contro il '68. la generazione infinita

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contro il ’68 book Alessandro Bertante la generazione infinita

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libro agenzia x sul 68

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Page 1: Contro il '68. La generazione infinita

controil ’68

book

Alessandro Bertante

la generazione infinita

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Page 3: Contro il '68. La generazione infinita

2007, Agenzia X

CCooppeerrttiinnaa ee pprrooggeettttoo ggrraaffiiccoo::Antonio Boni

IImmmmaaggiinnee ddii ccooppeerrttiinnaa::Agenzia X

CCoonnttaattttii::Agenzia X, via Pietro Custodi 12, 20136 Milanotel. + fax 02/89401966www.agenziax.ite-mail: [email protected]

SSttaammppaa::Bianca e Volta, Truccazzano (MI)

ISBN 978-88-95029-05-4

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controil ’68Alessandro Bertante

la generazione infinita

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Prefazione 7

1.L’ultima generazione 19

2.I ragazzi del “boom” 29

3.L’eredità politica del sessantotto 37

4.Compromesso storico e crisi della militanza 53

5.Conformismo e partecipazione 65

6.Rievocazioni 75

Ringraziamenti 91

Bibliografia essenziale 93

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Prefazione

Mi chiamo Philopat e più di ogni altra cosa mi sento un personag-gio dei cartoni animati; in questa veste posso permettermi di par-lare liberamente del rapporto tra il sessantotto e i suoi strascichinell’odierna industria culturale italiana. Colgo l’occasione offer-tami da questo provocatorio pamphlet di Alessandro Bertante.

Leggendo le pagine di Contro il ’68 sono rimasto colpito dalle fra-si che spiegano la differenza che ha avuto nell’immaginario no-strano la partita di calcio Italia-Germania finita 4 a 3 durante imondiali in Messico del 1970 (si trattava solo di una semifinale),rispetto alla vittoria finale dell’Italia, sempre sulla nazionale tede-sca, nei mondiali del 1982 in Spagna. Quel trionfo inaspettatopassò in sordina, mentre Italia-Germania 4 a 3 è persino il titolodi un film. La sinistra italiota si è nutrita per anni, e forse continuaa farlo, delle gesta dei “messicani” Gianni Rivera e Gigi Riva,mentre gli “spagnoli” Paolo Rossi e Franco Causio sono strana-mente passati nel dimenticatoio. Non che sia un appassionato difootball, anzi... Ma in alcuni dibattiti mi è capitato di sollevare laquestione calcistica, manco fossi Beppe Viola, parlando di un’e-poca di cui per certuni era perfettamente inutile occuparsi a livel-lo storico e per descrivere come e perché i punk si ritrovarono,proprio all’inizio degli anni ottanta, in una situazione così isolatae disperata. Nella società come nel calcio ci sono momenti ricor-dati e celebrati fino alla nausea, altri invece sono sistematicamen-te dimenticati. Infatti nessuno si è mai sognato di fare un film no-stalgico sui mondiali spagnoli... Nel 1982 c’era il riflusso, il craxi-smo della Milano da bere, e il movimento era una tabula rasa. Ipunk, unici giovani bocconcini sovversivi per uno spropositatoapparato di repressione poliziesca, erano barricati dentro il covo

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del Virus e insieme a tutta Italia gioivano per le imprese di PablitoRossi. Alcuni di loro cominciarono in quei giorni a frequentare lalibreria Calusca di Primo Moroni e a capire meglio ciò che erasuccesso negli anni settanta. Probabilmente, se non ci fosse statoquesto incontro, i punk milanesi non sarebbero riusciti ad aprirelo scrigno blindato dei cosiddetti anni di piombo. Forse, avreb-bero presto pensato che ogni cosa inventata, creata e scaturitanella loro gioventù era spazzatura, merda, roba da buttare via separagonata alle imprese sessantottarde... Appunto come una se-mifinale calcistica che nella riscrittura a posteriori supera di granlunga una finale. Senza questo incontro, i punk avrebbero ancheloro ingurgitato l’unica verità storica disponibile, quella scrittadai vinti su commissione dei vincitori.

Era interesse di costoro addossare l’intera responsabilità di ognimisfatto al periodo della seconda metà degli anni settanta, in par-ticolare al movimento del ’77, di cui in questi mesi si celebra iltrentennale, ricordandolo perlopiù come un tragico epilogo delsessantotto. Ma non andò così. Primo Moroni, che nel corso deisuoi ultimi vent’anni di vita non si stancò mai di organizzare di-battiti, incontri e conferenze dal titolo: “Liberiamo gli anni set-tanta”, nel suo libro scritto con Nanni Balestrini, L’orda d’oro, aproposito del ’77 scriveva: “in quell’anno si sommano gli effetti diuna prolungata stagione di lotte operaie e di una esplosione cul-turale dei movimenti di rivolta dei disoccupati e dei giovani, ditutti coloro che si sentono minacciati dal nuovo assetto produtti-vo che si intravede all’orizzonte nel postindustriale”. Nei primimesi del ’77, anche se a Milano il tutto fu anticipato all’estate del1976, il tono delle lotte era ancora quello della rivoluzione dietrol’angolo, della speranza messianica, della fiducia euforica in unacomunità liberata, ma nei mesi successivi, dopo l’impatto con ladurezza della repressione e soprattutto con la spietata logica dellacompetitività sul lavoro, la disoccupazione inevitabile, l’emargi-nazione galoppante, divenne predominante il tono disperato eautodistruttivo, il rifiuto di sopravvivere in un’epoca disumana,in cui tutti i valori della solidarietà sarebbero stati cancellati.Sempre in L’orda d’oro si legge: “In questo senso possiamo dire

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che il ’77 fu al contempo una sintesi degli anni sessanta e settantae una cupa premonizione degli anni ottanta”. Questo prezioso efragile anello di congiunzione generazionale sembra totalmentetrascurato dai sessantottini che stanno riscrivendo la storia diquel decennio, anzi, in qualche modo i settantasettini sono i piùvituperati, criminalizzati e infine dimenticati. Eppure, esattamen-te come i punk, sono esistiti e hanno portato avanti una battagliadurissima in una situazione capovolta, una lotta corpo a corpocon una società in rapido cambiamento. Poi si sono sorbiti pertrent’anni i racconti di un fantastico mondo che non avevano vis-suto e che non sarebbe mai più arrivato. Da qui nascono i livoridei più giovani nell’Italia dei giorni d’oggi, i figli dei sessantottiniche non riescono più ad accettare una verità raffazzonata e che fi-nalmente provano ad alzare la voce.

Per una questione anagrafica, dei fasti della stagione sessantotti-na i punk inizialmente conoscevano solamente i giovani settanta-settini. “I punk sono i figli disperati del no future, figli inconsape-voli di un modello di produzione ormai superato, e con lui tutto ilciclo di lotte precedenti” scriveva ancora una volta Primo Moro-ni. Se oggi si guarda e si ascolta attentamente l’interminabile filmsul festival del Parco Lambro del 1976, girato da quattro troupedi videoteppisti e da tre troupe di cinematografari coordinati daAlberto Grifi, si può notare che, nonostante il look e l’abbiglia-mento siano diversi, gli sproloqui e le argomentazioni allucinoge-ne dei partecipanti al festival si avvicinano sorprendentemente aquelle dei punk: rifiuto del lavoro, centralità del soggetto deside-rante, crisi della militanza e della forma partito. Soprattutto espri-mevano preoccupazione per un futuro che senz’altro sarebbe sta-to radicalmente diverso, non solo da quello dei padri, ma ancheda quello dei loro fratelli maggiori... E così fu... Se oggi i sessan-tottini, indipendentemente da dove si collocano, destra o sinistra,sono ai vertici dell’industria culturale italiana, per i pochi settan-tasettini sopravvissuti non ci sono nemmeno le briciole. I verticidella politica di sinistra invece sono rimasti saldamente in manoalla classe dirigente precedente al sessantotto. Per fare qualcheesempio si può parlare di D’Alema, allora dirigente della Fgci, e

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quindi dall’altra parte della barricata, o di Fassino, che nella suatragicomica autobiografia afferma di non avere vissuto il sessan-totto in quanto, dopo la morte prematura del padre, si era dovutosobbarcare le responsabilità di un adulto. O ancora di Veltroni,che probabilmente allora faceva il chierichetto, magari a fianco aun prete rosso, ma pur sempre un chierichetto. I sessantottini au-tosconfitti sono stati quindi sistemati nell’industria culturale, dadove era più facile svolgere il ruolo che i vincitori gli avevano as-segnato, cioè riscrivere la storia. Qualcuno ha mantenuto una sfu-mata apparenza degli antichi valori, altri, i più cinici, si sono tra-sferiti a destra. Nessuno di loro aveva probabilmente capito unfilm americano di quel periodo, amato sia dai punk sia dai settan-tasettini: I guerrieri della notte.

“Gli uomini che hanno il potere sono coloro che ci hanno spintouno contro l’altro.” Sono le parole della scena iniziale del film,con cui il capo della gang dei Riff, Cyrus, arringa le migliaia di ra-gazzi delle bande di strada dei diversi quartieri di New York. Fra-si semplici e dirette: allearsi per opporsi all’oppressione e alla vio-lenza poliziesca; combattere i padroni del potere e conquistare lacittà intera. E qui ci sono dei paralleli con la celebre speranza del-la rivoluzione dietro l’angolo che mosse i giovani ribelli italiani al-l’alba del 1977. Al termine del comizio, Cyrus viene ucciso da al-cuni traditori e i Guerrieri saranno ingiustamente accusati dell’o-micidio. Anche i settantasettini erano, già allora, i capri espiatoridi una tragedia che coinvolgeva l’intera società e come i Guerrierisi sentivano braccati, senza scampo. Le manifestazioni che si sus-seguivano ogni sabato si svolgevano in un clima di conflitto aper-to. La notte, i ragazzi tornavano in quartieri che già si stavanoriempiendo di masse amorfe e teledipendenti che chiedevano piùsicurezza e di cui proprio oggi, almeno a Milano, vediamo dispie-garsi i cortei bipartisan. Erano braccati, ma non volevano arren-dersi a un futuro così di merda. Il lungometraggio della storiaperò non ebbe un lieto fine come in I guerrieri della notte, i nostriGuerrieri furono semplicemente lobotomizzati, chi nelle galere,chi nel riflusso e in tantissimi con l’eroina. Il cambio repentinodel modello produttivo, l’improvviso declino della grande fabbri-

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ca fordista e di tutto il ciclo di lotte operaie collegato, causaronoprofonde lacerazioni nel precario equilibrio delle forze di opposi-zione gettando le basi per l’imposizione del nuovo ordine socialeche si sarebbe dispiegato negli anni a venire. Le responsabilità ditutto ciò non vanno certo ricercate in qualche migliaio di giovaniresistenti che si opponeva tale ordine. Arrivò poi la grande ri-strutturazione e i punk gridarono il no future. Giunse il mercatoglobale e i centri sociali divennero fragili case del popolo. Arriva-rono infine i ministri del culto televisivo, l’espansione dell’imperoe la ridefinizione della proprietà privata e tutto si fece silente...Tranne le rinnovate genuflessioni culturali della generazione infi-nita sul tipo: “che bello il ’68, quanto è brutto il ’77”. Evviva l’on-data creativa, abbasso la violenza. Scordandosi a priori le con-traddizioni interne innescate da molti fattori. Uno su tutti: la stra-tegia della tensione.

Queste dinamiche revisioniste producono, oltre a incazzosipamphlet come questo, ricadute sociali devastanti. Non mi sonostupito quando un amico mi ha detto che negli Stati Uniti moltineocon o newcon avevano militato a sinistra del partito democra-tico. In Italia la situazione è più drammatica che in ogni altro pae-se occidentale proprio perché la classe dirigente a sinistra è anco-ra quella presessantottina, mentre la destra ha cavalcato a modosuo quel terremoto sociale, a partire dalle televisioni berlusconia-ne che nacquero anche grazie alla liberalizzazione ottenuta dopola grande intuizione del movimento sulle radio libere. Se la storiasi dissolvesse, se fosse possibile abbandonarsi alla vertigine dellacaduta da un precipizio, una volta atterrato con le ossa spezzatemi verrebbe in mente la parabola di Lotta Continua. Questa or-ganizzazione ebbe la grande capacità di coinvolgere migliaia e mi-gliaia di giovani arrabbiati nelle tematiche del movimento, ma dal1975, soprattutto in Nord Italia, la sua spinta creativa inesorabil-mente rallentò, fino al definitivo stop del 1976. “Liberiamo Sofriper liberarci di Sofri” si ostinava a dire Moroni nelle sue innume-revoli conferenze verso la metà degli anni novanta. Lotta Conti-nua, che era piena zeppa di cani sciolti di origine proletaria e sot-toproletaria, dapprima venne messa in crisi dal compromesso

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storico e dalla conseguente legge Reale, poi esplose sulla contrad-dizione posta dalle donne al convegno di Rimini del 1976; da allo-ra, parte di questi cani sciolti si riversarono nell’autonomia diffu-sa, in quello che in seguito sarà chiamato il movimento del ’77.Cos’altro avrebbero dovuto fare? Il quotidiano “Lotta Continua”virò improvvisamente da giornale di movimento e bollettino dellelotte operaie a giornaletto delle “lettere”, dell’“intimismo”. Caropsic si chiamava la rubrica più letta... Travolti dal libertarismo piùsfrenato, che scivolava sempre più nel liberismo, alcuni giornalistie redattori della testata iniziarono in quei mesi lo scavallamento adestra, e alcuni entrarono poi alla corte di Giuliano Ferrara, comeper esempio Andrea Marcenaro e Carlo Panella. Sono andato nelsito di quest’ultimo e nella spassosa ricostruzione autobiograficaintitolata “Breve viaggio nella vita di Carlo Panella”, egli ammet-te: dopo il congresso di Rimini “partecipo alla trasformazione di‘Lotta Continua’ da giornale di partito in un quotidiano quasinormale”. Quasi normale? Visti i titoli dei suoi ultimi libri – L’an-tisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden e Il libro nero deiregimi islamici – forse la normalità al giorno d’oggi è quella di fo-mentare ancora di più la guerra fra i poveracci nelle periferie del-le grandi città, da una parte i migranti lavoratori stipati in cinqueo sei in un monolocale e dall’altra le masse catodiche con il lorobisogno di sicurezza. Una bella svolta per Panella che era partitoin gioventù organizzando occupazioni di case per gli immigratiitaliani in Germania. Una svolta che rischia di perpetuarsi di ge-nerazione in generazione, se non si riuscirà a porre un freno aquelle che Bertante chiama “esaltazioni mitopoietiche” prive diogni qualsivoglia contraddizione, visioni edulcorate di ciò che èavvenuto portate avanti da ex di Lotta Continua che votano anco-ra a sinistra. È il caso di La meglio gioventù. Anche se il registaMarco Tullio Giordana forse non era di Lc, uno fra gli ex più invista, Enrico Deaglio, ha pubblicato un libro con lo stesso titolo.Un elenco di 3000 piccole biografie dei protagonisti della conte-stazione di allora, che esclude tutti i violenti e i picchiatori, peresempio Andrea Bellini. Ma è indubbiamente il film a dare l’im-pressione peggiore. Verrebbe voglia di considerare La meglio gio-ventù come una parodia di quei tempi, ma presto ci si accorge di

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non poterlo fare, anzi sembra proprio che gli autori e il regista ab-biano tentato di ricreare a tutti costi una storia universale idoneaa rappresentare un’epoca intera. Ma quanti sono stati i compagniponderati, ragionevoli e sempre sorridenti come Lo Cascio? Per-ché mettere in scena una moglie borghese un po’ psicopatica eche, guarda caso, entra nelle formazioni combattenti, quando perogni militante dei gruppi clandestini almeno mille sono crepati dieroina o in qualche altro inferno metropolitano? E le droghe, per-ché sono completamente assenti?

Naturalmente, non tutti coloro che hanno vissuto quello straordi-nario decennio hanno preso direzioni simili. Si potrebbero faredei distinguo, ma sono in molti quelli che partendo nel sessantot-to con in testa la frase: “Perdo tutte le mie certezze e vado incon-tro a qualcosa di ignoto” continuano a battersi tuttora nel tentati-vo di demistificare alcune di queste orribili verità storiche. Sonoquesti lampi di luce che illuminano e bruciano il buio di passionidel nostro presente. Un eccesso di vita, un pensiero che riesce aritrovarsi solo mettendo in discussione tutto ciò che ci circonda,un desiderio di viversi le situazioni fino in fondo, una passionetalmente forte da rimbombare dentro. Sono voci fuori dal coro,fuori dal mondo delle apparenze e dello spettacolo con le sue lu-singhe sempre più tenaci. Voci che purtroppo non riescono ad ar-rivare ovunque. In questo libro, Alessandro Bertante se la prendecon la generazione dei propri genitori: “Davanti a ogni mia sceltaun poco ardita loro avevano la pretesa e la sincera convinzione diaverla già fatta, e meglio, con più entusiasmo e partecipazione”.Viene in mente il titolo del celebre libro del militante dell’under-ground americano degli anni sessanta, Jerry Rubin: Quinto: uccidiil padre e la madre, pubblicato in Italia da Arcana Editrice nel1976 con un’introduzione di Antonio Negri. Si tratta di affronta-re in modo radicale l’avversario più subdolo, il proprio ego. E seda una parte c’è sicuramente l’incapacità di affrontare questopasso, dall’altra c’è un muro di gomma costruito da quella genera-zione infinita che non è disposta a rimettersi in gioco né tantome-no a farsi da parte. Agenzia X ha creduto importante dare voce al-la rabbia di un figlio di sessantottini che finalmente ha deciso di

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scrivere il proposito di uccidere padre e madre. D’altronde nonsiamo ancora riusciti a uccidere vero il padre padrone che domi-na la cosiddetta sinistra nostrana. “In Italia quasi la metà dei de-litti viene consumata in famiglia. A questa regola non sono sfuggi-te le grandi famiglie della politica italiana. Nel 1977 la famigliadella sinistra uccise suo padre, il Partito Comunista Italiano. Undelitto a lungo cercato.” Comincia così, riferendosi alla cacciatadi Lama dall’Università La Sapienza, il libro di Lucia Annunziataappena uscito: 1977. L’ultima foto di famiglia; tuttavia, come ab-biamo visto in precedenza, i vari D’Alema, Fassino e Veltroni so-no assai vivi e vegeti! Il fatto è che questo delitto la nostra societànon lo ha ancora compiuto, con tutte le tragiche conseguenze checiò si porta dietro. Non successe con l’insurrezione contro il go-verno Tambroni nel 1960, non bastò lo schiaffo che Primo Moro-ni sferrò all’allora presidente della Fgci, Achille Occhetto, dopola morte di Ardizzone nel 1962. Evidentemente non riuscirono afarlo le barricate del maggio francese, considerato che quelle vio-lenze sono in molti oggi a nasconderle dietro un triangolo ince-stuoso condito da Buster Keaton e Charlot, come nell’ultimo filmdi Bertolucci The Dreamers. “E noi che aspettavamo Novecento.Atto terzo per scatenare la rivoluzione, visto che all’Atto secondoeravamo riusciti a sfondare in ottomila i cinema dove venivaproiettato?” potrebbe dire un redivivo settantasettino milanese...

Sempre nel libro dell’Annunziata, a pagina cinquanta, è riportatoil succo del discorso di Adriano Sofri al convegno di Rimini. “IlPci ha legittimato la ristrutturazione capitalistica dei padroni, tra-sformandosi in uno strumento di costruzione del consenso ope-raio; il movimento studentesco è finito; il Pdup è solo una piccolaorganizzazione fiancheggiatrice, e anche Lotta Continua non hapiù certezze. L’unico modo per sopravvivere è ‘vivere con il terre-moto’.” Ed è difficile pensare che un’organizzazione del generedopo queste frasi poté credere di diventare una sorta di ultimacerniera della spaccatura del ’77, tesi di fondo dell’intero librodell’Annunziata. Forse a Roma e al Sud, ma al Centro e certamen-te in Nord Italia, dopo il ’76, non ci fu nessun mediatore possibi-le. Il terremoto si ingoiò la stragrande maggioranza militanti di

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Lotta Continua. Insomma, non ci fu alcun parricidio, il ’77 at-tentò alla vita del sessantotto e fallì. Alcuni intellettuali graziati daquel fallito attentato furono messi al lavoro per riscrivere la storiaa uso e consumo dei vincitori presessantottini. Semmai, fu un fi-glicidio, una parola che nemmeno esiste in lingua italiana... Vor-rei andare avanti a commentare 1977. L’ultima foto di famigliapartendo da quando il professor Asor Rosa, personaggio chiavenella ricostruzione dell’autrice, afferma che “l’alleanza tra con-servazione e disgregazione sociale può apparire strana, ma nonimpossibile”. Ma dove, mi viene da gridare! È una bufala questa!Conservazione di chi? Del Pci! Disgregazione sociale di chi? Deigiovani settantasettini! Un serpente che si mangia la coda, con lagenerazione infinita a ficcargliela ancora più profondamente ingola. Infatti qualche amico ricorda che sul muro della sapienzaapparve la scritta a spray: “Asor Rosa, un palindromo vivente”.Ebbene, dalle ceneri del ’77 nacque il movimento punk italianoche, seppure con livelli di scontro e obbiettivi molto diversi, riu-scì a riattivare il filo rosso della storia dei movimenti dando vitaalla stagione dei centri sociali.

Da un certo punto di vista, noi punk siamo stati più fortunati deigiovani cresciuti dopo. Almeno non abbiamo subito così pesante-mente l’influenza culturale della generazione infinita, i nostri geni-tori non avevano vissuto quell’epoca, dopo il 1977 i pochi compa-gni che solcavano le strade del dissenso ci avevano ben istruiti,eravamo in qualche modo vaccinati e ogni nuova proposta di truf-fa mediatica per salvare capra e cavoli di una storia scomoda la sa-pevamo ormai riconoscere al volo. Per i nati negli anni settanta eottanta non è andata così bene, immagino sia diventato insoppor-tabile sentire parlare di sé come della generazione dei mammoni,degli eterni adolescenti, degli inconcludenti che non se ne vannodi casa. Per questo il libro di Alessandro Bertante è scritto con li-vore e rancore, polemico nei confronti di chi ha nascosto o mistifi-cato le ragioni e gli avvenimenti della contestazione del sessantot-to raccontandola come momento irripetibile, come se fosse statol’ultimo possibile periodo rivoluzionario dell’umanità. In realtà,se si procede nell’osservazione dal basso dei moti rivoluzionari nel

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corso dei secoli, si noterà che le azioni e i pensieri di uomini e don-ne, strenui oppositori delle classi dominanti, sono quasi sempreinvisibili per la storiografia ufficiale. E nonostante siano soggetticolpiti duramente dalla repressione, dal ceppo del boia, dal pati-bolo, dalle torture e dalle stanze afone al neon dell’isolamentocarcerario, sono coloro che hanno modellato più in profondità lastoria del nostro mondo. L’Idra dalle molte teste che nella mitolo-gia Ercole aveva il compito di annientare era “il simbolo antiteticoidoneo a rappresentare il disordine e la resistenza, una potenteminaccia all’edificazione dello stato, del impero, del capitalismo”scrivono Peter Linebaugh e Marcus Rediker nel loro bellissimo li-bro I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria.Da ogni testa mozzata dell’Idra ne nascevano altre due, poi quat-tro, poi otto. Una moltitudine di teste che per i nuovi padroni delSeicento e del Settecento rappresentava la difficoltà di imporrel’ordine su sistemi di forza-lavoro sempre più globali. Le nuoveprotuberanze del mostro appartenevano, fra i tanti, anche aglischiavi a contratto, ed è questa la condizione lavorativa attuale dimolti figli di sessantottini, per lo meno di coloro che non si sonogenuflessi a loro volta. “Presto [le teste] svilupparono al loro in-terno nuove forme di cooperazione contro i padroni: dall’ammu-tinamento, allo sciopero, alla sommossa.” Perciò il significato delmostro fu ribaltato dagli oppressi: “L’Idra divenne un mezzo persfruttare la molteplicità, il movimento e la connessione, le ondelunghe e le correnti planetarie dell’umanità”. Per fermare tali cor-renti non bastano certo dei grilli parlanti prezzolati. Non credia-mo che Contro il ’68 sia una nuova testa dell’Idra, ci auguriamosoltanto lo sviluppo di un dibattito atto a impedire, nella prossimacelebrazione del quarantennale, l’ennesima e fantozziana trasmis-sione televisiva della partita Italia-Germania 4 a 3.

Marco Philopat

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“Si può affermare senza paura di sbagliare che in Francia lo studente è, dopo i poliziotti e i preti, l’essere più universalmente disprezzato”

Della miseria nell’ambiente studentescoStudenti di Strasburgo, 1966

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1.L’ultima generazione

Tutte le generazioni sono le ultime. Partendo da questa presunzione di unicità, da questo senti-

mento condiviso di appartenenza e dall’orgogliosa certezza dirappresentare un momento irripetibile, le nuove generazioni so-no da sempre la risorsa vitale delle società in divenire. Guerranon dichiarata ma reale e necessaria, la tensione fra padri e figlimuove la storia e fa da detonatore di quelle energie e risorse emo-zionali inevitabilmente tenute a freno dalla maturità, dall’espe-rienza e dalla disillusione. L’essere umano giovane, guardando alfuturo con eccitazione e urgenza, è eversivo per natura, si sentecostretto dalle convenzioni ereditate e aspira a vivere in una so-cietà inedita, che nasca e si sviluppi secondo la sua visione delmondo. Soggetto che crea il futuro, il giovane è protagonista diuna missione salvifica di rinnovamento.

In Italia questo rinnovamento manca da più di vent’anni, daquando, con implacabile determinazione, i giovani studenti con-testatori protagonisti del sessantotto sono diventati classe diri-gente, soppiantando i loro padri e dimenticandoli.

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Io sono nato nel 1969, subito dopo l’anno totemico. La mia ge-nerazione ha vissuto l’infanzia negli anni settanta. Ne ho un’im-magine velata, quasi onirica, fatta di strade e cortili, mamme concapelli lunghi e lisci, vestiti colorati, giochi forsennati, vacanze incampeggio e viaggi con un furgone sgangherato verso luoghi an-cora un poco selvaggi, dall’atmosfera avventurosa. Ma ricordoanche i candelotti di gas lacrimogeno nei giardini sotto casa, che adetta di mia madre non dovevo assolutamente toccare e che inve-ce scalciavo allegramente con i miei compari, ignaro della furi-bonda lotta sociale che si stava consumando a pochi metri dallamia fanciullezza. Ricordo le scuole chiuse per l’allarme bomba, lefughe di Vallanzasca, le siringhe sparse ovunque, le discussioniaccese, la luce razionata, i miniassegni e le targhe alterne. Incon-sapevolmente, vivevo in un’Italia che stava sparendo. A ripensar-ci sembra trascorso un secolo.

Negli anni ottanta ero adolescente. Ho ricordi forti e dramma-tici. Tutto stava cambiando a una velocità incredibile e quasi sen-za che ce ne accorgessimo c’erano già i computer, gli hamburgeramericani, i piumini sintetici, i videogame con gli extraterrestri ele televisioni private di frontiera, piene di uomini ridicoli che ven-devano tappeti, di robot giapponesi e donne nude.

Mi sentivo spaesato, fuori luogo. Circondato da pericoli. Molti degli amici più grandi, che fino a poco tempo prima gio-

cavano a pallone nel campetto dietro la scuola, improvvisamentediventavano pallidi e confusi, straparlavano, dimagrivano a vistad’occhio, rubavano le mille lire ai bambini, e poi, quasi di nasco-sto, morivano di eroina.

Nessuno li rimpiangeva. Semplicemente, non c’erano più.La nuova modernità aveva tante facce, alcune sconosciute. Ostentando una sorta di curiosa indifferenza, i più informati

cominciavano a parlare di Aids. La metropoli, la baldanzosa Mi-lano della moda e della pubblicità, si dimostrava una città ostile,disgregata, ingiustamente rancorosa nei confronti dei giovani.Nonostante questa spaventosa quotidianità fatta di droga, emar-ginazione sociale, fast food, esibizionismo, grossolane scarpe allamoda, giacche a vento sgargianti e idiozia televisiva, i miei genito-

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ri, gli insegnanti, gli adulti mi raccontavano, tra il pensoso e il no-stalgico, di avere da poco vissuto un’epoca irripetibile. Un’epocacaratterizzata da speranze di liberazione e di uguaglianza, nonchédalla certezza di essere la generazione che avrebbe cambiato il de-stino del mondo. E mentre, crescendo, affrontavo le prime espe-rienze che qualsiasi ragazzo o ragazza vuole vivere, davanti a ognimia scelta un poco ardita loro avevano la pretesa e la sincera con-vinzione di averla già fatta, e meglio, con più entusiasmo e parte-cipazione.

Purtroppo erano gli anni ottanta e il presente mi appariva irri-mediabilmente diverso da quelle loro fughe immaginarie: Milanoera una città pericolosa, dove le tentazioni della droga e della stra-da spesso rappresentavano l’unica via d’uscita da una realtà in cuinon sembrava restasse molto da scoprire. Camminando radentesull’orlo del baratro, tiravo dritto nel mio isolamento e, benchécontinuassi a osservare gli adulti con un misto di curiosità e ri-spetto, ben presto prese il sopravvento una forte perplessità: leavventurose rievocazioni dei sessantottini – diventati in quel pe-riodo brillanti professionisti sui quarant’anni – erano certo moltoaffascinanti, ma nella ricostruzione che mi veniva proposta c’eraqualcosa che non funzionava.

Io la realtà ce l’avevo davanti agli occhi. Tutti i giorni mi alzavodal letto e affrontavo il surreale sberluccichìo della Milano da be-re. Livoroso e impacciato, vestito completamente di nero per ur-lare la mia ribellione, osservavo la città senza capirla. A distanzadi poco più di dieci anni, i protagonisti delle lotte e i fautori delleutopie mi sembravano davvero troppo cambiati. Trasfigurati. Co-sa è potuto succedere in così poco tempo? mi domandavo, since-ramente stupito.

Forse la storia corre troppo in fretta, pensavo, o forse a me,adolescente inquieto e molesto, manca una visione d’insieme. Ri-mane il fatto che gli ex contestatori dalla memoria nostalgica misembravano troppo in pace con se stessi per avere da poco vissutouna lacerante sconfitta. Erano fin troppo sereni per avere subitoin prima persona la violenza ideologica degli anni settanta: inseri-ti professionalmente, consapevoli, disinvolti, adattabili ai cam-

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biamenti, sicuri e sprezzanti nelle frequenti quanto interminabiliconversazioni serali in trattoria, dove si divertivano facendo a ga-ra a chi avesse la più autentica patente di rivoluzionario.

Dal mio punto di vista di giovane ribelle metropolitano – e noi ri-belli lo eravamo veramente, una minoranza esclusa e bistrattatache negli anni del riflusso non poteva contare sul materasso dell’i-deologismo conformista – era paradossale che quegli stessi so-gnatori, gli artefici del mancato “assalto al cielo”, giunti al mo-mento delle scelte importanti si fossero trasformati negli entusia-sti protagonisti della politica liberista degli anni ottanta e guar-dassero con colpevole noncuranza all’affermarsi dell’edonismoconsumistico, dell’appiattimento informativo e della volgarità te-levisiva, che proprio in quel periodo diventava modello privile-giato di comunicazione. Mi sembrava che, travolti dai cambia-menti, non fossero per niente lacerati da dubbi di coscienza, oche perlomeno questi si limitassero alla dimensione privata, an-dando a ingrossare la moltitudine dei piccoli e grandi drammi fa-miliari così frequenti fra i miei coetanei.

Crescendo mi sono convinto della fondatezza del mio istintivopresentimento giovanile. Avevo ragione.

È sempre difficile e rischioso fare discorsi di carattere genera-le, specie se si adotta la scivolosissima chiave di lettura genera-zionale, ma trascorsi tanti anni e usando lo sguardo diacronicodel divenire storico, che rende tutto più nitido e lineare, apparefin troppo chiaro che ci fu una sorta di grande rimozione. La ri-mozione della gioventù, verrebbe da dire. Perché, dimenticateogni volontà di rivolta e ogni speranza di rinnovamento, queglistessi uomini e donne che pochi anni prima avevano sognato unanuova democrazia egualitaria – gridando slogan prima immagi-nifici e poi di implacabile violenza, oggi davvero imbarazzanteper la totale mancanza di credibilità politica – sono stati corre-sponsabili della creazione dell’attuale società italiana, oggi avvia-ta verso una penosa e, temo, inevitabile decadenza. In un primomomento, questo ribaltone esistenziale veniva giustificato conl’adesione a un pragmatismo riformista liberale, ben rappresen-

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tato dal craxismo e dalle sue derive furfantesche, poi facendopropria una visione del mondo disillusa e personalistica, nellaquale ogni scelta politica, anche la più deprecabile o interessata,viene giustificata con un insindacabile “percorso di rielaborazio-ne personale”. Badate bene, con questo ragionamento non pre-tendo di criminalizzare un’intera generazione, sarebbe stupido eingiusto. Troppe speranze sono andate deluse per continuare ainfierire. Ma certamente viene rivendicato uno spirito identitarioforte, condiviso dalla maggior parte di coloro che parteciparonoalle lotte di quegli anni. D’altra parte le decisioni dei leader sonosempre permesse da coloro che li acclamano come tali. E non ècerto una novità che i leader del sessantotto studentesco ormaida parecchi anni rivestono ruoli importanti nella società civile,nell’imprenditoria e soprattutto nella comunicazione. Si colloca-no sia a sinistra sia a destra, divisi su tutto meno che sulla lacri-mosa arte del rimpianto.

Certo è che, distratti o forse dimentichi degli eventi, pochi diloro si sono posti il dubbio di avere avuto un ruolo storico moltodiverso da quello solitamente celebrato nelle periodiche rievoca-zioni. Pochi hanno pensato di essere in prima persona responsa-bili di una grande truffa politica e culturale.

La mia generazione e quelle successive, formatesi culturalmentenegli anni ottanta e novanta, gravate di questo fardello e soffocatedall’abbraccio di padri che si rifiutano di invecchiare e temono diperdere il loro presunto primato intellettuale, non sono state ca-paci di un rigenerante conflitto anagrafico.

In realtà non ci abbiamo nemmeno provato. Chi ha rivendicato con fermezza la propria indipendenza, offi-

ciando freudianamente l’uccisione del padre su vasta scala, certosa come tenere a bada i propri figli. Lo fa con astuzia, e magari an-che in buona fede. La convinzione di avere sperimentato tutto, diavere in qualche modo rappresentato la sintesi dei grandi movi-menti sociali del Novecento, ha creato una sorta di sproporziona-to ego generazionale, che in forma differente e con minore enfasicontinua a riproporsi ancora adesso. Sulla base di questa convin-

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zione, le donne e gli uomini protagonisti della lunga stagione con-testataria (che in Italia, sebbene in forma crepuscolare e assai mu-tevole, dura oltre la metà degli anni settanta), superata la sogliadella maturità hanno più o meno consapevolmente castrato i pro-pri figli, vigilando sulle loro aspirazioni e complicando il loro rag-giungimento, anche a livello economico, di una reale emancipa-zione. Dal loro punto di vista noi saremo giovani per sempre. No-stro malgrado, pur invecchiando naturalmente come tutti gli uo-mini e le donne prima di noi, ci mancherà il privilegio della matu-rità. E nonostante un livello di istruzione dignitoso – sicuramenteraggiunto senza le agevolazioni politiche di cui hanno goduto icontestatori – non potremo nemmeno contare su una casa nostrae un posto di lavoro sicuro. Saremo costretti a vivere sotto tutela,all’ombra del perduto benessere dei nostri genitori, come in unasorta di purgatorio laico al quale si accede senza avere commessopeccati.

Per noi non c’è proiezione immaginifica e soprattutto non c’èconflitto. Manca l’antagonismo, che è il vero motore del cambia-mento e della storia. La prima conseguenza dell’assenza di unospirito di rivalsa generazionale, paradossalmente, è la difficoltà dicomunicazione. I trentenni italiani con i sessantottini non si par-lano e non si capiscono. Tendiamo a evitarci cordialmente. Ancheperché, secondo una loro radicata quanto infondata e stravaganteconvinzione, noi non ci siamo ancora guadagnati una dignità cul-turale, afflitti dalla sfortuna di avere trascorso la nostra giovinez-za in un’epoca di grande disagio esistenziale. In questo rapportomai consumato riveste un ruolo importante il nostro senso d’infe-riorità, diretta conseguenza di una mancata identità biografica edell’assenza di coscienza politica, o anche solo di una forte consa-pevolezza culturale. Una consapevolezza che si forma solo attra-verso la condivisione della lotta.

L’incomprensione genera inevitabilmente spiacevoli equivoci. Guardando con sospetto qualsiasi fenomeno sociale diverso

dalla loro irripetibile giovinezza, gli intellettuali sessantottini han-no cercato di etichettarci con categorie anonime e prive di signifi-cato: generazione x, generazione y, generazione del disimpegno,

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dei mammoni, degli eterni adolescenti, degli inconcludenti chenon se vanno di casa.

È ridicolo. Questo atteggiamento misto di incredulità e pater-nalismo benpensante è cresciuto con il tempo, si è rodato neglianni, è ormai logoro, utilizzato fino alla nausea.

In quanto ultima generazione virtuosa dell’umanità, i sessan-tottini non si sono preoccupati di chi sarebbe venuto dopo di lo-ro. Hanno vissuto nel presente, hanno lottato per il presente, cre-duto nel presente, bruciato il presente, senza mai provare a volge-re lo sguardo in avanti.

Per la loro vita “volevano tutto” e tutto hanno avuto: il purosentimento di appartenenza e l’innata capacità di condivisione emobilitazione sono state risorse straordinarie, una forza d’urtorara e invidiabile. Ma breve e purtroppo non sempre onesta, per-ché proprio mentre ridicolizzavano senza pietà l’aspirazione pic-coloborghese del posto fisso e della tranquillità economica si so-no presi cura del proprio interesse: assunti a tempo indetermina-to, garantiti al cento per cento, non licenziabili; molti sono diven-tati perfino baby pensionati, una bizzarria surreale ma significati-va, emblematica della loro convinzione di non avere eredi. E se loStatuto dei lavoratori (promulgato nel 1970 in seguito alle lotteoperaie dell’autunno caldo) rimane una delle più importanti ere-dità politiche del sessantotto, le generazioni successive hanno ri-cevuto in eredità un mondo del lavoro disgregato e selvaggio, do-ve l’ormai capillare e consolidata diffusione del precariato è solol’aspetto più appariscente di una crisi etica ed esistenziale che inrealtà è cominciata proprio con la loro sconfitta.

Gramo destino il nostro. Figli illegittimi di una nazione che èfanalino di coda di un’Europa ancora impalpabile e rappresental’antitesi ideale e pratica di tutte le battaglie degli anni sessanta esettanta, viviamo alla giornata senza riuscire a immaginare un fu-turo, in una nazione fiaccata dal malcostume e culturalmente de-pressa.

Nella loro illusione di eterna giovinezza, i nostri padri hannovissuto senza porsi il problema del ricambio generazionale. Il ri-tardo economico, sociale, professionale, culturale e civile dell’Ita-

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lia contemporanea è dovuto in gran parte alla mancanza di questoricambio.

Intanto, incurante delle nostre piccolezze, la storia è andataavanti in modo tumultuoso. Abbiamo toccato con mano la picco-lezza geografica del pianeta, constatato con franco stupore la ca-ducità delle dittature comuniste, siamo stati protagonisti dellastraordinaria rivoluzione informatica ancora in atto e pallidi com-primari di guerre sanguinose, a noi molto vicine. Ma nonostantelo scorrere degli eventi, il fiorire della scienza, il migrare dei po-poli, il moltiplicarsi di conflitti fra razze e religioni e tutto questotrasformarsi di idee, i sessantottini rimangono ancorati ai propriricordi di gioventù. Non soddisfatti, cercano ancora di raccontar-ci della loro formidabile occasione fallita. Sembrerebbe quasi unromantico vezzo, se non fosse soprattutto un’orgogliosa rivendi-cazione di unicità.

Torno a domandarmi: come è potuto succedere? Perché le donne e gli uomini nati tra gli anni quaranta e cin-

quanta conservano questa forza persuasiva, questo straordinarioattaccamento alla propria storia che si tramuta ancora una voltain una rivendicazione del potere?

Temo di non sapere rispondere con certezza a questa doman-da, ma forse la causa di tanta superbia è più nobile delle sue con-seguenze culturali. Incoscienti e sognatori, si sono affacciati allastoria come una generazione onnivora, bramosa di scoperte e avi-da di immaginario.

Una generazione che da subito si è distinta per la virulenza conla quale ha attaccato i propri padri, che nel bene e nel male sonostati gli autentici rinnovatori del paese e l’hanno risollevato dalletragedie della dittatura e della Seconda guerra mondiale.

Avevano fretta, una tremenda fretta di vivere. Forse è proprioquesta necessità di fare piazza pulita del passato il vero tratto di-stintivo dei giovani studenti protagonisti della rivolta sessantotte-sca. Lì sta la loro forza, la loro grande novità. Lì sta anche il lorolimite. Perché, sedotta e sviata dal tumulto politico e dagli inarre-stabili cambiamenti della società postindustriale, l’urgenza vitalesi è ben presto dimostrata ingannatrice, nelle sue peggiori manife-

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stazioni si è corrotta in dogmatismo ideologico e più diffusamen-te in arroganza e conformismo.

Che cosa resta, quindi?Se è vero che le generazioni si devono giudicare soprattutto

per l’eredità che lasciano, è davvero strano che i sessantottini sia-no riusciti a confonderci per così tanto tempo. Nonostante gli an-ni ottanta e tutto ciò che hanno comportato, nonostante il berlu-sconismo e la Lega, i socialisti inquisiti e rancorosi, i fascisti al go-verno, il precariato eretto a sistema di gestione del lavoro e la sot-tocultura televisiva con i suoi pagliacci di ruolo, nonostante gli in-tellettuali ex rivoluzionari, i giornalisti ex rivoluzionari, gli avvo-cati ex rivoluzionari, gli imprenditori ex rivoluzionari, i registi exrivoluzionari, i sondaggisti ex rivoluzionari, gli imprenditori exrivoluzionari, i portaborse ex rivoluzionari... come è possibile chenonostante la sconcertante anomalia politica italiana che fa sorri-dere amaramente tutta l’Europa e trascorsi tanti anni nessuno ab-bia ancora messo seriamente in discussione la vicenda esistenzialee il percorso politico dei sessantottini?

Probabilmente perché negli ultimi due decenni ci hanno rac-contato una storia incompleta. Una storia fatta anche di inganni ememorie di parte, che si potrebbero confutare facilmente se nonfossero coperti da una cortina fumogena propagandistica che inparte funziona ancora adesso, rinforzata com’è da una solidarietàgenerazionale e da un’omertà colposa che la rende, all’occasione,quasi invalicabile.

Fiaba consolatoria, il fragile mito del sessantotto è servito arendere più semplice e incruenta, in realtà quasi priva di costi po-litici, la ristrutturazione sociale ed economica dell’Italia comincia-ta in sordina all’inizio degli anni ottanta e non ancora conclusa.

Ristrutturazione che non abbiamo voluto ma ci troviamo aereditare.

Questo mito ha dei responsabili precisi, ma per riconoscerli èmeglio partire dall’inizio.

È meglio partire dai padri.

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2.I ragazzi del “boom”

Voglio essere orfano. Stava scritto nella primavera del 1968 sui muri di molte uni-

versità italiane occupate. Voglio essere orfano, senza padre e ma-dre, senza nessuno che mi dica cosa fare o come comportarmi.Senza legami con il passato e senza storia. Una materia grezza daplasmare. Affascinante, la determinazione dei giovani sul finiredegli anni sessanta: con questa straordinaria forza si affacciavanoall’età adulta.

Il Novecento è stato un secolo vissuto nel presente. Nell’ora enel qui. Bisogna partire da questa prospettiva per comprendere leragioni che stanno alla base della grande rivolta studentesca delsessantotto.

Gli anni sessanta furono testimoni di un rinnovamento senzaconfini, la prima vera cesura storica verso quella che, con una de-finizione sommaria ma efficace, sarà poi chiamata postmodernità.

Rimarginate con fatica le ferite della Seconda guerra mondialee rimossa, con qualche omissione di troppo, l’immane tragediadel nazifascismo, il mondo stava cambiando a ritmo vertiginoso,

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coinvolgendo in questo entusiasmo economico e culturale nazio-ni distanti fra loro sia geograficamente che per sviluppo sociale.

Tutto sembrava succedere in quel momento. Tutto era attuale. Paese in via di trasformazione, l’Italia usciva dalla crisi econo-

mica del dopoguerra, guardando con impazienza a un progressoscientifico e industriale che appariva come il naturale veicolo diun nuovo benessere quotidiano. Ovunque aprivano nuovi negozinei quali facevano bella mostra di sé inediti e attraenti beni diconsumo, segno tangibile di un’economia in ripresa. Le automo-bili utilitarie diventavano un bene di massa, un simbolo di quel-l’emancipazione sociale che in breve avrebbe cambiato le abitudi-ni degli italiani: neofiti ed entusiasti piccoloborghesi alla scopertadella gita fuori porta, del fine settimana e delle ferie estive nellepensioni tutto compreso.

In questo fluire di occasioni cambiava soprattutto il volto dellecittà che, rumorose e trafficate, si allargavano a dismisura verso leperiferie, fino ad allora territorio anonimo e privo di servizi, luo-go privilegiato delle grandi fabbriche, sempre più bisognose dimanodopera proveniente dal Sud Italia e dalle regioni depressedel Nord. Con l’aumentare degli stipendi e dei salari, il frigoriferoe gli elettrodomestici entravano in tutte le case mentre la televi-sione prendeva il posto della radio come mezzo di comunicazioneprivilegiato degli italiani.

Era il “boom economico”, nientemeno. Una crescita di tutto ilpaese, una crescita che sembrava non avere fine. Aumentavano iconsumi e con questi si creavano nuovi bisogni e un nuovo imma-ginario popolare.

I giovani cresciuti nel benessere della nuova Italia repubblica-na guardavano speranzosi al futuro come a un vasto terreno daesplorare. Un terreno senza limiti, il loro territorio.

In questo contesto di grande ottimismo, i giovani sentironoper la prima volta di essere tali: una categoria sociale definita, concaratteristiche e aspirazioni completamente nuove.

Queste aspirazioni vennero da subito rivendicate e sono benvisibili in tutta la produzione culturale di quel periodo: dai film aiprogrammi televisivi, alla musica leggera, che diventò un fenome-

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no di massa spodestando con i giovani cantanti “urlatori” prima ele band rock poi – ascoltati collettivamente nei bar e nelle latteriegrazie ai nuovissimi juke-box – la polverosa tradizione melodicaitaliana.

Nacquero nuovi bisogni, cuciti su misura per i numerosi figlidel “baby boom”, la prima generazione che non aveva sofferto lafame e che aveva potuto contare su una scolarizzazione in rapidadiffusione. Una generazione sedotta dal progresso e seducenteper la propria vivacità culturale, scelta da subito come target pri-vilegiato per le nascenti, ma già aggressive, multinazionali dell’ad-vertising, che individuano il reale segno di distinzione, il legameche unisce i ragazzi di ogni paese occidentale, nei nuovi oggetti diconsumo e nello status symbol sociale che essi inevitabilmentecontribuiscono a creare. Nacquero nuovi consumatori.

Parallelamente esplose la rivoluzione dei costumi, che in brevetempo diventò il primo stimolo per l’ampliamento del mercatoverso la nuova borghesia urbana: forse è proprio questo il lascitopiù significativo e duraturo di tutto il decennio. In pochi anni igiovani europei e americani conobbero la vita spensierata della“swinging London” con la minigonna di Mary Quant e le sue ma-grissime modelle, la bellissima e sognante Brigitte Bardot dellescandalose estati a Saint Tropez, la pop art di Warhol e Lichten-stein, la musica dei Beatles, dei Rolling Stones e di tutti i nuovigruppi rock e pop; poi arrivarono i capelli lunghi e l’anticonfor-mismo, si cominciò a parlare di beat generation e controcultura eperfino in Italia alcuni giovani partirono con lo zaino in spalla de-cisi a conoscere quello che succedeva nel mondo. Le mete prefe-rite erano gli aperti e modernissimi paesi del Nord Europa, la mi-stica India o ancora il magico e tribale Afghanistan, prima chel’invasione sovietica e trent’anni di guerra civile lo escludesserodalle mete dei viaggiatori. Insieme ai viaggi si diffusero le drogheleggere, seguite dall’Lsd e dagli altri allucinogeni, necessario vei-colo dell’esperienza psichedelica. Grazie all’arrivo clandestinodei filmini svedesi si cominciò a discutere apertamente di eroti-smo, elaborando i primi timidi accenni di liberazione sessuale.

Ma ancora non era abbastanza. L’immaginazione si nutriva

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tutti i giorni anche di fatti concreti e verificabili. Insieme a questoluccicare borghese di opportunità, da una parte all’altra del pia-neta si viveva una stagione politica fremente, forse irripetibile,fatta di sogni di rivolta e speranze di rinnovamento. Seppure lon-tani decine di migliaia di chilometri, i giovani studenti seguivanocon passione le diverse fasi della guerra in Vietnam, palude del-l’imperialismo americano, e con la stessa partecipazione facevanoconoscenza con la politica dei “Cento fiori” del presidente MaoTse Tung, le timide riforme di Nikita Kruscev, il romanticismo ri-voluzionario di Ernesto Che Guevara, la vana speranza progressi-sta di JFK, strumentalmente appaiata alla battaglia per di diritticivili di Martin Luther King. E poi c’erano le lotte anticoloniali-ste, la guerriglia comunista in America Latina e il mito della rivo-luzione terzomondista: era un mondo in cui le speranze si stavanorealizzando.

Tutto questo successe nell’arco di neanche dieci anni. Il pre-sente era più che sufficiente a far sognare anche i più scettici, nelpresente stava il serbatoio emozionale dell’immaginazione al po-tere. Persino la minaccia della guerra nucleare tra i due blocchi,che ritornava ossessivamente nell’immaginario occidentale deglianni cinquanta, veniva momentaneamente rimossa, relegata a uninconscio collettivo da cui trarrà poi ispirazione la narrativa fan-tascientifica.

Il mondo cambiava a velocità travolgente e la generazione on-nivora nata proprio negli anni che seguirono la fine della guerranon vedeva più ostacoli di fronte a sé. Nessun ostacolo a parte ipropri genitori, i vecchi italiani. Le donne e gli uomini testimonidel conflitto mondiale, della Resistenza, della guerra civile e deldrammatico epilogo della dittatura, cresciuti sotto il fascismo eartefici dell’Italia repubblicana, nazione giovane, nata dalla radi-cale cesura tra passato e innovazione. Certo provinciali e un pocoprevedibili nel loro compassato rigore morale, ma anche saldinell’attaccamento a una bandiera, fosse quella del Partito Comu-nista, della Democrazia Cristiana oppure quella, più prosaica, delposto fisso garantito. Una generazione parecchio significativa dalpunto di vista politico e culturale, che ha lasciato un’eredità im-

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portante al paese e della quale ora si avverte una sorta di sommes-sa nostalgia. Una nostalgia motivata, perché quella generazione èstata quasi completamente rimossa dalla nostra memoria, repen-tinamente sorpassata, resa obsoleta dalla grande rivolta del ses-santotto.

Pier Paolo Pasolini, che di quella generazione faceva parte, nelsuo genuino terrore per la modernità aveva intuito la grande diffi-denza dei ragazzi cresciuti negli anni sessanta verso i loro padri.La loro difficoltà di comunicazione e di condivisione; il loro esse-re lontani e antagonisti, già proiettati verso un’altra Italia, un luo-go che lui non riconosceva e che senza incertezze riteneva temibi-le. Nella celebre quanto discussa poesia Il Pci ai giovani, pubbli-cata su “Nuovi Argomenti” nell’aprile del 1968, all’indomani de-gli scontri tra polizia e studenti romani nei giardini della facoltà diArchitettura di Valle Giulia – evento che sancisce simbolicamen-te l’inizio della contestazione italiana – aveva cercato di giustifica-re il suo astioso timore e l’ormai chiaro antagonismo generaziona-le usando categorie sociali pretestuose e grossolane, viziate da unsentore nemmeno troppo velato di qualunquismo. Dividendo isecondo lui incolpevoli poliziotti proletari dagli studentelli bor-ghesi, viziati e consapevoli – “Avete facce di figli di papà. Buonarazza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo.” – il poeta, rega-lando nuovi micidiali argomenti al populismo conservatore, pa-gava il suo personale tributo a quell’Italia da lui descritta comeprovinciale e reazionaria e che pure rimpiangeva.

La questione era in realtà molto più complessa, e Pasolini losapeva bene. Al di là dell’acredine personale nei confronti deigiovani contestatori, da grande intellettuale qual era aveva intuitodi essere testimone di un passaggio epocale, una cesura storica.Pasolini si sentiva parte di un vecchio mondo, che rimpiangevacome perduto. Lui come il tormentato Bianciardi, prima protago-nista e poi emarginato nella frenetica Milano del “boom”. Lui co-me il talentuoso Meneghello, che rievocando l’incanto dell’infan-zia offriva la testimonianza di un passato già remoto. Lui come loieratico Testori, cantore di periferie in trasformazione e di uominiin perenne transito. Lui come l’appena trentenne De André, che

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nonostante i pochi anni di differenza non riusciva a comunicarecon i futuri contestatori e li guardava con un misto di invidia epreoccupazione, con quella sua “faccia consumata dal buon sen-so” che lo faceva sentire più vecchio senza essere più saggio. Pa-solini aveva capito che con gli anni sessanta si compiva il definiti-vo crepuscolo di un’Italia arcaica e ancora sostanzialmente rura-le: l’Italia delle classi ben divise e orgogliosamente visibili, l’Italiadella sua giovinezza, contadina e popolare. L’Italia bacchettona emoralista nella quale aveva potuto provare sulla propria pelle l’e-marginazione del diverso. Struggendosi in questa aristocratica di-stinzione, Pasolini guardava con sincera commozione alla massaproletaria priva di istruzione, che secondo lui doveva rimanereimmutata se non voleva perdere la purezza. Presto, lo sapeva,quella massa si sarebbe trasformata. Il poeta friulano, come moltialtri della sua generazione, sentiva che si andava affermando unanuova nazione, più moderna ed efficiente, compiutamente indu-striale, ma che paradossalmente quella novità sarebbe durata po-co, sorpassata dal dominio del terziario e della comunicazione.Ma aveva anche capito che i primi responsabili di questo cambia-mento sarebbero stati proprio i giovani, quegli “studenti dagli oc-chi cattivi” che finalmente, è il caso di ricordarlo senza ambiguità,risposero con determinazione e coraggio alla violenza della poli-zia. Ed è proprio in questo stravolgimento di prospettive che igiovani degli anni sessanta, in nome del presente e dell’urgenzavitale, hanno cominciato la loro rivolta. In primo luogo contro ipropri padri, il nemico più vicino e più immediato. Poi contro lafamiglia, ricettacolo di valori e costrizioni borghesi, vista come unlimite, un legame da rimuovere senza perdere tempo. E poi, an-cora, spinti da uno spontaneo e certo virtuoso istinto antiautori-tario, coinvolgendo nella loro critica ceto politico, modelli peda-gogici, clero e istituzioni.

Il mondo doveva cambiare e gli artefici di questo cambiamen-to dovevano essere loro. Pronti ad agire con decisione e persinocon cattiveria, come notava Pasolini parlando dell’“occhio catti-vo” dei giovani borghesi di città.

Il sessantotto studentesco fu, più di ogni altra cosa, una rivolta

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generazionale, nata nel sempre tumultuoso ambito della borghe-sia urbana intellettuale. In questa lotta tutta borghese i padri fu-rono il primo obiettivo: furono esclusi e poi rimossi dalla nostrastoria. Ma il sessantotto fu anche il crepuscolo, vitale e rumoroso,di tutte le energie sociali, politiche e culturali smosse durante idue decenni precedenti, e che in gran parte sono andate perdute.

Cosa rimane quindi, al di là del mito e delle rievocazioni, del-l’esperienza del sessantotto italiano?

Per cercare di capirlo bisogna seguire la successiva parabolapolitica ed esistenziale dei ragazzi dall’occhio cattivo, ovvero i di-rigenti e i militanti del sessantotto studentesco.

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3.L’eredità politica del sessantotto

L’eredità politica del sessantotto italiano è complessa e contrad-dittoria. Difficile comprenderla in tutte le sue sfaccettature senon si individuano da subito le peculiarità storiche e sociali diquesta esperienza.

Nell’immaginario comune costruito negli anni dalla rievoca-zione celebrativa, dalla sedimentazione mediatica e dall’abbon-dare di memorie individuali, il sessantotto italiano viene quasisempre percepito come una straordinaria rivolta studentesca,parte integrante di quella grande sollevazione mondiale che quasicontemporaneamente coinvolse Parigi, la California, Città delMessico, Berlino, Tokyo, Praga e Varsavia.

Un formidabile momento di scambio culturale, di partecipa-zione e di esaltazione, di scoperta, di allargamento degli orizzontie soprattutto di lotta contro un modello capitalistico decadente ecorrotto, responsabile dell’aggressione militare e dello sfrutta-mento commerciale del Terzo mondo.

Fin qui tutto bene. Ma pur facendo parte a pieno titolo di que-sto dinamico e per certi versi inedito contesto internazionale, già

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globale nelle sue conseguenze immaginifiche, il sessantotto italia-no ha delle caratteristiche peculiari che lo differenziano da qual-siasi altra esperienza politica dello stesso periodo. Durante unbiennio febbrile, infatti, la contestazione studentesca nelle uni-versità italiane si sovrappose alla grande stagione di rivendicazio-ne operaia delle fabbriche del Nord, maturata lungo il decennioprecedente e culminata nelle lotte degli ultimi mesi del 1969.Quello che, con la passione tutta giornalistica per i nomignolisuggestivi, fu chiamato “autunno caldo” è infatti un fenomenospecificamente italiano che, ampliando e diversificando i soggettipolitici coinvolti nel movimento della contestazione, per forza dicose ne arricchisce e complica gli orizzonti interpretativi.

La straordinaria vitalità sociale e politica degli anni sessantanon coinvolse dunque solo la borghesia urbana ma diede vita an-che a un inedito soggetto operaio: un salariato industriale massifi-cato ma moderno e scolarizzato, formatosi in un contesto estra-neo al culto del lavoro e della gerarchia di fabbrica. Specialmentefra i giovani operai meridionali, abituati nei propri paesi di origi-ne, seppur poverissimi, a una qualità della vita più alta, la catenadi montaggio appariva alienante e mortifera e la fabbrica non eravista come il luogo delle opportunità e della sicurezza sociale –punto fermo della politica del Pci – ma come il centro nevralgicodello sfruttamento capitalista.

Nell’ambito di questo importante cambio di prospettive cul-turali non stupisce che molti giovani operai guardassero con cu-riosità alle lotte degli studenti, che a loro volta ricambiarono que-sto interesse facendo proselitismo politico davanti alle fabbriche,seguendo le direttive dei nuovi intellettuali rivoluzionari, giovanieredi della corrente operaista che, nata all’inizio degli anni ses-santa nel vasto e diversificato ambito di studi del marxismo criti-co, diventò alla fine del decennio una delle anime più importantidella nuova sinistra italiana.

La strategia di incontro tra studenti e operai raggiunse il suoculmine proprio durante l’autunno caldo ed è sensato presumereche furono soprattutto le occupazioni di fabbrica a scatenare unareazione rabbiosa e criminale da parte dello stato.

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Prendendo in esame il periodo successivo al sessantotto e quel-le che ne furono le conseguenze politiche e sociali, non si può cer-to dimenticare che nel dicembre del 1969 a Milano venne fattaesplodere una bomba alla Banca dell’agricoltura, in piazza Fonta-na. Con questo attentato fascista s’inaugurò tragicamente la stra-tegia della tensione, che tramite una serie di azioni eversive, pro-seguite a fasi alterne fino ai primi anni ottanta, mirava a influenza-re in senso reazionario le scelte politiche del paese. Senza ombradi dubbio lo stragismo fu il capitolo più drammatico e miserabiledella storia dell’Italia repubblicana, e tuttavia sembra ormai desti-nato a una disincantata accettazione da parte sia di un omertosoceto politico, sia di una società civile assuefatta, abituata a guarda-re al proprio passato nazionale con un misto di sgomento e rasse-gnazione. Non è questo il luogo per indagare quanto fossero oc-culti i poteri che dirigevano gli apparati dei servizi segreti e dellegerarchie militari impegnati in questa strategia eversiva, ma è in-dubbio che quella serie di sanguinosi attentati mirò a colpire inprimo luogo la crescente conflittualità operaia, molto più temibileper il potere democristiano delle pur radicali parole d’ordine stu-dentesche. Gli operai non si accontentavano più delle rivendica-zioni salariali, considerate ormai banali aspirazioni piccolobor-ghesi: nel 1969 gli operai chiedevano più potere. Pretendevanopiù potere, e spesso lo facevano scavalcando la mediazione deipartiti – Pci e Psi soprattutto – e del sindacato, seguendo la segre-ta aspirazione secondo cui la classe operaia rivoluzionaria si sa-rebbe progressivamente sovrapposta allo stato borghese.

Ebbene, questa storia non la ricorda nessuno. Nonostante lacentralità e l’intensità delle lotte operaie nell’ambito specifico delsessantotto italiano, la rappresentazione storico-mediatica di que-gli anni è quasi completamente dedicata alla contestazione stu-dentesca: gli scontri di Valle Giulia a Roma, il lancio di uova allaprima della Scala, Mario Capanna e il Movimento Studentescodella Statale di Milano, i Katanga, gli scontri alla Bussola, i percor-si personali dei tanti leader extraparlamentari; in breve, le gestadei ragazzi dagli occhi cattivi, i moderni e voraci contestatori.

Proprio analizzando questo inquinamento storico e mediatico

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emergono le contraddizioni più pericolose circa l’eredità politicadel sessantotto. Perché se è comprensibile che l’immaginario po-polare si nutra più facilmente delle gesta di giovani studenti ca-pelloni anticonformisti che di quelle di inquadrati operai comu-nisti, è altrettanto ragionevole affermare che a questo propositole letture storiche siano state frettolose e le interpretazioni abbia-no pagano un debito troppo pesante al racconto autobiograficodei protagonisti, appartenenti a una sorta di casta non scalfita daltrascorrere del tempo: memorie di ex studenti borghesi che ridu-cono la ricostruzione dei fatti a una rievocazione nostalgica eparziale.

Bisogna inoltre ricordare che troppe e troppo diverse fra lorofurono le influenze politiche alla base della rivolta studentesca,quasi sempre rappresentata invece come un fronte entusiastica-mente compatto.

Al contrario, il movimento di contestazione nacque ricco ecomposito, con grandi differenze al suo interno. Nella fase inizia-le del sessantotto, quella più spettacolare e fantasiosa, era senz’al-tro maggioritaria la carica spontaneista e antiautoritaria: un’atti-tudine sovversiva che guardava agli esempi di consiliarismo liber-tario, alle opere del primo Marx, specie i Manoscritti economico-filosofici del 1844, alla Scuola di Francoforte (Marcuse soprattut-to); che si ispirava alla radicalità intellettuale dell’InternazionaleSituazionista, all’esperienza sociale dei Provos olandesi, al Move-ment per i diritti civili e alla New left statunitense, alle lotte an-timperialiste dei popoli del Terzo mondo, conosciute anche gra-zie ai “Quaderni Piacentini”, la rivista fondata da Piergiorgio Bel-locchio e Grazia Cherchi che per molti anni fu il principale puntodi riferimento culturale dei giovani contestatori. Insieme alle in-fluenze politiche, concorsero a formare la piattaforma immagini-fica degli studenti in lotta anche le malie filosofiche e letterariedell’esistenzialismo francese, frettolosamente appaiate alle sugge-stive proposte esistenziali della beat generation e della controcul-tura americana. Le poesie di Allen Ginsberg, la prosa di Jack Ke-rouac, le canzoni di Bob Dylan, le scorribande psichedeliche diAldous Huxley e Timothy Leary come la liberazione sessuale di

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Wilhelm Reich rappresentavano un tramite per una realtà altra,per un mondo possibile e prossimo che doveva essere diverso eche avrebbe avuto i giovani come assoluti protagonisti.

Purtroppo questa non è una storia a lieto fine. Superata la pri-ma entusiastica fase di rivendicazioni, nata nella temperie cultu-rale e politica degli anni sessanta, all’interno del composito frontecontestatario le tendenze creative vennero presto messe in mino-ranza. Esaurita per stanchezza la fase di collaborazione con le for-ze operaie e ridotta drasticamente la massa numerica del movi-mento studentesco, fra gli studenti emerse il desiderio di darsiun’organizzazione stabile, di creare un organigramma politicocon ruoli ben precisi e di riproporre il rapporto fra strategie dilotta e organizzazione sulla falsa riga dei polverosi schemi delPartito Comunista ortodosso. Sicuramente non aiutarono a rasse-renare gli animi il crescente timore di una svolta autoritaria né lasempre più manifesta ostilità della borghesia conservatrice, dapoco battezzata, in modo magistrale, “maggioranza silenziosa”.Le continue quanto impunite aggressioni fasciste e la brutale re-pressione della polizia, ben indirizzata da una magistratura subal-terna al potere politico, ebbero come prima conseguenza il serra-re dei ranghi nelle file del movimento studentesco. Le paroled’ordine diventarono autodifesa, militarizzazione, antifascismomilitante. Il trapasso si consumò in pochi mesi, durante i quali lospontaneismo, la pulsione antiautoritaria e la creatività ereticavennero progressivamente abbandonate: venne sprecata malde-stramente una grande opportunità di emancipazione e crescitanon solo per una generazione ma per l’intero paese, la vecchia,sonnolenta e corrotta Italia democristiana.

Politicamente si fece un salto indietro di più di trent’anni: lafuria iconoclasta, il marxismo critico, il comunismo libertario fu-rono soppiantati da un leninismo scolastico e autoritario che ri-fiutava qualsiasi ipotesi creativa in nome di una nuova morale ri-voluzionaria, severa e bacchettona.

Alla sinistra del Pci, che d’altra parte fece assai poco per com-prendere le ragioni politiche e i bisogni esistenziali del movimen-

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to, sorsero decine di formazioni di ultrasinistra in perenne lottafra loro e costituite in gran parte da ex militanti sessantottini.

Cominciò con queste dinamiche la buia e tormentata stagionedei gruppi extraparlamentari, l’eredità peggiore del sessantotto eparadossalmente la più raccontata, quasi rimpianta, nella rico-struzione memorialistica operata dai suoi protagonisti. Significa-tivo a questo proposito il commento di Simona Colarizi nel suoStoria dei partiti dell’Italia repubblicana.

Il connotato comune di questa galassia è la fuga nell’ideolo-gismo più cieco e totalizzante che spegne a poco a poco lospirito critico, per lo più pacifico e gioiosamente dissacran-te, degli studenti del ’68, sostituito da un bisogno di certez-ze fideistiche e di nuove appartenenze chiesastiche. I grup-puscoli si configurano come sette chiuse, ciascuna gelosadel proprio particolare, spesso contrapposte con la massi-ma intolleranza l’una all’altra: i maoisti di Servire il Popolo,i leninisti ortodossi di Avanguardia Operaia, gli stalinistidel movimento studentesco di Milano, i libertari di LottaContinua, gli operaisti di Potere Operaio e, infine, i comu-nisti del Manifesto, nucleo storico del dissenso interno alPci che consuma la definitiva scissione in questo periodo.La pretesa di tutti di essere i depositari della vera ortodos-sia rende improponibile ogni progetto di unificazione nelmitico partito rivoluzionario, riduce i margini d’interventopolitico; ma, soprattutto, la loro debolezza – che nel breveperiodo è anche la loro forza – sta proprio nell’esaltazioneideologica, in netto contrasto con la tendenza alla secolariz-zazione e alla laicizzazione della società.

Per quasi cinque anni il dibattito politico fu monopolizzato daformazioni quali il Movimento Studentesco dell’Università Stata-le di Milano (capitanato dalla tenebrosa trimurti Capanna-Tosca-no-Cafiero, che con una smaliziata opera di copyright si impos-sessarono subito del nome della memoria storica del sessantotto),Avanguardia Operaia, “il manifesto”, Servire il Popolo, Pdup,

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Lotta Continua e Potere Operaio. Ma l’autentica nota dolente,mai veramente indagata con franchezza, sta nella mancata consa-pevolezza della propria identità sociale e politica da parte dei ra-gazzi con gli occhi cattivi, come acutamente fa notare Silvio Lana-ro nella sua Storia dell’Italia repubblicana.

D’altronde se gli studenti irriducibilmente radicali s’in-truppano quasi tutti in formazioni marxiste-leniniste non èperché finalmente si imbattono nella classe operaia in carnee ossa ma perché anche l’embrione di una “società aperta”– cioè non corporativa, non autoritaria, non governata dadinastie e da cariche ascrittive – in Italia non è mai esistito,e pertanto la lotta di classe ha sempre agito da surrogato diuna ideologia di conflitto, come ingrediente primario diogni patto sociale.

La mancanza di una “società aperta”, condivisa in parte con la vi-cina Francia, il persistere di provincialismo e corporativismo,l’ossessivo richiamarsi al mito di una classe operaia della quale sipoteva già intravedere la futura marginalità limitarono la forzarinnovatrice del sessantotto italiano, il quale era ben lontano daldiventare un grande movimento libertario e antiautoritario basa-to su una reale progettualità politica. Al contrario si assistette allaproliferazione di gruppi estremistici, dallo sguardo perlomenoanacronistico, in netta controtendenza rispetto all’inevitabile al-largamento della società e alla diversificazione dei comportamen-ti individuali preannunciati dall’esplosione dei consumi del de-cennio precedente. Movimento libertario radicale che invece, peresempio, era forte negli Stati Uniti, come ha sottolineato PaulBerman in Sessantotto, e che poi sempre secondo Berman – maquesta è un’affermazione molto più discutibile – alla fine deglianni ottanta confluì in quella grande spinta liberale e riformista –neoliberista, aggiungerei – che ha caratterizzato la politica occi-dentale degli anni novanta, naturalmente antagonista alle ultimedittature comuniste e al proliferare dell’integralismo islamico. Maal di là di ogni possibile opinione sulla giustezza ed esportabilità

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del mito liberale della democrazia globale mercantilista, certo èche in Italia dopo il sessantotto si assistette a una significativa re-gressione del dibattito politico. Il conflitto di classe urlato da tuttii gruppi come principale motore della lotta rivoluzionaria di-ventò la giustificazione retorica di una lotta politica in realtà set-taria e soggettivista, condotta nella stragrande maggioranza deicasi all’interno di un’unica classe di provenienza: la borghesia ur-bana intellettuale, cresciuta di pari passo con l’affermarsi delboom economico e delle nuove professioni del terziario avanzato.

A provare una disincantata rilettura dei documenti politici dell’e-poca, una produzione peraltro vastissima, sembra che qualcunostia tentando di fare uno scherzo, una parodia, il canovaccio esi-stenziale di un film del giovane Nanni Moretti. Improvvisamenteil linguaggio diventa pesante, violento, citazionistico fino alla de-menza, chiaramente ispirato da una fraseologia rivoluzionaria ri-salente agli anni trenta, come questo documento assembleare del1970, di Salvatore Toscano, testimonia in modo esemplare:

Compagni, il Ms della Statale ha precisato la sua piattafor-ma teorica e la sua linea politica in due brevi documenti chesono nati dopo una lunga e approfondita discussione tra icompagni e dopo un esame critico della nostra pratica poli-tica. Il primo documento segna il passaggio di massa, nonsolo dunque del gruppo dirigente, da posizioni spontanei-ste ed economiciste a posizioni marxiste-leniniste. Non si ètrattato di una lotta facile, dal momento che le concezionispontaneiste, che hanno caratterizzato tutta una fase delMs, non sono solo il prodotto di deviazioni personali di al-cuni compagni ma vanno ricondotte alla provenienza diclasse degli studenti e dunque alle condizioni oggettive chesono alla base, perché queste deviazioni, pur essendo conti-nuamente sconfitte, continuamente si riproducono.

Nonostante il ragionamento politico sia piuttosto rozzo e datato,i giovani rivoluzionari si prendevano tutti molto sul serio, esaltati

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da una straordinaria arroganza e fatalmente privi di una motivatacoscienza di classe, nonché del senso del ridicolo. È curioso cheToscano, parlando davanti a un’assemblea formata perlopiù dastudenti borghesi, accusasse lo spontaneismo di essere, nienteme-no, una “deviazione borghese”.

Le poche formazioni, specialmente di area libertaria e situa-zionista, che cercarono di mantenere una visione lucida del qua-dro politico denunciando senza mezzi termini la svolta autoritariadel movimento vennero subito messe al bando e spesso anche ag-gredite fisicamente, con l’accusa di essere composte da fascisti operlomeno da provocatori. La stessa sorte fu riservata agli eredidella tradizione beat e underground (il gruppo più importante siriunirà nel 1970 intorno al giornale milanese “Re Nudo”), emar-ginati perché espressione di un “problematicismo piccolobor-ghese”.

Preziosa a questo proposito la riflessione di Nanni Balestrini ePrimo Moroni in L’orda d’oro:

Questa svolta organizzativa, quantunque determinata daun processo di costrizione reale, ebbe come conseguenzaimmediata l’eliminazione e l’emarginazione di tutta l’areacreativa-esistenziale (libertaria-beat-underground-situazio-nista) dal territorio delle università, mentre contribuì inmodo determinante alla divisione del movimento in gruppie partitini, spesso patetica imitazione dei modelli maggiori.

Cadenzate dalla bolsa retorica militante e gestite seguendo buro-craticamente una seriosa regolamentazione pratica, le adunate as-sembleari si trasformarono nel luogo principe della militanza po-litica, dove si facevano largo le personalità dei vari leaderini, im-pegnati nella lotta per l’egemonia di un movimento sempre piùchiuso in se stesso, completamente incapace di parlare all’interocorpo studentesco e, a maggior ragione, di trovare una modalitàdi confronto con il paese. Ragazzi barbuti e precocemente invec-chiati, che per emergere dovevano vincere una spietata concor-renza interna, furono i protagonisti di questa tendenza già crepu-

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scolare. Come se non bastasse, la severa militarizzazione dei servi-zi d’ordine, originariamente nata come necessaria difesa dallosquadrismo fascista, portò ben presto a una spirale di violentomachismo di stampo bolscevico.

Mutavano le urgenze e gli obiettivi della lotta. Cambiavano inemici. “Spontaneismo” diventò una parolaccia: celebre a questoproposito la definizione di Salvatore Toscano “Lo spontaneismoè una minchia piena d’acqua”, che ben dimostra la qualità argo-mentativa del leader studentesco. L’immaginazione al potere,principale slogan e vanto del maggio francese, diventò una frasepriva di senso, un ricordo di qualche secolo prima, quando i gio-vani erano ancora ingenui e sprovveduti sognatori. Il poco rassi-curante faccione baffuto di Stalin tornò a fare capolino nelle auledelle università e nelle sedi dei circoli autogestiti. Sarebbe peròmiope non riconoscere alla breve stagione dei gruppi anche con-seguenze positive, in primo luogo la presa di coscienza politica daparte di migliaia di giovani provenienti dagli hinterland metropo-litani e dalla sterminata provincia italiana.

Questi, perlopiù di origine piccoloborghese ma in certi casianche proletaria, vissero in quegli anni un apprendistato esisten-ziale formidabile, perché per la prima volta potevano accedere al-la lotta militante al di fuori dei rigidi schemi e delle gerarchie delPartito Comunista. Se il vero limite dei gruppi extraparlamentarista nel non essersi mai veramente affrancati dalle dinamiche verti-cistiche proprie della lotta politica professionista, certo è che lavita quotidiana nelle piccole sezioni, la militanza e l’esempio con-diviso del fare rappresentavano un grande momento di crescitaindividuale e collettiva, irripetibile sia per la formazione di unanuova coscienza rivoluzionaria sia per l’ampliamento della pro-pria visione del mondo. La militanza pretendeva impegno e biso-gnava essere in grado di parteciparvi attivamente: i giovani deigruppi leggevano, dovevano essere informati, capire le dinamichedell’assemblea, poter intervenire nelle riunioni politiche. Si trat-tava di un apprendistato importante, che condizionò la formazio-ne culturale di una generazione, senza contare che per la primavolta nella storia italiana alcuni di questi giovani ebbero la possi-

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bilità, seppure a prezzo di grandi sacrifici familiari, di frequentarel’università. Di fianco al classico studente borghese emerse cosìl’inedita e senz’altro più moderna figura dello studente piccolo-borghese o addirittura proletario, che lavorava per studiare e sof-friva la frustrazione sociale di non poter accedere ai nuovi beni diconsumo che lo sviluppo capitalistico della società aveva reso di-sponibili. Questo era un soggetto sociale istintivamente sovversi-vo, maggioritario nell’ambito della lotta politica metropolitana equindi anche nei gruppi extraparlamentari ma inevitabilmenteminoritario nel circoscritto alveo della lotta universitaria. Questatensione politica e progettuale divenne evidente dal 1975 in poi,quando i sessantottini borghesi furono pronti a rifluire verso leesigenze politiche della propria classe di provenienza.

Tornando alle dinamiche interne ai gruppi, non è certo da sotto-valutare l’ambigua influenza che il pensiero di Mao Tse Tung, al-l’inizio degli anni settanta, ebbe sulla formazione politica dei gio-vani rivoluzionari. La questione è parecchio imbarazzante per-ché, sebbene siano trascorsi più di trent’anni, su questo argomen-to la rimozione è stata sostanziale mentre il fenomeno fu davverosignificativo, e non solo per una minoranza di soggetti politicizza-ti: in pratica quasi tutti i militanti dell’epoca si definivano maoisti,però oggi pochi se ne ricordano. Per cercare di dissimulare la vin-cente tendenza leninista con un’ispirazione e un modello politiconon ancora compromessi da derive dittatoriali, nel lustro succes-sivo alla contestazione molti si dichiararono maoisti, adottandocon sconsiderato entusiasmo quella specie di aberrazione politicache fu la Rivoluzione culturale, in realtà una spietata lotta internaal Partito Comunista cinese e matrice ideologica di tutti gli ster-mini totalitari dell’Estremo Oriente. Quei gruppi marxisti mino-ritari che l’avevano intuito (Lotta Comunista, per esempio), furo-no di fatto esclusi ed emarginati dal pur ampio contesto della sini-stra extraparlamentare. Diffuso come un santino, il Libretto rossodel presidente cinese diventò in poco tempo una sorta di brevia-rio pieno di pensierini evocativi da recitare a memoria, filastroc-che adattabili a ogni occasione che nessuno si prese la briga di

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sottoporre a un’analisi critica un poco approfondita, secondo unaprassi chiesastica e dogmatica che faceva a pugni con il sostanzia-le laicismo del decennio precedente.

A questo punto è doveroso, nonché di grande soddisfazione per-sonale, sottolineare quanto, vista a posteriori, la clamorosa ade-sione di massa al maoismo da parte della borghesia urbana intel-lettuale assuma gli amari toni della beffa. In realtà è un fenomenodrammatico, che dimostra ancora una volta l’innata tendenza alconformismo del ceto medio italiano, volubile fino all’eccesso.Facendo proprio l’entusiasmo degli studenti dagli occhi cattivimolti intellettuali, scrittori e registi diventarono da un giorno al-l’altro maoisti convinti, senza avere la benché minima idea di cosastesse succedendo in Cina. Non era certo il primo dei loro pensie-ri, dal momento che la consapevolezza politica e la coerenza ideo-logica venivano dopo l’adesione incondizionata al mondano spi-rito del tempo, verboso ed estetizzante, senza rendersi conto cheproprio loro, intellettuali da salotto, sarebbero stati le prime vitti-me della Rivoluzione culturale se questa, come loro chiedevano agran voce, fosse stata importata in Italia.

A questo proposito è esemplare il caso milanese del Movi-mento Studentesco di Capanna e Toscano, che sebbene dichia-rasse, con una formuletta semplicistica, di “assumere il marxi-smo leninismo pensiero di Mao come guida ideologica”, si carat-terizzò da subito come una formazione politica paradossale: mo-ralista e politicamente conservatrice (sempre più attenta alla po-litica del tanto stigmatizzato Pci, fino a essere accusata di “codi-smo”), diede vita contemporaneamente al servizio d’ordine piùspietato e militarizzato di tutti gli anni settanta, i Katanga: centi-naia di ragazzi in salute, protetti da casco e armati di chiave ingle-se – la famigerata Hazet 36 – che ben presto diventarono famosiper l’incredibile brutalità con cui regolavano i conti all’internodell’estrema sinistra.

Organizzato secondo una vera e propria struttura gerarchicache aveva il suo apice in Luca Cafiero (poi parlamentare del Pci),il servizio d’ordine Katanga era diviso in sottogruppi facenti capo

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alle diverse facoltà milanesi: oltre ai katanghesi dell’UniversitàStatale, asserragliati in via Festa del Perdono, c’erano il gruppoStalin della Bocconi, capitanato da Mario Martucci, il gruppo Di-mitrov, quello di Architettura e il gruppo Lenin di Medicina, gui-dato da un giovane e non ancora pacifista Gino Strada. Di questabanda di picchiatori borghesi e stalinisti si è fatta una leggenda.Lascio ai lettori i commenti in proposito.

Altra parabola significativa è quella dell’Unione dei marxisti-leninisti italiani, (meglio conosciuta come “Servire il Popolo” dalnome del giornale del gruppo, o “Servire il pollo” nello sfottò deisuoi tanti detrattori), gruppo maoista molto forte a Milano e nelSud Italia che si distinse per la sconcertante mediocrità della pro-posta politica, una sorta di grossolano maoismo con derive dottri-nali, e per essere l’organizzazione più severamente gerarchizzatadi tutta la galassia extraparlamentare, tanto da arrivare a rivendi-care un’incomprensibile sobrietà sessuale e a officiare grotteschimatrimoni marxisti. Non è un caso che Aldo Brandirali, capo di“Servire il Popolo”, conclusa senza molta gloria la propria carrie-ra rivoluzionaria si sia accomodato in Comunione e Liberazione.Era un percorso tutto sommato prevedibile: dove avrebbe ritro-vato la stessa organizzazione piramidale, lo stesso ammirevolespirito di sacrificio e la stessa intollerante chiusura se non fra i di-scepoli di don Giussani? Il suo percorso personale lo porterà nel-le file di Forza Italia, grazie a cui per diversi anni sarà assessore al-le Politiche giovanili del Comune di Milano, e questa, francamen-te, non è una grande novità come via di fuga degli ex contestatori.

Nel vasto e disordinato contesto della galassia extraparlamen-tare di tendenza marxista è giusto però fare delle distinzioni: Po-tere Operaio e Lotta Continua furono gruppi più sofisticati e in-tellettualmente dinamici rispetto alle formazioni maoiste e stalini-ste. Eredi della tradizione operaista e formatisi politicamente da-vanti ai cancelli delle fabbriche nell’autunno-inverno 1969, framille errori, equivoci e diversi colpi di testa, questi due gruppirappresentarono proposte politiche più interessanti e articolate,sebbene anch’essi non rinunciassero alla militarizzazione dei ser-vizi d’ordine, causa principale delle successive e purtroppo fre-

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quenti scelte individuali di adesione alla lotta armata. Potere Ope-raio, il gruppo nel quale il dibattito politico e filosofico è stato piùintenso, si sciolse nel 1973, all’indomani dell’occupazione delleOfficine Fiat Mirafiori a Torino, durante la quale la base operaiaper la prima volta mise spontaneamente in pratica il concetto po-litico di autonomia inaugurando nuove prassi di lotta – rifiuto dellavoro, delle gerarchie interne alla fabbrica, della rappresentazio-ne sindacale, del dirigismo leninista, insieme a un nuovo sguardoalle dinamiche sociali metropolitane e alle tematiche dei bisogniproletari – che rendevano di fatto obsolete le pratiche politichedegli altri gruppi. Molti dei suoi esponenti di spicco, fra cui il pro-fessore Antonio Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, saran-no protagonisti della nascita di Autonomia Operaia Organizzata,fortemente militarista, mentre altri, come Franco “Bifo” Berardi,saranno alla testa del movimento del ’77 che rappresentò, special-mente a Bologna, l’ala più creativa e maggiormente legata all’evo-luzione dei comportamenti sociali; altri ancora approderanno allalotta armata, come Valerio Morucci, responsabile del serviziod’ordine di Potere Operaio, che fu uno dei leader della colonnaromana delle Br e fra i carcerieri di Aldo Moro.

Il discorso è un po’ diverso per Lotta Continua che, nata an-ch’essa nell’ambito degli studi operaisti, fu senza dubbio la for-mazione più aperta e diversificata oltre che la vera erede dellabreve parentesi spontaneista del sessantotto. Grazie a questa rela-tiva mancanza di dogmatismo ideologico (con l’eccezione di alcu-ni fra i suoi militanti approdati alla lotta armata, fra cui Sergio Se-gio, capo di Prima Linea) l’organizzazione resisterà fino al 1976,accompagnando da protagonista il definitivo crepuscolo dellastagione dei gruppi e, grazie anche all’esperienza del giornaleomonimo, diventando la palestra di ardimento di una nutritaschiera di giornalisti che ancora adesso monopolizzano, da en-trambi gli schieramenti, il dibattito politico e culturale italiano: ildirettore del Tg5 Carlo Rossella, il telegenico Gad Lerner, l’ormaiesperto di calcio Paolo “Straccio” Liguori, il direttore di “Diario”Enrico Deaglio e poi ancora Giampiero Mughini, Luigi Manconi,Marco Revelli, Carlo Panella, Toni Capuozzo, Andrea Marcenaro

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e Piero Scaramucci sono solo i primi nomi che mi vengono inmente. Ovviamente questa deriva privilegiata verso il giornali-smo, che svela peraltro l’origine di classe dei militanti, non riguar-da solo Lotta Continua; tutti i gruppi capirono da subito la cen-tralità della comunicazione nel nuovo modo di fare politica, e taleattitudine durante gli anni ottanta diventerà molto utile per il re-pentino reinserimento sociale e professionale dei sessantottini.

Basti pensare che l’attuale direttore del Corriere della SeraPaolo Mieli era di Potere Operaio, mentre il vicedirettore dellostesso giornale, il severo conservatore Pier Luigi Battista, era unmilitante di Unità Operaia, piccola formazione leninista romana.Non si può dimenticare il giovane Giuliano Ferrara, più volte im-mortalato negli scontri romani di Valle Giulia, che insieme al tor-vo Lanfranco Pace e alla vivace Ritanna Armeni, entrambi di Po-tere Operaio, va a chiudere il cerchio dei reduci della redazionedi “Otto e mezzo”, una delle più seguite trasmissioni italiane diapprofondimento giornalistico degli ultimi anni. Questo elencoveloce e incompleto da solo non risolve il problema del repentinoriflusso consumatosi nei primi anni ottanta per cui la stragrandemaggioranza dei militanti politici si è orientata verso gli standarddi vita borghese, però ci aiuta a capire la straordinaria capacitàpersuasiva degli ex sessantottini, fenomeno che approfondiremonell’ultimo capitolo, dedicato alla mitologia della contestazione.

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4.Compromesso storico e crisi della militanza

Abbiamo visto che la rivolta del sessantotto ha come prima con-seguenza il ritorno del discorso politico a modelli autoritari da-tati di alcuni decenni, che soffocano la spinta creativa ed esi-stenziale sorta durante gli anni sessanta. Tale svolta decisamentereazionaria viene fatta propria dai giovani contestatori, che inquesto modo aprono la strada a una conflittualità gruppettaraavanguardista, lontana anni luce dalle esigenze dalla massa stu-dentesca e operaia come, del resto, dalle reali condizioni politi-che del paese, ingenuamente considerato sull’orlo di una rivolu-zione sociale.

Questa clamorosa e tragica illusione, associata alla indiscri-minata repressione poliziesca e al criminale reiterarsi delle bom-be fasciste, crea le premesse politiche e culturali per la sangui-nosa stagione dell’eversione armata. Senza l’attentato di piazzaFontana e le successive tappe della strategia delle tensione pro-babilmente non avremmo mai conosciuto le Brigate Rosse, operlomeno il fenomeno non avrebbe avuto la stessa consistenza.

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Ma tornando ai fatti storici documentabili, è certo che la ri-valità interna ai gruppi della sinistra extraparlamentare concor-re alla formazione di nuovo ceto politico che, esaurita la stagio-ne contestataria, già nella seconda metà degli anni settanta, allavigilia dell’arrivo di un’altra e ben più temibile generazione rivo-luzionaria, il movimento del ’77, rifluisce verso il proprio ambi-to sociale di provenienza.

Per ottimizzare questo reinserimento gli ex militanti traggo-no indubbio vantaggio dalla propria passata esperienza: l’impe-gnativa scuola quadri all’interno delle diverse formazioni, l’abi-tudine al confronto e alla disputa retorica, la lotta per il predo-minio assembleare e l’innato cinismo della prassi leninista sonoesperienze molto recenti e senz’altro formative che rendonopiù competitivi ed esperti i giovani figli del ceto medio intellet-tuale, certo più capaci dei loro coetanei non politicizzati di in-terpretare in tempo utile i cambiamenti repentini della postmo-dernità.

Gli ex contestatori fanno rapidamente carriera. “Buona razzanon mente”, avrebbe detto il poeta friulano. Mentre nel 1974Salvatore Toscano e Mario Capanna, con il senso della storia cheli ha sempre contraddistinti, dopo avere registrato divergenzesul rapporto con il Pci e sulla figura politica di Stalin (sempreper dare un idea del dibattito interno al Movimento Studente-sco) seguiranno percorsi politici divergenti, molti esponenti deigruppi saranno attratti dal rinnovato e assai più battagliero Par-tito Socialista di Bettino Craxi, che proprio in quegli anni stavacominciando una decisa politica di autonomia dal Pci.

Francamente, non c’è nessuno scandalo in questa deriva,nessun moto d’indignazione tardiva. Finiamola una volta pertutte con le false coscienze e la retorica ideologica di stampogiacobino.

Cosa c’è ancora da stupirsi? Quale esempio di virtuosa e coe-rente prassi rivoluzionaria troviamo in quel decennio di bombee giovani ammazzati? Ne ricaviamo forse modelli positivi a cuiriferirci?

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Temo sia improbabile. Piuttosto, la tesi sulla quale vorrei in-sistere è che la maggior parte dei protagonisti del sessantottostudentesco – perlopiù, come abbiamo già detto, studenti uni-versitari – era espressione compiuta di una piccola o media bor-ghesia urbana pronta, seguendo immutabili interessi di classe, aripensare la propria esistenza in un ottica conservatrice, purmantenendo uno sguardo sociale aperto e tollerante che tenesseconto degli straordinari cambiamenti di costume maturati neidecenni immediatamente precedenti.

Partendo da questo presupposto sociale, difficilmente confu-tabile, per quanto riguarda la fatidica soglia degli anni ottantapiù che di svolta o tradimento politico bisognerebbe parlare diuna sostanziale continuità, sebbene quasi mimetizzata dall’acce-so clima politico degli anni settanta.

Il partito di Craxi divenne un polo di attrazione naturale per-ché da una parte era più laico, meno rigido e moralista del Pci –da sempre visto come il vero antagonista nella lotta per l’egemo-nia a sinistra – e certo più sensibile alle istanze maturate durantela contestazione, specie quelle riguardanti le scelte personali delcittadino quali il divorzio, l’aborto, la libertà religiosa – dall’al-tra aveva già da tempo abbandonato ogni velleità rivoluzionaria,sposando una sorta di liberalismo decisionista molto centratosulla figura del leader.

Il PartitoSocialista fu il traghettatore perfetto per tutti queglistudenti borghesi che, esaurita la carica contestataria, si prepa-ravano a occupare i posti per i quali avevano studiato. Di fatto ilsessantotto studentesco fece da levatrice per la nascita di unanuova classe dirigente, più moderna e spregiudicata. Potrà sem-brare un ragionamento brutalmente classista, ma trovo necessa-rio che si torni a parlare di ceti sociali senza ambiguità né reti-cenze perché, come questo primo scorcio del terzo millennio hachiaramente dimostrato, l’Italia è ancora un paese rigidamentediviso in classi.

Dopo l’illusione liberale e riformista degli anni novanta, neiquali sembrava che in Italia fosse rimasta solo una grande e om-

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nicomprensiva borghesia – con il suo sistema di valori condivisie il suo “mito democratico” da esportare maldestramente inogni angolo del mondo –, ora la cronicizzazione della crisi eco-nomica mostra le reali condizioni del paese: una nazione conpochi ricchi e moltissimi poveri.

Qui non ci occuperemo della pressoché infinita casistica dipersonaggi che muovendo da posizioni extraparlamentari han-no in seguito sposato la politica dei partiti di destra, prevalente-mente del Psi negli anni ottanta e di Forza Italia negli anni no-vanta. Non ce ne occuperemo perché questo insieme di para-bole individuali ricorda troppo da vicino un tipico caso di mal-costume italiano per essere veramente significativo a livello sto-rico; inoltre, nonostante il cinismo e l’opportunismo esistenzia-le dei ragazzi dagli occhi cattivi, il sessantotto è stato un movi-mento politico e culturale ben più grande dei suoi protagonisti.Benché i gruppi marxisti-leninisti e maoisti voltassero ostinata-mente la testa all’indietro, negli anni settanta la società era giàirrimediabilmente cambiata: si era fatta più aperta e laica, real-mente metropolitana e proiettata verso un futuro compiuta-mente tecnologico. Gli strascichi della cultura postbellica e leansie della guerra fredda erano ormai un ricordo. I giovani ave-vano cominciato a viaggiare e conoscevano il mondo, tornati acasa raccontavano ciò che avevano visto e le persone che aveva-no conosciuto. Erano esempi e alternative reali.

L’Italia del piccolo paese, della parrocchia, del partito, dellafabbrica, della bottega sotto casa stava scomparendo ed era giàvissuta con un moto di fastidio. La vittoriosa battaglia divorzi-sta, una delle conseguenze più belle e importanti della grandespinta del primissimo sessantotto, fu il sintomo più evidente diquesta urgenza di cambiamento, che poneva l’individuo e i suoibisogni al centro della battaglia politica, facendone il protago-nista di un vagheggiato futuro di riscatto esistenziale che coin-volgeva anche il corpo di ciascuno, liberandolo dalle costrizio-ni, dai sensi di colpa e dagli ipocriti pruriti dell’educazione cat-tolica.

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Allo stesso modo, va ricercata nelle pulsioni culturali diquella prima fase di lotte l’origine del movimento femministaitaliano, nato all’inizio degli anni settanta e subito caratterizza-tosi in netta antitesi al culto maschilista della violenza rivolu-zionaria. Questo determinato e consapevole antagonismo nonmeraviglia affatto, perché se si prova a contare quante sono sta-te le donne ai vertici dei gruppi di estrema sinistra ci si rendeconto che le uniche figure di rilievo sono state quelle di Rossa-na Rossanda e Luciana Castellina del “manifesto”, entrambeappartenenti alla generazione precedente, quella della Resisten-za per intenderci, e per giunta provenienti dall’odiato quantovilipeso Pci.

Nel caotico marasma extraparlamentare i ruoli di dirigenzae comando erano monopolio esclusivo degli uomini, con i risul-tati che ben conosciamo in fatto di intolleranza e settarismo.Non è un caso che proprio le accese critiche delle militanti fem-ministe e rivoluzionarie abbiano messo in moto le riflessioni e iripensamenti che furono alla base della crisi della stagione poli-tica dei gruppi. Crisi inarrestabile che portò a una sorta di de-generazione della pratica di lotta militante, evidente in primoluogo nella sfera culturale. Dal 1973 in poi quel modello di lot-ta politica mostrerà tutti i suoi limiti. La data non è affatto ca-suale perché, come abbiamo visto in precedenza, nella prima-vera di quell’anno ebbe luogo la grande occupazione torinesedelle Officine Mirafiori, cui fece seguito il cambio di rotta dellapolitica del Pci.

Il segretario del Partito, Enrico Berlinguer, proprio in queimesi scriveva Riflessioni dopo i fatti del Cile, opuscolo che par-tendo dalla tragica esperienza del golpe cileno – nel quale leforze armate guidate dal generale Augusto Pinochet avevanospodestato e ucciso il presidente socialista Salvador Allende edato vita a una sanguinosa repressione antidemocratica – ipo-tizzava una collaborazione strategica del Partito Comunista Ita-liano (il più forte dell’Occidente) con la Democrazia Cristiana,in nome del loro comune radicamento popolare, di un auspica-

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bile risanamento economico e di un rasserenamento del climapolitico, lacerato dalla conflittualità sociale ed esacerbato dallastrategia della tensione.

Questo nuovo corso della dirigenza comunista fu chiamato“compromesso storico”, a indicare una progettualità di ampiorespiro e non semplicemente una collaborazione temporaneatra i due più grandi partiti italiani.

I militanti rivoluzionari lessero questa nuova prospettiva po-litica come il tradimento definitivo da parte del Pci riformista,e prevedettero che il compromesso storico avrebbe lasciato (edi fatto lasciò) un grande vuoto politico alla sinistra del Pci, au-mentando il seguito e l’importanza delle organizzazioni della si-nistra extraparlamentare. Tale previsione non si realizzò, per-ché nonostante il Pci fosse da almeno dieci anni sotto costanteattacco per la sua politica rinunciataria, era considerato co-munque la risorsa principale su cui contare, una forza di massache, di fronte alla scelta rivoluzionaria, sarebbe stata la princi-pale alleata in funzione anticapitalista.

Dopo questa decisa scelta di campo, il Pci fu definitivamen-te etichettato come nemico della classe operaia e di ogni opzio-ne rivoluzionaria e questo, soprattutto per i giovani proletari,fu il trauma decisivo che contribuì ad aggravare il loro isola-mento e la loro frustrazione.

A questo proposito è significativa la testimonianza delloscrittore ed ex terrorista Cesare Battisti raccolta nel pamphlet’68 o anni di piombo? L’anomalia italiana, scritto dal luogo del-la sua nuova, recente latitanza e pubblicato sul sito Carmilla: lasua parabola personale è un caso emblematico di come in Italianon sia ancora stata fatta una seria, ancorché dolorosa, rifles-sione su quel periodo e del fatto che nella valutazione dei pre-sunti percorsi politici e criminali si utilizzino due pesi e duemisure.

Avvolti da questo mutismo, i numerosi settori sociali chesubiscono da tempo la sanguinosa presenza delle organiz-

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zazioni criminali, che assistono allo scoppio delle bombedi Stato così come della violenza politica spesso praticatadai loro stessi figli, non arrivano a comprendere cosa stiarealmente accadendo nel Paese. Non resta loro dunqueche la semplice reazione di accusare la totalità della classepolitica italiana.

La mancanza di fiducia nei confronti della classe politica è pur-troppo il dato più evidente di una crisi che coinvolge tutte leistituzioni dello stato, attraversato per troppi anni da fenomeniendemici di corruzione, malcostume e clientelismo criminale,retaggio inevitabile di oltre trent’anni ininterrotti di governodemocristiano. Ma è nell’estrema sinistra che questa crisi di-venta più evidente: orfani del Pci, i militanti sono pronti a tut-to. In fondo, non hanno nulla da perdere.

La strategia del compromesso storico portò nel breve perio-do a una crescita di voti del Pci, che alle elezioni amministrati-ve del 1975 raggiunse il 33,4 per cento dei voti, seguito dal 34,4alle politiche del 1976. Il tentativo elettorale dei gruppi marxi-sti-leninisti di riunirsi sotto la sigla di Democrazia Proletaria fuinvece un completo insuccesso, che raccolse solo mezzo milio-ne di voti e dimostrò ancora una volta tutti i limiti della lorostrategia.

In questo contesto politico bloccato e privo di prospettive,molti leader sessantottini erano già estranei alla lotta militante;mentre per loro si poteva già prevedere un lento riflusso versoil disimpegno, si affacciò alla ribalta politica una differente ge-nerazione di rivoluzionari. Questo passaggio, che è sociale eculturale prima che politico, non è mai stato abbastanza ap-profondito; si è preferito considerare gli anni successivi al ses-santotto, compresa la sanguinosa stagione terroristica, comeespressione di una sostanziale continuità politica.

Nel 1975, invece, si era consumata una frattura lacerante:mentre buona parte della borghesia urbana sessantottina si ri-fugiava nel “ritorno al personale” – un modo elegante ed esoti-

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co per rivendicare i propri privilegi di classe, con tanto di deri-ve mistiche e spirituali, illusioni stupefacenti e tentativi di rifu-giarsi in un modo arcaico, definitivamente perduto – dalle peri-ferie delle metropoli arrivavano nuovi giovani proletari, impa-zienti e voraci. Ma per loro la festa era finita ancora prima diiniziare.

Delusi e traditi da una quotidianità desolata e opprimente, inuovi militanti si ritrovarono così in un’Italia in piena crisienergetica ed economica, disgregata politicamente e stretta framille settarismi.

La loro furiosa reazione si concretizzerà prima nella brevema luminosa esperienza, soprattutto milanese, dei Circoli delProletariato Giovanile, e poi nel movimento del ’77, nel quale isessantottini rivestono ormai un ruolo marginale se non di net-ta opposizione, come nel caso di Mls, Avanguardia Operaia ealtre formazioni leniniste.

La composizione sociale dei circoli, che comprende unamaggioranza di giovani operai e impiegati di basso livello e unaminoranza di studenti e disoccupati, è molto diversa da quelladelle formazioni militanti sessantottine. Questi giovani sonocritici e irriverenti rispetto ai miti e alle strategie politiche dellatradizione marxista-leninista. Il loro è uno sguardo eretico enon a caso negli ambienti del leninismo ortodosso vengonoconsiderati come estranei al pensiero storico comunista, dalmomento che la loro analisi politica si concentra su un soggettosociale inedito: il lavoratore precario emarginato, o addiritturail disoccupato deviante. Nella loro pratica militante tendono aprivilegiare gli obiettivi reali e immediati: le discussioni più fre-quenti riguardano il tempo libero, la rielaborazione teorica deltessuto sociale, i rapporti gerarchici nel mondo del lavoro, lalotta all’eroina, l’occupazione di spazi per l’autogestione.

Il ruolo dei bisogni diventa un tema centrale della rivendica-zione politica, che inaugura le pratiche dell’esproprio proleta-rio e dell’autoriduzione, anticamera dell’illegalità diffusa chesarà la prassi privilegiata nel movimento del ’77.

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Trascorsi tre decenni, queste dinamiche di lotta possono ap-parire come una ingenua reazione a velleità consumistiche fru-strate, espressione di una baldanza rivoluzionaria un poco naïfche unisce spontaneismo, retorica operaista e vitalismo sovver-sivo a sfacciate pretese di impunità giudiziaria. Di fatto, però, igiovani proletari delle periferie sono una realtà politica inedita.Energici e determinati, sebbene sprovvisti di malizia retorica, imilitanti dei circoli rifiutano il verticismo leninista e le sue deri-ve totalitarie, rifiutano l’etica del lavoro, credono in un salariosganciato dalla prestazione lavorativa e auspicano una lottaorizzontale di massa, autorganizzata. Estranei alle dinamicheassembleari e all’inconcludente prassi gruppettara, i giovani deicircoli concludono definitivamente la stagione politica dellanuova sinistra extraparlamentare, principale erede del sessan-totto studentesco.

Così racconta quella mancanza di comunicazione tra le duegenerazioni Majid Valcarenghi, storico fondatore del giornale“Re Nudo”, nel suo saggio Non contate su di noi, uscito nel 1977.

Milano. Gennaio 1976. Nella sede centrale di Lotta Con-tinua c’è un’assemblea strana, convocata da compagnieterogenei fra loro: vecchi militanti del ’68 autoemargina-ti nell’organizzazione e giovani proletari dei primissimicircoli nascenti nell’hinterland. La critica colpisce la poli-tica culturale della nuova sinistra nei quartieri, contro lagestione dei centri sociali concepiti come ghetti rossi do-ve masochizzarsi rivendendo la quindicesima volta La co-razzata Potëmkin o Senza tregua.

E ancora:

A “Re Nudo” i compagni del collettivo seguono conpreoccupato distacco le vicende dei circoli giovanili.Avrei capito più tardi il perché: erano troppo vecchi peridentificarsi ed erano troppo giovani per sentirsi padri.

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Questo documento riveste particolare importanza se pensiamoche per tutta la prima metà degli anni settanta Valcarenghi, econ lui l’intera redazione di “Re Nudo”, nel vasto ambito ex-traparlamentare fu considerato uno dei principali rappresen-tanti dell’area più aperta e dialogante, erede dell’esperienzacontroculturale della fine degli anni sessanta e severamentecritica nei confronti della politica dei gruppi. Ma confrontan-dosi con la nuova leva di giovani delle periferie anche i redat-tori di “Re Nudo” sentivano una forte incapacità di comunica-re, una grande differenza di prospettive e soprattutto di vissu-to condiviso.

I giovani dei circoli non erano cresciuti nel rassicurante te-pore dell’Italia del “boom economico”, non avevano passatol’infanzia nella concreta speranza di un mondo migliore, néavevano creduto nei miti positivi del pacifismo e dell’interna-zionalismo. Questi ragazzi, appena varcata la soglia dell’adole-scenza trascorsa sognando una rivoluzione improbabile, si era-no ritrovati in metropoli-dormitorio piene zeppe di eroina, pri-ve di spazi di socializzazione e attraversate da una violenza en-demica che andava ben al di là della contrapposizione politica.La loro era una realtà dura e drammatica, priva di immaginarioconsolatorio, forgiata nel quotidiano.

Una realtà che la stragrande maggioranza dei sessantottini –se si escludono quelli che confluiranno nell’area dell’Autono-mia e soprattutto intorno alla rivista milanese “Rosso” – rifiuta-vano sdegnati, considerandola un tradimento delle proprie lot-te e dei propri sogni.

Questa storia infatti non ce l’hanno mai raccontata, nessuno diloro, in nessuna occasione.

L’incapacità da parte dei sessantottini di comprendere icambiamenti del tessuto sociale metropolitano comincia nellaseconda metà degli anni settanta. Da quel momento in poi sipreoccuperanno solo di ricordare e non saranno più in grado diintervenire positivamente nella vita politica e culturale italiana.

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Valcarenghi scrive che non potevano ancora sentirsi padri.Molto giusto. Di fatto, padri non si sentiranno mai perché, con-centrati nei loro ricordi e bloccati dai loro rimorsi, troppo rara-mente proveranno a confrontarsi intellettualmente con le gene-razioni successive.

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5.Conformismo e partecipazione

Accanto agli elementi della storia politica vi sono diversi e im-portanti aspetti culturali che possono essere considerati ereditàdiretta del sessantotto studentesco.

L’esasperazione del dibattito ideologico e la tendenza a ri-condurre qualsiasi cosa alla dimensione politica ebbero comeprima conseguenza estetica la corruzione del linguaggio e delleforme espressive, che mostrano tutti i limiti dell’arte e della cul-tura militanti. In questo processo di involuzione intervennerodiverse cause e molti furono i protagonisti coinvolti. A comin-ciare dagli stessi sessantottini.

Esauriti la spinta propulsiva e l’entusiasmo della fase inizia-le, i giovani contestatori furono le prime vittime della nascita diun nuovo conformismo rivoluzionario che con esiti talvolta di-sastrosi andò a sovrapporsi al già ben radicato conformismoborghese, evidenziando in modo farsesco tutte le ambiguità po-litiche della nuova sinistra extraparlamentare. Inevitabilmentela retorica e l’ideologismo gruppettaro condizionarono la pro-

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duzione artistica in letteratura come nel cinema e nel teatro,stroncando in modo repentino il grande fermento culturale co-minciato nel secondo dopoguerra. Non c’è dubbio che per l’I-talia gli anni cinquanta e sessanta furono una stagione artisticaaurorale, durante la quale si concretizzarono energie e motiva-zioni che erano state tenute a freno prima dalla dittatura e poidalla guerra.

Contro ogni proclama e contro ogni buona intenzione, la ri-volta politica del sessantotto, pur non avendo responsabilità di-rette in questa involuzione, accompagnò la nascita un nuovomodello di comunicazione e fruizione culturale: leggero, oriz-zontale, furbescamente accessibile e in apparenza democraticoma superficiale e pericolosamente subdolo, pensato e costruitoin modo da potersi adattare alla straordinaria forza della televi-sione, megafono privilegiato della nuova società “spettacolare”di massa, proprio come previsto con lucida chiaroveggenza daisituazionisti alla fine degli anni cinquanta. Un modello che inapparenza aumenta l’importanza dell’opinione pubblica mache di fatto riduce drasticamente l’influenza della società civilenella vita politica.

In questo contesto anche la figura dell’intellettuale si dete-riorò irreversibilmente, finendo con l’essere quasi vituperatoin quanto portatore di un ruolo etico e culturale, mentre anda-va costituendosi un mito democratico dell’opinione pubblica,voce univoca degli umori di una massa pressoché inerte veico-lata da messaggi mediatici sempre più semplici, sebbene fuor-vianti.

“Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinionepubblica” scriveva lapidario Guy Debord, e francamente nonriusciamo a dargli torto. Sebbene fosse già avviata da tempo, fuproprio durante gli anni settanta che questa trasformazione di-venne evidente, solo in parte mimetizzata dalla crescente con-flittualità politica. Alla fine del decennio la società di massa, osarebbe meglio dire per la massa, aveva già compiuto la sua de-finitiva affermazione. Si era allargata a tal punto da diventare

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eterea, inconsistente, un deserto cognitivo dove poter operarequalsiasi forma di manipolazione mediatica.

In questo vuoto pneumatico la società postindustriale fago-cita se stessa e smarrisce ogni punto di riferimento etico. Ogniopinione ha valore, nessuna opinione ha valore. Ogni linguag-gio ha una sua dignità perché non esistono dignità né linguag-gio. Ogni mezzo di comunicazione è valido, la comunicazionediventa il principale veicolo letterario o artistico, svilendo l’artenel genere, nella ripetizione del genere e poi ancora nella cita-zione del genere. E in questo sotterraneo mutare, la violentacontrapposizione politica – nella seconda metà del decenniogià di fatto perdente e chiusa in un ottuso radicalismo militare,probabilmente incoraggiato da apparati dello stato – fa daspecchietto per le allodole di trasformazioni ben più radicali esignificative.

A questo proposito è significativa l’analisi di Lucia Annun-ziata nel suo recente saggio, 1977.

A dispetto di tutte le bandiere rosse e del linguaggio rivo-luzionario, la forza dell’estrema sinistra fino al 1976 erastata quella di intercettare la nuova comunità di cittadiniche il capitalismo stava formando. Soprattutto intercet-tarne la principale domanda: quella della massima libertàdi pensiero individuale, necessario complemento del for-te senso di diritto individuale che maturava in quegli an-ni. Naturalmente, quella sinistra credeva che tale richie-sta di libertà fosse un anticipo prerivoluzionario. Si pen-sava che la liberazione individuale costituisse sia il rifiutodell’autoritarismo comunista di tipo sovietico sia di quel-lo capitalista, di cui quest’ansia di libertà di pensierosembrava la crisi finale. Più tardi sarebbe stato invece chiaro che si era trattato diuna evoluzione, non di una sconfitta del capitalismo, giàin rinnovamento, già allora dialogante con il computer (anoi ignoto), e già fuori da una prospettiva di classe in no-

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me di una società dei servizi e del ceto medio. Una societàin cui la scolarizzazione di massa avrebbe prodotto, inve-ce che frammentazione e oppressione, un’identità libera-le sul terreno sociale, attentissima ai diritti individuali ecultrice del benessere. Senza più nemmeno un pensieroper la rivoluzione.

I frutti di questo cambiamento si iniziarono a raccogliere alloscoccare degli anni ottanta, quando – repentinamente e quasisenza che ce ne si accorgesse – venne a mancare ciò che ItaloCalvino chiamava “la voce anonima dell’epoca”, ovvero unapulsione più forte e autentica rispetto alle riflessioni individualidel singolo intellettuale o artista, una voce autorevole in virtùdella sua pregnanza rispetto alla contemporaneità.

La generazione dei sessantottini è perfetta per accompagna-re questo cambiamento. Nella sua spudorata inconcludenzaconserva il torto e la ragione assieme. In quanto espressione diun’unica classe egemone, la borghesia urbana, rappresenta siail governo sia l’opposizione. La vittoria e la sconfitta, la lottacoraggiosa e la ritirata più miserabile. Simulando la battagliasociale come fosse un teatro dei pupi, l’Italia postfordista diceper sempre addio alla conflittualità fra classi.

Negli ultimi trent’anni la crisi, o meglio la percezione della de-cadenza di letteratura, cinema e arte in generale, si specchianella mancanza di prospettive e nell’affanno esistenziale di unasocietà formata da uomini e donne confusi e irrisolti, fatalmen-te poveri di esperienza o, meglio, del senso della loro esperien-za. L’assenza di un reale conflitto, principale motore del pro-gresso umano, ha ridotto drasticamente lo spazio per la ricercadi un contenuto che dia legittimità all’inventare.

Stiamo vivendo la fase crepuscolare di quel modello cultura-le, abbiamo di fronte un baratro ancora tutto da esplorare.

Ma è importante sottolineare che mentre nell’Occidente in-dustrializzato si profilava questo epocale cambiamento, i ses-

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santottini si baloccavano con la chimera liberale di un’informa-zione orizzontale e indipendente, dimostrando ancora una vol-ta di non comprendere gli autentici cambiamenti strutturali inatto.

Nella seconda metà degli anni settanta, mentre i rivoluziona-ri erano impegnati a pensare alle virtù comuniste delle campa-gne cinesi, la corsa all’industria privata dell’informazione eragià avviata, magari solo un poco dissimulata dalla retorica del-l’autoproduzione militante, con gli esiti che tutti conosciamo infatto di oligopoli internazionali, connivenze politiche e deterio-ramento della proposta culturale.

In questo perturbato contesto sociale, la vera illusione fuperò quella della partecipazione. Un mito vitalistico duro a mo-rire, rivendicato, scritto e cantato in mille forme diverse comeprincipio identitario della pratica rivoluzionaria. Riproducen-do collettivamente un simulacro di democrazia diretta, le as-semblee studentesche furono il momento topico di questa rap-presentazione, il luogo dove si officiava il rito positivo dellaconservazione del potere.

L’aspetto drammatico di questa rappresentazione sta nel fat-to che i ragazzi dagli occhi cattivi, con la loro ingenuità di gio-vani allevati nel rassicurante tepore del ceto medio, pensavanorealmente di partecipare, di essere soggetti consapevoli di unavolontà politica, sebbene limitata a un ambito temporaneo echiaramente molto circoscritto.

In realtà le decisioni spettavano sempre al leader, al capo diun gruppo ristretto e inquadrato di militanti compiaciuti nel-l’osservare puntigliosamente le regole burocratiche dell’assem-blea, che con le sue mozioni, gli schieramenti occulti e la fon-damentale lista degli interventi riproduceva in chiave farsescale istituzioni e le misere doppiezze politiche della tanto stigma-tizzata democrazia borghese. Come se il voto in quanto talefosse una garanzia di equità rappresentativa, come se la storiaitaliana e internazionale degli ultimi anni non ci avesse chiara-mente dimostrato fino a che punto la democrazia sia manipo-

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labile quando il tessuto sociale e culturale di una nazione si di-sgrega.

Per molti vecchi militanti sessantottini questo rituale dellapartecipazione ancora resiste, sebbene ridotto a un innocuovezzo borghese, quasi infantile ma compiaciuto, utile solo perdissimulare i privilegi di classe che, quelli sì, non sono mai ve-nuti meno. Talvolta si ripropone in modo veramente sfacciatocome mesto corollario delle adunate nostalgiche di sessantenniin carriera, ancora impegnati a rivendicare una presunta alteritàdi comportamenti, un’innata capacità di condivisione dei mo-menti collettivi, un’eccezionale ampiezza di vedute – ovvero laloro specifica differenza nell’affrontare le normali consuetudinisociali.

Malauguratamente, questo è l’unico credibile retaggio delloro passato rivoluzionario.

Cosa resta quindi oggi del sessantotto?Non molto, in realtà. Il trasformarsi del ruolo della donna,

l’affermazione del diritto al divorzio e all’aborto, il progressivolaicismo sociale e il mutare dei costumi fanno parte di quel tra-scinante processo di modernizzazione già in atto nelle demo-crazie occidentali dalla fine degli anni cinquanta, del quale ilsessantotto fu un sintomo importante ma non certo la causascatenante. Processo di modernizzazione inevitabile perché le-gato ai cambiamenti strutturali del sistema capitalistico, diver-sificato e inafferrabile, non più fordista e non più dipendentedalla produzione delle industrie nazionali.

Per creare nuovi mercati servivano nuovi bisogni e un imma-ginario che li veicolasse, quindi una società più aperta e dina-mica che comprendesse uomini e donne, bianchi e neri, omo-sessuali e omofobi, destri e sinistri, impiegati e disoccupati, ri-sparmiatori e gaudenti, benpensanti e tossicodipendenti. Tutticonsumatori, tutti contenti di poterlo essere. Che poi l’esalta-zione delle differenze e dell’individualità borghese vada semprea scapito dell’uguaglianza è storia assai nota.

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In realtà sono proprio le conquiste più immediatamente po-litiche maturate in quegli anni a essere state “superate” e rimos-se dall’aggressivo neoliberismo dei decenni successivi.

Anche con uno sguardo frettoloso alle condizioni dell’attua-le mondo del lavoro italiano ci si rende conto di quanto lo Sta-tuto dei lavoratori, rivendicato come una delle principali ere-dità del sessantotto, sia stato di fatto circoscritto e aggirato daaltre normative; rimane valido per tutelare alcune categorie disalariati e stipendiati riemerse alla ribalta politica durante l’ulti-mo governo Berlusconi, in occasione del fallito tentativo di re-visione dell’articolo 18. Ma per poco altro.

Oggi la stragrande maggioranza dei giovani tra i venti e iquarant’anni vedono gli operai e gli impiegati assunti nei de-cenni precedenti come privilegiati, e questo aumenta in modosensibile la mancanza di comunicazione e di mutua solidarietàfra le diverse categorie di lavoratori.

Dell’arretramento politico a modelli rivoluzionari datati eautoritari verificatosi nella seconda metà degli anni settanta ab-biamo già detto; bisogna aggiungere che quei modelli hannocontinuato per molto tempo a condizionare la vita politica ita-liana.

Ricordo che durante le occupazioni del 1990 – il movimentouniversitario della Pantera – noi giovani contestatori guardava-mo con un misto di sgomento e rassegnazione all’eterno ripro-porsi delle divisioni politiche degli anni settanta, con gli eredidell’Autonomia Operaia e degli stalinisti impegnati a fronteg-giarsi astiosamente, ancora chiusi in ruoli preconfezionati. Conquel disordinato movimento tentammo di fermare la ristruttu-razione conservatrice già in atto da alcuni anni: le riforme uni-versitarie nate sull’onda della contestazione – la liberalizzazio-ne dei piani di studio, gli appelli mensili e l’incremento dell’in-terattività fra le diverse discipline – già da tempo erano stateoggetto di limitazioni e di fatto disinnescate nella loro caricarinnovatrice, prima della recente cancellazione operata dallariforma Moratti.

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Affrontando il tema dell’eredità politica non si può non ri-pensare agli anni ottanta, ed è un compito difficile, quasi dolo-roso. Deve forse trascorrere ancora un po’ di tempo per esseresufficiente lucidi, ma certo non è avventuroso affermare che an-che in Italia si è imposto il modello neoliberista, magari conun’attitudine meno drastica che in altri paesi (penso all’Inghil-terra, al durissimo ed estenuante conflitto sindacale dei minato-ri) e con un costo sociale decisamente più basso. Complici diquesto trapasso quasi indolore sono stati la collaudata attitudi-ne italiana al compromesso e il ruolo della sinistra borghese in-tellettuale, freno motore delle lotte politiche degli ultimi duedecenni.

La crisi culturale della borghesia italiana come ceto trainantedelle trasformazioni sociali è l’autentica eredità del sessantottostudentesco.

Non poteva essere altrimenti. Contestando la propria classedi appartenenza senza la determinazione e la tenacia di unalotta veramente antagonista, i sessantottini hanno dato vita aun’estetica rivoluzionaria ingannevole, un insieme di compor-tamenti anticonformisti, pose e stereotipi politici ancora oggipiuttosto diffusi e riproposti con orgoglio. Sul medio periodoil risultato è stata una rinnovata diffidenza popolare nei con-fronti della sinistra borghese intellettuale, vista come l’irritan-te espressione di una classe sociale annoiata e parolaia, capric-ciosamente affezionata a obiettivi politici che non le apparten-gono.

La crisi identitaria della borghesia si è fatta lampante con lospensierato edonismo degli anni ottanta, quando gli ex conte-statori perfezionarono il loro percorso professionale.

La corruzione diffusa, il malcostume sociale, la perdita delsenso etico dello stato e il definitivo affermarsi della televisionecommerciale monopolistica hanno aperto la strada al quel de-grado civile e culturale che sta all’origine dell’anomalia Berlu-sconi.

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A sua volta, l’imprenditore di Arcore è stato uno dei primi acapire quanto sarebbero potuti diventare utili gli ex sessantotti-ni in questa fase di riflusso politico ed esistenziale, sempre chefossero riusciti a emanciparsi dalle ingenue rivendicazioni poli-tiche della giovinezza.

Ma questa è storia attuale.

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6.Rievocazioni

Il 24 marzo del 2006, scorrendo le pagine di cronaca italiana delquotidiano “la Repubblica”, a un certo punto ci si imbatteva inuna pagina quasi totalmente monopolizzata da un’inserzione apagamento. Quest’inserto, delimitato da cornice, mostrava il visosfumato di un uomo impegnato a parlare al microfono. Lo sguar-do fisso, assorto in un ragionamento.

Di fianco all’immagine, brevi frasi in grassetto ricordavano laprematura scomparsa di Salvatore Toscano, il leader del Mls(Movimento lavoratori per il socialismo) già citato nelle pagineprecedenti, morto in un incidente stradale nel 1976. Alle parolecommosse di rimpianto e di amicizia per la figura umana e politi-ca di Toscano seguivano diverse centinaia di firme di partecipa-zione, fra cui i nomi di molti protagonisti del sessantotto milanesee italiano.

Scorrendo la lista dei partecipanti, trovare nomi celebri o co-munque conosciuti non stupisce: l’editore Dalai, il manager so-cialista, poi inquisito, Sergio Cusani, Gad Lerner, il neoministroPaolo Gentiloni e l’onorevole Nando Dalla Chiesa, il sondaggista

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Renato Mannheimer, i compagni di militanza Mario Capanna eLuca Cafiero, l’avvocato Giuliano Spazzali, il capo del serviziod’ordine Katanga Mario Martucci, il filosofo Giulio Giorello, l’exassessore di Forza Italia Roberto Caputo, il verde Carlo Monguz-zi, la diessina Barbara Pollastrini, il deputato di rifondazione Ra-mon Mantovani, e poi ancora Gabriele Nissim, Alberto Martinel-li, Gaetano Liguori, Claudio Risé, Gabriele Mazzotta, Fulvio Sca-parro, Giuliana Sgrena e con lei almeno una cinquantina di gior-nalisti di ogni fede politica e caratura professionale. Ciò che subi-to stupisce in questo interminabile elenco di sessantenni in carrie-ra è di vedere riunita una grande eterogeneità dei tipi umani, poli-tici e professionali rappresentati, come se quegli anni di militanzain comune fossero stati più importanti e significativi di qualsiasiesperienza successiva.

A parte le ovvie considerazioni sull’opportunità di una chia-mata alle armi di questa consistenza dopo trent’anni di storia, an-cora una volta rimango stupefatto di fronte allo straordinario spi-rito identitario e generazionale degli ex sessantottini, i quali con-tinuano a rivendicare con orgoglio l’unicità della propria espe-rienza.

Come baldanzosi ex combattenti non si preoccupano di appa-rire tremendamente nostalgici – e questo è un caso fin troppo evi-dente – purché gli venga concessa ancora una volta l’occasione diricordare la propria appartenenza. Non ci sono convinzioni poli-tiche, riflessioni personali e derive giudiziarie che possano divi-derli di fronte alla semplice forza dei loro ricordi, alla luminosabellezza della loro “meglio gioventù”.

È necessario parlare con franchezza. Di simili rimpatriate lacrimevoli ne abbiamo viste già troppe e

tutte molto simili fra loro. Con questo genere di rievocazioni han-no lastricato l’adolescenza e la giovinezza della mia generazione.

Rimpianti, orgogliose rivendicazioni, distinguo, dissociazioni,condanne, abiure, infamie, ripensamenti. Ci hanno detto tutto e ilcontrario di tutto, sempre usando una chiave di interpretazioneemozionale, antistorica e fuorviante.

Personalmente sono stufo. Prima o poi dovranno darci indie-

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tro qualcosa del tempo e della pazienza che ci hanno sottratto,perché noi trentenni della loro memoria non sappiamo più cosafarcene.

Quelle facce non le vogliamo più vedere. Quelle storie non le vogliamo più sentire. Gli anni successivi alla loro presunta parabola rivoluzionaria

hanno comunque cancellato tutto e non rimane più niente di si-gnificativo da raccontare. Hanno esaurito ogni nostra pazienza,occupato ogni angolo del nostro già angusto immaginario.

Alcuni mesi fa Michele Serra nella sua nota rubrica faceva in-telligentemente notare quanto fossero inopportune a questo pun-to le discussioni sull’invasione dell’Ungheria scatenate da qual-che inossidabile anticomunista, evidentemente non rassegnatosialla definitiva scomparsa del suo nemico. Prendendo spunto daquesto specifico esempio, Serra allargava il discorso sottolinean-do che gli italiani di una certa età sono fin troppo affezionati allarievocazione e al rimpianto.

Il problema suggerito da Serra temo nasconda un equivocoperché, alla faccia di qualsiasi grande anniversario storico o com-memorazione, da anni in Italia non si discute più in modo serio diniente. Non certo del sessantotto e tanto meno degli anni settan-ta. Niente affatto. Rimane solo una sorta di eterna nostalgia, ilrimpianto per la propria perduta e inimitabile gioventù. Che èuna cosa bellissima e molto umana, ma riguarda tutti gli uomini ele donne e soprattutto tutte le generazioni, non solo gli ex sessan-tottini. I ragazzi della contestazione rimpiangono l’epoca in cuiavevano ancora gli occhi cattivi e volevano conquistare il mondo,prima di diventare perfetti cittadini benpensanti. Rimpiangono ilperduto coraggio e il brivido della sconsideratezza, foriero di bel-lissime avventure ma anche di errori, gesti avventati, colpevole in-tolleranza.

Con il rimpianto, creano il mito di una contestazione che hacambiato l’Italia e modernizzato il paese. Un mito fragile e ingan-natore, basato perlopiù su racconti non verificabili e che anzi larealtà sociale e culturale sembra smentire. Un mito riguardanteuna tradizione non comprovata, a metà strada tra verità storica e

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invenzione leggendaria. Un mito così sedimentato nella quotidia-nità mediatica che non si può nemmeno pensare di metterlo in di-scussione. Si manifesta come un effetto di risonanza, un gestocondizionato, quasi pavloviano nelle sue dinamiche, che scatta aseconda delle sollecitazioni storiche, politiche o anche solo difronte ai grandi fenomeni di costume.

La memoria del sessantotto e il suo immaginario si riflettonoin un credo fideistico, talvolta tracotante e talvolta ingenuo, costi-tuito da stereotipi di repertorio che vivono solo in virtù della lororipetizione. Stereotipi così abusati da diventare idiozia pura, spe-cie in televisione o sulla maggior parte dei giornali, dove l’infor-mazione è ormai appiattita sulla comoda abitudine del consuma-tore a farsi inebetire dal banale e confusionario scorrere delle no-tizie.

A questo proposito è davvero significativo che solo pochi mesifa un giornalista intelligente, colto e ironico come Gianni Clerici,commentando un sondaggio di “Repubblica” che premiava JohnMcEnroe come tennista più amato di sempre, giustificasse questascelta come espressione del pensiero degli ex sessantottini lettoridel giornale, che lo avrebbero votato in massa per la sua genialità.

Eccoli di nuovo i sessantottini, gli eterni ragazzacci, inguaribilisognatori, ancora irrimediabilmente amanti del bello e della sre-golatezza. Per dare maggior forza a questa spudorata stupidaggi-ne Clerici citava Mario Martucci, il capo dei Katanga, di cui avre-mo modo di parlare fra poco. Non è difficile intuire la forzaturadi un simile ragionamento, nefasta conseguenza di quello straor-dinario ego generazionale di cui dicevo prima.

Purtroppo di episodi simili se ne possono citare centinaia: fattie interventi più o meno importanti che concorrono a creare la mi-tologia della data feticcio e la sua difesa d’ufficio. Mi è capitatopiù volte di registrare gli sguardi sgomenti di persone che giudi-cavano assurda e inopportuna la mia volontà di scrivere questopamphlet. Gente in buona fede e magari neanche troppo politi-cizzata, che senza argomentare la propria opinione esprimevaistintivamente il proprio turbamento di fronte al progetto, comese guardare criticamente al sessantotto fosse un’operazione di

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blasfemia laica, un’offesa ai valori civili dell’Italia contempora-nea. Un’operazione che solo un pazzo o uno sprovveduto osereb-be tentare. Si può, ed è anzi è consigliabile, parlare con piglio gra-ve dei propri perduti ideali rivoluzionari, magari ostentando unatteggiamento saggio e consapevole; discutere aspramente sullareale importanza delle tradizioni nazionali, mettere in questioneil cattolicesimo e le sue fissazioni medievali riguardanti contrac-cezione e castità, bestemmiare l’integralismo e il Dio di tutte le re-ligioni. Tutto legittimo, ma fate bene attenzione a non toccare ilsessantotto. Guai a dubitare. Evidentemente quest’opera di pro-paganda postuma, questa pervicacia da reduci nell’affermare laforza e l’esclusività della propria esperienza, è servita a qualcosa.

Sicuro che è servita. Ha concorso a dissimulare il presente, arenderlo poco interessante, prosaico e già da sempre indirizzatoverso un destino di rassegnazione. Il presente già futuro comin-ciato negli anni ottanta, quando l’Italia è cambiata davvero, per lagioia di tutti i brillanti pensatori postmoderni.

Ma procediamo con cautela. In primo luogo la mitologia del sessantotto è così intensa e du-

revole solo in Italia, mentre negli altri paesi europei non ha lastessa forza persuasiva. E non ci si lasci ingannare dall’attacco chenell’autunno 2006 il primo ministro francese Sarkozy ha lanciatonei confronti degli ex sessantottini, ritenuti responsabili del man-cato ricambio generazionale francese e di una sorta si sindrome diPeter Pan: rappresenta un caso isolato, messo in piedi artificiosa-mente per obiettivi politici interni. Per quanto riguarda gli altripaesi, in Germania il dibattito sul sessantotto è finito da un pezzomentre in Inghilterra e in Spagna, sebbene per ragioni molto di-verse, semplicemente non è mai esistito.

Da noi invece la mitologia della contestazione è cominciatanella prima metà degli anni ottanta, quando la tragica stagioneterroristica si era appena conclusa e l’odio politico del decennioprecedente era stato messo da parte. Il mito si sviluppa e assumeprogressivamente forza attraverso la rievocazione memorialisticadei protagonisti. Durante gli anni ruggenti del pentapartito la te-levisione e i giornali, intasati di ex contestatori, fanno a gara per

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soffermarsi sull’importanza storica ed esistenziale del sessantotto:una vera e propria marea montante che investe tutti i settori dellacomunicazione, sia quella che vorrebbe essere seria sia quella dipuro intrattenimento popolare. Ogni pretesto è buono per un ar-ticolo o un servizio televisivo, che verta sulla presunta liberazionesessuale, sulla diffusione delle droghe leggere, sulla trasformazio-ne dei costumi, la musica rock e gli happening di massa, scontatitasselli di un quadro generazionale spesso associati in modo stru-mentale – ed è l’autentico lato tragico di tutta questa vicenda – aitanti, troppi morti della lotta politica.

Nel frattempo però l’Italia è diventata un paese molto diversoda quello che gli studenti dagli occhi cattivi immaginavano quan-do ancora erano capaci di sognare. Gli anni ottanta avevano giàfatto piazza pulita di gran parte dei risultati concreti della stagio-ne contestataria. Anche nel nostro paese, come nel resto d’Euro-pa, si stava procedendo a tappe forzate verso un nuovo modelloliberista, diventato egemonico soprattutto a livello culturale.Nelle metropoli erano nate, e godevano di ottima salute, le nuoveprofessioni del terziario avanzato, che vedevano protagonistimolti leader e militanti dei gruppi extraparlamentari: pubblicita-ri, giornalisti, comunicatori, intermediari, creativi, impiegati, av-vocati, che lavoravano molto e pretendevano che si lavorassemoltissimo, nell’ambito di una nuova etica professionale lontanamille miglia da quella del salariato nelle grandi fabbriche e giàproiettata verso la concezione dell’impegno omnicomprensivo.Quasi senza resistenze, nelle grandi città si faceva strada un mo-dello di impiego che si scopre privo di orari, apparentementeorizzontale, senza gerarchie chiare e soprattutto senza tutela sin-dacale.

Bisogna lavorare sempre e bisogna saper fare tutto. Lo slogan sessantottino “lavorare meno, lavorare tutti” si tra-

sfigura nella vita quotidiana in un “lavorare male, lavorare sem-pre”, meglio se sottopagati. Gli anni ottanta aprono la strada alprecariato diffuso, molto prima della legge Biagi e della diffusio-ne delle agenzie di lavoro interinali. E mentre nell’ambito privatola borghesia urbana intellettuale officia platealmente e con malce-

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lato sollievo l’abbandono della lotta politica, considerata praticaseriosa e inconcludente, in nome di un nuovo edonismo consumi-stico ottimista e idiota, si guarda al passato immortalandolo inicone buone per tutte le stagioni e tutti i palinsesti.

Non si fa storia, si fa spettacolo. Si costruisce una realtà conso-latoria.

Esaltando la forza rivoluzionaria di un percorso esistenzialeformidabile, di fatto viene inventata una stagione aurorale cheprobabilmente non è mai esistita. Tutti possono diventare prota-gonisti di questa commovente recita: molti hanno ricordi freschida proporre, altri, sentendoli raccontare centinaia di volte, li han-no fatti propri e altri ancora se li possono comunque inventaresenza troppo scandalo.

Ma per un adolescente cresciuto negli anni ottanta, politica-mente neofita e senza responsabilità oggettive sul recente passato,cosa rimane di tutte le grandi battaglie del decennio precedente?

Cosa rimane dell’immaginazione al potere, se non la volgarestupidità delle televisioni private e dei giornalisti buffoni? Cosarimane dell’esperienza lisergica e stupefacente, a parte le cittàsoffocate dall’eroina? Cosa rimane della nuova spiritualità e dellasocietà aperta se non un ritorno al retrivo modello di famiglia cat-tolica, posticcio e ipocrita?

E cosa rimane della condivisione e della partecipazione collet-tiva se non le discoteche alla moda con la selezione all’ingresso?

Poco, a parte un’eccezionale memoria condivisa con la qualeindottrinare i figli, già sedati prima di cominciare a porsi qualsiasidubbio. Questo percorso di scrittura storica attraverso la memo-ria personale che dà forma a un passato mitico ha due conseguen-ze principali. La prima è un simulacro di apertura mentale, ovve-ro il nuovo perbenismo democratico: guardando con simpatia econdiscendenza alle lotte dei nuovi contestatori – perché ogniepoca ha i suoi, sebbene con forme e obiettivi diversi – gli ex ses-santottini si tutelano dal rischio di venire considerati come sog-getto antagonista, bloccando in partenza la rivolta generazionale.

Il secondo è l’esperienza dello sconfitto: una falsa coscienzache, ponendo l’accento sulla sostanziale inutilità della lotta politi-

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ca rivoluzionaria e le sue inevitabili derive, impedisce di fatto lanascita di un nuovo conflitto che poggi su reali bisogni sociali.

La memorialistica del sessantotto sortisce in questo modo uneffetto soporifero, ottunde le coscienze e insinua il dubbio dellafutilità della lotta, che viene ricondotta sotto le rassicuranti con-suetudini della pace borghese. In pratica: se non ci siamo riuscitinoi che eravamo la “meglio gioventù”, voi poveri sprovveduti pri-vi di ideologie cosa pensate di fare?

La produzione editoriale e pubblicistica a nostra disposizione ri-guardante il sessantotto e le lotte degli anni settanta è veramenteampia. Questa diversificata gamma coinvolge indifferentementegiornalisti, uomini politici ed ex militanti dei gruppi: citiamo, giu-sto per dovere di cronaca, i lavori di Sofri, Mughini, Adornato,Brambilla, Berardi, Ortoleva, Fofi, Beretta, Veneziani, Toscano,De Luca, Pardo, senza dimenticare le opere di ex terroristi comeCurcio, Franceschini, Moretti e Segio. Ma un esempio particolar-mente significativo di rievocazione reducistica è il libro autobio-grafico Formidabili quegli anni, scritto da Mario Capanna nel1986 per Rizzoli.

Un lavoro abbastanza modesto, nel quale il leader del Movi-mento Studentesco riassume in perfetto ordine cronologico i fattipolitici salienti del suo percorso di giovane contestatore, aggiun-gendovi parte della sua successiva e non memorabile carriera po-litica. Alla stregua di un bigino divulgativo e nonostante allorafossero trascorsi quasi vent’anni dal sessantotto, nel libro mancaqualsiasi tentativo di analisi storica delle dinamiche sociali cheportarono alla contestazione nelle università. Come del restomanca ogni forma di autocritica o ripensamento, specie nei con-fronti dello stalinismo o del famigerato servizio d’ordine Katangache tante teste spaccò in quel periodo. Piuttosto, l’ex leader delMovimento Studentesco rispolvera alcuni vecchi arnesi dellaprassi leninista, fra cui l’inquietante concetto di avanguardia rivo-luzionaria, per motivare a distanza di anni le scelte più retrive del-la sinistra extraparlamentare milanese e italiana.

Ovviamente in questo percorso di memoria privata non si ne-

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ga critiche e rimproveri nei confronti dei suoi antichi concorrentipolitici, soprattutto i gruppi operaisti, come se nel 1988 le beghesettarie di quel mondo asfittico e autoreferenziale fossero ancoraun argomento interessante.

Il libro di Capanna ottenne un grande successo di vendite esenza smentire la consolidata abilità a creare sempre nuovi sloganlanciò l’aggettivo “formidabile” per identificare gli anni successi-vi alla contestazione studentesca, interpretati in netta contrappo-sizione ai “magnifici” anni sessanta, sempre rimanendo nell’otti-ca di una semplificazione mediatica grossolana. E se Formidabiliquegli anni rimane sostanzialmente la testimonianza di un leadernostalgico, più direttamente legata alla mitologizzazione del ses-santotto è Italia-Germania 4-3, lungometraggio diretto da AndreaBarzini nel 1990.

Il ritratto generazionale parte dal pretesto drammaturgico diuna riunione di quattro amici che si trovano dopo una ventinad’anni per rivedere le immagini della storica semifinale dei cam-pionati mondiali di calcio messicani del 1970. Involontariamenteil regista compie un’operazione impietosa nei confronti dei suoicoetanei ex rivoluzionari: i quattro amici infatti sono la più coe-rente e implacabile espressione di una borghesia al crepuscolo,demoralizzata e disillusa, ormai abituata a guardare al presentecon stanca rassegnazione.

Rivangando gli anni belli che non ci sono più, i protagonistimostrano la povertà del presente riflessa nelle loro personalitàsbiadite, nei loro troppi compromessi e nelle loro rinunzie. Com-plice una sceneggiatura debole e stereotipata, il ricordare degli exmilitanti, che dovrebbe essere un momento di grande esaltazionemitica, diventa invece una sorta di patetico lamento, nel qualetutte le grottesche pose estetizzanti della stagione contestatariascorrono senza sosta verso un finale consolatorio. D’altro canto igiovani contestatori, diventati donne e uomini maturi, nel mo-mento delle scelte importanti dimostrano una dolorosa piccolez-za umana, una totale mancanza di statura etica. Quello che ci vie-ne raccontato è un mondo angusto, di commiserazione. Un filmnato per essere una riflessione sulle speranze, sulle scelte e sugli

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errori del sessantotto diventa in questo modo la conferma dellasostanziale ambiguità di quel periodo, dell’equivoco di fondo cheha caratterizzato le lotte degli anni settanta.

Italia-Germania 4-3 rimane però un’opera significativa perchélimpida espressione della capacità mitopoietica degli ex sessan-tottini: la famosa semifinale che vide l’Italia vincere ai tempi sup-plementari dopo una estenuante e bellissima partita contro laGermania è diventata una sorta di evento topico, una cesura sto-rica e culturale dalla quale non si può proprio prescindere.

Io quando è stata giocata quella famosa partita avevo un anno,ma le immagini di Rivera e compagni le avrò viste almeno trentavolte, in ambiti e discussioni differenti, con uomini e donne diogni provenienza politica impegnati a commentarle mostrandoocchi pieni di commozione.

Quelle immagini sfuocate, sempre le stesse, mi mettono tri-stezza.

Quelle immagini non mi appartengono. Non c’entrano nientecon la storia della mia generazione, rimandano a un paese chenon abbiamo conosciuto e che non è necessario rimpiangere.

Un paese precocemente invecchiato, alle prese con il progres-so tecnologico e l’urbanizzazione ma ancora attaccato alle pro-prie origini contadine. Basta vedere le facce dei calciatori, trasfor-mati loro malgrado in leggende: Rivera, Riva, Mazzola, Boninse-gna e tutti gli altri; personaggi integri, onesti e prevedibili, lontanimille miglia dalla furia irriverente di un Diego Armando Marado-na. Io so tutto di quella spedizione in terra messicana, tutte le be-ghe e i retroscena, le staffette fra campioni e le divisioni di spo-gliatoio. Ma ne avrei fatto a meno. Invece, non mi sembra di averemai più rivisto i gol della storica partita che nel 1982 vide la vitto-ria dell’Italia, poi campione mondiale, contro il Brasile di Zico,Socrates e Falcao, uno dei più forti di sempre. Nessuno la ricor-da: sebbene a livello sportivo è stata certo più importante ed eroi-ca, rappresentativa di un’Italia appena uscita da estenuanti annidi conflittualità politica e pronta a fare proprio il nuovo edoni-smo craxiano, non può contare su bravi narratori. Manca di unefficiente lavoro di comunicazione. Non è “formidabile”, non è

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melanconica, non è reducistica ma apre alla vittoria ed è preludiodi un trionfo inaspettato, mentre Italia-Germania 4-3 è la speran-za infranta, è l’occasione perduta, la gioia travolgente fugace edeffimera che si trasforma in sconfitta senza appello nella finalecontro lo squadrone di Pelé e compagni. Italia-Germania 4-3 è ilsessantotto italiano, una splendida fiammata eversiva diventatamito di gioventù per volontà dei suoi protagonisti.

Un mito caduco che non ha più ragione di essere.Lettura illuminante sulla caducità dei miti rivoluzionari è un

testo non particolarmente noto e dal titolo parecchio infelice, Ka-tanga che sorpresa, uscito nel 1998 per Stampa Alternativa in oc-casione del trentennale del sessantotto. Nascosto dagli pseudoni-mi M. Kandebum e G. Lecombat, l’autore di questo libello è il giàcapo Katanga dell’Università Bocconi di Milano Mario Martucci,in seguito craxiano entusiasta al punto da dedicare a Craxi nelgiorno della sua morte l’accorata poesia Ballata per Bettino Craxi.

Va detto che a compensare il pessimo titolo abbiamo un sotto-titolo strepitoso: Una nuova chiave di lettura del ’68 milanese.Specie se si considera che in copertina appare una chiave inglesedal rassicurante e frivolo colore rosa. Ma al di là dei curiosi giochidi parole e delle raffinatezze cromatiche, Katanga che sorpresa èun libro che, pur facendone parte, va in netta controtendenza ri-spetto alle consuete rievocazioni nostalgiche.

Il discorso prende spunto dallo sgomento che il protagonista,suo malgrado soprannominato “Katanga” ancora alla fine deglianni novanta, prova guardando la televisione durante una norma-lissima seconda serata di talk show e amenità varie. Questo re-pentino disagio culturale lo spinge a ripensare ai propri anni digioventù, quando era un contestatore nella fremente UniversitàBocconi di Milano. Il “come eravamo” si stempera ben presto inun risentito sarcasmo che progressivamente coinvolge quasi tuttii protagonisti di quella stagione, nel libro ben riconoscibili nono-stante i nomi storpiati.

Certo fa sorridere, e non è nemmeno tanto credibile, immagi-nare uno scafatissimo cinquantenne indignarsi guardando la tele-visione, per giunta nel 1998, prima che la grande invasione di

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reality show e telegiornali scandalistici facesse precipitare le no-stre serate catodiche a livelli di imbecillità prima nemmeno im-maginabili.

Francamente sembra un poco in malafede anche l’atteggia-mento moralistico del professionista in carriera che non ricono-sce nella propria generazione la prima responsabile di questo di-sastro culturale. Ciononostante l’autore, nascondendosi dietro lamaschera del sarcasmo, riesce a essere impietoso e soprattuttosincero, facendola finita con l’agiografia consolatoria del sessan-totto.

Dialogando con altri compagni di lotta, il disilluso Katanga dàvita a una serie di ripensamenti e confessioni preziosissime, comeper esempio quando dice: “Noi, anche sbagliando e rifacendoci amodelli fallimentari, volevamo rifare una classe dirigente, piùumana e competente”.

Davvero molto raro per un ex sessantottino parlare aperta-mente di classe dirigente e di competenza. Mica di immaginazio-ne o di rivoluzione. Un obiettivo che se perseguito con franchez-za sarebbe stato molto utile per lo sviluppo economico del paesee il rinnovamento della nostra classe imprenditoriale, e avrebbefatto piazza pulita di ogni ambiguità, svelando l’autentico voltodei ragazzi con gli occhi cattivi: giovani borghesi per un brevetempo infatuati dalla fascinazione estetica della rivolta sociale.

Non è un caso che nella seconda parte di Katanga che sorpresa,dedicata all’epoca contemporanea e immediatamente legata allacronaca politica di fine anni novanta, emerga un pensiero velata-mente conservatore: la necessità di non schierarsi e di rimarcarela propria diffidenza verso gli attuali schieramenti. Dopo di noi ilnulla. E il disimpegno.

Sarebbe sbagliato ricondurre un’analisi dell’eredità contesta-taria al solo pensiero di Martucci, ma certo queste sono prese diposizione che fanno riflettere sul reale ruolo della borghesia nelnostro paese. Riflessioni ancora attuali, visto che specie a sinistraquesto equivoco rimane un problema identitario molto serio.

Ultimo, tremendo colpo di coda della rievocazione sessantot-tina è stato il film La meglio gioventù (titolo tratto da una raccolta

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poetica di Pier Paolo Pasolini, beffato così per contrappasso), gi-rato da Marco Tullio Giordana e uscito nelle sale nel 2003, scate-nando per reazione una serie davvero interminabile di servizigiornalistici, dibattiti, interviste e formidabili nostalgie. Non en-tro nel merito delle qualità artistiche del lungometraggio (lungooltre sei ore e originariamente pensato per la televisione) perchése ne è già parlato abbastanza e i pareri sono discordi, ma mi pre-me sottolineare la chiara volontà del regista, non a caso nato nel1950, di rinnovare l’esaltazione mitopoietica della sua generazio-ne. A partire dal titolo. Bisogna avere una grande considerazionedel proprio percorso, un grande orgoglio per scegliere un titolodi questa forza evocativa.

Nella semplice frase convivono i due termini fondamentali percapire la parabola esistenziale dei sessantottini: meglio e gio-ventù. Il primo riguarda la presunzione, dura a morire, di un pri-mato intellettuale e culturale, mentre il secondo riconduce mesta-mente al suo rimpianto.

È profondamente triste questo mal celato desiderio di eter-nità, questa paura dell’oblio. Per fermare il tempo e credere dinon invecchiare i sessantottini hanno bisogno di continuare a ri-cordare, anche i fatti più marginali.

Qualche mese dopo l’uscita del film il settimanale Diario die-de alle stampe un numero speciale chiamato appunto La megliogioventù. Accadde in Italia 1965-1975. Un elenco, in realtà, unprosaico elenco di circa duemilaseicento nomi e cinquecento bre-vi biografie di protagonisti della contestazione, che dava ampiospazio anche alle figure minori. Un redattore anonimo, con ogniprobabilità Enrico Deaglio, presenta l’opera con queste parole:

Se avete immaginazione, e un po’ non ne manca a nessuno,scegliete un gruppo di foto sparse, o non riviste da tantotempo, e montatele dentro a una cornice come se fosse unospecchio da mettere in anticamera quando ricevete amici eospiti. Vi stupirete quando loro, gente civile sui cin-quant’anni, si riconosceranno in una ragazza francese colpugno chiuso, o in un ventenne che assomiglia a Mario

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Schifano da giovane, o in una scritta murale che invita adaccettare i vostri errori di gioventù. A quel punto, con lorotirerete molto tardi e bene.

Ora, questa “gente civile sui cinquant’anni” (che adesso ne hasessanta) si riconosce ancora una volta nella propria memoria mi-litante. Nella propria immaginazione, “un po’ non ne manca anessuno”. Il libro pubblicato da Diario è dichiaratamente rivoltoa loro, solo a loro. Pur uscendo in edicola, in realtà è un prodottoper privilegiati, riservato a una casta ben definita. Gli altri lettoridel settimanale sono esclusi da questa operazione nostalgica,quelli più vecchi e soprattutto quelli più giovani. C’è solo una ge-nerazione, la loro.

È superfluo sottolineare che si tratta, ancora una volta, di ri-cordi privati. C’è una colpevole miopia in tutto questo ricordare.Troppo egoismo, troppo amor proprio.

Era passato davvero poco tempo dalla brutale repressione po-liziesca delle manifestazioni contro il G8 di Genova e ancora me-no dall’attentato alle torri gemelle. Pochi mesi dall’attacco ameri-cano all’Afghanistan. Si profilava la sciagurata invasione dell’I-raq. Anche se c’è l’euro e dopo secoli di guerre sanguinose non cisono più i confini fra gli stati europei, anche se nelle metropoli or-mai da anni si parlano decine di lingue diverse e le scuole sonopopolate di bambini di tutte le razze, anche se i giovani faticano atrovare lavoro e sicurezze e a immaginare un futuro. Nonostantetutto questo, il presente ancora non sembra importante. Sembranon meritare un’analisi sofisticata, uno sguardo approfondito.Dimostrando un’insistenza che sfiora l’ossessione, i sessantottinipreferiscono continuare a ricordare la loro perduta giovinezza,senza omettere nulla del proprio passato.

Fingere di andare avanti guardando indietro.“La meglio gioventù” adesso è una locuzione usata a livello di

giornalismo spiccio per definire i militanti del sessantotto studen-tesco. O meglio, usata dai giornalisti sessantottini per parlare dise stessi. Quando si tratta della loro storia tutto diventa marke-ting. È impressionante.

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Ma forse il vento sta cambiando e non bisogna essere meteoro-logi per capirlo. Negli ultimissimi anni la strategia rievocativa hasegnato il passo.

Probabilmente anche i vecchi ragazzi dagli occhi cattivi si sonostancati di ricordarsi giovani mentre i loro figli sono ormai giuntiall’età adulta e reclamano il giusto spazio per i propri ricordi. Oforse gli errori e l’ambiguità di quella generazione sono diventatitroppo evidenti.

Lo vedremo presto, comunque: fra poco meno di un anno ca-de il quarantesimo anniversario del sessantotto.

La cosa mi lascia indifferente. Spero nel buon senso. Mi auguro che, per una volta, potremo fare finta di niente.

Fermarci, tirare un sospiro di sollievo e volgere lo sguardo inavanti. Senza rifare all’infinito gli stessi errori. Senza continuare araccontare storie.

Abbiamo ereditato una brutta Italia, questo è certo. Un paesediviso, sempre più povero, disilluso e culturalmente devastato,compromesso dall’ipocrisia e dalla falsa coscienza della genera-zione che ci ha preceduto.

Ma mi consola il fatto che la realtà corre velocissima e nessunopuò prevedere dove ci porterà.

Adesso siamo noi trentenni a dover pensare al nostro futuro.Per farlo con serenità dobbiamo liberarci dell’ingombrante me-moria dei padri. Dei loro sogni e dei loro sensi di colpa.

Compiere il sacrificio necessario. E poi guardare avanti senzatimore.

Alla ricerca di un nuovo progetto politico e di un nuovo im-maginario, inediti e non fatalmente compromessi dalla storia.

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Ringraziamenti

Il libri nascono sempre per folgorazioni, oppure grazie a episodiapparentemente privi di importanza. L’idea di scrivere Contro il’68 è sorta durante la serie di incontri che feci per presentare ilmio saggio su “Re Nudo”. Ricordo gi interventi degli ex sessan-tottini. Ricordo il loro rimpianto. L’incapacità di guardare al pre-sente. A tutti loro va il mio primo ringraziamento, perché sonostati involontario stimolo alla riflessione.

Un sentito ringraziamento a Marco Philopat che ha accoltocon entusiasmo il progetto non mancando di sottolinearne forza-ture e incongruenze. Grazie a lui questo è senza dubbio un lavoromigliore.

Allo stesso modo ringrazio Caterina Grimaldi, che ha lavoratocon grande attenzione al testo, migliorandolo.

E grazie anche ad Alex Foti che mi ha sempre sostenuto senzaincertezze in un momento nel quale ne avevo davvero bisogno.Merita la mia riconoscenza anche Antonio Scurati che mi ha con-sigliato e indirizzato verso la giusta strada.

Infine, ci tengo particolarmente a ringraziare Donatella Minu-to, che per prima ha sostenuto l’idea del pamphlet.

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Bibliografia essenziale

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Feltrinelli, Milano 1997.Berman P., Sessantotto, Einaudi, Torino 2006.Bertante A., Re Nudo, Nda Press, Rimini 2004.Bocca G., Il caso sette aprile. Toni Negri e la grande inquisizione,

Feltrinelli, Milano 1980.Brambilla M., L’eskimo in redazione, Ares, Milano 1991.Capanna M., Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano 1986.Colarizi S., Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza,

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Viterbo 1999.Galli G., Storia del partito armato, Rizzoli, Milano 1976.Guarnaccia M., Underground italiana, Malatempora, Roma

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1979.

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Pasolini P.P., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1973.Philopat M., La banda Bellini, ShaKe, Milano 2002.Pini M., L’assalto al cielo, Longanesi, Milano 1989.Quaderni di Avanguardia operaia, La configurazione della sini-

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Toscano S., A partire dal 1968, Mazzotta, Milano 1978.Valcarenghi A., Underground a pugno chiuso, Arcana, Roma

1973.Valcarenghi A., Non contate su di noi, Arcana, Roma 1977.Vallauri C., I gruppi extraparlamentari di sinistra, Bulzoni, Roma

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