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UNIVERSITÀ L’ORIENTALE ANNO ACCADEMICO 2008/2009 ANTROPOLOGIA DELLE RELAZIONI ETNICHE PIERO VERENI MATERIALI DIDATTICI

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UNIVERSITÀ L’ORIENTALE

ANNO ACCADEMICO 2008/2009

ANTROPOLOGIA DELLE RELAZIONI ETNICHE

PIERO VERENI

MATERIALI DIDATTICI

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ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – PIERO VERENI PER L’ORIENTALE

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ANTROPOLOGIA CULTURALE DELLE RELAZIONI ETNICHE – M-DEA/01PIERO VERENIProgramma e calendario

Il modulo seguente si pone come scopo preparare gli studenti ad articolare in maniera rigorosa e non impressionistica i temi principali del dibattito corrente sull’etnicità e le relazioni etniche. A questo fine, nella prima parte verranno presentate alcune questioni teoriche e “astratte” sulle forme dell’appartenenza e sul ruolo dell’“altro” nella definizione dell’identità. Nella seconda parte verranno poi presentati casi specifici, attinenti al contesto italiano e al quadro mondiale.

Le lezioni di marzo sono mutuate dal modulo di Etnologia (prof. Chiauzzi) e relativo programma

Le lezioni frontali del dottor Vereni inizieranno con il seguente calendario, giorno 10 marzo aula Stazione marittima ore 10-12.

DATA ARGOMENTO TESTO DI RIFERIMENTO

1. 10 marzo ore 10 Il concetto antropologico di cultura PRIMA PARTE

Vereni Dispensa docente

2. 17 marzo ore 10 Il concetto antropologico di cultura SECONDA PARTE

Vereni Dispense docente

3. 24 marzo ore 10 Relativismo e razionalismo in antropologia

Geertz, Anti-anti-relativismo

4. 31 marzo ore 10 La critica postcoloniale Young Il postcolonialismo5. 7 aprile ore 10 La critica postcoloniale Young Il postcolonialismo6. 21 aprile ore 10 Identità albanese nella diaspora Vereni Dispensa docente7. 28 aprile ore 10 Il contatto con l’altro Geertz, Gli usi della diversità8. 05 maggio ore 10 Politica del riconoscimento

PRIMA PARTEHabermas & Taylor

Multiculturalismo9. 12 maggio ore 10 Politica del riconoscimento

SECONDA PARTEHabermas & Taylor

Multiculturalismo10 19 maggio ore 10 Critica del comunitarismo Habermas & Taylor

Multiculturalismo

Programma d’esame Dispensa Vereni (presso le copisterie). Comprende le fotocopie di:

Clifford Geertz, “Gli usi della diversità”Clifford Geertz, “Anti-anti relativismo”

Robert J.C. Young, Introduzione al postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005 Jurgen Habermas e Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli,

1998.A questo si deve aggiungere dal programma di Etnologia (prof. Chiauzzi) il volume Sentimenti velati, di Lila

Abu-Lughod. Ulteriori informazioni verranno date a lezione.

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APPUNTI PER LA PREPARAZIONE DEL MODULO DI SOCIOLOGIA DELLE RELAZIONI ETNICHE 2008 – PIERO VERENI - L’ORIENTALE

1. ALCUNI CONCETTI DI BASE

Nelle prime lezioni abbiamo articolato alcuni aspetti basilari dell’antropologia culturale, insistendo esplicitamente su questi argomenti:

1) il concetto antropologico di cultura2) definizione e funzione dell’etnocentrismo3) il relativismo culturale e il suo senso antropologico4) la riflessività5) la ricerca sul campo

1.1. LA CULTURA

Per quanto riguarda a), abbiamo detto che gli antropologi considerano cultura l’insieme dei comportamenti, delle pratiche dei manufatti e di qualunque altra “cosa” prodotta dall’uomo e dotata di queste tre caratteristiche:

1. è appresa2. è condivisa3. ha una componente di natura simbolica

1.1.A. LA CULTURA È APPRESA

Per quanto riguarda la NATURA APPRESA della cultura, ciò significa che non è cultura qualunque COMPORTAMENTO INNATO dell’uomo (come la suzione dei neonati) e abbiamo visto come lo spazio dei comportamenti naturali (innati) negli esseri umani sia estremamente ridotto, tanto che anche la postura eretta (camminare su due piedi) deve in qualche modo essere “attivata” dal gruppo sociale nel quale siamo inseriti (i bambini “selvaggi” allevati da animali non praticano la postura eretta). Mentre cioè gli altri animali si affidano in massima misura a comportamenti innati, che cioè fanno parte del loro corredo genetico e che possono essere trasmessi direttamente alla prole per via biologica (un’ape operaia non impara a raccogliere il nettare, come non impara a fare le cellette esagonali: è il suo modo naturale di comportarsi, e non può fare altro), gli esseri umani devono APPRENDERE (quasi) tutto quello che fanno, e praticamente tutto quello che pensano e dicono. In altre parole, la cultura ha la stessa funzione che ha

negli animali il corredo genetico (trasmettere un sapere: il gatto trasmette alla prole la capacità di ritrarre gli artigli e di miagolare), ma si affida all’apprendimento, non alla biologia, e quindi può mutare in tempi infinitamente più rapidi, rivelandosi uno strumento di adattamento senza pari. Se cioè un determinato comportamento innato si rivela non più adattivo (cioè non più adeguato a garantire la sopravvivenza per la specie che lo pratica) può portare all’estinzione di quella specie. Immaginate cosa succederebbe alle api se, per qualche ragione, sparissero i fiori… La cultura invece ha una flessibilità straordinaria, proprio perché la sua trasmissione non passa per via genetica ma attraverso l’apprendimento. Immaginate che tra le sfortunate api rimaste senza fiori ce ne sia una che per qualche mutazione genetica ha imparato a sopravvivere nutrendosi di qualcos’altro (poniamo, di grano). Certo, quell’ape potrà sopravvivere, ma per poter riprodurre questo comportamento (e per far sopravvivere le api come specie) dovrebbe accoppiarsi e sperare di avere un numero adeguato di successori con il suo stesso corredo genetico (in grado cioè di nutrirsi con il grano invece che con il polline dei fiori). Immaginate invece ora un gruppo umano che si sia specializzato nella caccia ai conigli, e che per qualche ragione i conigli spariscano d’improvviso. Immaginate inoltre che tra i membri di quel gruppo umano uno abbia imparato (seppure casualmente) a pescare o a procurarsi comunque del cibo diverso dai conigli. Le possibilità che questo nuovo comportamento si trasmetta al resto del gruppo sono infinitamente maggiori che nel caso del mutamento comportamentale delle api. Lo “scopritore della pesca”, infatti, non deve aspettare di riprodursi e sperare che la sua prole abbia ereditato le sue competenze in fatto di ami e di lenze, ma può “semplicemente” radunare i membri del suo gruppo e INSEGNARE loro come si pesca. In questo modo, un comportamento nuovo e adattivo può trasmettersi in tempi portentosamente rapidi (se comparati ai tempi della biologia) e attraverso individui diversissimi tra loro (dato che non serve assolutamente che abbiano lo stesso corredo genetico per condividere quel sapere). Ma se un nuovo comportamento può diffondersi in tempi rapidissimi, altrettanto rapidamente può andare perduto se non viene costantemente rinnovata la sua trasmissione alle nuove generazioni. Tutti voi, ad esempio, sapete che in Olanda ci sono moltissime biciclette e molti servizi urbani sono organizzati proprio per facilitare gli spostamenti in bici. Questo comportamento si è diffuso soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, divenendo un segno distintivo dell’Olanda (soprattutto nelle sue aree urbane) in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta. Ciò significa che le persone che oggi hanno all’incirca cinquant’anni sono cresciute in un ambiente sociale e

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culturale per cui andare in bicicletta era considerato non solo normale e sano, ma anche “giusto”. Le generazioni più giovani, quelle che hanno all’incirca la vostra età, premono invece perché nei centri storici venga consentito un accesso più semplice alle automobili e ai motocicli: se l’Olanda cioè non trova un modo per trasmettere alle nuove generazioni la “giustezza” dell’andare in bicicletta, è possibile che questo comportamento subisca un drastico calo nei prossimi anni, mano a mano che i giovani saliranno nelle stanze delle amministrazioni e della politica. L’esempio serve solo a far notare come un comportamento, per quanto possa apparire vantaggioso, non viene mantenuto “automaticamente” tra le generazioni, ma ha bisogno di essere confermato e rinforzato ad ogni passaggio generazionale. La trasmissione culturale, quindi, si presente come estremamente flessibile e mutevole: una generazione può rifiutare l’acquisizione della generazione immediatamente precedente.

Il fatto che gli individui che apprendono il nuovo comportamento siano estremamente diversi tra di loro (ci sarà quello forte e quello timido, quello intraprendente e quello pigro) costituisce un ulteriore fattore di adattamento potenziale della cultura. Se infatti lo stesso insegnamento è appreso da persone diverse tra loro, è probabile che verrà elaborato in modi diversi: qualcuno non saprà che farsene di quell’insegnamento, altri lo ripeteranno pedissequamente, altri ancora però vi apporteranno delle modifiche (abbiamo sempre pescato con gli ami fatti così, ma se li facciamo cosà peschiamo di più) che possono essere vantaggiose e che possono “tornare” anche all’emissario di partenza (quello che aveva insegnato a pescare per primo). Nel caso delle api, invece, il sistema standard della trasmissione del sapere (come si cava del cibo dal grano) è fortemente omogeneizzante: è bene che chi eredita quel sapere lo erediti per intero e senza modifiche. Mentre cioè la trasmissione per via biologica tende all’uniformazione entro la specie (un eccesso di mutamento genetico può produrre un’incompatibilità riproduttiva e quindi una nuova specie, che farà la sua storia evolutiva separata dalla specie da cui è nata), la trasmissione culturale accetta un grado pressoché infinito di variazione intraspecie. Detto altrimenti, mentre un’ape che impara a mangiare il grano è probabile che smetta di essere un’ape (magari per cominciare a somigliare a una cavalletta), un essere umano che impara pratiche culturali diverse diventa “ancora più uomo”, e non corre mai il pericolo di creare attraverso la cultura una barriera insormontabile con altri esseri umani, dato che la cultura che ha imparato: a) può essere trasmessa ad altri esseri umani che ancora non la condividono; b) può essere mutata dallo stesso portatore (che impara a pescare se spariscono i conigli); c) è comunque non del tutto omogenea già all’interno del gruppo che ne sarebbe il tenutario principale (una comunità di “pescatori” prevedrà comunque persone che pescano meglio e altre che pescano

peggio, “stili” e “tradizioni” diverse di pesca, addirittura “scuole di pensiero” conflittuali su cosa sia una buona attività di pesca).

Ma prima di ritornare su questo tema (della complessità “interna” delle culture) riprendiamo il filo della trasmissione del sapere per via culturale, che ci consente di chiarire ulteriormente il concetto antropologico di cultura. Il fatto che la cultura sia un sapere appreso rischia di creare dei fraintendimenti proprio sulla natura di quel sapere. Quel che impariamo, infatti, può essere appreso in diversi modi e, per così dire, a diversi livelli. State leggendo questi appunti perché volete imparare qualcosa di antropologia culturale. In questo caso tutto è piuttosto chiaro: chi deve insegnare (i docenti), chi imparare (voi) e cosa state imparando (la storia della cultura materiale). Altrettanto chiaro il modo in cui state imparando: grazie a un procedimento formalizzato (lezioni, studio) che passa soprattutto attraverso il linguaggio. Pensate invece ai vostri gusti musicali, o alla vostra capacità di praticare una certa attività fisica (uno sport, un gioco). Chi vi ha insegnato che quel cantante “fa schifo” e quell’altro invece è bravo? Chi vi ha insegnato quello stile di nuoto, a passare bene la palla, a muovervi su una pista da ballo? Avete imparato per imitazione, per rielaborazione, spesso senza sapere chi vi stava insegnando, oppure secondo modalità che non sono state principalmente linguistiche (pensate al ballo, ad esempio, che non si impara “leggendo” o “studiando”, ma “guardando” e “facendo”, anche se prendete delle lezioni: un’attività in cui la componente linguistica della trasmissione non è quella principale).

Dobbiamo quindi distinguere un sapere trasmesso in modo FORMALE (tutta l’educazione scolastica è di questo tipo) da uno trasmesso INFORMALMENTE (come i gusti musicali ed estetici in generale), in cui cioè non è chiaro chi abbia il compito di insegnare. Dobbiamo inoltre distinguere un sapere sostanzialmente di tipo LINGUISTICO da un sapere DEL CORPO che non passa necessariamente o principalmente attraverso la spiegazione linguistica. Abbiamo poi accennato a un’altra opposizione importante per chiarire il concetto antropologico di cultura, e cioè quella tra cultura ALTA e cultura BASSA, citando l’esempio della playstation. Una consolle per videogiochi oggi richiede, da parte di un giocatore esperto, una notevole competenza e un duro addestramento: per l’antropologia interessata alle pratiche culturali il fatto che saper giocare alla playstation non sia particolarmente prestigioso (che cioè non venga considerato parte della “cultura alta” come, ad esempio, suonare il violoncello) non muta l’interesse per questa pratica. Per l’antropologia culturale capire come si impara a suonare il pianoforte, a giocare con la playstation o a intrecciare un canestro di vimini (tre attività manuali associate a livelli sociali estremamente diversi) è altrettanto importante, perché in tutti e tre i casi siamo di fronte a comportamenti appresi, e quindi di natura

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culturale. L’antropologia quindi non distingue tra una cultura alta e una cultura bassa come oggetti di studio: riconosce che gli uomini attribuiscono diversi valori (morali o economici) alle diverse competenze (per cui oggi saper giocare bene a calcio vale molto di più di quanto non valesse trent’anni fa, in termini economici, ma sapere sette lingue straniere è comunque considerato estremamente prestigioso, anche se chi le sa non è ricco) ma è interessata a tutte le forme di competenza. Anzi, uno degli oggetti di studio dell’antropologia è proprio il modo in cui le diverse culture mettono su diverse scale di prestigio o valore le diverse competenze dei singoli.

Un ultimo aspetto, particolarmente interessante per le conseguenze metodologiche che possiamo trarne, della cultura in senso antropologico è costituito dal fatto che non solo spesso non è chiaro chi insegna, non solo spesso non è chiaro come quel sapere venga insegnato, ma a volte non è neppure chiaro che cosa venga insegnato. Può cioè capitare, quando si studia la cultura in senso antropologico, di incontrare forme di conoscenza che sono chiaramente apprese, ma che i portatori di quella cultura non sono consapevoli di sapere. Abbiamo a questo proposito raccontato l’apologo dei due archeologi (uno italiano e uno straniero ma che parla l’italiano) che ritrovano dentro una nave un’ancora, un anello e un’anfora. Non ripeterò qui la storia (chi non fosse stato presente se la faccia raccontare da qualche collega) ma il senso deve essere chiaro: chi conosce “fino in fondo” una cultura? Sono gli “indigeni”, cioè i portatori di quella cultura, solo perché dentro quella cultura sono nati e cresciuti? Oppure anche un “esterno” può imparare a conoscere come funziona una cultura che non gli è familiare? Come vedrete, questo è un tema che ricompare quando si affronta la ricerca sul campo e la questione più generale di come sia possibile conoscere una cultura diversa dalla nostra.

1.1.B LA CULTURA È CONDIVISA DAI SUOI MEMBRI

Su questo punto abbiamo insistito soprattutto per quanto riguarda la DELIMITAZIONE delle culture. A tutti noi appare evidente che un americano non è un francese, che un irakeno non è un argentino, che un basco non è un castigliano e così via. Ci sono ovviamente diversi elementi culturali che possiamo utilizzare come tratti discriminanti: la lingua, la religione, l’abbigliamento, il sistema di valori (cos’è bene e cos’è male, in quella cultura). Non possiamo, invece, utilizzare tratti somatici (il colore della pelle, ad esempio) proprio per quanto abbiamo detto sul modo non biologico con cui si trasmette la cultura: tutti conosciamo diversi esempi di italiani di colore, e il caso è ovviamente ancora più

nitido nel caso di paesi con una storia più lunga e complessa di immigrazione (Gran Bretagna, Francia, Olanda, per non dire degli Stati Uniti). Questo per dire che, indipendentemente da quello che potremmo presupporre dalle caratteristiche somatiche, gli esseri umani sono in grado di imparare qualunque sistema culturale come “loro proprio” (si chiama processo di INCULTURAZIONE quel complesso meccanismo di apprendimento della cultura “madre”, mentre si chiama ACCULTURAZIONE qualunque processo di acquisizione di una cultura diversa, successivamente al processo di INCULTURAZIONE). Questa evidente disponibilità delle culture ad essere apprese da chiunque deve però spingerci a riflettere proprio sull’entità di quella condivisione. Molto spesso (per ragioni complesse che non possiamo affrontare se non brevemente in questo modulo) tendiamo a “sopravvalutare” la compattezza delle culture, e a considerarle come entità completamente separate una dall’altra: di qui i Nayar, di là i Nuer. Da una parte i Maya, e dall’altra gli Incas. Oppure (il che è lo stesso) da una parte gli Irlandesi e da quella opposta gli Inglesi. In effetti, nessuno può dubitare che le culture tendano a coagularsi attorno ad alcuni elementi caratterizzanti, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei casi la nettezza con cui crediamo di poter distinguere tra diverse culture è più apparente che reale. “Dentro” ogni cultura, tanto per iniziare, vi saranno persone con conoscenze diverse, con valori non condivisi e spesso addirittura in conflitto tra loro. Pensate ad esempio a come la cosiddetta “cultura occidentale” stia in questi ultimi anni affrontando un ripensamento profondo della propria dimensione religiosa. L’Islam è compatibile con “l’occidente”? Non importa rispondere a questa domanda (non in questa sede, almeno), mentre è interessante chiedersi cosa quella domanda dà per scontato, e cioè che il Cristianesimo sia invece non solo compatibile, ma un vero e proprio tratto caratteristico dell’Occidente. Ma se il Cristianesimo è alla radice dell’Occidente, non è alla base dell’Occidente moderno anche il pensiero laico e razionalista, il materialismo scientista e l’ateismo come prospettiva antropologica radicale? Chi potrebbe contestare che l’Illuminismo, il marxismo o la psicoanalisi sono prodotti intellettuali assolutamente occidentali (europei)? Eppure è noto a tutti che queste visioni del mondo hanno criticato duramente (pur se in modi diversi) proprio la radici cristiane del pensiero occidentale. Sto cercando di dire che il Cristianesimo è un figlio legittimo della cultura che chiamiamo “occidentale” quanto lo è l’Illuminismo, anche se i due sistemi di pensiero sono per molti versi inconciliabili. Invito gli studenti a pensare altri esempi di sistemi di valori in conflitto entro quella che apparentemente è la stessa cultura. Possiamo parlare di una cultura calabrese? Per molti versi sì, riconducibile a una famiglia omogenea di dialetti e a un passato storico, artistico, politico e addirittura economico (il latifondo) ricostruibile con estrema precisione. Eppure chi non

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conosce le rivalità che oppongono in Calabria i diversi comuni? Scendendo ancora di livello, chi non si accorge, una volta a Cosenza, che si respira un’aria “culturale” per molti versi riconoscibile, che si è dentro uno spazio segnato da una qualche forma di condivisione? Eppure mi chiedo che cosa avrebbero da dirsi un giovane ultrà del Cosenza e la vecchia signora che tutti i giorni dice il rosario nella chiesa della sua parrocchia, anche se sono tutti e due calabresi. Non dovrebbero condividere un’unica cultura? In realtà, c’è un margine di sovrapposizione tra quanti partecipano alla “stessa cultura”, ma quasi mai una sovrapposizione totale, per le ragioni che dicevamo sul modo in cui apprendiamo modificando soggettivamente quel che impariamo. Nel caso calabrese, poi, l’appartenenza regionale è ulteriormente complicata dalla presenza di tradizioni linguistiche specifiche: l’arbreshe e il grecano sono ancora parlati (soprattutto il primo), e complicano notevolmente il sistema delle appartenenze.

Quindi, primo punto, le culture sono estremamente complicate già al loro interno, per il fatto che i loro membri si dispongono lungo fasce di età differenti (gli anziani sanno cose che i giovani non sanno, e viceversa), su diverse scale sociali (in base al reddito, all’istruzione, all’origine familiare) e su diverse strategie di competenza (chi ne sa “di più” tra un chirurgo e un pianista, tra un botanico e un filologo, tra un idraulico e un elettricista? La domanda non ha ovviamente senso, dato che ognuno ha una competenza specifica). Per questa ragione, nessuno possiede tutta la “propria” cultura, e nessuno possiede solo elementi culturali comunque riconducibili alla “propria” cultura (collocatevi dove vi pare, ma se avete tatuaggi o piercing vi sfido a dimostrarmi che si tratta di elementi culturali tipicamente italiani, o calabresi o quel che volete).

Vista da questa prospettiva la differenza tra culture si fa meno rigida e meno netta, dunque. Ma c’è dell’altro che dobbiamo aggiungere per capire effettivamente come si realizza la condivisione culturale, e che forme assume. L’ultimo esempio che abbiamo fatto (i tatuaggi e i piercing) sembrerebbe comunque appartenere alla famiglia delle eccezioni che confermano la regola: va bene, il tatuaggio no, ma sono calabrese e cresciuto qui, prova a dimostrarmi che questo non è tipico e che non caratterizza la mia appartenenza in modo netto! Bene, ci provo, e per farlo anticipo in linea generale l’argomento che proverò a dimostrare per via di esempi. Il punto è che le culture non solo sono immerse nel tempo (cambiano) ma sono nate nel tempo. È questo quello che tendiamo a dimenticare, anche quando siamo disposti ad ammettere i mutamenti in corso (dovrei dire meglio: proprio quando ci lamentiamo dei mutamenti in corso). Riconosciamo cioè i mutamenti in corso (i tatuaggi, i piercing, i ristoranti cinesi) ma tendiamo a collocarli su uno sfondo di immutabilità che non ha alcuna giustificazione storica. Quando pensiamo alla nostra cultura che oggi si cambia e

si modifica, si mescola e si intreccia con altre tradizioni culturali, dentro di noi confrontiamo lo stato attuale (di modificazione e mescolamento) con uno stato precedente in cui invece la nostra cultura era pura, intonsa, non ancora mescolata con altre. Il punto è esattamente questo: lo stato originario in cui le culture erano pure e separate NON È MAI ESISTITO, è un’invenzione del nostro modo di pensare al passato, che salta non appena ci confrontiamo con la realtà storica.

Prendiamo un primo esempio. Cosa bevono gli inglesi alle cinque del pomeriggio? Tè, si sa. Il tè è (assieme alle birre poco gassate e tiepide che servono nei pub) la bevanda nazionale inglese (e britannica, più in generale). Si sa quanto il tè con lo zucchero sia stato un alimento essenziale della classe operaia durante le fasi più intense della rivoluzione industriale, ma anche un simbolo dell’emergente borghesia. Questa bevanda è in grado di condensare la forza rude del proletariato (che beve il tè mentre cena, nei mugs, le tazze cilindriche spesso in metallo) e il gusto delle classi dominanti (che bevono tè in tazze svasate di porcellana, rendendolo l’accompagnamento di spuntini nutrienti come i cucumber sandwiches o di cibi “astratti” come la pasticceria). Il tè è quindi non solo un elemento importante del sistema alimentare britannico, ma è quasi un simbolo prediletto di quel sistema e dell’idea di Britishness. Ma da dove viene quel tè? Non è certo un prodotto indigeno, anzi. Il tè non cresce (non può crescere) nelle isole britanniche, è stato importato di recente (da pochi secoli vuol dire di recente) e la regina Elisabetta I o William Shakespeare (qualcuno oserebbe dire che non erano “tipicamente” inglesi?) non bevevano tè. Eppure oggi siamo disposti ad accettare il tè come una bevanda “tipicamente” o “tradizionalmente” inglese. Se qualcuno poi pensasse che l’usanza oggi tipicamente inglese di sorseggiare tè sia stata assunta dai colonizzatori britannici durante la loro permanenza in India (come se quindi la recente tradizione britannica si basasse in effetti su una più antica tradizione del subcontinente indiano) precisiamo che fino agli anni trenta dell’Ottocento il tè era prodotto solo in Cina, e di lì esportato tramite i commercianti olandesi. Fu solo dopo il 1834 che la coltivazione del tè venne introdotta nel subcontinente indiano.

Il caso della “pasta al pomodoro” – questa volta “tipicamente” italiano – è altrettanto indicativo: nei libri di cucina napoletani dei primi dell’Ottocento esistevano i “maccaroni” e esisteva la “pummarola”, ma i primi si mangiavano a timballo e venivano cotti al forno, la seconda invece si poteva associare alle carni, al pesce e alle verdure, ma non era mai “in coppa” alla pasta. Questo vuol dire che ci deve essere stato un momento nel corso dell’Ottocento in cui si è cominciato a mangiare la pasta con il sugo di pomodoro, e certamente in quel periodo nessuno pensava che la pasta al sugo fosse un piatto “tradizionale” o “tipico”. (Ovviamente

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non accenno neppure al fatto che sia la pasta come la conosciamo noi sia il pomodoro sono stati introdotti in Italia da pochi secoli).

Ecco, quanto tempo ci vuole perché un’usanza culturale possa essere considerata come caratteristica di quella cultura? Ovviamente la domanda non ha una risposta assoluta, ma va indagata caso per caso. E se si hanno informazioni sufficienti si potrà scoprire che, caso per caso, ogni elemento culturale ha una storia che è fatta di prestiti, commistioni e incroci. È la prospettiva da cui guardiamo alla realtà culturale che ci fa immaginare di provenire da un passato statico messo in crisi dalla mutevolezza del presente. Le culture sono accorpamenti estremamente permeabili e fragili di elementi culturali, che nel corso dei tempi hanno sempre subito modificazioni. Del resto, non può che essere così, se pensiamo in prospettiva storica: non ha senso pensare a una qualunque cultura come qualcosa di originario che “poi” si sarebbe inquinato, dato che questa immagine presuppone che le culture siano state create tutte contemporaneamente e tutte diverse, e che poi, eventualmente, si sarebbero incrociate e commiste. In realtà, il processo storico è stato proprio l’opposto. La diversità culturale è cresciuta proprio grazie alla commistione. Se io che ho imparato a pescare da quello che me l’ha insegnato ci metto del mio (uso le reti invece degli ami) ecco che sto creando una cultura della “pesca con le reti”, che si differenzia dalla “pesca con gli ami”. Se mi hanno insegnato il latino e io lo parlo mescolandolo con le parlate italiche e germaniche, ecco che faccio nascere l’italiano. Potremmo dire che l’italiano è un latino “inquinato”? O dovremmo invece pensare che l’italiano è sempre esistito, ma era stato “coperto” dal latino e si sarebbe “scoperto” nel corso del tardo medioevo? Entrambe le ipotesi sembrano vere sciocchezze: l’italiano non è una versione “povera” del latino, e non è un’entità pura che sarebbe emersa nel suo splendore

solo nel corso dei secoli. È piuttosto un prodotto storico, come qualunque altro elemento di qualunque altra cultura.

È forse possibile dare una raffigurazione grafica della concezione antropologica di cultura come raggrup-pamento in uno specifico momento storico di alcuni elementi culturali, e opporre questa raffigurazione al modello che vorrebbe invece le culture come entità separate e a rischio di commistione. Nella figura qui a fianco la sequenza temporale si sviluppa

dall’alto al basso, mentre le diverse linee e le loro forme differenti stanno a

indicare i diversi elementi culturali (ad esempio: praticare l’agricoltura, fare i piercing, professare il monoteismo, far uso della televisione, non mangiare il maiale, eccetera, eccetera, eccetera). In questa figura ipersemplificata rispetto a qualunque condizione reale, gli elementi culturali (raffigurati con i diversi tipi di linea) si spostano nel tempo (sul piano verticale) e nello spazio (sul piano orizzontale). Dato un qualunque momento storico (A, B, C), è possibile individuare specifiche configurazioni culturali come “nodi” (N1, N2, eccetera) attorno a cui si “raddensano” alcuni elementi culturali. Come è evidente, non c’è un momento “originario” per i singoli nodi, e non è neppure possibile stabilire con assoluta precisione dove finisca un determinato raggruppamento culturale (anche se è possibile individuare per ogni nodo i punti in cui i singoli elementi culturali sono più fittamente intrecciati).

Secondo invece la seconda figura, le culture sono entità nettamente distinte che preesistono a qualunque commistione, che è il prodotto della “corruzione” del

tempo. In questo modello, le culture sono l’entità primigenie che il tempo tende a mescolare o a fondere.

Quando quindi diciamo che la cultura è costituita da elementi culturali condivisi dai membri della comunità culturale, dobbiamo sempre stare attenti che non sia l’idea stessa di condivisione a generare l’illusione di una cultura intesa come entità compatta, distinta, nettamente separabile dalle altre culture. La condivisione è quindi un concetto

sempre relativo: i membri che diciamo (o che dicono) di appartenere alla cultura x sono tali in quanto ciò che condividono tra loro è maggiore di ciò che condividono con altri individui, che si definiscono (o che definiamo) appartenenti ad altre culture.

1.1.C LA CULTURA È SIMBOLICA

Quanto abbiamo detto sulla natura appresa e condivisa in senso relativo della cultura ci costringe a riflettere più a fondo sul meccanismo di base delle culture umane. Come abbiamo visto, far parte di una cultura vuol dire sostanzialmente condividere attraverso l’apprendimento una serie di pratiche, di valori e di

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N1

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B

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C

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B

C

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istituzioni. Mentre cioè un’ape appartiene alla specie delle api perché è dotata del patrimonio genetico (e quindi comportamentale) che distingue le api da qualunque altro essere (animato o inanimato), un essere umano appartiene a una cultura perché ne condivide gli elementi avendoli appresi. L’apprendimento, come abbiamo segnalato brevemente, non avviene in modo meccanico, ma attraverso complesse operazioni di trasmissione (formale e informale, a base linguistica e a base corporale, con contenuti espliciti o impliciti). Un qualunque elemento culturale (saper pescare) non può quindi essere trasmesso se chi riceve il messaggio non è in grado di interpretarlo, di rielaborarlo, di farlo proprio, ed eventualmente di inviare a sua volta messaggi per chiedere chiarimenti, per sollevare dubbi o per porre critiche al messaggio ricevuto. Anche la più semplice operazione di trasmissione culturale deve accettare questo meccanismo di base, per cui chi impara deve essere in grado di farlo, il che significa che deve avere una parte attiva e non può limitarsi a ricevere passivamente l’insegnamento (provate a insegnare una cosa qualunque al vostro tavolino, e capirete che cosa intendo). Gli antropologi riassumono questa specificità della trasmissione culturale dicendo che la cultura è un CAMPO SEMIOTICO o, con altro termine, un SISTEMA DI SEGNI. Per capire di che si tratta vediamo brevemente alcune definizioni preliminari.

La semiotica studia i segni (non solo linguistici) intesi come l’unione arbitraria di un SIGNIFICANTE e di un SIGNIFICATO. Il significante è la forma, il “mezzo” che assume il segno per essere veicolato (inchiostro se il segno è scritto, onde sonore se il segno è sonoro, qualunque materiale se il segno non è strettamente linguistico), per cui il segno “cane” è costituito da un significante (che indichiamo convenzionalmente tra barre oblique: /cane/) e da un significato (che indichiamo invece tra apici semplici: ‘cane’). Il significante può essere quanto di più vario possiamo immaginare: in queste pagine, il significante è costituito dalle lettere che vedete scritte, e cioè /cane/, ma potrebbe anche essere qualcosa simile al disegno qui riportato.

Come appare per ora intuitivo, sia il disegno qui a fianco (per quanto maldestro) che le lettere comprese tra le barre oblique /cane/ veicolano lo stesso significato, sono cioè due significanti estremamente diversi che veicolano però lo stesso significato.

Questo intanto ci permette di dire che il RAPPORTO TRA SIGNIFICANTE E SIGNIFICATO è ARBITRARIO, cioè non c’è nessuna ragione “naturale” per cui il significato ‘cane’ debba essere espresso con il disegno che ho fatto, con il significante /cane/, come fa la lingua italiana, o con il significante /dog/, come fa invece la lingua inglese. Se il segno come unione arbitraria di significante e significato e la natura convenzionale del significante sono due concetti facilmente

comprensibili, solleva invece più di un problema la natura di quello che finora non abbiamo ancora definito, e cioè il significato.

Senza voler ripercorrere la storia dello studio dei segni (che è ben più lunga della semiotica moderna) e senza neppure pretendere di riassumere un dibattito che coinvolge da sempre la riflessione filosofica, per i nostri scopi sarà sufficiente dire che possiamo concepire due teorie del significato, che qui ci limitiamo a definire brevissimamente.

La prima è la cosiddetta TEORIA REFERENZIALE, per cui il significato di cane in qualche modo coincide con l’animale o con “l’immagine mentale” che abbiamo dell’animale. Secondo questa teoria, quando dico /cane/ intendo riferirmi all’animale che ho in mente, o a quello che passa per la strada in quel momento. Una teoria referenziale del significato è ben rappresentata dalle definizioni di un vocabolario: per ogni voce si dà una brevissima definizione, astratta da ogni riferimento contestuale.

La seconda teoria invece si può definire TEORIA DELL’USO, e sostiene che il significato è dato dall’insieme di norme, pratiche e consuetudini che possiamo associare a quel segno se vogliamo che sia comprensibile per chi ci sta ascoltando. Secondo questa teoria, il significato di “cane” è dato da tutto quello che potenzialmente possiamo “raccontare” (i semiologi professionisti riprendono il termine filosofico “predicare”) del segno “cane”. Per cui il significato di “cane” è dato dall’uso che facciamo dell’insieme delle informazioni “enciclopediche” che abbiamo di cane.

Questa teoria dell’uso risulta a mia esperienza particolarmente ostica da comprendere in termini astratti, ma solitamente diviene particolarmente evidente quando esplicitata attraverso esempi concreti (il che sembrerebbe confermare proprio la “teoria dell’uso” del significato, visto che sto cercando di spiegarvi il significato di “teoria dell’uso”, e so per esperienza che una sua “definizione” non riesce a veicolarne il senso quanto una sua “narrazione”). Prendiamo il caso che io vi incontri e vi dica che ieri sera ho mangiato cotolette di cane. La cosa, oltre che stupirvi, credo che metterebbe in dubbio il senso della comunicazione, e quasi di riflesso molti di voi insisterebbero per “chiarire il senso” della mia affermazione. Perché questa richiesta di “chiarimento”? Per la ragione che il vostro significato di “cane” non contempla che l’animale sia commestibile, e anzi associa a questa eventualità una vera repulsione. Insomma, una frase apparentemente chiara e banale come: “Ieri sera ho mangiato cotolette di cane” (che in alcuni paesi asiatici non susciterebbe alcuna richiesta di chiarimento) crea problemi di interpretazione non perché i singoli elementi non siano decodificabili (come se avessi detto: “Ho sambilato catonate di prane”) ma perché entrano in conflitto con la rappresentazione enciclopedica del segno “cane”. Un ulteriore esempio, prima di

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trarre una conclusione importante. Se entrassi in aula e mi presentassi come Napoleone Bonaparte, imperatore dei francesi, mi mettessi una mano nel panciotto e il dito mignolo dell’altra nell’orecchio, e capiste che “sto facendo sul serio”, probabilmente chiamereste l’ambulanza. Eppure “nella mia testa” e nella “vostra testa” potrebbe esserci un’idea alquanto precisa del significato del segno “Napoleone Bonaparte”. Quel che non va, in questo caso, è che il “mio” segno (nella mia testa) e il “vostro” segno (nella vostra testa) non avrebbero uno spazio condivisibile, non sarebbero “negoziabili” e – forti del vostro numero (tutto il mondo contro uno) – potreste dire che il significato che io associo al mio segno è “sbagliato”.

Quel che questi due esempi estremi e fittizi vorrebbero dimostrare è che il significato non può limitarsi a stare “dentro la nostra testa”, ma deve essere SOCIALMENTE CONDIVISIBILE. Detto altrimenti, “IL SIGNIFICATO È PUBBLICO”: è cioè il prodotto di pratiche sociali e ha poco a che fare con “l’oggetto rappresentato”.

Per capire cosa significa il segno “cane” nella cultura X devo quindi ricostruire il significato di quel termine attraverso l’indagine degli usi potenziali e legittimi di quel segno, per cui in Italia “cane” significa (tra le molte altre cose, e detto in modo estremamente semplificato): animale che quando torno a casa mi fa le feste e che devo portare a passeggio; una specie di strano amico poco esigente che mi aiuta a non sentirmi solo.

Se invece cercassimo di capire qual è in significato del termine equivalente in coreano, dovremmo riuscire a concepire anche significati del tipo: animale che produce una carne prelibata e difficile da cucinare.

Come vedete, ha poca importanza (dal punto di vista dell’analisi culturale) stabilire che il termine italiano “cane” e il termine corrispondente in coreano si riferiscono allo stesso “oggetto”, dato che l’identità dell’oggetto fisico non muterebbe la sostanza del problema, e cioè che in italiano e in coreano i due segni vengono usati in modi estremamente diversi, il che equivale a dire che il segno italiano “cane” e il corrispondente coreano non hanno lo stesso significato, e che l’unico modo per dar conto di questa differenza è ricostruire quale sia il significato plausibile del segno nel suo specifico contesto culturale o, detto altrimenti, ricostruire il significato pubblico del segno. Ecco allora che siamo tornati alla dimensione pubblica del significato. Non posso sperare di scavare nella mia testa per capire il significato di “cane” nella cultura coreana, ma sono costretto a interagire con i rappresentanti di quella cultura, a cercar di capire attraverso l’osservazione dei loro comportamenti e l’interazione linguistica quale sia PER LORO il significato della parola “cane”.

Ecco, questo è esattamente quello che cerca di fare l’antropologia. Ci sono diversi modi per esprimere questo concetto. Si dice a volte che l’antropologo cerca di “capire le cose dal punto di vista dei nativi” oppure che l’antropologo studia i “significati nativi”, o ancora che l’antropologia studia le “reti di significato”, che sono “reti” perché i segni possono avere come significato un altro segno: se dico che in Italia il cane è “una specie di amico”, mi trovo a dover capire cosa significa il segno “amico”; e se dico che in alcuni paesi asiatici il cane produce una “carne prelibata”, dovrei capire cosa si intende per “prelibata”. I segni rimandano ad altri segni, e l’intreccio con cui i diversi segni si definiscono a vicenda produce una “rete semiotica”. Ma su questo torneremo parlando della ricerca sul campo.

Concludiamo qui invece le nostre brevi riflessioni sul concetto antropologico di cultura. Riassumiamo quanto abbiamo stabilito finora: la cultura è costituita da una rete di simboli appresi e condivisi; l’informazione culturale non passa per via biologica ma attraverso forme di trasmissione che prevedono un ruolo attivo da parte di chi apprende; non è detto che i portatori di un determinato sistema culturale siano completamente consapevoli del contenuto delle loro pratiche culturali, dato che la trasmissione del sapere può essere formalizzata ma spesso passa per canali informali per cui è difficile stabilire chi insegna, chi impara, e che cosa precisamente venga insegnato e appreso; la cultura in senso antropologico può quindi essere alta o bassa, formale o informale, esplicita nei suoi contenuti o implicita; le culture associano arbitrariamente significanti e significati producendo segni culturali che hanno senso (sono riconosciuti come segni) solo se sono condivisi, e quindi possiamo dire che i significati sono pubblici, e non sono “nella testa” degli individui, ma invece costruiti dall’interazione comunicativa tra i membri di quella cultura; lo studio scientifico delle culture è costituito proprio dal tentativo di ricostruire le reti si significato di una determinata cultura, cercando quindi di vedere le cose “dal punto di vista dei nativi”.

Se tutto questo è vero, possiamo allora dire che il concetto antropologico di CULTURA riassume tutte le pratiche umane che si oppongono alla NATURA, intensa proprio come apparato che precede l’uomo e entro il quale l’uomo si trova ad agire. Fa parte della natura la nostra struttura biologica, il fatto che siamo mammiferi bipedi, il fatto che abbiamo il pollice opponibile, che non possiamo sopravvivere al di sotto o al di sopra di determinate temperature, che il nostro apparato digerente non riesce a decomporre la cellulosa (per cui non siamo erbivori), che i cuccioli della nostra specie hanno necessità di essere accuditi per un periodo eccezionalmente lungo prima di poter essere autosufficienti. Questi “fatti naturali”, comunque sono modulati dal contesto culturale nel quale cresciamo e devono essere attivati entro gruppi organizzati: facoltà chiaramente ed

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esclusivamente umane come la postura eretta o il linguaggio articolato non si sviluppano naturalmente, cioè senza l’intervento di altri esseri umani che le attivano e le stimolano, mentre la capacità di miagolare di un gatto sarà presente nell’adulto anche se quell’adulto è stato allevato, poniamo, da una cagna ed è cresciuto in mezzo ai cani.

Il concetto antropologico di cultura è stato espresso nella sua forma canonica per le discipline antropologiche da E. B. Tylor nel suo Primitive Culture (1871): “La CULTURA… è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine ACQUISITA dall’uomo come membro di una società”.

La cultura studiata dagli antropologi non si oppone quindi all’incultura (ignoranza) ma alla natura dell’uomo intesa come insieme delle sue qualità INNATE. Per esemplificare, abbiamo ricordato il mito di Epimeteo, che si “dimenticò” di preservare per gli esseri umani una qualche qualità innata (come invece aveva fatto per tutti gli altri animali creati da Giove) e quello di Prometeo, che proprio per compensare questa mancanza decise di rubare il fuoco agli dei (ingresso dell’uomo nella cultura). Come ulteriore esempio abbiamo ricordato il saggio di Marcel Mauss, “Le tecniche del corpo” (ora contenuto nella raccolta Saggio sul dono e altri saggi di antropologia), in cui appare evidente che anche pratiche considerate estremamente naturali come il camminare subiscono una modulazione da parte della cultura.

Prima di passare a come gli antropologi cercano di studiare le culture definite a questo modo, aggiungiamo un altro paio di concetti che possono essere utili nell’elaborazione di una concezione articolata di antropologia culturale.

2. ETNOCENTRISMO

È una conseguenza praticamente inevitabile dell’inculturazione entro una determinata società, e si può definire come la tendenza a misurare le culture altrui usando la propria come metro di paragone, per cui le altre culture sono giudicate in modo tanto più negativo quanto più si discostano dalla propria. Un altro modo per guardare all’etnocentrismo è quello di considerarlo una tipica strategia culturale che si fa sentire come “ovvie”, “normali” e intrinsecamente “giuste” le scelte culturali che condividiamo. La cultura ha cioè tra i suoi strumenti anche raffinati meccanismi di NATURALIZZAZIONE, che ci fanno credere “naturali” (cioè parte integrante dell’essere umano come la postura eretta o l’incapacità fisiologica di digerire la cellulosa) pratiche e giudizi che la semplice comparazione

etnografica ci rivela essere culturali. Se infatti possiamo dire che il linguaggio è una qualità naturale degli esseri umani (che deve comunque essere attivata in un contesto culturale) per la ragione che non sono stati mai rintracciati gruppi umani che non avessero una loro lingua, e se possiamo dire che la postura eretta è altrettanto naturale in quanto non ci sono giunte testimonianze di gruppi umani in cui non si cammini sui due piedi, sostenere che – ad esempio – la famiglia composta da padre, madre e figli che vivono sotto lo stesso tetto sia naturale è un’affermazione empiricamente dubbia, dato che conosciamo moltissimi casi di culture in cui il modello normativo e/o statisticamente più rilevante di famiglia non coincide con quello di madre, padre e figli riuniti in un’unica unità abitativa. L’etnocentrismo è quindi quella prospettiva che tende far coincidere con la natura (quindi con l’inevitabile, o almeno con il giusto) le nostre pratiche culturali. Un “vantaggio” immediato dell’etnocentrismo è che consente un notevole risparmio di energie cognitive: se il mio modo di cucinare è quello “giusto”, potrò considerare qualunque altro modo semplicemente “sbagliato” ancora prima di averne verificato l’efficacia o il gusto. In questo modo, posso risparmiarmi la fatica di dover imparare modi nuovi di cucinare, o di procedere a comparazioni complesse per decidere quale sia il modo migliore. Ma lo “svantaggio” evidente dell’etnocentrismo è che limita le capacità adattive dei gruppi culturali. Se i conigli sono spariti ma io mi ostino a considerare la caccia al coniglio il “giusto” modo per procurarmi il cibo e considero quindi la pesca un modo “barbaro”, “immorale” o comunque “sbagliato”, è assai difficile che riesca a sopravvivere.

Il problema dell’etnocentrismo è che i suoi “vantaggi” sono immediati (rassicurazione, convinzione di essere dalla parte giusta e di appartenere al gruppo migliore, risparmio di impegno cognitivo), mentre i suoi “svantaggi” si rivelano spesso sul medio o lungo periodo. Nelle pratiche culturali ordinarie possiamo dire che l’etnocentrismo prevale come attitudine in moltissimi individui e moltissimi gruppi umani. L’antropologia culturale – spesso senza riuscirci – è una disciplina che si pone esplicitamente e consapevolmente l’obiettivo di produrre una conoscenza delle culture umane cercando di superare l’etnocentrismo.

Con i dati che abbiamo fornito finora sembreremmo a questo proposito essere di fronte a un paradosso: abbiamo detto che le culture sono reti di significato, e che ogni cultura costruisce le proprie configurazioni di significato. Abbiamo anche detto che non c’è altro modo di conoscere e interagire con il mondo, per gli esseri umani, se non attraverso queste reti di significato. Le reti, in un certo senso, costruiscono anche l’illusione di essere naturali. Com’è possibile che in questo quadro di riferimento possa semplicemente esistere il progetto antropologico? Sembrerebbe che ogni individuo sia intrappolato dentro la rete della propria cultura, veda la realtà attraverso quella rete giudicando quel che vede il modo

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giusto di vedere il mondo. Perché mai qualcuno dovrebbe essere interessato a vedere il mondo dal punto di vista di qualcun altro? E soprattutto: com’è possibile questo “salto” di prospettiva?

Anche in questo caso, dobbiamo tornare a quanto dicevamo sulla delimitazione delle culture. Se è vero che ogni cultura costruisce la propria rete di significati, è anche vero che non esistono reti “isolate”: ci sono sempre punti di contatto, “agganci” tra reti diverse, che consentono proprio quella comunicazione iniziale che può fare da base per la comprensione più profonda. Pensate a come si apprende una seconda lingua. Anche nel contesto più formalizzato possibile (lezioni in aula) se non ci fosse la possibilità per gli interlocutori di far riferimento a un comune sistema di significazione (cioè proprio alla qualità semiotica di qualunque sistema culturale) non sarebbe possibile imparare un’altra lingua. In caso di apprendimento informale questo è ancora più evidente: comincerò magari puntando il dito verso una serie di oggetti e mi farò dire il nome. Poi proverò a ripetere piccole formule di cortesia e saluto. Quindi proverò a individuare modi per far accadere qualcosa (farmi dare un bicchier d’acqua, ad esempio) e così via, entrando poco a poco nelle strutture della lingua che sto cercando di imparare. In modo sostanzialmente simile, lo studio antropologico delle culture cerca di entrare negli intrecci dei significati “indigeni” partendo da quel che si ha a disposizione e da quel che si può condividere. Poco alla volta, pezzo per pezzo, si può provare a ricostruire il puzzle. Ecco quindi che, partiti da una prospettiva, possiamo sperare di ricostruirne un’altra.

3. RELATIVISMO CULTURALE

Non ho molto da aggiungere a quanto indicato nel manuale su questo ingrediente dell’approccio antropologico, se non che il relativismo culturale costituisce la conseguenza inevitabile del rifiuto dell’etnocentrismo. Non c’è molta alternativa rispetto a questo dualismo: o si è relativisti (e quindi si crede che gli esseri umani costruiscano gran parte dei loro sistemi semiotici in base ad associazioni arbitrarie tra significanti e significati (per cui il segno cane può voler dire “amico” o “carne prelibata” a seconda dei diversi contesti culturali) oppure si è etnocentrici e si decide che il nostro significato (“amico”) è quello giusto e che chi non lo condivide è barbaro, stupido o immorale.

Ovviamente il relativismo culturale non significa che tutti i sistemi culturali abbiano pari valore o che un sistema vale un altro. Ma abbiamo il dovere di distinguere le nostre scelte morali dal tentativo di conoscere e capire i sistemi culturali diversi da quello che consideriamo nostro. L’esempio del nazismo sul

manuale è particolarmente calzante: non si tratta di giustificare il nazismo, né di dire che il nazismo e la democrazia sono due sistemi in qualche modo equivalenti in quanto “incommensurabili” (basati cioè su principi e assiomi incompatibili tra loro, rispetto ai quali sarebbe impossibile scegliere in modo “oggettivo”). Dire che il nazismo è ripugnante è una posizione morale che (dal mio punto di vista) non ha neppure bisogno di essere argomentata, per quanto la considero irrefutabile. Ma questo non risolve la questione antropologica del nazismo, e cioè: come vede(va) il mondo un nazista? Entro quali reti di significato era immerso per far sì che potesse pensare e agire a quel modo? Lungi dall’essere uno sterile esercizio filosofico, analisi di questo tipo possono avere anche ricadute pratiche, perché possono permetterci di individuare specifici elementi culturali o materiali che hanno contribuito in modo determinante all’emergere del nazismo, e possono quindi aiutarci a prevenirne l’insorgenza.

Specifico questo punto perché nella vulgata dei mass media sembra quasi che il relativismo culturale sia la causa di tutti i mali che affliggono il genere umano. Si accusa l’Occidente di aver tradito i suoi valori cedendo a un relativismo che appiattisce tutte le gerarchie morali, cadendo in un baratro di inazione che impedisce di fare delle scelte, tanto più necessarie quanto più il contesto che viviamo sembra farsi via via più drammatico. Ora, a me pare che la situazione della politica internazionale segnali esattamente il problema opposto. Francamente non vedo in giro grandi affratellamenti dell’umanità in nome del relativismo culturale, e non mi pare che il mondo sia retto da politici e amministratori disposti a cedere sui propri principi in nome di una tolleranza buonista nei confronti dell’Altro. Per riuscire a imbottirsi di esplosivo e farsi saltare dentro una scuola elementare; bombardare abitazioni dove si sa per certo che, assieme a uomini armati, si trovano anche civili inermi; falciare con una raffica di mitra un’adolescente che non si è fermata a un posto di blocco; organizzare un comitato di controllo contro “gli immigrati”; compiere atti di teppismo e violenza durante una marcia pacifista; essere del tutto convinti che i nostri avversari politici stiano agendo in completa malafede, e non guidati da un progetto politico semplicemente diverso dal nostro; lamentarsi che questi o quelli “ci portano via le donne e il lavoro”; sgozzare e decapitare con un coltello di fronte a una telecamera degli esseri umani completamente inermi; per poter fare tutto questo è necessaria una tremenda convinzione nella giustezza delle proprie posizioni cioè, in altre parole, una dose enorme di etnocentrismo.

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4. RIFLESSIVITÀ

Anche questo è un elemento importante della costruzione del sapere antropologico. La riflessività significa sforzarsi di avere consapevolezza delle regole che guidano il nostro agire e le nostre convinzioni e cercare di ricostruire i sistemi diversi dal nostro verificando in che misura le regole culturali dell’analista interferiscono con quelle della cultura analizzata. Nell’esempio ancora/anello/anfora, la riflessività è la capacità di pensare e rielaborare le regole fonetiche della lingua italiana. In quell’esempio, la “scoperta” della regola fonologica era il prodotto dell’interazione tra l’archeologo italiano (cioè l’“indigeno”) e quello straniero che conosce però la lingua italiana (che corrisponderebbe all’“antropologo”). È la comunicazione tra i due che permette a entrambi di cogliere una nuova prospettiva: l’italiano si può rendere conto che quel che lui pensava come un unico suono è in effetti la realizzazione di tre suoni diversi, mentre lo straniero può rendersi conto che tre suoni diversi sono riuniti nel sistema fonologico italiano in un unico fonema (non definiremo di che si tratta, ma possiamo pensarlo come a un suono “teorico” che può assumere diverse forme “concrete”, dette allofoni). La riflessività quindi non è (un po’ come il significato) una qualità che sta dentro la testa delle persone, ma il prodotto di un’interazione sociale, che spesso gli antropologi definiscono dimensione DIALOGICA dell’etnografia. Ma con questo ci siamo definitivamente avvicinati al problema della ricerca sul campo, cioè alla metodologia dell’etnografia.

5. RICERCA SUL CAMPO

Abbiamo visto cosa costituisca l’oggetto della ricerca antropologica, e cioè le reti di significati pubblici che chiamiamo culture. Non abbiamo però detto nulla su come, in pratica, gli antropologi si mettano a studiare queste reti. Il capitolo 3 del manuale, dedicato alla ricerca etnografica, è esaustivo e sufficientemente complesso. Qui ci limiteremo ad alcune riflessioni integrative volte a guidare gli studenti nello svolgimento del loro “esercizio di etnografia”.

L’antropologia culturale (nell’impostazione del manuale che cerco di trasmettermi) è una disciplina che nasce in un’epoca storica (la seconda metà dell’Ottocento) e in una temperie culturale (il positivismo) segnate dall’empirismo, cioè dalla convinzione che la realtà (sociale o naturale) andasse indagata – per produrre conoscenza scientifica – attraverso l’esperienza diretta e la verifica sperimentale. Da questa tradizione epistemologica l’antropologia ha ereditato la forte convinzione (tutt’ora caposaldo della disciplina) che un aspetto

fondamentale della professione antropologica fosse la raccolta diretta di dati attraverso la RICERCA SUL CAMPO. Voglio capire come funziona quel sistema politico, o come è organizzata la divisione del lavoro in quella zona, o ancora quali sono le credenze religiose di quel gruppo? Non posso – dice la prospettiva empirista – affidarmi a resoconti di seconda mano (di ufficiali coloniali, missionari, viaggiatori o commercianti) ma devo personalmente raccogliere i dati che serviranno alla mia analisi di quel determinato fatto culturale.

La ricerca sul campo è stata quindi considerata la forma canonica della raccolta dei dati antropologici. Come il biologo raccoglie i suoi dati nel laboratorio e lo storico compie le sue ricerca in biblioteca o negli archivi, così l’antropologo compie le sue ricerche stando sul campo, condividendo cioè un lungo periodo di tempo (nella tradizione anglosassone almeno un anno) con la popolazione studiata. La descrizione del suo lavoro, i dati raccolti e le analisi del fatto culturale indagato costituiscono l’ETNOGRAFIA di quel particolare caso o fatto antropologico. Sono quindi state fatte etnografie sul sistema religioso dei Nuer, sugli “strani” scambi commerciali dei Trobriandesi, sui giochi rituali dei Tikopiani, e su innumerevoli altri fatti culturali, praticamente in tutto il mondo (con una preferenza fino a tempi recenti per lo studio di comunità di piccole dimensioni, possibilmente “isolate”: quelle che un tempo si chiamavano società primitive).

Se avete presente quel che abbiamo detto sulla natura semiotica della cultura (una rete di significati) e sulla natura sociale e pubblica dei significati (che sono prodotti dall’interazione sociale, e non se ne stanno buoni buoni nella testa delle persone) vi rendete già conto di quanto la ricerca sul campo descritta in questo modo non corrisponda (o corrisponda molto poco) a quel che un antropologo fa effettivamente. I dati (o fatti) antropologici non possono essere “raccolti” proprio perché sono di natura semiotica (sono segni, e quindi prodotti e riprodotti costantemente dai membri della comunità e dall’antropologo che cerca di studiarla). Non posso arrivare sul campo e “raccogliere” il significato del termine “cane”, perché non c’è nessun posto “empirico” dove questo significato se ne starebbe rintanato per farsi scoprire. Come antropologo, posso guardare e ascoltare, posso fare domande e chiedere chiarimenti, confrontare quel che vedo con quel che so, cercare di mettere assieme i pezzi, formulare un’ipotesi interpretativa su quel che vedo, chiedere in giro se la mia ipotesi è corretta, modificare la mia ipotesi in base a quel che di nuovo mi è stato detto, confrontare la mia ipotesi rispetto a quel fatto culturale nel quadro più vasto di altri fatti culturali di quella cultura (per esempio, confrontare il “cane” come “carne preziosa” con il rapporto che quella cultura ha con altri animali). Insomma, tutto quello che posso fare, come antropologo, è cercare di INTERPRETARE quel che vedo, sento, chiedo, vivo, al fine di ricucire la rete di significato indigena che

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rende comprensibile ai nativi quel particolare fatto culturale. Vista in questa luce, la rilevanza della ricerca sul campo come esperienza diretta dell’antropologo non viene meno, ma ha un senso diverso da quello previsto dal classico modello empirista. Raccogliere i dati “direttamente” era importante perché si temeva che dei non professionisti (missionari, funzionari coloniali eccetera) potessero raccogliere dati “sbagliati”. Ma se ammettiamo che i dati antropologici (i significati culturali) non stanno “lì”, come le mucche o le pietre, ma sono il prodotto dell’interazione interpretativa tra antropologo e persone che appartengono alla cultura che sta studiando, ecco allora che il problema di accettare dati da fonti indirette è che non sappiamo come quei dati siano stati prodotti, non conosciamo cioè il processo comunicativo che ha prodotto quel dato antropologico. L’antropologo che invece lavora direttamente sul campo dovrebbe essere in grado, attraverso la riflessività e la consapevolezza della dimensione semiotica della cultura, non solo di “arrivare” a quel particolare significato indigeno, ma anche di raccontare qual è stato il percorso che lo ha condotto a quel significato.

In buona sostanza, la ricerca sul campo è il tentativo di capire un punto di vista diverso dal nostro, ma questa è un’operazione che facciamo costantemente. Ogni volta che non siamo completamente isolati in noi stessi dobbiamo affrontare questo problema: il prof oggi mi ha spiegato il concetto di ricerca sul campo. Che voleva dire? La mia amica mi ha detto di aver letto quel libro, e ha detto che è un libro “particolare”. Che significa? Mio padre ha detto che sarebbe ora mi dessi una mossa con gli studi. Vuole che mi laurei presto? E perché mai? Vuole liberarsi di me quanto prima oppure ci tiene a che io divenga una persona autonoma? Cosa voleva dire quel tale sull’autobus, quando ha detto che gli stranieri dovrebbero essere più rispettosi? E quell’anziano che si lamenta che le ragazze oggi sono “spudorate”, a cosa si riferiva? La vita degli esseri umani è un’incessante operazione di interpretazione, e in questo senso la ricerca antropologica somiglia alla vita. La differenza, la specificità che poniamo nella ricerca sul campo è la sistematicità con cui cerchiamo di mantenere consapevolezza dell’impegno interpretativo. Lavorare con persone che parlano una lingua diversa, che praticano usi e costumi “evidentemente” diversi da quelli cui siamo abituati a vedere e praticare, ci costringe a mantenere all’erta i nostri meccanismi interpretativi. Come antropologo, ho il dovere scientifico di rendermi conto del percorso specifico che mi ha portato a produrre quell’interpretazione. Come antropologo, ho poi ulteriori obblighi: devo sempre tendere alla verifica della mia interpretazione comunicando le mie ipotesi (in forme comprensibili per le persone con le quali interagisco) e valutando la reazione che suscitano. È questo il senso della natura INTERSOGGETTIVA dei dati antropologici. Non sono dati oggettivi nel senso che

non posso sperare di poterli raccogliere come se fossero funghi in un bosco. Ma non possono neppure essere dati SOGGETTIVI, di cui io sono l’unico produttore e garante, perché così rischio quasi certamente di fornire interpretazioni che non corrispondono per nulla al “punto di vista dei nativi”. I dati antropologici sono intersoggettivi nel senso che non esistevano prima della ricerca sul campo, ma devono avere un qualche senso condiviso per me e per le persone assieme alle quali li ho prodotti.

Un altro punto fondamentale della dimensione scientifica e interpretativa della ricerca antropologica è la capacità di comunicare quei dati al di fuori del gruppo interagendo con il quale sono stati prodotti. Poniamo che io voglia studiare la stregoneria in un contesto culturale, e che io sia in grado di entrare a tal punto dentro quella rete semiotica da farla mia, da diventare insomma un “indigeno”. Questo non è fare ricerca antropologica perché se divento un indigeno, e magari divento uno stregone potentissimo, non sarò più interessato a comunicare il mio punto di vista al di fuori della mia comunità di riferimento. L’antropologo – dice Clifford Geertz – non può fare uno studio sulla stregoneria come se fosse un ragioniere (disinteressandosi quindi completamente dei significati nativi, della rete semiotica che produce il senso della stregoneria), ma non può neppure fare uno studio sulla stregoneria come se fosse uno stregone, perché se si rinchiude completamente dentro la sua rete di significati di stregone non consente a chi ne è esterno di comprenderla. L’impegno della ricerca antropologica è quindi quello di tenere collegate e reciprocamente comprensibili diverse reti di significato, quelle indigena e quelle da cui proviene. Come un apripista o uno scout, l’antropologo traccia percorsi mai battuti prima, provando a creare la strada che ci permette di capire chi è diverso senza farlo diventare uguale a noi, ma senza ridurlo a una diversità assolutamente incomprensibile.

L’esercizio di etnografia che vi ho chiesto di comporre si orienta quindi come un primo tentativo esplicito da parte vostra di fare i conti con questa dimensione interpretativa della descrizione e della comunicazione. Se è vero quel che abbiamo detto sui segni (convenzionali e pubblici nel loro significato, cioè prodotti dall’interazione comunicativa, cioè dalla reciproca interpretazione) non può esistere una descrizione oggettiva di alcunché, ma invece una tensione interpretativa di quel che vedo, sento e dico. In altre parole, ogni descrizione non può che essere un’interpretazione, e quindi qualunque etnografia (anche una breve relazione che cerchi di raccontare come una matricola entra all’università, come si interagisce con un datore di lavoro, come si divide la stanza con un compagno invadente, eccetera) è il risultato di un complesso lavoro interpretativo. L’esercizio che vi chiedo è un primo passo per iniziare a riflettere sui meccanismi retorici che vengono messi in atto in queste operazioni di descrizione.

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A scanso di equivoci, dire che ogni descrizione dei fatti culturali non può che essere un’interpretazione (dato che i fatti culturali sono di natura semiotica) non significa assolutamente rinunciare alla scientificità della ricerca antropologia. Se per scienza intendiamo lo sforzo costante di produrre conoscenza verificabile e condivisibile, l’antropologia è e vuole essere una disciplina scientifica. Non può però essere una disciplina che si basa sull’epistemologia dell’empirismo stretto, quello per cui la realtà è tutta esterna e basta solo individuare il metodo preciso per raccogliere i dati. Credo che questa prospettiva (che oggi è stata superata anche per le scienze cosiddette “dure” come la fisica e la biologia), se viene imposta come un feticcio, non produca conoscenza scientifica, in quanto non riesce a produrre dati rilevanti per il progetto dell’antropologia culturale. Se pretendo di studiare una cultura disinteressandomi dei significato indigeno dei segni che vedo, quel che otterrò sarà una serie di segni di cui non so il significato, o cui attribuisco un significato del tutto arbitrario.

L’antropologia è quindi una scienza interpretativa che sa che i suoi fatti sono prodotti nell’interazione tra l’antropologo e i suoi informatori, e tra l’antropologo e le sue competenze. Scrivere cercando di descrivere un fatto culturale è un’operazione creativa senza essere arbitraria, intersoggettiva senza essere bizzarra o frutto del capriccio. È difficile convivere con una strategia di ricerca che non ci tranquillizza rispetto al metodo che dobbiamo usare. Non si sono regole automatiche da applicare nella ricerca antropologica, non ci sono “protocolli” rigorosi per la metodologia. Ci resta come punto di riferimento la volontà di conoscere modi diversi di pensare e vivere: solo tenendo a mente l’obiettivo finale della ricerca antropologica potremo raffinare nella pratica il modo in cui facciamo ricerca.

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PASTORI E PINOCCHI, BALORDI E BALLERINI. IL MUTAMENTO DELL’IMMAGINE DEGLI ALBANESI NEI MEZZI DI COMUNICAZIONE ITALIANI (1997-2006)

PIERO VERENI

Eravamo ragazzini quando stavamo al paesino, c’era la guerra civile del 1997. L’unica cosa che ho imparato nella guerra civile è stato ascoltare i Led Zeppelin e la musica rock. Perché noi andavamo al mare. Avevamo questa radio e la portavamo in riva al mare. Sentivamo radio Bari. Tra le nove e le dieci di sera davano un programma di musica rock. “Ora ascoltiamo una canzone, una pietra miliare del rock, Stair Way To Heaven, loro sono i Led Zeppelin”. Poi mettevano i Jethro Tull, i Deep Purple. Guardavamo questo mare, le onde del mare, e intanto ascoltavamo queste canzoni sparate a tutto volume. Io e il mio amico ascoltavamo e dicevamo: guarda il mondo come è bello di là… [Intervista a Elton Sinami, registrata a Firenze il 16 dicembre 2006]

IntroduzioneTra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo

in Macedonia occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles de Rapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell’area di confine tra Albania e Grecia. Durante uno di questi viaggi, a Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore di matematica in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccontò che aveva due figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l’altro in Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo quell’estate. Il discorso che il padre tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: “Vai in Italia, cercati un lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana e cresci dei figli italiani. Adesso non è tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignità da difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche anno, quando e se l’Albania ritroverà un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati anche tu che provieni da questo Paese”. Ricordo la forte impressione che mi suscitò questo imperioso comando di un padre a

scordare la patria, la terra dei padri. All’epoca, gli albanesi non godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in generale aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con la più alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili, anche per via delle caratteristiche somatiche “mimetiche”.

Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare rapidamente il modo in cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando il Paese balcanico da gennaio iniziò presto ad attrarre l’attenzione dei mezzi di comunicazione italiani, soprattutto quando produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese.

Ne emerse un’immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli albanesi, delle loro motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e più consistente di questo lavoro.

Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per avanzare alcune riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazione dell’identità albanese, e cioè la televisione d’intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio.

Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media nella formazione delle identità collettive, queste pagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora in corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media, strumenti di comunicazione sempre bidirezionali, che molto dicono non solo sulla natura dell’oggetto rappresentato, ma anche sulle forme culturali del soggetto che attua l’operazione di rappresentazione.

Pastori e pinocchiIl 1997 è un anno di svolta per l’economia albanese. A partire dalla metà di

gennaio le numerose finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le rimesse degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il sistema piramidale della raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una rendita dal proprio investimento, doveva trascinare con sé una dozzina di nuovi utenti) era giunto a saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmente volatilizzato. La crisi colpì la quasi totalità della popolazione residente in Albania e l’inerzia del governo di Sali Berisha nell’affrontare per tempo la

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situazione provocò da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni popolari e scontri anche violenti, periodo oggi è ricordato come la “guerra civile”, anche se non è mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte.

Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania tra il 15 aprile e il 12 agosto 1997 la “missione Alba”, condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione per aiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritorno della stabilità politica. Per la prima volta, una missione internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle truppe coinvolte sul territorio. Si trattò quindi di un’importante occasione per fare vedere, sullo scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare dell’Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale.

L’intera vicenda ebbe un’intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente partecipò anche l’Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i “corsivi” di quattro quotidiani italiani hanno raccontato la crisi dell’economia albanese tra febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo soprattutto per la sua implicita natura di testo “autoriale”, volendo quindi porre un parallelo tra la scrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati: La Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l’intento di fornire un quadro genericamente esaustivo del panorama disponibile all’epoca, pur se costretto a tralasciare altri grandi quotidiani “d’opinione”.

Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta attenzione a quel che accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a catena e non mancano le manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nelle pagine interne, e quasi nulla che somigli a un corsivo. Posso citare due colonne non firmate su la Repubblica dell’11/2, anche perché, primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema che ossessionerà gli italiani di lì a qualche settimana: “E quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri ritenute più solide da un punto di vista economico […] non resterà agli albanesi altro che tornare a imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi”.

Quando l’interesse cresce, predomina un’immagine degli albanesi come “popolo folclorico”: “…noi andammo all’attacco di quello che, allora, veniva definito ‘il nobile popolo schipetaro’. C’era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessina ungherese di nome Geraldine: un bel soggetto per un musical […] Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serene popolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa da Bari”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest’icona tra l’agreste e il

comico pochi giorni dopo: “Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero Paese […] trovammo un mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggi o buttava reti”, Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano descritti come “…gente che aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso lo scambio di carta; parossistica rappresentazione di un capitalismo da film di Frank Capra”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Nessuno nota che quel concetto di capitalismo è lo stesso che pochi anni prima aveva nutrito un meccanismo finanziario del tutto simile, e cioè il sistema dei junk-bonds, i “titoli-spazzatura” utilizzati negli anni Ottanta da squali della Borsa come Michael Millken. Si preferisce descriverli in modo lapidario: “Gli albanesi sono dei pinocchi che credono nel Paese dei Balocchi”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3, o li si deride con una curiosa inversione di oggetto che già sposta l’attenzione da “loro” a “noi”: “…quei gonzacchioni che si son fatti accalappiare da degli pseudo finanzieri d’assalto – non poi molto diversamente da come noi stessi negli anni Cinquanta ci lasciammo infinocchiare dai vari Virgillito and company”, il Giornale, Riva, 2/3.

In generale, in questa prima fase, che dura fin circa la metà di marzo, i corsivisti parlano ancora con toni compassionevoli, con indubbi risvolti da complesso di superiorità: “…un popolo dall’animo vuoto più ancora delle tasche”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3. Ma è meglio chiarire subito: “Gli albanesi non sono i nostri ‘fratelli separati’. Semmai sono i nostri cugini scalognati”, il Giornale, Riva, 2/3. Cugini di cui è bene fidarsi poco, soprattutto se si pensa che sono “…una popolazione che di violenza si è sempre nutrita”, il Giornale, Caputo, 4/3.

Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non sono chiari i motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non sequitur che risente evidentemente di un radicato stereotipo della “polveriera” che così bene si accompagna al quadro “balcanico” (Todorova 1997): in Albania succedono sommosse, quindi c’è il rischio che si incendino i Paesi vicini.

“L’Albania non è un’eccezione, ma solo l’anello più debole di quella catena che collega la Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi… legati da un comune destino: l’incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato”, Corriere della Sera, Cingolani, 2/3.

“Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove condizioni minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di lì tutti i Balcani”, Corriere della Sera Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l’est ex-comunista: “Dunque: oggi in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e,

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forse, in Russia?” Gazzettino, Ostellino, 4/3 e qualcuno prevede ripercussioni su tutta l’Europa, senza distinzioni: “…una crisi che destabilizza ancor più l’area balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l’Europa” Gazzettino, Tito, 14/3.

“Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l’Albania può esplodere il Kosovo […] Poi c’è la Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l’incendio dei Balcani. La Grecia, intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud dell’Albania”, Corriere della Sera, Cingolani, 6/3.

“Un’altra Somalia, un altro Libano? No, perché l’Albania è qui, è in Europa e per massima disdetta è anche nei Balcani, nella nostra secolare e già tanto insanguinata ‘polveriera’”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3.

Un altro esperto dell’area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si tratterebbe, per l’Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile, della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: “Il nuovo regime di Tirana ha infatti realizzato dopo il ´91 una metamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindi sostenuta una ‘balcanizzazione’ del paese invece di contrastarla”, la Repubblica, Cavallari, 6/3.

Una versione peculiare di questa teoria del “contagio balcanico” è quella proposta da Robi Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: “Coinvolgere l’Europa vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosa sua proprio quella regione dell’Albania meridionale attorno a Valona che è attualmente in piena rivolta contro il governo di Tirana; una regione dove tra l’altro è insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura è priva di qualunque tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimo tempo così delimitata dal punto di vista territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e nell’appoggio che le può provenire dalla madrepatria, la Grecia”, il Giornale, Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto “Epiro settentrionale” – e cioè i distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet, dove vive la minoranza grecofona d’Albania – è ben distante da Valona, città del tutto albanese per cultura e lingua, la Grecia, in realtà, non “rivendica da sempre come sua” alcuna terra d’Albania. Se è vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione dei territori dell’Albania meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, è anche vero che nessun governo greco dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso alcun organismo internazionale.

In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunque una minoranza di lingua greca e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese

(c’è semmai contrasto tra governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza numerica della medesima), con il diritto di scuole in greco e tre quotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell’agosto precedente la crisi albanese si erano aperte tre nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina, frutto dell’accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights Watch 1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che all’epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinki ammetteva che “la minoranza greca è una parte integrante della società albanese”. Questo tipo di giornalismo – che trasforma senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamente irredentista e l’Albania in un oppressore dei diritti delle minoranze – risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a “balcanizzare i Balcani”, ad attribuire cioè pregiudizialmente a tutta l’area genericamente “a sud est” istinti primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui.

Ma questa visione balcanizzante dell’Albania si intreccia con un’altra dimensione dell’analisi, che indichiamo come “teoria del congelamento”. Secondo questa chiave – applicata con sistematicità durante il crollo della Jugoslavia – quel che è accaduto in Europa orientale negli anni Novanta sarebbe la ripresa di dinamiche storiche che i regimi socialisti e comunisti non avrebbe fatto altro che congelare. Così, si è interpretato il presente usando manuali di storia ed etnologia scritti prima della guerra, presentando di solito la questione albanese come un token del type balcanico (“Se si sfoglia un celebre libro sui Balcani, il secondo volume delle memorie di Raymond Poincaré, intitolato appunto ‘Le Balkans en feu’, si vedrà quanto fosse intrattabile già allora, nel 1912, la ‘questione albanese’”, la Repubblica, Viola, 13/3); e si sono spiegati gli eventi caotici e cruenti come un ritorno alle origini, intendendo con ciò le condizioni socio-economiche precedenti all’insediamento dei regimi comunisti. In tutti i giornali considerati per questa indagine abbondano gli articoli “storici” che mostrano le “analogie” tra l’Albania che subì l’invasione fascista nel 1939 e quella dell’operazione Alba. “In queste ultime due settimane è tornata in scena, infatti, dopo quasi mezzo secolo di stalinismo pastorale e qualche anno di parvenze democratiche, l’Albania dei libri di storia. Un paese arcaico, privo di un vero cemento statuale, ancora fondato sulle divisioni regionali, il familismo, il clan e le lealtà tribali”, la Repubblica, Viola, 13/3. “Il recupero del passato, del resto, è una chiave fondamentale per interpretare il caso albanese. Il ‘fis’ (clan), il ‘kanun’ (la legge consuetudinaria), la ‘besa’ (parola d’onore), la divisione tra il Nord ‘ghego’ e il Sud ‘tosco’, le tre religioni (musulmana in maggioranza, ortodossa nel

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meridione, cattolica in alcune zone settentrionali): tutto ciò che era stato soffocato sotto la cappa della dittatura ideologica, torna prepotentemente alla luce. La Storia rinasce, come in gran parte dei Balcani”, Corriere della Sera, Cingolani, 8/4. Questo schema interpretativo della realtà albanese (presentata naturalmente come una “…ennesima versione della ‘poudrière balkanique’…”, la Repubblica, Viola, 13/3) ha la curiosa caratteristica di poter essere contraddetto senza andare in frantumi. Lo stesso Cingolani, che ha appena scritto che la divisione in clan del Paese sarebbe stata soffocata, congelata dal regime, aggiunge subito: “Le divisioni sono rimaste pressoché intatte durante la dittatura di Enver Hoxha che impose un’egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo successore, fu appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto”, Corriere della Sera, Cingolani, 8/4.

Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in un articolo di Sandro Viola: “L’Albania si rivela in fin dei conti identica – almeno per un aspetto – ad ogni altro paese su cui sia scesa la sventura del comunismo. L’aspetto cioè del congelamento, dell’eclisse solo apparente e temporanea, durante il periodo comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia e in Ungheria sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in Albania sono tornati a galla il disordine, l’irrequietezza dei clan, la pratica del brigantaggio che erano sempre stati i fattori della sua arretratezza. […] Quattro decenni e più di comunismo hanno lasciato sotto il ghiacciaio del sistema totalitario, sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano. Nulla ha potuto evolversi, maturare”, la Repubblica, Viola, 16/3.

Banditi e invasoriQuando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano

più gravi e anche il governo di Tirana ammette che non si tratta più di “pochi facinorosi”, allora sui giornali italiani si alza il tiro. “L’Albania si è dissolta”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. “In un paio di settimane la protesta dei truffati ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine catastrofe umanitaria, politica, diplomatica”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il ministro degli Interni “potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuove possibili ondate di profughi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto, “L’Albania non c’è più”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3. “A Tirana è semplicemente crollato lo Stato”, il Giornale, Ricossa, 19/3. E che sia crollato solo lo Stato è troppo poco per alcuni commentatori: “Ma l’insurrezione è sfuggita agli

apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.

Il climax assume toni da film horror: “In Albania tutto ciò che fa di una massa di gente un “paese” ossia l’ordine, la legalità, la convivenza, l’amor di patria, la fiducia nell’avvenire, la tradizione, l’economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell’aria per effetto di una magia potente da Signore del Male”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati essenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativa per dati già noti, sembra rinunciare al suo ruolo, cedendo alle lusinghe della spiegazione “magica”: “L’Albania, a me sembra, è diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi italiani… Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una qualche forma di sindrome albanese”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda al Male, o a una malattia contagiosa. Questa analisi “irrazionalista” della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo affiora prepotente in un nuovo commento: “…ma il grande nemico, lo spirito del male, è spesso invincibile perché poggia sull’inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell’uomo. E in Albania sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della giustizia e della verità…”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati dagli albanesi si era appena parlato: “Questa, come abbiamo già detto, è piuttosto un’invasione di massa, […] una marea capace di esportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta”, la Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accennerà ancora il decano dei giornalisti italiani: “…l’Albania con i suoi virus di decomposizione e di guerra di bande”, Corriere della Sera, Montanelli, 30/3.

Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque tentativo di spiegare razionalmente una sommossa popolare in gran parte comprensibile data l’entità della crisi finanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo “illogico” e “irrazionale” che affliggerebbe gli albanesi: di fronte al Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico, per allontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente).

I corsivisti fanno presente fin dall’inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la crisi albanese: “È nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo e opposizione […] Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di profughi. Più di quelle che quotidianamente già abbiamo” Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non è chiaro cosa intenda Cerruti per “invasioni quotidiane”, ma l’equivalenza tra sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi è ribadita anche sul Corriere della Sera: “L’Italia può e deve stanziare aiuti immediati […] ben sapendo che

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costerebbe assai più caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell’estate ’91”, Corriere della Sera, Venturini, 4/3.

Un’altra voce autorevole: “Adesso c’è il rischio di una invasione alla rovescia, il terrore che la Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: ‘Sie kommen’, arrivano”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3.

La minaccia dell’invasione conferma la necessità di un intervento italiano, visto che se l’Italia non entrasse in gioco: “Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo né avremmo il diritto morale di respingere”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3.

L’escalation prospettata è terribile: “A questo punto tutto è possibile, anche l’impensabile: cioè la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos può uscire perfino un’orgia di rissa etnica senza confini ma non senza precedenti”, il Giornale, Pasolini Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per “precedenti” è presto detto: “L’Albania potrebbe trasformare l’Europa nel ventre molle occidentale, come la trasformò la Bosnia”, Corriere della Sera, Caretto, 17/3. “L’Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma un problema dell’Europa. Può essere l’inizio di una catena di guai per tutti”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3.

Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in Italia: “E speriamo, questo sì, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali che in Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia soffiano ancora nelle vele del Fronte nazionale”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3.

Le tinte fosche con cui si raccontano l’Albania e i suoi abitanti si incupiscono ancor più dopo la metà di marzo, quando l’Italia si “rende conto” di dover affrontare quel che più spesso viene definito un “esodo”.

“…l’esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una fuga di massa…”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. “…esodo albanese, che ha un sapore biblico”, il Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di “…Puglia invasa dagli albanesi […] La gente [italiana] si è comportata bene, ha mostrato di capire e compatire malgrado l’impatto tremendo dell’invasione”, il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza di anni, è utile ricordare che fino a quella data la cosiddetta invasione riguardava meno di diecimila persone.

Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: “Stiamo difendendo la nostra frontiera, le nostre città, le nostre famiglie e i nostri figli”, il Giornale, Giannattasio, 28/3. Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi improntati alla moderazione dei toni e degli animi: “È solo che ci saremmo aspettati

che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in predicazioni e sermoni a favore della tolleranza […] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette milioni di benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per l’invasione dei Visigoti”, la Repubblica, Polito, 27/3.

Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora esotico, limitato all’oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche l’immagine degli albanesi. Prima di tutto quelli lì, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: “La ‘terra delle aquile’ è in mano agli sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un’analisi politica e sociologica per spiegare il mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: “…quella che sembrava una rivolta popolare contro una truffa finanziaria si è rapidamente trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi burattinai: ex dirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalità organizzata internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e a sobillare le masse”, la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece decisamente sulla fisiognomica: “Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si inerpicano sulle montagne brulle. Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta…”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.

La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa in risalto anche dal contrasto con la bontà italiana del 1991: “I pugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa gente che arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino i bagni, e non è mica normale. E ci siamo ritrovati, dopo pochi anni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai loro zii. Che bella bontà”, il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce degli albanesi e loro passato pacifico: “Un tempo avevano la religione, la tradizione, il buon senso dei contadini. Oggi non hanno più nemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del proprio passato…”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3.

Se questa è l’immagine sempre più fosca e insieme più vaga, meno dettagliata, degli albanesi d’Albania, quelli che cercano di arrivare qui sono studiati con più precisione.

Una delle descrizioni assieme più analitiche e più “fantasmatiche” di coloro che stanno arrivando (a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino è di proposito abbastanza ambiguo da far sì che le accuse agli uni possano cadere anche sugli altri)

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è quella proposta da un nome di grido: “Ospiti balcanici che si presentano in compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo… Ospiti che sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui viali ‘del vizio’, si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori… Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di colpa…”, la Repubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito all’antropologo…

Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l’operazione inversa, di spiegare perché gli albanesi sarebbero così diversi dagli altri immigrati (e così diversamente trattati): “…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni dei nuovi schiavi dell’Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente remissivi come i filippini, non amano i bambini come le colf somale, non fanno i muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono cianfrusaglie come i senegalesi. Più che essere comandati, a loro piace comandare”, la Repubblica, Polito, 27/3.

Senza essere categorici come Biagi (“Da loro riceviamo, per l’interscambio, marijuana, e anche braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntano comunque su una questione sentita come centrale, non appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito rivela il diritto degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. “Per intervenire efficacemente dovremmo avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi si chiama solidarietà) oppure uno che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi è pronto a venirgli in soccorso”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una “…invasione di disperati, ma anche di delinquenti”, il Giornale, Giannattasio, 28/3.

Se per alcuni “…tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali è previsto il rimpatrio automatico”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando così l’impressione che tra i molti poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il rapporto è inverso: “…tra i boat-people dell’Adriatico ci sono più mafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in porto quando le loro carrette non ce la facevano ‘è stata una pazzia’”, il Giornale, Caputo, 22/3.

L’aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni è ciò che potremmo chiamare “la natura oggettiva e dicotomica del male”. La distinzione tra buoni e

cattivi è in questi corsivi sempre netta e senza appello. È arduo distinguere i due gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che di due gruppi si stia parlando. “Quanti saranno i ‘poco di buono’ arrivati con gli 11 mila albanesi? Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto della Penisola, si è rivelata quello che il filtro della solidarietà non ci aveva consentito di vedere con chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio gratis per i bambini perché inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono i controlli”, il Gazzettino, Pezzato, 20/3. È evidente la rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature, ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano: ognuno di loro può (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi.

Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni, adulti cattivi) passa allora anche tra i sessi: “Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindici anni, meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non capisco quell’orda di uomini d’età compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati confessano di non avere uno straccio di documento né di voler fornire le generalità e di non essere arrivati per accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta individuale, e l’ottuagenaria l’hanno lasciata in Albània [sic] a difendere la casa […] Sono giovani, forti. E scappano. Disertori non solo nell’esercito e nella polizia: disertori nell’animo e nella vita”, il Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra “un sindacalista della Cgil e un suo amico della stessa parrocchia”: “Essi hanno sostenuto la tesi, tutt’altro che peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come ‘schermo’ e rimandare invece immantinente in Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto bisogno di protezione”, il Giornale, Caputo, 22/3.

Sono pochi quelli che tentano una difesa “globale” degli albanesi in arrivo: “Via, presi nell’insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a mare”, la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà comune tra qualche giorno, dopo una tragedia che segnerà uno spartiacque, il tema degli albanesi come nostri antenati, come doppio grottesco degli italiani: “Li guardi un po’ in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella (onorevole Arlecchino, onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso, suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa di un somaro? […] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3.

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Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di “…battelli stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realtà sono soltanto degli emigranti abusivi reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)”, il Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il dilemma morale di distinguere tra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso soluzioni radicali: “I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano”, il Giornale, Farina, 27/3.

Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva speronata dalla nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l’ingresso in acque italiane. A seguito dell’affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo choc è immediato. Sembra che si sia realizzato qualcosa di terribile, ma che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto impresentabile della coscienza collettiva, desideravano che accadesse.

L’affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno nell’analisi dei corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come è stata raccontata, fino a quel punto, la “crisi albanese”: “In effetti, nessuno di noi potrebbe spiegare con un minimo di precisione che cosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopo cinquanta giorni di convulsioni, è che l’Albania è un paese sconosciuto. Indecifrabile”, la Repubblica, Viola, 30/3.

Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con più fermezza: “Ma noi entriamo in crisi psicologica perché dodicimila albanesi sono sbarcati (e già quasi duemila sono stati riportati al paese di origine con metodi abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno uno psicodramma con sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano accoglienza…”, la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: “Mi ribello all’idea che si nasconda razzismo, intolleranza, meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione del problema dei quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in cui già si sono fra un milione e due milioni di extracomunitari. In realtà si tratta di un problema relativamente modesto trasformato in un caso nazionale”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4.

Nell’insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: l’Albania è un Paese in crisi, ma non più quella bolgia infernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo una settimana prima: “In Albania non esiste una guerra civile, quelli che hanno raso al suolo università, uffici, caserme, persino i

canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un regime ormai morto e non degnamente sostituito […] La stragrande maggioranza degli albanesi vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissioni televisive, un rispettabile nucleo di società civile, una tradizione culturale”, la Repubblica, Bocca, 12/4.

Ma col passare dei giorni l’Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare spazio sempre di più all’Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento armato in Albania. Questo sia sul versante interno: “Al quinto giorno [dopo l’affondamento] tutto o quasi è finito in politica interna…”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l’immagine e il prestigio italiani: “Il successo dell’Operazione Alba vale dieci ‘manovrine’ per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri partner nel già radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini dell’Europa per il futuro prevedibile”, la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: “…l’Italia si gioca più di quanto creda. Anzi, si gioca tutto. Perché l’incrocio con la tragedia albanese strappa l’Italietta dell’Ulivo all’eterno teatrino e la pone davanti a un’alternativa grave. Se la missione Alba avrà successo, il nostro Paese e il governo ne riceveranno enorme prestigio […] E a quel punto, parametri o non parametri, toccherà a Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l’Italia nel pullman di Maastricht, anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurrà in un disastro […] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe intese che possano tenere…”, la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l’Italia di quei giorni sembrò decidere di andare in Albania come via più diretta per “entrare in Europa”. L’impegno militare degli italiani veniva assunto, prima di tutto, di fronte alla comunità internazionale e ai partner dell’Unione Europea, per vedere che l’Italia non era più l’Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della seconda guerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identità: non è l’Albania che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora grava sull’Italia.

Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un editoriale del Times critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo albanese: “…l’editoriale del Times contro l’imminente intervento italiano in Albania […] rispecchiava benissimo il senso di superiorità e gli stereotipi che da sempre nutrono l’atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gli italiani…”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le conseguenze politiche che la futura “operazione Alba” potrà avere non tanto sull’Albania (tema questo del tutto secondario) quanto sull’immagine dell’Italia all’estero: “abbiamo forse ora la possibilità, se sapremo comportarci correttamente

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sia sotto il profilo tecnico che sotto quello politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi – spesso non privi di fondamento – sugli italiani, da sempre sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del Regno Unito)”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L’Albania diviene dunque il luogo del riscatto dell’identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la qualità della nazione. La questione italo-albanese va misurata non tanto per le possibilità che oggettivamente l’Italia ha di migliorare la situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente per quanto l’Albania possa, nel bene e nel male, influire sull’immagine dell’Italia all’estero.

Il carnevale delle identitàIl nuovo tono nel parlare dell’Albania e l’attenzione sempre maggiore prestata al

ruolo che questo Paese può giocare per l’Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi di un’inversione, di un “carnevale” provocato dagli albanesi con la loro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi già prima dell’affondamento: “…durante la trasmissione di attualità Italia Radio (emittente notoriamente vicina al Pds), è intervenuta una signora romana: ‘Ho famiglia, siamo otto persone, tutte di sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull’Albania. Ebbene, alla fine abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui durante la campagna elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti aveva ragione perfino Tablandini della Lega. I miei, un disastro”, il Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l’unico ad ascoltare Italia Radio, quei giorni: “Provate a sentire Italia Radio, l’emittente del Pds. Ogni mattina, al suo filo diretto, si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma l’invasione”, la Repubblica, 27/3.

Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: “Qui [anche a sinistra] si registra una ostilità dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti che sembrano costole della Lega”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3. “‘Buttiamoli a mare, buttiamoli a mare’. Nei giorni scorsi l’invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei bar del Nord, ma anche nei caffè del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere per difendere la purezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo di risparmiarli, per carità, dall’invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte”, Corriere della Sera, Cingolani, 29/3. “Perché la parte più progressista della nostra opinione pubblica sta riservando agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe permesso nei confronti di somali e marocchini, senegalesi e filippini?”, la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una val la pena

di essere citata perché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul “carnevale” albanese: “La prima ragione che ci viene in mente è che gli albanesi hanno la colpa di essere bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […] Poco, diversi, troppo simili”, la Repubblica, Polito, 27/3.

Ci si rende subito conto, dopo l’affondamento della nave, del ruolo attivo che hanno gli albanesi per la costruzione di noi stessi come italiani: “La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo […] davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che riflette un’immagine reale e non deformata. Nessuna illusione ottica, siamo proprio così”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado veramente di ribaltare l’Italia: “Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti, l’inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa”, Corriere della Sera, Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: “…la sinistra ha lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50 milioni di abitanti non può lasciarsi dominare dal panico politico per l’arrivo di 10 mila profughi. C’è stata cioè una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti”, la Repubblica, Mauro, 1/4.

Ma tutti – che si parli di svelamento o di ribaltamento dell’identità – sono concordi sul senso totale di straniamento: “Strani [gli italiani], perché non si era mai visto un governo di centrosinistra, e per di più sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi. Strani perché con la stessa bocca predichiamo la solidarietà e poi gridiamo ‘buttiamoli a mare’. Strani perché a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il leader dei progressisti sia un reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta torna la metafora del contagio: “Sembra quasi che per contagio la disgregazione albanese abbia colpito la nostra classe politica…”, il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che “…dove finisca la maggioranza e finisca l’opposizione è difficile dire”, la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di “…un Paese governato dall’incertezza, e con una maggioranza inesistente…”, il Giornale, Cervi, 4/4, non è più all’Albania che si fa riferimento, come due mesi prima (“Tutti sono contro tutti. Non c’è più maggioranza, non c’è mai stata opposizione”, la Repubblica, 11/2) ma all’Italia.

La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal mondo politico per coinvolgere tutti: “…il nostro strano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto di essere cattolico e solidaristico come pochi, all’improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare un popolo in fuga. E, cosa

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incredibile, per poco non ci riesce”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. “Italia: fino a ieri il paese dell’amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico e egoista”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. “…il ceto politico e la stampa rispecchiano gli elettori e i lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano più gli ‘italiani brava gente’ ma una collettività ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere ‘cortine di acciaio’”, la Repubblica, Bocca, 3/4. “Prima c’era un paese che, tutto sommato compatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte a un’immigrazione clandestina e di massa dall’Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni, governo, maggioranza e opposizione stavano tutti più o meno scomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti, gli immigrati sono ridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte in commedia […] c’è stata quella notte, ha sconvolto gli animi e distorto i comportamenti”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4.

Un modo interessante di guardare al problema è quello proposto da Ernesto Galli della Loggia, in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo l’affondamento della Kater I Rades: “Ma come è possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione europea come l’Italia si faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che sembra quasi non vi sia più una città, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure qualche decina? […] È possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, è la diffusione ormai senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al materialismo e al consumismo […] La realtà è che se una nazione di sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l’Italia si fa spaventare da una manciata di profughi albanesi è precisamente perché essa non si sente affatto una nazione. […] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di questo vasto insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di comunità sparse, legate da un debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiuto precisamente perché sono visti non già come dei profughi che arrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli intrusi non invitati in questa o quella delle tante comunità di cui sopra”, Corriere della Sera, Galli della Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: “Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice l’autore, non siamo né razzisti, né egoisti, né insensibili, siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato […] Tutto questo è molto triste. Senza nazione e senza Stato non si va lontano, si può essere sconfitti anche in una battaglia non combattuta contro i pezzenti, nel canale d’Otranto”, il Giornale, Scarpino, 3/4.

È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo “senza nazione e senza Stato”, quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti così. Marcello Veneziani riprende l’argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco degli specchi incrociati: “Gli italiani temono ondate di immigrati albanesi non perché siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni. Perché vedono gli albanesi come degli italiani affamati, li temono perché sono la nostra versione primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernità: li spaventa l’arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al contrario, perché temono la fragilità del nostro sgangherato sistema Paese, con tante piccole Albanie e disoccupazione. Non si fidano dell’Italia e si sentono una comunità nazionale spappolata”, il Giornale, Veneziani, 5/4.

Albanesi e ballerini Ma questo ripensamento di sé attraverso l’incontro/scontro con l’altro è

esattamente quel che gli albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cioè il cronico isolamento imposto dal regime – ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un confine interno che creava una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere solo gli autorizzati – si allentò nella seconda metà degli anni Ottanta per crollare del tutto nel 1990. L’apertura del confronto con l’altro (è noto in questo senso il ruolo giocato dalla televisione italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa autostima sociale.

Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlato all’epoca di una “…psicosi pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volontà di autodenigrazione, autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e notte che questo paese è maledetto, non ha un futuro e merita di sparire è diventata una moda in alcuni ambienti”, la Repubblica, Kadarè, 13/3.

Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno spietato stato di polizia, anche sull’orgoglio nazionale, profuso in quantità massicce dal potere attraverso tutti i canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo dopoguerra sono cresciuti nella ferma convinzione (suffragata da continui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita da una verifica su modelli diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante altre mai e di gente industriosa e capace.

La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessità di far i conti con il giudizio degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi

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sanno benissimo quanto questo giudizio da parte dell’Altro sia un elemento fondamentale per la costruzione di sé come comunità etnica e/o nazionale (Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione albanese si era costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno costituito il contatto con l’Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, ma in entrambi i casi la possibilità di giudicare ed essere giudicati veniva di molto limitata dall’ideologia inter-nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cui essere valutati, ma piuttosto un Simile. Tanto simile da dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il contatto non fosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un’idea di sé che si basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima mediatico e poi diretto con l’Occidente ha letteralmente spazzato via questo giudizio. Il fiero popolo albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese più evoluto del mondo, si è reso conto che gli equivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terra non erano più usati in occidente da diversi decenni; che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore di qualsiasi concorrente dell’ovest; che insomma la superiorità naturale del popolo albanese veniva messa in discussione dalla realtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990 sempre più frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi all’estero.

C’è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire un’immagine di sé come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come è noto “Albania” è un termine prima romano poi bizantino per designare una regione chiamata invece dagli abitanti “Shqipëria”. Allo stesso modo, quelli che tutto il mondo chiama “albanesi” (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi, ecc.) chiamano se stessi “Shqiptarë”.

Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. In macchina con noi c’era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo con lui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato in Francia. Madin fortunatamente parlava un po’ di greco, per cui riuscivamo a comunicarci l’essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la moschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada è bloccata da una macchina in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l’autista al volante. Potrebbe accostare alla sua sinistra, c’è uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficoltà a far manovra con scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il maldestro autista, e

lo apostrofa con un “Albanes!” che, dal tono con cui viene pronunciato, significa con tutta evidenza: “Imbranato!”. Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha detto, forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello “Odigài san alvanòs”, letteralmente: “Guida come un albanese”.

Mi spiegherà poi che il termine è ormai d’uso comune, per indicare i fessi, gli incapaci, gli ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi è diventata in Albania un termine spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i conti con l’Albania, con le immagini delle navi cariche verso la Puglia, degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptarë, tanto orgogliosi d’esserlo, fieri della loro storia e della loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi.

Ma quest’immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell’identità albanese si è lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme la categorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani vedono gli albanesi) e l’identificazione interna (cioè il modo in cui gli albanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all’inizio del terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali.

Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un ragazzo diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di “buona famiglia” (madre farmacista e padre docente universitario), Kledi è appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l’hanno iscritto a dieci anni all’Accademia Nazionale di Tirana, poco distante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver Hoxha sarebbe morto l’anno successivo, e in Albania diventa sempre più facile guardare i programmi della televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione italiana, e le due attività diventano parte di un solo progetto, che così oggi viene raccontato nelle note biografiche del suo sito ufficiale (<http://www.kledi.it/Biografia.html>):

Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come Heather Parisi, Lorella Cuccarini, Raffaella Carrà, Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al loro fianco, in un grande show.

Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso esemplare di quel che Appadurai (1996) chiama “immaginazione come pratica sociale”. Il 12 agosto 1991, “mentre era in vacanza a Durazzo”, si imbarca su una

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delle navi che facevano la spola tra l’Albania e la Puglia cariche di disperati e speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall’Italia quasi immediatamente. Rientrerà più di un anno dopo, chiamato da una compagnia di danza di Mantova che aveva avuto il suo nome dall’Accademia Nazionale di Tirana. Passa rapidamente alla televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del programma pomeridiano Buona domenica, dove rimarrà fino al 2003. Conosce così Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con sé sia a C’è posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di Buona Domenica e C’è posta per te è in buona parte adulto, l’audience di Amici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile, e ne decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la “Kledi Academy”, una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon successo e che organizza corsi annuali e stage estivi. Nel frattempo, è diventato anche un attore di successo sia per il cinema (Passo a due, La cura del gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani è un altro giorno, 2006).

In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese “vincente”, il primo a raggiungere in Italia notorietà per le sue qualità artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale, certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova generazione di albanesi, disposti a proporre agli inizi del terzo millennio una forma alternativa di identità rispetto al modello “poveraccio o criminale” che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana come veicolo di informazione, sia dall’Albania attraverso le antenne paraboliche, sia una volta giunti in Italia (Mai 2005, p. 558), ha consentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario è stato Amici di Maria de Filippi.

Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si prepara per l’autunno la settima) è concepito come un game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pieno a una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i partecipanti. Le sfide ripetute portano all’eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in base al giudizio di una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione del vincitore assoluto. Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza albanese, Anbeta Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi Anbeta è una ballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma. La stagione successiva (2003-2004) gli studenti albanesi della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri (fratello minore di Ilir

Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell’edizione, entrando anche lui nel corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005, ha visto la partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi Selimi. Quest’ultimo è stato sicuramente il personaggio chiave dell’anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua vena polemica, la costante rivalità con Marco, un altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli agli “italiani” perché votassero lui invece di un “albanese”, e con il rispetto profondo mostrato verso il pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l’attenzione di un pubblico sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggirano stabilmente attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti da casa hanno sfiorato il milione a puntata, anche se la telefonata costava un euro). Anche le successive edizioni hanno visto la presenza di concorrenti albanesi, ma il programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo nella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo.

I protagonisti di Amici di Maria de Filippi sono riusciti a modificare in modo sostanziale il giudizio di molti loro coetanei italiani sull’identità albanese. Se dieci anni fa albanese era sinonimo di immigrato clandestino, criminale, persona pericolosa o comunque povera (in Grecia girava allora una terribile freddura: sai qual è la barzelletta più corta del mondo? Turista albanese!) oggi tra molti giovani italiani “albanese” significa anche spirito di sacrificio, caparbietà, orgoglio e determinazione. Per molte ragazze, poi, è innegabile che l’uomo albanese abbia assunto connotazioni sexy del tutto impensabili fino alla comparsa di Kledi e dei suoi connazionali sul piccolo schermo.

Questa immagine prodotta dalla televisione italiana ha iniziato a riverberarsi sull’autorappresentazione degli albanesi, in Italia e in Albania (dove i programmi delle reti Mediaset sono particolarmente seguiti). Gli “eroi” delle sfide di Maria de Filippi sono intervistati sui settimanali popolari albanesi e proposti come modelli per la gioventù nazionale. Klajdi Selimi che, con la bandana in testa e perennemente a torso nudo (come spesso Kledi), dichiara di sentirsi “un gladiatore più che un ballerino” incarna un modello appetibile per gli italiani e per gli albanesi.

La messa in scena del corpo come strumento di performance di eccellenza ricorda altri casi famosi: i giocatori di cricket indiani nelle squadre inglesi (Appadurai 1996) o i campioni afroamericani negli Stati Uniti (Page 1997). Corpi senz’altro naturalizzati, addomesticati dallo sguardo egemone in funzione di un godimento estetico rassicurante. Ma corpi capaci anche di riscattare un’identità

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smarrita se non esplicitamente sottomessa, in grado di riappropriarsi di una dignità personale che può diventare condivisa dall’intera comunità di riferimento.

Questo processo di manipolazione fisica e simbolica del corpo passa sia attraverso la storia “occidentale” della disciplina che si apprende, sia attraverso la genealogia delle proprie “origini”: come la “magia” indiana diventa capacità funambolica sul campo da cricket, e come la “naturalità” africana diventa potenza esplosiva sulle piste di tartan, così l’orgoglio “balcanico” degli albanesi diventa capacità di disciplinarsi, di rimanere fedeli all’obiettivo senza cedere alle lusinghe del facile successo. Così descrive una giornalista italiana le ragioni del successo di Kledi:

Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, ma trasmette l’idea del lavoratore scrupoloso, preparato e devoto al pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta con fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa Carbone, sul sito Leonardo.it).

Questa rappresentazione dell’artista albanese si è rapidamente imposta come role model: Anbeta Toromani, Leon Cino e gli altri artisti albanesi sono noti per la loro laconicità – non sempre dovuta a una scarsa conoscenza della lingua italiana, ma alla esplicita contrapposizione tra dire e fare – oltre che per la loro tenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati come persone “serie”, che vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione alternativa dell’essere albanese oggi sta chiaramente contaminando l’autorappresentazione degli albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi di ascolto che partecipano attivamente al voto da casa.

Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia ricerca è ancora in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un “ritorno” dell’identità albanese tra gli immigrati in Italia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi aver trovato una risposta alla richiesta del vecchio Dhori di dimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, è finalmente possibile “ricordare” la propria identità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che unisce in una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione sociale, la scuola albanese di balletto classico, l’espressione di una virilità estremamente fisica e poco “ciarliera”, lo spirito competitivo e l’orgoglio di un popolo “tribale” con le esigenze del mercato televisivo, il sex appeal del body

fitness, la telegenia e la capacità di assecondare le fameliche richieste delle audience più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non vi è, in tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un’opzione impraticabile di fatto per gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire comune con i frammenti della modernità e della tradizione, senza temere il mutamento ma accettandolo come parte inevitabile di un qualunque sano processo di identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi nella nostalgia dei bei tempi andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono come ricordo politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze.

ConclusioniL’intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere su alcune

forme recenti delle appartenenze e delle identità. La “crisi albanese” del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a ripensare pubblicamente il senso e il ruolo dell’identità italiana, e le esigenze commerciali di un programma televisivo italiano hanno contribuito al riposizionamento dell’identità albanese, per gli attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale dell’identità.

Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e identità collettive, mi sento di azzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattito teorico) che non vi è alcun rapporto causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione della propria identità. Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai grandi mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei media entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In questo senso, possiamo dire che i mass media paventati da certi approcci teorici “non esistono”, se per mass media intendiamo un sistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente “persuasore”, i cui effetti sociali possano essere resecati da quelli della più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson 1991). Al contrario, un’analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa ci rende sempre più consapevoli della natura “mediata” della vita sociale in generale (Mazzarella 2004).

Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione e aggregazione di significati che non possono esistere se non in forma mediata, cioè comunicata: gli stili culturali da cui si proviene, le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli habitus come archivi consolidati e generatori sperimentali di pratiche, e i capitali

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culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro, agiscono i mezzi di comunicazione di massa. L’antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare spesso il loro ruolo in nome di un purismo dell’“autentica cultura” che non aveva ragione di essere. Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che è altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.

Titolo citatiAppadurai, Arjun, 1996, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization,

Minneapolis-London, University of Minnessota Press; traduzione italiana Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001.

Human Rights Watch, 1997, “Albania”, in Human Rights Watch. World Report, 1997. Testo reperibile online all’indirizzo <http://www.hrw.org/1997/WR97>.

Jenkins, Richard 1997, Rethinking Ethnicity. Arguments and Explorations, London, Sage.

Mai, Nicola, “The Albanian Diaspora-in-the-Making: Media, Migration and Social Exclusion”, Journal of Ethnic and Migration Studies, 31, 3, 2005, pp. 543-561.

Mazzarella, William, 2004, “Culture, Globalization, Mediation”, Annual Review of Anthropology, 33, pp. 345-367.

Page, Helán E., 1997, “‘Black Male’ Imagery and Media Containment of African American Men”, American Anthropologist, New Series, 99 (1), pp. 99-111.

Todorova, Maria N., 1997, Imagining the Balkans, Oxford, Oxford University Press, 257 p.

Tomlinson, John, 1991, “Media Imperialism”, in Cultural Imperialism: A Critical Introduction, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1991, pp. 34-67; ora in Lisa Parks, Shanti Kumar, editors, Planet Tv. A Global Television Reader, New York and London, New York University Press, 2003, pp. 113-134 [non comprende il paragrafo “Laughing at Chaplin: problems with audience research”, alle pp. 50-56 dell’originale].

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GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]

1) Le due strade dell’antropologia

L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).

2) L’omogeneizzazione culturale e la legittimazione dell’etnocentrismo

Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro” è sbagliata].

3) Claude Lévi-Strauss: l’etnocentrismo è un preservativo necessario

Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?

4) imperméabilité come una via d’uscita tra relativismo e assolutismo

L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss” (p. 75).

5) Richard Rorty: abbiamo bisogno dell’etnocentrismo perché abbiamo bisogno di coesione sociale e solidarietà di comunità

La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.

6) Differenze tra questi due modi di legittimazione dell’etnocentrismo

G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro, non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).

7) Il vero problema dell’etnocentrismo: soffoca

A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).

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l’immaginazione Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).

8) Rifiutare l’etnocentrismo significa in prima istanza riconoscere la diversità all’interno delle nostre società

Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello”, immaginare cioè la diversità culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e pervasività diventa evidente

9) Linguaggio, società e rapprensentazioni monadiche delle culture

Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.

10) Le culture erano veramente pure e le società veramente omogenee prima della recente ibridazione? Forse Geertz sta esagerando?

In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.

11) Un apologo dalla morale incerta: l’indiano ubriacone e il rene artificiale, ovvero l’incapacità di immaginare l’altro.

Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).

12) Il ruolo dell’etnografia nel “colmare il salto” della diversità (o almeno nel provarci,

Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da

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nell’immaginare le possibilità di riempirlo)

tempo i professionisti delle mentalità aleiene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).

13) Il sapere etnografico è importante perché il relativismo (che può senz’altro sorgere da quel sapere) è molto meno pericoloso dell’indifferenza alla diversità

Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia , raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di reciproca comprensione tra le diversità.

14) Conclusioni: l’etnografia è al contempo un’esigenza scientifica e morale dei nostri tempi

Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89).

15) Essere attenti al diverso è “innaturale” ma necessario. Un manifesto del sapere socio-antropologico

“Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.

SuntoL’etnocentrismo, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha acquisito

da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci è alieno, senza edulcorarlo, renderlo innocuo o liquidarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il sospetto in inimicizia.

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