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IMPARARE AMMIRANDO Un’introduzione alla psicologia dell’arte Stefano Mastandrea Dispensa delle lezioni Anno accademico 2012-13

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IMPARARE AMMIRANDO

Un’introduzione alla psicologia dell’arte

Stefano Mastandrea

Dispensa delle lezioni

Anno accademico 2012-13

Indice

Premessa p. 1 PARTE PRIMA: Quattro approcci psicologici allo studio dell’arte Introduzione p. 2 Perché l’arte p. 2 1. L’approccio psicodinamico all’arte

Introduzione p. 5 1.1. La psicoanalisi dell’arte p. 6

1.1.1. “Il caso Leonardo” p. 7 1.1.2. Freud e il Mosè di Michelangelo p. 9 1.1.3. Un’applicazione dell’approccio psicodinamico

all’opera di Antonio Canova p. 14 1.2. Conclusioni p. 23

2. L’opera d’arte da un punto di vista percettivo - La psicologia della Gestalt p. 26 2.1. Escher, un artista gestaltista? p. 28 2.2. Wertheimer Balla: 1912-2012. Un secolo dal Movimento apparente p. 30

3. L’estetica sperimentale 3.1. Fechner p. 44 3.2. Birkhoff e Eysenck p. 46 3.3. Berlyne p. 47

4. La neuroestetica p. 49 4.1. I neuroni specchio p. 50 4.2. L’arte e i neuroni specchio p. 51 4.3. Limiti delle teorie neuroestetiche p. 53

PARTE SECONDA: L’analisi percettiva dell’immagine 5. L’analisi percettiva dell’immagine p. 55

5.1. Lettura e comprensione di un oggetto d’arte p. 55 5.2. Descrizione dell’oggetto artistico p. 56 5.3. Analisi percettiva degli elementi pittorici p. 58

5.3.1. Linea p. 58 5.3.2. Forma p. 60 5.3.3. Colore p. 61 5.3.4. Texture p. 66 5.3.5. Materiale p. 66

6. Analisi della composizione p. 67

6.1. Simmetria ed equilibrio p. 67 6.2. Spazio p. 71 6.3. Dinamismo e ritmo p. 74 6.4. Espressività p. 75

7. Interpretazione p. 77

7.1. Valutazione personale p. 78 8. Il ruolo delle emozioni nell’esperienza estetica p. 79 9. Il museo tra comunicazione, didattica e fruizione p. 92 10. Schede: dall’Impressionismo all’Arte Concettuale p. 101 11. Bibliografia ragionata per approfondimenti p. 107

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Premessa

Questa dispensa è una sintesi delle lezioni svolte nei corsi di Psicologia delle arti che tengo da

alcuni anni. La dispensa si articola in due parti: la prima parte tiene conto dei diversi approcci psi-

cologici di studio che hanno tentato di indagare un fenomeno vasto, complesso e affascinante come

quello artistico. La trattazione di questi approcci non è esauriente, in quanto tiene conto di una sele-

zione dei contributi che i diversi autori hanno proposto nella fondazione di questa disciplina deno-

minata psicologia dell’arte. La seconda parte è nata da un’esigenza che ho sentito durante i corsi te-

nuti e dai risultati emersi dalle ricerche svolte. La difficoltà, iniziale, da parte degli studenti e dei

partecipanti delle ricerche, di comprendere le correnti più moderne dell’espressione artistica, quelle

che hanno origine dai primi anni del ‘900 (le cosiddette Avanguardie artistiche) e che proseguono

per tutto il 900. Viene proposta una modalità di analisi percettiva dell’opera che tiene conto della

lezione di Arnheim e più in generale dell’educazione all’immagine. Tale approccio può essere ap-

plicato con relativa facilità da ogni studente nella “lettura dell’immagine”, per tentare di superare le

difficoltà iniziali di comprensione di quegli stili artistici che si sono proposti il superamento

dell’imitazione naturale per esplorare un terreno non figurativo, dall’astrattismo al concettuale.

Per questo motivo ho proposto come titolo “Imparare ammirando”: attraverso il percorso indica-

to spero si possa giungere alla comprensione di quelle immagini artistiche che più di altre suscitano

perplessità e che attraverso il processo di analisi possano essere ammirate in maniera più piena e

completa.

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PARTE PRIMA: Quattro approcci psicologici allo studio dell’arte

Introduzione

Come prima cosa cerchiamo di dare una definizione di questa disciplina: che cos’è la psicologia

dell’arte?

Esistono discipline, come per esempio la storia dell’arte, la critica d’arte, l’estetica, che si occu-

pano in maniera specifica dell’arte e del suo significato, che sono nate e si sono sviluppate in fun-

zione dell’analisi, comprensione e interpretazione del fenomeno artistico.

Dal momento che l’arte, creazione e fruizione, coinvolge aspetti storici, culturali, sociali, affetti-

vi e cognitivi, diverse discipline, come per esempio la sociologia e l’antropologia, hanno utilizzato

le proprie teorie, metodologie e strumenti, per intervenire in un campo non di loro strettissima com-

petenza; anche la psicologia ha sentito l’esigenza di proporre un suo contributo dal momento che

nel processo di comprensione dell’arte sono in gioco componenti cognitive, affettive e comunicati-

ve.

Storicamente si sono delineati tre differenti filoni che la psicologia ha utilizzato per studiare il

mondo dell’arte; negli ultimi 10-20 anni circa se n’è aggiunto un quarto:

1. L’artista e la sua personalità (Freud e la psicoanalisi dell’arte)

2. L’opera d’arte da un punto di vista percettivo (Arnheim e la psicologia della Gestalt)

3. L’estetica sperimentale e la misurazione (Fechner e Berlyne)

4. La neuroestetica, la relazione tra esperienza estetica e neuroscienze (Zeki).

Perché l’arte

Come prima cosa cerchiamo di definire che cos’è l’arte. Nelle culture primitive la creazione e la

decorazione di oggetti sono considerate dagli studiosi le prime forme di manifestazioni artistiche.

Tra i primi e più famosi esempi di espressione artistica troviamo le pitture rupestri di Altamira in

Spagna (14000-12000 a.C. circa) e le grotte di Lascaux in Francia (dette la “Cappella Sistina della

preistoria”, 15000-10000 a.C. circa).

Si è discusso a lungo sullo scopo di queste prime forme di espressione artistica e su quali fossero

le motivazioni che spinsero “gli artisti” di quel periodo a questo tipo di attività creativa. Una prima

spiegazione potrebbe essere attribuita al desiderio di allontanare o eliminare le influenze negative

provenienti dalla realtà e dall’ambiente circostante. Con un termine più impegnativo quella che vie-

ne definita funzione “apotropaica”; secondo l’etimologia greca l’aggettivo apotropaico ha il signifi-

cato di allontanare; in questo caso le immagini prodotte avrebbero dovuto avere il potere di allonta-

nare, scongiurare o addirittura di annullare gli influssi maligni provenienti dall’ambiente esterno.

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Anche se questa funzione può sembrare bizzarra, neanche noi siamo del tutto esenti da questa prati-

ca; infatti a volte utilizziamo oggetti (monili, braccialetti, statuette, sculture) con lo scopo principale

di ridurre e allontanare potenziali influssi negativi provenienti dall’ambiente.

Da un punto di vista evoluzionistico, l’arte è un grosso enigma. La decorazione di vasi, ciotole e

manufatti, la creazione di immagini o di sculture non avrebbero una funzione evoluzionisticamente

adattiva. Il nostro organismo e il nostro comportamento è rivolto in maniera istintuale alla soprav-

vivenza e alla continuazione della specie. Sembra improbabile che dedicare parte del tempo ad atti-

vità grafico-espressive possa contribuire significativamente all’adattamento ambientale in funzione

di una più elevata possibilità di sopravvivenza. Secondo Darwin anche le emozioni hanno la fun-

zione di creare un migliore adattamento all’ambiente; per esempio se non provassimo paura sarem-

mo facili bersagli dei nostri predatori. Secondo questo approccio, l’arte difficilmente potrebbe forni-

re strumenti per un migliore adattamento funzionale. Una ciotola serve per bere ed assolve molto

bene la sua funzione anche senza orpelli decorativi disegnati sulla sua superficie esterna; questi ab-

bellimenti non facilitano un migliore accostamento della ciotola alle labbra in maniera da soddisfare

un bisogno essenziale come il bere. Allora perché i nostri predecessori sprecavano energie in queste

decorazioni funzionalmente “inutili”? Era una perdita di tempo che poteva essere dedicata a cose

più utili e funzionali. Nel suo libro del 1871, “L’origine dell’uomo”, Darwin sosteneva che la bel-

lezza delle decorazioni o degli abbellimenti del corpo, animale e umano, potesse essere il risultato

di una motivazione alla selezione sessuale. Nello studio dei rituali sul corteggiamento dei compa-

gni, in numerose specie, Darwin giunse alla conclusione che le decorazioni del loro corpo, colorate,

attraenti e la loro esibizione dovessero avere necessariamente un fine. Se viene dedicato del tempo a

queste attività di miglioramento estetico un fine ci deve essere; tutto il tempo che vi è dedicato non

può essere inutile. Tra l’altro, da un punto di vista adattivo, questi abbellimenti potrebbero essere

addirittura controproducenti. Quando si parla di questi aspetti, l’esempio che si porta è quello della

coda del pavone; una ruota bellissima, colorata, ampia che solo il maschio può fare. Da un punto di

vista pratico, adattivo, sarebbe addirittura disfunzionale perché ingombrante. Ma perché allora i ma-

schi del pavone hanno e fanno la ruota? Lo scopo sarebbe quello di farsi apprezzare dalle femmine

ed essere dunque oggetto della loro scelta sessuale. Le femmine ammirano la bellezza del partner

maschio e la loro scelta ricadrebbe su chi riesce a formare la ruota più bella. Si usa infatti il termine

pavoneggiarsi. Potremmo estendere questo discorso ai bellissimi colori e forme che troviamo in

specie diverse come pesci, farfalle, uccelli; queste caratterizzazioni cromatiche e formali devono

possedere un beneficio che sarebbe costituito dal fatto di facilitare la scelta sessuale con l’obiettivo

di superare la competizione dei propri compagni per la conquista del partner. Secondo Miller, psico-

logo evoluzionista, l’arte si sarebbe sviluppata, almeno nella sua concezione originaria, per attrarre i

propri partner, attivando i diversi canali sensoriali (vista, udito, tatto, ecc.), per mostrare ed esibire

la propria fitness (efficienza riproduttiva). L’ipotesi di Miller, in linea con la tradizione evoluzioni-

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sta, che l’arte sia una forma di adattamento sessuale e che il comportamento artistico e le opere

d’arte siano indicatori di “fitness” è riportata in maniera esauriente e accattivante nel suo libro

“Uomini, donne e code di pavone” del 2002.

Esempi di questa bellezza primitiva tuttora presenti nella società contemporanea potrebbero esse-

re rappresentati da quelle forme di decorazione corporea che sono i tatuaggi e i piercing. Alcune

culture non occidentali hanno sempre usato questi abbellimenti del corpo, mentre nella nostra cultu-

ra occidentale questo fenomeno è molto più recente. Un contributo significativo alla diffusione di

queste modalità di espressione è provenuto dal movimento giovanile punk, degli anni ’80 in Inghil-

terrra. I tatuaggi, i piercing, le acconciature variopinte erano forme di manifestazione e ostentazione

molto visibili, riconoscibili ed identificabili come appartenenza ad un gruppo per evidenziare il pro-

prio dissenso nei confronti della società. In forme molto più blande sono utilizzate oggi da gruppi

sociali giovanili.

Secondo l’antropologa Dissanayake l’arte possiede almeno due elementi che la rendono evoluti-

vamente rilevante:

1) L’arte è universalmente presente in tutte le culture. Nella teoria evoluzionistica se una caratteri-

stica viene trovata in una popolazione significa che deve essere presente una ragione forte di ti-

po evolutivo e che tale caratteristica ha contribuito alla formazione e selezione della specie; ha

contribuito, per usare il linguaggio dell’antropologia, alla fitness evolutiva (all’efficienza ripro-

duttiva).

2) L’arte è origine di piacere. Se dunque l’attività artistica produce piacere, saranno messi in atto

comportamenti dai quali gli individui possano trarre vantaggio. In questo caso si tratterrebbe di

un vantaggio affettivo perché la relazione con le diverse forme di espressione artistica risulta

gratificante e fonte di piacere.

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L’approccio psicodinamico all’arte

Introduzione

Per introdurre il tema della psicoanalisi dell’arte è necessario tenere conto del clima culturale che

si svolgeva a Vienna, la capitale dell’esteso impero Austro-Ungarico, verso fine ‘800, inizio ‘900,

periodo noto come Fin de siècle. Si assiste alla nascita di numerosi movimenti artistici, letterari, fi-

losofici, scientifici e tra questi anche la psicoanalisi. L’aspetto più evidente è la rottura con il passa-

to, sia in ambito politico e sociale, sia in ambito artistico e scientifico.

Per quanto riguarda l’aspetto storico-politico, si assiste al disfacimento dell’impero Austro-

Ungarico. L’Ungheria è stata già persa e i paesi che formavano Balcani iniziavano ad avanzare ini-

ziative e provocare sommosse per ottenere l’indipendenza. La cosa interessante è che in opposizio-

ne al disfacimento e alla caduta dell’impero si assiste ad un fermento culturale, artistico, scientifico

fortissimo che produrrà effetti significativi nell’ambito della cultura mondiale. Secondo Jervis e

Bartolomei (2001) si è in presenza di una sorta di meccanismo di difesa di massa come la negazione

delle situazioni minacciose che provengono dall’esterno e ad una concentrazione di energie produt-

tive e creative all’interno di singoli individui e di gruppi che producono fenomeni culturali che a-

vranno ripercussioni sulla cultura non solo nazionale.

Un fenomeno artistico degno di rilievo è quello della secessione austriaca, che ha come esponen-

ti principali: Klimt, Hoffmann, Otto Wagner, Olbrich, Loos. Anche in ambito musicale si assiste ad

una vera e propria rivoluzione con la seconda scuola di Vienna e la musica dodecafonica di Scho-

enberg, Berg, Webern. In letteratura troviamo scrittori come Musil, Schnitzler, Hofmannstal. Perso-

naggi come Wittgenstein saranno considerati tra i filosofi più influenti del novecento. La psicoana-

lisi fa quindi la sua comparsa in un clima ricco di fermenti culturali molto eclettici. Questo clima

culturale è ben descritto da Stefan Zweig nel suo libro “Il mondo di ieri”, completato nel 1941. An-

che i romanzi di Schnitzler, medico e coetaneo di Freud, forniscono una ricca descrizione della

Vienna Fin de siècle, con i suoi protagonisti, spesso borderline, che vivono storie al limite tra realtà

e fantasie interiori.

La psicoanalisi può essere definita sia come una teoria della personalità, sia come una tecnica di

trattamento dei disturbi della personalità. In psicologia esistono approcci diversi rivolti allo studio

della personalità. Il primo è quello della psicologia sperimentale che nasce nelle Accademie, nelle

Università, utilizza come metodo l’esperimento di laboratorio e ha come esponenti principali

Wundt, Helmholtz, Pavlov, Thorndike. Il secondo è quello della teoria della personalità legata alla

psicopatologia, che utilizza come metodo privilegiato di studio l’esperienza clinica e la pratica me-

dico-psichiatrica e neurologica con pazienti affetti da disturbi psichiatrici; gli esponenti principali

sono Janet, Charcot, Freud, Jung, Adler. La teoria della personalità ha occupato un posto a sé nello

sviluppo della psicologia. La psicologia sperimentale studia i contenuti della psiche umana e le lo-

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calizzazioni cerebrali. Il teorico della personalità studia i sintomi nevrotici in assenza di lesioni or-

ganiche.

La psicoanalisi del’arte

La teoria psicologica sull’arte probabilmente più conosciuta ad un vasto pubblico è la psicoanali-

si dell’arte. E’ la teoria che ha avuto un maggiore impatto sia sull’analisi della pratica artistica, sia

come filone a cui si ricollega la critica d’arte. Ha avuto ripercussioni anche su fenomeni e correnti

artistiche come, per esempio, il surrealismo; senza la psicoanalisi il surrealismo (che tanta impor-

tanza attribuiva all’attività onirica e fantastica, surreale appunto) non sarebbe probabilmente mai

nato.

Sigmund Freud nasce nel 1856, studia medicina e neurologia. Le prime scoperte e le prime teo-

rizzazioni sulla teoria psicoanalitica, sull’inconscio e sul ruolo della sessualità iniziano con la sua

prima paziente, Anna O, affetta da nevrosi isterica. Il trattamento di Anna è stato affrontato con la

tecnica dell’ipnosi; la “trance” ipnotica raggiunta dalla paziente produceva uno stato grazie al quale

venivano riportate alla coscienza situazioni conflittuali che avevano provocato il sintomo isterico

(fobie o paralisi). In seguito Freud abbandonerà l’ipnosi per l’utilizzo delle libere associazioni e

l’interpretazione dei sogni. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio della tecnica psicoanaliti-

ca. Ciò che vorrei sottolineare è che Freud era completamente assorbito dalla sua attività clinica e

dalla riflessione per la costruzione di una teoria della personalità. Quando Freud si occupa di arte e

la prima volta avviene con il saggio su Leonardo del 1910, lo fa per cercare sostegno alla sua teoria

sulla personalità. Freud si è occupato di arte con gli stessi strumenti utilizzati nella sua pratica clini-

ca con i pazienti (libere associazioni, sogni, lapsus) con lo scopo di esplorare e analizzare la perso-

nalità dell’artista.

La psicoanalisi è universalmente conosciuta sia come una teoria della personalità che come una

tecnica di trattamento dei disturbi della personalità. Anche se il contributo della psicoanalisi è stato

principalmente rivolto alla psicopatologia, non è trascurabile l'apporto che Freud ha dato all'analisi

dell'arte secondo un approccio psicoanalitico.

La teoria psicoanalitica dell' arte non dimostra uno specifico interesse per l'opera d'arte come

oggetto autonomo, in quanto struttura formale, ma si occupa dei conflitti profondi, delle nevrosi,

delle motivazioni inconsce, degli impulsi libidici, interni alla personalità, intesi come forze che pos-

sono produrre quella tensione che spinge l'artista alla creazione e caratterizza il contenuto della sua

opera. Nell'introduzione al saggio “Mosè di Michelangelo”, Freud (1913) afferma che è interessato

ai contenuti dell’oggetto d'arte piuttosto che alle sue qualità formali. Egli si occupa dunque di stu-

diare la personalità dell' artista come premessa indispensabile per la creazione di oggetti d’arte.

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Direi che la cosa migliore per comprendere dall’interno l’approccio psicoanalitico all’arte è an-

dare a vedere direttamente due tra i saggi più affascinanti e interessanti (almeno a mio avviso),

quelli su Leonardo e sul Mosè di Michelangelo.

Il caso Leonardo

L’approccio psicoanalitico all'arte si fa solitamente risalire al saggio di Freud su Leonardo del

1910, uno dei saggi più interessanti ed esemplificativi dello strumento di lavoro che Freud ha im-

piegato per addentrarsi in un territorio così vasto e, per lui, in buona parte sconosciuto. Bisogna ini-

ziare col dire che, ovviamente, Leonardo non è stato un paziente di Freud, ciononostante, Freud se

ne occupa come se fosse quasi un suo paziente, andando a recuperare i pochi elementi autobiografi-

ci che Leonardo ci ha lasciato e in particolare un ricordo d'infanzia (infatti, il titolo completo del

saggio è “Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci”). Tale atteggiamento potrebbe essere consi-

derato un'offesa al genio di Leonardo ed un'operazione che potrebbe facilmente suscitare molta irri-

tazione da parte di coloro che stimano Leonardo come artista e scienziato. Freud è comunque con-

sapevole delle critiche che la sua analisi può rivolgergli ed infatti definisce il suo saggio un “ro-

manzo psicoanalitico”.

E’ possibile che Freud si occupi di psicoanalisi dell'arte per far conoscere se stesso e la psicoa-

nalisi anche al di fuori della ristretta cerchia degli adepti. C'è anche da dire che, in questi anni, ini-

ziano a manifestarsi i primi dissensi con Adler, a cui seguiranno subito dopo quelli con Jung

(Freud, 1914). Ci sono anche motivazioni di tipo personale, di tipo identificatorio, con Leonardo;

infatti forse non è un caso che l'età di Freud nel periodo in cui scrive il saggio sia all' incirca la stes-

sa età di Leonardo delle opere mature; alcuni autori, infatti, intravvedono in questo processo di i-

dentificazione, una situazione di controtransfert.

E’ sicuramente consapevole che la psicoanalisi potrebbe correre il rischio di dimostrarsi una di-

sciplina imperialistica che va ad occuparsi di fatti e persone nate e vissute in epoche diverse. E’

proprio Freud che afferma che il sogno non può essere conosciuto e interpretato se non in presenza

del sognatore; è nelle rivelazioni che il paziente sognatore fa che può essere dato senso e significato

nel passaggio tra contenuto latente e manifesto. Esiste una notevole differenza tra questo saggio su

Leonardo e gli altri casi clinici. Leonardo non è un paziente di Freud e questo potrebbe essere con-

siderata un’offesa per il genio di Leonardo. Freud, probabilmente è consapevole della portata uni-

versale della psicoanalisi, nata per affrontare problemi di ordine psicopatologico e sviluppatasi e

ampliatasi fino ad arrivare ad occuparsi di arte e di estetica. Con Leonardo si assiste ad un passag-

gio da una psicologia interessata all’isteria e alla patologia, ad una interessata alla creatività, alla

sublimazione, alla simbolizzazione.

Ci si domanda anche se si tratti di un caso clinico o teorico, dal momento che esiste chiaramente

una differenza con gli altri casi, più ortodossamente clinici. E' importante sottolineare che il periodo

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in cui viene scritto il saggio su Leonardo rappresenta un'epoca molto fertile per Freud; a questo la-

voro seguirà "Introduzione al narcisismo" (1914), "Il perturbante" (1919), "L'Io e l'Es'' (1922), ed

altri contributi di fondamentale importanza per il costituirsi della teoria psicoanalitica. Con il saggio

su Leonardo, Freud comincia a delineare il concetto di narcisismo e di identificazione narcisistica.

Con “Leonardo” si assiste ad un passaggio da una psicologia interessata all'isteria e alla patolo-

gia, ad una interessata alla creatività, alla sublimazione, alla simbolizzazione e ai meccanismi di di-

fesa che costituiscono gli elementi per la costruzione di fatti e opere di rilevanza culturale e sociale.

Nell’incipit del saggio “Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci” Freud scrive:

“Quando l’indagine psichiatrica, che di solito si accontenta di un materiale umano piuttosto fragile, si ac-

costa a uno dei rappresentanti del genere umano, non obbedisce ai motivi che così spesso le vengono at-

tribuiti dai profani. Non aspira a offuscare il risplendente e trascinare nella polvere il sublime…

…Nella convinzione che nessuno sia così grande da doversi vergognare di sottostare alle leggi che rego-

lano con uguale rigore il fare normale da quello patologico” (Freud, 1910).

In questa dichiarazione di intenti, Freud è consapevole del rischio che corre; andare ad

occuparsi di un personaggio del calibro di Leonardo, vissuto circa 500 anni prima di lui e

tentare con gli strumenti della psicoanalisi (che sta mettendo a punto in questo periodo) di fa-

re luce sugli aspetti profondi della personalità di Leonardo che lo hanno condotto a concepire

i suoi capolavori, in particolare uno: S. Anna la Vergine e il Bambino, che si trova al Louvre.

Un contributo fondamentale della psicoanalisi, riportato all’inizio del saggio, fa riferi-

mento all’abbattimento delle barriere tra ciò che è considerato patologico e ciò che invece è

normale. Nessun individuo e quindi neanche Leonardo, può essere considerato così grande

“da doversi vergognare di sottostare alle leggi che regolano con uguale rigore il fare normale

da quello patologico”. Esistono cioè delle leggi simili che regolano il comportamento norma-

le da quello patologico. E questo è un cambiamento di prospettiva sulla psicopatologia di

grande portata. Freud ci sta dicendo che non ci sono confini netti tra normalità e patologia;

una certa quantità di nevrosi appartiene anche a chi è considerato normale. Ed anche perso-

naggi geniali come Leonardo non si possono sottrarre a questa legge.

Il nucleo centrale della trattazione del saggio su Leonardo è costituito dalla domanda

che Freud si pone: perché solo una persona come Leonardo con la sua personale esperienza

biografica e familiare, due madri e una nonna, avesse potuto concepire il dipinto S. Anna la

Vergine e il bambino in una nuova organizzazione compositiva, con le due figure S. Anna e

la Vergine che sembrano fondersi e confondersi in un’unica figura? Pur essendo, la S. Anna e

la Vergine, madre e figlia non sembrano esserci differenze d’età.

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La tesi fondamentale che Freud (1910) cerca di dimostrare nella sua analisi è che alcuni

aspetti della biografia familiare di Leonardo abbiano potuto incidere profondamente nel con-

tenuto di alcune sue opere della maturità, in particolare "S. Anna, la Vergine e il Bambino":

la relazione spaziale tra i personaggi e gli aspetti simbolici e di mistero dell'espressione dei

loro volti, afferma Freud (1910) potrebbero essere concepiti solo da una persona che ha vis-

suto esperienze infantili come quelle di Leonardo. In questo caso la creazione artistica po-

trebbe essere intesa come un appagamento sostitutivo di una realtà invece dolorosa, attraver-

so il meccanismo di difesa della sublimazione.

Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Vergine e il Bambino, 1510-13, Louvre.

E’ probabilmente una sorta di situazione edipica che ha colpito Freud e lo ha interessato e appas-

sionato al caso Leonardo. L’originalità della composizione avrebbe a che fare con la storia

dell’infanzia di Leonardo. Leonardo era figlio naturale di una contadina, Caterina, con cui trascorse

i primi anni della sua infanzia. Tra i 3 e i 5 anni però Leonardo fu portato a casa del padre; lì visse

con la sua nonna paterna e la prima moglie del padre. Secondo Freud, la S. Anna e la Maria del di-

pinto rappresenterebbero, da un lato la matrigna e la nonna paterna, dall’altro la madre naturale e la

matrigna. Per questo motivo Freud rappresenterebbe le due donne come coetanee. Secondo Freud

attraverso un processo di condensazione, mediante cui si fondono elementi diversi appartenenti a

situazioni differenti, Leonardo avrebbe appunto condensato nelle figure di S. Anna e la Vergine le

figure importanti della sua infanzia, madre naturale, matrigna e nonna paterna.

L’interpretazione di Freud si riferisce alla connessione tra gli eventi della fanciullezza di Leo-

nardo così come Freud li ha ricostruiti e il dipinto di Leonardo in cui le due donne appaiono come

coetanee, mentre nella realtà sarebbero madre e figlia. Uno storico dell’arte, Shapiro, afferma che la

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S. Anna veniva spesso descritta e disegnata come giovane. Shapiro porta come esempio la S. Anna

di Luca di Tommè del 1367, dove la S. Anna sembra una replica ingrandita della figlia. Leonardo

però sembra essere stato il primo, almeno nella pittura italiana, ad aver rappresentato le due sante

come come coetanee nel dipinto in questione.

Luca di Tommè, Sant’Anna con la Madonna e Gesù Bambino (particolare), 1367.

In questa opera si può notare la più tradizionale iconografia con i personaggi collocati in posizione triangolare.

Freud e il Mosè di Michelangelo

Nel secondo saggio dedicato ad un altro protagonista dell’arte, Michelangelo, Freud affronta

l’analisi del gruppo scultureo di Mosè che fa parte del mausoleo commissionatogli dal papa Giulio

II che Michelangelo scolpì intorno al 1550, che si trova nella chiesa di S. Pietro in Vincoli a Roma.

E’ interessante leggere la dichiarazione di intenti che Freud fa all’inizio del saggio del 1913 che fa

riferimento al suo interesse per l’arte e a quali aspetti di questa predilige.

“Prometto che in fatto d’arte non sono un intenditore, ma un profano. Ho notato spesso che il contenuto

di un’opera d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le sue qualità formali e tecniche, alle

quali invece l’artista attribuisce un valore primario” (Freud, 1913, p. 299).

Freud afferma che il suo interesse è rivolto al contenuto, al significato comunicato dall’opera d’arte

e non alle sue qualità formali. Freud è molto chiaro in questo. Dice di non essere un intenditore

d’arte e dichiara quali saranno le sue linee di riflessione e speculazione in questo campo.

La teoria freudiana dell’arte è stata proprio per questo motivo molto criticata, proprio perché fa

riferimento solo al contenuto, prevalentemente latente della produzione artistica e non è suo interes-

se rivolgere l’attenzione agli aspetti formali e strutturali. Le qualità formali dell’opera, affermano

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gli studiosi non vengono mai prese in considerazione; gli elementi compositivi come la linea, la

forma, il colore del dipinto, la tecnica utilizzata non fanno parte del suo lessico di analisi. Questi a-

spetti che Freud ha trascurato sono importanti e per alcuni versi fondamentali sia per alcuni filoni

della critica d’arte, dell’estetica e anche per la psicologia della percezione che ha per oggetto di stu-

dio l’oggetto d’arte. Ma Freud conosce bene il suo limite “artistico” e infatti lo afferma chiaramente

nel passaggio riportato sopra. Non dimentichiamoci che Freud è e rimane un medico della psiche e

il suo interesse principale rimane costruire una teoria della personalità e mettere a punto una tecnica

di trattamento dei disturbi della personalità. Si può dire che Freud usava le opere d’arte e l’analisi

psicologica per trovare ulteriore sostegno teorico e di esemplificazione per lo sviluppo della teoria

psicoanalitica e per comprendere meglio le scoperte rivoluzionarie che in tema di personalità anda-

va facendo in questo periodo molto prolifico per la teoria psicoanalitica. Se pensiamo che i “Tre

saggi sulla sessualità” sono del 1905, “Leonardo” del 1910, “Il Narcisismo” del 1914, osserviamo

che sono degli anni fondativi per la teoria psicoanalitica.

Freud ebbe modo di apprezzare la scultura di Mosè in San Pietro in Vincoli durante un soggiorno

romano. Era solito recarsi quotidianamente per ammirare e riflettere sull’imponente figura del Mosè

di Michelangelo.

Nell’ammirare questa scultura, Freud, come anche altri studiosi di storia e critica d’arte, si pose

il problema del perché Michelangelo avesse voluto ritrarre Mosè proprio in questa posizione, seduto

con un piede appoggiato sul terreno e l’altro in posizione sollevata. E’ il Mosè che dopo la discesa

dal monte Sinai e dopo aver ricevuto le tavole della legge, scopre che il suo popolo l’aveva tradito

nell’adorazione di un vitello d’oro. L’interpretazione più diffusa della scultura è che Michelangelo

abbia voluto ritrarre Mosè esattamente nel momento immediatamente precedente il suo balzare in

piedi, irato, pronto a scagliare le tavole della legge che si infrangeranno per terra (come sostiene la

fonte biblica d’altronde). Freud afferma che :

“Ciò che ci avvince con tanta forza non può essere a mio modo di vedere se non l’intenzione dell’artista,

nella misura in cui egli sia riuscito a esprimere tale intenzione nella sua opera e a renderla intelligibile ai

nostri occhi. Mi rendo conto che non può trattarsi di una comprensione puramente intellettuale: deve de-

starsi in noi la stessa disposizione affettiva, la stessa costellazione psichica che ha sospinto l’artista alla

creazione” (Freud, 1913, p. 300).

Per sostenere la sua ipotesi, che cioè il Mosè scultoreo rappresenti non il momento prima della

manifestazione dell’ira, ma ciò che rimane di un movimento esaurito, Freud sostiene che è vero che

in un primo momento Mosè avrebbe voluto alzarsi all’improvviso per scagliarsi contro il suo popo-

lo traditore, manifestando così la sua forte collera, ma Mosè è rappresentato dopo che questo moto

d’ira si è placato e pertanto è il trattenimento di una passione, di un’emozione:

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“Così facendo egli ha impresso nella figura di Mosè qualcosa di nuovo, di sovrumano, e la possente mas-

sa corporea e la muscolatura formidabile del personaggio diventano il mezzo d’espressione fisica della

più alta impresa psichica possibile all’uomo: soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una

causa alla quale si è votati” (Freud, 1913, p. 322).

Nonostante Freud affermi nella sua dichiarazione di intenti riportata all’inizio che il suo interesse

è rivolto al contenuto a discapito degli aspetti formali, compie invece un’analisi molto minuziosa e

approfondita degli aspetti formali e plastici della scultura di Michelangelo. Fa fare addirittura ad un

disegnatore degli schizzi che ritraggano in successione il manifestarsi dell’azione in sequenza che

Mosè avrebbe compiuto:

“all’inizio quando la figura sedeva tranquilla, essa reggeva le tavole perpendicolarmente sotto il braccio

destro. La mano destra ne afferrava in basso i bordi e trovava un appoggio nella voluta che sporge in a-

vanti. Essendo questo il modo più facile di reggere le tavole, ciò spiega senz’altro perché erano capovol-

te. Poi venne il momento in cui la pace fu scossa dal tumulto. Mosè volse il capo in quella direzione e,

quando ebbe osservato la scena, il piede si preparò al balzo, la mano allentò la presa sulle tavole e risalì a

sinistra, afferrando la barba, quasi a esercitare la sua irruenza sul proprio corpo. Le tavole a questo punto

erano affidate alla pressione del braccio, che doveva premerle contro il torace. Ma questo modo di soste-

nerle non bastava, incominciarono a scivolare in avanti e in basso, il bordo superiore –che prima era te-

nuto orizzontalmente- si diresse in avanti all’ingiù; il bordo inferiore, privo di sostegno, si accostò con lo

spigolo anteriore al seggio” (Freud, 1913, p. 316).

La statua del Mosè nella sua collocazione nella Chiesa di S. Pietro in Vincoli, Roma

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Per evitare che le tavole si infrangano contro il terreno

“La mano destra torna indietro e abbandona la barba, una parte della quale è trascinata senza volere nella

stessa direzione; poi la mano riesce a raggiungere il bordo delle tavole e le sostiene vicino all’angolo po-

steriore, che è ora quello più in alto di tutti. Così lo strano insieme costituito dalla barba, dalla mano e

dalla copia di tavole appoggiate sullo spigolo – che sembra il frutto di una costrizione – deriva da

quell’unico movimento appassionato della mano e dalle sue conseguenze ben giustificate” (Freud, 1913,

p. 316).

“Ciò che noi scorgiamo in lui non è l’avvio a un’azione violenta, bensì il residuo di un movimento tra-

scorso. In un accesso d’ira egli voleva, dimentico delle tavole, balzare in piedi e vendicarsi; ma la tenta-

zione è stata superata, egli continuerà a star seduto frenando la collera, in un atteggiamento di dolore mi-

sto a disprezzo” (Freud, 1913, p. 319).

“ Il Mosè del passo biblico era già stato informato dell’idolatria del suo popolo e si era posto dalla parte

della dolcezza e dell’indulgenza; ciononostante quando si trovò al cospetto del vitello d’oro e della folla

danzante soggiacque a un improvviso accesso d’ira. Non ci sarebbe quindi da meravigliarsi se l’artista,

che voleva rappresentare la reazione dell’eroe a questa dolorosa sorpresa, si fosse reso indipendente, per

motivi interiori, dal testo biblico” (Freud, 1913, pp. 321-322).

In ogni caso la rappresentazione di Mosè seduto non ha riscontro nei versi della Bibbia e quindi

l’artista avrebbe potuto prendersi delle libertà rispetto alle fonti originali. Secondo Freud

“Michelangelo ha posto nel mausoleo del papa un altro Mosè, che va al di là del Mosè storico o tradizio-

nale….Ha impresso alla figura di Mosè qualcosa di nuovo, di sovrumano, e la possente massa corporea e

la muscolatura formidabile del personaggio diventano il mezzo d’espressione fisica della più alta impresa

possibile all’uomo: soggiogare la propria passione a vantaggio e in nome di una causa alla quale si è vo-

tati” (Freud, 1913, p. 322).

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Un’applicazione dell’approccio psicodinamico all’opera di Antonio Canova1

Il clima artistico e culturale del tardo Settecento, caratterizzato da un’estetica rivolta al recupero

di modelli derivati dall'antichità greca intesi come unica possibilità, per l'artista, di raggiungere la

bellezza ideale, influisce decisamente sull' opera di Antonio Canova (1757-1822).

La produzione artistica di Canova, sul piano stilistico e formale, ispirata da questo clima cultu-

rale può essere distinta in due periodi: il periodo giovanile, fino al 1780, segnato dal rococò e da un

virtuosismo proprio del Settecento, e il periodo successivo alla sua formazione romana degli anni

1779-1790 circa, in cui, per gradi, egli cerca di assumere in maniera forse anche acritica i nuovi i-

deali estetici propri di quell' ambiente.

Sotto l'aspetto contenutistico e tematico però, l'arte di Canova continua ad apparire avulsa da

ogni coinvolgimento emotivo che faccia riferimento alla sua vita personale, a cominciare dal proce-

dimento manuale che prevedeva l'impiego quasi esclusivo di artigiani terzi, incaricati di portare l'o-

pera fin quasi al completamento (procedimento da lui definito sublime esecuzione, per sottolineare

l'autonomia dell'opera rispetto alla sensibilità ed emotività di chi l'aveva concepita). La sua opera

inoltre, essendo così bene inserita nella corrente neoclassica, di cui condivide in pieno tematiche e

qualità formali, sembra tutta volta a riportare in vita quella che era considerata la più grande tra le

civiltà che la storia abbia conosciuto: la civiltà greca, ormai perduta per sempre. Il senso di perdita

e disperazione di fronte a tale grandezza scomparsa, o semplicemente di fronte a quanto il tempo e

la morte hanno sottratto (e proprio per il suo atteggiamento nuovo verso l'antico, il neoclassicismo è

considerato l'incipit d'un sentire romantico), è un elemento che Canova ha in stretta comunanza con

i neoclassici in generale. Nel caso di Canova, questo senso di perdita e di lutto, partendo dalla ten-

sione verso una civiltà scomparsa, avrà un naturale sviluppo nella meditazione sulla morte e sul de-

stino dell'uomo e può essere individuato nella sua opera ben prima che egli aderisse con coscienza

ai canoni winckelmanniani. Infatti produrrà tre sculture antecedenti al suo viaggio a Roma che sug-

geriscono già il dramma della perdita e del lutto, sebbene il tutto sembri risolversi sul piano dell'a-

zione e della teatralità, qualità proprie del tardo barocco.

Le opere precedenti il soggiorno romano

Nelle composizioni precedenti il soggiorno romano è prevalente l'influenza di marcate componenti

rococò; ma ciò che importa non è tanto la resa formale (cosa che ci ricondurrebbe a concepire la

produzione di Canova ancora divisa da quello spartiacque invalicabile consistito nel primo soggior-

no romano), quanto la scelta dei soggetti: ed ecco allora che - giovanissimo - esegue il primo lavoro

autonomo in pietra locale, "Orfeo ed Euridice", gruppo di due statue eseguito per il giardino di una

1 Questo lavoro su Canova è un estratto dall’articolo: Stefano Mastandrea e Raniero Piccoli (2002), Un approccio Psi-codinamico all’opera di Antonio Canova, pubblicato sulla Rivista di Psicologia dell’Arte, n. 13, 2002 (pp. 41-52).

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villa (fig. 1 e fig.2).

Secondo la trattazione mitologica, Orfeo, persa l'amata Euridice, scende nell' Averno e prega

Ade di restituirgliela alla vita. Il re dell'Oltretomba, commosso dalla supplica, accoglie la richiesta

a patto che risalendo verso il mondo dei vivi egli non si volti a guardarla fino a quando non saranno

ritornati alla luce. Ma Orfeo, per essere certo che Euridice lo segua, si volge anzi tempo ed a quel

punto ella sparirà tornando negli inferi per sempre. La scultura raffigura Orfeo che si dispera alla

vista d'Euridice afferrata dalle mani dei morti che la ricondurranno nel regno delle ombre, poiché

comprende che a causa d'un suo gesto ella gli è stata tolta definitivamente.

Fig.1. Antonio Canova, Euridice, 1773-1775, Fig. 2. Antonio Canova, Orfeo, 1775- 1776.

Venezia, Museo Correr Correr Venezia, Museo Correr

Altro lavoro appartenente al primo periodo è la sua "pièce de reception" in terracotta del 1778 (fig.

3) iniziata in marmo e non completata per il trasferimento a Roma: "Apollo e Dafne". Anche qui

Dafne sparirà dagli occhi d'Apollo trasformandosi in alloro: la piccola terracotta superstite mostra

Apollo sgomento di fronte ad una perdita inaspettata.

Ed arriviamo al lavoro forse più noto fra i tre, "Dedalo ed Icaro" (fig. 4). In riferimento al mito, De-

dalo, padre di Icaro, causa involontariamente la morte al figlio, nel tentativo di insegnargli a volare,

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applicando un paio di ali al suo corpo.

Come tentare di spiegare la costante riproposizione di tragica perdita che, sotto le forme del mi-

to, pervade la produzione giovanile di Canova? E' lecito vedere un legame tra tali opere, concepite

secondo criteri ancora molto teatrali e rococò, con i monumenti funebri che egli realizzerà in segui-

to per tutta la vita, segnati dalla composta tristezza che è elemento caratterizzante il neoclassicismo?

Fig. 3. Antonio Canova, Apollo (terracotta), 1778. Venezia, Gallerie dell’Accademia

Un approccio psicodinamico all'opera di Canova

Il presente contributo consiste in un tentativo, limitato e parziale, di comprendere come alcuni a-

spetti biografici della vita di Antonio Canova, seguendo un approccio di tipo psicodinamico, possa-

no aver orientato ed influenzato il contenuto di alcune sue opere e precisamente, Dedalo e Icaro e il

Monumento funebre a Maria Cristina d'Austria.

Nonostante le notizie sull'infanzia di Canova di cui disponiamo siano abbastanza scarse si può

tentare di avanzare un'ipotesi iniziale che dovrà essere, in seguito, sostenuta da più approfonditi ac-

certamenti.

Nel "Dedalo ed Icaro", già Argan intravvedeva una componente autobiografica; vi scorgeva una

"metafora della scultura e forse un'allegoria che Canova avrebbe dedicato a se stesso scultore" (A-

polloni, 1992, p. 10).

L'opera mostra Dedalo nel momento in cui applica le ali di cera alle braccia del figlio: ai suoi piedi

sono posti, come nota Argan (cit. in Apolloni, 1992, p.10), un mazzuolo ed uno scalpello, ed in ef-

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fetti Dedalo era considerato nella tradizione antica il primo degli scultori. Il mazzuolo e lo scalpello

alluderebbero dunque al fatto che Dedalo era prima di tutto scultore ammirato. Ma se seguiamo il

mito fino alla fine scopriamo che egli, morto il figlio, per la disperazione eseguì una scultura nella

quale raffigurava se stesso assieme ad Icaro. Si trattava dunque d'una specie d'omaggio funebre e da

questo punto di vista la statua di Canova non è la semplice rappresentazione d'un qualsivoglia mo-

mento della storia di Dedalo ed Icaro, ma la riproposizione immaginaria di quella che, nel mito, era

ritenuta una scultura reale: un monumento funebre per l'esattezza.

Fig. 4. Antonio Canova, Dedalo e Icaro, 1777-1779. Venezia, Museo Correr. L’immagine raffigura la collocazione attuale della statua al museo Correr.

In tal senso il mazzuolo e lo scalpello non sono presenti in quanto attributi di Dedalo artista, ma vo-

gliono sottolineare che quella raffigurata appunto non è una scena che si sta svolgendo sotto i nostri

occhi, bensì proprio una scultura, un monumento ad Icaro che il padre scultore ha realmente innal-

zato e che Canova, a distanza di decine di secoli, ha riproposto in quanto monumento: identificando

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così se stesso con Dedalo "primo tra gli artisti". Egli ripeté il gesto di Fidia quando aveva rappre-

sentato se stesso, in una scultura di bronzo posta nell' Acropoli di Atene, nei panni di Dedalo.

Ma c'è di più. Infatti, se tale era forse la motivazione dichiarata che ha portato al concepimento del-

l'opera nei termini suddetti, osservando la scena per se stessa si può notare la presenza d'una disar-

monia rispetto ai ruoli attribuiti ai due personaggi, anche se non si riesce subito ad afferrare questa

contraddizione. Se si osservano attentamente i due protagonisti della scultura di Canova, si evince

in maniera molto evidente che si tratta della raffigurazione di un vecchio e di un bambino; in realtà

Dedalo ed Icaro sono padre e figlio. Canova ha raffigurato, invece, un giovi netto ed un vecchio che

avrebbero potuto essere nonno e nipote.

Se si esamina l'iconografia tradizionale sul mito di Dedalo e Icaro, si può notare innanzitutto che

esistono pochissime rappresentazioni sia in pittura che in scultura (solo in età romantica il soggetto

risvegliava l'interesse degli artisti che vi scorgevano una metafora delle utopie ed ideali dell'uomo

destinati a cadere miseramente). La seconda cosa da sottolineare, più importante al fine di capire

l'originalità con cui Canova ha affrontato il soggetto, è che la rappresentazione tradizionale, eredita-

ta dal!' antichità, mette in scena un vecchio ed un giovane uomo. La più nota di Icaro è la statua di

tipo policleteo che si trova al Museo dei Conservatori a Roma, in cui Icaro è rappresentato non co-

me un bambino, ma come un giovane atleta. Anche lo scultore francese Slodtz, contemporaneo di

Canova, gli attribuiva, nella scultura del 1743, le sembianze di giovane uomo. In altre rappresenta-

zioni, Dedalo e Icaro sono rappresentati come un adulto e un bambino; in ogni caso si osserva sem-

pre una differenza d'età che li qualifica come padre e figlio.

Ora però, ritorniamo alla scarsa biografia di Canova che ci è giunta. Sappiamo che Canova rimase

orfano di padre all'età di quattro anni; fu abbandonato dalla madre che andò via da Possagno e che

lo affidò alle cure del nonno paterno Pasino, con cui crebbe. Se osserviamo attentamente la scultu-

ra, notiamo che i due personaggi, Dedalo e Icaro, padre e figlio nella realtà, sono rappresentati, De-

dalo come un vecchio e Icaro come un giovi netto, in una relazione nonno/nipote come si riscontra

nell' esperienza biografica di Canova. Si potrebbe leggere un processo di doppia identificazione che

Canova mette in atto: da un lato, una identificazione con Dedalo, primo scultore in quanto anche

egli, Canova, scultore; dall'altro una identificazione con Icaro in quanto giovane figlio di Dedalo. E'

interessante osservare, appunto, che nella scultura i due personaggi, Dedalo e Icaro, padre e figlio

nella realtà, sono rappresentati, Dedalo come un vecchio e Icaro come un giovinetto. L'esperienza

autobiografica di Canova (il fatto che sia cresciuto col nonno) potrebbe aver indotto Canova ad uti-

lizzare questi aspetti personali nella rappresentazione scultorea.

I sepolcri

All'interno del percorso artistico di Canova è possibile leggere la seguente parabola evolutiva. Ad

una prima fase in cui veniva proposta in maniera enfatica e poco articolata la tristezza di fronte al-

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l'abbandono, segue una rappresentazione più comples-

sa che corrisponde ad un'elaborazione successiva, tutta vissuta a testimonianza d'un nuovo equili-

brio che si va facendo strada, che sembra concentrarsi nella figura del sepolcro o monumento fune-

rario, espressione d'una pietà non più preda della disperazione. In effetti, questa successiva elabora-

zione trova attuazione nella nuova versione (compiuta a Roma nel 1782) che Canova fornisce del

mito di Dafne, dove egli sembra dare voce al sentimento di pietà e commemorazione con forza an-

cora maggiore rispetto al "Dedalo ed Icaro": non più l' Apollo disperato della prima versione (fig.3),

ma nell'atto di consacrare l'alloro al proprio culto dando per tale via a Dafne (trasformata in alloro)

memoria imperitura (Apollo viene presentato mentre incorona se stesso con le fronde della pianta -

fig. 5).

Fig. 5. Antonio Canova. Apollo che si incorona, 1782. Bahamas, Collezione George Encil.

Canova, in seguito, nei monumenti funebri e nelle steli, preferirà sempre (dimostrandosi qui ade-

rente ai canoni neocIassici) atteggiare le sue figure in pose pacificate pur se dolenti di fronte alla

scomparsa della vita umana. Quindi, il sepolcro come luogo degli affetti, della pietà, e soprattutto

della memoria. La domanda che ci poniamo è come mai nella figura del sepolcro egli trovi quest'e-

quilibrio. Un altro dato biografico può aiutarci a formulare la risposta. Oltre al fatto che, scalpellino

fin da piccolo, gli era consueto fornire fregi per sepolture o piccole lapidi che potrebbero averlo le-

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gato affettivamente ad un tale lavoro (il luogo, zona di cave, richiedeva simile manodopera), merita

ricordare la sua data di nascita: il primo novembre, festa di tutti i Santi.

In tale giorno si propone una visione gioiosa del destino dell'uomo e si rende omaggio ai morti,

considerati beati. Quindi, il legame che ognuno di noi ha con il giorno della propria nascita (che

veniva caricato forse, per Canova, da quest'ulteriore significato riguardante la grandezza che atten-

de l'uomo oltrepassata la soglia della morte, rinforzato dal vivere egli in una società non laicizzata

ed anzi pervasa dall'elemento religioso, della quale i tempi venivano scanditi dal calendario liturgi-

co) può averI o condotto ad un'identificazione ancora più intensa con una condizione di lutto, riela-

borata però in termini di memoria ed omaggio per cui il giorno della morte diviene il "dies natalis".

E questo anche a prescindere dalla religiosità personale di Canova poiché la morte trasfigura l'uomo

anche in assenza della presenza divina, in quanto corridoio che lo consegnerà alla storia. Ecco allo-

ra che il monumento funebre riusciva ad unire le due componenti: espressione di tristezza e pietà,

ma anche gesto di commemorazione e glorificazione.

La scultura è dunque l'arte deputata a celebrare la memoria rendendo immortale chi è scomparso

per sempre. E Canova stesso, nel descrivere il procedimento attraverso cui realizzava una statua,

trasformava le diverse fasi della scultura in una metafora che dà la propria luce alle fondamentali

tappe del destino umano, e diceva: "la creta è la vita, il gesso la morte, il marmo la resurrezione".

Ancora una volta dunque, la scultura è presentata come attività che consente di superare il lutto in

quanto porta a compiere metaforicamente, ad ogni esecuzione, il suddetto destino: anche lo scultore

arriva a rivestire le figure che crea nel marmo di "un corpo incorruttibile", come dice san Paolo nel-

la seconda lettera ai Corinzi che veniva letta il giorno della festa di tutti i Santi.

Il monumento a Maria Cristina d'Austria

Il monumento funebre a Maria Cristina d'Asburgo (fig. 6) è considerato da sempre il capolavoro di

Canova e viene indicato come una delle più autentiche realizzazioni neoclassiche.

L'opera è il punto d'arrivo di tutta una serie di monumenti funebri, iniziatasi con la commissione di

quello a Clemente XIV ora nella chiesa dei Santi Apostoli (fig. 7) e continuata con un numero ele-

vato di monumenti di tale tipo.

Data la fama raggiunta, Canova avrà avuto di certo grande quantità di commissioni, ma va ricorda-

to, come affermano Marton, P., Barbieri, F., Pavan, M. (1990), che in alcuni casi prendeva l'inizia-

tiva "per suo privato piacere" come egli stesso comunicava (è il caso del monumento commemora-

tivo in onore dell'ammiraglio Nelson, lasciato poi a livello di idea iniziale).

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Fig. 6. Antonio Canova, Monumento funebre di Maria Cristina d’Austria, 1798-1805. Vienna, Augustinekirche.

Nella tomba di Maria Cristina d'Asburgo, alla presenza ormai canonica delle piangenti, s'aggiunge

l'elemento di novità assoluta e vero protagonista dell'opera: una gigantesca sagoma piramidale, che

fa da cornice alla processione di donne recanti un'urna con le ceneri del defunto. Le figure velate si

dirigono verso la piramide dalla cui base s'apre una porta che la trasforma e la identifica con il se-

polcro stesso. Canova, per valorizzare tale indicazione, spogliò le figure femminili d'ogni attributo

allegorico e le concepì nel semplice atto di recarsi verso di esso con le ceneri in mano: 1'osservatore

non doveva venire distratto da nulla che potesse turbare questa rappresentazione di "processione

verso il sepolcro". Ma qui l'azione delle piangenti si carica d'un significato universale: la piramide

non è più sepolcro legato alla memoria d'una persona, perché la porta buia e misteriosa indica l'ac-

cesso ad un altro mondo verso cui l'umanità intera, al pari dei personaggi del corteo, s'avvia ineso-

rabilmente. Una sola figura della scena non prende parte al seguito: una creatura fantastica, non

umana, un genio alato che, seduto nella parte opposta a quella da cui provengono le supplici, pare lì

in attesa di rinchiudere la porta una volta che tutti vi abbiano fatto ingresso, per sempre.

Per quale motivo Canova ha scelto proprio la piramide quale forma da dare al sepolcro? Di sicuro il

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prototipo deve essergli stato suggerito quando, durante il primo soggiorno a Roma, vide la piramide

Cestia. Ma, come afferma Handler Spitz (1985), se è comprensibile che un artista possa mostrare

grande interesse ed ammirazione per un' opera del passato, è necessario capire le ragioni profonde

del fascino che essa risveglia in lui. La piramide Cestia, infatti, era lì per tutti, ma solo Canova ebbe

l'intuizione per farla propria. La piramide è considerata un simbolo funebre fin dall' antico Egitto,

ma ancor prima di costituire un mausoleo era deputata a luogo di culto dove l'uomo potesse comu-

nicare con la divinità (lo dimostrano gli Ziggurat del Medio Oriente e dell' America centrale). La

piramide potrebbe simbolicamente rappresentare una montagna, punto d'incontro tra cielo e terra,

tra divino ed umano, ma anche un sepolcro.

Se pensiamo ai luoghi dell'infanzia di Canova notiamo che nelle immediate vicinanze di Possagno,

un paese situato alle pendici del monte Grappa, si trova un monte che ai suoi tempi era cava di pie-

tra locale (lo ricorda il nome del paese che gli sorge alla base: Cavaso), ed il nome del monte è tanto

curioso quanto significativo: "Tomba".

E' possibile quindi che, ad un livello preconscio, la sua mente abbia associato la piramide, in quanto

semplificazione grafica, alla montagna; a quella montagna che faceva parte della sua infanzia e che

porta il nome di Tomba; a questo punto la parola Tomba, perso il ruolo di nome proprio ed assunta

quale cosa, torna ad essere la piramide Cestia la cui forma allude a quella di un monte, ma di fatto

(Canova stesso lo sa) è una tomba. Così il cerchio si chiude per un meccanismo in cui gli oggetti al-

ludono per similitudine d'aspetto esteriore ad altri oggetti i quali portano un nome che richiama altri

significati, in forza dei processi di condensazione e spostamento che determinano i modi del pensie-

ro inconscio.

In questo modo tutto viene ricondotto ad un' infanzia segnata dalla morte e dall'abbandono: egli le-

ga un'ennesima volta scultura e lutto chiamando sempre la prima a celebrare o, semplicemente, par-

lare del secondo. Il marmo, materiale per eccellenza della scultura, torna a rievocare la montagna da

cui viene estratto assumendo le forme d'una piramide che però si rivela un sepolcro. Possiamo dire

che Canova tiene un "discorso sulla scultura stessa": la fa derivare e la lega inscindibilmente ad un

sentimento di morte rappresentato con il sepolcro.

Anche per tale motivo, forse, Canova ha saputo e potuto riproporre e reinventare un'architettura ar-

cheologica, la piramide, facendone il punto nodale di alcune opere emblematiche della sua arte e

simbolo del neoclassicismo. E con una scelta che può essere stata inconsapevole, ma quanto mai in-

dovinata, questa piramide, o, per meglio dire, questo monte-tomba è stato ripreso e posto a sfondo

del suo monumento funebre nella chiesa dei Frari (fig. 7).

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Fig. 7. Giuseppe Fabris, Rinaldo Rinaldi, Luigi Zandomeneghi e altri, Cenotafio del cuore di Canova, 1822-1827.

Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari

Come afferma Gombrich (1966), nel commentare il pensiero di Freud sull'arte in generale, portando

i processi inconsci ad un livello che li pone in condizione di potersi adeguare alla realtà (che attinge

a simboli che sono patrimonio comune di una cultura), possiamo dire che Canova sia riuscito Ha

dare ad un'idea preconscia, cioè comunicabile, una struttura derivante da meccanismi inconsci"

(p.27).

Bibliografia

Apolloni, M. F (1992). Canova. Art Dossier, 68, Giunti, Firenze. Freud S. (1910). Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci. In Id., Opere, voI. VI (pp. 207-284). Boringhieri, Torino,

1981. Freud S. (1913). Il Mosè di Michelangelo. In Id., Opere, voI. VII (pp. 293-328). Boringhieri, Torino, 1982. Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. In Id., Opere, voI. VII (pp. 439-472). Boringhieri, Torino, 1982. Freud S. (1914). Per la storia del movimento psicoanalitico. In Id., Opere, voI. VII (pp. 375-438). Boringhieri, Torino,

1982. Freud S. (1919). Il perturbante. In Id., Opere, voI. IX (pp. 77-118). Boringhieri, Torino, 1983. Freud S. (1922). L'Io

e L'Es. In Id., Opere, voI. IX (pp. 469-520). Boringhieri, Torino, 1983. Gombrich E. H. (1966). Freud e la psico-logia dell 'arte. Einaudi, Torino, 1967.

Handler Spitz E. (1985). Arte e psiche. Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1993. Marton, P., Barbieri, F., Pavan, M. (1990). Canova. Biblos, Padova.

Conclusioni

Secondo Freud il vero scopo dell’arte e dell’attività creativa artistica è, per l’artista, non tanto il

raggiungimento della bellezza, quanto il compito di liberare le tensioni e i conflitti presenti nel suo

inconscio (Hauser, 1969). Gli aspetti formali sono un pretesto per soddisfare principalmente gli a-

spetti istintuali e pulsionali. Il processo creativo artistico è visto come una forma di abreazione (sca-

rica energetica emozionale associata al trauma) che provoca un passaggio delle rappresentazioni

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psichiche che risiedono nell’inconscio nella sfera della consapevolezza. L’attività creativa fa princi-

palmente leva sul meccanismo di difesa della sublimazione; la sublimazione è quel processo psichi-

co che consiste nella deviazione della pulsione libidica rispetto alla sua meta naturale verso un ap-

pagamento indiretto accettabile socialmente; per esempio, non potendo mettere in atto un compor-

tamento di violenza fisica nei confronti di un individuo, una persona può dare sfogo a tale pulsione

aggressiva in una partita di tennis in cui il bersaglio è colpire la palla, trasformando dunque

l’aggressività nella produzione di energia fisica. Così anche la pulsione creatrice artistica è frutto di

una deviazione rispetto al suo percorso istintuale e naturale; non potendo raggiungere l’oggetto del-

la pulsione libidica istintuale, l’artista sublima questa pulsione attraverso l’attività creativa che lo

condurrà alla creazione dell’oggetto artistico. La sublimazione in sé, però, non può costituire la

spiegazione della capacità creativa dell’artista. Come afferma Hauser (1969), la sublimazione può

essere il meccanismo di difesa utilizzato dall’artista per mettere in atto la sua pulsione creativa, ma

la sublimazione in sé non è garanzia dell’artisticità del prodotto. La qualità del manufatto artistico

non può essere spiegata solo in termini di passaggio delle pulsioni psicologiche da una sfera ad

un’altra, dalla rinuncia all’investimento libidico dell’oggetto che libera la pulsione creativa che

conduce l’artista al manufatto finale. La sublimazione può essere un fattore importante e di base che

spinge all’atto creativo, ma non corrisponde e non si identifica con l’atto creativo stesso.

L’arte, secondo la psicoanalisi freudiana è vista come una forma di nevrosi; sia l’arte che la ne-

vrosi sarebbero considerate forme di un errato adattamento alla realtà. Forme diverse di disadatta-

mento alla vita quotidiana potrebbero trovare un adattamento, una sorta di compensazione psicolo-

gica nell’arte; così come, alla stessa stregua, la persona nevrotica opera un ritiro dalla spiacevolezza

della vita e della realtà per andare incontro alla nevrosi. Una condizione fondamentale per ottenere

gratificazione attraverso l’arte è avere difficoltà nevrotica nella vita di tutti i giorni. Freud nel sag-

gio “Il poeta e la fantasia” afferma che “chi è felice non fantastica mai, fantastica solo che è inappa-

gato”. Anche Proust sosteneva che tutto ciò che è grande nel mondo lo dobbiamo ai nevrotici.

L’arte dunque come modalità di sublimazione, di simbolizzazione e di appagamento sostitutivo.

Il piacere che l’artista ricava dalla creazione di manufatti è interpretato come una sostituzione di

qualcos’altro, di qualcosa che non è possibile raggiungere in maniera pulsionale (l’oggetto di inve-

stimento libidico) e dunque viene operato il meccanismo di difesa della sublimazione. Lo studio

della sublimazione, della creatività e dell’arte è funzionale per lo sviluppo della teoria psicoanalitica

e dello studio della personalità. Infatti dopo pochi anni Freud scriverà l’importante saggio sul narci-

sismo che terrà conto degli studi compiuti in tema di sublimazione attraverso l’arte. Freud si occupa

dunque in maniera parziale di arte, lo fa da una prospettiva molto specifica perché proprio attraver-

so questa visione può studiare e osservare gli aspetti che gli interessano maggiormente. Non vuole

sostituirsi agli storici e ai critici d’arte e infatti afferma più volte la sua limitata conoscenza del fe-

nomeno artistico.

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L’aspetto rilevante e significativo dell’approccio psicoanalitico all’arte è l’aver posto

l’attenzione sui processi inconsci dell’esperienza artisitica per quanto riguarda in particolare la rela-

zione tra autore e creazione artistica, proponendo un approccio molto affascinante e interessante.

Freud ha dedicato numerosi saggi, oltre all’arte visiva anche allo studio della letteratura promuo-

vendo un interessante filone di studi sull’arte e la letteratura che ha avuto importanti sviluppi anche

da parte degli psicoanalisti post freudiani.

Bisogna però dire, in conclusione, che quell’ambito di studio che Freud ha trascurato, le caratte-

ristiche strutturali e gli aspetti compositivi dell’opera d’arte sono centrali per gli storici, per i critici

e anche per gli psicologi della percezione che si occupano di arte.