trova la sua ispirazione profonda proprio nellidea che luomo, nellatto della conoscenza, scopre la sua identit con lanima e la sua estraneit rispetto al corpo: in questa presa di coscienza " contenuta tutta la filosofia di stile platonico e neoplatonico"(P. RICOEUR, Finiture et culpabilit. II. La symbolique du mal, Paris 1960, p 280).La vera felicit nellaldilQueste due affermazioni decisive (luomo spirito e la sua anima immortale) permettono a Platone di relativizzare la drammatica esperienza della sofferenza umana in questo mondo. La vera vita dellanima quella spirituale, lanima che contempla il bene felice, le pene quotidiane non riescono ad angustiarla. Neanche i tormenti pi atroci possono comprometterne la felicit, perch, a differenza dellingiustizia, riguardano il corpo non lanima. Questa anzi vive pienamente quando, con la morte, si libera dalla prigione corporea. La vita terrena non , quindi, che preparazione alla vita dellaldil e la filosofia esercizio di morte. E questa la prospettiva prevalente nel Fedone: "fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ci che ardentemente desideriamo, vale a dire la verit"(66b); " dunque proprio vero [] che i veri filosofi si esercitano a morire, e che la morte, a loro, fa molto meno paura che a qualunque altro uomo!"(67e). Se la vera vita quella dellaldil, si capisce come il platonismo implichi un distacco dal mondo sensibile e dalla storia terrena.Un uomo laceratoMa distacco non significa disimpegno: al contrario, per prepararsi alla vita dellaldil bisogna mettere ordine in questo mondo. E il disordine anzitutto dentro luomo. Infatti lanima non solo eterogenea rispetto al corpo, ma anche lacerata in se stessa, una sua parte essendo allettata dai piaceri sensibili. Lanima dunque una realt complessa, come Platone mostra con unimmagine efficacissima: "foggia ununica forma di bestia mostruosa, a molte teste. [] Foggia poi unaltra forma, di leone, e una terza, di uomo. La prima sia di gran lunga la maggiore e la seconda venga per seconda. [] Applica ora tuttintorno a loro, allesterno, limmagine di un unico essere, quella delluomo. E cos chi non capace di vedere gli elementi interni, ma vede solamente linvolucro, creder di vedere un unico essere, un uomo" (Repubblica IX, 588c-e). Se, per quanto possibile esserlo sulla terra, vuole essere felice, luomo deve dunque mettere ordine dentro di s, cio dominare le proprie passioni, far prevalere luomo interiore sul mostro policefalo, sublimando laggressivit del leone.La felicit implica la dimensione politicaMa non meno essenziale il compito di mettere ordine nel mondo circostante, plasmando la convivenza politica sul modello dello stato ideale. Anzi, luomo non pu essere giusto e felice se lo stato non giusto e felice. Linteresse politico , assieme alla tensione verso il mondo trascendente, una componente fondamentale del platonismo, tanto che luomo ideale il re-filosofo, cio luomo capace di assicurare il dominio della razionalit sulle passioni, di convogliare la passione erotica verso la Bellezza in s, di contemplare il Bene e di governare la citt secondo giustizia: "luomo migliore o pi giusto il pi felice, e questi il pi regale, e re di se stesso"(Rep IX 580c). Platone ritiene che luomo giusto sia felice per tre motivi; anzitutto perch "la giustizia in s il bene supremo per lanima, di per se stessa"(Rep X 612b), e va praticata a qualunque costo, ma poi anche perch la sua vita allietata dal vero piacere, quello della conoscenza: "il filosofo che cosa mai giudica gli altri piaceri [quelli della ricchezza e del successo] confrontati con il piacere di conoscere il vero cos come esso []? Non li giudica assai lontani dal piacere?"(Rep IX 581d-e). Infine, egli immagina nellaldil le anime degli ingiusti punite e quelle dei giusti colmate di felicit: "le prime, gemendo e piangendo, ricordavano tutti i vari patimenti e incubi che avevano sofferto nel loro cammino sotterraneo, mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza"(Rep X 615a).Una visione aristocraticaLideale del filosofo regale non si adatta per, secondo Platone, a tutti gli uomini ma solo a unlite. Se il filosofo deve farsi carico del governo nellinteresse della collettivit, la massa, incapace di elevarsi alla contemplazione e di partecipare alla gestione del potere, ha solo il compito di obbedire. E vero che Platone ha scritto: "noi crediamo di plasmare lo stato felice non rendendo felici nello stato alcuni pochi individui separatamente presi ma linsieme dello stato"(Rep IV 420c); vero che egli ha mostrato una grande apertura sostenendo che lappartenenza alla classe dei governanti, di cui possono addirittura far parte anche le donne, dipende dalle capacit personali e non dalla nascita. Ma innegabile che la vera felicit, quella della contemplazione, riservata alla minoranza dei governanti-filosofi. Una condizione di inferiorit non pu risultare certo gradita ai pi; per farla accettare Platone pensa, perci, che i governanti possano ricorrere anche alla nobile menzogna: "voi cittadini siete tutti fratelli, ma la divinit, mentre vi plasmava, ai governanti mescol delloro, ai guerrieri argento, ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani"(Rep III 415a). In effetti Platone non ha molta stima degli uomini cos come sono: nel Fedone si diverte ad immaginare che gli uomini sensuali assumeranno, reincarnandosi, la forma di asini, i violenti e collerici di lupi, i buoni borghesi di api o formiche(cfr. 81e-82b). Si capisce, quindi, che la massa incapace di usare la ragione debba essere governata anche con linganno: "se c qualcuno che ha diritto di dire il falso, questi sono i governanti, per ingannare nemici o concittadini nellinteresse dello stato"(Rep III 389b).Importanza della tradizione religiosaUtili menzogne e parole incantatrici appaiono mezzi necessari "per far compiere a tutti tutte le cose giuste, non con la forza ma spontaneamente"(Le leggi II 663e). A tal fine ha un valore insostituibile la tradizione religiosa, e perci Platone vorrebbe rafforzare lautorit di Delfi: "le norme che riguardano la religione in tutti gli aspetti si traggano dalloracolo di Delfi e si usino dopo aver disposto degli interpreti ufficiali di queste"(Le leggi VI 759c). Ci non significa che Platone "credesse nella effettiva ispirazione della Pizia; mi sembra che verso Delfi il suo atteggiamento fosse piuttosto quello che certi settori politici del mondo cattolico dei giorni nostri mantengono nei confronti del Vaticano: egli vedeva Delfi come una grande potenza conservatrice, cui doveva essere affidato il compito di stabilizzare la tradizione religiosa greca, tenendo a freno sia il dilagare del materialismo, sia lo sviluppo di deviazioni allinterno della tradizione stessa"(E. R. DODDS, I Greci e lirrazionale, Firenze 1986, p 252, pp. 273-274). Se qualcuno, poi, osa mettere in discussione le verit su cui si fonda lo stato deve essere punito, anche con la morte, da un Consiglio notturno, "dotato della pienezza della virt"(Le leggi XII 962d), cui affidata la custodia dellortodossia e che anticipa i tribunali dellInquisizione e i processi del 900 contro gli intellettuali deviazionisti. Il quadro, per tanti versi esaltante, della felicit del re-filosofo non dunque privo di ombre!Aristotele (384-322) Una diversa prospettivaIl discorso etico di Aristotele ha unimpostazione ben diversa da quella platonica. Non ritroviamo, infatti, alcune delle caratteristiche essenziali del platonismo. 1) Il fine delluomo non il Bene in s, il bene eterno e trascendente ma la realizzazione delluomo e i beni che sono alla sua portata (cfr. Etica nicomachea I, 6, 1096 b 32-35). 2) Lopera fondamentale che affronta il problema morale, lEtica nicomachea, non conosce limmortalit dellanima: su questo tema scende un silenzio totale. 3) Aristotele ignora anche la lacerazione interna alluomo platonico. Nel De anima luomo sar concepito come un essere unitario, lanima essendo la forma del corpo; ma gi prima, nellEtica, i desideri (epithuma) del platonico mostro policefalo, privati della loro valenza negativa, diventano tendenze (rexis) che la ragione pu orientare senza eccessive difficolt (cfr. I, 13, 1102 b 30). 4) Infine Aristotele non nutre per i suoi contemporanei la disistima nutrita da Platone; anzi, il modello di uomo che egli presenta ricalcato sostanzialmente sui comportamenti dei migliori tra gli Ateniesi del suo tempo: egli non ha copiato la realt "ma non lha perduta di vista un momento, e ce ne presenta limmagine ingrandita, abbellita, idealizzata"(L. OLLE-LAPRUNE, Essai sur la morale dAristote, Paris 1881, p 52), "la sua morale , con una purezza ideale, la pratica dei migliori dei suoi contemporanei"(ivi, p 74).Lideale di uomoI membri delle classi dirigenti ateniesi appaiono ad Aristotele animati da un forte sentimento vitale, che li sospinge verso tutto ci che porta il segno dellintelligenza e della bellezza. Non si preoccupano di accumulare ricchezze e tuttavia possiedono abbastanza per vivere agiatamente; disprezzano il lavoro manuale e amano la schol, lotium che consente di dedicarsi alle attivit liberali; sanno assumere responsabilit pubbliche e al contempo godere dellamicizia e dellamore; trovano nella ragione la regola che stabilisce la misura dei piaceri, senza che ci implichi austerit alcuna; sanno gustare la gioia che deriva dalla contemplazione della bellezza e dellarmonia quali si manifestano nei giovani corpi, nelle gare olimpiche, nel grande spettacolo del mondo. Questumanit sembra capace, grazie alla sua intelligenza e al suo impegno, di rendere amabile la vita, riducendone al minimo gli aspetti di dolore e di fallimento. Certo, tali privilegi sono frutto del lavoro e della sofferenza di altri uomini, nei cui confronti questa cerchia ristretta nutre per una suprema indifferenza.La virt come potenziamento delle capacit umaneLAteniese spudaios (perbene, eccellente), pensa Aristotele, sta vivendo bene la sua vita, perch sta cercando di attuare, e nella maniera migliore, le sue potenzialit. Come il bravo flautista quello che sa suonare bene il flauto, cos luomo riuscito quello che sa fare bene il proprio mestiere di uomo. Per far ci, egli deve servirsi della ragione per individuare le proprie virtualit ed agire per realizzarle, regolando la sua vita passionale in modo che nulla resti in lui incompiuto o venga sviluppato in misura sproporzionata (cfr. Etica nicomachea II, 6, 1106 b 18-27). Questa capacit di scegliere e di agire rapportandosi, secondo le proprie esigenze, nel modo pi efficace a ciascun bene ci che Aristotele chiama aret (cfr. Etica nicomachea II, 6, 1106 b 36). Luomo che acquista tale capacit entra in possesso di una seconda natura, un habitus, una disposizione o attitudine interiore (xis), che gli consente di agire nelle diverse circostanze con prontezza e con facilit nel modo pi conveniente, evitando gli errori sia per eccesso che per difetto.Le virt eticheLuomo ideale , dunque, un uomo saggio che, come lartista che conosce i segreti della propria arte, sa fare della propria vita un capolavoro, plasmandola secondo ragione in modo poliedrico ed armonioso, e quindi temperante, perch sa godere dei piaceri, la cui innocenza sempre minacciata, senza lasciarsene dominare, coraggioso, perch, dominando la paura, sa battersi per una degna causa sino a mettere a repentaglio la stessa vita, giusto, perch, geloso dei propri diritti, ugualmente pronto a rispettare quelli altrui, attento al valore dellamicizia, soprattutto quella fondata sulla comunanza degli ideali morali, generoso, magnanimo, mite Una simile vita, che anche piacevole, non essendo il piacere che la risonanza soggettiva che accompagna e perfeziona ogni attuazione delle potenzialit umane (cfr. Etica nicomachea X, 4, 1174 b 31-33), dunque alla portata delluomo che abbia ricevuto una buona educazione e che, grazie a un lungo esercizio, abbia acquistato questa padronanza di s.La felicit si riduce alla virt?Basta allora la virt per essere felici? Certamente no. Aristotele sa che luomo ideale di cui ha parlato ha bisogno per realizzarsi anche di potere e di denaro, di figli e di amici, di un buon casato e di un corpo non privo di bellezza: in conclusione, "sembra che la felicit richieda che si aggiunga alla virt tutto ci che pu rendere la vita serena come una bella giornata"(Etica nicomachea I,9, 1099 b 6-7). Anzi, la felicit esige ancora la durata, perch non pu dirsi certo felice la vita di chi, come Priamo, il leggendario re di Troia, dopo aver goduto di tanti beni, assista poi alla rovina della sua famiglia e alla distruzione della sua citt (cfr. Etica nicomachea I, 11, 1101 a 6-7). Aristotele sembra affermare e negare lautosufficienza della virt, e non pare che sia riuscito a eliminare la contraddizione: "come possibile che la felicit appaia di volta in volta come assolutamente indipendente dai beni esteriori e come incapace di farne a meno? [] i vantaggi esteriori sono lungi dallessere disdegnati, e ci nella stessa pagina in cui sembravano perfettamente dimenticati" (OLLE-LAPRUNE, Essai, p 146).Contraddizioni?E questa forse non lunica contraddizione! LEtica nicomachea ha delineato un ideale di uomo caratterizzato dalle virt etiche, ma alla fine dellopera Aristotele ci riserva una sorpresa: "in tre capitoli del libro X, dal 7 al 9, questa forma di vita viene infatti bruscamente declassata a una condizione subalterna, seconda in virt e felicit rispetto alla straordinaria eccedenza, di natura sovrumana, che spetta a un altro modo di esistenza, quella del filosofo dedito, nella pace della scuola, alla pura teoria: a lui solo spettano la virt perfetta e la felicit pi piena"(M. VEGETTI, Letica degli antichi, Bari 1994, p 202). Il re-filosofo di Platone sembra qui scindersi nelluomo dazione, che conserva tuttavia una certa dignit morale, e nellintellettuale, che solo pu godere della vera felicit, quella pi che umana ("non in quanto uomo egli vivr in tal maniera, bens in quanto in lui c qualcosa di divino") della conoscenza della causa prima dellessere (cfr. Etica nicomachea X, 7, 1177 b 19 1178 a 2). Sembra di risentire Platone, per il quale luomo "che si applicato allo studio della scienza e alla ricerca della verit [] se raggiunge la verit assolutamente necessario che abbia pensieri immortali e divini e [] sia sopra tutti felice"(Timeo 90b-c). Ma il primato della vita contemplativa propria del filosofo giustificabile sulla base delle categorie aristoteliche? Alcuni interpreti (Reale) sostengono la coerenza del discorso aristotelico che sostanzialmente continuerebbe platonicamente a identificare luomo con lanima razionale, altri (Jaeger) parlano di un residuo di platonismo incompatibile con limpianto della Nicomachea, altri (Nuyens) propongono una diversa soluzione.Lantropologia strumentalistaLa superiorit della vita contemplativa non si fonda, secondo questultimo studioso, n sullantropologia ilemorfica, che sar elaborata nel De anima, n sullantropologia platonica, gi abbandonata quando Aristotele scrive la Nicomachea. Essa coerente con unantropologia strumentalista, che ancora non concepisce luomo come un essere unitario ma che gi considera il corpo non pi come una prigione ma come uno strumento di cui lanima razionale si serve per i propri fini. In effetti, nella Nicomachea si dice che "l dove non esiste alcun interesse comune al capo e al subordinato, non c nemmeno tra essi amicizia ma una relazione del genere di quella che esiste tra lartigiano e il suo utensile, tra lanima e il corpo, tra il padrone e lo schiavo"(VIII, 13, 1161 a 32-35). Luomo, quindi, ancora identificato con la sua anima, mentre il corpo non pi visto come un nemico ma come uno strumento utile perch lanima possa conseguire i propri fini. Questa interpretazione permette di sciogliere le due contraddizioni precedentemente rilevate. Si capisce, infatti, perch gi nel primo libro della Nicomachea Aristotele abbia sostenuto che "il bene delluomo sar unattivit dellanima secondo la virt, e, se molteplici sono le virt, secondo la migliore e la pi perfetta"(I, 6, 1098 a 16-17), identificando il bene delluomo con quello dellanima. Essendo la contemplazione filosofica la pi perfetta virt, cio la pi compiuta realizzazione, dellanima razionale, nellultimo libro dellopera egli pu quindi affermare che la contemplazione appunto "sar la felicit perfetta delluomo"(Etica nicomachea X, 7, 1177 b 24). Ma, se luomo unanima che si serve di un corpo, si capisce anche come Aristotele possa parlare, oltre che di beni esteriori, di beni del corpo e di beni dellanima (anzich di beni delluomo, come sarebbe logico per chi di questultimo avesse una visione unitaria), e come possa attribuire una qualche rilevanza a beni quali la ricchezza, la salute, i figli e gli amici ritenendoli strumenti necessari in vista del bene dellanima, che quello che conta veramente.ConseguenzeLidea che lattivit propriamente umana sia essenzialmente quella intellettuale implica conseguenze non indifferenti. Per Aristotele, infatti, il lavoro manuale, non costituendo attivit propriamente umana, compito degli schiavi, incapaci di servirsi della ragione. Naturalmente in questa prospettiva la sfera dei sentimenti non pu trovare adeguata valorizzazione; i piaceri sensibili sono ammessi non in vista dellequilibrio umano ma in vista del bene della ragione, e lintemperanza diventa "il pi biasimevole di tutti i vizi, perch non per ci che fa che siamo uomini che essa si insinua in noi, ma per ci che fa che siamo animali"(Etica nicomachea III, 13, 1118 b 2). Persino le virt etiche sono viste in funzione del bene dellanima razionale: grazie alla saggezza, al coraggio la ragione, infatti, estende la sua influenza e il suo controllo sulle forze arazionali. Anche quando si dona allamico o si sacrifica per lo stato luomo, quindi, cerca sempre il bene della propria anima razionale: innegabilmente un certo egocentrismo "risulta essere la caratteristica di fondo del sistema etico dello Stagirita"(G. REALE, Storia della filosofia antica, vol. II, Milano 1981, p 370).La felicit non per tuttiLetica aristotelica, pur se elaborata in funzione di una concezione inadeguata delluomo quale quella strumentalista, resta certamente uno straordinario tentativo di giungere ad una visione pi equilibrata ed armonica della vita umana, e ancora oggi non manca chi la considera "unetica esclusivamente umana ed insieme integralmente umana, che tiene conto di tutte le dimensioni delluomo ed insieme stabilisce tra esse una precisa gerarchia"(E. BERTI, Profilo di Aristotele, Roma 1979, p 280). In realt, come abbiamo visto, la felicit di Aristotele riguarda soltanto lanima. Non solo: riguarda soltanto lanima di un ristretto numero di privilegiati. Infatti, per dedicarsi alla contemplazione filosofica si richiedono non solo doti intellettuali notevoli ma anche particolari condizioni sociali. Restano, quindi, esclusi dalla possibilit di tendere alla felicit i bambini, le donne, gli schiavi e tutti coloro che lavorano al fine di guadagnare: cio, la maggior parte degli esseri umani. Anche lideale umano proposto da Aristotele, per quanto affascinante, non pare dunque esente da ombre.Lellenismo Stoicismo, Epicureismo, ScetticismoNotevoli sono le trasformazioni (politiche, sociali, culturali, psicologiche) che si verificano nellet ellenistica, ma lintellettualismo resta la caratteristica della morale greca. Gli Stoici, come Zenone (335-263) e Crisippo (281-208), negarono la complessit dellanima umana scoperta da Platone e Aristotele, tornando ad identificarla con la sola ragione, a cui attribuirono una valenza non speculativa ma solo pratica. Di conseguenza, come scrive Seneca (4 a. C.-65 d. C.), dato che luomo"ha per suo proprio bene la ragione, se ha portato questa alla perfezione, ha raggiunto il fine ultimo della sua natura"(Epistola 76, 9). Perci, "il conseguimento della perfezione morale [] dipende unicamente dallesercizio della ragione. E non c anima irrazionale con cui la ragione debba lottare: le cosiddette passioni sono soltanto errori di giudizio o turbamenti morbosi dovuti a errori di giudizio. Se si corregge lerrore, i turbamenti cesseranno automaticamente, lasciando lo spirito sgombro da gioie o dolori, non turbato da speranze o da timori"(DODDS, I Greci, p 282). E questa imperturbabilit lobiettivo da perseguire anche secondo Epicuro (341-270) e Pirrone (360-270): "entrambe le scuole avrebbero voluto bandire le passioni dalla vita umana; ideale comune era lataraxa, la liberazione da emozioni perturbatrici, cui si poteva giungere secondo gli uni professando rette opinioni sugli uomini e sugli dei, secondo gli altri astenendosi da qualunque opinione"(DODDS, I Greci, p 284).Punti di contatto e differenzeSe identico il fine, differenti sono le strategie per raggiungerlo. Per gli Stoici bisogna obbedire alla ragione, compiendo il proprio dovere e liberandosi dalle passioni (aptheia): per la felicit basta la virt ("il saggio non pu perdere nulla; ha depositato ogni cosa in s stesso, non ha affidato nulla alla fortuna: ha tutti i suoi beni al sicuro, giacch gli basta la virt, che non ha bisogno di ci che dipende dal caso"[Seneca, De constantia sapientis 5.4]), anche se di uomini veramente saggi ne appare uno ogni due o tre secoli. Per gli Epicurei bisogna godere della vita, appagando solo i bisogni essenziali (Epicuro meriterebbe una trattazione ben pi ampia di quella consentita dai limiti della presente relazione: la sua costituisce infatti una visione radicalmente alternativa a quella platonica, e perci quasi cancellata dal trionfo di questultima): libero dalla paura degli dei e della morte, luomo guster il piacere, che consiste essenzialmente nellassenza del dolore (apona). Per gli Scettici lindagine critica, la skpsis, libera dalle pretese certezze e dalle spiegazioni definitive: proprio sapere che non ci sono verit assolute, che bene e male sono opinioni senza solido fondamento la condizione per vivere senza timore (cfr Sesto Empirico [150-220 circa], Adversus ethicos 4.113). Comune alle tre scuole, poi, lidea che il saggio sia felice anche in mezzo ai tormenti [poich il dolore intenso non duraturo, per Epicuro "il saggio sar felice anche fra i tormenti"(DIOGENE LAERZIO X, 118)] e che la saggezza sia preclusa alla maggioranza degli uomini: riportando le parole di Epicuro "le masse non trovano di loro gusto quel che io so, e delle cose che le masse apprezzano io non so niente", Seneca aggiungeva: "la stessa cosa ti diranno tutti: Aristotelici e Platonici, Stoici e Cinici"(Epistola 29, 10). N possibile sperare che la situazione possa cambiare: "chi ha visto le cose presenti le ha viste tutte, quelle che accaddero dalleternit e quelle che saranno per leternit"(Marco Aurelio [121-180], Ricordi 6.37).NeoplatonismoMentre le scuole precedenti vogliono riscoprire un orizzonte pre-platonico, con Plotino (205-270) si torna ad una metafisica di impianto platonico. La vera realt lUno divino (concepito come infinita pienezza ontologica, illimitata potenza produttrice) e questo mondo non che manifestazione sempre pi povera di esso, sino alla materia, che addirittura qualcosa di negativo. Luomo composto di un corpo e di unanima tripartita: la parte inferiore legata al corpo e alle sue passioni, quella intermedia costituita dalla razionalit e si identifica con lio cosciente, quella superiore, "il vero uomo"(Enneadi, I 1.10), vive presso lUno. Il compito delluomo razionale, evidentemente, quello di ricongiungersi al vero uomo e quindi allUno. Gi sulla terra, grazie allestasi, luomo pu talvolta sperimentare questa fusione: diventata una sola cosa col dio, lanima torna allora "ad essere quello che era un tempo, quando fu davvero felice"(Enneadi, VI 7.34). Riecheggiando il Fedone, Plotino ripete che le torture pi terribili non possono compromettere la felicit dellanima e che la morte non un male ma "un bene maggiore"(Enneadi, I 7.3), perch libera lanima dal corpo riportandola allUno. Allontanandosi per certi aspetti da Platone, egli rinunzia ad ogni progetto di riforma politica. Al contrario, amico della coppia imperiale (Gallieno [258-268] e Salonina), Plotino, che pure personalmente sensibile alla sofferenza umana, tanto da prendersi cura degli orfani e degli indigenti, polemizza violentemente contro i movimenti religiosi che criticano lingiustizia della societ del tempo: "la ricchezza [di alcuni] la povert [di altri] la conseguente diseguaglianza"(Enneadi, II 9.9) non sono uno scandalo per il saggio, che non vi annette importanza e anzi riconosce nella variegata composizione della polis uno spettacolo da contemplare con ammirazione e una traccia dellordine divino.CostantiIn conclusione, possiamo rilevare alcune costanti della filosofia greca riguardo al tema della felicit. Questa: a) non per tutti; b) attingibile nella misura in cui luomo si identifica con la ragione e ad essa si riduce; c) una conquista delluomo; d) implica, tranne che per gli epicurei, una certa diffidenza nei confronti del piacere sensibile; e) dipende da beni che sono alla portata delluomo nella vita terrena, tranne che nel filone platonico e neoplatonico, che la ripone nellaldil e nel possesso del Bene assoluto e divino.[1]Da quattro anni un gruppo di docenti liceali organizza nel mese di agosto una settimana di vacanze-studio di filosofia. I partecipanti, che nella stragrande maggioranza non sono cultori della materia, si incontrano in una localit, accuratamente scelta per il suo valore naturalistico o artistico, per confrontarsi su un tema filosofico dalle immediate ricadute esistenziali, magari proposto da loro stessi al termine del seminario precedente. Cos le passeggiate nei boschi e le visite turistiche si alternano alle riunioni, due al giorno, in cui a turno i relatori, che sono di solito tre, introducono senza appesantimenti eruditi ma con rigore metodologico largomento, che viene sviluppato e approfondito mediante un dibattito in cui ciascuno pu apportare il contributo della sua riflessione e della sua esperienza. Nel seminario che si tenuto al Passo della Mendola lestate scorsa, e che ha avuto come tema la concezione della felicit in alcuni dei momenti pi significativi della cultura occidentale, stato assegnato a me il compito di tenere tre relazioni su "La felicit nel pensiero antico e medioevale".Ho dedicato la prima relazione ai filosofi greci, soffermandomi soprattutto su Platone e Aristotele anche per linfluenza preponderante che hanno avuto sui pensatori medievali; mi sembrato necessario dedicare la seconda alla Bibbia, da cui non si pu prescindere per studiare il medioevo ma il cui messaggio ho presentato tenendo conto dei risultati dellesegesi contemporanea; nella terza ho cercato di mostrare come, soprattutto ad opera di Agostino e di Tommaso, lidea greca e quella biblica di felicit si siano mescolate dando vita ad una concezione alquanto distante da quelle originarie.Queste relazioni, che mantengono la semplicit e la scorrevolezza della comunicazione orale, vengono ora qui presentate, nella speranza che possano incontrare lo stesso interesse suscitato nei partecipanti al seminario.

Il Giardino dei Pensieri - Studi di storia della FilosofiaOttobre 2002Elio RindoneIl problema del male nel pensiero greco [1]

Esporre in una breve relazione le idee che i Greci hanno elaborato nel corso dei secoli intorno al male, e ai temi ad esso inscindibilmente connessi della libert e della colpa, un compito estremamente arduo. Lunica via che trovo percorribile quella di scegliere alcuni filoni di quella cultura, che tanto ricca e stimolante da essere ancora alla base della nostra civilt, trascurandone altri, che pure sono tuttaltro che privi dinteresse. Ma prima che ai filosofi mi pare necessario dare la parola ai poeti, sia perch il linguaggio simbolico della poesia particolarmente adatto a trattare il nostro tema sia perch dei miti da loro elaborati anche i filosofi si sono nutriti.La poesiaLa sofferenzaLa civilt greca, come le altre grandi civilt, ha avuto coscienza delluniversalit dellesperienza del dolore. Gi Solone (640-560) osserva che "non c uomo felice, sono sciagurati tutti i mortali che contempla il sole"(fr. 15), e circa un secolo dopo Pindaro (518-438) sembra certo che sar sempre cos: "scevro daffanni uomo non v, n vi sar"(Odi Pitiche, V, vv. 64-65) e mette in guardia contro le vane speranze: "c una specie tra gli uomini vana, che spregia ci che ha e scruta lontano, in traccia di fantasie, con speranze inani"(ivi, III, vv. 28-32). La vita delluomo in effetti assediata dalla sofferenza; certo egli non la desidera e anzi cerca di fuggirla, ma non riesce ad evitarla: essa c, e colpisce luomo, a cui non resta che subirla, soffrirla. La parola greca che indica il dolore pathos, che originariamente significa accadimento; ma poich ci che accade, ci che arriva addosso senza essere voluto, ha di norma valenza negativa, il termine ha finito col significare sofferenza, sciagura.Il maleMa perch tante e cos varie disgrazie si abbattono sulluomo? Il dolore non pu non interrogare un essere capace di riflessione: esso fa problema. La sofferenza umana viene quindi percepita dai Greci come manifestazione di una frattura radicale, di una carenza profonda che tocca tutta la realt. Questo mondo, cos ammirevole per la bellezza e lordine che lo caratterizzano, certo ha pure in s qualcosa di negativo: la fragilit, la possibilit di venir meno non gli sono per nulla estranei. La sofferenza che luomo subisce, dunque, espressione di quella originaria e naturale possibilit di venir meno che propria della realt e che per i Greci costituisce il male. Il neutro sostantivato kakn designa, infatti, il male proprio come un andare in rovina, un deteriorarsi che si manifesta come perdita di bont, di ordine e di bellezza.Un mondo ambiguoLa realt, quindi, a un tempo e costitutivamente qualcosa di positivo e di negativo e il linguaggio mitologico della religione olimpica ha espresso questidea vedendo negli dei la causa del bene come del male. Cos, infatti, Omero (VIII secolo) fa dire ad Achille, in versi che sembrano contenere linsegnamento fondamentale del suo primo poema: "Due vasi son piantati, sulla soglia di Zeus, dei doni che d, dei cattivi uno e laltro dei buoni"(Iliade, XXIV, vv. 527-528). Solo la vita degli dei priva di affanni: ad alcuni uomini invece riservata da Zeus una mescolanza di gioie e dolori; ad altri addirittura egli dar solo miseria e afflizione, cos che essi diventeranno oggetto di disprezzo sia per gli dei che per i loro simili (cfr. ivi, vv. 529-533). E Teognide, vissuto tra il VI e il V secolo, ripete: "Nessuno, o Cirno, responsabile della propria rovina o del proprio successo: di ambedue sono datori gli dei"(Silloge teognidea, Libro I, vv. 133-134).La visione tragicaSe la realt custodisce nel suo seno tale radicale ambiguit, se gli dei danno agli uomini, nel migliore dei casi, bene misto a male, chiaro che i Greci non hanno elaborato della vita una visione ingenuamente ottimistica. Al contrario, essi hanno una percezione profondamente tragica di essa. Lessenza del tragico consiste proprio in ci: il male non eliminabile dalla vita umana. Poich entrambi naturali, non si d netta separazione tra bene e male: questi restano necessariamente intrecciati, quali che siano gli sforzi delluomo e i rimedi escogitati dal suo ingegno. Per quanto grandi siano i successi ottenuti, si giunge prima o poi a un bivio in cui il risultato dellazione, quale che sia la soluzione prescelta, sar la catastrofe. proprio questa visione della vita che viene portata sulla scena dai grandi tragici greci.AtreoEschilo (525-455), ad esempio, presenta nellOrestea personaggi di tempra eccezionale che si trovano costantemente di fronte a dilemmi insolubili, commettendo una serie di efferati delitti a cui non estranea la volont degli dei. Nella lotta per il potere Atreo ha avuto la meglio sul fratello Tieste; questi, allora, si propone di sedurgli la moglie e riesce nel suo intento; quindi Atreo, per vendicarsi delloltraggio subto, d in pasto allignaro Tieste i due figli di lui. Ma, per Eschilo, "lopera empia ne genera unaltra pi grande dopo di s"(Agamennone, vv. 758-759), sicch una scia di sangue accompagner da ora in poi il casato degli Atridi: gli antichi Greci, infatti, vedevano la stirpe come ununit morale in cui le colpe dei padri ricadevano sui figli.AgamennoneCos Agamennone, figlio di Atreo, finir col macchiarsi le mani di sangue. Per volere di Artemide si trova infatti di fronte ad un angoscioso dilemma: perch la flotta greca, di cui a capo, possa partire con vento favorevole alla volta di Troia, egli deve sacrificare sua figlia, Ifigenia. quindi costretto a scegliere tra due mali: se la sacrifica, commette un orribile delitto; se non la sacrifica compromette la sua dignit regale, perch col suo rifiuto ostacola il successo dellimpresa comune. Entrambe le scelte causeranno, certo, terribili sofferenze: "Mala sorte la mia se obbedienza rifiuto [alla richiesta di Artemide], mala sorte se la figlia sacrifico, splendore della mia casa, e qui, presso laltare, nei fiotti di sangue della vergine sgozzata, contamino le mie mani paterne. Quale delle due sorti peggiore? Come posso disertare le navi e tradire lalleanza? E dunque plachi il sacrificio i venti e sgorghi il sangue della vergine! Questo con ira e furore mi forza desiderare. E cos sia"(Agamennone, vv. 206-217).OresteAl culmine della gloria per la sua vittoria sui Troiani, di ritorno in patria Agamennone pagher con la vita la sua decisione di sacrificare Ifigenia: infatti, la moglie Clitennestra, con laiuto dellamante Egisto, terzo figlio di Tieste, vendicher la morte della figlia uccidendo il marito. Questo nuovo delitto porr il figlio Oreste di fronte ad unalternativa ineludibile: lasciare invendicato lassassinio del padre o macchiarsi di un orrendo matricidio. Anchegli, perci, un eroe tragico, costretto a scegliere tra due mali. Ad uccidere Clitennestra ed Egisto, Oreste non spinto solo dal dolore per la morte del padre o dal desiderio di riprendersi il trono ma anche dalla volont degli dei: "Non pu ingannarmi il possente oracolo dellAmbiguo [Apollo]: egli mi impose di affrontare questa prova, con alte grida minacciando sciagure cos terribili da far raggelare il sangue nel mio cuore se non volessi ricambiare, morte per morte, gli assassini di mio padre; mi ordin di ucciderli con la furia di un toro per colpe che non possono altrimenti riscattarsi"(Coefore, vv. 269-275). Anche se voluto da una divinit, il matricidio per contamina Oreste, che deve fuggire il tormento che gli procurano altre divinit, le Erinni: "esse per immense distese di terra ti perseguiteranno, costringendoti ad errare continuamente al di l del mare e di citt circondate dalle acque"(Eumenidi, vv. 75-77).Luomo accecato dagli deiLa condizione umana dunque, per Eschilo, segnata dal male, a un tempo causa ed effetto di scelte tragiche. Ma questo male affonda appunto le sue radici nel divino: "Chi potr mai dalle nostre case scacciare il seme della maledizione? Incatenata ad Ate la stirpe degli uomini" (Agamennone, vv. 1565-1566). Cos Ate? Questa parola designa la sventura che si abbatte sulluomo, ma anche laccecamento che induce luomo in errore, e ancor prima il demone che causa tale accecamento. Per gli antichi Greci luomo infatti sotto linfluenza di forze superiori, che accecano la sua mente tanto da spingerlo a commettere azioni che in condizioni normali condannerebbe. Pertanto egli per un certo verso colpevole ma per un altro vittima di uno sventurato destino.Ad Ate luomo non pu resistereCos, per Omero, proprio perch accecato da Zeus, Agamennone ha tolto ad Achille, scatenandone lira cos rovinosa per gli Achei, la preda di guerra che gli era stata assegnata, Briseide: "non io son colpevole ma Zeus e il destino e lErinni che nella nebbia cammina; essi nellassemblea gettarono contro di me stolta Ate quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille. Ma che potevo fare? I numi tutto portano a compimento. Ate la figlia maggiore di Zeus, che tutti fa errare, funesta"(Iliade, XIX, vv. 86-92). Con Ate Omero designa quindi laccecamento, "lannebbiarsi o lo smarrirsi temporaneo della coscienza normale, [] loperazione demonica esterna"(E. DODDS, I Greci e lirrazionale, Firenze 1986, p 7) che causa quella condizione psicologica e la sventura che ne consegue. Questa complessit di significati il termine mantiene anche in Eschilo: " legge che sangue per terra sparso chiami altro sangue. Per vendicare gli uccisi, lErinni morte relama: Ate che trae con s nuova Ate"(Coefore, vv. 400-405).Larroganza, causa di accecamentoMa perch gli dei causano laccecamento degli uomini? Sembra che essi siano gelosi, nutrano invidia per i successi umani. Eschilo, che tuttavia non laccetta, riporta questa vecchia credenza: "c un antico detto, diffuso tra i mortali, che la felicit, giunta al suo culmine, genera figli e non muore senza prole, ma dalla buona sorte germoglia per la stirpe dolore insaziabile"(Agamennone, vv. 750-756). Attribuire agli dei sentimenti cos meschini sembra per impossibile ad Eschilo. Il concetto dellinvidia, del phthonos, degli dei non costituisce certo una spiegazione accettabile, dal punto di vista morale, del loro intervento distruttivo nella vita degli uomini. Grazie ad una pi raffinata sensibilit religiosa quel concetto subisce perci una radicale trasformazione. Laccecamento delluomo frutto non pi dellinvidia ma della giusta indignazione degli dei per la hybris, larroganza, la tracotanza generata dal successo, che provoca la perdita della coscienza dei propri limiti. Cos Eschilo mette in luce il rapporto che lega hybris e ate: "suole unantica hybris generare fra le disgrazie una nuova hybris, presto o tardi, quando giunge il giorno stabilito del parto, e [allora si scatena] la dea invincibile, irresistibile, spietata, la nera Ate rovina delle case" (Agamennone, vv. 763-770).Responsabilit umanaSembra, dunque, che lazione umana sia determinata dallAte inviata da Zeus tramite le Erinni, ma ci non elimina la responsabilit umana, dal momento che la hybris umana che a sua volta provoca la punizione divina. Ci espresso in modo esemplare nellepisodio, gi citato, di Agamennone che decide di sacrificare la figlia. vero che la morte di Ifigenia richiesta dalla divinit, ma solo come condizione per la partenza delle navi. "Agamennone avrebbe potuto abbandonare limpresa, non accettare la condizione e ritirarsi, ma non lo fa: egli non pu tradire gli alleati. In Agamennone c indubbiamente ambizione e sete di dominio, ma anche necessit: egli deve salvaguardare la sua dignit di re, limpegno preso. [ Non sappiamo] fino a che punto in Agamennone lonore del re sia autentico o dissimuli lambizione ed impalpabilmente trapassi in essa. Ambigua la situazione oggettiva, ambigua lintenzione morale"(S. NATOLI, Lesperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Milano 2001, p 79). Cos, infatti, il coro della tragedia narra lepisodio: "poich immerse il collo nel giogo della necessit, agitando nel volubile animo empi, nefandi pensieri, si decise a tutto osare. Miserando delirio, infatti, coi suoi scellerati consigli causa prima di sventure, rende temerari i mortali"(Agamennone, vv. 218-223). Ma le stesse considerazioni possono valere per Clitennestra, Oreste e gli altri eroi tragici. Essi non sono marionette, i cui fili sono mossi dal fato, e proprio ci fa la loro grandezza. Per i Greci mai luomo " consegnato nelle mani del destino, bens porta nel suo intimo la libert, e una forza che [] lo solleva al di sopra del destino"(M. POHLENZ, Luomo greco, Firenze 1989, p 50).Male e ColpaGli eroi tragici non sono dunque solo vittime; sono anche colpevoli. La condizione tragica del mondo perci resa ancora pi tragica dallempiet umana, che genera dismisura e quindi infelicit: "davvero la hybris figlia dellempiet; da mente sana proviene invece il benessere a tutti caro e lungamente desiderato" (Eumenidi, vv. 534-537). Addirittura Omero apre il suo secondo poema con un discorso, che sembra assumere valore programmatico, in cui Zeus porta lesempio di Egisto per affermare esplicitamente che proprio gli uomini sono responsabili delleccesso delle loro sventure: "Ahim, di tutto gli uomini sempre fanno colpa ai numi! Dicono che i mali vengono da noi, mentre essi stessi per la loro stoltezza si procurano affanni al di l di quelli che sono loro destinati. Ecco: Egisto, contro la sorte assegnatagli, si prese la moglie legittima dellAtride e lui massacr al suo ritorno; eppure conosceva labisso di morte in cui sarebbe precipitato, perch noi gi prima lavvertimmo per mezzo di Ermes"(Odissea, I, vv. 32-38).Il delitto dei TitaniImpossibile, allora, non chiedersi come mai luomo sia capace di tanta malvagit. Come gli dei e la natura, cos anche luomo per i Greci una realt ambigua. Evidentemente bene e male sono elementi costitutivi del suo essere. Questa idea ha trovato la sua espressione pi radicale nei racconti, attribuiti al mitico poeta Orfeo, che noi conosciamo in forma compiuta solo attraverso autori della tarda antichit, come il neoplatonico Proclo (410-485), ma il cui nucleo essenziale certamente gi nei secoli precedenti aveva nutrito la religiosit dei Greci pi colti. Secondo questa narrazione mitica, la generazione degli uomini fu preceduta da quella dei Titani, astuti e crudeli figli di Urano e di Gaia, che uccidono un fanciullo divino, Dioniso (che non per gli Orfici il dio della frenesia orgiastica dei misteri dionisiaci ma un divino maestro di saggezza), e ne divorano le membra dopo averle arrostite. Zeus, per punirli, li incenerisce col suo fulmine e da quelle ceneri nasce il genere umano.Lanima esiliataEcco perch gli uomini sono un misto di bene e di male: da una parte conservano le malvagie inclinazioni dei Titani e dallaltra custodiscono in s una particella del divino Dioniso, di cui quelli si erano nutriti. Gli uomini, dunque, sono eredi di un crimine precedente, pre-umano, che causa nuove colpe e che deve essere espiato attraverso le sofferenze che accompagnano una lunga serie di reincarnazioni. Nasce cos il mito dellanima esiliata: luomo non un essere unitario, perch in lui c una profonda estraneit tra la parte titanica e quella divina; egli appartiene a un altro mondo, non a questo, dominato dal male e in cui la sofferenza giusta punizione di colpe commesse se non nellattuale certo in una vita precedente. Luomo, quindi, tende a identificarsi in questa prospettiva religiosa con un elemento divino (daimon) imprigionato per espiazione in un corpo, che diventa oggetto di repulsione e dal quale solo con la rigorosa pratica dei riti orfici potr liberarsi.La filosofia Pitagora ed EraclitoLa tradizione mitologica, in particolare quella orfica che variamente sintreccia con quella olimpica, ha avuto unenorme influenza sui filosofi greci. Lantropologia pitagorica si ispira appunto al mito orfico, tanto che comunemente si parla di visione orfico-pitagorica. Ma non solo luomo: tutto il mondo appare a Pitagora (570-496) composto di elementi positivi, i numeri dispari, compiuti e perfetti, e negativi, quelli pari, incompiuti e quindi imperfetti. Cos per Eraclito (540-480) lordine della realt nasce da una lotta incessante di elementi contrapposti, sicch si pu affermare che "Polemos padre di tutte le cose, di tutte re"(B 53). Nulla resta identico a se stesso ma tutto trapassa continuamente nel suo contrario: "la stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo son questi"(B 88). La realt, quindi, inscindibilmente bene e male, vita e morte, luce e tenebre: "il dio giorno notte, inverno estate, guerra pace, saziet fame"(B 67).EmpedocleAncora per Empedocle (492-432) i quattro elementi che costituiscono il mondo subiscono lazione dellAmicizia e della Discordia, entrambe necessarie perch fiorisca la vita: "Questi soli [acqua, aria, terra e fuoco] sono gli elementi, ma, precipitando luno nellaltro, nascono gli uomini e le altre stirpi di fiere, una volta riuniti ad opera dellAmicizia in un solo cosmo, una volta separati ciascuno per s ad opera dellodio della Discordia, fino a che essi, combinati insieme in un unico tutto, vengono risospinti in basso"(B 26). Il conflitto tra forze opposte, che nellopera Sulla natura caratterizza il mondo, nelle Purificazioni incombe coi suoi effetti distruttivi sul destino umano: "Ahim, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da quali contese e gemiti sei nata"(B 124). In piena sintonia con la spiritualit orfica, Empedocle afferma quindi che proprio perch ha creduto alla funesta Discordia il daimon condannato a rivestirsi di una "tunica di carne"(B 126).Concezione tragica della naturaSembra innegabile, dunque, che i primi filosofi abbiano tradotto in un linguaggio razionale, non privo di risonanze poetiche, quella stessa concezione tragica del mondo che aveva trovato plastica espressione nelle grandi raffigurazioni del mito. Per loro, infatti, la natura, la physis, il grembo originario da cui tutto si produce e in cui tutto torna a dissolversi. La realt lotta senza fine di vita e morte: una nuova generazione nasce dalla precedente e ne prende il posto. Non possibile perci gioia senza dolore, bene senza male, dal momento che la vita implica la distruzione e la morte: essa il destino riservato appunto ai viventi. Il male, quindi, in ultima analisi non ha bisogno di essere giustificato: un dato di fatto, cos come lesistenza del mondo. Semplicemente c, ed ineliminabile perch fa parte dellordine della natura. Il dolore, che nella cultura orientale ridotto ad apparenza, a fenomeno di un mondo che non veramente reale, nella cultura greca sentito come una dura realt, da affrontare e combattere certo, ma anche da accettare senza speranza di definitiva redenzione.Visione pessimistica? vero per che quel ciclo di generazione e distruzione, che costituisce la natura del cosmo, per lindividuo significa inevitabilmente morte. Nel divenire del tutto, infatti, ogni morire nascere e ogni fine un inizio: ma per il singolo entrare nella vita significa avviarsi alla propria morte. E, per quanto naturale sia il morire, esso ripugna a chi sperimenta la gioia del vivere, sicch egli si oppone a ci che provoca morte, combatte per non morire ed addirittura pronto ad uccidere. per questa inestricabile mescolanza di vita e morte, alla quale ultima alla fine spetter la vittoria, che la vita dolore. In Grecia pi volte riecheggiata nel corso dei secoli lamara riflessione di Teognide: "Non nascere: ventura delle venture per luomo; non scorgere labbaglio della luce. Se si nasce, varcare la soglia scura subito, giacere sotto cumuli di zolle"(Libro I, vv. 425-426). Ci non significa, per, che i Greci abbiano ceduto al pessimismo: tuttaltro! Il loro atteggiamento di fronte alla vita non stato mai rinunciatario: hanno saputo accogliere la vita con i suoi beni e con i suoi mali; non hanno chiuso gli occhi di fronte al dolore, avendo il coraggio di riconoscerne il carattere crudele e non illusorio, ma non perci hanno rinnegato e maledetto la vita. Hanno, al contrario, lottato contro le difficolt, mettendo in mostra ammirevoli risorse di carattere e di intelligenza.Fiducia nella ragioneLa capacit di lottare per la propria realizzazione ci che i Greci chiamano aret: un insieme di doti naturali, di esercizio e di previdenza. Un carattere forte, che non si lascia abbattere dalle sventure e affronta i pericoli, ci che contraddistingue luomo virtuoso, eccellente. Ma non basta la forza di carattere: necessario avere una esatta visione delle cose per fare la mossa vincente. Questa esatta comprensione della realt il compito proprio della ragione, e la fiducia nella ragione una delle caratteristiche delluomo greco. Socrate (469-399) che con singolare efficacia ha richiamato lattenzione sullimportanza della ragione, sostenendo che solo chi ha capito cosa luomo pu vivere bene. La virt, quindi, viene ad identificarsi con il sapere, con il lucido controllo della ragione sulle nostre azioni. E non diceva la tradizione mitologica che proprio una mente accecata induce nellerrore? Ma per Socrate laccecamento non prodotto dalle forze divine. Gli dei non inducono al male, essi che sono sapienti e non possono amare che il bene: semmai egli credeva, al contrario, che un demone lo distogliesse dalle scelte errate. Sono gli uomini invece che, non riflettendo sulle conseguenze delle loro azioni, finiscono col mettersi in situazioni senza via duscita.Il divino il beneMa se gli dei amano il bene, anzi se il Bene ci che possiamo chiamare a pieno titolo divino, allora bisogna rifiutare la visione tragica del mondo! proprio ci che fa Platone (428-347). O meglio: la mescolanza di bene e male caratterizza il mondo in cui viviamo ma non il mondo divino. Il mondo sensibile effettivamente il mondo del divenire, della nascita e della morte. Esso opera di un Demiurgo che plasma uno spazio informe, una materia disordinata e caduca, immettendovi per quanto possibile ordine e bellezza: lartefice semidivino, scrive Platone, prese "quanto cera di visibile che non stava quieto ma si agitava sregolatamente e disordinatamente e lo ridusse dal disordine allordine"(Timeo, 30a). Ma c un altro mondo "contemplabile solo dallintelletto" (Fedro, 247c): un mondo spirituale, eterno e immutabile, essenzialmente buono e perfetto! Questa la vera realt, la realt divina, che non conosce ombra di male e di imperfezione.Dagli dei viene solo il beneIl bene, poi, tende a comunicarsi e quindi gli dei, lungi dallessere invidiosi, godono del bene altrui: "linvidia rimane fuori dal coro degli dei"(Fedro, 247a). Agli dei possiamo dunque far risalire solo il bene e non il male che c nel nostro mondo: "la divinit, essendo buona, non causa di tutto, come si dice generalmente; causa solo di una parte delle cose che accadono agli uomini, e neppure la maggior parte, giacch i nostri beni sono assai meno numerosi dei nostri mali; e mentre per i beni non occorre pensare ad altro autore che la divinit, la causa dei mali si deve cercare altrove che in lei"(Repubblica, 379c). Lidea, comune ai grandi tragici, che gli dei possano essere in qualche modo causa dellinfelicit umana uno dei motivi che spinge Platone a bandire i poeti dal suo stato ideale: "Non permettiamo ai giovani di ascoltare le parole di Eschilo [Niobe, 107, vv. 15-16]: il dio fa nascere occasione di colpa nei mortali, quando vuole rovinare completamente la loro casa"(ivi, 380a). Quellinfelicit infatti pu essere fatta risalire agli dei solo se giudicata come un giusto castigo, e quindi come un bene: "i cattivi sono infelici perch si meritarono un castigo e questo pagare la pena non che un beneficio divino"(ivi, 380b).Ripresa del mito dellanima esiliataMa se la causa dei mali si deve cercare altrove, dove essa si trover? Per spiegare lorigine del male Platone riprende il mito dellanima esiliata, proprio della tradizione orfico-pitagorica. Egli parla infatti di ribelli che "ostentano lantica natura titanica"(Leggi, 701c) e di impulsi sacrileghi che non hanno origine umana, e ancor meno divina, ma derivano da un assillo prodotto "da antichi misfatti, inespiabili dagli uomini"(ivi, 854b). Ma il vecchio mito tradotto da Platone in linguaggio a un tempo poetico e razionale. Il mondo dei corpi il luogo della nascita e della morte, e perci del male. Lanima appartiene al mondo spirituale, divino, sottratto a ogni divenire, e il suo essere legata al corpo la conseguenza del prevalere delle inclinazioni malvagie: "a motivo di qualche disgrazia" (Fedro, 248c) la mente si annebbia e diviene preda del vizio. Lerrore e il vizio consistono nellattribuire solidit e fascino al mondo sensibile. E quindi, quanto pi lanima si lascia dominare dai desideri sensibili, tanto pi essa causa la propria infelicit: "ci che suscita sgomento che lessere imprigionato [nel corpo] opera del desiderio e che chi pi di tutti contribuisce a caricare di catene lincatenato forse lincatenato stesso"(Fedone, 82e).Responsabilit umanaIl male, quindi, dolorosa eredit di uniniziale sventura e nello stesso tempo frutto amaro delle scelte umane. Anche in Platone come nella sapienza poetica viene infatti ribadita la responsabilit umana. Alle anime che stanno per cominciare un nuovo ciclo di vita terrena viene ricordato che questa dipender dalla loro scelta: "Anime dalleffimera esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di generazione mortale, preludio a nuova morte. [] Il primo che la sorte designi scelga per primo la vita cui sar poi irrevocabilmente legato. La virt non ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne avr pi o meno. La responsabilit di chi sceglie"(Repubblica, 617d-e). E come per Eschilo "giova apprendere la saggezza soffrendo"(Eumenidi, vv. 520-521), cos anche per Platone lesperienza precedente della sofferenza ha un ruolo decisivo per non lasciarsi abbagliare dallingannevole felicit che promettono ricchezza e fama. La scelta di un tipo di vita virtuosa fatta pi facilmente proprio da coloro che "avevano essi stessi sofferto o veduto altri soffrire"(ivi, 619d).Salvezza dal divenireLuomo reso saggio dal patire, poi, si sforzer di mettere ordine nella propria vita, con lesercizio delle virt morali, e in quella dei suoi simili, attraverso limpegno politico, ma non ceder allillusione di poter essere felice in questo mondo, che per il suo statuto ontologico non pu che essere luogo di espiazione. Sottoponendosi ad una rigorosa ascesi e sviluppando le sue potenzialit razionali, egli potr liberare dal male lanima che costituisce il suo vero io, potr salvarla sottraendola al ciclo delle reincarnazioni. Contrastare la forza del desiderio e vivere una vita spirituale: ecco la via della purificazione che porta alla salvezza! evidente infatti che, se luomo razionalit, gi in questo mondo egli deve dedicarsi alla vita conoscitiva, per contemplare nellaltro la realt eterna e immutabile senza pi limpaccio del corpo. Si capisce, quindi, il ruolo fondamentale che gioca nella prospettiva platonica la conoscenza: latto mediante il quale luomo "si fa uguale alla sua anima e altro dal suo corpo altro dallalterna coppia della vita e della morte questatto purificatore per eccellenza la conoscenza. In questa presa di coscienza, nel risveglio a se stessa dellanima esiliata contenuta tutta la filosofia di stile platonico e neo-platonico: se il corpo desiderio e passione, lanima lorigine e il principio del distacco, del distanziarsi del logos lungi dal corpo e dal suo pathos"(P. RICOEUR, Finitudine e colpa, Bologna 1970, p 572).Una prospettiva mondanaDopo la severa critica operata dai Sofisti, la tradizione mitologica ha raggiunto dunque il culmine della sua influenza sul pensiero filosofico con Platone. Gi in Aristotele (383-322), invece, gli espliciti richiami a quella tradizione sono estremamente rari. La concezione orfico-pitagorica delluomo, in particolare, da lui decisamente rifiutata. Lanima non che la forma del corpo ["lentelechia prima di un corpo naturale munito di organi"(Lanima, II, 1)], il principio di tutte le funzioni che distinguono lessere animato da quello inanimato, e non sembra, quindi, che essa sia pensabile senza il corpo. Cadute, perci, le grandi immagini mitiche sulla preesistenza e sulla sopravvivenza dellanima, e con esse lidea di una colpa antecedente e la possibilit di una salvezza extramondana, la vita umana viene ricondotta entro i confini dellesperienza terrena. Luomo fa parte del mondo della natura, mondo soggetto al divenire e ordinato in vista della propria perfezione in quanto attratto da un motore immobile. Nascita e morte, gioia e dolore fanno parte della realt, che Aristotele osserva col distacco dello scienziato. Alluomo, e a lui solo, spetta il compito di plasmare la sua vita, godendo della bellezza del mondo e affrontando le ineliminabili difficolt.Risorse umaneE Aristotele pensa che luomo disponga dei mezzi necessari allo scopo. Egli capace di osservare la realt e di fare le scelte pi ragionevoli: le circostanze, infatti, non dipendono da noi ma dipendono da noi le nostre azioni. Luomo si distingue da tutti gli altri esseri proprio perch capace di autodeterminarsi. Ci sono cose che possiamo fare o non fare, e sta a noi sceglierle deliberatamente e attuarle con ferma disposizione: "infatti sembra che la libert di scelta riguardi ci che in nostro potere"(Etica Nicomachea, 1111b). Aristotele analizza quindi il processo con cui, individuato il fine, deliberiamo sui mezzi che ci permettono di conseguirlo e delinea lideale delluomo prudente, che in ogni situazione capace di fare la scelta pi conveniente [ "proprio del saggio il saper deliberare bene intorno alle cose che sono per lui buone e giovevoli"(ivi, 1140a)], divenendo cos giusto, coraggioso, temperante, generoso, magnanimo, sensibile ai piaceri del mondo e soprattutto alle gioie della contemplazione.Contenimento del doloreCon ci non si elimina certo il dolore, ma possibile contenerlo, grazie anche allo sviluppo delle tecniche, gli espedienti che in molti casi riescono a prevenire i mali o ad approntare rimedi per quelli sopravvenuti, e al godimento estetico, che accompagna la rappresentazione dellumana tragedia trasfigurata dallarte. La poesia, infatti, aiuta ad accettare il dolore perch, rivestendolo di bellezza, ne rende possibile la contemplazione. La poesia tragica, in particolare, portando sulla scena la vicenda delluomo, assieme colpevole e vittima, rivela allo spettatore la sua propria condizione. Essa, infatti, lo coinvolge profondamente e lo ammaestra con la rappresentazione di "una serie di casi che suscitano piet e sgomento"(Poetica, 6, 1449b): piet per le incommensurabili sventure che si abbattono sul protagonista e sgomento per lacuita consapevolezza che qualcosa di simile potrebbe capitare a lui stesso.La fisica stoicaAnche gli Stoici rifiutano la svalutazione platonica del mondo terreno, che anzi appare loro retto da una legge razionale, divina, che regola la nascita e la morte non solo dei singoli esseri ma dellintero cosmo, destinato alla distruzione prodotta da una grande conflagrazione, dopo un periodo di 36.000 anni, e seguita da un nuovo ciclo, in cui tutto, come ci riferisce un pensatore cristiano, si ripeter identicamente: "secondo gli Stoici [] ci sar un nuovo Socrate e un nuovo Platone e ciascun uomo sar lo stesso con gli stessi amici e concittadini"(NEMESIO, La natura delluomo, 38). In questa prospettiva, evidentemente, non c posto per colpe ereditate da vite precedenti, perch il vizio non che violazione dei comandi della ragione, n per giudizi negativi sul mondo, che quello che deve essere. Ci che, come la sofferenza e la morte, gli stolti chiamano male, per il saggio stoico, che con la ragione sa sollevarsi alla visione della totalit del reale, non veramente tale ma ha una sua giustificazione, perch contribuisce allordine e alla bellezza del tutto.Determinismo e malinconiaNiente, dunque, di ci che avviene nel mondo senza ragione o senza significato e per conseguenza tutto necessario, anche se con scarsa coerenza con la visione fatalistica propria della scuola alcuni Stoici, come Cleante (304-230) nel famoso Inno a Zeus, tentano di salvare la libert delluomo, affermando che egli con la sua stoltezza pu alterare lordine necessario delle cause: "nulla c sulla terra che si sottragga alla tua divinit, nulla nel regno delletere n tra le onde del mare. Solo ci che di male compiono gli uomini lo fa la loro stoltezza"(S. V. F., I, fr. 537). Proprio la consapevolezza che un ordine razionale e necessario regola luniverso consente, per gli Stoici, una serena accettazione del corso degli eventi; non elimina per la coscienza della fragilit e della vanit della vita di uomini che gioiscono e soffrono per cose da nulla, e che agli occhi disincantati di Marco Aurelio (121-180) appaiono come "cagnolini che si mordono lun laltro, ragazzetti che amano accapigliarsi, poi ridono e subito finiscono col piangere"(Ricordi, V, 33).La fisica epicureaCome gli Stoici, anche Epicuro (342-272), prendendo le distanze da Platone, considera quello terreno come il vero mondo e invita luomo a cercare qui e ora la sua felicit: dato che si nasce una sola volta e poi non si esiste pi in eterno, sarebbe stolto rinunziare ai piaceri che la vita offre. La condizione umana certo conosce la sofferenza, ma vano attendere una liberazione da essa ad opera degli dei. Infatti, come ci informa uno scrittore cristiano, secondo Epicuro questi non si interessano degli uomini e dei loro guai: "la divinit o vuole abolire il male e non pu; o pu e non vuole; o non vuole n pu; o vuole e pu. Se vuole e non pu, impotente, il che in contrasto con la nozione di divinit; se pu e non vuole, malvagia, il che ugualmente estraneo allessenza divina; se non vuole e non pu, insieme impotente e malvagia; se poi vuole e pu, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde vengono i mali e perch non li abolisce?"(LATTANZIO, Lira di Dio, 13, 19). Se i mali ci sono, dunque evidente che gli dei non intervengono in questo mondo, sicch luomo interamente affidato a se stesso e non deve rispondere delle sue scelte al loro giudizio.Liberazione dal doloreEmancipatosi dalla tutela divina, lepicureo vive in un mondo in cui il nascere e il morire sono naturali e inevitabili: " necessario che tutte le cose si rinnovino le une a spese delle altre" (LUCREZIO, La natura, III, v. 965). La vita va dunque accettata nella sua finitudine, perch evidente che, se "gli esseri non cesseranno mai di nascere gli uni dagli altri, la vita a tutti in uso, a nessuno come definitivo possesso vien data"(ivi, 970-971). Alluomo spetta quindi la responsabilit di vivere con saggezza: controllare i dolori che non si possono evitare e godere delle semplici gioie della vita, libero dal timore degli dei, che non si preoccupano certo di distribuire premi e castighi, e della morte ["abtuati a pensare che la morte non nulla per noi, perch ogni bene e ogni male risiede nella facolt di sentire, di cui la morte appunto privazione"(EPICURO, Epistola a Meneceo, 124)], e anche dalla paura dellaldil, dato che lanima, essendo un aggregato di atomi, muore col corpo e quindi non pu pi soffrire.La ripresa neo-platonica dellorfismoIl mito orfico ritorna invece prepotentemente con Plotino (205-270) che, nel clima di smarrimento e di angoscia diffusa dei primi secoli della nuova era, riscopre, radicalizzandola, laspirazione platonica a un mondo perfetto e divino. Quello terreno, al contrario, imperfetto perch fatto di materia. Oscuro limite estremo del processo emanatistico, essa il punto in cui lessere si converte nel non essere, il bene nel male: "il male non consiste in una deficienza parziale, ma in una deficienza totale del bene []. Quando la deficienza del bene assoluta, come nella materia, allora il male vero, privo di qualsiasi parte del bene. [] Solo equivocamente si dice che la materia , poich giusto affermare che essa non "(Enneadi, I, 8, 5-6).Il destino dellanimaMa, se la materia male in quanto privazione di bene, il mondo terreno ha tuttavia un suo ordine, a cui contribuiscono anche le miserie e i dolori che qui sono inevitabili: "molti mali, anzi tutti, portano vantaggi alla totalit delle cose"(ivi, II, 3, 18). Le sofferenze terrene, che pure Plotino si sforzava di soccorrere, non suscitano perci lo scandalo del filosofo, perch sono necessarie per la bellezza dellinsieme, e del resto toccano lio cosciente che vive nel corpo, non "il vero uomo"(ivi, I, 1, 10), che presso lUno. La vera vita delluomo, come hanno insegnato Pitagora e Platone, non quella terrena. Infatti, unanima che, dimentica della sua origine divina, si legata a un corpo, non pu provare quaggi n vere gioie n veri dolori: essa aspira, "svincolandosi dalle cose sensibili e da qualunque malizia" (ivi, VI, 9, 3), a tornare al suo mondo, ha nostalgia della patria, della casa del padre e gi in questa vita capace di sperimentare, nellestasi, lunione con lUno.In sintesiDue sembrano le concezioni prevalenti nella produzione poetica e filosofica dei Greci. Per la prima, quella tragica, il male parte costitutiva del mondo e non c salvezza definitiva. Esso pu essere contenuto, trasfigurato nellopera darte, ma va infine accettato come momento ineliminabile di una vita che, anche proprio grazie ad esso, raggiunge equilibrio e saggezza: " Zeus che, sottoponendoli alla scuola della sofferenza, sul cammino della saggezza avvia i mortali. Quando nel sonno stillano nel cuore dolorose memorie, in essi, loro malgrado, la saggezza sinsinua, irresistibile dono degli dei che siedono al timone celeste"(Agamennone, vv. 176-183). Per la seconda, quella dellanima esiliata, il male conseguenza di una colpa antecedente ed possibile liberazione definitiva: luomo deve impegnarsi in questo mondo senza attaccarsi ad esso, preparandosi mediante la contemplazione filosofica alla felicit vera, inattingibile finch lanima resta imbrigliata nel corpo. In entrambe le prospettive poi, e ci caratteristico della sensibilit greca, linteresse rivolto agli individui superiori, agli eroi, non agli uomini comuni: "La stirpe, la paideia ed il carattere producono leroe, contraddistinguono luomo dellaret. Il resto degli uomini senza nome, n storia, n destino. Sar degno di possedere un nome colui che sar capace di farselo. Nella grecit si esiste come singoli se si capaci di forma, e si riconosciuti come eroi se si degni di gloria"(S. NATOLI, Lesperienza del dolore, Milano 2001, p 201).

Nota[1] Questo testo e i due che completano il percorso - Il problema del male nella Bibbia e Il problema del male nel Medioevo - riprendono le relazioni tenute al Seminario di Erice dell'agosto 2002 sul tema "La libert, il male, la colpa"

Il Giardino dei Pensieri - Studi di Storia della FilosofiaMario TrombinoIntroduzione alla Storia della Filosofia OccidentaleChe cos' la Filosofia? Chi sono i Filosofi? Quali Generi Letterari utilizzano? Quali Forme dell'Oralit e della Scrittura?[Indice delle Lezioni I-XII]Lezione IVLa Filosofia Greca: l'et ellenistica[Vedi anche le voci: Epicuro, Identit della Filosofia, Generi Letterari, Metodologia Filosofica, Oralit e scrittura in filosofia, Stoicismo]

Se si guarda allellenismo sotto il profilo della conservazione dei documenti filosofici scritti, si osserva subito che quasi tutto andato perduto: le scuole filosofiche attive in quel periodo (lAccademia, il Liceo, Epicuro e le comunit epicuree, i primi filosofi stoici) hanno prodotto moltissimo, ma non rimasto che molto poco.Se per si guarda allellenismo sotto il profilo del rapporto tra il genere letterario prescelto e le finalit che la filosofia vuole raggiungere, e dunque la sua identit, si osserva subito che questo rapporto leggibile anche dal poco che ci rimasto. Partiamo nella nostra indagine da Epicuro. Andiamo subito al cuore del problema e descriviamo uno ad uno i caratteri formali dei generi letterari utilizzati. La lettera dottrinaleIl genere compare con Epicuro. Ha avuto un successo notevole nellellenismo e ha fatto da modello alle "Epistole" della tradizione cristiana (Paolo e gli altri Apostoli). Presuppone lesistenza di comunit lontane che seguono un modello di vita filosofica e quindi strettamente connesso con una idea di filosofia che ormai con piena consapevolezza connette ricerca filosofica e stile di vita. Le lettere di Epicuro che ci sono pervenute sono di varia ampiezza, ma brevi o lunghe che siano hanno alcune caratteristiche formali che le rendono ben riconoscibili. Proviamo ad elencarle:- ciascuna ha un solo tema, per ampio e articolato che sia, e la materia trattata con ordine espositivo chiaro, con uno sforzo di sintesi unito alla maggiore chiarezza possibile: in tutta evidenza, i destinatari non sono filosofi, ma persone che leggono o ascoltano di filosofia senza essere interessati alla ricerca e ai suoi aspetti tecnici;- ciascuna fa uso di una terminologia rigorosa, che ha un significato tecnico preciso nelleconomia complessiva delle dottrine filosofiche della scuola; i termini sono chiaramente definiti, privi di ambiguit; chi legge, deve impadronirsi a fondo del linguaggio tecnico, anche se non interessato ai dettagli;- il rapporto tra esposizione della dottrina e argomentazione assai particolare: vengono saltati tutti i dettagli e le tesi sono esposte una ad una concatenate in un ordine rigoroso; le argomentazioni sono poche, immediatamente efficaci, facili da capire e da memorizzare; vi dunque un misto di tecnica argomentativa (semplificata ma proprio per questo di grande forza quando presente) e di tecnica espositiva qualcosa di molto lontano dalla raccolta di opinioni (1) per due motivi: in primo luogo perch non si tratta di opinioni isolate, di tesi non concatenate, ma di posizioni filosofiche connesse a formare un tutto ordinato; in secondo luogo perch le argomentazioni sono presentate in forma rigorosa, senza che la essenzialit del discorso sacrifichi nulla alla precisione; - mancano le metafore e il linguaggio per immagini della tradizione platonica (ma largamente utilizzato anche dai presocratici); la figura retorica che a volte viene utilizzata la similitudine (come cos) , la pi adatta a rendere con chiarezza un concetto, permettendo il legame tra astrazione del pensiero e concretezza dellesperienza sensibile; Le sentenze e gli aforismiIl genere in s una variante dellaforisma e della forma gnomica di derivazione poetica (legata comunque alla tradizione orale) di cui tutta la tradizione filosofica precedente ci fornisce degli esempi. Proprio il confronto con la tradizione mostra con chiarezza che la struttura formale ha un significato filosofico preciso: le varianti in Epicuro sono tutte orientate ad una diversa identit della filosofia. Infatti in Epicuro, e nella tradizione che da lui deriva, sentenze ed aforismi - sono prive di ambiguit (distanziandosi quindi in modo certo consapevole dalla tradizione eraclitea, ma anche oracolare, sapienziale, e simili); - hanno tutte un orientamento pratico, richiamano i punti della teoria per indicare una via allazione; - sono prive di formule che richiamano il pensiero per immagini, espongono in modo piano e semplice le regole della scuola, apprese altrove, non attraverso di esse;- le figure retoriche sono, come nelle lettere dottrinali, per lo pi similitudini, cio figure che hanno come obiettivo la chiarezza: non servono a colpire, a interessare, a stupire; la loro funzione diversa, sicch non vi si trova spesso quel tratto caratteristico del "pensiero aforistico" che condensa in una frase o in una parola o in uno scontro di parole un mondo di pensieri.Degli elementi formali della tradizione rimangono due cose: la estrema brevit in un contesto formale legato alloralit che apparenta questi testi alla poesia (e ne facilita quindi la memorizzazione); la radicalit delle tesi che vengono sostenute, con stile a volte piano, a volte tagliente, a volte ostile. Qual dunque la funzione di questi testi? E in quale rapporto stanno con le lettere dottrinali e con i trattati, cio con gli altri generi che Epicuro stesso ha utilizzato? La pratica di vita degli epicurei fondata su un preciso criterio-guida: la costante applicazione dei princpi dottrinali (in s teorici) alle scelte individuali (del seguace della scuola) e collettive (delle comunit epicuree). Perch questo possa accadere, questi princpi dottrinali devono essere sempre presenti alla mente, indipendentemente dalle ragioni filosofiche che ne determinano la validit, ed indipendentemente dalla ricerca filosofica in quanto tale. Certo, al momento opportuno lepicureo studier la dottrina; a seconda dei suoi interessi la approfondir fino al punto da potere discutere i dettagli tecnici con i seguaci di altre scuole; far ricerca allinterno della cornice della dottrina (anche se questo un punto che gli epicurei hanno coltivato poco, a differenza degli stoici). Ma tutto questo a monte della pratica di vita. Per quella serve molto meno: serve avere sempre presente il "quadrifarmaco", serve potere richiamare la frase giusta al momento giusto, a seconda delle situazioni nelle quali ci si trova a vivere, in modo da essere sempre pronti ad affrontare lesistenza con le chiavi interpretative giuste per vivere una vita felice.La funzione di queste massime e sentenze legata allora alle pratiche individuali di ricerca della felicit, cos come le lettere dottrinali sono legate alle pratiche collettive, proprie della scuola; ma mentre le lettere hanno una funzione formativa, non solo pratica (perch servono a dare ai seguaci della scuola le corrette chiavi di lettura della realt, utili poi nella pratica), massime e sentenze non hanno un funzione formativa, ma di rapido richiamo. Da qui la loro struttura formale.Vediamo adesso i trattati, per completare il panorama dei generi letterari utilizzati da Epicuro.Il trattatoEpicuo ne ha scritti molti, ma per noi sono testi ormai perduti. Rimangono solo frammenti che, per quanto significativi e importanti siano, non ci restituiscono la trama e il senso delle opere, alcune delle quali di vaste proporzioni (cos vuole la tradizione). Non quindi possibile studiarne le regole formali. Sappiamo per che si trattava di testi in prosa non destinati al grande pubblico, ma al pubblico colto, a quelli che potremmo chiamare gli specialisti: i filosofi che devono approfondire la dottrina per continuare la ricerca e soprattutto per dialogare con gli altri filosofi e formare quel tessuto di idee della scuola a cui i seguaci (persone comuni, non filosofi) sono interessati per dirigere in modo corretto la propria vita sulla via della felicit. Sappiamo quindi che il linguaggio non era per iniziati, ma che egualmente non si trattava di testi semplici: erano pensati e scritti per degli specialisti.Riprendiamo dunque il discorso a proposito del rapporto con le sentenze e le lettere.