contro il relativismo

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Intervento di Jervis contro il relativismo

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Page 1: Contro il Relativismo
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Editori Llterza

e 2005, Gius. Laterza & Figli

Prima edizione 2005

Giovanni Jervis

CONTRO IL RELATIVISMO

O

Page 3: Contro il Relativismo

John Locke

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nell'aprile 2005 Poligrafico Dehoniano -Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7640-3 ISBN 88-420-7640-6

It is therefore worth while to search out the bonds between opinion and knowledge

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RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Gilberto Corbellini, Guido Crainz, Carlo Ginzburg, Mario Miegge, Michele Salvati, Antonio Se- merari, che hanno letto il manoscritto nella versione non definitiva segnalandomi varie carenze e dandomi una serie di indicazioni preziose.

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CONTRO IL RELATIVISMO

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Piccola rassegna di spazzatura intellet-tuale, An outline of intellectual rub-bishl .

esiste.

Capitolo 1 I DENTI DELLA SIGNORA ARISTOTELE,

ERNESTO DE MARTINO E L'APPARIZIONE DI UN SANTO

Vari decenni or sono Bertrand Russell si divertì a scri- vere un breve testo polemico: non pretendeva di essere alta filosofia ma era spiritoso e sensato. Si chiamava qualcosa come

ossia, nell'originale, Pubblicandolo, sapeva di esporsi di fronte ai suoi

nemici: infatti sosteneva — nientemeno! — che la spazza-tura intellettuale Forse poteva permetterselo per-ché era Bertrand Russell: ma già a quell'epoca occorre-va un certo coraggio.

Per alcuni anni gli studenti furono particolarmente divertiti da uno degli esempi di quel testo: Aristotele - diceva Russell — sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini. Così, parlando con i suoi allievi Rus- sell amava aggiungere che il filosofo greco avrebbe fat- to meglio a chiedere, gentilmente, alla sua signora di ve- nire a sedersi per un momento vicino alla sua scrivania con la bocca spalancata. Qui l'intelligenza è nascosta sotto la frivolezza: ovviamente il bersaglio non è la filo- sofia antica. Invece, la critica si rivolge a chiunque non voglia capire che il modo più semplice per evitare di di- re sciocchezze — e soprattutto di ripeterne — consiste nel

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in pro-prio. provare, almeno qualche volta, a fare verifiche

Peraltro, bisogna ammetterlo, verificare talora è dif- ficile, perché in certi casi può non bastare la comune diffidenza dell'uomo della strada: non si apprendono in un giorno né il metodo sperimentale né le valutazioni di probabilità. Altre volte, invece, l'andare a controllare ri- sulta abbastanza facile e quella che manca è la voglia. O meglio, manca la disposizione culturale e mentale: Ber-trand Russell lo sapeva, e a questo miravano le sue frec-ciate. Oggi, poi, in molti casi non è neanche necessario muoversi da casa perché montagne di dati utili per sconfiggere le leggende metropolitane sono a portata di Google, ossia di pochi click del mouse: però, viene da chiedersi, persino fra gli studenti universitari quanti lo sanno? Quanti ne fanno tesoro? Se devo dar retta alla mia esperienza di docente, non moltissimi; ed è un pec- cato perché questo tipo di pigrizia segna — probabil- mente — un regresso. Negli anni precedenti il 1968-69, e cioè prima che la loro intelligenza cominciasse a esse- re fiaccata dai diplomi facili e dall'università di massa, gli studenti italiani che avevano voglia di andare a con- tare i denti di Aristotele e della sua signora erano — io credo — abbastanza numerosi.

Così almeno mi pare di ricordare: ma su cose del ge- nere è facile sbagliarsi, e ancora più facile è cedere alla tentazione di lodare i tempi andati. Però il periodo che precedette l'esplodere, in Italia, del benessere econo-mico (e poi delle rivolte studentesche) fu epoca di inte-ressanti fermenti culturali, segnata dagli ultimi residui delle speranze dell'antifascismo e da una certa fiducia in sé del pensiero laico. Personalmente ci ripenso con

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gratitudine. È nel ricordo di quell'epoca che vorrei ini- ziare il mio libro.

Negli ultimi mesi del 1958 incontrai l'etnologo e sto- rico delle religioni Ernesto De Martino, che cercava uno psichiatra con cui andare in Puglia a studiare i ta- rantolati. Avendo letto un paio dei suoi scritti ne di-scussi con lui, e decise di prendermi con sé. Se ne par-lo qui, è solo perché negli anni in cui lavorai con De Martino il problema dei denti di Aristotele (che è poi il problema generale delle verifiche) mi si ripresentò a un

livello di complessità enormemente maggiore, a cui vor-rei introdurre il lettore.

Prima, però, devo spiegare il senso dell'insegnamen-to di De Martino, perché ha a che fare col tema di que- sto libro. Il suo merito principale, di cui gli fui subito grato, fu di cercare un equilibrio fra due esigenze ugual-mente valide, ma contrastanti.

La prima esigenza lo portava a un atteggiamento di rispetto se non di simpatia verso i miti e le ritualità, e in particolare verso quel mondo magico-religioso che in tutte le terre del nostro pianeta edifica valori culturali e

conferisce significato al vivere. Questo era il suo me-stiere, ed era anche la sua passione. L'esigenza opposta lo radicava nella cultura scettica, laica e razionalista del-l'Occidente.

Su un piano più personale, poi, la divisione era al- trettanto presente: da un lato egli era affascinato dal- l'irrazionale (era anche un po' superstizioso, e incline a credere in una qualche efficacia dei poteri magici), mentre dal lato opposto era un consapevole illuminista. Se dunque per certi versi avvertiva un senso di sincera partecipazione verso i tentativi di arricchire la realtà con una qualche forma di mistero e di trascendenza, per

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propria

altri versi non dimenticava mai di definirsi, quale era di fatto, fermamente ateo.

De Martino era un meridionalista e un socialista, credeva nell'emancipazione delle masse, e riteneva di doversi battere per il superamento della subordinazio- ne, anche psicologica, dei miserabili e degli oppressi di tutti i paesi. Eppure, al tempo stesso, era consapevole del fatto che nel corso della graduale sparizione delle culture preletterate sotto la marcia trionfante della pla- stica e della Coca-Cola qualcosa di prezioso sarebbe an-dato perduto.

Chi gli fu vicino non poté che restare affascinato dal-la sua capacità di cercare chiarezza fuori dagli schemi. Negli ultimi anni della sua vita si distaccò dall'idealismo del periodo giovanile, quando aveva subito l'influenza di Benedetto Croce; ammirava Marcel Mauss, alle cui idee doveva molte delle proprie, e Antonio Gramsci, mentre diffidava di Mircea Eliade (al quale però nelle discussioni si riferiva spesso) e dichiarava scarsa simpa- tia nei confronti di Nietzsche, di Heidegger e dei loro nipotini ideologici. In più, era un uomo simpatico e spesso divertente.

A quell'epoca De Martino era meno noto di oggi e non sempre apprezzato in ambito accademico. I motivi per cui a quarant'anni dalla morte il suo nome è più spes- so ricordato sono, peraltro, complessi. Probabilmente, le idee di De Martino ci aiutano a non perdere l'orienta-mento negli incontri fra i popoli, in primo luogo per me-rito del suo concetto di «etnocentrismo critico». Qual-siasi studioso, egli diceva, se incontra culture lontane non dovrebbe illudersi di poter rinunziare alla propria collocazione storica e culturale: salvo, peraltro, essere capace di esercitare un distanziamento critico anche nei confronti della cultura. In pratica, De Martino

teneva ben fermi due principi strettamente legati fra lo-ro: «sapere qual è la propria collocazione» e «saper fare — anche tecnicamente — la propria parte», quindi non il- ludendosi di fare la parte degli altri. Egli non credeva in quella «negazione del ruolo» che di lì a pochi anni sa-rebbe stata uno degli slogan preferiti dagli studenti.

Per analoghi motivi, è probabile che non avrebbe approvato neppure il relativismo multiculturalistico che alcuni difendono come fosse la linea «politicamen- te corretta» nei confronti delle culture non-europee. A riprova di questo, fra le citazioni possibili si può richia- mare un brano dalle sue note preparatorie al libro sulle apocalissi culturali:

Non si può porre la propria civiltà accanto alle altre, e tut-te considerarle come prospettive alla pari ... Non si vince co-sì il 'provincialismo' culturale: si deve dialogare col mondo, ma la propria parte bisogna conoscerla bene, altrimenti si ri-schia di cadere in un enorme pettegolezzo, in un chiacchie-rare ambiguo e sciocco, in un camaleontismo che simula l'a-pertura e la varietà di interessi, ma che è soltanto la masche-ra di una abdicazione senza limiti2.

Allorché studiammo, nell'estate del 1959, il taranti- smo pugliese, ci si presentarono alcuni problemi di in- terpretazione. Si può ricordare qui che il tarantismo, o tarantolismo, è una tradizione magico-religiosa molto antica, che consiste essenzialmente in un rito di posses- sione. Una persona è indicata come tarantata quando soffre di un disagio che non si sa spiegare; si decide co- sì che è stata morsa da un ragno, e che la cura deve con- sistere nel farle ascoltare delle musiche ritmate, appun- to le tarantelle. La riprova del fatto che si tratta di «av- velenamento da ragno» (e al tempo stesso, alquanto am- biguamente, di «possessione da ragno») consiste nel-

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trance

Latrodectus tredecim-guttatus,

funziona?

l'effetto della musica, perché la persona pare cadere in e inizia a danzare. In piedi al centro di uno spa-

zio, con indosso una veste bianca, lo sguardo nel vuoto, vibra e si scuote, assecondando come può la musica, co-sì come danza e vibra il ragno sulla sua tela. Dopo mol- te ore cade spossata, ma il rito può ripetersi per vari giorni di seguito, e si suppone che solo in questa ma-niera «sfoghi» la possessione, o sfoghi ciò che è una sor-ta di influenzamento, ovvero (e senza una distinzione netta) elimini col sudore il veleno.

In una parte dei casi si può presumere che il conta-dino o la contadina fossero stati morsi da un ragno rea- le: difficilmente dalla tarantola, o ragno-lupo, impres- sionante e poco velenoso, ma piuttosto dalla piccola malmignatta, ossia il ab-bastanza comune in quella zona come in varie altre re-gioni d'Italia e portatore di un veleno neurotossico che può dare disturbi della durata di vari giorni. Peraltro De Martino era consapevole del fatto che questa ipote- si zoo-tossicologica non cambiava in modo sostanziale il carattere culturale del fenomeno.

Quando andammo in Puglia, e più precisamente nell'altopiano salentino, la tradizione rituale del taran- tismo stava rapidamente scomparendo. Eppure ci ac- cadde ancora di vederne alcuni casi nei paesi, con tre o quattro suonatori chiamati per la bisogna, e la taranta- ta che danzava da sola per ore e ore in cucina al ritmo un po' ossessionante delle tarantelle ripetute centinaia di volte, o più tipicamente nel cortile di casa, in mezzo a una piccola cerchia dí parenti e vicini. Il fenomeno era poco noto persino fra le popolazioni della zona. Ai suoi margini, quella tradizione era stata poi parzialmente cri- stianizzata, indebolita e resa pubblica, per cui ogni an- no in occasione della mietitura alcune persone, presun-

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te tarantate, si prostravano agitandosi in modo teatrale sotto l'altare della chiesa principale di Galatina, ovvia- mente senza musica né suonatori: e qui però la manife- stazione devozionale presentava un interesse relativa- mente scarso e somigliava a quanto tuttora accade in non pochi santuari del nostro Meridione3.

Gli aspetti da capire erano molti, ma c'era un quesi-to, per quanto un po' rozzo, che non poteva essere igno-rato:

Era suggestivo — forse troppo suggestivo — rispon-dere subito di sì. Veniva fatto di pensare, e seguendo precisamente le teorie di De Martino, che il tarantismo permettesse di rappresentare in maniera socialmente accettata il disagio, inserendolo in un ciclo di eventi ri- tualizzati. Il trattamento coreutico-musicale, in altre pa- role, appariva una prassi strutturante. La ripetizione ri-tuale forniva ordine al disordine, senso a un piccolo set- tore di mistero fra quelli innumerevoli dell'esistenza, idee e immagini di catarsi al singolo e alla comunità; e pareva anche indicare un decorso, un arco di eventi ri- solutivi, una via prevista di uscita.

Eravamo incoraggiati dal bisogno di capire, deside- rosi di non mostrare false superiorità nei confronti di quei contadini schivi ma cordiali. Più ancora, eravamo empaticamente inclini a metterci, almeno per un mo- mento, nei loro panni, disponibili a discutere i nostri pregiudizi, e forse persino sedotti dalla speranza di tro- vare, nel rito del tarantismo, qualche suggerimento che ci permettesse di cogliere aspetti segreti di problemi universali. Eravamo tentati dall'idea che nel tarantismo fosse nascosto un valore da riscoprire. In modo più lar- vato, poi, non ignoravamo l'ipotesi più spontanea e però, forse, più ingenua: cioè che il tarantismo, inteso come rito e come cura, fosse efficace.

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soft,

hard,

trance

superstizione folklore;

ragionevole

Di quest'ultima ipotesi si potevano poi dare due ver- sioni, una più prudente e l'altra meno. In primo luogo se ne poteva dare una versione cautamente limita-tiva, formulata come segue. La tradizione del taranti- smo era efficace perché parte integrante di una cultura contadina dove erano ancora vitali radici pre-cristiane, una cultura ancora non toccata dalla civiltà delle mac- chine: però, come cura e come rito, non avrebbe avuto senso applicarla a chi apparteneva a una cultura laica e post-industriale. Oppure se ne poteva dare una versio-ne vagamente misticheggiante, e che oggi verreb-be chiamata New Age. Secondo quest'ultima versione, la cura consistente nella musica e nella danza sarebbe stata efficace per chiunque: e dunque anche per noi, alienati abitanti delle grandi città, che avremmo dovuto mettere in discussione i riti moderni della psichiatria per scegliere un tipo di trattamento diverso e più istin- tivo. Forse con attività del genere, cioè con la danza e la

e al suono delle antiche tarantelle, avremmo po-tuto vantaggiosamente far defluire le nostre inibizioni e sciogliere i nodi dei nostri problemi... (Devo dire però, a onore del buon senso di tutti, che né De Martino né alcuno dei suoi collaboratori prese mai sul serio que- st'ultima ipotesi.)

Certo non potevamo liquidare ciò che vedevamo co-me pura superstizione. Come si può intuire, la parola

era tabù per De Martino e per chi lavora-va con lui, così come la parola eppure ci rima-neva un dubbio sui meriti reali di quelle tradizioni sa-lentine, un dubbio che si rifaceva alla vecchia idea di Marx sulle religioni come oppio dei popoli. Il taranti- smo aveva probabilmente contribuito a mantenere gli equilibri sociali di quei luoghi, insieme ad altre fedi e ad altri riti: ma era lecito chiedersi se per caso imprigio-

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nasse le persone in schemi estranei all'evolvere della storia e ostili all'ingresso di nuove idee. Ne discussi con De Martino. Egli però era assai più convinto di me che il tentativo di conferire un senso alla vita mediante il tra-scendimento magico-religioso arricchisse i gruppi etni-ci così come i singoli, rendendoli protagonisti di cultu-ra ed elevandoli al di sopra di un'inconsapevole dipen-denza da eventi naturali come le malattie.

Io ammiravo la profondità e l'intelligenza del gran-de antropologo, imparavo e riflettevo. Ma non ero sem-pre convintissimo di tutte le sue idee. Non poteva dar- si invece, insistevo, che gli abitanti del Salento, attra- verso i secoli, non fossero stati per nulla aiutati dalla presenza del mito della taranta, e cioè non ne fossero stati incoraggiati né a curare in modo il lo-ro benessere fisico e psichico (o almeno, in un modo un po' più ragionevole), né a liberarsi dall'umiliazione del- l'analfabetismo, né ad affrancarsi dal potere fino a ieri egemone dei feudatari e dei parroci delle campagne?

Questo dubbio si riferiva a un semplice quesito cli-nico. Prendendo per ipotesi il caso di due contadine sa- lentine della stessa età, dello stesso ambiente, ugual- mente semi-analfabete, e ugualmente affette da distur- bi nevrasteniformi di tipo ansioso, e supponendo che, come poteva accadere, una di esse venisse inserita per motivi del tutto casuali nella ritualità del tarantismo (per esempio, per l'influenza di una zia un po' fattuc-chiera) e l'altra no, ebbene, dopo alcuni anni quale del- le due sarebbe stata meglio, quale più equilibrata, più attiva, più a proprio agio con le inevitabili contraddi-zioni della propria vita? Chiaramente, De Martino ten-deva a pensare che il tarantismo avrebbe aiutato la pri- ma mentre l'assenza di tarantismo avrebbe ostacolato la seconda; io invece, fresco di studi di psichiatria e gio-

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fattura)

tunnel vision,

vanilmente incline alle semplificazioni del positivismo, propendevo per l'ipotesi opposta. A quell'epoca mi mancavano però gli strumenti per far valere la mia tesi. In seguito ci ho ripensato spesso.

Fra il '57 e il '60 venivo invitato alla concretezza, e però forse anche alla sbrigatività, dall'esperienza che mi stavo facendo presso la clinica neuropsichiatrica del- l'Università di Roma, dove approdavano non pochi ca- si di giovani — per lo più donne — con problemi di sug- gestionabilità e provenienti dalle campagne più povere del Meridione. Soggetti sofferenti di disturbi nevraste- niformi, e talora di disturbi depressivi, avevano inserito le loro ansie nelle razionalizzazioni magiche tradiziona-li (la spiegazione più comune era la ma, anziché sentirsi meglio e più tranquilli per quel loro modo di in-tendere il disagio, sembravano esser caduti prigionieri di preoccupazioni ossessionanti, strutturate in creden-ze sempre meno realistiche a mano a mano che passava il tempo, in qualche caso fino al delirio. Qualcosa di si-mile sembrava ripresentarsi nelle situazioni che stu-diammo con De Martino. Le tarantate del Salento ci ap- parivano prigioniere così del rito come del loro ruolo al centro di esso: e infatti pareva che non ne uscissero mai definitivamente. Periodicamente il disturbo si ripresen- tava, e quindi venivano chiamati i suonatori senza che apparentemente le cose migliorassero da un anno all'al- tro. Così, da parte nostra era legittimo concluderne che i rischi di cronicizzazione del disturbo — un disturbo in-triso di vera e autentica sofferenza — venissero accen- tuati da quelle stesse provvidenze «terapeutiche» tradi- zionali che ormai facevano parte integrante del quadro clinico.

O al contrario — mi chiedevo talora — quello che io chiamavo «quadro clinico» era solo un'etichetta, medi-

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calizzante e forse ottusa, con la quale rifiutavo di co- gliere il valore di ciò che avevo sotto gli occhi? E forse, dunque, io non ero in grado di capire il problema per-ché ormai avevo una nel senso che gli stu-di di medicina e i libri di psichiatria mi avevano fornito paraocchi ideologici, ai quali mi ero talmente abituato da non avvertirne più la presenza? L'educazione scien- tifica aveva amputato sensibilità e immaginazione fino al punto di impedirmi quello sguardo poetico che sa- rebbe stato necessario nel contatto con í tarantolati? Af-fascinato dal contingente e dal materiale, ero divenuto incapace di vedere il perenne e lo spirituale?

Cercai di non chiudermi al dubbio; mi interrogai sui limiti inerenti ai miei studi, ne parlai con altri e una vol- ta anche con un apertissimo teologo. E però qui De Martino, col suo etnocentrismo critico, in un certo sen- so stava dalla mia parte: mi aiutava, cioè, a non eludere né la mia collocazione di medico, né i miei strumenti d'indagine. Beninteso, diffidente come egli era — e a ra- gione — nei confronti della prassi medica corrente, si li- mitava a incoraggiarmi ad apprezzare la qualità umana e la sofferenza di quel vivere, e anche a capire gli sforzi di trascendimento che si esprimevano nelle tradizioni contadine del Meridione; e mi prendeva un po' in giro perché — diceva — i miei antenati mi riportavano più ver- so la Valle d'Aosta che verso la Puglia. Tuttavia, pur smussando le mie ingenuità giovanili, non mi incorag- giava affatto a rinunziare al mio punto di vista. Erede come egli era della tradizione illuminista partenopea, in modo bonario e con battute dissacranti esortava chiun-que gli stesse intorno a fare il proprio lavoro seriamen-te, magari discutendo e ridiscutendo ogni cosa, ma an- che diffidando delle seduzioni dell'eclettismo e — so-

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fatto è riferisce

dimostrare

molto poco probabile.

prattutto — tenendosi alla larga dalle scorciatoie dell'ir-razionalismo.

Anche per l'influsso dell'insegnamento demartinia-no non credetti mai che fosse valida la proposta ideolo- gica che si diffuse come un'epidemia fra i giovani negli anni Sessanta e Settanta, suggestiva ma terribilmente semplificatrice: la proposta, cioè, di rivalutare il magico e l'irrazionale per cancellare alla radice, in un solo ge- sto, sia l'ideale del progresso sociale sia il metodo della scienza. Mi aveva attratto invece, fin dai primi anni Ses- santa, la lucidità di Italo Calvino, il quale prendeva le distanze dagli aspetti risucchianti di ciò che chiamava, un po' scherzosamente, «la dimensione mistico-limac- ciosa». E naturalmente per chiunque, anche per Calvi- no, la spontaneità dei sentimenti rimaneva qualcosa da non soffocare: ma, pur essendo necessaria nella vita in-terpersonale e ancor più in quella privata, quando fos-se assolutizzata finiva per ostacolare qualsiasi indagine. In molti casi, come per il tarantismo, la posizione idea- le dello studioso si trovava a dover conciliare, ancora una volta, il calore estemporaneo di una piena parteci-pazione affettiva con una più fredda e meno rapida ri-flessione critica.

Questo principio si applicava del resto altrettanto bene al rapporto psicoterapico e psicoanalitico.

Tuttavia in molte situazioni, e non solo a quell'epo-ca nia anche oggi, è difficile trovare l'atteggiamento mentale «giusto» su temi del genere, o almeno un mo- do di porsi che sia più equilibrato di altri. A guardar be- ne, questo tipo di difficoltà dovrebbe inquietare più so- vente il corso dei nostri pensieri. L'esigenza di uno «sguardo giusto», infatti, ci viene riproposta continua-

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mente leggendo i giornali e nelle vicende, anche poco rilevanti, della vita di tutti i giorni.

Nella fase iniziale si tratta ancora di qualcosa di ba- nale: il separare un evento dal resoconto di un evento. Se una contadina dell'Appennino ritorna agitatissima dal suo campo dicendo di essere stata assalita da una pantera, i giornali meno seri titolano «Contadina assali-ta da una pantera»; quelli più seri invece non nascon-dono ai lettori che il un altro, non che la conta-dina sia stata assalita della belva ma che essa di essere stata assalita. Altre volte il problema è meno in-nocente. Se, nei giorni in cui la stampa parla dell'ecces- sivo costo dei libri di testo, due studenti vengono fer- mati per spaccio di Ecstasy e affermano che avevano bi- sogno dei soldi per comprarsi i libri, il pubblicare titoli come «Spacciano droga per comprarsi i libri di testo» è un atto giornalistico che, nella sua irresponsabilità, ignora le più elementari considerazioni sull'interesse di quegli studenti ad adottare, per difendersi dall'accusa di spaccio, un atteggiamento vittimistico.

Ora, il confondere i fatti con gli atteggiamenti sui fatti è caratteristico di chi partecipa a quelle ideologie relativistiche secondo le quali i fatti contano poco e gli atteggiamenti, invece, moltissimo.

Di qui, un'altra considerazione. Come accade quan-do ci si pone nella logica del discorso scientifico, si ri-mane pur sempre all'interno di valutazioni di probabi- lità. Non era impossibile che la contadina fosse stata as- salita dalla pantera: solo, era poco probabile e altre spie-gazioni erano più verosimili. A questo proposito Ber-trand Russell diceva che non si può che non c'è, lassù negli spazi siderali, una teiera d'argento che percorre un'orbita intorno al sole: solo, lo si può rite-nere Tre secoli fa, in Europa, mol-

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mantra

on the safe side

te migliaia di persone erano convinte che il tocco del re guarisse i bambini dalla scrofola, e non si può esclude- re che in qualche caso la guarigione accadesse davvero. Va aggiunto subito questo, però: se il bambino guariva, si può ritenere estremamente improbabile che fosse me- rito del re. E allora vale la pena di essere chiari. L'affer- mare «chissà, ma cosa ne sappiamo, forse i bambini toc- cati dal re poi guarivano!» è un atteggiamento assai co-mune ma vacuo, se non frivolo, ed è un omaggio all'i-gnoranza e alla pigrizia intellettuale. Non c'è nulla di ve- rosimile ín quell'ipotesi. (Si può ricordare qui che la scrofola è una visibile e concreta infezione tubercolare — un tempo assai diffusa — e non un fatto isterico; e con-trariamente a quanto amano credere le persone che spe-rano di guarire il cancro mediante la meditazione e le ti- sane, la verità è che la suggestione e i meccanismi psi- cosomatici hanno effetti assai limitati sul decorso delle malattie più gravi.)

Altre volte, tuttavia, le nostre valutazioni si fanno più difficili.

Di fronte alla testimonianza di un miracolo (il tale, ammalato di cancro, è andato a Lourdes e ne è tornato guarito), o ascoltando dalla sua viva voce la storia di una persona che ha assistito a un fatto soprannaturale (l'ap-parizione di un santo, poniamo, o della Madonna), la prima tentazione è di assumere un atteggiamento che unisce la meraviglia alla perplessità: ma anche al rispet- to. Adottiamo senza fatica un modo di collocarci che tiene conto del naturale sentimento dell'insufficienza umana di fronte a qualsiasi cosa sembri inspiegabile. Entra in gioco, quasi automaticamente, una sorta di so- spensione del giudizio, una vaga attesa non priva dí qualche speranza.

Siamo quindi indotti a non approfondire l'indagine

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rifugiandoci in stereotipi, per esempio ripetendo un che sembra fatto apposta per sottometterci alle

mitologie dell'inconoscibile: vi sono più cose in cielo e in terra di quanto comprenda la mente umana. (Qual-cuno ha però sostenuto che è vero il contrario: la men-te umana tende a immaginare più cose di quante ne esi-stano4.)

E oltretutto, con quella nostra prudenza ci siamo collocati agli occhi degli altri, siamo sul-la riva più sicura: ci definiamo come persone riservate, modeste, attente, non presuntuose, non arroganti, aper- te ai valori spirituali. Siamo in attesa e in ascolto. Ci asteniamo dal giudicare; ma forse anche da ogni tenta-tivo di approfondire l'indagine.

L'invito che oggi riceviamo pressantemente dai mez-zi di comunicazione di massa, di rispettare le altre reli- gioni e in particolare quelle non cristiane, sembra dare per scontata la presenza di un'insofferenza primaria, di un fastidio, di un'ostilità istintiva, verso le religioni al- trui. Ma quest'ostilità verso le fedi degli altri esiste dav-vero?

De Martino pensava di no, e credo che avesse ragio- ne. Eppure, a un primo esame sembrerebbe di sì: guar- dando alla storia del mondo, la disponibilità al dialogo fra le persone di diversa fede non è mai stata spiccata. Esaminando un millennio di storia sia del Medio Orien- te sia dell'Europa, non si può certo concluderne che le tre grandi religioni monoteiste abbiano contribuito alla convivenza fra i popoli. Anche volendo dimenticare le crociate e le stragi che precedettero l'idea laica di tolle- ranza e per venire ai fatti più recenti, qualsiasi persona sensata si è chiesta se la guerra civile che per decenni ha insanguinato l'Irlanda non si sarebbe ricomposta assai prima, e con meno morti, qualora non si fossero mobi-

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trance

cattive

litati gli apparati dogmatici e intimidatori di due reli- gioni contrapposte; e se per caso gli ebrei e gli arabi non avrebbero già trovato il modo di accordarsi qualora non fossero stati ricattati precisamente dagli individui più religiosi, e cioè da chi nell'uno come nell'altro campo è convinto di fare soltanto la volontà di Dio. (L'idea che i fondamentalisti più folli e i fanatici più feroci vadano considerati come un gruppo a parte rispetto alla mag-gioranza dei fedeli, quasi non fossero animati da auten-tici sentimenti di fede, somiglia all'ipocrisia di chi so-stiene che i teppisti degli stadi non sono realmente ap-passionati di calcio.)

Non tutto, nelle religioni, è apparato ecclesiastico, e non tutto è fanatismo: esistono forme tranquille e non dogmatiche di religiosità personale. Ci si può chiedere, quindi, se sia vero che esiste una diffidenza spontanea verso le fedi altrui. In realtà, non è difficile constatare che la reazione più immediata di chiunque, nel trovarsi di fronte alla semplice religiosità di altre persone, con- siste in un atteggiamento di disponibile interesse. L'a- nelito verso la trascendenza sembra avere qualcosa in comune con i moti di tenerezza verso i bambini, che so- no simili in tutte le culture. Osservando una persona in- ginocchiata devotamente in preghiera, la sera, sul pavi- mento delle propria stanza, o un fedele all'interno del suo luogo di culto, e perfino qualcuno immerso in una

estatica, noi avvertiamo un tipo di emozione che è presente, con poche varianti, in tutti gli esseri umani. Questa emozione non induce affatto sentimenti di estraneità. Esiste qualcosa di universale nello smarri- mento dell'animo di fronte alla violenza della natura, nei tentativi spontanei di mitigare l'angoscia del doma- ni mediante voti e scongiuri, nell'umanissimo bisogno di rivolgersi al cielo, nei momenti terribili dell'esisten-

1 Q

za, per cercare ispirazione e risposte. È difficile imma- ginare che questo debba condurre, di per sé, all'intolle- ranza.

Le difficoltà di convivenza fra i popoli sembrano na- scere da altri meccanismi. La simpatia per la semplice religiosità di chiunque non esclude che, nel concreto, le forme storiche delle religioni contribuiscano a devasta- re il mondo: a questo punto ci si può chiedere quanto incidano i poteri eccessivi degli apparati ecclesiastici e la tendenza dei fedeli a eccedere nell'ubbidienza. Que-sto tema, naturalmente, non è nuovo e rischia di solle-citare considerazioni scontate. In una lettera alla figlia decenne, Richard Dawkins ebbe a scrivere che oltre a esserci, a disposizione di ciascuno, tante buone ragioni per costruire conoscenze ben fondate, vi sono anche tre

ragioni per acquisire credenze: esse si chiamano «tradizione», «autorità» e «rivelazione»5. E invero fra le più naturali follie della nostra mente sembra vi sia la

tendenza a credere che i principi-guida del comporta-mento debbano venirci dai grandi interpreti della vo-lontà del cielo invece che da tante persone più prossime a noi. Queste ultime, nella maggioranza dei casi, sareb- bero state sufficienti a fornirci gli strumenti per vivere: un papà con i piedi per terra, una mamma amorevole e sensata, uno zio che per caso ha viaggiato per il mondo, una maestra di scuola che ci ha insegnato un po' di sto- ria e di geografia e incoraggiato a leggere libri illustrati di divulgazione scientifica.

La plasmabilità del nostro cervello prima dell'età adulta può anche essere utilizzata per ottenere risultati sensazionali e, purtroppo, definitivi: ma bisogna che venga rinforzata da più specifici condizionamenti dot- trinari. Se a tre anni crediamo fermamente in Babbo Natale questo non comporta, con tutta evidenza, nes-

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ex cathedra,

suna conseguenza negativa: ogni bambino è capace di uscire senza aiuti particolari dal mondo delle fate pur mantenendo negli anni successivi una sanissima, diver- tita tenerezza nei confronti di tutte le evasioni fantasti- che. (Un lato fanciullesco e la capacità di giocare con l'immaginario, probabilmente, sono parte intrinseca della migliore sanità mentale di tutti, adulti compresi.) Ma quando da tempo è finita l'infanzia con tutti i suoi Babbi Natale e stiamo già affrontando il difficile pas- saggio all'età adulta, se per caso accogliamo come par- te importante della nostra visione del mondo altre cre- denze del tutto inverosimili come la verginità di Maria, la transustanziazione, l'idea che il papa sia infallibile quando parla e magari anche la speranza che Padre Pio ci possa proteggere dal cielo se usciamo sbronzi dalla discoteca, è probabile che qualcosa si sia modificato per sempre nel nostro esame della realtà. (L'idea che la grande tradizione del cristianesimo deb- ba ridursi a credenze del genere non trova, per fortuna, unanimi consensi.)

Si può ricordare qui che il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, il quale era un sincero uomo di chiesa e — a quanto pare — assiduo lettore di Pascal6, quando assumeva lo pseudonimo di Lewis Carroll la- sciava trasparire qualche ambivalenza circa i modi in cui si costruiscono le fedi.

«Adesso sarò io a dare a te qualcosa in cui credere. La mia età è esattamente di centouno anni, cinque mesi e un giorno.»

«A questo non posso credere!» disse Alice. «Non puoi?» disse la Regina in tono di compatimento.

«Prova ancora: fai un respiro profondo, e chiudi gli occhi.» Alice rise. «È inutile provare,» disse: «non si può credere

a cose impossibili.» «Oserei dire che non ti sei molto esercitata,» disse la Re-

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gina. «Quando avevo la tua età, io lo facevo per mezz'ora al giorno. A volte mi è capitato di riuscire a credere a ben sei co-se impossibili prima di colazione»'.

Padri e madri, zii, nonni e maestri (i maestri delle no- stre scuole laiche, beninteso) ben di rado ce la farebbe- ro da soli, senza appoggi esterni, a plasmare la mente dei piccoli fino a condurli non soltanto sui binari della fede, ma anche, con un itinerario più preciso, dalla stazione di partenza della credulità a quella di arrivo del dogma- tismo. Ce ne possiamo rallegrare, e uno dei meriti dello scampato pericolo è forse attribuibile a qualcosa di ab- bastanza semplice: nel corso dei nostri anni più verdi, noi tutti abbiamo conosciuto da vicino le brave persone che ci hanno educati, e abbiamo avuto tutto il tempo per accorgerci dell'umanissima modestia della loro statura. Fin da quando eravamo giovani la loro influenza è stata temperata dal senso critico di cui — è facile constatarlo -tutti i bambini sono naturalmente dotati.

Altre volte, però, questo non accade. Nei casi il cui esito, purtroppo, è meno felice, il senso critico dei bam- bini è stato, giorno dopo giorno, ridotto al minimo e la loro mente stipata di dogmi teologici che hanno po-chissimo a che fare con le loro esperienze di vita. In ge-nere per ottenere questo risultato non bastano i genito- ri. Le discutibili tradizioni a cui si riferisce criticamente Dawkins — le Tradizioni, potremmo dire, prese in asso- luto e in generale così come l'Autorità presa altrettanto in generale (e magari la Rivelazione) — per essere stabil- mente assimilate richiedono l'intervento di persone ca- rismatiche. O per meglio dire, occorrono persone di cui possiamo ingigantire l'immagine. La dipendenza mitiz- zante da figure poco accessibili, perché distanti dalla quotidianità ordinaria, sembra giocare un ruolo chiave

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in tutte le operazioni nelle quali un individuo è condot-to a rinunziare gradatamente alle proprie capacità di di-scernimento.

Occorre dunque concludere che esiste all'interno della mente umana, presa in generale, una universale predisposizione a sottomettersi alla protezione di figu- re guida? Sigmund Freud attribuiva questo bisogno al-la ricerca inconscia di un padre, ed è ben possibile che sia così: ma — verrebbe da chiedersi — allora perché tan-ti adulti, uomini e donne, visto che questa volta il padre se lo possono scegliere, si accontentano di personaggi così discutibili?

Nessuno dispone di risposte veramente esaurienti. La più normale tendenza ad adottare leggende antiche e moderne, sia nostrane che esotiche, potrebbe anche avere una spiegazione molto semplice: ognuno ci ritro- va parti di sé. Ma questo affettuoso potere di cattura dei miti, anche i più distanti da noi, sembra trascinare con sé un fattore perverso, la tendenza a prendere per buo- ne tutte le loro suggestioni fino a sospendere l'esercizio della critica.

(E naturalmente ci si può chiedere: De Martino avrebbe condiviso questa idea? Probabilmente no, l'a- vrebbe trovata troppo severa verso le speranze umane, e poco sensibile al bisogno di trascendenza.)

Appare facile e immediatamente accettabile, co-munque, allargare le braccia, sorridere, e affermare che fedi e religioni sono intoccabili non soltanto perché -così si dice — contribuiscono a rendere più buone le per- sone, ma anche perché i miracoli potrebbero sempre es-sere dietro l'angolo. Non si rischia nulla nel dimostrar-si aperti all'impossibile, e in quasi tutti gli ambienti ci si fa bella figura. Nella vita quotidiana noi stiamo attenti a non esporci con opinioni dissacranti, e se poi lo fac-

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ciamo ci mettiamo una quota di autoironia sperando di farci perdonare l'eccesso di distruttività. Infatti, perché mai essere giudicati cinici e materialisti? Ce ne guardia- mo bene. Rischieremmo, se lo facessimo, che qualcuno ci attribuisse un animo non buono: mentre in pratica abbiamo un gran bisogno sia di amici e parenti, sia di quelle persone benpensanti e autorevoli, e magari cre- denti, il cui sguardo simpatizzante ci è prezioso. La compiacenza ideologica, ossia l'opportunismo delle idee, è il modo migliore per ingraziarsi i potenti, anche se questo può implicare una rinuncia al diritto di espri- mere le proprie opinioni e perfino — con l'andare del tempo — una perdita della capacità di elaborarle.

Ovunque prevale la pressione degli altri e di ciò che abbiamo intorno: lo si vede persino in esempi banali. L'adulto occidentale che, comodamente seduto sul di-vano del proprio salotto in mezzo a mille oggetti rassi- curanti, sorride divertito di fronte ai trucchi del presti-giatore che roteando le dita nell'aria fa magicamente ap-parire monetine e sigarette accese, trovandosi invece in un tempio dell'Oriente è convinto di assistere a eventi paranormali di fronte a un venerabile santone dotato di barba bianca che con gesti molto simili a quelli del pre- stigiatore (e magari un po' di sussiego in più, aiutato dal- l'ambiente) esibisce trucchi sensazionali frutto di abilità lungamente apprese. «E poi, quando mi ha toccato con la mano ho sentito una incredibile energia che mi per-correva tutto» è il tipo di testimonianza più comune.

Eppure, casi come questo non dovrebbero incorag- giare i pochissimi positivisti ancora in circolazione, in- clini a credere che sia sempre facile demistificare gli in- ganni degli stregoni: in realtà no, non è per nulla facile. Spesso non è agevole applicare spiegazioni ragionevoli a eventi straordinari. Non è facile, cioè, elaborare spie-

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gazioni che utilizzando gli strumenti della logica, della psicologia e delle scienze sociali respingano ai margini, fino ad annullarla, l'ipotesi che Dio e il diavolo si con-tendano realmente l'anima dei singoli come quella dei popoli, e che i prodigi celesti e le guarigioni miracolo- se, gli spiriti dei trapassati e i maghi capaci di librarsi nell'aria esistano davvero e siano qui fra noi. Per spie- gare a fondo le illusioni degli uomini e gli errori della mente bisogna possedere conoscenze scientifiche non alla portata di tutti. E infine, ammettiamolo, un minimo di speranza nel soprannaturale rimane vivo anche nel-1' animo più laico.

Un episodio di cui, credo, non discussi mai a fondo con De Martino, occorse una sera dell'estate del '59 in Puglia nel corso delle nostre ricerche. Parlando con due anziani contadini, credo analfabeti, del loro rapporto con un certo santo di cui non ho più ricordato il nome, essi ci fecero capire quanto stretto fosse il rapporto fra la loro credenza religiosa e la vita di tutti i giorni. Disse-ro che interpellavano quel santo nella preghiera, e che egli li ispirava nella vita quotidiana. (Fin qui però noi, pur sinceramente interessati, non ne fummo particolar- mente colpiti: e se fossimo stati al giorno d'oggi avrem- mo pensato che anche il presidente degli Stati Uniti si consulta, a quanto riferisce, quasi quotidianamente con Dio ricevendone buonissimi consigli.) I due contadini dissero però qualcosa di più. In tempi recenti, afferma- rono, il santo era apparso loro in visione, una bella sera, nella loro casa, e precisamente vicino al letto. Non solo non dormivano affatto, precisarono, ma non erano nep-pure andati a coricarsi. Non erano ammalati, natural-mente, non avevano bevuto, stavano bene come ora, e così via. Erano ben svegli, e lo vedevano come ora vede- vano me. L'apparizione era durata, dissero, vari minuti.

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Varie ipotesi. 1) I contadini mentivano. Ora, questo è possibile ma

poco probabile, almeno dando a «menzogna» il signifi- cato abituale. È certo che quell'apparizione era omoge-nea al loro mondo culturale e non li aveva sorpresi, tan- to che non ne parlavano neppure come di un evento straordinario: il santo faceva parte del loro mondo sog- gettivo, del loro modo di concepire la realtà. Quel mo-do poteva essere ingenuo, ma era sincero. Inoltre, al- meno apparentemente, essi non intendevano stupirci né tanto meno prenderci in giro.

2) Avevano avuto un'allucinazione. Anche questo è poco probabile. Un'allucinazione visiva è un disturbo importante, che comporta alterazioni del funzionamen-to cerebrale alquanto rilevanti, e in genere non compa-re se non quando vi siano disturbi dello stato di co- scienza. Noi avremmo avuto altri indizi dí un eventuale disturbo psichico di quella portata. E poi, perché il san- to era apparso a tutti e due?

3) Il problema riguardava la registrazione degli eventi, e soprattutto la loro rievocazione e rielaborazio-ne a breve e a lungo termine: cioè la memoria. E qui si aprivano alcuni quesiti, a cui a quell'epoca né io né al-tri saremmo stati in grado di rispondere con esattezza. (Il rapporto fra suggestione e memoria, e il tema dei fal- si ricordi, è stato chiarito in sede scientifica solo negli ultimi anni del Novecento.) Oggi infatti sappiamo che è possibile e perfino facile, e in assenza di disturbi psi-chici, ricordare nei dettagli e in perfetta buona fede epi- sodi mai avvenuti. Centinaia di migliaia di persone, ap- partenenti al mondo quotidiano della modernità, affer- mano oggi di essere state rapite da alieni su dischi vo- lanti, oppure ricordano eventi relativi a esistenze ante- riori alla loro nascita8.

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Ancora una volta, però, ci trovavamo di fronte a un problema più generale. Non può darsi che, all'interno di questo nostro mondo complesso, tecnologico, post- industriale, noi siamo troppo inclini ad affermare, un po' qualunquisticamente, «tutto è possibile»? E se in- vece alcune cose fossero più possibili di altre? Fino a che punto, allora, avremmo bisogno non di ispirazioni e di spontaneità intuitiva, e neppure di atteggiamenti di tolleranza generica verso l'universo degli eventi, quan- to invece di conoscenze dettagliate e attendibili, di dati e di cifre, e anche di libri, forse i più utili per comincia-re a capire un po' meglio cosa succede intorno a noi e non fare troppi errori?

Vorrei concludere un capitolo ormai troppo pieno di note personali con un ricordo di parecchi anni fa. Chi mi fece riflettere nuovamente su quest'ultimo tema, cioè sul tema dei libri e dello studio, due anni dopo la fine prematura della collaborazione con De Martino (il grande antropologo morì di cancro nel 1965), fu Fran- co Basaglia a Gorizia, dove da Roma mi ero trasferito con tutta la famiglia nel 1966, attratto dal suo coraggio- so progetto di trasformazione del vecchio ospedale psi- chiatrico di quella città. Come si può immaginare, nel- la gestione quotidiana di quell'esperienza dí riforma istituzionale, che per molti aspetti era realmente all'a- vanguardia e si attirava più ostilità che appoggi (Basa- glia era a quell'epoca uno sconosciuto), ad ogni piè so- spinto affrontavamo scelte importanti, per cui fra noi non mancavano mai le discussioni. Dal momento che i decreti ministeriali imponevano di organizzare corsi di aggiornamento per i nostri infermieri, io mi offrii di condurre dei gruppi per aiutare il personale non diplo- mato — bravissimi friulani, ma di non grande cultura - a capire qualcosa di più dei disturbi psichici, delle di-

namiche psicologiche, e anche dell'utilità e dei limiti dei trattamenti con psicofarmaci. Ma Basaglia era ostile al- l'idea. Sosteneva che gli infermieri avrebbero tratto le migliori risorse da se stessi così com'erano, se la loro spontanea umanità non fosse stata complicata da discu- tibili nozioni: quelle brave persone, diceva Basaglia, avrebbero scavato nelle loro più autentiche capacità re- lazionali qualora si fossero rapportate direttamente ai ricoverati e alle loro famiglie senza schemi scientistici né idee mediche in testa, né particolari conoscenze di psi-cologia o di psicoanalisi. Meno masticavano di psichia-tria e discipline affini, insomma, meglio era. Ne discu-temmo e ognuno rimase della sua opinione: io però in-tesi la sua posizione, che mi sforzai di comprendere, co- me un avvertimento circa i limiti troppo rigidi di una impostazione, la mia, evidentemente influenzata da so-gni illuministi. Non condividevo la sua idea ma non fui affatto sicuro che la ragione fosse tutta dalla mia parte.

Col passare dei mesi, però, quando il corso si tenne i miei dubbi diminuirono. Malgrado molti limiti, il rap-porto con gli infermieri si rivelava una esperienza posi- tiva. Era umano e vivo il tentativo, sia pure poco siste- matico, di aiutarli con discussioni, lezioni e seminari: e forse quel tirocinio di idee forniva loro, insieme a qual- che nozione in più, anche qualche maggiore strumento critico con cui proporsi all'interno dell'ospedale. Del resto, anche volendo limitarsi a un criterio di rendi- mento, capii che avrebbero lavorato con più intelligen- te attenzione se si fossero sentiti non già ubbidienti ese-cutori di ordini ma tecnici consapevoli di quello che an-davano facendo.

Da allora mi feci guidare da pensieri del genere in al-tri progetti di ricerca e di insegnamento, attraverso gli anni e fino ad oggi.

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in medias res.

Capitolo 2 UNO SGUARDO D'INSIEME

SUL RELATIVISMO

Il relativismo contemporaneo è molte cose insieme. Non è solo una interpretazione del nostro momento storico, come nel post-modernismo di Lyotard, né solo

una teoria filosofico-letteraria, come nel decostruzioni-smo di Derrida, né solo una critica alla conoscenza scientifica, come nell'anarchismo epistemologico di Feyerabend, e neppure soltanto una forma di umanesi-mo ironico, come nei garbati scritti di Rorty. È, proba-bilmente, qualcosa di più dí tutte queste teorie: è una ideologia e un modo di pensare. Malgrado le sue di- spersioni, il relativismo è un atteggiamento non privo di compattezza, coerente nel suo modo di avvicinare la realtà, capace di esercitare il suo influsso su discipline specialistiche disparate come sulla vita quotidiana di tutti noi, e attivo persino sulle scelte politiche da cui di- pende il nostro futuro. Non è banale, spesso non è stu-pido, ha aiutato molte persone a riflettere; e se è vero che i suoi eccessi offendono il buon senso, le sue radici meritano attenzione.

Come introdurre un tema che ha tante facce? Per esempio entrando Alla maniera delle aperture teatrali, si può immaginare un dialogo, o con-fronto-scontro, fra un relativista e un anti-relativista.

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Un dialogo

Questo dialogo può dipanarsi in vari modi, ma cerche- remo di riprodurne le caratteristiche più tipiche traen- do spunto dalle pagine di un romanzo contemporaneo'. Lo scenario descritto nel libro è il seguente. In una stan-za di università siede il titolare della cattedra, un lette-rato intelligente e aggiornato, «di sinistra», certamente amato dagli studenti, un uomo che nel romanzo viene descritto come cinquantenne, per l'occasione circonda- to da alcuni allievi che pendono dalle sue labbra: è il re- lativista (REL.). Noi potremmo anche chiamarlo, però semplificando le cose, il soggettivista. Davanti a lui sie- de uno studente ventiquattrenne dal curriculum irrego- lare, appassionato di informatica, che per qualche mo- tivo è stato incaricato di intervistare il professore: è il realista, o meglio l'empirista (EMP.). Potremmo anche chiamarlo, ma il termine è brutto, l'oggettivista.

Il dialogo, qui liberamente modificato rispetto alla narrazione originaria, li ha gradatamente portati all'ag- gressività. È ormai chiaro che l'intervista è andata a far-si benedire.

REL. Così lei si occupa di super-autostrade informatiche, eh? E quante baraccopoli di povera gente dovranno essere spianate dalle sue ruspe per far passare queste super-auto-strade?

EMP. Scusi? Forse non mi sono spiegato. Si tratta di una metafora! Quelle autostrade sono virtuali, è ovvio che non so-no una cosa che occupa spazio.

REL. (sarcastico) Ma guarda! Non l'avevo capito. Però sa, il fatto che sia una metafora non mi dice poi molto. Tutto è metafora, caro mio. Se io prendo in mano un oggetto (lo mo- stra, è una penna) e dico «penna», anche questa è una me- tafora. Il linguaggio è metafora. Le metafore sono il nostro

modo di costruire la realtà, ci sono mille e mille metafore che abitano la nostra mente e ci permettono di pensare.

EMP. Comunque, guardi, quella che ho usato io era in fon-do una cattiva metafora. Forse non è il caso...

REL. Ah, interessante, adesso le autostrade informatiche non sono più autostrade. Ci sono metafore buone e metafo- re cattive? Alcune le prendiamo e altre le lasciamo? Crede che sia possibile? Davvero? (ride). In questo caso, allora, chi ha deciso che le autostrade informatiche sono una cattiva me-tafora? Chi decide ciò che buono e ciò che è cattivo?

EMP. (pausa) In questo caso, scusi, lo decido io. REL. Sta scherzando? Allora lo posso decidere anch'io, lo

può decidere chiunque, se è questo che intende. Siamo alle solite, diventiamo tutti giudici, e alla fine vince chi strilla più forte. Si tratta sempre di giudizi e, se ci pensa bene, questa è la matrice dell'intolleranza. Non sarebbe meglio cominciare col giudicare un po' meno?

EMP. Senta professore, mettiamo le cose in chiaro. Io ho letto il suo libro. L'ho vista alla televisione. Ho personalmen- te raccolto una lista delle sue credenziali in preparazione del nostro incontro. Quello che posso dire, con tutto il rispetto, è che lei non è qualificato per avere un'opinione su questioni tecniche.

REL. (mostra una finta confusione, poi ride verso i propri allievi) Oh, scusi tanto, non avevo capito che prima di parla-re bisognasse dimostrare di avere i diplomi in regola!

EMP. A me questo pare chiaro, invece; anche se lei sa be- nissimo che non è questione di diplomi o di altri pezzi di car- ta. Se lei è ignorante su un certo argomento, allora la sua opi- nione è del tutto priva di valore. Se io sono ammalato, non chiamo l'idraulico per avere un parere. Lui si guarderà bene dal darmelo, ma se lo facesse io non lo starei neanche a sen- tire. Allo stesso modo, se io ho dei problemi con Internet cer- co il consiglio di qualcuno che se ne intende; le altre persone mi farebbero solo perdere del tempo.

REL. (rivolgendosi agli allievi) E strano, ma tutti i tecno-crati sembrano essere in favore di Internet.

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Non vorrei sembrarle fastidioso, o pedante, ma lei ha appena fatto una affermazione che è dimostrabilmente fal- sa. In primo luogo le potrei citare vari libri di grandi esperti di Internet che sono critici proprio verso questa realtà. In se- condo luogo lei usa il termine «tecnocrate» per squalificarmi. Se quella parola ha un senso io non sono affatto un tecnocra- te, contrariamente a ciò che lei vuole suggerire. Sono solo un ragazzo che ogni tanto scende alla libreria sotto casa a com-prarsi un manuale, e che negli ultimi anni ha passato moltis- sime ore in rete.

REL. E infatti, il punto che lei non vuole capire è un altro. Lei si trova a essere, le piaccia o no, un sacerdote della tecni-ca moderna, e la tecnica è violenza. Anche l'informatica è vio- lenza. Se prima ho parlato di ruspe non era per caso. Pur- troppo, il mondo si sta mettendo tutto intero nelle mani di persone come lei, che manipolano le informazioni e domani ci diranno cosa dobbiamo pensare. Mi dica un po': ci sono molte donne, fra le persone che si occupano di informatica?

EMP. (spiazzato) No, poche. REL. E si è mai chiesto perché? Il fatto è che la logica che

voi usate è l'espressione massima del pensiero tecnico-mani-polante dell'Occidente. Ed è una logica maschile. È una lo- gica fallica e maschilista. Capisce cosa intendo quando dico fallica? Intendo innamorata del proprio potere, orgogliosa- mente insensibile, discriminante, autocentrata, autistica, fic-cante, magari anche crudele...

EMP. (riprendendosi) Oh dio, nientemeno. Davvero? Francamente, credo che le sarebbe piuttosto difficile dimo-strarlo. Mi scusi se sono poco gentile, ma lei sta dicendo del- le genericità su cose che non conosce. Ed è chiaro che cerca il consenso dei suoi allievi, che di informatica ne sanno quan-to lei, cioè, temo, nulla o quasi nulla. Io credo, con tutto il ri-spetto, che lei non dovrebbe dire certe cose: lei non dovreb-be provare a intimidirmi con degli argomenti generici ai qua- li né io né nessun altro potremo mai rispondere. Sono le sue frasi che mi sembrano una forma di violenza.

REL. Non dovrei dire certe cose, eh? Bene, ecco che è già

arrivata la censura. Marciamo a grandi passi verso la polizia del pensiero. È proibito dire che l'informatica è fallica?

EMP. Nessuno proibisce alle persone di parlare. Però sa- rebbe interessante che lei incontrasse un'altra persona la qua- le, sapendone di informatica quanto ne sa lei, sostiene che, al contrario, l'informatica è anti-fallica. Sarebbe divertente! A quel punto risulterebbe chiaro che tutto il gioco consiste nel tentativo di rendere credibili delle opinioni, che però sono al- quanto particolari perché non hanno fondamento da nessu-na parte. Forse a quel punto vi rendereste conto che mani- polate aria fritta. Ora, il dire «L'informatica è fallica», e qui io vorrei spiegarmi molto bene, non è affatto come dire «Il nostro materiale genetico è disposto a doppia elica»: la prima affermazione non è affatto dimostrabile e la seconda invece lo è. Una bella differenza! E allora, arrivati a questo punto, si renda conto, come faccio a discutere con lei? Io preferirei di- scutere con una persona che sostiene che la luna è fatta di for- maggio: non sarebbe facile neanche lì, è vero, perché non è facile trovare gli argomenti giusti con chi è molto lontano dal-la realtà, però ci potrei provare. Qualche buon argomento mi verrebbe fuori anche sul tema della luna e del formaggio. Ma se lei mi dice che l'informatica è da respingere perché è falli-ca come si fa? Non le si può rispondere nulla. E allora, vera-mente, seguendo il suo modo di ragionare tutto diventa pos- sibile. Qui poi è ovvio che nessuno le proibisce nulla, lei può dire quello che vuole. Giustamente, nella nostra società c'è la massima tolleranza per qualsiasi opinione; se le piace uscire per la strada gridando «Due più due fa cinque! Due più due fa cinque!» nessuno glielo impedirà, e probabilmente nessu-no le darà neppure fastidio. In più, magari lei incontra qual- cuno che dice che due più due fa sei, e vi fate compagnia. So- lo, vede, io credo che esista una differenza percepibile fra le cose vere e le cose false, e fra le cose sensate e le sciocchezze. Io le sciocchezze non le condanno, solo me ne disinteresso. Chiedo il diritto di non prenderle in considerazione. Preferi- sco andare al cinema a vedermi un film comico.

Ma cerchi di capirmi almeno una volta! Non può

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EMP.

REL.

Page 22: Contro il Relativismo

loro

Le due posizioni in sintesi

I relativisti

là, prima

esterna

nostre

darsi che le sue sciocchezze non siano affatto le mie? Dicia- mo così, ognuno ama le proprie sciocchezze. Le va bene? Non le sembro tollerante? Ma a parte gli scherzi è davvero una questione politica, perché io sono un democratico e un pluralista, e lei invece è un dogmatico e un totalitario. Ci pen- si bene: lei taglia corto, evade dal rapporto, dice che certe po- sizioni non le interessano e che le fanno solo perdere tempo. Ma si rende conto, allora, che rifiuta il principio del dialogo? Lei rifiuta di confrontarsi, e a questo punto sono ío che non so più cosa dirle, perché lei si pone fuori da quella che è la premessa per qualsiasi convivenza. Dice che preferisce anda- re al cinema. Bravo! Va tutto solo a chiudersi in un luogo buio, e direi che anche questo ha un suo significato, no? Però, prima che se ne vada, io una richiesta ce l'avrei da farle. Io vo- glio sapere «da dove» lei dice tutto questo che mi sta dicen- do. Come direbbe Lacan, da dove parla la sua parola? Parla a partire dall'Olimpo dei nuovi dei della scienza? Forse sì, o per lo meno così lei ritiene. Lei non lo sa, ma la sua è una nuo- va mitologia, come per la mitologia degli antichi greci. Si trat-ta solo di narrazioni. E nelle narrazioni, voglio dire in quelle dei greci di duemila anni fa, c'era più verità che nelle sue di oggi. Ma preferirei non divagare e andiamo pure al concreto. Mi dica per favore, cosa fa suo padre?

EMP. (sorpreso e per la prima volta un po' intimidito) Mio padre? Insegna matematica nei licei.

REL. Vede? Lei è un borghese privilegiato, e per questo se ne sta qui a parlare con me. È questo suo essere casualmente il figlio di un piccolo intellettuale, e non è la bontà dei suoi argomenti, ciò che dà forza al suo modo di ragionare. Quel-lo che lei presenta come fosse la verità è solo una questione di ambiente di famiglia. È da lì che lei parla, e non dall'alto del monte della verità. Questo le permette di pontificare con me che ho la pazienza di ascoltarla.

EMP. (guarda per terra, verso le proprie scarpe da ginnasti-ca, poi guarda il professore, seduto dietro la sua cattedra) Non so cosa ne pensano le altre persone presenti e mi chiedo per-

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ché non dicano mai nulla, ma veramente a me non pareva di stare pontificando...

(E così via. È chiaro che i due non si intenderanno mai.)

Lasciando da parte il professore e lo studente possiamo provare a sintetizzare, per ora un po' alla buona, quali sono le due posizioni generali di cui li avevamo eletti rappresentanti.

partono da un'ipotesi: i fatti di per sé non ci dicono nulla di preciso perché conta solo il modo di vederli; in altre parole, valgono le interpretazioni che noi ne diamo. I più radicali fra loro, vicini all'idealismo filosofico, sostengono addirittura che un fatto qualsiasi

(un'eclisse, una gazzella che corre, un sasso che cade) non esiste indipendentemente da come lo recepiamo nella coscienza. Se noi diciamo che il fatto è essi af-fermano, è solo perché stava nella nostra mente. Nell'insieme, i relativisti tendono a valorizzare tutte le convinzioni soggettive e le credenze, anche quelle che appaiono più marginali, perché — dicono — non esiste una unità di misura alle credenze stesse, atta a valutarne la fondatezza.

Per quanto concerne le scienze esatte, sono convin-ti che le leggi di natura (per esempio: E=Mc2) non sia-no nelle cose, ossia nella natura, ma nella nostra testa; e che cioè siano descrizioni, le quali possono va-riare a seconda dei tempi e delle culture. Il relativista, infatti, è portato a credere che le conoscenze siano sol- tanto modi concordati di vedere le cose e, al limite, sia- no soltanto opinioni; di conseguenza, ha scarsa fiducia

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Page 23: Contro il Relativismo

punti di vista

un altro

realmente

ognuno tutti

Dal lato opposto

(doxa) (epistème).

in concetti come «prova» e «verifica». È, insomma, un possibilista estremo; oltre che, naturalmente, uno scet- tico.

Per le scienze umane, il ragionamento è molto simi-le. Il relativista ritiene che non esista alcun criterio per affermare che taluni assetti sociali — o taluni stili com-portamentali — siano migliori di altri. Pochissimo incli- ne a esprimere giudizi su popoli o su persone, il relati- vista non ama credere che vi siano intere collettività po- co istruite, per esempio perché afflitte da analfabeti- smo, e neppure parla mai di persone ignoranti. A suo parere, invece, esistono solo tante culture, tutte di ugua- le dignità, alcune delle quali assai diverse da quella oc- cidentale, così come esistono tanti individui alcuni dei quali seguono valori differenti dai nostri nella loro vita quotidiana. In quest'ottica nessuno è migliore di nessun altro, nessuno realmente svantaggiato, nessuno mai realmente diminuito nelle proprie caratteristiche di persona. Dunque l'idea è questa: abitualmente ci vedia-mo diversi solo perché abbiamo diversi. Coerentemente a questo principio ultra-egualitarista, molti relativisti ritengono che sia sbagliato parlare di minorazioni, ossia di handicap, per esempio una mano amputata, due gambe paralizzate, la cecità, la sordità, una intelligenza inferiore alla norma; e negano che si possa parlare di soggetti minorati, o disabili o handi-cappati. Quelle sono persone, invece, «diversamente abili», ovvero abili se considerate da punto di vista. (L'idea ha avuto molto successo ovunque, ma so-prattutto negli Stati Uniti.)

Fra le giustificazioni a questo tipo di filosofia ve n'è una particolarmente semplice, sostenuta in genere dai giovani, che suona come segue. Se noi finalmente ca- pissimo che tutti gli stili di vita esistenti al mondo han-

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no lo stesso valore, se ci convincessimo che non esisto- no idee giuste e idee sbagliate ma solo punti di vista dif- ferenti, e se un bel giorno ci rendessimo conto che tut- ti gli esseri umani, anche quelli con l'etichetta di pazzi o di minorati, sono uguali e che quelle eti-chette sono false, finalmente regnerebbe l'armonia. Fi-ne delle discriminazioni, niente più intolleranza e nep-pure invidia.

(Però — si potrebbe obbiettare — non può darsi che questa teoria sia solo una variante della proposta del Dodo? E cioè: facciamo un gioco in cui ha vin-to e devono essere premiati. E poi, come si sa, il Dodo ci teneva ad aggiungere un codicillo: il gioco l'ho inventato io ma i premi li deve fornire Alice2.)

Naturalmente il problema non può essere risolto con una battuta. Va aggiunto che le posizioni relativiste, oltre a non essere affatto banali e neppure sempre scioc- che, si raggruppano in scuole e correnti identificate me- diante etichette come post-modernismo, costruttivismo, decostruzionismo, multiculturalismo, ermeneuticismo, e così via. I confini fra queste scuole sono assai fluidi. Malgrado una certa complicatezza delle teorie filosofi- che il relativista è capace, in genere, di esprimere la sua posizione in termini concisi, e non di rado le sue paro- le seducono per semplicità ed eleganza.

della barricata troviamo, su una po-sizione anti-relativista, il realista, o meglio l'empirista, forse il meno raffinato dei due ma certamente il più con- creto, al quale accade di dover fare discorsi un po' pe- danti. Egli ricorda anzitutto che gli antichi greci aveva-no già chiara la distinzione fra opinione e cono-scenza Il realista spiega che la velocità della luce era sicuramente di 300.000 km/sec anche prima

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efficaci: validi.

Il relativismo come mentalità

in che senso

che la misurassimo e che la realtà naturale esisteva, con le sue regolarità e le sue leggi, molto prima di venire os- servata dall'uomo. Anzi, sostiene che se gli abitanti di un lontano pianeta volessero costruire aerei e razzi do- vrebbero essere giunti per proprio conto alle stesse identiche formule che noi troviamo scritte nei nostri li- bri di fisica. Inoltre fa osservare che concetti come «prova» e «verifica» sono talmente validi da costituire il fondamento della vita pratica di tutti noi, relativisti compresi, per esempio quando dobbiamo capire dov'è il guasto in una radio che non funziona o quando deci- diamo se votare o no a favore di un primo ministro che ci ha raccontato delle frottole alla televisione. Su queste premesse, egli dà più ascolto al parere degli esperti e delle persone istruite che a quello di chi non si è docu- mentato e non dispone di un buon livello di istruzione. Inoltre, sul terreno della vita collettiva, non pensa af- fatto che tutte le società siano uguali ed è anzi convinto che alcune siano migliori di altre, per cui ritiene che il liberalismo in economia, l'indipendenza della magistra-tura, la democrazia parlamentare, una netta separazio-ne fra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell'insieme, assetti sociali superiori a tut- ti gli altri finora escogitati dall'uomo. Infine, è convinto che sia giusto e necessario distinguere comportamenti più sani e normali da altri meno sani e meno normali.

Questo modo dí vedere le cose presenta l'inconve- niente di apparire rigido, selettivo se non discriminan- te, poco tollerante e anche un po' terra-terra: ma nel-

l'insieme, come risulterà più chiaro da varie argomen-tazioni in questo libro, ciò che il realista sostiene è più fondato, e più giusto e vero, di ciò che sostiene il rela-tivista. Ciò non toglie che, come accadeva nel dialogo riportato più sopra, il relativista possa disporre di ar-

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gomenti ma questo non significa che siano tut-ti

Nell'esaminare le posizioni in gioco, il cui ventaglio è ampio soprattutto dal lato dei relativisti, si può rischia- re di perdere di vista il fatto che siamo in presenza di due atteggiamenti elementari verso la realtà. Non si tratta, in pratica, solo di due filosofie ma anche di due mentalità, di due modi di pensare; o meglio, e ancora più radicalmente, di due modi spontanei di percepire le persone e le cose.

Per capire in che senso questo possa essere vero, si può cominciare col prendere il classico esempio di Fre-ge. Di fronte al desiderio di sapere la Stella della sera è altra cosa dalla Stella del mattino, noi pos-siamo interrogare in primo luogo chi è incline (magari senza saperlo) a un modo di pensare relativistico, e poi chi, in modo altrettanto inconsapevole, ha una menta- lità opposta, anti-relativista, ovvero, se vogliamo, «og-gettivista».

Una persona incline al relativismo direbbe che non è appropriato affermare che si tratta della stessa stella in ore differenti. Infatti osserva che da sempre noi chia- miamo «stella», per convenzione e accordo unanime, un particolare punto luminoso che vediamo nel cielo notturno; secoli fa pensavamo che si trattasse di un bu- co nel velluto della volta celeste e oggi invece interpre- tiamo quella luce dicendo che a volte è un pianeta, altre volte un sole lontanissimo. Ma questo cosa cambia? È evidente che le varie spiegazioni del fenomeno non al-terano ciò che per chiunque è il senso della parola «stel- la». Ossia, «stella» è una piccola luce nella volta celeste.

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sem-bra

appaiono sono

a)

b)

c)

Ora, la caratteristica della prima delle due stelle è che si tratta di una luce che vediamo accendersi nel corso del- l'imbrunire. Sarebbe assurdo sostenere che quella

la Stella della sera: invece, è la Stella della sera. Co-sì, parallelamente, è la Stella del mattino il punto lumi- nosissimo che compare in cielo poco prima dell'alba.

Al contrario l'antí-relativista, o realista, o anti-sog-gettivista che dir si voglia, centrato com'è sull'oggetto esaminato invece che sulla situazione del soggetto esa- minante, liquiderebbe la questione affermando che le due stelle diverse ma non diverse: sono la stessa stella e cioè il pianeta Venere.

Un secondo caso. Alcuni anni fa si sono diffusi, in Occidente, vari allarmi legati allo sviluppo tecnologico: i mezzi di comunicazione di massa hanno fornito a que-sti allarmi una cassa di risonanza, in genere senza chie-dersi quanto fossero giustificati, e la maggioranza del pubblico li ha trattati come pericoli reali. Esempi: i bambini che vivono vicino agli elettrodotti si ammalano di leucemia; le vaccinazioni causano l'autismo; i ripeti- tori della telefonia cellulare emettono onde molto peri- colose. Timori come questi non sono stati affatto igno-rati: hanno perfino dato luogo a ricerche scientifiche ac-curate e che sono durate anni costando, come nel caso degli elettrodotti, milioni di dollari: la loro conclusione è che si tratta di allarmi senza fondamento3. Gli anti-re- lativisti ne hanno preso atto, magari cercando di docu- mentarsi sui vari aspetti dei problemi in gioco. Gli in- dividui di mentalità relativista invece, che sono meno inclini a documentarsi — ed è naturale, poiché non ri- tengono che i «fatti» parlino da soli — ma in compenso sono i più inclini alle polemiche, sostengono che: se quelle ricerche sono dette scientifiche ciò non costitui-sce un argomento valido; per quanto riguarda gli elet-

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trodotti alcuni studiosi sono rimasti col dubbio che pos- sano causare un minimo aumento statistico dei casi di leucemie infantili, e quindi, anche se il rischio è co-munque molto piccolo e forse inesistente, ce n'è abba-stanza per non costruire case e scuole vicino alle linee ad alta tensione perché le precauzioni non sono mai troppe, e lo stesso vale per molti altri problemi, com-preso quello dei rischi dell'ingegneria genetica; l'opi-nione pubblica non può mai avere del tutto torto per- ché la gente comune percepisce i pericoli che incombo- no sulla propria pelle.

Vediamo ora un terzo e ultimo caso, che riguarda l'e-tica civile. Secondo un aneddoto, Alessandro Manzoni fu chiamato un bel giorno a dirimere una lite fra due uo-mini che si accapigliavano per una questione di interes- si. Decise di interrogarli separatamente e, sentiti gli ar- gomenti del primo, disse: «Lei ha ragione». Sentito il se-condo, però, prima rimase pensoso poi concluse: «An-che lei ha ragione». A questo punto si interpose una ter- za persona: «Ma come è possibile che abbiano ragione tutti e due?». E Manzoni: «Ha ragione anche lei». Un Manzoni relativista, dunque? Può darsi. Ed è giusto avere un po' di simpatia nei suoi confronti, soprattutto se immaginiamo che non avrebbe voluto essere trasci-nato in quella situazione.

Qualcuno, però, lo prenderebbe a modello. Il relati-vista dí oggi sarebbe favorevolmente interessato da que- sto episodio, forse fino al punto di elevarlo al rango di apologo filosofico; o addirittura ne farebbe una para- bola etica lodando la tolleranza, l'apertura, il senso cri- stiano di accettazione verso tutto ciò che è umano, tipi- ci del Manzoni. Ma qui il dissenso dell'anti-relativista sarebbe marcato. Egli avrebbe qualcosa da ridire sulla tendenza del nostro sommo romanziere a non prende-

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loro lui

re posizione, e soprattutto sulla nostra eventuale tenta-zione di trarne un modello di comportamento.

L'anti-relativista farebbe osservare che nel tessuto ci-vile intorno a noi, per esempio in Italia, sono riconosci- bili due opposte condotte riguardanti problemi che - grosso modo — sono simili a quello che dovette affron-tare Manzoni: la prima condotta (anti-relativista) è pro- babilmente virtuosa, la seconda (relativista) quando ar- riva all'eccesso può anche essere considerata spregevo- le. Il primo tipo di condotta, dunque, caratterizza quel- l'individuo che non si sottrae alle incombenze inerenti al suo ruolo (magari incombenze temporanee, come l'esser chiamati a dirimere una lite) e si impegna cer-cando dati e fatti, valutando le cose nel modo più equa- nime possibile, quindi pronunziandosi sapendo che se

non possono avere tutti ugualmente ragione, così non può accontentare tutti. Insomma, prende posi-

zione. Aderiscono a questa mentalità coloro — funzio- nari, agenti dell'ordine, magistrati, giornalisti, e anche professori universitari — che ritengono abbia un senso la locuzione «responsabilità civica», e un senso forte. Tut- te queste persone sono convinte che una buona demo- crazia sia fondata su un principio di neutralità: leggi, re-golamenti e procedure decisionali sono uguali per tutti. Ritengono, quindi, che sia importante sforzarsi di espri-mere giudizi coerenti, fattuali, non personalistici e nep-pure, se possibile, discrezionali. Altrimenti ritengono che ne nascano — sempre — favoritismi e ingiustizie.

Il secondo tipo di condotta incarna uno stile oppo-sto, e ci aiuta a comprendere come il relativismo possa essere più un abito mentale che un orientamento con-sapevole. È molto comune, infatti, lo stile di ragiona-mento di chi fa leva sul presupposto che tutti quanti ab- biano i loro bravi motivi per fare quello che fanno, per

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cui il pretendere di valutare le azioni altrui diventereb- be una rischiosa intrusione. Si parte dunque da un «co- sa ne sappiamo, in fondo?» e si passa attraverso «tutti hanno le loro ragioni» osservando infine che «ciascuno ha i suoi problemi» e — naturalmente — «tutti hanno i lo-ro interessi». Ed ecco discenderne una regola di com-portamento: non giudicare, non prendere posizione. Eventualmente, quindi, scegliere una linea blanda, as- secondante, comunque mai rischiare troppo. Arrivati a questo punto, è già pronta una collana di formule rela- tivizzanti che gli italiani conoscono bene: «ogni regola ha le sue eccezioni», «bisogna valutare caso per caso», «non smuovere le acque», «ognuno si faccia gli affari suoi», «il mio parere? qui lo dico e qui lo nego», e per- fino (la formula suprema, secondo Ennio Flaiano) «ten-go famiglia». Quest'atteggiamento generale ha un no-me: disimpegno morale. E quando prevale nel tessuto civile di una nazione, è probabile che contribuisca a im-pedirne lo sviluppo4.

L'orientamento mentale che chiamiamo relativista ha dunque varie facce; e peraltro ha anche una sua coe- renza. La sua chiave di volta riguarda l'atteggiamento verso la scienza. Il relativista non crede nella scienza, o almeno ne diffida fortemente, e questo significa molte cose. In primo luogo svaluta le verifiche sistematiche, i dati sperimentali, le statistiche, le misure, i modelli, le valutazioni di probabilità: cioè esattamente tutto ciò che costituisce la scienza. Per estensione, poi, ritiene giustificato porre sotto accusa tutto ciò che si presenta con pretese di oggettività e universalità. E questo im- plica qualcosa di ancora più ampio: il relativista dubita che si possano trovare criteri universalmente validi per separare la verità dalla menzogna, ciò che è funzionale

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sui generis,

Le ascendenze storiche del relativismo

da ciò che è disfunzionale, la giustizia dal torto, e anche il sano dal patologico. In rapporto a questo, ecco l'a- more per le particolarità, per le eccezioni, per i feno-meni per le verità locali e settoriali. In pra-tica, quindi, multiculturalismo, localismo e antiglobali-smo sembrano essere anch'essi costituenti intrinseci, primari, della mentalità relativista. Per esempio, se re- lativismo significa (fra l'altro) non credere nel valore planetario, universale, dei principi giuridici fondamen- tali, una conseguenza significativa consiste nel non rite- nere che le iniziative di politica estera dei governi deb- bano sottostare alle regole del diritto internazionale.

Solo a volte, dunque, il tema unificante sembra rife-rirsi alle modalità del conoscere, secondo la formula: le conoscenze sono opinioni, e tutte le opinioni si equi- valgono. Altre volte invece, benché in modo meno pa- lese, il vero tema unificante del relativismo appare com- portamentale: ognuno faccia tutto ciò che vuole, poiché nessuno ha l'autorità di giudicarlo.

Il relativismo si è diffuso in Europa e in America nella seconda metà del Novecento, ottenendo il suo massimo successo negli ultimi due decenni del secolo. (Nei pri- mi anni del nuovo millennio, peraltro, alcuni segnali fanno ritenere che possa essere iniziato il suo declino; secondo Maurizio Ferraris vi sono validi motivi per ri- tenere che questo indirizzo di idee stia tramontando nelle nebbie dello spiritualismo5.)

Il successo complessivo del relativismo è stato e re-sta tuttora notevolissimo, tanto da autorizzare alcuni autori a designare il nostro periodo storico come l'età del relativismo, o come l'era del post-modernismo: ana-

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logamente, dunque, al modo in cui si parla corrente- mente di un'età moderna, o di un'era dell'illuminismo6. Ed è proprio rispetto all'illuminismo che il relativismo si è posto in aperta antitesi.

Non dovrebbe essere necessario ricordarlo, ma dal-l'illuminismo si svilupparono in Inghilterra, in America e nella Francia del Settecento, sia le forme della demo- crazia moderna, sia la scienza e la tecnica quali oggi le conosciamo. Fu un orientamento di pensiero caratte-rizzato da un solido laicismo, dalla certezza che esistes-se, attraverso popoli e culture, una struttura universale della ragione umana, da vivissime speranze di progres- so tecnico-scientifico, e dalla convinzione che fosse giu- sto (e dall'illusione che fosse facile) che i popoli si libe- rassero dall'ignoranza e dalle superstizioni così come dall'inutile oppressione di governi bigotti e dispotici. Nei paesi anglosassoni le idee illuministe si legarono al- l'impostazione empiristica di pensatori moderati come John Locke e alle forme di dissenso coltivate dal prote-stantesimo puritano. In Francia l'illuminismo ebbe ca- ratteristiche più radicali e dopo la Rivoluzione si trovò a dover difendere per oltre un secolo la democrazia lai- ca dall'ostilità della Chiesa cattolica. In Italia, malgrado emergessero grandi figure di illuministi come quelle di Beccaria, di Verri e di Cattaneo, i nuovi ideali razionali e progressisti non estesero la propria influenza al di là di limitati ambienti della borghesia urbana e non ebbe- ro, in pratica, alcun effetto sul costituirsi della cultura politica post-unitaria: con le conseguenze che ancora oggi è agevole constatare.

Ma l'illuminismo dovette affrontare anche un'altra ostilità, assai forte benché non organizzata: quella del movimento romantico. Il romanticismo si espresse per tutto l'Ottocento nelle passioni variamente esaltate dal-

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bohémien

la poesia e dalle arti, nelle retoriche della spontaneità e dei sentimenti, in una inclinazione all'orrido e al pato- logico, e però anche in forme importanti di critica anti-borghese: con dissacrazioni spesso intelligenti, spirito-se e acute. (Romanzieri come Jane Austen e Gustave Flaubert trassero dalla critica romantica gli spunti per esaminare il proprio mondo sociale.) Verso se stessi e verso í propri tenebrosi entusiasmi, peraltro, va osser- vato che i romantici furono del tutto carenti di senso dell'umorismo. Il movimento romantico si espresse nei suoi modi più tipici all'interno dei gruppi e cenacoli del marginalismo e avanguardistico, nella fasci-nazione per l'Oriente, per i popoli primitivi, per la ma-gia e per lo spiritismo, nell'adesione a mitologie popo- lari a carattere barbarico, e — in particolare in Germa-nia — in alcuni aspetti non irrilevanti del pensiero poli-tico nazionalista.

Negli ultimi decenni dell'Ottocento il movimento romantico estese la propria influenza sul pubblico col- to e semi-colto, si disperse in correnti, e cessò di essere identificato come tale. Nei primissimi anni del Nove-cento l'influente rivista britannica «New Age», di orien-tamento spiritualista e aperta alle scienze occulte, con- tribuì a promuovere le idee di Nietzsche e di Bergson; filosofi e medici che pure non sarebbe appropriato de-finire «romantici» sostennero idee anti-moderniste e anti-razionaliste. Prima della Grande Guerra un auto-revole industriale ed economista, Walter Rathenau, e un filosofo, Ludwig Klages, sostennero che lo sviluppo tec- nico degradava sia l'ambiente sia l'individuo; dopo il 1918 Oswald Spengler diffuse con immenso successo l'idea che l'Occidente era ormai in pieno declino e sa-rebbe andato incontro alla propria dissoluzione qualo-ra non avesse ritrovato antichi valori di autorità, di san-

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gue e di destino; nel 1927 René Guénon ribadì con più forza un concetto analogo, in un'argomentazione che coniugava spiritualismo, esoterismo, e profonde con-vinzioni reazionarie (fra l'altro, Guénon si convertì al-l'Islam); per tutti gli anni Venti e Trenta, la credenza in forze magiche e in cosmologie fantastiche si diffuse nel- la cultura europea e americana attraverso singolari fi-gure di avventurieri e occultisti come Helena Blavatsky, Annie Besant, George Gurdjieff, Peter Ouspensky, Jid- du Krishnamurti, e riformatori culturali anti-razionali- sti come Rudolf Steiner. Il principale teorico italiano dell'estrema destra, Julius Evola, influenzato anch'egli dallo spiritualismo occultistico, fu anti-modernista, for- temente ostile alla scienza, e aderì a una concezione me-tafisica della storia'.

Il relativismo attuale, soprattutto nei suoi risvolti più inclini all'irrazionalismo, ha ereditato una parte di que- sti spunti ideologici.

In opposizione alle idee che ci provengono dall'illu-minismo, il relativismo diffida della razionalità umana e in particolare ne teme gli esiti pratici. Come accadeva ai loro ascendenti romantici, i relativisti negano valore al concetto di progresso, non amano la scienza e dete- stano la tecnica, e non sono affatto certi della superio- rità dei regimi democratici moderni su quelle società premoderne che ancora oggi sono caratterizzate, in va-rie parti del mondo, da autoritarismi tribali e da costu-mi feudali. Per un'analoga impostazione, il relativismo rivolge un occhio indulgente verso tutte le forme di re- ligiosità legate a immediatezze emozionali e non rigida- mente istituzionalizzate (entrando quindi in conflitto con le grandi Chiese, come quella cattolica), forme di religiosità i cui aspetti meno razionali esso considera, talora, l'espressione di un destino spirituale cui tende-

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Alcune note sul relativismo filosofico

rebbe la specie umana attraverso i millenni. La corren- te oggi detta New Age raccoglie quest'ultimo tipo di orientamento, il quale assume un più netto carattere fi- deistico all'interno del vasto ambito delle tendenze re- lativiste.

Negli ultimi due decenni del Novecento il relativi- smo ha esercitato un'influenza straordinariamente for- te e perfino egemonica sulla filosofia, sulla critica lette- raria, e su una parte delle scienze sociali; inoltre ha in- ciso in modo significativo sulla politica, sulle arti, sulle idee del femminismo. Molti intellettuali, e segnatamen-te quelli di formazione umanistica, sono stati conqui-stati da questo tipo di orientamento, spesso identifica-to con il post-modernismo. All'opposto però, e duran- te lo stesso periodo, l'orientamento relativista ha eser- citato una influenza praticamente nulla sulle scienze esatte, sulle ricerche di economia e di scienze del com- portamento, sulle scienze cognitive in generale e sulla psicologia scientifica in particolare. La tradizionale scis-sione fra «le due culture» (quella umanistica e quella scientifica) anziché attenuarsi ne è stata approfondita.

Gli aspetti più cauti del relativismo filosofico meritano di essere difesi; ma i suoi eccessi sono talora irritanti. Sul piano filosofico e metodologico, il relativismo trae le più estreme conseguenze dal tramonto del positivismo, cioè dal fallimento dell'illusione, ancora viva fino agli anni Trenta del Novecento, che fosse possibile formu- lare spiegazioni oggettive, perfettamente aderenti alla realtà e persino conclusive di tutti gli aspetti del mondo fisico come di quello sociale. All'interno della filosofia contemporanea è facile identificare due aree di pensie-

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ro, legate ai problemi del sapere scientifico, che hanno dato un importante contributo all'ideologia relativista.

La prima di queste aree di pensiero, che fa sentire il suo peso soprattutto nell'Europa continentale, è nel se- gno dell'influenza di Nietzsche e di Heidegger. Al suo centro sta il concetto di ermeneutica, cioè della disci- plina che da due secoli si occupa di interpretazione. Va- le la pena di spendere qualche parola per chiarirne il si- gnificato. Nata dai problemi di lettura e di uso devo- zionale dei testi biblici, l'ermeneutica si è occupata, fin dall'Ottocento, anche di testi poetici e letterari e del-l'interpretazione di leggi e testi giuridici. È stato natu-rale, in seguito, ritenere che l'interpretazione psicoana- litica dei sogni, in quanto «testi» simil-narrativi non ri- gidamente decodificabili, vada vista anch'essa come un tipico problema di ermeneutica. E non c'è dubbio che sia così.

In tutti questi casi l'ermeneutica persegue un parti-colare progetto di conoscenza: ha per oggetto qualcosa che è fluido, complesso, e non riducibile a dati misura- bili. L'ermeneutica si occupa di tutte le situazioni in cui un testo (oggettivo) non è separabile dal suo «vissuto» esperienziale (soggettivo). Per esempio, nella lettura di un sonetto del Foscolo da parte di una persona dotata di sensibilità poetica, oppure nella meditazione su una epistola di san Paolo da parte di un monaco nella sua cella, l'ermeneutica coglie la propria essenza in locuzio- ni come «risonanza affettiva», «libertà interpretativa», «evocazione e creatività d'immagini», «incontro ideale fra intenzione dell'autore e intenzione del lettore».

È difficile ignorare l'importanza, l'autonomia e an-che la particolarissima dignità umana di questa dimen- sione della vita culturale.

Tutto questo resta vero anche se emerge, prepoten-

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te, un rischio: ed è quello di trasformare il testo in un pretesto. Se i testi di un'opera letteraria, o la registra- zione di un sogno o di una massima filosofica, o la nar-razione di un ricordo o di una favola, o perfino la sfo- cata fotografia di un lontano pianeta, diventano ogni volta il pretesto per le nostre fantasie e quindi per eser-citare la nostra onnipotenza mentale, non solo il con-cetto di realtà perde di senso ma anche il concetto stes- so di interpretazione ne viene svuotato. Può darsi che un dato testo contenesse un messaggio, magari cifrato, ma se ci abbandoniamo alla più selvaggia spontaneità interpretativa il risultato è che non ce ne accorgiamo neppure. Né vale l'illusione che un accordo interperso- nale costituisca, di per sé, fattore di verifica. Infatti se due o più persone si trovano d'accordo circa un'inter- pretazione qualsiasi, noi possiamo eventualmente rica- vare da questa concordanza molti insegnamenti inte- ressanti sui meccanismi dei processi decisionali e sulla psicodinamica degli incontri consensuali, ma il fatto che esista un consenso non ci fornisce alcuna prova che quell'interpretazione sia sensata, e neppure — purtrop-po — che sia minimamente intelligente.

Particolarmente discutibile, però, è l'idea che anche gli eventi storici e sociali offrano l'occasione pertinente per un compito di tipo ermeneutico. Verrebbe sponta- neo ritenere che la «lettura» di un piccolo evento socia- le a cui assistiamo, come quello di due persone che liti-gano in mezzo alla strada, o lo studio di un grande even-to storico come una rivoluzione, siano anch'essi un pro- blema interpretativo, e proprio nel senso dell'ermeneu- tica. Ma questo è contestabile. Gli eventi sociali e stori-ci possono essere interpretati in vari modi, però una lo-ro corretta lettura dovrebbe tenere conto soprattutto di dati oggettivi: per esempio, per i piccoli eventi sociali,

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di registrazioni e di dati sperimentali; per quelli storici di dati d'archivio. Qui l'aspetto interpretativo è in ogni caso subordinato alla ricerca dell'obbiettività. Inoltre l'utilizzazione di esperienze individuali («cosa ricor- da?», «cosa vide?», «cosa avvertì in quel momento?») rischia di essere sopravvalutata nel nome di un rispetto sentimentale per la soggettività, e può diventare fonte di grossi errori. Per capire cosa accadde nella battaglia di Waterloo è meglio non chiederlo a Fabrizio del Dongo...

Ora, la tendenza dell'area filosofica relativista è ap-punto di estendere l'uso del concetto di ermeneutica fi- no ad applicarlo non solo agli eventi storici e sociali ma, potenzialmente, a tutte le forme di conoscenza. In Hans-Georg Gadamer noi troviamo un interesse schiet-tamente umanistico per l'esperienza del conoscere ma anche una netta ripugnanza per le scienze naturali, tan- to che nel pensiero dí questo filosofo l'ermeneutica si propone con molta chiarezza al posto dell'epistemo-logias.

L'ambito post-nietzscheiano del relativismo, di deri-vazione ermeneuticista, comprende varie correnti non sempre ben catalogabili. La più importante, o almeno la più nota, è rappresentata da alcuni filosofi parigini, co- me Jean-Frangois Lyotard, con la sua teoria del post-mo- dernismo, e Jacques Derrida, con il post-strutturalismo o decostruzionismo di cui è stato proponente9. I filosofi italiani del «pensiero debole», fra i quali va ricordato Gianni Vattimo, si sono collocati su posizioni simili.

La seconda di queste aree di pensiero, presente so-prattutto nella cultura anglosassone, concerne la filoso- fia della scienza e porta a conseguenze estreme la criti- ca alle illusioni del positivismo. In parte si tratta dell'a-nalisi di come procede il ragionamento scientifico in ge-nerale. Uno dei punti sui quali quest'analisi fa leva, è

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Il relativismo come ideologia

che non risulta ín nessun caso agevole accordarsi su quale sia l'essenza di alcuni concetti-base. Per esempio è tutt'altro che scontato il significato esatto di locuzio- ni come «ipotesi scientifica» e «spiegazione scientifica».

In parte, anche, si tratta di qualcosa di più concreto, ossia dell'analisi sociale (ed eventualmente politica) del mondo degli scienziati, della loro cultura e mentalità, magari dei loro finanziamenti, e delle motivazioni che ne indirizzano ricerche e idee.

Di contro all'oggettivismo ingenuo che fu la debo- lezza dei positivisti, la filosofia e la sociologia della scienza hanno dimostrato che importanti fattori di pre- carietà fanno parte del mondo della ricerca. Sia quando vogliamo analizzare la logica del ragionamento scienti- fico, sia quando esaminiamo la concretezza della vita degli scienziati, scopriamo che le formulazioni descrit- tive della realtà, a cui essi giungono, dipendono non so- lo dalla forza di dati verificabili ma anche da scelte, da accordi, da consensi, da convenzioni, perfino da co- strutti metaforici. In questo senso la posizione dei rela- tivisti non è che l'estremizzazione di una tematica più generale: per cui, semplificando un po' le cose, si po-trebbe dire che mentre tutti i filosofi e sociologi della scienza sanno bene che esiste una quota ineliminabile di convenzionalità nella spiegazione scientifica, i relativisti tendono a sostenere che la scienza è solo una questione di convenzioni.

A parere di Thomas Kuhn (sostanzialmente un rela- tivista, anche se di solito non classificato come tale) quelli che gli scienziati considerano «fatti» esistono di volta in volta solo all'interno di un particolare paradig- ma scientifico, cioè all'interno di un modo particolare di percepire la realtà: ma i paradigmi cambiano nel tempo e, sempre seguendo Kuhn, il fatto di utilizzare

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un paradigma piuttosto che un altro non è l'esito di una procedura razionale10. Nelle argomentazioni di Nelson Goodman i due enunciati «il sole ruota intorno alla ter-ra» (concezione tolemaica) e quello opposto «il sole non si muove, è la terra che ruota» (concezione coper- nicana) sono ambedue corretti, perché ciascuno è rela- tivo a un proprio contesto culturale". Su posizioni an-cora più drastiche i filosofi francesi. A giudizio di Lyo-tard, la modalità propria di conoscenza del mondo di oggi, un mondo eclettico che viene definito post-mo- derno, segna la fine delle certezze conoscitive, dunque delle epistemologie, e quindi dell'epistemologia scien- tifica. Il mondo attuale è visto come caratterizzato dal- la perdita di credibilità di tutte le «grandi narrazioni». Nella prospettiva di Lyotard la scienza, essendo la più tipica fra le grandi narrazioni, ha ormai perduto la sua autolegittimazione tradizionale ed è ridotta a essere una delle possibili ideologie.

Forse l'essenza del relativismo non andrebbe cercata nelle opere di quei filosofi a cui vengono accreditate le sue più tipiche formulazioni. La principale presenza storica, e anche sociale, di questa corrente di pensiero potrebbe non riguardare l'ambito della cultura prima-ria, elaborata dagli intellettuali e dagli esperti nelle di- scipline umanistiche (filosofi, critici letterari, ecc.), ma invece un ambito alquanto diverso. Il relativismo è do- minante nella cultura secondaria, non caratterizzata dalla produzione di idee ma dal loro consumo. Una cul-tura, dunque, disposta a interessarsi con entusiasmo al- le nuove vedute ma non altrettanto in grado di esercita-re uno sguardo critico su di esse; una cultura accettan-

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non vuole

te, curiosa e sincera nelle sue curiosità, ma incline alla feticizzazione delle novità e facile preda di stereotipi e di sentito-dire. In sintesi, l'orientamento relativistico sembra avere ottenuto il suo più importante successo, e avere esercitato la sua massima influenza sociale (e, co- me vedremo, politica) non già in ambito specialistico ma nella grande massa della popolazione occidentale di medio livello di istruzione.

Non a caso le idee del relativismo si presentano, agli occhi di chi vuole indagarne la natura, prevalentemen- te in forma fluida, come una somma di pareri orientati su ipotesi assai generali. Di rado noi riusciamo a trova-re qualcosa che possa somigliare a una teoria relativisti- ca coerente e compiuta. Questo rende difficile attacca- re il relativismo: il bersaglio è sfuggente, mal codificato e anche un po' impersonale. Da parte nostra può risul-tare arbitrario, dunque, pretendere di esaminare criti-camente questo o quell'autore identificabile con nome e cognome, o prendersela con un libro determinato, o con un articolo ritenuto serio e perciò emblematico di tutta la tendenza: il relativismo non ha un centro (e del resto, come capiremo subito, averlo) e non è mai in un luogo preciso. Gli esempi più tipici e chiari di relativismo non sono codificati in singole opere: al con- trario, li troviamo spalmati in luoghi secondari, in arti- coli di quotidiani, in interviste, in dissertazioni margi-nali. Sono ovunque intorno a noi. E questo conferma un fatto: il relativismo non è una filosofia. È una ideologia diffusa.

Incidentalmente, si può ricordare che il termine «ideologia» viene comunemente usato per designare in- siemi di idee a carattere semi-codificato. Se vengono confrontate con le mentalità e con le rappresentazioni sociali", le ideologie hanno carattere più strutturato. Se

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confrontate, all'opposto, con le teorie vere e proprie (cioè formulate come tali) e con i manifesti program- matici, le ideologie sono più fluide e hanno confini me- no netti. Dopo Karl Marx e Karl Mannheim, che hanno scritto pagine classiche sull'argomento", ne percepia-mo il carattere apologetico. In altre parole, nella lezio-ne di questi autori le ideologie sono orientamenti che, presi abitualmente per scontati, non lo sono affatto; so- no modi di rappresentare la realtà che vengono spac- ciati per naturali, ovvi e universali quando invece han- no una funzione difensiva. Le ideologie non amano le sottigliezze, ma soprattutto tendono a giustificare un as- setto sociale dandone per implicita una certa lettura. In tutte le ideologie c'è qualcosa di sbrigativo e liquidato- rio: osservati attraverso la finestra dell'ideologia tutti i gatti hanno lo stesso colore.

Non a caso nel linguaggio corrente siamo soliti usa-re il termine con una connotazione peggiorativa: l'ideo- logia nazista, l'ideologia comunista, le ideologie nazio-naliste, eurocentriche, razziste e intolleranti.

L'ideologia relativista, però, non sembra intolleran- te: fa anzi della tolleranza la sua bandiera. E non sem- bra dogmatica: al contrario. Se il dogmatismo è la con- vinzione che esista una sola verità, il relativismo sostie-ne che vi sono infinite verità, o che la verità non è in nes-sun luogo. Se le ideologie tradizionali aspiravano a di- ventare sistema coerente di pensiero, il relativismo fa della frammentazione il proprio programma; se quelle cercavano oggettività, fatti e dimostrazioni, il relativi- smo nega che esista l'oggettività, non crede nella forza dei fatti, e ritiene che le dimostrazioni potranno sempre essere annullate da contro-dimostrazioni. Le ideologie

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è realmente

Fanta-sia of the Unconscious,

tradizionali tranciavano giudizi ma il relativismo non ama giudicare, e forse neppure ama scegliere.

A chi vorrebbe, all'interno delle contraddizioni del mondo di oggi, identificare un problema qualsiasi con la speranza di venirne a capo, il relativista rivolge una domanda. Dice: «Ebbene, perché pretendi di collocar- ti fuori da quel problema? Forse tu ne fai parte!». O an- che, e più radicalmente, a chi vorrebbe separare, come impongono la logica tradizionale e il buon senso, un soggetto che compie l'azione da un oggetto dell'azione stessa (il cane mangia la pappa; tu mi tieni nei tuoi pen- sieri; io ricordo un sogno, ecc.) i relativisti rispondono che la separazione fra soggetto e oggetto è metodologi-camente discutibile. Spesso fanno appello a una paroli-na magica: complessità. Contestualismi, circolarità, re-troazioni, paradossi, sono gli strumenti di cui si servo-no per cercare di dimostrare la loro raffinatezza di me-todologi.

Una conseguenza di questa raffinatezza è che i rela- tivisti sono costretti ad applicare il relativismo anche a se stessi. Questo rischierebbe di metterli in difficoltà, ma i relativisti non si spaventano. Che vi sia un proble-ma, peraltro, è evidente: se nessuna teoria fondata nulla va preso troppo sul serio, ed essi sono co-stretti a non prendersi troppo sul serio neppure quan-do predicano il relativismo. Però questa sfida viene se-renamente accettata. Come risultato, i seguaci del rela- tivismo tendono a esprimersi in modo asistematico, leg- gero, soggettivistico, e perfino usando argomentazioni non ben strutturate. Non si tratta sempre di una super- ficialità involontaria: può essere una superficialità volu- ta. È palese il loro desiderio di non incorrere nello stes- so rimprovero rivolto agli altri, e cioè di credere nella si- stematicità, nella pesantezza, nell'oggettività, nel carat-

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tere solido delle documentazioni. Di qui una tendenza, osservata criticamente da Gabriele Lolli, ad abbando-narsi alle «parole in libertà», ossia a un modo di espri- mersi che, pur pretendendo di nascondere messaggi di chissà quale valore, di fatto è — dice Lolli — «peggio del- le associazioni libere». Questa varietà di spontaneismo verbale può forse contribuire a spiegare come mai pa-recchi relativisti, soprattutto se hanno la qualifica di fi-losofi, tendano a fare discorsi così scuciti da essere in- comprensibili. Ossia, per continuare a utilizzare le os- servazioni di Lolli, «il problema dell'autoriferimento è inevitabile per ogni relativismo (ma) se i relativisti di- cono sinceramente di applicare anche a se stessi il rela- tivismo, E...] quello che si ascolta è solo un racconto di quello che i relativisti hanno il ghiribizzo di dire»14.

Il relativista non crede nella solidità delle competen-ze professionali — o meglio, non crede nelle competen- ze — e non crede nella scienza o la tratta come se fosse un mondo perverso. Oppure, ritiene che scienza e poe-sia si possano coniugare fra loro, e sempre con la spe-ranza che la seconda provveda a rimediare ai guai della prima. Così, mescolando fantasia poetica e rappresenta- zione del reale, è facile trastullarsi con il genere di deli-ri descrittivi che negli anni Venti piacevano a D.H. Law-rence. «Cos'è la luna? — si chiedeva Lawrence in

nel 1922 — È essa un mondo fred-do e morto? Certo che no! È un globo di sostanza dina- mica, come il radium o il fosforo, coagulato intorno a un vivido polo di energia.» (Ma non tutti erano d'accordo e Aldous Huxley aveva buon gioco nel far notare che la luna può essere percepita o secondo un criterio empiri- co, e allora è una grande sfera rocciosa, o secondo una sensibilità al numinoso, e allora è una dea, ma non può

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essere una mescolanza delle due cose, per cui afferma-re che è fatta di radium non ha alcun senso1- 5.)

Il relativista preferisce l'intuizione alla logica e l'e-stetica all'etica: considera il mondo e le avventure uma-ne come un deposito di idee equivalenti e inesauribili, un'affascinante biblioteca di Babele che non ha né ini- zio né fine, un arcobaleno di cui è impossibile scom- porre gli infiniti colori. Egli è — apparentemente — ac- cettante, ma al tempo stesso poco amico di tutto ciò che abitualmente viene dato per solido, sensato e compro-vato.

Le formule che usa sono facilmente assimilabili da parte di qualsiasi persona intelligente, anche se poco istruita. Anzi, a molti giovani fa piacere sposare le con- vinzioni dei relativisti (secondo i quali, ricordiamolo, i «cosiddetti» dati e fatti di per sé contano poco o nulla) per concluderne che lo spendere tempo a studiare la matematica, la fisica o la fisiologia umana è superfluo se non nocivo. Nella stessa prospettiva sembrerebbe su- perfluo esaminare sistematicamente le realtà sociali, con tutta la fatica che ciò comporta: inchieste, questio- nari, statistiche, e così via. E senza dubbio può essere più piacevole, e soprattutto più facile, per chi abbraccia il relativismo prediligere le grandi sintesi a scapito del-le minute analisi e anteporre un rifiuto liquidatorio del-la cultura occidentale al tentativo di capirne le correnti storiche. Così, è gradevole avere una visione globalisti- ca (ossia «olistica»), oltre che spiritualista, della perso- na umana: assai più gradevole e veloce di quanto non sia l'immergersi nello studio inevitabilmente scompositivo, e oggi alquanto tecnico, dei suoi molteplici aspetti bio-logici, psicologici, sociali.

Non è difficile percepire un limite nel modo di por-si del relativismo: la facilità, o meglio la sbrigatività.

5R

Nelle sue forme più strettamente legate al mondo giovanile e alle controculture, il relativismo è anti-siste- ma, anti-razionalista, incline a preferire la magia alla scienza, e disposto a esaltare i comportamenti margina- li e perfino l'uso di droghe come libere forme di espres-sione personale. In modo particolare nel caso dei gio- vani e delle loro culture, ma anche più in generale, si può osservare che il concetto di responsabilità non è congeniale al relativismo.

Il relativista è ostile a tutte le posizioni «forti», spe-cie se istituzionalizzate: però sembra non prendere mai in esame la forza, e anche l'aggressività, della propria posizione. Se è vero che predica di lasciar fiorire i cen- to fiori delle culture e delle opinioni, in pratica ha le sue preferenze, talora persino faziose, e in ogni caso tende a considerare se stesso come un fiore migliore degli al- tri. Il relativismo, ideologia poco serena, vive delle pro- prie polemiche e i suoi bersagli sono tutti da una parte sola: il nemico del relativismo è, in sostanza, la raziona-lità occidentale.

Il relativista, dunque, ama aprire nuove possibilità, ama interrogare, obbiettare, ironizzare, e anche ma- scherare il proprio pensiero dietro i paradossi. Non si prende l'incarico di formulare una teoria coerente, e meno che mai sistematica. Non giudica e non si espone. La sua è una posizione «di debole responsabilità»'6. Ma proprio in questo è una posizione efficace.

Ciò che caratterizza l'ideologia relativista è una sfi- ducia nell'idea di oggettività, ma questo atteggiamento conduce, intenzionalmente o meno, ad attribuire un ruolo eccessivo alla soggettività. Se l'attività spiazzante e scettica del relativista svaluta l'universo degli oggetti, con le sue leggi, questo significa che l'atteggiamento dí chi è spiazzante e scettico ne viene potenziato. La forza

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della realtà verrà ignorata: rimane il pieno potere del soggetto giudicante. Più in generale, esiste qui un invi- to all'autolegittimazione di qualsiasi atteggiamento ver- so il mondo: e non importa quanto realistico, ossia per-tinente al mondo stesso.

Si ha dunque una posizione che è antitetica a quella del ricercatore scientifico. Il lavoro di quest'ultimo con- siste nel disciplinare (potremmo dire: nel riportare a terra) i voli possibili della propria intelligenza, piegan-dola alle verifiche sperimentali. Le idiosincrasie perso-nali, le sviste e gli errori vengono pazientemente stana- ti, e ogni acquisizione conoscitiva è sottoposta a este- nuanti controlli, nella consapevolezza che potrebbero sempre emergere nuovi dati di cui bisognerà tenere conto per modificare le teorie precedenti. Un atteggia- mento di umiltà caratterizza il suo desiderio di com-prendere i meccanismi della natura.

Nel relativismo accade l'opposto. Gli atteggiamenti mentali, privi come sono di verifiche nella realtà (per i relativisti, la realtà non verifica nulla) acquistano auto- nomia. Gli atteggiamenti vengono valutati di per sé, o per come si presentano: e in pratica, accade che quasi sempre siano valutati utilizzando criteri moralistici. Ne nasce, come è facile vedere, una discutibile forma di psi- cologismo. Progetti, propositi, intendimenti, principi ispiratori, sono soppesati indipendentemente dai risul- tati che producono; per i relativisti, ostili come sono a qualsiasi criterio di oggettività, conta l'intenzione. Di qui nasce l'idea che non sia colpa di singole persone be- ne intenzionate se poi, per mille motivi, accadono im-previsti, e magari sciagure.

Come osserva Giovanni Sartori, a questo punto ci troviamo di fronte a un modo di pensare di tipo reli- gioso. Chi decide di sintonizzare le proprie azioni su

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principi «nobili» o «superiori» (o su quella che ritiene sia la volontà di Dio) non tiene in considerazione gli in- successi, e neppure i disastri: persevera senza deflettere anche nei casi in cui la sua fede produce lutti e distru-zioni17. Qualcosa di simile, purtroppo, accade su un ter-reno più laico quando singoli comportamenti sono va- lutati non per quello che producono ma sulla base di un accreditamento della moralità e buona volontà del loro autore.

Due esempi. Se un ministro della Repubblica, deci- sissimo a combattere la diffusione delle droghe, fa ap- provare una legge fortemente repressiva ma poco dut- tile che produce esiti negativi, tutti i commentatori di impostazione ideologica conservatrice e inclini al relati-vismo (e cioè, in pratica, poco inclini alle verifiche) sa- ranno dalla sua parte perché loderanno la sua virtuosa risolutezza. Quanto poi agli effetti pratici della sua leg- ge, sosterranno che si tratta di eventi sociali complessi valutabili in mille modi da tanti esperti di scuole scien- tifiche contrastanti, per cui nulla è sicuro né definitivo.

Il secondo esempio, per quanto diverso, risponde al-la stessa logica. Prendiamo il macchinista di un treno che si distrae ignorando una luce rossa e provoca un de-ragliamento con molti feriti. I commentatori di impo-stazione ideologica «democratica» (e, naturalmente, re- lativisti anch'essi) sosterranno che ogni evento ha tante cause, mai una sola: quell'uomo magari era in servizio da molte ore, aveva un salario mediocre, e in ogni caso si trattava dí una brava persona, padre di famiglia, sen- sibile ai temi sociali, incapace di volere il male, e così via. In conclusione, appellandosi alla comprensione psi- cologica e alla mobilitazione umanitaria, anche questi relativisti faranno leva sulla complessità dei contesti e

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uma-no: giusto.

sul moltiplicarsi delle concause, cercando attenuanti e puntando all'assoluzione del ferroviere.

(Forse non dovrebbe essere necessario, a questo punto, rispondere a una possibile obbiezione. A pro- posito del macchinista distratto, infatti, ci si potrebbe chiedere: non è forse umano e giusto analizzare l'inci-dente in una luce di tolleranza? Ebbene, sarà pure

ma non è detto che sia interamente Infatti con questo tipo di indulgenza si rischia di perdere di vi- sta il principio della responsabilità individuale, che è uno dei cardini della società in cui viviamo. Il macchi- nista si era assunto il compito di adempiere a tutti gli at- ti necessari per condurre felicemente il treno con i suoi passeggeri, e se in un momento di questo itinerario ha commesso un atto sbagliato, è responsabile anche di questo. Egli è quindi chiamato a rendere conto della propria distrazione sia alla collettività sia alle singole vittime, le quali hanno qualche diritto di chiedere che sia punito. E le vittime, in genere, sono anche le prime a desiderare che nulla del genere abbia a ripetersi, e quindi a pretendere che appropriate sanzioni, magari severe, contribuiscano a far sì che la prossima genera- zione di macchinisti sia più consapevole del significato del proprio lavoro.)

I principi dell'oggettività della legge e della certezza della pena, pur essendo a fondamento della cultura giu- ridica moderna, hanno poche possibilità di trovare ascolto nella mentalità del relativista. In sintesi, e se- guendo la nota distinzione di Max Weber, possiamo ben dire che il relativista propone un'etica delle inten-zioni al posto di un'etica della responsabilità18.

La tendenza a svalutare, relativisticamente e sogget- tivisticamente, l'universo delle verifiche e il mondo del-

le cose (potremmo dire: l'universo delle oggettività) ha ulteriori e più discutibili risvolti. Chi abbraccia l'etica dell'intenzione evita, un po' pavidamente, di farsi cari- co delle conseguenze dei propri atti: ma utilizza anche una sorta di seduzione. Infatti sa bene che le intenzioni sono sempre presunte, mai realmente accertabili, e con- ta sul fatto che è impossibile, nella pratica, tracciare la linea che separi la sincerità dalla malafede. Così, il rela- tivista afferma sempre, veramente sempre, di essere in buona fede e di sentimenti retti e puri: e dà per sconta-to che questa sia l'unica cosa che importa. Insiste sul va- lore della sua soggettività e vuole essere creduto sulla fi-ducia. «Io sono del tutto sereno», è ciò che viene ripe- tuto da chiunque sia indiziato di gravi errori o seri rea- ti, quando faccia affidamento sul relativismo del suo pubblico. Come siano andati realmente i fatti diventa un problema marginale.

Non basta. L'ottenere con facilità un accreditamen-to di buona fede permette di procedere più oltre. In molti casi il relativista esprime orgoglio, talora proter- via: egli può anche esibire una maniera «forte» di pro- porsi, e ciò accade quando coniughi la propria sogget- tività con l'idea tradizionale di volontà. In questo caso l'universo delle cose è preso ancora una volta, ma anzi in modo più accentuato, come un magma passivo, amorfo, svalutato, privo di esigenze proprie. Ne viene aperta la strada a un individualistico egotismo; un ego- tismo che assume facilmente le caratteristiche della vo- lontà di potenza. In questa logica si suppone che il mon-do resti in attesa, perché il suo destino è di venir pla-smato da chi giganteggia imponendosi sull'opacità de-gli oggetti. Tutti sono invitati ad ammirare chi si distin- gue dalla massa perché osa stagliarsi in una posizione eroica.

A7

Page 37: Contro il Relativismo

guru

loro,

Ma un atteggiamento del genere può suscitare qual- che sospetto, e per un ottimo motivo: ha un ruolo cen-trale nell'ideologia dell'estrema destra. Il progetto au-toritario, del resto, è la tentazione naturale di chi confi- da in un trionfo della soggettività; l'idea che la realtà de-gli oggetti, presa in generale, sia «una costruzione so- ciale»19, non può che piacere ai gruppi che si propon-gono un fine totalitario.

Anche rimanendo fermi al terreno della quotidianità e magari all'atmosfera del salotto borghese, non soltan- to il relativismo è la sola posizione filosofica che non viene mai messa in discussione dai relativisti, ma sem-bra che il relativista come singolo individuo, e soprat- tutto come filosofo, ci tenga a essere sempre un passo più avanti dei suoi interlocutori. Egli ama far credere che la saggezza stia nelle domande, non negli eventuali tentativi di risposta. Questo tipo di teorizzatore si fa in- coraggiare, nel suo atteggiamento critico-destrutturan-te (o, come si usa dire, «decostruttivo»), da una moti-vazione psicologica che non è affatto distruttiva, e nep-pure sciocca: il risultato dell'intera operazione è auto- promozionale e definisce un ruolo maieutico non privo di fascino. A volte gli è facile presentare la propria in- telligenza come superiore alle altre; altre volte invece, qualora non desideri far leva sulla razionalità, utilizza un esibito «non sapere» e un «tutto accettare» per far capire di essere l'ultimo e il migliore deí saggi. Se le cer- tezze sono tutte deboli, se ogni senso della realtà è de-bole, se la ragione è debole (Carlo Augusto Viano pre- se una volta in giro i «debolisti»2°), e se magari anche l'io è debole, allora sembra che qualcosa di forte venga pur sempre implicitamente salvato: un ruolo di guida. Se nulla è certo e tutto è in frantumi, il relativista come

persona rimane l'unica guida nell'incertezza, l'arbitro nella frammentazione che egli stesso ha promosso.

E davvero, si potrebbe concluderne, se tutto ciò che era certo si è ormai «sciolto nell'aria» non resta che af- fidarsi ai santoni21. Nel concreto della vita sociale, del resto, i relativisti non hanno ritegno nel coltivare questa immagine. Difficilmente, poi, incontrano obbiezioni: è abbastanza raro che venga messo in discussione il loro diritto di porsi come intellettuali post-moderni. Come guide, del resto, capita che svolgano con qualche efficacia la loro funzione; noti personaggi — relativisti di successo — che predicavano un io debole, una volta co-nosciuti da vicino dimostravano di averne uno piutto- sto forte22.

A guardar bene — lo si può dire? — la presunzione dei relativisti non conosce limiti. Essi danno per scontato che, se la realtà esterna è soltanto un'opinione, ebbene,

in compenso, devono essere ben reali. Su temi co-me questi rischiamo tutti di scivolare nell'assurdo ma l'ipotesi opposta, e cioè che siano loro a non esistere, è legittimamente argomentabile sulla base delle loro stes-se premesse. Se nulla è realmente tangibile, infatti, per-ché dovremmo essere proprio noi a fare eccezione? Non dovremmo essere molto tangibili neppure noi stes- si. Vi sono stati autori i quali, coerenti nell'abbracciare l'ipotesi di un'evanescenza totale delle certezze abitua- li, hanno trovato lecito immaginare che la vita sia un so-gno. Nel 1635 è questa l'ipotesi che Calderón de la Bar- ca fa esprimere al principe Sigismondo quando, chiuso in una cella, si chiede se perfino il re non svolga le sue funzioni all'interno di un'illusione. Trionfale sul suo trono, anch'egli si inganna, sta solo sognando di essere il re: «Sudía el Rey que es Rey, y vive / Con este engafio mandando, / Disponiendo y gobernando...».

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La vita è sogno,

deceptor summe potens, summe calli-dus.

cogito

Il relativismo come risposta alle delusioni del progresso

Troveremo a varie riprese lo stesso tema in versioni più elaborate. Pochi anni dopo Calderón de la Barca col suo infatti, era arrivato Cartesio, pro-ponendo l'ipotesi di un demone produttore di un'uni-versale illusione,

Ma Cartesio, come sanno perfino gli scolaretti, ri-teneva fosse possibile sconfiggere il demone mediante il

al fine di salvare l'essenza dell'io pensante. Peral-tro la logica del suo ragionamento è tutt'altro che inat-taccabile: l'obbiezione più elementare riguarda proprio il sogno ed è stata esposta in modo convincente da un filosofo dello scetticismo, Richard Popkin23. A smenti-re Cartesio, infatti, capita a tutti noi di vivere sogni in cui siamo convintissimi di essere attivi e reali in mezzo a scenari inesistenti; a volte agiamo perfino drammi oni-rici in cui siamo altre persone.

Altri hanno continuato a riflettere su questo tema. Due secoli dopo Cartesio — a riabilitare l'idea di Cal- derón de la Barca — troviamo nel secondo libro di Alice l'immortale bambina che scorge il Re Rosso il quale, ad-dormentato sotto un albero, la sta sognando. La vicen-da è nota: Alice viene subito avvertita da Tweedledum che deve stare bene attenta a non svegliare il Re, perché in tal caso lei svanirebbe all'istante24. Ma Alice non sa -e lo apprende invece il lettore — che l'intero scenario con le sue avventure, al cui interno sta anche il Re Ros- so, è soltanto il sogno di un'altra Alice, e cioè di Alice Liddell, l'amichetta di Lewis Carroll, la quale sta dor- mendo e alla quale il geniale narratore ha prestato le proprie fantasie. E naturalmente a questo punto è pos- sibile una regressione all'infinito, perché Lewis Carroll stesso, e noi con lui, potremmo essere il sogno di un es-sere superiore, e così via.

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Il relativismo moderno non nasce soltanto dalle mode intellettuali. È frutto, con ogni evidenza, delle grandi delusioni del Ventesimo secolo.

In primo luogo la delusione della tecnica, con l'e- mergere dell'incubo atomico (1945-65) e poi con l'af- facciarsi del rischio ecologico. Quando, a suo tempo, gli umanisti di tutti i paesi manifestarono una netta ostilità nei confronti degli scienziati nucleari la loro diffidenza non fu priva di giustificazioni: detto brutalmente, all'e-poca della guerra fredda rischiavamo veramente dí sal-tare tutti per aria. Sembra più difficile, però, accettare che oggi sia fondata l'inimicizia popolare verso biologi ed esperti di ingegneria genetica. Comunque è rimasta, e anzi si è accentuata, una quota di paranoia collettiva nei confronti delle diavolerie di chi, lontano dalla vita delle persone semplici e ben protetto all'interno di mi-steriosi laboratori, ha la protervia di andare a manipo-lare gli aspetti più intimi della realtà.

In secondo luogo, però, si può supporre che la fine dei grandi sogni di giustizia sociale abbia rappresentato una delusione ancora maggiore. Il principale crollo del-la speranza di poter costruire storiche alternative poli-tico-sociali è avvenuto negli anni Ottanta col graduale fallimento e poi l'implosione degli Stati europei a eco- nomia socialista. La sostanziale scomparsa dell'utopia marxista dalla scena del dibattito politico si è poi asso- ciata alla scoperta, assai amara, del costo finanziario in- sostenibile di quegli apparati assistenziali socialdemo- cratici che per alcuni anni avevano promesso garanzie di benessere «dalla culla alla tomba».

In Africa come in Asia e nelle Americhe, un solo

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Relativismo e cultura di massa

meccanismo di sviluppo si è rivelato capace di funzio- nare davvero, e quindi dí garantire a miliardi di perso- ne (basta sommare l'India alla Cina) per la prima volta nella loro storia la libertà fondamentale di non morire di fame e persino un accesso alle variegate licenze del consumismo. In pratica, ovunque è rimasta padrona as- soluta del campo l'iniziativa liberal-capitalista con il suo accompagnamento, forse ineliminabile, di sperequazio- ni e di spietatezze.

La progressiva diminuzione della percentuale della popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno non ha impedito che la differenza di reddito fra i più ricchi e i più poveri aumentasse invece di de-crescere. Le delusioni di uno sviluppo caratterizzato da aspetti preoccupanti, a partire dal consumismo più sfre- nato e passando ber la carenza di fonti rinnovabili di energia fino alle minacce del riscaldamento globale, hanno sospinto vasti strati dell'opinione pubblica a in- vestire in un ventaglio di proposte culturali apparente- mente alternative, tutte caratterizzate da una sfiducia nella razionalità tecnico-scientifica. Vi si sono aggiunte le accuse di insensibilità morale ai paesi più ricchi. So- prattutto a partire dall'epoca dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, nel 1964-65, la tendenza statuniten- se a intervenire militarmente sul territorio di paesi so- vrani, e sempre con esiti negativi, ha sospinto i pacifisti di tutto il mondo su posizioni genericamente antiocci- dentali. Negli anni più recenti la sfida islamica ha ulte- riormente contribuito a incoraggiare tutti coloro che da più di un secolo lamentano, in parte compiacendosene, il tramonto della civiltà euro-americana.

È quindi comprensibile se oggi si accentua, in Euro-pa e negli Stati Uniti, la nostalgia di società più sempli-ci ed eventualmente più autoritarie. Non dovrebbe stu-

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pire che tante persone accarezzino progetti che riper- corrono modelli utopistici, come la tentazione di fuggi- re dal mondo delle macchine per andare a cercare da qualche parte, per esemplo verso campagne intatte e monti favolosi (ammesso, naturalmente, che esistano), modi di vivere più naturali allo scopo di verificare, in compagnia di pochi e ben scelti amici, se sia ancora og- gi possibile fondare l'esistenza umana su antiche sag- gezze.

Non tutti si rendono conto che si tratta di illusioni, il cui carattere regressivo e talora francamente ingenuo dovrebbe essere evidente. Resta però un problema: è ben possibile che la cultura occidentale, amareggiata dai propri errori, fatichi a ritrovare un suo centro. Ma forse non lo desidera neppure, se è vero che essa ab- bandona l'unico centro possibile, che è anche la sua massima conquista: cioè la tradizione contraddittoria sì, e anche discutibile, ma per fortuna ancora identificabi- le e vitale, dell'illuminismo con le sue idee laiche e il suo appello alla universale capacità delle persone di ragio- nare con la propria testa.

Sul piano sociologico e del costume, infine, bisogna te-nere conto delle trasformazioni della cultura dí massa a partire dagli anni Sessanta.

Circa quest'ultimo tema, le osservazioni da fare sa- rebbero più d'una. La principale è forse questa. Fino agli anni Sessanta del Novecento l'analisi delle società borghesi non era stata né banale né sommaria. Essa ave- va fatto tesoro delle idee di grandi sociologi e filosofi: non solo di Karl Marx ma soprattutto di Max Weber, in parte anche di Pareto e di Durkheim, e dopo il '45 del

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L'élite del potere Minima moralia,

corporations.

sra-gioni,

guru

(A scuola dallo stregone,

pensiero di una serie di osservatori del costume come Charles Wright Mills, Max Horkheimer e Theodor Adorno. Libri come e nei lunghi anni del secondo dopoguerra avevano rap-presentato gli aspetti migliori e più lucidi dell'auto-os- servazione critica della borghesia25.

Fino alla prima metà degli anni Sessanta, dunque, la denuncia dei limiti della razionalità illuminista non fu esercitata soltanto da chi credeva nelle fantasie roman- tiche, né solo dai nostalgici delle forme autoritarie del potere: al contrario, fu attiva e vigile l'intelligenza di chi si muoveva all'interno di quella stessa razionalità per far leva sulle sue componenti autocritiche.

In seguito però, tutto è cambiato ed è iniziata un'e-voluzione culturale che ha portato alla situazione attua- le. Nella seconda metà degli anni Sessanta l'attacco alle magagne del modo di vivere capitalista, che fino ad al-lora era stato prerogativa di minoranze istruite, è dive-nuto parte della cultura di massa. Nel corso di questo processo di popolarizzazione (e, se il termine non è troppo pesante, di volgarizzazione) delle critiche bor- ghesi alla borghesia, le minoranze istruite rimasero spiazzate dal venir poste anch'esse sotto accusa dai gio- vani, che rimproveravano loro di essere parte delle éli-tes. Intorno al 1968 gli intellettuali progressisti e marxi- sti si difesero in modo piuttosto debole, non opponen- dosi come avrebbero dovuto al dilagare di formule sbri- gative e di parole d'ordine eccessivamente semplifican- ti. Anche chi scrive vi ebbe la sua parte di colpa.

Insieme alle nuove critiche, intanto, riemergevano vecchie utopie. Piacque molto Herbert Marcuse non già nelle sue analisi, che erano intelligenti, ma quando preconizzava la fine del lavoro e l'avvento di una socia- lità narcisistico-estetizzante; né fu molto ascoltato chi

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faceva cautamente notare il carattere regressivo della sua posizione26. In Occidente erano arrivati la libertà sessuale e il benessere economico, e non si trattava più di battersi contro le forme rozze dell'oppressione auto-ritaria, né di rivendicare la pura e semplice sopravvi-venza quotidiana: eppure i giovani non amavano affat-to il futuro che veniva loro prospettato. Le loro prote- ste erano spesso intelligenti, rivelatrici, piacevolmente dissacranti, suscitavano simpatia e facevano pensare; ma l'estremismo degli slogan pareva non trovare confi-ni. La denuncia, non infondata, delle ipocrisie della vi- ta ordinaria — famiglia, insegnanti, regole, ossequi - confluiva in un attacco generalizzante alla modernità nel suo insieme. La critica alla razionalità illuminista sembrava fare tutt'uno con l'accusa di ogni nefandezza d'animo rivolta ai capitalisti e ai manager delle grandi

Venivano presi a bersaglio, con l'intenzio-ne di demolirli, tutti i modelli dell'intelligenza operati-va, mirante all'efficacia: ed è vero che l'idea di raziona- lità strumentale era stata già criticata da Max Weber, però gli studenti non lo sapevano.

Questo processo di invenzione e demolizione finiva col riabilitare un altro territorio culturale: veniva ripro- posto, in sostanza, lo stesso ambito ideologico della tra-dizione romantica. Si proclamavano desideri, follie,

eccessi, utopie. Nel quinquennio fra il 1968 e il '73 la rivolta contro il sistema esaltava se stessa, talora sentendosi onnipotente nel calore delle manifestazioni di strada e altre volte invece, sulla scia di droghe, medi-tazioni, e soggiorni in India, lasciando che riemer-gessero vecchie mitologie irrazionaliste. Subito dopo il '68 si diffusero in milioni di copie i libri di Carlos Ca-staneda e altri) e il loro sensa-zionale successo mise in luce l'evoluzione culturale dei

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anything goes.

tics

midcult

Bouvard et P écuchet27 .

nuovi lettori: piaceva l'idea di un apprendimento ini- ziatico a carattere un po' barbarico, anti-intellettuale e non alieno da qualche complicità con le droghe psiche- deliche. A difesa delle nuove narrazioni esoteriche va detto che si trattava di opere meno demenziali di quel- le degli occultisti degli anni Venti e Trenta, ricordati più sopra; eppure l'assoluta mediocrità delle pagine di Ca- staneda saltava agli occhi di chiunque avesse conserva- to un minimo di senso critico.

A moltitudini di giovani sembrava facile, con o sen-za l'aiuto di Castaneda, navigare nell'eccezionale. Vice- versa restava sullo sfondo, sfocata, la realtà della vita di tutti i giorni nel nostro mondo di città e campagne, di fabbriche e di scuole dell'Occidente, con i suoi concre-ti problemi; si riteneva che fornisse dati non essenziali.

Non è detto che negli anni successivi le cose siano molto migliorate, almeno dal punto di vista dell'acces- so al realismo. La caduta delle speranze politiche fu già presente negli aspetti più disperati del settarismo rivo- luzionario degli anni Settanta; dieci anni più tardi, il col- lasso delle società socialiste contribuì al clima di rabbia, e questa volta anche di delusione. Molti cominciarono a pensare che il futuro non fosse più modificabile, e non stupisce che questo abbia comportato l'emergere di tratti di cinismo. Il «nulla funziona» sembra si sia lega- to, e proprio intorno a quell'epoca, all'idea diffusa che «qualsiasi cosa funziona», Da allora, l'in-tegrazione delle classi subalterne nel progetto dell'eco-nomia imprenditoriale e l'unificazione dei consumi hanno contribuito al disincanto: da un lato, si è avuta la corsa alla spesa e alle ricreazioni del tempo libero; dal- l'altro, uno scontento incapace di trovare le parole per esprimersi. Se nel '68 i giovani parlavano moltissimo, e spesso in modo brillante, vent'anni dopo sembravano

divenuti affetti da qualche difficoltà a esprimersi. Il di- sagio giovanile si scopriva privo di idee strutturanti. Con un effetto da «rompete le righe» a partire dagli an-ni Ottanta e Novanta ognuno si è ritrovato libero di sce-gliersi il suo spicchio di credenze e di comporta-mentali. Una sola cosa era divenuta certa e chiara: da quel momento in poi chiunque aveva diritto alla sua porzione di miti e di leggende, e nessuno aveva il dirit- to di sindacare la sua scelta. Come per gli «Swatch» da polso e per i telefoni cellulari anche i modelli di pensie- ro e gli slogan, filtrati dall'alta cultura fin verso i medi e bassi livelli di istruzione, erano diventati intercambiabi- li, numerosi, irritanti, indispensabili.

La cultura popolare e di massa (un tempo avvicina-ta alla «cultura operaia e contadina») adottando grada- tamente i gusti della borghesia ha visto accorciarsi la di-stanza che ancora la separava dal di Dwight MacDonald: cioè da quella media cultura che ama i «sentito dire» intellettuali, è vagamente pretenziosa, e si nutre del tipo dí banalità che Gustave Flaubert si era di-vertito a raccogliere in L'assenza di una cultura scientifica ha favorito, in particolare in Italia, l'assimilazione di un orientamento relativistico degradato, consistente nel ritenere che tutte le idee, an- che le meno verosimili, si equivalgano e abbiano identi-co diritto a una propria nicchia di credibilità.

Il relativismo come forma di qualunquismo ideolo- gico sembra essere stato uno dei modi in cui si è risolta, negli ultimi due decenni, la cultura del malumore. Im- brigliate le culture politiche di opposizione, diminuite drasticamente le speranze di cambiare il mondo, quella che ne ha fatto le spese è stata l'idea di progresso.

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Relativismo contro universalismo

Capitolo 3

DALL'ANTROPOLOGIA CULTURALE ALL'ANTIPSICHIATRIA.

IL RELATIVISMO CULTURALE E I SUOI LIMITI

Con parole misurate, nel 1871 uno dei padri dell'etno- logia, Edward B. Tylor, spiegò cos'è una cultura. «La cultura, o civiltà [...i è quell'insieme complesso che in- clude la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il di-ritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine ac-quisita dall'uomo come membro di una società»'.

I relativisti hanno molte ragioni dalla loro parte quando sostengono che tutti i popoli meritano il nostro rispetto per i modi in cui sono legati alle proprie tradi- zioni. Il dibattito corrente, infatti, non riguarda tanto gli orientamenti di principio dei relativisti quanto le posi-zioni più estreme, cioè i casi in cui le loro idee si pre-stano all'accusa di essere diventate dogmatiche. Si può tuttavia sostenere che l'impianto stesso del relativismo culturale, cioè il suo orientamento di fondo, è più fragi-le di quel che sembri a un esame superficiale.

Circa lo spinoso problema del confronto fra le cul- ture, il relativista prende le mosse da una considerazio-ne che, nella sua genericità, è facile condividere. Esiste un principio di indubbio spessore etico che suona co- me segue: ogni cultura umana ha, oltre che un proprio

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Lettres Persanes

equilibrio, i propri valori; ed è giusto che vengano ri- spettati.

Storicamente, questo principio si lega alle idee di tolleranza che si fecero strada nel Seicento e Settecento a partire dalle idee della Riforma protestante e dalle pri- me formulazioni moderne di un'etica laica. L'immagine dell'autonomia e dignità dei popoli della terra è una conquista centrale, oltre che relativamente recente, del pensiero della modernità: in quest'ottica non soltanto tutti gli esseri umani sono fondamentalmente uguali, ma soprattutto hanno gli stessi diritti. Già prima della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, del 1789, e poi nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, l'idea del carattere universale della di-gnità della persona, figlia del pensiero illuminista, è vi- sta come il fondamento della democrazia. Ma è anche il primo e più forte baluardo contro il pregiudizio etnico; ne derivano formulazioni molteplici e sensate. La più semplice si riferisce al diritto all'ascolto. Gli stranieri portatori di costumi insoliti sembrano ragionare in mo-do diverso da noi, ma hanno diritto di parola e forse me-ritano, almeno una volta, la stessa attenzione che diamo al nostro vicino di casa quando pensiamo che abbia qualcosa da raccontarci. E allora, conoscendoli più da vicino, scopriamo che quegli stranieri hanno una men- te non dissimile dalla nostra e spesso condividono con noi talune preoccupazioni. Ci potrebbero raccontare cose inattese: a volte scopriamo che culture lontane ospitano straordinarie tradizioni di pensiero e grandi capacità di sguardo critico.

Nel 1721 le di Montesquieu mo-strarono agli intellettuali europei come i costumi di cor-te potessero apparire irrazionali agli occhi di colti viag- giatori provenienti dall'Oriente; i primi tentativi di ca-

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pire la vita di popoli lontani rilevavano come i bisogni fondamentali — cibo, riparo, cura dei figli — siano ovun-que gli stessi; e se oggi chiediamo a un imprenditore co- me sono i suoi operai, che vediamo affaccendati nei ca- pannoni e che provengono dai più svariati paesi ex- traeuropei, la risposta più comune è: «sono tutte perso- ne diverse una dall'altra, ci sono individui onesti e altri un po' meno, quelli che capiscono subito e quelli che fanno fatica a imparare, ma alla fine tutti lavorano e ra- gionano esattamente come noi». E per quanto riguarda la storia del mondo, persino i lettori di medio livello di istruzione sono in grado di constatare, attraverso rac- conti e romanzi ben tradotti, che i testi della letteratura classica giapponese, scritti molti secoli fa, parlano di ge-losie, passioni e ambizioni che sono straordinariamente simili a quelle documentate dalle grandi narrative occi- dentali.

La scoperta della sostanziale unità psicologica della specie umana sta dunque alla base del relativismo cul-turale? Ebbene, e questo potrà sorprendere, bisogna ri-spondere di no. È importante sottolineare, fin dall'ini- zio del nostro esame del problema, che il relativismo culturale, pur essendo un discendente del pensiero del-la modernità, si dissocia in modo sostanziale da questa tradizione. I relativisti, in altre parole, non si riallaccia- no all'universalismo, figlio del pensiero laico dell'epoca dei Lumi: al contrario, hanno un'idea particolaristica e romantica dei popoli e dei paesi. Non credono che i mo-di di ragionare siano ovunque gli stessi: preferiscono ri-tenere che differiscano, e molto, a seconda delle cultu- re. Per loro, la forza delle diversità prevale sui diritti dell'eguaglianza.

Non mancano le testimonianze di questa posizione. Scrive l'antropologo Francesco Remotti, alla voce «Re-

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Enciclopedia delle Scienze So-ciali2:

L'antropologia culturale americana e la sua eredità

lativismo culturale» della

Alla base del relativismo vi è una profonda diffidenza nei confronti dell'universalità di strutture psichiche o mentali - di ordine naturale — che accomunerebbero tutti gli uomini. Il relativismo non nega che esistano strutture del genere; ritie-ne tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria dell'organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l'uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l'u-niformità di leggi o strutture naturali.

Questa convinzione dei relativisti ha un difetto: è mal motivabile. Si fa forte delle idee di una corrente particolare degli studi etnologici, quella dell'antropolo- gia culturale americana, che ebbe il suo periodo d'oro fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del Novecento. È vero che l'antropologia culturale ci ha arricchiti di un lascito importante di idee: però le sue teorie erano ba-sate su dati ormai in gran parte superati.

La scuola antropologico-culturale statunitense nasce dalle idee di uno dei padri dell'etnologia, Franz Boas, che fu docente negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento. Glí scritti e l'insegnamento di Boas ebbero meriti non piccoli, perché contribuirono a liberare lo studio delle società umane dalle strettoie di un orienta- mento evoluzionistico ingenuo. In precedenza, l'ideo- logia del periodo coloniale e gli schematismi etnocen- trici, nel classificare i paesi extraeuropei a seconda del loro grado di arretratezza, avevano ostacolato lo studio

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delle singole culture. Fu merito di Boas, uno studioso cauto e concreto, il contribuire a correggere questa ten- denza restituendo dignità alle popolazioni più lontane dal mondo occidentale.

I suoi allievi, peraltro, furono meno cauti quando si incaricarono di radicalizzare la sua impostazione. Fra questi una singolare figura di attivista intellettuale, Ruth Benedict, iniziò nel 1922 a collaborare con Boas. In- fluenzata dalle idee di Nietzsche, anticonformista, anti- razzista, pioniera del movimento lesbico, inserita nella migliore cultura newyorkese, la Benedict fu per molti anni una figura di spicco più per la sua militanza e per l'intelligente incisività del suo pensiero che per le sue scoperte. Le sue idee esercitarono una forte influenza su un'altra antropologa di quindici anni più giovane, sua allieva e amica, che assurse rapidamente a una gran- de notorietà: Margaret Mead. Quest'ultima sposò un inglese di notevole fascino personale, nonché dall'inge-gno brillante e dagli interessi poliedrici, Gregory Bate-son, spesso considerato uno dei teorici dell'orienta-mento relativistico in generale, e con lui ebbe una in-tensa collaborazione intellettuale.

L'enorme successo degli scritti della Benedict e del-la Mead negli anni Venti e Trenta non fu dovuto al ri-gore delle loro indagini ma alla loro passione ideologi-ca. Un binomio di idee era destinato a incontrare il fa- vore del pubblico: in primo luogo l'idealizzazione rous- seauiana e romantica delle comunità preletterate, e in secondo luogo la convinzione che la mente dell'uomo fosse libera da influenze biologiche e venisse intera-mente plasmata, fin dall'infanzia, da fattori storici e am- bientali. Una esaltazione di ottimismo riformatore ispi-rava questa doppia teoria: in primo luogo sembrava giu- sto ispirarsi alla felicità dei primitivi per tornare, anche

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relativamente

tabula rasa,

in Occidente, ad abitudini di vita più semplici e spon- tanee; in secondo luogo sembrava certo che, essendo l'animo umano perfettamente modellabile dall'ambien- te, sarebbe bastata una riforma dei metodi educativi per dare luogo a società migliori.

Neí quattro decenni centrali del Novecento non sol-tanto questa scuola particolare del pensiero etnologico e antropologico ma una intera opinione pubblica si con- vinse, in Europa e in America, del primato assoluto dei fattori storico-culturali a scapito dí quelli biologici e na- turali. Lo stile di personalità e tutte le possibili caratte-ristiche cognitive e comportamentali di ogni individuo venivano attribuite, pur senza mai averne solide prove, a elementi «appresi»; così, non cessava la tendenza a fantasticare che esistessero, nel mondo, fondamentali differenze nella strutturazione psichica dei popoli. Ven-ne proposto di identificare ogni gruppo etnico, sepa-randolo dagli altri, a seconda di caratteristiche psicolo-giche altrettanto suggestive quanto immaginarie: Ed-ward Sapir considerava gli eschimesi estroversi e gli in- diani introversi, e Ruth Benedict sosteneva che i Do- buani sono paranoici, gli indiani Zuffi apollinei (i suoi preferiti: a suo avviso una società quasi perfetta), i Plains dionisiaci e i Kwakiutl, invece, megalomani. Og-gi queste sciocchezze fanno sorridere, ma all'epoca era-no prese sul serio.

L'idea di base era sempre quella, e cioè che in ogni cultura gli individui sentono e pensano in modo diver-so, cioè sentono e pensano a quella cultu-ra: ma la grande novità consisteva nel suggerire corret-tivi alla società occidentale.

Le teorie di Sigmund Freud, che ebbero un notevo-le successo fra gli intellettuali nel periodo fra le due guerre mondiali, parevano dimostrare che le esperienze

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infantili determinassero la psiche adulta, e facevano fio-rire proposte educative anticonformiste e antirepressi- ve. Anche il pensiero di Karl Marx, secondo il quale i modi di produzione dei beni plasmano il modo di pen- sare, non mancò di esercitare la sua influenza, in parti- colare durante gli anni Trenta, contribuendo all'idea più generale che fossero i modi di vita a determinare le disposizioni, buone o cattive, della mente di chiunque. Andava nella stessa direzione la scuola comportamenti- sta, che dominò la psicologia sperimentale dagli anni Venti a tutti gli anni Cinquanta: questa sosteneva che il cervello è una al punto da suggerire che un bambino preso a caso potrebbe sviluppare qualsiasi ta-lento desiderato dai suoi educatori.

In sintesi, attraverso una molteplicità di approcci il riformismo sociale esaltava l'ipotesi centrale del cultu-ralismo: cioè che non vi fosse nulla di costante, e so- prattutto nulla di rigido, nella mente delle persone. La cultura era tutto, la biologia non contava nulla, e ogni miglioramento delle attitudini diventava possibile con accorgimenti opportuni.

Furono in particolare Ruth Benedict e Margaret Mead a insistere sulla modificabilità della natura uma- na, ma erano numerosi gli antropologi che ritenevano non si dovesse parlare di caratteristiche psicologiche in generale, cioè comuni a tutti gli individui. Nulla di co- stante neppure nelle cure materne elementari, né addi-rittura nelle emozioni: Margaret Mead e Gregory Bate-son si ingegnarono a sostenere che le emozioni, contra-riamente a quello che aveva pensato Charles Darwin, non sono l'espressione naturale del substrato biologico della mente ma nascono anch'esse all'interno delle con- venzioni culturali e quindi andrebbero studiate come un aspetto della infinita variabilità dei modi di espri-

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Coming of Age in Samoa,

best seller4.

mersi. Altri antropologi si collocarono sulla stessa li-nea .

Leggendo oggi le opere dei primi antropologi cultu-ralisti si constata una singolare mescolanza di osserva-zioni «sul campo», e di voli teorici dominati da un in- genuo idealismo. A volte si ha l'impressione di essere di fronte a teorie che non nascono dall'osservazione ma sono confezionate per sedurre il pubblico; talora il di- sprezzo per la realtà è così patente da sfiorare i confini della frode. È questo il caso della più celebre fra tutte le pubblicazioni culturalistiche, il libro

di Margaret Mead, pubblicato nel 1928 e presto divenuto un La Mead era stata a Samoa, in Oceania, per alcuni mesi, e nel suo libro descriveva una cultura tollerante, rilassata, addirittura idilliaca, carat- terizzata da un'incredibile gentilezza d'animo e da una generalizzata libertà dei costumi sessuali. La scarsezza della documentazione e l'evidente partigianeria ideolo- gica dell'autrice misero vari studiosi sull'avviso (Sapir fu uno dei meno convinti): ma fu solo nel 1983 che ven-ne resa pubblica, con una documentazione ineccepibi-le, la falsità dí tutto ciò che aveva raccontato la Mead. L'etnologo neozelandese Derek Freeman, dopo aver passato sei anni a Samoa, pubblicò un libro in cui di- mostrava che la società samoana era una delle più vio- lente del mondo, ed era caratterizzata da costumi parti- colarmente repressivi nell'ambito della vita sessuale'. Egli non si limitò a documentare che nella società sa- moana degli anni Sessanta le gravi aggressioni fisiche erano una volta e mezzo più frequenti che negli Stati Uniti e quasi cinque volte più frequenti che in Austra- lia, e la percentuale di stupri doppia che negli Stati Uni- ti e venti volte maggiore che in Gran Bretagna, ma si premurò di trovare anche la documentazione relativa al

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periodo in cui la Mead era stata a Samoa, quando i casi di violenza sessuale furono particolarmente comuni e le trasgressioni alla morale sessuale tradizionale venivano punite anche con la morte. Fu evidente che la Mead, forse perché era ancora molto giovane ed era stata tra- scinata dai suoi entusiasmi relativistici, aveva confuso le sue fantasie con ciò che aveva avuto sotto gli occhi.

Il «caso Freeman» suscitò enormi polemiche, tutto-ra non interamente sopite; dal 1983 a oggi, però, non soltanto la documentazione di Freeman non è mai stata confutata, ma nuove acquisizioni scientifiche hanno di- mostrato, più in generale, l'inconsistenza delle tesi care agli antropologi culturali americani. E veramente, ci si trova di fronte a qualcosa di non intieramente spiegato: come mai, e non soltanto nel caso della Mead, una così sistematica deformazione dello sguardo? Come fu pos- sibile che l'ideologia relativista, il culturalismo, e più in generale l'anti-biologismo, prendessero piede fino a ne-gare i più semplici dati della realtà? Qualsiasi antropo- logo privo di paraocchi, che si fosse seduto per un po-meriggio in uno spiazzo fra le capanne di un villaggio tropicale a osservare i giochi dei bambini, avrebbe visto ciò che anche oggi un qualsiasi viaggiatore occidentale può constatare, magari con sorpresa: e cioè che la mi- mica, gli scherzi, le risa e i pianti, il «far finta», il pro- vocare e il sedurre, le manifestazioni di rabbia e quelle di dolore dei piccoli fra i tre e i sei-sette anni che inte-ragiscono liberamente fra loro sono estremamente si-mili in tutte le latitudini e in tutte le culture. Così, qual- siasi madre con più di due figli avrebbe potuto dire agli psicologi culturalisti ciò che le madri hanno sempre sa-puto, e cioè che non è vero che tutto dipende dall'am- biente o dall'educazione, perché fratelli (e sorelle) trat- tati in modo identico dagli stessi genitori manifestano

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3

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fin dai primi mesi dopo la nascita comportamenti di- versissimi e palesemente legati a fattori innati. Quando nel 1972 Paul Ekman pubblicò i risultati delle sue ri- cerche sull'universalità delle manifestazioni emoziona- li, dimostrando che le espressioni del volto umano, ol- tre a essere sempre le stesse, sono riconosciute nel loro significato in tutte le culture, i suoi dati fecero sensa- zione: ma ci si può chiedere come fosse possibile che, prima di lui, nessun antropologo moderno avesse nota- to il fatto che, quando si incontrano due persone che non hanno alcuna lingua in comune, la mimica facciale spontanea costituisce un codice comunicativo del tutto privo di equivoci6.

La formula biologico = cattivo, culturale = buono non ha alcun fondamento, ma venne data universal- mente per valida nel periodo dagli anni Venti fino agli anni Settanta, e tuttora ne persistono i residui in taluni ambienti. I motivi di questa deformazione ideologica furono, probabilmente, più d'uno.

Il principale fattore di errore consistette nell'incapa-cità di superare un'immagine pre-darwiniana della na- tura umana, imbevuta di idealismo e di spiritualismo. Il desiderio dei culturalisti era, ancora una volta, quello manifestato dagli oppositori di Darwin: allontanare il più nettamente possibile la mente umana, nobilitata nella cultura, da quella animale, legata agli istinti. L'im- portante era che la prima mantenesse una qualche evi- dente superiorità: doveva necessariamente esistere un salto inequivocabile, uno scalino nettissimo — mai esa- minato con attenzione, però, sempre dato per scontato — fra l'uomo e l'animale. Secondo alcuni si trattava ov- viamente del linguaggio, secondo altri era altrettanto evidentemente «la coscienza» a fare la differenza (qual- siasi cosa ciò significasse), altri parlavano del senso di

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colpa, o dell'uso delle mani, o della fabbricazione di strumenti, o della trasmissione di informazioni apprese, e così via: ogni volta liquidando il problema con l'affer- mazione che la grande differenza fra uomo e scimpanzé (o altre specie) era lì, era una sola e stava sotto gli occhi di tutti. Ma se queste ingenue certezze erano ancora compatibili con le conoscenze scientifiche del 1950, mezzo secolo dopo erano diventate insostenibili: oggi possiamo ben dire che ogni anno si aggiungono nuovi dati, i quali ci dimostrano che le differenze biologiche fra la specie umana e quelle animali sono, sorprenden- temente, piuttosto piccole, e nessuna di esse veramente netta.

In realtà, íl desiderio di una differenza categoriale, o ontologica, nascondeva la richiesta di una garanzia di carattere metafisico. In questo senso il culturalismo po- trebbe essere visto come l'estremo tentativo di salvare l'illusione che l'uomo sia caratterizzato dal possesso di un'entità spirituale negata agli animali: un'entità o dif-fusa nel corpo, o nascosta nel cervello, o aleggiante fra le persone intente a creare cultura.

Da sempre la credenza nell'anima, eventualmente laicizzata ad uso degli umanisti, si è legata a un discor- so esortativo: bisogna combattere contro le idee mate-rialiste perché si basano sull'egoismo e predicano la so-praffazione. Ancora in anni recenti, particolari eventi storici hanno incoraggiato questo tipo di appelli. La fi-ne della seconda guerra mondiale, svelando gli orrori di una tecnologia al servizio dello sterminio, segnò un net- to incremento delle polemiche antimaterialiste: il nazi-smo aveva dimostrato fin dove poteva arrivare la teoria dei diritti del più forte. Su questa base lo sdegno dei de- mocratici di tutto il mondo favorì il diffondersi di idee

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quanto

contro

a partire

soltanto

«ci crearono,

ci controllano,

Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria

si fa non si fa,

antirazziste ingenue, secondo la sciocca formula biolo-gismo = razzismo.

A sostenere le illusioni culturaliste persistevano vec-chie nozioni di biologia, secondo le quali gli aspetti istintuali della natura umana sarebbero esclusivamente orientati all'insensibilità e alla prepotenza, mentre la cooperazione e l'altruismo nascerebbero soltanto dalla coscienza e dalla civiltà. Che questo stereotipo fosse fal- so, lo aveva intuito già Darwin un secolo prima, ma bi- sogna ammettere che è stato necessario attendere gli ul-timi decenni del Novecento per capire fosse fal-so. Gli studi sui fondamenti della cooperazione — sia animale sia umana — hanno dimostrato in modo esau-riente che le forme più complesse di dedizione e di com-passione si sviluppano non già le disposizioni «biologiche» e «istintuali» (ingenuamente credute aso-ciali) dell'individuo, ma da bisogni innati, bio-logicamente fondati, di socialità, solidarietà e recipro-cità. Da alcuni anni sappiamo molto bene che sia l'au-toaffermazione (e competitività) da un lato, sia la socia- lità e la disponibilità a sacrificarsi dall'altro, coesistono con pari dignità in ciascuno di noi. Tutte queste dispo-sizioni naturali, nessuna in partenza migliore e nessuna peggiore, sono necessarie per sopravvivere e sono le premesse per lo sviluppo di qualsiasi società. E natural- mente, come sempre, le disposizioni comportamentali e affettive (egoiste o generose che siano) anche se assu- mono le forme imposte da costumi e culture non sono mai culturali così come, del resto, non sono mai soltanto istintuali.

Infine, non si può non menzionare il fatto che gli ar- gomenti impiegati dai culturalisti contro gli studiosi in- teressati ai temi biologici furono inquinati con sorpren- dente frequenza da episodi di disonestà intellettuale.

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Un atteggiamento affine alla particolare passione che aveva indotto Margaret Mead a inventare una Samoa inesistente fece sì che venissero attaccati con eccessiva veemenza biologi e studiosi darwiniani del comporta- mento come Wilson e Dawkins negli anni Settanta, e nei decenni successivi altri scienziati non relativisti e di orientamento materialista. Le accuse di determinismo, di riduzionismo e di meccanicismo si basarono fre- quentemente su riassunti falsi delle loro posizioni, e perfino su citazioni inventate. Fra gli altri casi, Steven Pinker ha fatto osservare che una frase sintetica (e an-che un po' provocatoria, ma non scorretta) scritta da Ri- chard Dawkins, in cui riferendosi alla teoria dell'evolu-zione dice che i nostri geni nella mente e nel corpo», fu citata per ben cinque volte in pubblica- zioni diverse allo scopo di confutarla, ma alterata come segue: «I nostri geni nella mente e nel corpo», una sciocchezza che non era mai stata pronun-ziata da nessuno'.

Il relativismo degli antropologi culturali americani, per quanto fosse condizionato dalle proprie ingenuità, con- dusse ad aperture teoriche nuove, alcune delle quali non prive di interesse. Fra l'altro, portò ad approfondi- re l'osservazione che se è vero che ogni cultura codifica di volta in volta ciò che e ciò che essa de-finisce anche in senso più generale ciò che è normale e ciò che non lo è. Abbiamo visto che Ruth Benedict non si trattenne dal classificare certe popolazioni utilizzan-do criteri psicopatologici (culture megalomani, para-noidi, ecc.); nel 1934 essa gettò anche le basi per una va-

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in generale»),

Outsiders

rietà particolare di relativismo normativo, quello che di- fende l'opinabilità del concetto di disturbo mentale8.

Bisogna dire che l'antropologa newyorkese si tenne su una linea prudente, ma già a quell'epoca vi fu chi semplificò, estremizzandola, la sua posizione. Il relati-vismo culturale, spesso associato a una lettura parziale delle idee di Freud e di Jung, venne utilizzato nei circo- li intellettuali europei degli anni Venti e Trenta per so-stenere che la locuzione «disturbo psichico» non indi-ca affatto la presenza di una disfunzione intrinseca al- l'individuo, ma significa soltanto che alcune persone presunte sane hanno espresso un giudizio squalificante su altre presunte malate. Nelle conversazioni degli am-bienti letterari di quegli anni era corrente un dubbio re-lativistico non del tutto infondato, ma più suggestivo in teoria che verificabile nella pratica: ciò che è considera-to folle in un ambiente potrebbe essere considerato nor-male in un altro. Era stato determinante per il nascere di questa prospettiva l'anticonformismo delle avan-guardie artistiche, e quindi il fascino della tradizione ro-mantica: negli anni Venti i surrealisti parigini si erano compiaciuti di esaltare la sregolazione della mente at-traverso le droghe e la «scrittura automatica» e avevano attaccato la psichiatria e gli psichiatri negando loro ogni legittimità. Nel corso dei decenni successivi varie cor-renti di pensiero contribuirono a dare forma a un mo-vimento di opinione che crebbe gradatamente fino a esplodere in una improvvisa fortuna di pubblico negli anni Sessanta e Settanta: l'antipsichiatria.

La corrente ideologica che fornì le basi generali al- l'antipsichiatria fu sempre il relativismo: sia quel parti-colare relativismo normativo che la scuola antropologi- co-culturale aveva reso popolare in Occidente («la nor-malità non esiste sia un relativismo più fi-

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losofico, secondo il quale l'idea di oggettività scientifi-ca non ha fondamento ed è particolarmente priva di va- lore per quanto concerne lo studio della mente.

Alcune critiche alla psichiatria vennero da particola-ri scuole di impronta psicoanalitica. Gli sviluppi ameri- cani delle teorie psicodinamiche incoraggiarono l'ipo- tesi che la natura umana fosse sempre fondamental- mente buona e sana, e che il problema del disagio psi-chico andasse affrontato non già facendo riferimento al-l'idea di disfunzione, e meno che mai a quello di malat-tia, bensì in termini «umanistici», ossia considerando le sofferenze mentali come una fatica transitoria sulla via della realizzazione di sé. Il principale esponente della scuola psicoterapica detta umanistica fu Abraham Ma-slow, amico e per qualche tempo allievo di Ruth Bene- dict ed egli stesso interessato a ricerche etnologiche.

Un'altra importante corrente di ricerca contribuì al-la nascita delle teorie antipsichiatriche: la sociologia della devianza. Già negli anni Quaranta Edwin Lemert aveva proposto una importante variazione alla teoria parsonsiana del controllo sociale, descrivendo processi sociali che «producono devianza». Di qui la «teoria del- l'etichettamento», secondo la quale il fatto di percepire un individuo come deviante, per esempio etichettando- lo come «soggetto antisociale», contribuisce a indurre in lui un comportamento conforme all'etichetta. Ne nacquero negli anni Cinquanta e Sessanta posizioni più radicali. A parere di Howard Becker, per esempio, in

(1963) il deviante è semplicemente colui al quale l'etichetta di deviante è stata applicata con suc- cesso9. In realtà il discorso di Becker era più articolato, ma lui stesso si faceva prendere la mano dal proprio ra- dicalismo e agli altri veniva fin troppo facile riassumere le sue idee in uno slogan. Giunti a questo punto, era

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anche

quasi

spontaneo trovare giustificazioni anche per criticare l'e- tichettamento dei pazienti psichiatrici. L'idea era perti-nente, e tuttavia ne furono tratte generalizzazioni ec-cessive.

Il limite di quelle teorie avrebbe dovuto essere evi-dente. Non veniva ricordato il fatto che esistono, in qualsiasi ambiente, guasti comportamentali e sofferen-ze mentali di competenza psicologica e medica, e quindi non esclusivamente riducibili a variabili sociolo-giche. Si tendeva a ignorare che i disturbi psichici esi- stono come tali, cioè come disfunzioni intrinseche alla mente umana, indipendentemente dal loro etichetta-mento. Come chiunque può leggere oggi in qualsiasi te-sto di psichiatria, le osservazioni provenienti dai medi- ci di tutto il mondo confermano che nelle loro manife- stazioni di base i disturbi mentali presentano aspetti co-stanti e sono altrettanto universali, attraverso le culture, di quanto lo siano le malattie somatiche.

L'antipsichiatria fu dunque influenzata da varie cor-renti ideologiche, ma va tenuto presente che non sa- rebbe esistita al di fuori del clima della controcultura degli anni Sessanta. Le sue tesi più radicali consistette-ro nella convinzione che la follia non esiste, e nella ri-vendicazione del diritto di non porre limiti alla sponta-neità. Negli ambienti «alternativi», durante gli anni del- la contestazione giovanile, il fatto di estrinsecare i pro-pri bisogni in modi ritenuti folli e devianti venne consi- derato una forma di ricerca meritevole di pieno rispet- to; questo atteggiamento incoraggiò l'esplorazione di stati alterati della mente mediante sostanze chimiche, e favorì indirettamente la diffusione delle tossicodipen-denze.

I principali esponenti dell'antipsichiatria furono, in Gran Bretagna, Ronald Laing e David Cooper e negli

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Stati Uniti Thomas Szasz; in Italia, Franco Basaglia as-sunse nette posizioni antipsichiatriche negli anni Set- tanta. Va peraltro segnalato che, con l'eccezione di Da-vid Cooper, tutti gli antipsichiatri espressero la loro contrarietà a essere identificati con questa etichetta. È anche importante riconoscere che i loro contributi teo-rici non furono sempre spregevoli: in particolare Ro-nald Laing, malgrado in certi scritti cedesse apertamen- te a derive irrazionalistiche, fu autore di pagine vera- mente notevoli sia da un punto dí vista letterario che per la loro penetrazione psicologica.

Le idee relativistiche dell'antipsichiatria si inseriro-no peraltro in un fenomeno sostanzialmente diverso: cioè in un processo di rinnovamento organizzativo del-l'assistenza psichiatrica che, iniziatosi in Gran Breta-gna, si estese a tutti i paesi dell'Occidente negli anni Sessanta e Settanta. Al centro di questa evoluzione vi fu il tentativo di combattere l'abbandono dei pazienti psi-chiatrici all'interno di reparti per cronici, e la sistemati-ca chiusura dei grandi manicomi. Il rinnovamento psi- chiatrico (la «nuova psichiatria») degli anni Sessanta e Settanta nacque e si sviluppò sulla base di premesse marcatamente differenti da quelle antipsichiatriche, e del tutto prive di accenti relativistici.

Di fatto la «nuova psichiatria», a differenza dell'an-tipsichiatria, fu promossa in Europa e in America sulla base di una piena consapevolezza delle sue premesse scientifiche e seguendo un programma di tecnicizzazio- ne delle terapie e di razionalizzazione delle strutture as- sistenziali. La spinta decisiva per la sua nascita fu data dall'invenzione, nel corso degli anni Cinquanta, dei mo- derni psicofarmaci di sintesi: neurolettici, tranquillanti e antidepressivi. Questi farmaci resero accessibili al dia- logo i pazienti gravi prevenendo l'agitazione degli psi-

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open doors,

cotici e riducendo allucinazioni e deliri; nel giro di po- chi anni l'aspetto clinico della follia cambiò radical-mente.

Tre ordini di fattori si trovarono a convergere in que-sta trasformazione: gli psicofarmaci con i loro effetti; una maggiore consapevolezza del carattere psicologica- mente degradante delle istituzioni tradizionali di rico- vero; il loro costo divenuto insostenibile per gli enti pubblici. Vi si aggiunse un quarto fattore, cioè un'ac- cresciuta attenzione, negli ambienti politici progressisti, per gli aspetti sociali della psichiatria e in particolare per lo svantaggio delle classi sociali subordinate nel-l'accedere a trattamenti adeguati10. Vennero promulga-te nuove leggi per abolire i vecchi istituti manicomiali e rifondare la psichiatria pubblica su strutture più agili e non basate sulla degenza: la prima legge fu britannica e voluta dai laburisti, nel 1959, e la seconda statunitense, promossa da Kennedy, nel 1963. Negli anni Sessanta e

Settanta la ristrutturazione dell'assistenza psichiatrica procedette quasi ovunque a passi molto rapidi, peraltro con qualche vuoto assistenziale legato alla tendenza a ri- sparmiare denaro chiudendo i manicomi senza appre- stare subito altre strutture più adeguate. In Italia il pro- cesso si avviò con ritardi e travagli e per ottenere una nuova legge psichiatrica, peraltro formulata in modo di-scutibile, fu necessario attendere fino al 1978.

Già nella seconda metà degli anni Sessanta non era-no mancate le occasioni di contrapposizione e perfino di lite personale fra i sostenitori di una riforma dell'as-sistenza e i sostenitori dell'antipsichiatria. Sul primo dei due versanti si erano realizzate, sia in Italia sia all'este- ro, varie esperienze significative. Nel nostro paese la principale fu, prima del 1969-70, quella della Comunità terapeutica di Gorizia, promossa da Franco Basaglia.

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L'impostazione era essenzialmente anti-autoritaria ma non aveva nulla di antipsichiatrico. Con un atteggia-mento che oggi non può che essere considerato sensa-to, í concetti di diagnosi, di cura e di guarigione non ve-nivano messi in discussione e in tutti i padiglioni dell'o- spedale veniva fatto largo uso di tranquillanti, di seda- tivi e di altri psicofarmaci; inoltre, se era certamente im- portante che le camicie di forza fossero state abolite e che buona parte dei reparti fossero rimane-va ineliminabile il problema della custodia e tutti ne era-no ben consapevoli. Nessuno di coloro che lavoravano a Gorizia si illudeva che, in quel momento oppure in fu- turo, nuove forme di rapporto umano potessero curare alla radice le sofferenze tipiche dei disturbi psichici; e malgrado che, come sempre, l'ospedale psichiatrico raccogliesse molti marginali e molti poveri, nessuno so- steneva che la marginalità e la povertà fossero la causa delle malattie mentali.

Negli stessi anni, Ronald Laing dirigeva a Londra la comunità antipsichiatrica di Kingsley Hall: non vi si parlava di diagnosi né di cure con psicofarmaci, e gli ospiti venivano aiutati a vivere le loro esperienze di di- sagio col massimo di libertà, nell'ipotesi che il viaggio nella follia, se compiuto senza ostacoli e fino alla sua ri-soluzione naturale, potesse rivelarsi una straordinaria esperienza maturativa. La gestione di Kingsley Hall si rivelò molto difficile e non dette nessuno dei risultati sperati.

In seguito, negli anni Settanta, il rapporto fra idee (moderate e razionali) di rinnovamento e idee (radicali e romantiche) di tipo alternativo divenne più confuso, e non tutti gli psichiatri che fino ad allora avevano man-tenuto una buona chiarezza di idee seppero resistere al- la tentazione di assecondare il diffondersi di miti anti-

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L'anti-Edipo),

Esiste una natura umana? Un nuovo naturalismo

psichiatrici. Vi si associavano idee politiche estremisti- che: in riunioni internazionali sul problema degli istitu- ti dí ricovero cominciarono a manifestarsi, fin dal 1971- 72, idee favorevoli a movimenti violenti per la distru- zione dei manicomi e delle carceri; intellettuali francesi su posizioni relativiste, come Félix Guattari (autore con Gilles Deleuze di un libro di taglio antipsichiatrico,

sostennero posizioni favorevoli alle Bri-gate Rosse.

Di fatto, dopo il 1970 le idee antipsichiatriche furo-no accolte con un entusiasmo assai maggiore dal pub- blico non competente che dagli specialisti del settore. Gli slogan relativisti, per quanto popolari, incisero solo marginalmente sull'attività di nuove leve di giovani me-dici entusiasti e ben preparati, e di amministratori in- traprendenti e con i piedi per terra. Fra il 1974 e il '76, varie voci e iniziative si levarono a riproporre un uso sensato della psichiatria e a denunciare i danni provo- cati dalle mitologie antipsichiatriche".

La consapevolezza della presenza di importanti aspetti sociali, e anche politici, intorno al tema della sof- ferenza mentale incoraggiò ricerche e dibattiti che ave-vano ben poco a che fare con l'antipsichiatria; vennero organizzate strutture assistenziali più efficaci e legate a forme di gestione democratica; si impose lo sforzo di aumentare le risorse a disposizione degli assistiti meno abbienti; nacquero nuove aperture di credito verso la scienza medica e psicologica.

Ad opporsi a questa evoluzione verso la concretezza e il realismo persisteva nella massa degli studenti e in molte persone di cultura umanistica un'impostazione contraria a qualsiasi prospettiva scientifica in tema di problemi umani. Per molti giovani, la psicologia e la psi- coanalisi potevano acquistare credibilità solo a condi-

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zione di venir separate dalle prospettive mediche e bio- logiche, in una dimensione che non doveva aver nulla a che spartire con statistiche, farmaci, esperimenti e la- boratori. In quegli anni il settarismo si coniugava con la retorica libertaria: ancora intorno al 1977-78 continua- vano a ottenere un considerevole ascolto gli antipsi- chiatrí inclini a ripetere che la psichiatria moderna, con tutti i suoi problemi, non andava studiata perché l'uni- co problema consisteva nel battersi per la libertà dei ri- coverati e per l'abolizione pura e semplice di tutte le istituzioni pubbliche di ricovero. Non mancarono, nei confronti di chi non condivideva questa linea, attacchi personalistici simili nel tono e nei metodi a quelli che negli Stati Uniti, proprio negli stessi anni, intendevano colpire le posizioni di biologi come Wilson e Dawkins (se ne è fatta menzione più sopra).

L'antipsichiatria divenne in tal modo una battaglia di retroguardia. Sia le demagogie della «lotta antimanico- miale», sia altre linee di pensiero altrettanto semplici- stiche cominciarono a perdere credibilità verso la fine degli anni Settanta; in seguito l'antipsichiatria esaurì ra- pidamente la sua influenza culturale sia in Italia sia al- l'estero e scomparve definitivamente dalla scena.

Peraltro una parte dell'opinione pubblica si man-tenne affezionata alle proprie convinzioni relativistiche e rimase con il rimpianto di un'antipsichiatria immagi-naria.

Alcuni fatti sono elementari, eppure hanno tardato a es- sere riconosciuti. I modi di guardarsi negli occhi degli amanti e le tenerezze verso i lattanti sono sorprenden- temente simili in ogni cultura; per quanto ogni tradi-

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Sociobiologia

Il gene egoista

zione abbia il suo modo di gestire i sensi di colpa o il de- siderio di vendetta questi sentimenti sono, con ogni evi- denza, universali; nei villaggi più sperduti, malgrado tutte le possibili razionalizzazioni magico-religiose i più gravi disturbi psichici vengono riconosciuti come ma- lattie; ovunque troviamo strutture sociali comprenden- ti sacerdoti, capi, guerrieri, donne capaci di preparare pozioni, istituzioni per il controllo della devianza. Per quanto concerne le scelte di coppia, accade in ogni cul- tura che i maschi tendano a sposare donne più giovani di loro e le donne a preferire mariti di più elevata con- dizione socialeu. In tutto il mondo le strutture della cooperazione e dell'altruismo rispondono a due princi-pali sistemi motivazionali, il primo legato alla sessualità e alla riproduzione, il secondo alle aspettative di reci-procità; da questi emergono giochi relazionali comples-si ma dotati di caratteristiche universali, che costitui-scono la matrice primaria delle istituzioni societarie".

In parte si tratta dí acquisizioni relativamente recen-ti e peraltro ormai abbastanza note a quella parte del pubblico che si interessa ai temi della scienza. La prin- cipale componente di indirizzo delle nuove indagini è data dalla rivalutazione della prospettiva darwiniana. Come molti sanno, ad aprire la strada vi furono, negli anni Sessanta, gli studi degli etologi, sia pure all'epoca ancora relativamente rozzi, circa i comportamenti spe-cie-specifici, animali e anche umani; poi, nel 1975, l'im-provvisa notorietà della di Wilson, forse superiore al valore dell'opera, e subito dopo, nel 1976,

di Dawkins; in seguito, la grande stagio-ne dei biologi evoluzionisti (W.D. Hamilton, R. Trivers, J. Maynard -Smith) e gli effetti delle ricerche di Axelrod sul «dilemma del prigioniero» (1979-80); infine, i con-tributi più complessi della teoria dei giochi con le inda-

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gini sulla struttura dei processi decisionali. Su quest'ul- timo tema molte persone di buona cultura conoscono i nomi di uno psicologo e di un economista, Tversky e Kahneman, che negli anni Novanta sono diventati em- blematici dei nuovi orientamenti, anche se pochi hanno letto i loro scritti, comparsi su riviste specialistiche. Po-co dopo è divenuta quasi altrettanto nota la coppia for-mata da due psicologi e antropologi californiani, John Tooby e Leda Cosmides; molti lettori curiosi si sono informati sulle nuove acquisizioni scientifiche attraver- so i libri di un filosofo, Daniel Dennett. Pochi in Italia sanno che una italiana, Cristina Bicchieri (che insegna a Filadelfia), è un'autorità per quanto concerne lo studio dei fondamenti della socialità e delle radici naturali del- l'altruismo: più numerosi sono coloro a cui gli articoli di Massimo Piattelli Palmarini hanno aperto la mente e svecchiato le idee. Altri sí sono appassionati sui libri che parlano degli scimpanzé e delle loro affinità con la spe- cie umana; ai margini, i lettori meno amici delle astra- zioni si sono posti qualche dubbio sul modo tradizio- nale di impostare il problema corpo-mente partendo dagli affascinanti casi neurologici di Oliver Sacks".

La rivincita del naturalismo ha solide basi e molte facce. Fra l'altro, una maggiore sensibilità naturalistica riguarda anche il grande pubblico: tutti percepiamo l'immenso mondo vivente «non umano» come più vici- no a noi che cinquant'anni or sono. Tuttavia è scarsa- mente diffusa la percezione della rapidità con cui si van- no affermando nuove acquisizioni nel campo delle neu- roscienze, delle scienze cognitive, della genetica, del- l'intelligenza artificiale, e degli studi sul comportamen- to. Per quanto concerne il comportamento sociale, già all'inizio del Ventunesimo secolo il panorama delle no-

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differenze

un certo

tabula rasa

supra)

certi

stre conoscenze era totalmente rivoluzionato rispetto a come appariva all'inizio degli anni Settanta.

Non mancano, come è ovvio, le controversie. Peral-tro non vi è motivo di trovarsi in disaccordo su un pun- to: le differenze fra le culture esistono, sono importan-ti, e dipendono essenzialmente da fattori storici e in par-te anche geograficiu. Non dipendono da fattori biolo-gici; o ne dipendono poco.

Questo, per quanto concerne le fra i po-poli, o fra le mentalità collettive e i costumi. Tuttavia esi- stono fattori unificanti che limitano le divaricazioni fra le culture, il principale dei quali è dato dal modo stesso in cui è fabbricato il nostro cervello. Quest'organo straordinario, contrariamente a ciò che esso stesso ci in- duce a credere, non è né onnipotente né totipotente: funziona in modo e, sia pure con variazioni molto piccole, è praticamente identico per tutta la spe-cie umana. Vuoi per tradizione, vuoi per una raziona- lizzazione spontanea, noi siamo soliti unificare una par-te delle sue funzioni — quelle che percepiamo introspet-tivamente — così da farne un'entità virtuale alla quale at- tribuiamo una sorta di compattezza: come è noto l'ab- biamo chiamata «mente», «psiche» e anche «anima». Eppure le ricerche moderne ci dicono che queste fun- zioni, oltre a essere mal separabili da tutto il resto della nostra vita biologica, non sono affatto unitarie.

La mente di cui ogni giorno disponiamo non è una semplice macchina per apprendere e neppure era una

al momento della nostra nascita: al contrario possiede caratteristiche, limiti e struttura. Si può richia- mare qui una metafora coniata da Tooby e Cosmides (v.

che oggi si trova anche nei libri divulgativi, e cioè quella del «coltellino svizzero». Il suggerimento è che tutte le nostre facoltà mentali, comprese le più evolute

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e astratte, siano come strumenti, due lame, un giravite, forbicine, e che questi strumenti siano utili a fare mille cose ma non tutte, poiché ciascuno di essi ha i suoi im- pieghi e i suoi limiti. In pratica, se noi ragioniamo e prendiamo decisioni, magari complesse, magari intelli- genti ed efficaci, questo non avviene perché riusciamo ad adeguarci alle astratte virtù della Dea ragione, e nep-pure perché aderiamo alle convenzioni della cultura: in-vece, ci arrangiamo a ottenere buoni risultati razionali, con mille verifiche e correzioni, a partire dal fatto che spontaneamente pensiamo in modi, in modi prefe-renziali e tendenziosi, ma anche un po' zoppicanti, che dipendono da come è strutturata la grande macchina umida che sta nascosta nella nostra scatola cranica.

(Per riferirci ai limiti più tipici del nostro modo spontaneo di pensare, correntemente immaginiamo rap-porti di causa-effetto dove ci sono solo rapporti di con- tiguità, preferiamo le conferme alle verifiche quando ci costruiamo convinzioni, generalizziamo in modo im-pulsivo, troviamo enormi difficoltà a ragionare in ter- mini di probabilità — e infatti compriamo i biglietti del- le lotterie —, modifichiamo spavaldamente i nostri ri-cordi, e così via.)

Non solo i pensieri ma anche le emozioni e tutti i comportamenti, semplici o complessi, individuali o so-ciali, risentono dei limiti costitutivi di una serie di strut-ture mentali che sono, in fondo, tutto ciò di cui dispo- niamo. Queste strutture sono indirizzate a certi risulta- ti, non sono necessariamente ottimali, condizionano le nostre possibilità e sono, con piccole variazioni indivi- duali, le stesse per tutti. Non esiste, perciò, una mente, o psiche, in astratto, e ancor meno esiste una razionalità in generale: esistono invece le molte capacità operative

QQ

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Naturalismo e identità minoritarie

molto

di una specie animale evoluta, la nostra, dotata di un cervello straordinario ma pieno di particolarità16.

Altri dati biologici sono elementari: per esempio, ogni individuo è biologicamente diverso da ogni altro. Pe- raltro le differenze genetiche fra un qualsiasi individuo e l'altro all'interno di una popolazione naturale sono più marcate che le differenze genetiche fra una popola- zione e l'altra: su questo tema molti in Italia hanno una certa familiarità con le ricerche e i libri di Luigi Luca Cavalli-Sforza. Ma soprattutto, il modo di comportarsi, ragionare e sentire di ogni singolo esemplare della spe- cie umana è molto più uniforme di quanto possa sem-brare in base ai differenti colori della pelle, alle fogge del vestiario, alle fedi divergenti ed eterogenee.

Gli studiosi di oggi non si stancano di ripetere che natura e cultura non sono, come invece si dava per scontato in passato, due mondi diversi né tanto meno due categorie contrapposte: in ciascuno di noi la predi- sposizione genetica e l'influenza dell'ambiente sono aspetti non sempre separabili di una sintesi dinamica che, dal momento in cui veniamo al mondo (e anche prima), definisce le caratteristiche fisiche e psicologiche di ogni singolo essere umano. Per rifarci a un avverti- mento sovente ripetuto, nessuna caratteristica della mente e del comportamento origina «solo dai cromoso- mi» o «solo dall'ambiente».

Questa prospettiva, affermatasi nel corso degli ulti-mi quarant'anni, ha rafforzato l'idea che tutti gli umani, in quanto portatori della stessa costituzione mentale, abbiano gli stessi bisogni. Ma se questo è vero, è giusti- ficato ritenere che abbiano anche gli stessi diritti.

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Qui bisogna dedicare qualche riga a una precisazio- ne. Un aspetto non privo di risvolti politici è che l'e- guaglianza di bisogni e diritti vale anche per talune ca-tegorie di persone considerate da sempre diverse e in- feriori.

Le donne, pur avendo un cervello che funziona in modo leggermente differente da quello maschile, non hanno nessuna caratteristica naturale, biologica, che le renda psicologicamente inferiori agli uomini. Non si può immaginare criterio più valido di quello scientifico per capire se i due sessi meritano lo stesso accredita- mento di autonomia, e peraltro una prova della parità naturale di uomini e donne ci viene dal fatto che nei po- chi paesi in cui realmente non esiste una significativa di- scriminazione sessuale (in pratica, probabilmente, solo quelli scandinavi) la possibilità per una donna di diven- tare primo ministro o direttore di un'azienda è la stessa che per un uomo.

Analogamente, la ricerca moderna ha permesso di capire che esistono, oltre a quella fra maschi e femmine, altre diversità che non sono inferiorità. Così come in an- ni passati vi erano stati pedagogisti che sostenevano che le donne sono meno adatte degli uomini agli studi su-periori, ancora negli anni Cinquanta del Novecento esi-stevano, in alcuni paesi europei, insegnanti che tratta-vano i mancini come viziosi da rieducare, e tuttora so- no numerosi coloro che compiono un identico errore nei confronti degli omosessuali. Viziosi anch'essi, se-condo molti: quando invece, e ormai lo sappiamo sen- za equivoci, la diversità degli omosessuali — uomini e donne — rispetto alla maggioranza è dovuta a una serie di meccanismi prevalentemente neurologici di tipo non

diverso da quelli che determinano altre varianti, come il mancinismo, e senza che questo comporti alcun

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Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra

(in-group)

(out-group) noi

gli altri

aspetto di inferiorità per quanto concerne la possibilità di rispondere a obblighi morali e di assumere incarichi nel consorzio civile. (Curiosamente, anche l'incidenza degli omosessuali — maschi e femmine — sembra essere più o meno la stessa dei mancini: intorno al 10% in tut-te le culture''.)

Eppure sono numerose le persone che, senza nep-pure porsi il problema di un minimo di aggiornamento scientifico, sostengono che le coppie stabili dello stesso sesso sono costituite da soggetti malati, o peggio vizio- si, e le ritengono immeritevoli delle stesse tutele giuri-diche delle coppie eterosessuali.

In tutti questi casi la scoperta della naturalità di ta-lune differenze fra gli individui, come quelle riguardan-ti il sesso biologico e i comportamenti sessuali prefe- renziali, è fattore di progresso e di tolleranza. I nuovi orientamenti dimostrano quanto sia pericoloso, e anche poco morale, attribuire a scelte personali o a variazioni di costume ciò che invece va attribuito a differenze bio- logiche casuali e del tutto neutrali.

Molti troveranno che tutto questo è tranquillizzante. Vi sono però altri esiti delle ricerche sulla natura umana che sollevano interrogativi inquietanti. Una conclusio- ne, per esempio, sembra confermata: il problema della tolleranza reciproca fra gruppi e popoli è meno facil- mente risolvibile di quanto pensassero gli illuministi del Settecento. Può darsi che questo non ci faccia piacere, ma le radici dell'intolleranza sociale sono legate a fatto- ri naturali. Il tema non è nuovo: la tendenza spontanea a definire se stessi all'interno di un gruppo solidale

per differenza rispetto a coloro che ne sono fuo-

1 07

ri fu identificata nel 1906 da William Sum-ner. Il percepire che da un lato ci siamo e dall'altro

è ineliminabile, e tutto fa ritenere che faccia par-te della strutturazione più basilare della nostra mente. Alcuni decenni or sono gli studi — ormai classici — della psicologia sociale sulle dinamiche del pregiudizio, co- me quelli di Henri Tajfel, e in seguito, negli ultimi anni, l'indagine circa i fondamenti della socialità in una pro-spettiva evoluzionistica neo-darwiniana, hanno confer-mato la presenza di costanti universali nel modo di sta- bilire solidarietà di gruppoi8.

Un naturale atteggiamento «tribale» è constatabile in molti fenomeni che sono tutti i giorni sotto i nostri occhi, a partire dai ricorrenti regionalismi e campanili-. smi, la cui virulenza talora ci sorprende, fino alle mo-derne fazioni che, contrapponendosi fra loro su un ter-reno simbolico, costituiscono l'universo del tifo calci- stico di cui si nutre gran parte della cultura popolare in paesi come l'Italia. Da Max Weber e Sigmund Freud fi-no a oggi, sono innumerevoli gli studiosi che si sono oc-cupati di questo tipo di gruppalità primordiale.

La diffidenza verso i gruppi estranei è un atteggia-mento continuamente risorgente. Nella sua forma più semplice ha una funzione adattiva perché per migliaia di anni il trattare gli sconosciuti con cautela è stato un modo per sopravvivere. E anzi, ce lo insegnano concor- di gli psicologi sociali, la tendenza a considerare gli stra- nieri proiettando su di essi una immagine di diversità è inscindibile dal sentimento di appartenenza. Evidente- mente il bisogno di appartenere è universale, ma l'idea di appartenere alla specie umana è astratta e non può venire spontaneamente percepita come significativa: solo all'interno di collettività più ristrette possiamo sen- tirci naturalmente uniti. Più al di fuori della cerchia li-

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noi co-sì,

Nuove possibilità di intesa

mitata delle parentele esiste infatti un'area, talora non molto più vasta, costituita da amici, sodali e padrini e da tutti gli individui che sappiamo avere le nostre stesse convinzioni e che parlano come'noi. Essi ci faranno ca-pire, nel modo stesso di rivolgersi a noi, che siamo per-sone degne, valide e affidabili. Nessuno può fare a me- no di una solida definizione di sé a meno di rischiare se-ri problemi psichici, e solo chi ci vede e ci parla ci può dire chi siamo realmente: un rispecchiamento colletti- vo è necessario per costruire un'immagine adeguata della propria persona. Qui una definizione per diffe-renza è però inevitabile: in pratica, possiamo dire che

(«noialtri», come si dice colloquialmente) siamo e che quindi ci riconosciamo fra noi come affini, pro-

prio perché riteniamo che altre persone abbiano carat- teristiche diverse. In parte, del resto, si tratta di un te-ma logico: se diciamo che in famiglia abbiamo le mani grandi è solo perché identifichiamo famiglie con le ma-ni piccole. Ma è per motivi assai più complessi che ab-biamo bisogno di un gruppo, o di una collettività omo- genea e non troppo vasta, che ci protegga e ci dia forza di identità: questa esigenza comporta pur sempre il se- gnare un confine, oltre il quale stanno le persone che non consideriamo del tutto simili. Verosimilmente, nes- suna predica moralistica e nessuna esortazione alla tol- leranza riusciranno mai a eliminare la presenza di que-sta dinamica psicologica.

Inoltre, il legittimo bisogno di costruire e difendere un sentimento di fierezza per la propria identità è in- scindibile dal bisogno di credere che gli altri, quelli di fuori, siano in qualche modo inferiori a noi, un po' me- no «giusti», un po' meno validi. Non necessariamente spregevoli fino in fondo, forse, ma inferiori certamente sì, e forse anche potenzialmente ostili: una qualche pre-

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disposizione alla belligeranza sembra connaturata al sentimento stesso dell'identità di gruppo.

Vi sono dunque motivi ben radicati se vediamo rie-mergere costantemente un fenomeno multiforme ma netto, quello che Tommaso Padoa-Schioppa ha chia-mato il «neo tribalismo etnico-culturale»19.

Eppure esiste oggi un fattore storico nuovo, che fonda impreviste ricchezze di dialogo e permette singolarissi-me capacità di intesa fra persone appartenenti a popoli e culture diverse. A controbilanciare la tendenza ricor- rente a chiudersi in raggruppamenti settari, localistici, o familistico-tribali, il mondo informatizzato della tar- da modernità propone un universalismo inedito, su cui Anthony Giddens ha scritto pagine di particolare chia-rezza20. Il nostro tempo, con la sua tecnologia, impone una rottura dei confini che separano le collettività tra-dizionali: e questo è certamente un bene oltre che una straordinaria novità storica. La globalizzazione implici- ta nelle comunicazioni istantanee e nella generalizza- zione delle regole dell'economia liberale esige che sia possibile dare fiducia a persone che non abbiamo mai visto e che vivono a migliaia di chilometri di distanza. È qualcosa che accade in varie circostanze: per esempio quando acquistiamo un biglietto, o un libro, o un disco, digitando cifre e lettere sul nostro computer; o quando eventualmente stabiliamo, per la stessa via, accordi commerciali impegnativi; oppure anche, più banalmen-te, quando partiamo per un viaggio aereo interconti-nentale, sicuri che piloti e tecnici siano persone istruite e affidabili anche se non sappiamo assolutamente nulla di loro e neppure quale ne sia la nazionalità o il colore

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l' accuracy

Il peso del passato

barbari

della pelle. Chiunque invii oggi un messaggio, via posta elettronica, a un qualsiasi ufficio di città lontanissime, di Helsinki o di Singapore, di Auckland o di Seattle, sa di poter contare su un tipo di attenzione e di collabora- zione che è più rapida e affidabile di quella che media- mente può attendersi bussando alla porta del vicino di casa. Come per i piloti e i tecnici del nostro aereo, noi possiamo ragionevolmente prevedere che troveremo lo stesso tipo di razionalità entrando nell'ospedale di qual- siasi paese moderno o componendo su qualche telefo- no un numero di codice, anche se in quel momento ci troviamo in mezzo alla savana: ai quattro punti cardinali esistono milioni di persone che condividono un lin-guaggio di base (e una lingua di base, l'inglese), che di- spongono di una serie di conoscenze tecniche, e che prendono sul serio il proprio lavoro dando ovunque lo stesso significato a parole come «scrupolosità» e «esat-

vello di istruzione, dove si sia più aperti alla cultura scientifica, e quando si sia stabilmente interiorizzata un'etica della responsabilità individuale, accade che queste «strategie della fiducia»22 fra persone apparte-nenti a continenti diversi riescano a funzionare così be-ne da prevalere sui solidarismi «tribali» tradizionali e sui sistemi localistici e clientelari. Le nuove forme della coo- perazione fra estranei sono rese possibili, da un lato, sul terreno oggettivo, dalle reti informatiche e dalla mon- dializzazione dei beni ad alta tecnologia, e da un altro la- to, sul terreno soggettivo e psicologico, da razionali ma semplicissime regole di lealtà e dalla presenza di parti- colari strutture di dialogo, o relazionali, concernenti le valutazioni di rischio e le aspettative di reciprocità.

che risale, come ha mostrato Bernard Williams, alla cul- tura dell'illuminismo21.

Gli aspetti formali di questo tipo di relazioni non sa- ranno sufficienti, beninteso, a saturare tutte le nostre esigenze di rapporti umani, ma possono costituire le premesse per dialoghi più personali: nulla esclude che nascano relazioni più calde con gruppi e singoli cre- sciuti in luoghi e contesti assai lontani da quelli della no-stra famiglia.

E però occorre insistere su un punto. Affinché vi sia-no buone possibilità di intesa in quel vasto ambito che denominiamo, non impropriamente, «il mondo civile», è necessario che vi sia un'adesione generalizzata (o al-meno maggioritaria) a condotte di coscienziosità e im-parzialità. Questo non accade ovunque, ma accade qua-si ovunque in modo crescente. Dove esista un buon li-

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Sarebbe un errore sottovalutare il peso dei localismi e settarismi che continuamente tendono a ripresentarsi. Alcune influenze ci giungono direttamente dal passa-to. Già guardando alla storia remota delle culture, e fi-no alla preistoria, notiamo che agli occhi degli appar- tenenti a comunità «primitive» (o meglio preletterate) gli stranieri, i non appartenenti al «noi» tribale, non sono neppure considerati esseri umani. Per i greci del-

una incompleta umanità, e tuttora il termine «barba- rie», correntemente usato sui giornali a proposito de- gli attacchi terroristici, contiene una connotazione an- tropologica sprezzante. Nei primi secoli dell'età mo- derna e fino a tutto l'Ottocento, l'espansione planeta- ria delle potenze europee non ebbe ritegno di far leva su una presunzione di radicale diversità nei confronti dei popoli non europei.

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tezza». Qui

si lega a uno «spirito di veridicità»

avevano la connotazione di l'età di Pericle, i

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L'etnocentrismo del periodo coloniale (1500-1800) ebbe peraltro caratteristiche particolari, che ci aiutano a capire alcuni problemi attuali. L'espansionismo del-l'Occidente trasse forza da un gruppo di religioni, quel-le cristiane, che insistevano sulla dipendenza da un'au-torità paterna e provvidenziale. Con la parziale eccezio-ne del periodo napoleonico, ciò che dalle nazioni colo- nizzatrici arrivava ai popoli sottomessi non era l'ideale della democrazia laica, né era il principio universale dei diritti dell'uomo, né tanto meno l'idea dell'autodeter- minazione delle genti. Il messaggio che veniva dalla me- tropoli non consisteva, né poteva consistere, in un mo- dello di eguaglianza antropologica planetaria, bensì in un principio del tutto opposto: venivano sottolineate le differenze etniche. Anche nel momento in cui si rivol- geva all'opinione pubblica europea, l'ideologia del co- lonialismo ebbe tutto l'interesse a descrivere le menta- lità dei popoli d'oltremare come estremamente distanti dal costume occidentale. Nell'Ottocento, una quota di romantica meraviglia colorava il modo in cui venivano dipinte le singolarità degli ottentotti, i poteri misteriosi dei fachiri indiani, l'apparente assuefazione delle masse cinesi ai supplizi più crudeli. L'idea di un'inferiorità on- tologica dei popoli lontani era inscindibile dalla con- vinzione che il mondo presentasse un caleidoscopio di mentalità altrettanto affascinanti quanto incredibilmen-te differenti fra loro. Nessun universalismo era possibi-le in quella logica.

Tuttora esistono tracce evidenti di quella imposta- zione. Ci si può chiedere quanto l'idea ottocentesca di una eterogeneità radicale non solo dei costumi, ma an- che delle menti, cioè dei modi di ragionare, sia persisti- ta in Occidente fino a tempi recenti, condizionando il modo in cui vengono correntemente immaginate le mo-

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tivazioni psicologiche dei popoli sottomessi. Tuttora, infatti, di fronte alle loro efferatezze e, come si suole di-re, ai loro atti di barbarie, sembra ovvio chiedersi quan-to distante dalla mentalità occidentale possa essere il lo-ro modo di pensare: un modo che riprendendo la paro- la greca noi chiamiamo appunto, con singolare facilità, barbaro. Forse, però, potremmo provare a esaminare il problema da una prospettiva del tutto diversa: ovvero potremmo chiederci — magari rimanendo nel dubbio, non è necessario rispondere subito di sì — se per caso an- che noi reagiremmo con la loro stessa disperazione, e magari con analoghe forme di terrorismo, qualora la no- stra terra venisse invasa e la nostra vita quotidiana umi- liata da forze straniere tecnologicamente superiori e do-tate di risorse apparentemente illimitate.

Dopo la fine del periodo coloniale, e in pratica do-po la seconda guerra mondiale, avvennero alcune revi- sioni di cui sono figlie le preoccupazioni di oggi. Nel Ventesimo secolo lo sviluppo del pensiero democratico, la crisi dei grandi imperi coloniali e lo studio etnografi- co delle culture preletterate furono tra i fattori che con- tribuirono a un'autocritica dell'arroganza occidentale. Apparve chiaro che l'etnocentrismo, oltre a essere di per sé una forma di incomprensione, è l'anticamera del- l'intolleranza; il nazismo dimostrò di essere l'esacerba- zione, mostruosa ma coerente, di un'insensibilità etnica di cui tutto l'Occidente era stato colpevole. La crisi del- la presunzione europeistica, già affacciatasi nella prima metà del secolo e poi vivacemente sentita negli anni del- la decolonizzazione (i due decenni Cinquanta-Sessan- ta), si è trovata in tempi recenti a riemergere con dram- maticità. Sono sotto gli occhi di tutti i motivi per cui la battaglia contro i pregiudizi etnici è un tema scottante. Nuovi flussi migratori verso í paesi ricchi e l'emergere

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Un multiculturalismo con la coscienza sporca

di grandi conflitti nazionalistici e religiosi rischiano di esacerbare i pregiudizi già esistenti.

In questa situazione, l'orientamento dei relativisti sedu- ce per la semplicità del suo messaggio. Il tema è noto, come sono ben note le polemiche che trascina. Con qualche ingenuità, molte persone credono che se un bel giorno venisse abbandonata ogni presunzione di supe-riorità occidentale, e se quindi non si giudicassero in al-cun modo gli immigrati accettando di accoglierli in tut- ta Europa così come sono, con le loro religioni e i loro costumi, molti problemi verrebbero risolti. È giusto so- spettare, però, che il quadro di questo idillio non sia realistico: i progetti di integrazione delle minoranze hanno ovviamente un senso, ma la prospettiva di una comunità multiculturale ne ha molto meno. Qui non è solo questione della convivenza di mentalità e di costu- mi, temi cari ai relativisti, perché esistono anche gruppi portatori di programmi esplicitamente illiberali e antie- gualitari: in sintesi, il problema potrebbe essere più po- litico che etnico. Fa riflettere ancora oggi quanto è ac-caduto in Germania nel 1932 e in Algeria nel 1991, do- ve elezioni democratiche furono vinte da partiti perfet-tamente legali — i nazisti nel primo caso, i fondamenta- listi islamici nel secondo — che nel nome di un pro-gramma totalitario si proponevano di abolire, e per sempre, ogni ordinamento democratico. (In Algeria il risultato delle elezioni venne annullato dal governo: una scelta discussa ma coraggiosa, basata sulla considera- zione che non vi è nulla di democratico nell'accettare che approfittino del gioco della democrazia coloro che intendono cancellarla.)

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Non tutti i progetti sociali possono coesistere con fa- cilità: o perché alcuni di essi non intendono affatto coe- sistere con gli altri e hanno pretese totalitarie, come nei due casi appena visti, oppure perché esistono orienta- menti ideologici che ostacolano in maniere meno dra- stiche, e tuttavia significative, la circolazione delle idee. Importanti problemi nascono dal fatto che siamo co- stretti a cooperare con persone che non attribuiscono a tutti gli esseri umani la stessa dignità: nel vasto mondo non mancano, come tutti sanno, i progetti orientati a negare l'egualitarismo universalistico che fonda, invece, le società laiche. Per esempio, appartengono non a una sola ma a varie religioni coloro che negano la piena eguaglianza dei diritti delle donne affidando loro ruoli subordinati, negano dignità agli omosessuali, si battono affinché la mente dei bambini venga plasmata da parti- colari credenze teologiche fin dall'inizio della scuola materna, e denigrano i non credenti riuscendo a far cre- dere che si tratta dí persone poco morali. Fanno parte di questa stessa ottica discriminatrice i programmi inte- gralisti che negano la necessità di una chiara separazio- ne fra vita civile e vita religiosa e impongono particola- ri principi di teologia morale all'interno della sfera pub- blica, per esempio nella ricerca scientifica, o all'interno della sfera privata, per esempio nelle abitudini sessuali.

Queste forme di anti-egualitarismo tradizionalistico e di integralismo religioso, presenti sia all'interno del- l'area occidentale — sono ben visibili in Italia — sia al suo esterno, non sono soltanto fonte di immediate ingiusti- zie, ma conducono anche a forme di chiusura mentale. Non deve stupire se le troviamo correntemente associa- te a programmi politici miopi, incapaci di dare pieno sviluppo sia alla democrazia sia alle risorse umane. Al- cune fra le maggiori difficoltà che i paesi occidentali de-

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vono oggi affrontare non nascono dalle idee dei nuovi immigrati non cristiani ma dalla persistenza, all'interno delle popolazioni di tradizione cristiana, di pervasive ideologie e pregiudizi, di paraocchi e di ristrettezze psi-cologiche: ed è percepibile una certa omogeneità di at-teggiamento fra le tendenze che si oppongono in que- sto modo a un pieno sviluppo della democrazia. Così persistono, e proprio in casa nostra, atteggiamenti di so- spetto nei confronti di cifre e grafici, mentalità famili-stiche e clientelari legate a tradizioni provinciali, diffu-si pregiudizi antimeritocratici, e — soprattutto — una più generale tendenza a mescolare in modo confusivo gli obblighi imposti da determinate religioni con le più neutrali disposizioni di legge atte a disciplinare la con-vivenza fra le persone.

Vi è un aspetto di urgenza in questa problematica. I prossimi sviluppi della biologia e della genetica impor- ranno tempestive regolamentazioni mediante leggi sen- sibili alle nuove possibilità di ricerca e di cura; lo svi-luppo dell'elettronica creerà nuove richieste di traspa-renza, ma anche nuove delicate garanzie di riservatezza; in tutto il mondo occidentale i padri e le madri senza un partner chiederanno maggiore protezione sociale e le coppie omosessuali esigeranno con forza crescente un riconoscimento giuridico; si imporrà una più razionale valorizzazione dei talenti spontaneamente emergenti fra i giovani, sulla base della constatazione che ovunque esiste una sola materia prima che conti veramente: il cervello. Nei prossimi anni accadranno certamente molte cose, ma non tutte imprevedibili: saranno desti- nati al declino i paesi incapaci di fornire ai propri citta- dini una solida base di educazione scientifica, vi sarà ovunque un problema di lievitazione di alcuni costi, co- me quelli medico-chirurgici, e in tutta Europa dovremo

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fare i conti con dure necessità di contenimento di talu- ni flussi di immigrazione, in particolare per quanto ri- guarda i gruppi meno disposti ad assimilarsi nella cul-tura occidentale. Non sempre le pubbliche opinioni hanno una buona percezione delle prospettive e dei ri-schi: per esempio se è pur vero che gli attentati potran- no divenire devastanti, attualmente la probabilità stati- stica, per un qualsiasi abitante preso a caso dell'Occi-dente, di morire per un atto terroristico è molto infe-riore a quella di rimanere casualmente vittima di un in- cidente stradale. Al contrario, tutti gli epidemiologi ri-tengono che sarà piuttosto elevato il rischio di gravissi-me pandemie influenzali, come quella della Spagnola del 1918.

Il dialogo fra persone che condividono forme di in-telligenza laica è rapidamente destinato a essere uno strumento indispensabile per capire le trasformazioni in atto nel mondo; una politica orientata sulle previsio-ni sociali sta diventando vitale per la sopravvivenza del-le nazioni23. In questo ambito gli appelli moraleggianti serviranno a poco, e così pure l'attaccamento ai miti e riti dí singole chiese o di singole culture: il pretendere di conferire valore assoluto a tradizioni locali e nazio- nali renderà difficile capire cosa accade in un mondo che, nelle sue zone più prospere e più colte, si orienta ormai decisamente su istanze universalistiche.

Soprattutto se si definiscono come credenti, ma an- che se qualificano se stessi come laici, gli europei di orientamento relativistico, e sono numerosi, esortano a considerare con indulgenza i progetti di vita prove-nienti dai paesi extraeuropei (per esempio quelli isla-mici) anche nei casi in cui questi ultimi appaiono scar- samente tolleranti e discriminano in maniera pesante sia

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nostre

in ogni caso

altrui proprie.

Il relativismo culturale alla prova dei fatti

Le illusio-ni del postmodernismo,

le donne, sia gli omosessuali, sia i non credenti. Ma è una indulgenza che maschera una complicità. Analoghe chiusure mentali ci provengono dalle tradizioni: in alcune zone dell'Occidente — l'Italia fa testo — so-pravvivono atteggiamenti angusti. Anche da noi, infat-ti, vi sono chiese che condannano le minoranze sessua-li e impongono arcaiche definizioni della vita morale. Analogamente, sul piano del costume può accadere che gli atti (esibiti) di devozione siano accettati come una solida prova delle qualità personali, e che le testimo-nianze dei miracoli vengano date per buone su tutti i te- legiornali. Di fatto, in Europa e in America vi sono zo- ne geografiche nelle quali i non credenti se la sentono di esprimere le loro idee solo mettendo le mani avanti con mille cautele. Nuove strane solidarietà percorrono il mondo: gli apparati ecclesiastici delle varie confessio-ni si preoccupano meno di discutere di teologia che di squalificare i loro nemici comuni, i razionalisti e gli atei. I sacerdoti, da sempre competenti in formule ireniche, oggi fanno leva sulla moda del multiculturalismo per in-vitare i popoli a rispettare le religioni. Ma è legittimo sospettare che attraverso l'accettazione aprio-ristica di tutte le credenze passi il progetto di ren-dere inattaccabili le

Queste persone, dunque, palesemente si prodigano, raccomandando la tolleranza verso le diversità: ma sem- bra che abbiano una certa difficoltà a liberarsi di un at-teggiamento paternalistico. Compiono infatti una dop-pia operazione: prima trasformano le differenze fra per- sone e popoli in uno zoo di costumi, accentuando più del giusto le diversità antropologiche; poi vorrebbero sostenere che tutte le diversità hanno uguale valore agli occhi di chi, come loro, si colloca in una posizione di religiosa benignità. L'esibizione pubblica della propria

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tolleranza verso le idee degli altri è allora funzionale al- la creazione di una immagine idealizzata del proprio ca- risma caritativo: accade, insomma, qualcosa di simile a quando il mettere in piazza la propria fragilità serve a nascondere l'ostinazione di una politica autocratica. In questo modo il relativismo culturale, legandosi a idee di fede e di tolleranza, passa sotto silenzio la presenza di programmi antidemocratici anche se questi ultimi sono — in realtà — l'unico problema importante: sia i pro-grammi altrui, ovviamente, sia anche i propri.

In conclusione, il multiculturalismo relativista con-cede ampio spazio alla crescita dei settarismi. Parados- salmente, esso incoraggia e giustifica l'anti-relativismo dei fanatici e dei dogmatici dí tutte le religioni. Questo non ci dovrebbe meravigliare: le più accese convinzioni di fede hanno in comune con il relativismo l'appello al-la soggettività e il disprezzo per la realtà empirica.

E dunque, il pluralismo delle posizioni è un bene pre- zioso, però il culto indiscriminato delle pluralità ha odore di qualunquismo. Purtroppo il relativismo si tro- va a giustificare, magari contro le proprie migliori in- tenzioni, chiusure e fanatismi. In questa stessa logica, l'idea di tolleranza è alibi alla mancata denuncia degli assolutismi. Come ricorda Terry Eagleton in

in questo campo «l'opinione che la pluralità sia di per sé un bene è vuotamente for- malistica e di una astoricità allarmante»24. Ma si posso-no identificare subito altri due limiti del relativismo cul-turale.

Il primo limite è metodologico, ed era stato già chia-rito vari decenni or sono sia da Roger Caillois, sia da Er-

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real-mente

nesto De Martino con la sua idea di «etnocentrismo cri-tico» (ne abbiamo visto alcuni aspetti nel primo capito- lo). Il quesito è semplice: possiamo noi spogliarci della nostra identità di europei, di persone cresciute in un certo ambiente, con certi valori, con una cultura, nel momento in cui ci troviamo — per esempio — in un vil- laggio tropicale lontano da aeroporti e strade asfaltate? Non sarebbe forse un atteggiamento velleitario, falso, e perfino ipocrita se in quell'occasione cercassimo di spo- gliarci della nostra identità culturale? Sarebbe invece più onesto se, anziché pretendere di mimetizzarci o di renderci neutrali, cosa impossibile, noi ci presentassimo per quello che siamo: più ancora, sarebbe importante che in ogni nostro atto noi sapessimo quello che

siamo. Nel male, ovviamente, date tutte le pro-tervie di privilegiati cittadini della metropoli, quali noi resteremo in ogni caso; ma anche nel bene, poiché un qualche vantaggio ci può derivare dall'essere beneficia- ri di un'eredità culturale particolarmente ricca. E così, nel nostro tentativo di capire il meglio possibile, e col massimo rispetto, un qualsiasi paese con le sue tradizio- ni, sarebbe assurdo rinunciare a utilizzare gli strumenti che la nostra civiltà ha messo a nostra disposizione: a co- minciare dalle statistiche finanziarie e demografiche e dalle foto dei satelliti, per arrivare ai minuti dati di ar- chivio, ai libri correnti di storia e di geografia, alle os-servazioni degli etnologi che ci hanno preceduti, e ma-gari anche agli strumenti della psicologia occidentale.

Si può dire qualcosa di più: questo bagaglio di no- zioni e idee ci regala non solo gli strumenti per operare, ma anche quelli per riflettere sulle nostre stesse azioni. La modernità è dentro di noi con i suoi spunti critici e autocritici, tanto che non si vede come sia possibile spo- gliarsi della sua eredità, della sua matrice storico-cultu-

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rale. Come ci ricorda Danno Zolo, «è la stessa nozione di modernità ad avere profonde radici nella tradizione filosofico-politica ed etica occidentale: essa è impensa- bile senza un riferimento alla tradizione liberale, al suo individualismo, al razionalismo etico della sua antropo- logia, alla sua idea di progresso, e, non ultimo, al suo agnosticismo religioso»25.

Il secondo limite riguarda qualcosa di più specifico, il relativismo etico. Il concetto di relativismo etico con- cerne l'ipotesi che non vi sia nulla di universale nei prin-cipi della morale. Ciò che è vietato in una cultura, si sug-gerisce, potrebbe essere raccomandato in un'altra. Pe-raltro, questa ipotesi è, di fatto, discutibile e forse inso-stenibile; ma esiste un problema preliminare, che con- cerne il valore che ciascuno di noi intende dare ai più elementari principi che ci guidano nella vita quotidiana.

Ognuno di noi possiede non soltanto idee e nozioni ma ha anche introiettato certi valori morali: ebbene, è possibile relativizzarli? È possibile metterli in discus- sione? Alcune volte questo è relativamente facile, altre volte più difficile. Per esempio, possiamo dare valore al- la monogamia ma non ci è troppo difficile accettare che in alcune culture sia ammessa la poligamia; possiamo essere contro la pena di morte ma prendiamo atto, sia pure a malincuore, che in molti paesi le sia favorevole la schiacciante maggioranza della popolazione; e così via. Non ci è difficile concludere, in casi come questi, che ogni tradizione ha í propri equilibri• non ce la senti- remmo di salire in cattedra con una bacchetta in mano per invitare gli altri ad adeguarsi alle nostre idee.

Altre volte, invece, è più arduo porsi altrettanto se-renamente in una prospettiva relativistica. Questo vale, per esempio, quando si prenda in esame la condizione femminile. Se ci informiamo per capire in cosa consiste

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Human Development Reports

in più

società-Gemeinschaft,

la mutilazione genitale, ritualmente imposta a tutte le bambine in alcune zone dell'Africa, e ci documentiamo sulle sue gravi conseguenze in termini di salute fisica, e talora perfino di sopravvivenza, qualcosa si ribella in noi. Ma la mutilazione genitale è solo un tema saliente fra i tanti: la violenza sulle donne è un problema enor-memente più vasto. Secondo gli

pubblicati dalle Nazioni Unite, ogni anno circa quattro milioni di donne e bambine, appartenenti qua- si esclusivamente al mondo non occidentale, sono to- talmente private della libertà e dei loro più elementari diritti: o per motivi di schiavitù domestica, o per nozze forzate, o perché costrette alla prostituzione. Ora, que- sto problema non può essere facilmente assimilato ad altri, per esempio a quello della malnutrizione infantile: se i genitori sono poverissimi, è probabile che neanche i loro figli mangino abbastanza. Invece l'oppressione della donna, con i suoi sorprendenti e molteplici aspet- ti sadici, ha caratteristiche tali per cui ci si presenta, per così dire, come un di violenza nel costume quoti-diano: potremmo dire che è il prodotto «puro» di cul-ture arretrate.

E allora, se accettiamo di dare peso alle convinzioni che sono parte integrante della nostra stessa sensibilità morale, non possiamo che riflettere su ciò che ci muo-ve nella nostra passione per le cose del mondo: e cioè l'adesione a un insieme di valori che per noi è inscindi-bile dalla storia dell'Occidente.

Ma fin qui la nostra argomentazione rimane ancora fragile. Il fatto è che alcuni valori non sono neppure oc- cidentali, sono universali. Nessun adulto, in nessuna parte del mondo, neanche la più sperduta, preferisce le carestie alla possibilità di costituire riserve di cibo, le malattie alla salute, una breve vita di stenti alla longe-

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vità, e neppure l'analfabetismo dei figli alla possibilità di mandarli a scuola. Alcuni modi di vita e alcune tra- dizioni sembrano più capaci di garantire gli scopi di so- pravvivenza, sicurezza ed elementare benessere che gli abitanti di ogni angolo della terra spontaneamente de- siderano per sé e per i propri figli; altre strutture socia-li sembrano dare meno garanzie.

E soprattutto a proposito delle zone geografiche più distanti dalla modernità che la retorica relativista espri- me le sue posizioni meno sostenibili. Contrariamente a ciò che predicano miti duri a morire, le culture prelet- terate non sono affatto contraddistinte da un rapporto armonico con la natura, e meno che mai dalla serenità del vivere: al contrario, le risorse naturali vi sono sfrut-tate peggio di quanto sarebbe possibile pur con gli stru-menti locali, e una vita breve e brutale è dominata dal-le malattie, dalla sottonutrizione, dalla mancanza di informazioni elementari. Non è sempre questione di culture diverse: è impossibile non chiedersi se le cultu-re più lontane dal benessere occidentale non siano, an-zitutto, culture oppresse.

Il vecchio discorso marxista, per quanto fosse erra-to nelle sue ipotesi strategiche, coglieva una verità. L'a- nalisi di classe era un buon antidoto contro la melassa delle buone intenzioni, contro le retoriche romantiche

piaceva molto ai nazisti), contro i tradizionali appelli dei conservatori alle armonie solidaristiche. Si occupava, infatti, di rapporti di potere. Se anche oggi noi volessi- mo riferirci, non irragionevolmente, alle analisi sulle differenze di potere all'interno di un qualsiasi tessuto sociale, avremmo un motivo in più per diffidare dell'i- potesi che la miseria di certe popolazioni, per esempio dell'Africa subsahariana, sia dovuta a remote colpe co-

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che della socialità comunitaria (la

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culturali di cultura

Perché non possiamo non dirci occidentali

loniali e al persistere di culture ancestrali. Si scopre in- vece che la loro condizione è legata, tra gli altri fattori, a un problema banale ma non trascurabile: in quei pae- si hanno accesso ai vertici dello Stato individui che rap- presentano interessi ai margini della legalità e a cui non importa nulla del progresso del paese. Anche queste, in-fatti, sono brutali questioni di rapporti di potere.

Ora, il potere è anche mentale, e l'oppressione dei potenti può arrivare molto lontano, fino all'interno del- la mente degli ultimi diseredati. Si può supporre, per esempio, che gli strumenti cognitivi propri delle popo- lazioni devastate dalla povertà non sarebbero molto di- versi dai nostri se le condizioni di vita fossero più favo-revoli ed esistessero scuole decenti. Non avere mai avu- to un'alimentazione adeguata, esser stati privati del di-ritto di imparare a leggere, disporre di limitatissime co-noscenze sul reale, credere nella presenza pervasiva del-la magia, sono fattori che possono lasciare, verosimil- mente, un'impronta negativa sulle risorse mentali con cui vengono affrontati problemi urgenti perfino nelle comunità più sperdute, come la difesa dalla malaria e dall'Aids, la gestione dei diritti di irrigazione dei campi o l'elezione dei capi-villaggio.

Ma anche al di fuori dell'area delle comunità prelet-terate, o «primitive», sembra lecito osservare che le dif-ferenze fra popoli e nazioni possono compren-dere importanti dislivelli nel senso del livello di istruzione. Chi ha viaggiato in paesi come la Malesia e l'Indonesia, dove vivono minoranze cinesi, non può non avere osservato la straordinaria cura che esse rivol- gono all'educazione dei bambini e dei giovani, e l'otti-mo livello di istruzione degli adulti: cosa che certamen-te contribuisce alla prosperità e all'ascesa sociale di quelle comunità, peraltro discriminate dalle leggi degli

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Stati che le ospitano e spesso addirittura perseguitate. E così, analogamente, qualsiasi viaggiatore curioso e per- fino i giornalisti che condannano le terribili durezze im- poste dai governi israeliani nei territori occupati non possono che essere colpiti dal livello di istruzione di quel paese, dall'eccellenza dell'insegnamento universi- tario, dagli istituti di ricerca di livello mondiale, dalla passione diffusa per l'arte, il teatro, la musica e i libri: mentre per converso, con tutta la simpatia che possono suscitare i paesi arabi, è necessario dire con franchezza che essi sono, al confronto, un deserto culturale.

Non solo lo sviluppo delle singole nazioni, ma anche gran parte della possibilità che popoli diversi convivano dipenderanno nel prossimo futuro da fattori (quantitati- vi) di livello di istruzione altrettanto e forse più netta- mente che da fattori (qualitativi) di tradizioni e di costu- mi. Il livello di istruzione, però, dipende dalle differenze qualitative delle tradizioni culturali? Non interamente, è ovvio. Molte cose dipendono, per esemplo, dagli atteg- giamenti dei governi. Lo possiamo constatare, oltre che nel modo più evidente esaminando la politica scolastica in Italia, anche in altre parti del mondo. Particolarmen- te nelle zone dominate dalla miseria e dalla corruzione può accadere che il persistere dell'analfabetismo abbia responsabili identificabili per nome e cognome.

Tutte queste considerazioni conducono a un'unica conclusione: alla prova della realtà, si scopre che la teo-ria relativista dell'equivalenza fra le culture non ha il mi-nimo fondamento.

È evidente, in sintesi, che i principi del relativismo cul- turale devono essere rivisti. Eppure essi vengono talora

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status quo è

invocati per difendere, almeno a parole, le nazioni più deboli. Viene dato per scontato che il relativismo, co- me orientamento di massima, favorisca il rispetto per l'autonomia dei popoli e dei governi; in pratica si pen-sa ingenuamente che, traducendosi nella formula ri- spettosa «ogni paese è valido per sé» l'ottica relativista risponda a un principio di non intervento. Così, per una opposta simmetria, si dà talora per scontato che il voler sostenere la supremazia di una data cultura, come quella occidentale, sospinga i rappresentanti di que- st'ultima a prevaricare, magari con le armi, sui diritti degli altri popoli.

Sono teoremi; ma se si osserva quello che accade è facile constatare che le cose non vanno esattamente in questo modo.

Nel corso del Ventesimo secolo, ogni volta che si trattava di giustificare il mantenimento di situazioni di esclusione e oppressione il relativismo culturale è stato utilizzato più di ogni altra ideologia. Da molti decenni ormai, neppure il più retrivo difensore della tradizione colonialista sostiene che i popoli subordinati debbano abbandonare le loro tradizioni religiose e i loro costumi per abbracciare quelli dell'Occidente: al contrario, la

lativista, secondo la quale ogni cultura della terra so-pravvive nel modo migliore quando rimane fedele alle proprie tradizioni. Questo è, ovviamente, un invito al- l'immobilità. Ma ciò che non sempre viene percepito è che se una cultura rimane fedele a tradizioni retrive, è sempre nell'interesse dei più forti. Gli esempi potreb-bero essere numerosi.

E qui il lettore perdonerà chi scrive se si lascerà an-dare a qualche piccola esasperazione polemica. La mo- narchia saudita discrimina le donne fino al punto di

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proibire loro di guidare l'automobile, pratica la decapi- tazione in pubblico e ignora i più elementari principi della democrazia? Affar loro, si dice: è la loro cultura tradizionale, che come tutte le culture tradizionali va ri- spettata, e in ogni caso si sa bene che essa non ha nulla a che fare con la contabilità dei petrodollari, a cui pen- sa la famiglia reale. In una zona delle Ande il denaro e il potere sono in mano ai bianchi, e gli indios sono in mi- seria? Questo accade, si dice, perché la cultura india ha le sue particolarità, fra cui quella di essere poco incline alle iniziative commerciali. Alcune tribù di nativi nor-damericani svendono agli speculatori le loro risorse bo- schive e minerarie? Non è il caso di intervenire, perché si rischierebbe di limitare ulteriormente le autonomie tribali. In India esistono tradizioni di fede che giustifi- cano crudelissime discriminazioni di casta e umiliano le donne? Le religioni vanno rispettate perché riguardano la sfera spirituale. E quest'ultimo principio viene fatto valere anche quando si tratta di salvaguardare il potere stesso delle grandi istituzioni ecclesiastiche: il principio «le religioni riguardano un ambito superiore, quindi non vanno toccate» è correntemente dato per buono in Italia quando la Chiesa cattolica fa approvare leggi del- lo Stato che discriminano le coppie omosessuali, proi- biscono a tutti gli studiosi (anche non cattolici) di dedi- carsi a importanti settori della ricerca biologica, e limi- tano l'accesso dei cittadini alle terapie oggi disponibili contro la sterilità e le malattie genetiche.

L'atteggiamento del relativismo culturale porta a co- stituire aree culturali protette, a tutelare ambiti ideolo- gici che non possano venir messi in discussione. Questa sembra essere la premessa ideale per abbandonare a se stesse le sacche di arretratezza. Il relativismo, infatti, non implica l'integrazione ma la separazione, di cui è si-

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quella re-teoria invocata per giustificare lo

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apartheid:

dell'apartheid.

born again

ve, è che ognuno rimanga al suo posto. Nel Sud Africa al tempo della discriminazione istituzionalizzata contro gli africani di pelle nera, le teorie degli antropologi cul- turalisti vennero correntemente utilizzate per giustifica-re la politica segregazionista del governo e le carenze della politica sanitaria nelle zone indigene. A qualcuno sembrava perfino democratico che, nel nome del ri- spetto per le tradizioni «diverse», i sudafricani non bianchi, pur lavorando in fabbrica e in miniera, una vol-ta tornati a casa se la cavassero con le risorse degli an-tenati.

Tuttora la tendenza a radicalizzare le differenze fra le culture si rivela funzionale ad alcuni progetti politici. Se poniamo attenzione alla propaganda dell'estrema destra xenofoba, centrata sul tema della supremazia bianca e religiosamente attaccata ai valori della tradi- zione, ci colpisce la coerenza di quella linea: i gruppi xe- nofobi non desiderano nessuna commistione etnica, nessun contatto fra le culture, nessuna interferenza fra mentalità che, essi ritengono, sono troppo diverse per poter convivere. L'estrema destra, insomma, è coerente nel trarre tutte le conclusioni dal relativismo culturale.

In una prospettiva opposta, non è difficile vedere co-me un orientamento anti-relativistico, ben saldo nella consapevolezza del carattere universale dei principi del- la democrazia, possa avere le carte in regole per preme-re con mezzi legittimi e pacifici sui governi autoritari di certi paesi al fine di invitarli al rispetto dei diritti uma- ni. Oggi è soprattutto l'Unione Europea a essere consa- pevole di questa responsabilità, attraverso una politica di aiuti e prestiti, ma si deve ricordare che proprio le vi- cende del Sud Africa sono state l'esempio migliore di come la coalizione di tutti i paesi occidentali, premen-

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do nel nome dell'egualitarismo e dei diritti dell'uomo su quella grande nazione mediante una politica di interdi- zioni commerciali, sia stata determinante nell'estingue-re, nel 1990, la politica razzista

È inoltre significativo che il più importante evento di politica imperiale degli ultimi decenni, cioè l'invasione dell'Iraq del 2003-4, non sia nato da teorie né universa-listiche né ami-relativistiche, né tanto meno dalla tradi-zione del pensiero laico. Ben diversamente, questa tra-gica avventura bellica è avvenuta per iniziativa e volontà di un presidente degli Statí Uniti portatore di precise convinzioni di fede: George W. Bush è sicuro che il suo paese sia stato incaricato di una missione divina, di- sprezza gli organismi che promuovono iniziative inter- nazionali, ignora i principi di separazione fra il governo e le credenze religiose su cui si basa la sua stessa Costi- tuzione, ritiene sia bene abbondare nell'uso della pena di morte, ed è un cristiano che trova natura-le sposare fra loro l'ideale della guerra «giusta» con l'an-tica mistica della guerra santa. L'interpretazione, talora proposta in Europa, secondo cui gli aspetti più discuti- bili della politica estera statunitense sarebbero il pro- dotto estremo del razionalismo tecnico-scientifico e delle idee dell'illuminismo può essere difesa solo igno- rando la storia dell'Occidente e arrendendosi a una quota di banale paranoia antiamericana.

Varie considerazioni non irragionevoli, in conclusio-ne, ci spingono ad affermare qualcosa di rischioso, e cioè che i criteri etici con cui, in Occidente, osserviamo il mondo, non possono essere annullati da un relativi- smo che mette tutti i punti di vista sullo stesso piano. Di più: se affermiamo che ovunque il saper leggere è me- glio che l'essere analfabeti, che in qualsiasi paese della terra il liberalismo in economia e le forme della demo-

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nonimo il vocabolo l'idea, detta molto in bre-

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propria

crazia assicurano la difesa dalle carestie molto meglio di quanto lo facciano le dittature, e che in nessun angolo del nostro pianeta dovrebbe esistere il diritto di impor- re una fede religiosa maggioritaria come ispiratrice di leggi e sentenze, noi implicitamente prendiamo partito per una tradizione culturale ben precisa, che amiamo e riconosciamo come nostra. Abbiamo qualche buona ra- gione per riaffermare il valore della tradizione laica, progressista e razionale che si è sviluppata in alcuni pae- si dell'Occidente nel corso degli ultimi quattro secoli. Si tratta di un orientamento di idee che negli ultimi cento anni ha finito per coinvolgere, malgrado tragici errori, tutto il resto del pianeta e quindi non solo le terre lon- tane che conoscevano a stento l'esistenza delle ferrovie ma altresì una penisola, la nostra, che dal Seicento a tut- to l'Ottocento era stata appena lambita dagli sviluppi del pensiero della modernità e la cui popolazione era per 1'80% analfabeta ancora dopo l'Unità d'Italia26.

Capitolo 4 ASPETTI ETICI E POLITICI.

IL RELATIVISMO E IL CONSENSO DISINFORMATO

Chi ha avuto la pazienza di leggere i primi tre capitoli può capire perché esistano seri motivi per rimettere in discussione il modo corrente di presentarsi degli orien- tamenti relativistici. A guardar bene, infatti, l'edificio del relativismo non poggia su un atteggiamento di ri- spetto per le opinioni altrui: non vi troviamo il tradizio- nale «lasciate che crescano i cento fiori», né il tentativo virtuoso di contrastare il dogmatismo dei fanatici nel nome delle infinite sfaccettature della libertà di pensie- ro. Invece, a suo fondamento c'è qualcos'altro, che è più criticabile: il tentativo di non tenere conto dei fatti, di evadere dal realismo. Non sempre i relativisti sembrano rendersi conto di quali conseguenze comporti l'esaltare il significato delle opinioni svalutando quello delle co-noscenze, il credere molto nelle intenzioni e pochissi-mo nelle verifiche, il privilegiare l'immaginario e attac-care la razionalità. Quello che è certo, è che con singo- lare frequenza essi si trovano a rivendicare i diritti del-la soggettività. In questo modo si trovano, pa-radossalmente, a incoraggiare quei dogmatici che oggi si oppongono al relativismo non già nel nome della realtà tangibile, ma nel nome di soggettive convinzioni di fede.

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crazia assicurano la difesa dalle carestie molto meglio di quanto lo facciano le dittature, e che in nessun angolo del nostro pianeta dovrebbe esistere il diritto di impor-re una fede religiosa maggioritaria come ispiratrice di leggi e sentenze, noi implicitamente prendiamo partito per una tradizione culturale ben precisa, che amiamo e riconosciamo come nostra. Abbiamo qualche buona ra- gione per riaffermare il valore della tradizione laica, progressista e razionale che si è sviluppata in alcuni pae- si dell'Occidente nel corso degli ultimi quattro secoli. Si tratta di un orientamento di idee che negli ultimi cento anni ha finito per coinvolgere, malgrado tragici errori, tutto il resto del pianeta e quindi non solo le terre lon- tane che conoscevano a stento l'esistenza delle ferrovie ma altresì una penisola, la nostra, che dal Seicento a tut- to l'Ottocento era stata appena lambita dagli sviluppi del pensiero della modernità e la cui popolazione era per 1'80% analfabeta ancora dopo l'Unità d'Italia26.

Capitolo 4 ASPETTI ETICI E POLITICI.

IL RELATIVISMO E IL CONSENSO DISINFORMATO

Chi ha avuto la pazienza di leggere i primi tre capitoli può capire perché esistano seri motivi per rimettere in discussione il modo corrente di presentarsi degli orien- tamenti relativistici. A guardar bene, infatti, l'edificio del relativismo non poggia su un atteggiamento di ri- spetto per le opinioni altrui: non vi troviamo il tradizio- nale «lasciate che crescano i cento fiori», né il tentativo virtuoso di contrastare il dogmatismo dei fanatici nel nome delle infinite sfaccettature della libertà di pensie- ro. Invece, a suo fondamento c'è qualcos'altro, che è più criticabile: il tentativo di non tenere conto dei fatti, di evadere dal realismo. Non sempre i relativisti sembrano rendersi conto di quali conseguenze comporti l'esaltare il significato delle opinioni svalutando quello delle co-noscenze, il credere molto nelle intenzioni e pochissi- mo nelle verifiche, il privilegiare l'immaginario e attac-care la razionalità. Quello che è certo, è che con singo- lare frequenza essi si trovano a rivendicare i diritti del-la soggettività. In questo modo si trovano, pa-radossalmente, a incoraggiare quei dogmatici che oggi si oppongono al relativismo non già nel nome della realtà tangibile, ma nel nome di soggettive convinzioni di fede.

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I richiami etici del relativismo

Nella pratica, i difensori delle mille opinioni non so-no portatori di un messaggio di serenità: al contrario il loro modo di proporsi è spiccatamente polemico. Os-serviamo qualcosa di sprezzantemente liquidatorio nel-le loro battaglie contro la concretezza operativa, contro le conquiste scientifiche, contro l'idea di progresso. Il relativismo, infatti, è una ideologia che non ha al suo centro la parola «pluralismo», ma piuttosto la parola «soggettivismo». Nei suoi aspetti conoscitivi, è un'an- ti-epistemologia scettica di derivazione ermeneutica o- rientata a una critica radicale nei confronti del pensiero della modernità. Nei suoi aspetti di comportamento, è la richiesta di una illimitata libertà di azione.

A prima vista tutto sembrava tranquillo: il relativi-smo come paradiso dei punti di vista, come territorio fe- licemente anarchico delle molteplicità interpretative. Però non erano mai stati felici i rapporti con un territo- rio confinante, quello delle conoscenze. L'antipatia dei relativisti verso il mondo della ricerca si estende al ri- fiuto di capire gli argomenti degli economisti e dei de-mografi, così come si traduce in un'ostilità verso misu-re, modelli, e valutazioni di probabilità, per diventare poi un moto di vero fastidio quando il discorso concer- ne le indagini sulla natura umana e sulle motivazioni che spingono uomini e donne a pensare e ad agire.

Esistono motivi identificabili che spiegano quest'ul-timo atteggiamento, e si rifanno a vecchi problemi, al contrasto fra due storiche concezioni dell'intelletto che qui vale la pena di richiamare schematicamente.

La più importante di queste concezioni, poco com-patibile con il relativismo, nasce da Bacone e sostiene che la nostra mente è incline a commettere errori se vie- ne lasciata alla sua spontaneità, per cui le idee vanno di- sciplinate da verifiche sui fatti, e in sostanza dalle cau-

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tele del metodo scientifico. (Va osservato che Francis Bacon usa un linguaggio particolarmente incisivo: di- fende la necessità di «trascinare la mente verso terra», poiché, a costo di affrontare «inquietudine e confusio-ne», dice, occorre farla scendere dalle altezze della spe-culazione pura, cioè dalla «serena tranquillità della sag- gezza astratta»'.) In questa tradizione, che è quella del- l'empirismo, a partire da Bacone e Locke fino a John Stuart Mill, e da Darwin e Freud fino alla scienza dei nostri giorni, il realismo è tutto; la realtà materiale è fon-damento della conoscenza.

Qui l'atteggiamento che la coscienza umana sceglie di assumere verso il mondo naturale in generale — e ver- so i fenomeni biologici in particolare — consiste in uno sguardo indagatore, dissacrante e analitico, che si tra- duce in misure e manipolazioni.

La seconda concezione invece, omogenea al relativi- smo, è legata all'esaltazione dei diritti primari della mente e si riallaccia sia, per un lato, all'idealismo filoso- fico di Hegel e di Fichte sia, per altri versi, alle retori- che della spontaneità coltivate dall'ideologia romantica.

Qui l'atteggiamento che la coscienza umana sceglie di assumere verso il mondo naturale in generale — e ver- so i fenomeni biologici in particolare — consiste in uno sguardo contemplativo, sacralizzante e sintetico, che trasforma in entità le grandi astrazioni, come «la vita».

Ne derivano due opposte concezioni etiche, che rical-cano gli indirizzi delle divergenti filosofie.

Da un lato, dunque, esistono gli aspetti complessi di un'etica fondata sull'empirismo, dove si ritiene che i comportamenti, per quanto possano rispondere a indi-

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propria

rizzi generali, debbano essere regolati «dal basso», co- me direbbe Bacone, cioè debbano sottoporsi all'esame di realtà. (L'utilitarismo di Bentham, malgrado gli aspet- ti ingenui del suo oggettivismo, è un esempio di etica anti-relativista.) In quest'ottica i comportamenti sono valutati per ciò che concretamente producono: se, per esempio, producono miseria, sofferenza e morte sono comportamenti cattivi, indipendentemente dalla buona fede e dai nobili pensieri di chi li ha commessi. Ma i comportamenti possono anche essere fonte dí cono-scenza e di benessere, soprattutto se riescono a basarsi su forme intelligenti di cooperazione. E allora, quando si tratti di costruire una buona collaborazione sociale, l'appello più tipico suona come segue: noi abbiamo i nostri problemi e i problemi sono questi, mettiamoci in-sieme, aiutiamoci a risolverli.

Dal lato opposto esiste l'etica che fa perno sul sog-getto anziché sull'oggetto. Si parte dall'interiorità, e vi si rimane legati. Qui si raccomanda che i comporta- menti rispondano a istanze ideali ed esigenze spirituali: a intuizioni e sentimenti, ma anche a ispirazioni religio- se. Poiché non esiste etica senza generalizzazioni nor- mative il riferimento è alle tradizioni dei popoli, ai mi- ti, ai simboli, ai riti, magari alle leggende; ma anche alla voce delle emozioni e alle retoriche della spontaneità. Fra coloro che aderiscono a questo tipo di ideologia, i più istruiti sanno bene che l'orizzonte è immenso, pla- netario, e insistono sulla varietà delle culture e delle fe- di, pur raccomandando che ciascuno presti ascolto alla

fede; í più ignoranti sono invece ristretti, senza loro colpa, da un orizzonte limitato e si fanatizzano nei localismi. La molteplicità è garantita dall'idea stessa del relativismo, ma la tendenza di base è sempre uguale: si parte dai desideri invece che dalle necessità, dalle astra-

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zioni invece che dai dati concreti, dalle idee della tradi- zione invece che da quelle dell'innovazione. Si preferi- sce camminare guardando verso il cielo invece che do- ve si stanno mettendo i piedi, e questo permette da un lato un'infinità di divagazioni e deviazioni, e da un altro lato l'inseguimento di sicurezze metafisiche. L'appello che ne nasce è chiaro quanto l'altro, visto poco più so-pra, ma di segno opposto e suona come segue: noi te-niamo molto ai nostri principi e i principi sono questi, mettiamoci insieme, aiutiamoci a esprimerli.

Ogni volta che, come accade ai relativisti, non si cre-da nella forza dei fatti e meno che mai nel valore delle verifiche, l'unico fondamento possibile per il costituir- si di un'etica è fornito dal secondo tipo di appelli. Co-me abbiamo visto in un altro capitolo, la logica dei re- lativisti conduce al moralismo delle intenzioni, e non vi può trovare spazio l'etica delle responsabilità.

I relativisti, dunque, assumono — paradossalmente - una posizione assoluta: rifiutano inchieste e controlli. Rifiutano poi con particolare aggressività i laboratori dei neurobiologi e le indagini sui meccanismi delle scel- te: non amano che la natura umana sia vista in un'otti-ca materialista. Preferiscono una concezione privilegia-ta della persona, qualcosa che permetta loro di veleg- giare nel mare dei sentimenti nobili. Qui il buonismo esibito si vale di strumenti polemici lungamente collau-dati, che non appartengono solo all'armamentario tra- dizionale delle religioni ma attingono anche alla mora-le diffusa: i relativisti ripetono che il meccanicismo dei biologi è una bruttissima cosa e che bisognerebbe cre- dere in entità che, alquanto vagamente, sono chiamate i valori dello spirito. Dove mai rischia di finire l'uma- nità, ci dicono, se consideriamo gli uomini come scim-

1 2 1

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quali

prosociali.

virtuosi, viziosi,

mie evolute? Se fanatici scienziati si ostinano a studiare l'economia dei comportamenti allo stesso modo in cui studierebbero gli equilibri di un formicaio, non ci stan- no forse invitando ad abbandonare valori, ideali, aneli- ti di trascendimento? Possiamo noi rinunciare a crede-re nell'importanza di questa dimensione non ignobile dell'umano, che unisce l'etica alla cultura?

Procedendo sulla spinta di argomenti dí questo ge-nere è evidente che i relativisti si sentono vincitori: la lo-ro retorica è efficace, la loro immagine della natura umana è molto gratificante per tutti e, in più, la morale comune li aiuta. Avranno sempre il vento in poppa.

Eppure dovrebbe essere ovvio che nessuno sta ma-novrando per svilire quelli che sono, di fatto, gli aspet-ti migliori della disponibilità umana. Si può discutere finché si vuole sulla terminologia corrente (per esempio «i valori» non significa quasi nulla, sarebbe meglio chia-rire valori) ma non vi dovrebbero essere dubbi sul-la sostanza. E la sostanza è che le forme della socialità in generale, e in particolare quegli sviluppi della socia- lità che noi tutti abbiamo a cuore, non nascono soltan- to dal confluire degli egoismi individuali ma anche da motivazioni particolari, che possiamo benissimo chia-mare «nobili» senza dovercene vergognare, e che com-prendono categorie come l'altruismo, i sentimenti di so- lidarietà, e la disponibilità a sacrificare molte cose ma-teriali e perfino la propria vita per progetti ideali.

Se è vero, infatti, che le società di oggi sono tanto più prospere quanto più incoraggiano iniziativa individua- le e concorrenza, è altrettanto vero che non vi sarà né sviluppo né benessere se non sono sufficientemente dif- fusi, in tutta la popolazione, ben identificabili valori co-me la lealtà reciproca, il senso di responsabilità, l'amo-re per l'esattezza, il desiderio di progetti comuni. Il pro-

blema, dunque, non consiste nel credere o meno nella presenza di istanze di questo genere all'interno dell'a- nimo umano. Le esigenze che possiamo benissimo chia- mare «superiori» (come l'attitudine alla cooperazione e perfino all'altruismo) albergano in noi da molti e molti millenni, sono state da sempre utilizzate nel cammino dell'umanità e, benché sia merito della civiltà averle svi- luppate in modi particolari, derivano da potenzialità di cui tutti disponiamo fin da quando veniamo al mondo.

Ma tutte queste virtù — senso di responsabilità, de- dizione, e così via — non sono affatto semplici e, soprat-tutto, non scendono dal cielo ogni volta che siano invo-cate. Sono molto complesse e le loro componenti di ba- se sono eterogenee e non tutte evidenti. In ogni caso dobbiamo decidere se ci interessa soffermarci a stu- diarle con un po' di pazienza (e magari un po' di fatica) oppure se, al contrario, ci accontentiamo di genericità e di esortazioni. Per esempio, prendendo le mosse dall'i- potesi che amiamo e difendiamo l'altruismo, è probabi- le che il predicare «siate altruisti!» serva a poco o a nul- la. Ci serve qualcos'altro: dovremmo chiederci che co-sa favorisca abitualmente l'articolarsi dei moti più ge-nerosi del nostro animo, portandoci ai comportamenti altruistici, e cosa invece li ostacoli; ovvero, più asciutta- mente, quali siano gli ingredienti motivazionali da cui emergono quelli che, con un termine poco elegante, si

giusto che riflettiamo su cosa dobbiamo capire prelimi- narmente, se vogliamo che convincimenti e atteggia-

Per procedere su questa via è necessario studiare meto- dicamente la realtà fuori di noi e quella dentro di noi: in pratica, quindi, dobbiamo sapere come funzionano le motivazioni umane e le interazioni possibili fra gli indi-

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usa oggi chiamare comportamenti È quindi

menti e non si estendano nel mondo.

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La retorica del relativismo

at-titude merchants, platitude merchants,

vidui, e quindi valerci delle conoscenze scientifiche (og- gi assai articolate e interessanti) e degli strumenti di in- dagine (oggi assai sofisticati ed efficaci) forniti da bio- logi, psicologi, sociologi, e in misura crescente anche da economisti. Pretendere di farne a meno sarebbe come buttarsi in acqua senza saper nuotare, o voler conqui- stare un paese senza neppure saperlo trovare sulla car-ta geografica.

I relativisti, però, dal momento che non credono nel-la scienza, né nelle cautele di metodo e neppure nelle conoscenze empiriche generalizzabili, sono dí tutt'altro parere. Poiché vivono nell'universo delle convinzioni e non delle documentazioni, è giocoforza che ripongano fiducia in altre cose. Amano le parole d'ordine e le scor- ciatoie operative; si muovono in un mondo di denunce morali, di perorazioni, agitazioni polemiche, campagne di stampa, mobilitazioni degli animi, prediche, rimpro- veri, esortazioni e catastrofismi. È inevitabile che i loro argomenti profumino di virtù e si nutrano di indigna- zioni. E infatti, di virtù e indignazioni è intessuta la lo-ro etica.

In sintesi, è ben difficile che i relativisti producano da- ti e informazioni utili, e raramente riescono a proporre idee che ci aiutino a capire il mondo: piuttosto, insisto- no sull'importanza dei modi personali di atteggiarsi e prediligono le idee generali anche se queste non sono del tutto nuove. Ossia, per riprendere una battuta un po' cattiva di Walter Runciman, oscillano fra l'essere

mercanti di atteggiamenti, e l'essere mercanti di banalità2. Per la verità,

l'ideologia del relativismo non è l'unica responsabile del

i 2/I

modo vacuo con cui i problemi etici vengono corrente- mente affrontati sulla grande stampa e in una parte dei libri rivolti al pubblico. (Vi concorre, come è evidente, la furbizia dei demagoghi.) Esiste un abuso di termini moraleggianti e di dichiarazioni enfatiche come «noi crediamo nei valori», «l'uomo è il fine supremo», «nes- suna esperienza vera è più possibile nel mondo della tecnica», «la modernità uccide le prospettive spiritua- li», «difendiamo la vita!», «la morte è sacra» (o la na- scita, o la sofferenza umana, o la fede, ecc. ecc.). Espres- sioni così generiche da risultare prive di senso vengono prese come il punto di partenza per dissertazioni il cui rapporto con la realtà si perde del tutto.

Non vale la pena di soffermarsi sugli esempi peggio-ri, dei quali sono colpevoli i giornalisti. Prendiamo in- vece i migliori: ma anche qui ci renderemo conto, pur- troppo, che nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare con un tipo di esortatività che, se a prima vista può fare buona impressione, esaminata da vicino ha scarso significato. Esistono letterati, filosofi e sociologi né in-colti né stupidi che invocano una riforma degli atteg-giamenti e auspicano una sorta di conversione psicolo- gica, sostenendo — con un po' di presunzione, bisogna dire — che l'umanità intera avrebbe assoluta necessità di ascoltare il loro appello, proprio il loro appello, se vuo-le uscire dai guai in cui si sta cacciando.

Naturalmente si tratta sempre di appelli ostili alla scienza e al progresso tecnico. Per esempio, nell'ambi-to di un tipico articolo in cui un umanista italiano at-tacca la scienza (quivi liquidata con la dizione «il fon- damentalismo scientista») si leggono enunciati come il seguente: «È in questo quadro che dobbiamo pensare alla costruzione di una nuova moralità, integralmente umana, se posso esprimermi così, fuori da ogni mino-

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deconomicizzare

rità verso una 'natura' disciplinante, tutta al di fuori di noi. La natura è storia, e la storia siamo noi. C'è una ri- voluzione etica nel nostro futuro — una specie di rivolu- zione copernicana dell'io morale»3.

Che dire? In un certo senso sono belle dichiarazio-ni! (A parte la teoria di Copernico, naturalmente, il cui significato va in senso opposto alla logica di quell'arti-colo: ma forse si tratta di una svista.) La buona fede del-l'autore è evidente e noi ne prendiamo atto, per cui sia-mo in attesa di vedere come sarà la rivoluzione etica che ci promette: anche se non è proprio chiarissimo di cosa stia parlando.

Altre volte la perorazione è più radicale, e magari più comprensibile. Un intellettuale francese generalmente stimato, Serge Latouche, intervistato da un docente ita- liano di antropologia culturale, Marco Aime, esprime un parere sui mali del mondo e fa una proposta: occor-re riabilitare il dono, forse fino al punto da sostituire il dono al commercio. (Da domani, verrebbe subito da chiedersi, tutti buoni?) Analogamente ad altri che ap- partengono al suo stesso schieramento ideologico egli denuncia apertamente come nefaste e orribili sia la «ra- zionalità scientifica» sia la «logica mercantile». La sua opinione sui guai del mondo è drastica e si riassume in enunciati che hanno, per una volta, il pregio della chia- rezza, come per esempio questa frase: «Sia lo sviluppo, sia la globalizzazione sono 'macchine' per affamare i po- poli». Di qui la proposta di combattere contro lo svi- luppo inteso nel senso più generale: in sostanza, l'idea è che sia necessario opporsi alla produttività. Occorre una svolta di 180 gradi: bisogna tornare indietro. Ecco le sue parole: «Per salvare il pianeta e assicurare un fu- turo accettabile per i nostri figli, non bisogna soltanto moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente usci-

'n A

re dallo sviluppo e dall'economicismo, come bisogna uscire dall'agricoltura produttivista, che ne è parte in-tegrante, per smetterla con le mucche pazze e le aber-razioni transgeniche».

Così dice Latouche. Ebbene, in che modo arrivare a un simile traguardo? Non lavorando sulla realtà, a quanto pare, ma attraverso un'opera di bonifica inte- riore. E da svolgere come, concretamente? Qui il nostro intellettuale, dal momento che non ha alcuna fiducia nella razionalità né in alcuna forma di realismo operati-vo, non ha dubbi: occorre ricorrere all'immaginario. Ascoltiamolo. «Prima di tutto bisogna decolonizzare e

[sic, in corsivo nel testo] il nostro im-maginario. Questa è la parola d'ordine: il desiderio del-la gente è da sempre quello di stare bene, avere il ne-cessario, vivere in armonia con tutto il resto. Come far- lo? Per esempio riscoprendo l'importanza del dono. Il dono crea e rafforza i legami sociali, il commercio inve-ce li rende sterili e impersonali»4.

Possiamo permetterci il lusso di non soffermarci su questo genere di teorie. Prendiamo invece l'unico pun- to in cui il discorso di Latouche approda a un minimo di concretezza: «riscoprire» il dono. L'idea è seducente, e si presta a considerazioni che valgono anche per altre proposte di autori di varie nazionalità. Queste persone ci dicono come dobbiamo comportarci. Le loro propo- ste sono, come tutti sanno, numerosissime, ma per quanto diverse fra loro hanno sempre qualcosa in co- mune: l'appello preliminare a una sorta di conversione. Per esempio: bisogna riscoprire la sobrietà nella vita quotidiana ed evitare i lussi superflui, bisogna tornare alla terra, bisogna riabilitare l'autorità dei padri e la de- vozione di figli, bisogna inventare nuovi giochi del Do- do in cui tutti sono vincitori (v. il cap. 2, ma è uno scher-

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zo), bisogna prendere esempio dalla vita felice dei pig- mei cacciatori e raccoglitori, bisogna riportare in auge le posate di legno (piacevano a Heidegger), oppure bi- sogna praticare il politeismo perché i monoteismi sono stati la sciagura dell'Occidente. O anche, naturalmente, bisogna essere buoni e donare. E così via.

Esiste, come è ovvio, un problema di attendibilità teorica di tutte queste idee: magari sono belle proposte ma non è facile capire dove stiano i loro fondamenti. Al- cune, viene da osservare, sembrano veramente sciocche. Però un altro problema è più importante: sono propo- ste efficaci? Possiamo chiederci se il fatto di ripetere, a voce e per scritto, in interviste e in apparizioni televisi- ve, questo tipo di incitamenti (i tanti «bisogna») sortisca un effetto qualsiasi. Sembra lecito dubitare che questo modo dí auspicare svolte morali e nuove abitudini abbia qualche probabilità di produrre cambiamenti nelle per- sone e possa realmente indurre azioni che modificano la realtà sociale. Ci si domanda che cosa mai speri di otte- nere chi si accalora in perorazioni del genere, sempre troppo astratte, spesso imperscrutabilmente fumose, in ogni caso ben distanti dal poter avere un'incisività qual- siasi. È evidente che, finita la perorazione, tutto rimane esattamente come prima. (Lo scenario è sempre lo stes- so: il conferenziere raccoglie le sue carte, si alza, riceve i complimenti di varie persone, intasca la busta con l'o-norario, e si va a casa. Ognuno ha fatto la sua parte.)

Eppure un effetto esiste, e ben percepibile. Esorta- zioni e perorazioni non servono a nulla nel concreto, ma contribuiscono in modo potente a creare un clima cul-turale che si nutre proprio di questo. Guardando in cer- te ore la televisione abbiamo l'impressione di vivere in un universo fatto di intenti, bei pensieri, autopresenta-zioni virtuose, sdegni scarsamente articolati, indigna-

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zioni del tutto prive di capacità analitiche. Si tratta di un tessuto di discorsi che allontana dalla realtà e scoraggia le ricerche di qualsiasi tipo.

Va osservato, peraltro, che l'idea particolarissima di riabilitare il dono, propugnata da Latouche, sembre-rebbe meno generica delle altre. Vale la pena di occu-parsene brevemente, perché anche qui non è tutt'oro quel che riluce. A prima vista, tutto bene. Se una per- sona qualsiasi esprime questa sua convinzione ci sentia-mo trasportati in un clima amichevole. La vogliamo co-me amica, perché è un po' come se dicesse, magari con una sfumatura di candore, che d'ora in poi tutti devono farsi più spesso dei regali. In pratica, non andremmo

volentieri a cena con uno sconosciuto che per prima co-sa ci spiegasse che non crede affatto nelle virtù del do- nare ed è contrario a fare sorprese per gli onomastici e a dare balocchi ai bambini per Natale; al contrario, sia-mo catturati da chi porta scritto «donare è bello!» sul-la maglietta o sul bavero della giacca. In conclusione, chi dichiara che occorre riabilitare il dono può darsi che non lo faccia apposta, ma di certo è un eccellente pro- pagandista di se stesso. Si presenta bene, molto bene. Nella fattispecie, siamo quasi tentati di perdonarlo se poi dice un cumulo di sciocchezze. Forse è ciò a cui realmente puntava.

La retorica del donare si presta però a considerazio-ni più serie, le quali giungono a conclusioni che posso- no deludere la nostra fiducia nei buoni sentimenti. Il te- ma rimane opaco se ci si limita a ripetere che il dono è una bella cosa: è meglio esaminare la funzione del dono e del donare sia nelle comunità più semplici, sia nel no- stro mondo così fittamente intessuto di macchinosità urbane. Da quando, molti anni fa, Marcel Mauss scris- se un bel saggio sull'argomento, le nostre conoscenze si

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sono fatte più articolate. Tuttavia per capire dove sta il problema possiamo anche cominciare con l'esaminare empiricamente, caso per caso, in quali circostanze (a parte gli obblighi domestici inerenti a feste o com- pleanni) noi facciamo o riceviamo doni di qualche im- portanza. Allora è agevole constatare che i doni non so- no casuali traboccamenti di generosità ma sono orien-tati a varie finalità: a consolare una persona cara, quando la vediamo fragile e in difficoltà; e qui il dono, più che un bene, è un simbolo o un gesto: come il por-gere un fiore; a fare la pace se si è litigato, ed è que-sta la storia del grande mazzo di rose rosse alla fidanza-ta; a sdebitarsi, e quindi a liquidare pendenze mora-li, come quando mandiamo un libro antico all'amico dentista che ci ha ricevuti di domenica; ad abbellire e ingigantire la nostra stessa immagine di fronte agli al-tri e a creare nel beneficiato — poniamo, un uomo poli-tico — un sentimento di gratitudine e di obbligazione, per cui contiamo sul fatto che presto o tardi egli si do-vrà sdebitare nei nostri confronti.

Nelle società animali il donare oggetti e il fornire ser- vizi (come il pulire il pelo o procurare cibo) assolve a funzioni identificabili, perché vale a definire le gerar- chie, è utile a sedurre, e crea aspettative di reciprocità. La vita degli esseri umani risponde spesso a riti simili. Per esempio, nelle società preletterate il coprire di do- ni cospicui il capo di una tribù vicina serve a metterlo in una condizione di inferiorità psicologica, e se un pa- triarca fa un grosso dono a un giovane guerriero lo lega a sé, così come un regalo a una graziosa vergine le ren- de più difficile rifiutare í propri favori. Di fatto, il dono non è innocente neppure nella nostra vita quotidiana: se improvvisamente il marito regala un brillante alla mo- glie può anche essere che lo faccia perché non sa come

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altrimenti dirle che l'ama moltissimo, ma è più proba- bile che intenda rafforzare un legame coniugale che tra- balla, e può persino darsi che per qualche motivo egli abbia un po' di coscienza sporca e voglia rimettere le cose a posto, dato che ha i mezzi per farlo, con questo costoso espediente.

Dobbiamo allora considerare la pratica del dono co-me qualcosa di negativo? Nemmeno per sogno: così co-me accade per la divisione del lavoro e per il commer- cio, il dono svolge una sua funzione sociale. Ha la sua precisa nicchia comportamentale, e guai se non ci fos- se. Va aggiunto però che si tratta di una funzione che spesso è ambigua. La transazione commerciale, infatti, è più paritaria che non il dono e lascia tutti psicologica- mente più liberi. Per esempio, dopo aver concluso un affare importante con reciproca soddisfazione di fronte al notaio, se i due ipotetici contraenti vorranno donare il 2% del loro guadagno alle opere di carità per sentirsi moralmente più sereni, questa è, palesemente, un'altra questione; e così, analogamente, accantonato il loro bu-siness alla fine della giornata, liberissimamente e a cuor leggero, senza essere vincolati da obbligazioni di rico-noscenza o attese di restituzione, i due potranno passa-re la serata gratificandosi a vicenda con effusioni e ba- ci, ed è ovvio che lo faranno senza ombra di malintesi.

Un tema come l'elogio (retorico) del dono vale a il-lustrare una problematica più ampia. Le buone parole, oltre a servire a poco, travisano la natura dei fenomeni sociali. Che senso ha raccomandare — e lo fa Latouche — un tipo di società in cui la pratica virtuosa del dono si dovrà estendere a mano a mano, forse al punto da ren- dere marginale quella del commercio? Non ha nessun senso, e questa idea ci allontana drammaticamente dal- la comprensione degli eventi. Viene perfino da chieder-

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si se non ci sia di mezzo una semivolontaria presa in gi- ro nei confronti dei babbei: eppure è facile cascarci, e non sempre risulta evidente l'assurdità di discorsi del genere.

Siamo di nuovo al problema delle prediche, e qui è utile richiamarsi a un'ultima serie di osservazioni empi- riche. Nell'educazione dei bambini è normale che quan- do sono molto piccoli venga utilizzata la loro naturale propensione alla dicotomia «buono-cattivo» per inse- gnare in termini semplici e un po' manichei cosa fare e cosa non fare. Quando crescono, però, è giusto che si introducano le sfumature e li si aiuti a ragionare con la loro testa. Qui è ben noto l'errore dei genitori che pen-sano di basarsi su sermoni e pistolotti esortativi: se i fi-gli acquisiranno solide abitudini di comportamento mo- rale sarà per un motivo, e cioè perché avranno visto che in famiglia ci si comporta moralmente. In più, even-tualmente, avranno constatato che la moralità può esse-re perfino pagante. Se invece gli adulti predicano che le leggi vanno rispettate ma per primi non rispettano le leggi, i figli non avranno alcun dubbio su come regolar- si, e inoltre avranno imparato a cosa serve la doppiezza. Lo stesso vale per l'educazione degli adulti; gli psicolo- gi sociali insegnano che per far cambiare idea a un grup- po di persone i discorsi non servono a nulla ed è molto meglio farle pensare, parlare, agire, partecipare. Chi si occupa professionalmente di adolescenti difficili sa che le prediche creano solo irritazione: invece bisogna rim- boccarsi le maniche, stare con loro, partecipare ai loro problemi, magari esercitare la disciplina con durezza ma sempre dimostrando di essere giusti e imparziali. Sono loro stessi a chiedere queste cose, e hanno ragio- ne. Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Eppure, se ci guardiamo intorno ed estendiamo il

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nostro sguardo al di là di problemi ancora abbastanza semplici, come quello della gestione dei bambini, per prendere invece in esame la società intorno a noi con i suoi problemi di moralità e di devianza, e con i suoi rag- gruppamenti, movimenti e partiti, ci rendiamo conto del fatto che, accanto ad analisi concrete e a program-mi fattivi, è presente un modo vecchio e inefficace di af-frontare le questioni più scottanti.

Anche in campo economico e politico-sociale le esortazioni spicciole, come l'invito «riabilitate i doni e fatevi più regali» oppure «vivete sobriamente e limitate i consumi superflui» (due raccomandazioni, sia detto incidentalmente, incompatibili fra loro) non hanno mai cambiato granché le cose. Così, forse, neanche hanno cambiato le cose le esortazioni più magniloquenti. In compenso l'atmosfera generale creata da tutti questi di- scorsi esercita un influsso sul dibattito politico: inibisce le critiche e paralizza i controlli. In sostanza, può pesa-re negativamente sulla vita di una nazione sia l'eccesso di esortazioni moraleggianti sia ciò che è l'inevitabile complemento di questo eccesso, ovvero il difetto di analisi e l'assenza di programmi.

Non sono davvero cose nuove. Un atteggiamento in politica è sempre stato quello che sceglie la retorica, do- ve vengono utilizzate nobili vaghezze e ci si appella a grandi principi. Questo tentativo di convincimento de- gli animi non mira a far ragionare ma fa leva sulla per-suasione e chiede fiducia. Ama indignazioni e mobilita- zioni, motti, slogan, stemmi e bandiere, ed è incline a sottovalutare il senso critico delle masse e a sopravvalu- tare le capacità intellettuali dei grandi personaggi. (Quando non c'era la televisione, faceva anche affida- mento sulle adunate oceaniche.) Chiede a tutti volontà, impegno, aneliti prorompenti, e però manca di indiriz-

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nelle fra

Il consenso informato e i suoi insegnamenti

zi realistici. Soprattutto chiede consenso, e alla fine pre- tende ubbidienza. Fondamentalmente, si tratta di un at- teggiamento autoritario. Lo troviamo in quasi tutte le Chiese e in molti movimenti politici.

Un altro e opposto atteggiamento, invece, ha le ca- ratteristiche anti-relativistiche già delineate: è il modo di porsi di chi esamina con cura ciò che accade persone e le persone, ascoltando e interagendo, e non disdegnando di usare i metodi degli scienziati. An- che nella politica, è un modo di procedere che si basa sull'inchiesta, fa leva sul senso critico degli individui, valorizza le competenze. In primo luogo cerca di esa-minare i problemi da risolvere (per esempio la disoccu- pazione, una economia stagnante, la criminalità); poi elabora i propri programmi e li espone in modo com- prensibile; infine, chiede l'adesione di chi è d'accordo. E evidente che, questa volta, si tratta di un modo di pro- cedere non autoritario. Lo troviamo in una parte dei movimenti politici presenti nell'universo della moder- nità, e vi convergono gli indirizzi economici e gli equi- libri sociali di molti fra i paesi oggi più prosperi, dalla Svezia all'Australia, dall'Olanda alla California.

Ma l'evoluzione delle culture non è lineare. A osta- colare questa tendenza alla civiltà e alla concretezza, da un paio di decenni intervengono i relativisti. Come sem-pre, oltre a non amare la modernità fanno leva sull'ipo-tesi che tutte le conoscenze siano incerte e provvisorie. In pratica, però, si trovano a favorire certezze di altro ti-po. Poiché, essi sostengono, verifiche fattuali e indagini sistematiche (come quelle scientifiche) non forniscono alcun dato utile, e quindi neppure forniscono indica- zioni programmatiche, non c'è che una soluzione: oc-corre seguire altre parole d'ordine. Occorrono indica- zioni che non emergano dallo studio della realtà mate-

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riale. È quindi inevitabile, secondo la loro ottica, rivol- gersi alle generalizzazioni morali e cercare direttive a ca-rattere spirituale.

Riemerge però il problema centrale: in questo modo si introducono nuove forme di potere. Infatti, poiché un rischio ben percepito dai relativisti è quello di una eccessiva frammentazione dei pareri e delle posizioni, ecco che intervengono, a raccogliere le opinioni e a met- tere ordine nelle truppe disperse, le proposte dei per- sonaggi carismatici. Questi si occupano di garantire l'u-nanimità richiesta, ma il loro modo di esortare è dive-nuto un esercizio di dominio.

Vi sono molti e buoni motivi per cui questo non do-vrebbe piacerci.

Possiamo chiederci: che fare? Se — come crediamo -occorre una educazione al realismo, non è il caso di ri-correre a esortazioni ulteriori. In che modo, allora, met- tere al riparo il futuro dei nostri figli dalla retorica spic- ciola dei moralisti così come dalla demagogia su vasta scala? Come reintrodurre nella dialettica sociale un po' più di principio di realtà? Ed ecco una risposta che non è per nulla nuova e potrebbe anche essere ragionevole, nella sua banalità: in molti casi sarebbe sufficiente ave- re frequentato buone scuole. Scuole, cioè, che siano riu- scite a educarci con pazienza, un anno dopo l'altro e per molti anni, fino a dare pieno sviluppo a quel senso cri- tico di cui ciascuno di noi è dotato, così da utilizzarlo nella passione per le verifiche e nella pratica sistemati- ca della ricerca.

Alcuni aspetti politici del relativismo erano già emersi nel capitolo precedente, in rapporto al tema della con-

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disinformato»,

smallprint,

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b) è

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d) anche

vivenza fra le culture. Si può ora dire qualcosa circa la possibile relazione fra l'ideologia relativista e l'idea di consenso.

Il termine «consenso che è stato esco-gitato per dare un titolo a questo capitolo, ha un signi- ficato che può essere facilmente intuito; vale però la pe- na di esaminarne le implicazioni. L'idea opposta, di «consenso informato», aveva acquistato importanza durante gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, co-me evoluzione della formula «validazione consensuale» usata da tempo in campo sindacale e coniata da uno psichiatra, Harry Stack Sullivan.

Rispetto alla validazione consensuale, il consenso informato intende sottolineare l'idea, forse banale, che un consenso è valido solo se si conoscono tutti i termi- ni della questione. Un consenso sulla fiducia può anda- re benissimo nell'ambito della vita privata, dove l'ab- bandonarsi alle proposte di una persona cara è in mol- ti casi una virtù, ma non funziona nella vita sociale e me- no ancora in quella politica. La raccomandazione più semplice riguarda l'opportunità di leggere lo le clausole in caratteri piccolissimi, prima di approvare alcunché. Qui la cautela si riferisce non tanto alla pro-babilità di un inganno saltuario quanto al rischio di do-versi difendere da un intero stile di rapporti interperso- nali. È dunque per motivi tutt'altro che occasionali che occorre diffidare dell'invito rivolto agli ingenui: «non ti preoccupare, non hai bisogno di capire, ci penso io, fi- dati di me» (seguito magari da un: «firma qui sotto»). La trappola di un simile invito identifica un costume, o forse una intera cultura, dove più che di paternalismo è legittimo parlare di padrinaggio, e qualche volta di pia-nificazione della malafede.

Negli anni Settanta il tema emerse e venne elabora-

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to con qualche attenzione per quanto riguarda i diritti del malato5. Vennero subito posti in luce alcuni sotto- temi, di cui molti rilevarono già all'epoca l'importanza più generale, cioè anche fuori dall'ambito delle cure e degli ospedali. La questione sembrava addirittura inve- stire i diritti politici. I sottotemi emersi dal dibattito possono venire elencati come segue: esistono alcune decisioni riguardanti la vita e la morte che riguardano il singolo individuo interessato e nessun altro (per esem-pio, riguardano il malato e non i suoi parenti); fon-damentale che si dia spazio al massimo di informazioni possibile affinché una persona o un gruppo possano prendere posizione su questioni che riguardano il be- nessere individuale e collettivo; le conoscenze scien- tifiche vanno tenute separate dalle opinioni e dalle fedi;

esistono problemi scientifici e tecnici talmente complessi da non poter essere valutati da chi non abbia un buon livello di istruzione.

Nella situazione attuale si può essere avviati a esa- minare cosa si nasconde dietro il tema generale del con- senso scegliendo, come già negli anni Settanta, di pren- dere le mosse dall'esame di alcuni problemi che emer-gono nella pratica medica.

Da alcuni decenni, in tutto il mondo civile non si ri- tiene più che una persona malata debba essere espro-priata della capacità di decidere: al contrario, è fonda-mentale che conosca le proprie condizioni cliniche.

Come obbiezione, viene fatto osservare che non sempre questo principio è valido, perché, per esempio, nel caso di bambini piccoli e di malati di mente una si-mile trasparenza può non essere possibile: eppure an- che i piccoli pazienti nell'imminenza di un intervento chirurgico sono resi molto più sereni dal capire, maga- ri con l'aiuto di giochi e burattini, cosa accade in ospe-

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dale, in cosa consisterà l'intervento, cosa avverrà nei giorni successivi. Per quanto riguarda poi le persone con disturbi psichici, la possibilità di comprendere e oggettivare il proprio disturbo è, quasi sempre, parte dell'itinerario di guarigione.

Nel caso di adulti affetti da malattie gravi, i migliori medici e chirurghi si dimostrano persone disposte a parlare, ad ascoltare, a spiegare con calma, e a cercare di mettere a fuoco con il paziente i problemi clinici per prendere insieme le decisioni opportune: del resto la necessità di una collaborazione consapevole ai tratta- menti è ormai divenuta essenziale in moltissimi casi di malattie e infermità, e in modo tipico nelle più comuni affezioni gravi, cioè le cardiopatie e i tumori. In occa- sione delle tipiche patologie moderne l'esser motivati a rendersi responsabili di un programma di prevenzione si fonde con la necessità di una cooperazione consape- vole a terapie che, quasi sempre, durano anni. La più frequente causa di morte in Occidente, quella da ma-lattie cardiovascolari, è anche la più prevenibile me-diante l'eliminazione del fumo, l'esercizio fisico e una dieta povera di grassi, ma è proprio in questo campo che l'educazione alla salute fa leva sul tentativo di aiu-tare le persone a rendersi responsabili di se stesse, evi-tando la fuga nei fatalismi e negli scongiuri. Un atteg- giamento attivo del paziente è ormai fondamentale non solo per la prevenzione ma anche per la cura di qualsiasi malattia. Nei casi, poi, in cui la prognosi sia infausta, è quasi sempre più opportuno, oltre che più etico, che la persona interessata ne sia informata. Si suppone che es-sa abbia il diritto, fra l'altro, di prepararsi come meglio può all'evento finale e che debba essere libera di pren- dere per tempo tutte le decisioni che crede. Quest'as-

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sunzione di un ruolo consapevole nella gestione degli ultimi periodi della vita si lega, nei paesi più civili, a fre- quenti disposizioni orientate al rifiuto dell'accanimento terapeutico e, in un numero crescente di casi, ad un uso ragionevole del suicidio assistito. Nell'ora del trapasso, chi vi si era preparato lo accetta molto più serenamen- te di chi era stato costretto, mediante una umiliante strategia di menzogne, a ignorarne il significato il più a lungo possibile.

Non mancano gli ostacoli, e sono anch'essi degni di nota. Talora il compito di medici e psicologi è reso dif- ficile dal basso livello di istruzione del malato e della sua famiglia. Spesso emerge nettissimo il contrasto fra la cultura laica della modernità, tutta orientata all'aderen-za alla realtà e alla responsabilizzazione individuale, e la presenza, invece, di una mentalità pre-moderna nella quale prevale la tendenza a non volersi confrontare con i dati biologici e dove l'idea della responsabilità perso-nale viene sostanzialmente elusa. Di quest'ultimo orien- tamento fa parte l'abitudine di espropriare il malato, o la malata, del suo diritto di essere al corrente di come stanno le cose. Spesso l'infantilizzazione della persona inferma cerca giustificazione in un atteggiamento espli-citamente relativistico. «Cosa ne sappiamo?» viene det-to, «tutto è possibile, il futuro non appartiene ai medi-ci ma è nelle mani di Dio», per cui chi soffre viene invi- tato a rifugiarsi nel torpore delle illusioni e a delegare ad altri l'intera gestione di sé. (Ed è interessante osser- vare che il fatto di non essere informati, il non sapere cosa avviene, e il non avere possibilità di scelte perso- nali, produce in molti casi un'angoscia che è tanto mag- giore quanto più nella stanza dell'infermo vige, giorno dopo giorno, la congiura del silenzio.)

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Il fatto che da alcuni decenni i temi etici relativi alla salute siano diventati oggetto di grandi dibattiti è anzi- tutto un successo della cultura della modernità. Ne fa parte il diritto di difendere con fermezza le decisioni re- lative alla sfera intima — la sessualità, la riproduzione, la morte — dalla intrusione di interdetti autoritari derivan- ti da concezioni integralistiche della religione. Va sotto- lineato, peraltro, che la tendenza a restituire a malati e invalidi il diritto alla consapevolezza, e la piena dignità delle loro scelte, non implica che qualsiasi paziente pos- sa entrare nel merito di questioni specialistiche allo sco-po di decidere, per esempio, se sia preferibile usare una tecnica chirurgica oppure un'altra. Da un lato, senza dubbio, può essere fondamentale che un grave cardio-patico sia messo in condizione di decidere liberamente se accettare oppure no un intervento chirurgico che ha solo il 60% di probabilità di guarirlo: da un altro lato, però, è evidente che in condizioni ordinarie nessun chi- rurgo gli chiederebbe di scegliere gli strumenti del ta-volo operatorio.

L'atteggiamento di realismo che conferisce al malato piena dignità, lasciandogli ampi spazi per le decisioni più rilevanti, coincide con un modo di vedere che al- trettanto realisticamente separa l'universo pubblico delle conoscenze (anche delle conoscenze tecniche) da quello privato delle opinioni e delle fedi. Ora, il tema dell'efficacia e dei vantaggi differenziali dei vari farma-ci è parte integrante, appunto, dell'universo delle cono- scenze, e dipende da ricerche scientifiche di non facile accesso al profano, così come è di competenza scienti- fica il verificare mediante una serie di metodiche se i co-siddetti rimedi alternativi abbiano o meno una qualsia-si efficacia (in genere non l'hanno). Qui vi può essere un legittimo margine di decisionalità per quanto riguarda

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il piacere di curare il proprio raffreddore con pillole omeopatiche, con tisane cinesi oppure con il vino cal-do: ma le opinioni e le simpatie idiosincrasiche per que-sto o quel ramo della medicina popolare non dovreb- bero entrare in gioco quando si tratta di stabilire se i preparati omeopatici (o qualsivoglia pozione escogitata dal guaritore di turno) siano in grado di influire oppu- re no su malattie di qualche rilevanza come una infe- zione batterica acuta, l'Aids, uno scompenso cardiaco o il cancro.

Ciò non toglie che in altri campi la libertà delle scel-te si riveli infinitamente maggiore. Esiste un'area esi- stenziale appartenente alla vita strettamente privata, che non è meno complessa né meno dignitosa di quella delle conoscenze pubbliche e dove hanno liberissimo spazio le opinioni e le fedi individuali. Di fronte alla sof- ferenza corporea e nel pensiero della fine dell'esistenza, è giusto che i pazienti e i loro familiari siano pienamen-te liberi di elaborare come meglio credono le loro ansie, le loro concezioni della vita e della morte, e i modi con cui intendono gestire i propri aneliti di trascendenza. Esiste un mondo interiore fatto di paure e di speranze dove ha pieno significato il rispetto per le tradizioni e dove — questa volta — la scienza non ha particolari mo- tivi per intervenire. Qui, nell'ambito dell'interiorità e dei sentimenti più intimi, le conoscenze pubbliche e le tecnologie dovrebbero parlare con voce sommessa, o tacere del tutto. Ciò vale a maggior ragione per situa- zioni particolari: spesso accade che immigrati prove- nienti da culture lontane dall'Occidente debbano esse-re aiutati in modo cauto e rispettoso, e anche con mol- ta pazienza, a mediare fra le loro credenze e l'universo degli ospedali e dei laboratori in cui si trovano a passa-re giorni difficili.

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conoscenze credenze

Il problema degli specialismi e il consenso disinformato

proprie

Peraltro un pieno rispetto per il mondo interiore delle persone, e in particolare per gli smarrimenti delle persone più fragili, non implica che si possano mettere sullo stesso piano i farmaci moderni e i rimedi degli stre- goni. Eppure l'ideologia relativista è incline precisa-mente a quest'ultimo tipo di errore. Essa ha una pesan-te responsabilità nel trasmettere al pubblico l'idea, con-fusionaria ed errata, che la scelta di un metodo o l'altro di trattamento sia questione non già di conoscenze ma di opinioni e perfino di fedi e di culture.

Le più semplici problematiche etiche relative alla pratica medica, come quelle ora tratteggiate, ci aiutano a capire — più in generale — cosa può significare «infor- mazione» quando si parla di scelte consensuali. Vi emergono varie esigenze di chiarezza: per esempio, ci si può chiedere in quale modo si possano configurare le più opportune distinzioni fra conoscenza e opinione. Oppure, appare necessaria qualche chiarificazione sul-la differenza che esiste fra la sfera pubblica, dove val-gono regole e conoscenze tendenzialmente generalizza- bili — anche se espresse, talora, in termini specialistici - e la sfera del privato, dove ognuno è assai più libero di regolarsi secondo le proprie convinzioni.

Come è noto, la mancata separazione fra sfera pub-blica e sfera privata è tipica degli integralismi religiosi, il cui carattere inquisitivo tende a non distinguere la norma di fede, dove si esamina la disposizione a pecca- re, dalla norma secolare, dove vengono prese in esame, invece, le infrazioni e i reati. Tuttavia un analogo tipo di confusione sembra caratterizzare l'ideologia relativista. Infatti essa nega il carattere universale delle mentre esalta le più soggettivamente persona-li trasformandole in valori non negoziabili. Più concre-tamente, il relativismo non distingue i «saperi locali» (in

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cui crede) dai «saperi generali» (in cui non crede), né distingue gli interdetti emananti da convinzioni di fede (che privilegia) da quelli che derivano, invece, da ac- cordi di comportamento a carattere razionale, dei qua- li vede soltanto i difetti. In questo modo il relativismo favorisce una confusione più vasta fra gli investimenti immaginari e le informazioni, con un tendenziale privi-legiamento dei primi e una complementare svalutazio- ne delle seconde. In particolare nel campo dell'etica medica e delle questioni relative alla procreazione e al- la morte, gli orientamenti relativistici, incapaci come sono di orientarsi sul realismo e di mettere a fuoco so- luzioni sensate, rendono estremamente confuse tutte le problematiche in gioco.

Su un punto specifico però bisogna ritornare, perché ci introduce a un problema politico spinoso, che è quello delle competenze specialistiche. Abbiamo visto che la verifica dell'effettivo potere di preparati come quelli omeopatici non può essere lasciata alle convinzioni sog- gettive dei malati e dei loro familiari, ma questo princi-pio va ribadito. Un minimo di conoscenza delle leggi fi- siche che governano le diluizioni e una serie di indagini sistematiche sul terreno clinico fanno seriamente dubi- tare che i preparati omeopatici possano avere effetti te-rapeutici qualsiasi, mentre le ricerche psicologiche mo- derne sulla formazione di credenze e sui meccanismi di autoinganno dimostrano che la possibilità di commet- tere errori per quanto concerne la valutazione soggetti-va, impressionistica, dell'efficacia dei rimedi assunti al-lo scopo di curare le malattie è molto maggiore

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di quanto appaia alla luce del semplice buon senso, e può condurre a convincimenti personali radicatissimi e appassionati ma del tutto privi di fondamento.

Di qui nasce il problema se sia giusto prevedere il rimborso, da parte dei servizi sanitari, del prezzo di far-macia dei preparati omeopatici, dal momento che que- sto rimborso è chiesto da una parte consistente della popolazione, ma è concordemente ritenuto privo di giustificazioni da parte dei farmacologi e della quasi to- talità degli uomini di scienza. Considerazioni molto si-mili, benché più complesse, riguardano l'adozione di ci-bi, tessuti e farmaci derivanti da organismi genetica- mente modificati (Ogm) e, in un campo del tutto diver- so, la decisione eventuale di costruire centrali elettriche a energia nucleare.

Le difficoltà teoriche e in qualche caso le caratteri-stiche di estrema complessità di molte competenze spe- cialistiche toccano un punto delicato in ambito politico. La questione non è nuova, perché è legata al problema tradizionale dei limiti di potere dei cittadini chiamati al voto. Si tratta infatti di stabilire fino a che punto le con- vinzioni soggettive di milioni di persone e le idee píù largamente diffuse nell'opinione pubblica possano es- sere investite di potere decisionale nei casi in cui siano coinvolti aspetti tecnici, la cui valutazione comporte- rebbe, in realtà, non solo un buon livello di istruzione ma addirittura, in alcuni casi, il possesso di conoscenze specializzate.

Non vi è alcun serio motivo per sostenere che l'opi- nione pubblica debba avere sempre l'ultima parola: la democrazia moderna non è solo fatta di elezioni. Una buona democrazia è composta, come tutti sanno, non solo di periodiche consultazioni popolari ma anche di una serie di istituti i cui limiti si compensano l'un l'altro

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e che si controllano a vicenda: il decentramento delle amministrazioni con forme di democrazia locale, un esecutivo stabile, una magistratura indipendente con una Suprema Corte, un apparato efficiente e incorrutti- bile di funzionari statali, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese. (E forse uno degli ingredienti della de- mocrazia è anche l'educazione, nel senso più generale del termine: l'idea è persino un po' vecchia, ma è pur vero che i cittadini sembrano essere tanto più in grado di ragionare con la propria testa quanto più hanno un decente livello di istruzione.)

Un problema serio nasce però nel momento in cui gli orientamenti relativisti si diffondono fino al punto di rafforzare in modo significativo alcune fra le meno giu- stificabili rivendicazioni di massa. Nel criticare la scien- za e ogni pretesa di oggettività, i relativisti si allineano a richieste (per esempio a favore dell'omeopatia gratuita, o per l'abolizione delle centrali nucleari) che risentono della pressione dei ceti più incolti, e in pratica di colo- ro che non leggono né libri né giornali.

Secondo i dati raccolti da Tullio De Mauro, il 5% della popolazione adulta italiana non riesce nemmeno a leggere il primo e píù semplice dei cinque questionari elaborati secondo i criteri Ocse, composto di frasi estre-mamente elementari (tipo «il gatto mangia la pappa») ed è quindi analfabeta, mentre il 33 % non comprende le domande del questionario di difficoltà subito succes- siva; in base a questo e ad altri dati sembra ragionevole ritenere che il 38% della popolazione adulta del nostro paese sia da considerarsi analfabeta o semianalfabeta6.

Ma anche prendendo l'insieme di coloro che sono capaci di leggere e scrivere abbastanza fluidamente, si può supporre che i prevalenti interessi quotidiani di queste persone non includano necessariamente il desi-

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derio di farsi spiegare, prima di andare a votare in un re- ferendum antinucleare, che differenza vi sia fra una bomba atomica e una pila atomica. Così, in modo ana- logo, ci si può chiedere quale percentuale della popola- zione in possesso di una laurea eviti di interrogarsi su una serie di altre questioni piuttosto semplici eppure correntemente eluse: quante molecole di sostanza chi- mica attiva si trovano in una pillola omeopatica (una, nessuna o centomila)? gli scienziati più competenti ri- tengono probabile che i ripetitori della telefonia mobi- le irraggino a distanza influssi nefasti? finora si sono mai registrati, nel mondo, danni alla salute causati dagli Ogm?

Sia i movimenti di opinione più allarmisti, sia i ma-nipolatori di informazioni televisive inclini a usare la de-magogia per fini populistici, approfittano della man- canza di cultura scientifica per mobilitare il consenso di milioni di persone. Qui si viene invitati non già a un consenso informato ma a un consenso disinformato.

Eppure esiste una qualche consapevolezza del peri-colo, soprattutto fra í politici di professione. Oggi, for- se, nessun governante di un paese civile che sia anima- to da sentimenti sinceramente democratici, e forse nes- sun leader dell'opposizione che abbia un reale senso di responsabilità, accetterebbe di buon grado di sottopor-re a referendum popolare la decisione di costruire o me-no centrali elettriche a energia nucleare o di rimborsa-re i preparati omeopatici; e neppure sottoporrebbe a voto referendario la decisione di ammettere o meno la coltivazione e l'uso di vegetali geneticamente modifica-ti. Le conoscenze tecniche in campo economico, ecolo- gico, biologico e fisico che sono necessarie per espri- mere una valutazione consapevole circa i vantaggi e gli svantaggi di decisioni come quelle relative agli Ogm e

156

alle centrali nucleari richiedono, per lo meno, la volontà di passare alcune ore in compagnia di libri di non faci-lissima lettura.

In pratica, quindi, accade che una parte cospicua della popolazione, non interessata a cogliere la diffi-coltà e complessità di questi temi, rischi di cadere pre-da dei manipolatori dell'opinione politica.

La democrazia ha varie componenti, e i suoi vantag-gi emergono dall'interazione di istituzioni di consulta- zione, di deliberazione e di controllo: soltanto i populi- sti, i quali amano il proprio potere assai più che le isti- tuzioni democratiche, ritengono che la volontà della maggioranza abbia carattere di investitura plenipoten- ziaria nei loro confronti. È evidente che occorre temere l'abuso dei referendum. In qualche caso è tuttavia pos-sibile organizzare una consultazione sensata e abba- stanza ampia su temi complessi. A quanto riferisce Anthony Giddens, per esempio, anni fa il governo sve- dese istituì in tutto il paese corsi informativi gratuiti a partecipazione volontaria della durata di un giorno, aventi per oggetto i problemi relativi alle scelte di poli- tica energetica; tutti coloro che avevano partecipato al corso potevano poi inviare il loro parere al governo, che si impegnava a tenerne conto'.

Altrove non mancano, purtroppo, orientamenti di tutt'altro significato, dove le illusioni populiste e la de-magogia possono contare su potenti alleati: in pratica, i demagoghi fanno affidamento sia sul basso livello di istruzione di una parte cospicua della popolazione, sia sull'ideologia scettica della media cultura. Ora, non è chi non veda come questa tendenza possa riguardare decisioni strategiche di ben più ampia portata che non quelle che concernono l'omeopatia o gli Ogm. Gli orientamenti relativisti, infatti, non soltanto convalida-

1 57

Page 85: Contro il Relativismo

Capitolo 1

Unpopular Essays, La fine del Mondo, La terra del rimorso,

Un universo troppo semplice,

Il cappellano del diavolo,

TheAnnotatedAlice,

Alice di là dallo specchio, Rememberi ng Trauma,

Si può credere a un testimone?,

Capitolo 2

Cryptonomicon,

2 Alice nel paese delle meraviglie,

Social Foundations of Thought and Action,

no le richieste di chi vuole l'omeopatia a carico dello Stato e la cancellazione dell'energia nucleare, ma anche incoraggiano chi si basa su fanatismi di fede, anziché su informazioni di realtà, ogni volta che si accendono le grandi battaglie elettorali. Nelle più recenti elezioni presidenziali statunitensi è emerso l'enorme peso nu- merico di coloro che preferiscono non tenere in alcuna considerazione i più semplici dati informativi per rego-larsi invece sulla base di opzioni moralistiche e religio-se del tutto generali.

Se questa tendenza regressiva si estenderà nei pros-simi anni, diventerà sempre più facile organizzare dele-ghe disinformate. Non è irragionevole pensare che ne possano nascere, anche su un piano internazionale, si-tuazioni minacciose per la democrazia.

Limitandoci, infine, a un ambito più modesto e dai confini più circoscritti, è comunque probabile che in un paese come l'Italia rimangano ancora aperte varie pos- sibilità. Il progresso verso un maggiore benessere e una più matura coscienza civile potrà dipendere non sol- tanto da un miglioramento del sistema scolastico e da un deciso innalzamento del livello medio di istruzione, ma anche dalla consapevolezza dei danni finora pro-dotti da tutti coloro che negano la differenza fra le opi-nioni e le conoscenze.

NOTE

B. Russell, Unwin Hyman, London 1950. 2 E. De Martino, Einaudi, Torino 1977, p. 281.

E. De Martino, il Saggiatore, Milano 1961. G. Toraldo di Francia, Feltrinelli,

Milano 1990. R. Dawkins, trad. it., Cortina, Milano

2004, cap. 7 (ed. or. 2003). 6 M. Gardner, Penguin, London 1960-2001,

p. 212. L. Carroll, cap. 5 (ed. or. 1871).

vard University Press, Cambridge (Mass.) 2003. Si veda anche: G. Mazzoni, il Mulino, Bologna 2003.

' N. Stephenson, Arrow Books (Random House), New York 1999, pp. 82 sgg.

L. Carroll, cap. 3 (ed. or. 1865).La documentazione può essere agevolmente ottenuta su Inter-

net. Si vedano: www.mcw.edu/gcrc/cop/powerlines-cancer-FAQ/ toc.html; www.cdc.gov/nip/vacsafe/concerns/autism/default.htm; www.info.supereva.it/comore/campiem.html.

4 Il concetto di disimpegno morale è stato messo a punto da Al-bert Bandura in Prentice-Hall, Englewood Cliffs 1986.

159

4

8 Per una bibliografia: R.J. McNally, Har-

Page 86: Contro il Relativismo

Postmoderno, atto terzo,

Against Relativi sm ,

di Le due sociologie della conoscenza scientifica,

Spiegazione scientifica e relativismo culturale,

Madame Blavatsky's Baboon, The Place of En-

chantment, Science for the Soul,

A destra del fa-scismo,

Verità e metodo,

La condizione postmoderna, La scrittura e la differenza,

La struttura delle rivoluzioni scientifiche,

Vedere e costruire il mondo,

Rappresentazioni sociali,

L'ideologia tedesca Ideologia e utopia,

Beffe, scienziati e stregoni,

Meditation on the Moon, Music at Night,

Pluralismo, multiculturalismo ed estranei,

La politica come professione,

La realtà come costruzione sociale,

Va' pensiero,

All That is Solid Melts into Air,

22 Considerazioni sull'io debole,

Il dovere del dubbio,

Alice di là dallo specchio, L'élite del potere,

Minima moralia,

Eros e Civiltà,

Dialettica della liberazione,

Masscult e Midcult,

Capitolo 3

Primitive Culture, Il concetto di cultura,

2 Relativismo culturale, Enciclopedia delle Scienze Sociali,

Interpretazione di culture,

Anti-anti-relativism,

Adolescenza in Samoa,

Margaret Mead and Samoa: the Making and Un-making of an Anthropological Myth,

Emotion in the Human Face,

The Blank Slate,

Anthropology and the Abnormal,

5 M. Ferraris, in «Il Sole 24 Ore», 18 lu-glio 2004, p. 33.

J.E Harris, Open Court, LaSalle (III.) 1992. Il saggio di Harris è una buona critica al relativismo filosofico; su que- sto tema si vedano anche gli scritti Raymond Boudon, in particola-re in R. Boudon, E. Di Nuoscio, C.L. Hamlin, Luiss University Press, Roma 2004.

Per una cronaca dell'occultismo a cavallo dei due secoli: P. Wa-shington, Schocken Books, New York 1993; sull'occultismo in Gran Bretagna: A. Owen,

University of Chicago Press, Chicago 2004; sull'occulti-smo in Germania: C. Treitel, The Johns Hopkins University Press, Baltimore 2004; su Evola: E Cassata,

Bollati Boringhieri, Torino 2003. H.-G. Gadamer, trad. it., Bompiani, Milano

21 M. Berman, Penguin, London 1982.

R.H. Popkin, A. Stroll, trad. it., il Saggia-tore, Milano 2004, pp. 268 sgg. (ed or. 2002).

24 L. Carroll, cap. 4 (ed. or. 1871). 25 C. Wright Mills, trad. it., Feltrinelli, Milano

1966 (ed. or. 1956); T.W. Adorno, trad. it., Einaudi, Torino 1954 (ed. or. 1951).

26 G. Jervis, Prefazione all'edizione italiana di H. Marcuse, Einaudi, Torino 1964. A difesa di Marcuse va ricordato che

nel corso del principale evento controculturale di quegli anni, il con-vegno tenutosi a Londra nell'estate del 1967 per iniziativa degli antipsichiatri britannici, egli prese le distan-ze dal suo stesso pubblico assumendo una posizione antispontaneista.

27

J.-F. Lyotard, trad. it., Feltrinelli, Mi-lano 1981 (ed. or. 1979); J. Derrida, trad. it., Einaudi, Torino 1971 (ed. or. 1967).

'° T. Kuhn, trad. it., Ei-naudi, Torino 1969 (ed. or. 1962).

" N. Goodman, trad. it., Laterza, Ro-ma-Bari 1988 (ed. or. 1978).

1969 (ed. or. 1960).

' E.B. Tylor, trad. it. parziale in P. Rossi (a cu-ra di), Einaudi, Torino 1970, p. 6 (ed. or. 1871).

12

Mulino, Bologna 1989 (ed. or. 1984). 13 K. Marx, F. Engels, (1845-46), trad. it., Edi-

tori Riuniti, Roma 1958; K. Mannheim, trad. it., il Mulino, Bologna 1957 (ed. or. 1929).

G. Lolli, il Mulino, Bologna 1998, pp. 154 e 178.

A. Huxley, in Chatto & Windus, London 1931.

16 F. Erspamer, «La Rivista dei Libri», 7-8, XIV, 2004, pp. 8-12. G. Sartori, Rizzoli,

Milano 2000, p. 165. M. Weber, trad. it., Edizioni di Co-

Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. VII, Roma 1997. Una teoria relativistica delle emozioni è sostenuta da Clifford

Geertz in trad. it., il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. 1973). Di questo autore è ancora da rilevare, più di dieci an- ni dopo, la pertinace difesa teoretica del relativismo in antropologia: C. Geertz, in «Amen Anthropologist», 86 (2), pp. 263-277, 1984.

M. Mead, trad. it., Giunti-Barbera, Fi-renze 1980 (ed. or. 1928).

D. Freeman, Harvard University Press, Cam-

bridge (Mass.) 1983. e coll., Pergamon, New

19 6

P.L. Berger, T. Luckmann, Yo kP1.9Ekm an trad. it., il Mulino, Bologna 1969 (ed. or. 1966). Questo libro va se-gnalato perché espone in termini chiari una delle posizioni più ragio- nevoli fra tutte quelle relativiste.

20 C.A. Viano, Einaudi, Torino 1985.

160

neral Psychiatry», 10 (2), 1934, pp. 59-82.

161

9

6

7

8

G. Jervis, in «La società degli in-dividui», 1, I, 1998.

23

D. MacDonald, trad. it., Bompiani, Milano 1983 (ed. or. 1960).

R.M. Farr, S. Moscovici, trad. it., il F. Remotti, in

14

15

17

18

munità, Milano 2001 (ed. or. 1919).

.

3

4

r 72

S. Pinker, Viking (Penguin Books), New York 2002, p. 114.

8 R. Benedict, in «Journal of Ge-

7

Page 87: Contro il Relativismo

Outsiders: saggi di sociologia della devianza,

Classi sociali e malattie men-tali,

Manuale Critico di Psichiatria, Il mito dell'antipsichiatria, L'ideologia della droga,

Sex Differences in Human Mate Preferences: Evolutio-nary Hypotheses Tested in 37 Cultures,

Indivi-dualismo e cooperazione,

The Company of Strangers,

Sociobiologia: la nuova sintesi, gene egoista,

Giochi di reci- procità,

The Psychological Foundations of Culture, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and

the Generation of Culture, Think Again, Human Na-

ture: a Criticai Reader, Azione collettiva e razionalità sociale,

Armi, acciaio e malattie,

Come funziona la mente,

American Psychological Association Statement on Sexual Orien-tation,

Evolutionary Psychology, a Criticai Introduction, The Blank Siate cit.

Le conseguenze della modernità, Modernity and Self-Identity,

Genealogia della verità,

Le strategie della fiducia,

di), The Progres-sive Manifesto,

Le illusioni del postmodernismo,

Globalizzazione. Una mappa dei problemi,

Le ipocrisie del relativismo di sinistra,

La cultura degli italiani,

Capitolo 4

Novum Organon, Aphorismi de Interpretatione Natu-rae et Regno Hominis, Liber

L'animale sociale,

Le regole della vita in Europa,

Basta con le mucche pazze,

I diritti del malato, La cultura degli italiani,

La terza via,

9 H. Becker,

1° A.B. Hollingshead, F.C. Redlich,

trad. it., 22

23

D. Gambetta (a cura di), trad. it., Ei-

Per un interessante (e isolato) tentativo di programma sociale

n Jervis, Feltrinelli, Milano in «Quaderni Piacentini», 60-61, 24

Polity Press, Cambridge 2003. T. Eagleton, trad. it., Editori

Sciences», 12, 1989, pp. 1-49. 13 Per una bibliografia introduttiva si rinvia a G. Jervis,

Riuniti, Roma 1998 (ed. or. 1996). 25 D. Zolo, Laterza, Ro-

ma-Bari 20053, p. 108. Va peraltro rilevato che la posizione di Zolo è anti-universalista. Una lucida sintesi di questa problematica è in G. Pasquino, in «Il Sole 24 Ore», 6 febbraio 2005, p. 37.

brillante analisi delle strutture sociali che emergono in modo natura-le dall'interazione con estranei è in P. Seabright,

Princeton University Press, Princeton 2004.

26 T. De Mauro, F. Erbani, Laterza, Ro-

14

li, Bologna 1979 (ed. or. 1975); R. Dawkins, Il trad. it., Mondadori, Milano 1989 (ed. or. 1976); R. Axelrod,

trad. it., Feltrinelli, Milano 1985 (ed. or. 1984); J. Tooby, L. Cosmides, in J. Barkow, L.

2 I, 124 (ed. or. 1620).

W.G. Runciman, trad. it., il Mulino, Bologna Oxford University Press, Oxford 1992; J.

Tooby, L. Cosmides, in L. Betzig (a cura di), 2004, p. 64 (ed. or. 1998).

A. Schiavone, in «la Repubblica», 9 ottobre 2004, p. 17.

4 S. Latouche, M. Aime, in «L'Indice», no 1998 (ed. or. 1993).

Buoni libri introduttivi su tutta questa tematica si aggiungono periodicamente sugli scaffali delle librerie, a partire da quello ormai classico di S. Pinker, trad. it., Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 1997).

10, 2004, p. 33.

6 T. De Mauro, F. Erbani, Laterza, Roma-Bari 20054, pp. 22 e 157.

7 A. Giddens, trad. it., il Saggiatore, Milano 2001, p. 80 (ed. or. 1998).

17

18

July 1994. Si veda: www.apa.org/pi/lgbpolicy/orient.html. Per una introduzione e una bibliografia ragionata si possono se-

gnalare, oltre ai testi già citati, C. Badcock,

19

20

Polity Press, Cambridge 2000; Pinker,

«Corriere della Sera», 14 ottobre 2004, editoriale, p. 1. A. Giddens, trad. it., il Muli-

no, Bologna 1994 (ed. or. 1990); Id., Stanford University Press, Stanford 1991.

21 B. Williams, trad. it., Fazi, Roma 2005 (ed. or. 2002).

162

Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987 (ed. or. 1963).

trad. it., Einaudi, Torino 1965 (ed. or. 1958). orientato sulle previsioni si veda A. Giddens (a cura

naudi, Torino 1989 (ed. or. 1988). Si veda anche la nota 13.

1975; 1976; in «Quaderni Piacentini», 58-59, 1976.

12 D. Buss, in «Behavioral and Brain

Laterza, Roma-Bari 20032 , capp. 6 e 7. Una

E.O. Wilson, trad. it., Zanichel-

ma-Bari 20054, p. 123.

Cosmides, J. Tooby,

E Bacon,

Oxford University Press, Oxford 1997; C. Bic-chieri, trad. it., Feltrinelli, Mila-

J. Diamond, trad. it., Einaudi, Torino 1998 (ed. or. 1997).

15

16

5 G. Jervis (a cura di), Feltrinelli, Milano 1975.

Page 88: Contro il Relativismo

INDICE

Ringraziamenti VII

1. I denti della signora Aristotele, Ernesto De Martino e l'apparizione di un santo 3

2. Uno sguardo d'insieme sul relativismo 29 Un dialogo, p. 30 - Le due posizioni in sintesi, p. 35 - Il relativismo come mentalità, p. 39 - Le ascen-denze storiche del relativismo, p. 44 - Alcune note sul relativismo filosofico, p. 48 - Il relativismo come ideologia, p. 53 - Il relativismo come risposta alle delusioni del progresso, p. 67 - Relativismo e cultu-ra di massa, p. 69

3. Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria. Il relativismo culturale e i suoi limiti 75 Relativismo contro universalismo, p. 75 - L'antro-pologia culturale americana e la sua eredità, p. 78 -Dall'antropologia culturale all'antipsichiatria, p. 87 - Esiste una natura umana? Un nuovo naturalismo, p. 95 - Naturalismo e identità minoritarie, p. 100 - Tribalismi e neo-tribalismi alla sbarra, p. 102 - Nuo-ve possibilità di intesa, p. 105 - Il peso del passato, p. 107 - Un multiculturalismo con la coscienza sporca, p. 110 - Il relativismo culturale alla prova dei fatti, p. 115 - Perché non possiamo non dirci oc- cidentali, p. 121 _

165

Page 89: Contro il Relativismo

4. Aspetti etici e politici. Il relativismo e il consenso disinformato 127 I richiami etici del relativismo, p. 129 - La retorica del relativismo, p. 134 - Il consenso informato e i suoi insegnamenti, p. 145 - Il problema degli spe-cialismi e il consenso disinformato, p. 153

Note 159

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