alma mater studiorum - … · globalizzazione e dalle forze provenienti dalle economie ......
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MATRICOLA 586317
ALMA MATER STUDIORUM
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SCUOLA DI ECONOMIA, MANAGEMENT E STATISTICA
SEDE DI RIMINI
CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA DELL’IMPRESA
Internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.
Il caso del distretto calzaturiero fermano - maceratese
Relazione finale in Economia e gestione delle imprese
PRESENTATA DA RELATORE
FEDERICA TOMASSONI CHIAR.MA PROF.SSA GIURI PAOLA
SESSIONE II
ANNO ACCADEMICO 2012/2013
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Sommario
1 INTRODUZIONE ................................................................................... 7
2 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ...................... 11
2.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 11
2.2 GLOBALIZZAZIONE .................................................................................. 12
2.3 INTERNAZIONALIZZAZIONE: PROSPETTIVE TEORICHE ............................... 14
2.4 MOTIVAZIONI ALLA BASE DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE .................... 19
2.5 MODALITÀ DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE .......................................... 21
2.5.1 Esportazioni ................................................................................ 23
2.5.2 Forme di cooperazione ................................................................ 26
2.5.3 Investimenti diretti esteri ............................................................. 28
2.6 CRITERI DI SCELTA TRA MODALITÀ .......................................................... 29
2.6.1 Fattori esterni .............................................................................. 30
2.6.2 Fattori interni .............................................................................. 32
2.7 STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................................... 32
2.8 PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................. 35
2.9 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ITALIANE: QUADRO GENERALE
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3 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI ................................ 45
3.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 45
3.2 VINCOLI DELLE PMI ALLA CRESCITA INTERNAZIONALE .......................... 47
3.3 FATTORI ALLA BASE DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................ 49
3.3.1 Fattori esterni .............................................................................. 49
3.3.2 Fattori interni .............................................................................. 50
3.4 MODALITÀ DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................ 52
3.4.1 Esportazioni ................................................................................ 54
3.4.2 Forme di cooperazione ................................................................ 58
3.4.3 Investimenti diretti esteri ............................................................. 58
3.5 STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................................... 62
3.6 PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................. 62
4 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI ......................... 67
4.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 67
4
4.2 NETWORK ANALYSIS ................................................................................ 68
4.3 DISTRETTI INDUSTRIALI ........................................................................... 70
4.3.1 Caratteristiche ............................................................................. 72
4.4 DISTRETTI INDUSTRIALI E INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................. 75
4.4.1 Limiti dei distretti ........................................................................ 77
4.5 INTERNAZIONALIZZAZIONE ATTIVA E PASSIVA ......................................... 78
4.5.1 Internazionalizzazione attiva ....................................................... 79
4.5.2 Internazionalizzazione passiva .................................................... 83
5 IL DISTRETTO CALZATURIERO FERMANO-MACERATESE 89
5.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 89
5.2 IL SETTORE CALZATURIERO...................................................................... 89
5.3 IL DISTRETTO CALZATURIERO MARCHIGIANO .......................................... 95
5.4 STORIA ..................................................................................................... 97
5.5 ASPETTI GENERALI ................................................................................. 100
5.6 COOPERAZIONE ...................................................................................... 102
5.7 INNOVAZIONE ........................................................................................ 103
5.8 STRATEGIA ............................................................................................ 105
6 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL DISTRETTO
CALZATURIERO FERMANO - MACERATESE ..................................... 107
6.1 INTRODUZIONE ...................................................................................... 107
6.2 ESPORTAZIONI ....................................................................................... 108
6.3 INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA ............................................... 111
6.4 CASI AZIENDALI ..................................................................................... 119
6.4.1 Boccaccini SpA .......................................................................... 120
6.4.2 Donna Soft Srl ........................................................................... 123
6.4.3 Norma J. Baker Srl .................................................................... 125
6.4.4 Casi aziendali a confronto ........................................................ 128
CONCLUSIONI .............................................................................................. 131
INDICE DELLE TABELLE .......................................................................... 133
INDICE DELLE FIGURE ............................................................................. 135
BIBLIOGRAFIA............................................................................................. 137
5
SITOGRAFIA ................................................................................................. 149
RINGRAZIAMENTI ...................................................................................... 151
7
1 INTRODUZIONE
Il panorama competitivo attuale, condizionato sempre più dalla
globalizzazione e dalle forze provenienti dalle economie
emergenti, è caratterizzato da continui cambiamenti che impongono
alle imprese di rivedere le l oro scelte strategiche; la stagnazione
della domanda interna, inoltre, rende l’ambiente ancor più ricco di
sfide: l’internazionalizzazione può essere la strategia da
implementare per ottenere un vantaggio competitivo. Questa
opzione strategica non riguarda solo le imprese di grandi
dimensioni, ma anche le PMI, le quali si trovano da un lato a dover
fronteggiare la competizione estera nel territorio nazionale e
dall’altro a poter riorganizzare la propria catena del valore e il
sistema del valore a livello internazionale con relativa facilità
soprattutto grazie alle innovazioni tecnologiche. Scopo del
seguente lavoro è indagare le modalità di internazionalizzazione
delle piccole e medie imprese, poiché queste rivestono un ruolo
significativo nel nostro paese , rappresentando più del 90% delle
imprese attive (Istat, 2012). Si farà, dunque, riferimento al
territorio italiano, nel quale le PMI sono localizzate all’ interno di
cluster che favoriscono l’espansione nel mercato estero.
Il primo capitolo funge da introduzione: dopo un breve excursus
sulle varie teorie e dopo una panoramica sulla situazione attuale
dell’internazional izzazione delle imprese italiane, si indagano le
fonti, le modalità e i processi dell’espansion e su nuove aree
geografiche a livello di singola impresa , ancora in termini
generali, non soffermandosi , dunque, sulla distinzione tra grandi
imprese e PMI.
Nel secondo capitolo si indagano le fonti, le modali tà e i processi
di internazionalizzazione, con riferimento al bundle di risorse,
competenze e conoscenze che contraddistinguono una strategia di
successo delle PMI. Molti autori ne sottolineano i limiti nella
dotazione di risorse, competenze e conoscenze rispetto alle grandi
aziende; tuttavia, secondo analisi empiriche non risulta alcuna
8
correlazione significativa tra dimensione aziendale e performance
esportativa. La let teratura, tuttavia, ha privilegiato lo studio
dell’internazionalizzazione delle imprese di dimensioni maggiori,
trascurando le imprese di minori dimensioni: occorre considerare
che l’approccio all’espansione estera non è il medesimo. Infatti ,
l’espansione estera delle PMI è un fatto, ma non è stata ancora
teorizzata (Caroli, 2000; Quattrociocchi, 2003).
Nel terzo capitolo si analizza la prospettiva reticolare (network
analysis) , la quale afferma che l’espansione nei mercati esteri è
avviata e favorita dall’insieme di relazioni delle imprese piccole e
medie con altri interlocutori. All’interno di questa analisi
assumono, dunque, particolare importanza i distretti , i quali
aiutano le imprese minori a superare il limite dimensionale. Non
manca, tuttavia, chi considera nel distretto un l imite
all’internazionalizzazione, in quanto le imprese riescono a reperire
tutti i fattori produttivi in loco e, a volte, persino i propri clienti .
L’avvento di nuove tecnologie e della crescente integrazione dei
mercati ha imposto di rivedere la tradizionale defin izione di
distretto: si analizzerà, dunque, l’evoluzione del distretto , in
seguito alla globalizzazione, da area geografica con confini
delineati a insieme di relazioni. Nel tessuto industriale italiano i
distrett i giocano un ruolo fondamentale, registrand o segni positivi
anche all’interno dell’attuale recessione globale: secondo le
elaborazioni di Intesa San Paolo, l’export dei distretti industriali
italiani è in crescita da tredici trimestri consecutivi, con
performance superiore rispetto al resto dell’ec onomia (Il Sole 24
Ore, 20 giugno 2013). Tra i settori più performanti risultano quelli
tipici del made in Italy , le cosiddette quattro F , Fashion, Food,
Furniture, Fabricated metal products, machinery, plastic and
rubber products .
Nel capitolo quattro si vogliono indagare le peculiarità del
distretto fermano- maceratese, in cui si svolgono tutte le fasi della
produzione di calzature. È il più grande distretto calzaturiero
italiano, che presenta la più grande concentrazione italiana (ivi
9
risiede il 32,4% delle imprese del settore) ed europea di imprese
del settore: sono presenti circa quattromila imprese, soprattutto
PMI, la maggior parte di queste sono sub -fornitrici di imprese di
grandi dimensioni , le quali svolgono il ruolo di leader, ma il loro
peso è marginale (Cipriani, 2012). Oltre alla possibilità di sfruttare
le economie proprie dei distretti, il vantaggio competitivo risiede
soprattutto nelle risorse e competenze intangibil i: know-how ,
design, creatività, tradizione, cultura.
Nel capitolo cinque si analizza l’internazionalizzazione del
distretto calzaturiero, il quale è caratterizzato da una performance
esportativa notevole: secondo le elaborazioni Assocalzaturifici su
dati Istat, nel 2012, tra le province italiane, Ascoli Piceno – Fermo
detiene la quota parte maggiore di esportazione di calzature (13,9%
dell’export totale di calzature), mentre Macerata è al quinto posto
(5,2%), registrando un incremento della quota parte
rispettivamente dello 0,6% e del lo 0,1% rispetto all’anno
precedente (Assocalzaturifici , 2013). Anche per il distretto in
esame, coerentemente con quanto affermato sulla ridefinizione del
concetto di distretto, si può ri tenere che vi è un’evoluzione delle
relazioni: l’espansione verso mercati esteri ha fatto sì che, da un
lato, si ricorra sempre più a imprese oltre confine, non solo
distrettuale, ma anche nazionale, dall’altro, si potenzino le
relazioni di fornitura già consolidate. Tipicamente sono le imprese
di grandi dimensioni che non si fermano alla modali tà di
espansione sui mercati esteri più semplice e a più basso
coinvolgimento di risorse e competenze, de localizzando le fasi
labour-intensive del processo produttivo. Secondo un’indagine
della Banca d’Italia (Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013), tut tavia,
si stanno riportando all ’interno del distretto alcune delle fasi
precedentemente delocalizzate, al fine di aumentare la quali tà per
riposizionarsi su fasce alte di mercato.
11
2 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE
2.1 Introduzione
La crescente integrazione dei mercati e gli svilupp i tecnologici
condizionano notevolmente l’ambiente in cui operano le imprese e
con esso le dinamiche competitive. Se da un lato la globalizzazione
rappresenta un’opportunità grazie alla possibilità di riorganizzare a
livello internazionale la catena e il s istema del valore, dall’altro
può essere vista come una minaccia per via della competizione
sempre più aspra giocata sia a livello locale che globale. Le
imprese per sopravvivere devono rivedere le loro scelte
strategiche, le quali necessariamente impliche ranno un nuovo
approccio all’ambiente competitivo: le imprese possono limitarsi
ad avere un atteggiamento reattivo, reagendo alla competizione
estera all’interno del proprio mercato, oppure proattivo, optando,
cioè, per l’espansione in mercati esteri.
Nel presente capitolo viene studiata l’internazionalizzazione delle
imprese; dopo una breve introduzione sulla globalizzazione,
vengono passati in esame i principali approcci teorici , dalla teoria
del commercio internazionale di Smith alle più recenti teorie
dell’International business , osservando che l’espansione
internazionale rappresenta un fenomeno talmente complesso e
variegato da risultare di difficile modellizzazione: gli approcci
all’internazionalizzazione r isultano estremamente eterogenei e,
dunque, non raggruppabili in un’unica teoria.
Vengono indagati i fattori alla base della scelta di
internazionalizzazione, i quali sono classificabili in interni ed
esterni, a seconda che si riferiscano rispettivamente all’impresa e
all’ambiente in cui opera.
Nel paragrafo successivo si indagano le modalità con cui le
imprese attuano la strategia di espansione internazionale,
suddividendole in base al rischio e al l ivello di coinvolgimento in
termini di controllo e di impiego di risorse e competenze; anche
per le modalità vi sono dei fattori che ne determinano la scelta.
12
Si analizzano, poi, le strategie attuate sui mercati esteri con
riferimento all’offerta: si distingue tra strategie di adattamento e
di standardizzazione che riguardano non solo il prodotto ma anche
il prezzo, la promozione, la distribuzione.
Vengono studiati i processi di espansione internazionale,
analizzando le tre teorie principali , cioè il paradigma eclettico, il
modello di sviluppo per fasi e un accenno al modello reticolare,
che verrà poi ripreso nel capitolo tre.
Si passa, infine, ad una breve panoramica macroeconomica dei
rapporti del nostro paese con l’estero, indagando performance
esportativa e investimenti diretti esteri.
Avendo costruito le basi teoriche, si potranno analizzare le
peculiarità dell’internazionalizzazione delle imprese minori,
obiettivo del secondo capitolo.
2.2 Globalizzazione
La riduzione delle barriere a llo scambio di beni, servizi e capitali e
i cambiamenti tecnologici fungono da driver della globalizzazione,
cioè della crescente integrazione e interdipendenza tr a le diverse
economie nazionali (Hill, 2008). La globalizzazione è un fenomeno
pervasivo che influenza ogni relazione economica e sociale della
vita degli individui e permette la diffusione di conoscenze,
linguaggi, tecniche, prodotti in ogni luogo.
Si possono individuare tre dimensioni della globalizzazione:
- Economica: creazione di un mercato globale in forte
espansione, grazie alla riduzione dei costi di transazione ;
- Culturale: collasso di spazio e tempo, omologazio ne, ma
anche valorizzazione delle differenze;
- Politica: influenza delle istituzioni internazionali e
trasferimento della sovranità circa la poli tica economica .
Dal punto di vista economico, Blanchard (2009) individua tre
dimensioni di apertura:
- Apertura del mercato dei beni, che implica la possibilità di
scegliere tra beni prodotti nel mercato domestico o estero.
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Sebbene si stiano riducendo, sono presenti vincoli
all’apertura dei mercati dei beni: dazi, ossia tasse sui beni
importati, e quote su alcuni prodotti esteri , ossia restrizioni
su quantità di beni che possono essere importati
- Apertura dei mercati finanziari, che implica la possibilità di
scegliere tra attività finanziarie nazionali ed estere. Vi è una
progressiva integrazione soprattutto grazie alla riduzione
delle restrizioni alla detenzione di attività finanziarie di un
paese terzo.
- Apertura dei mercati dei fattori : possibil ità di scegliere per
le imprese dove localizzare un’attività produttiva e per i
lavoratori dove lavorare. Ciò consente alle i mprese di
diventare multinazionali e quindi sfruttare i vantaggi di costi
o altri vantaggi rinvenibili in altri paesi. Per multinazionale
si intende un’impresa che svolge l’attività produttiva in due
o più paesi.
Vi è un lungo e acceso dibatt ito sulla glob alizzazione: i fautori
sostengono che stimola la crescita, favorisce la specializzazione
della produzione laddove si è in grado di produrre più
efficientemente, importando ciò che si produce con minore
efficienza; mentre secondo gli oppositori distrugge po sti di lavoro
nei settori labour-intensive nei paesi in cui il costo del lavoro è
alto, creandone dove è basso e dove le norme a tutela del
lavoratore e dell’ambiente sono lacunose , dunque accrescendo la
disoccupazione e riducendo gli st andard di vita del paese d’origine
(Hill, 2008).
Non vi è un preciso riferimento temporale sull’avvio della
globalizzazione, poiché rappresenta un processo; alcuni economisti
considerano la caduta del Muro di Berlino come punto di partenza
simbolico della crescente integraz ione, in quanto da un lato viene
meno il sistema di pianificazione economica e dall’altro si
costruisce consenso attorno al modello neo -liberista, ritenendo
l’individualismo di mercato come sola modalità per gestire le
relazioni economiche (Figini, 2010).
14
Keynes fa riferimento alla globalizzazione , affermando che già
prima della prima guerra mondiale :
«Un londinese poteva ordinare per telefono [. . .] i più disparati
prodotti esistenti nel mondo [.. .]; egli poteva, nello stesso
momento e con lo stesso mezzo, arrischiare la sua ricchezza nelle
risorse naturali o nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo
e partecipare, pur senza aver fatto un minimo sforzo, ai frutt i e ai
vantaggi da esse apportati [ . . .] . Egli poteva assicurarsi [ .. .] comodi
mezzi di trasporto a buon mercato, verso qualsiasi clima o paese
[.. .] . Ma, cosa più importante fra tutte, egli considerava questo
stato di cose come normale, del tutto certo e permanente, che nella
direzione di un ulteriore incremento, e ogni deviazione gli
appariva aberrante, scandalosa, da sfuggirsi» (Keynes, 1919).
2.3 Internazionalizzazione: prospettive teoriche
Con la crescente integrazione anche le imprese chiuse nei confini
nazionali si trovano a dover fronteggiare la competizione globale:
l’ambiente “locale” cresce costantemente e porta più grandi
opportunità in termini di mercati più grandi, ma implica anche
minacce in termini di competizione più aspra, complessità e cicli
di vita del prodotto più brevi (Ricci, Cillo, Landi, 2010); è
necessario, dunque, rivedere le scelte strategiche: una via
necessaria per difendere la propria posizione e per competere è
l’internazionalizzazione; con questo termine si intende sia la
consapevolezza che le transazioni internazionali eserciteranno nel
futuro un’influenza diretta e/o indiretta sia lo svolgimento di
transazioni con attori situati in paesi diversi dal proprio (Caroli,
Lipparini, 2002).
Si può affermare che la teoria sull’ internazionalizzazione nasce nel
1960 con le pubblicazioni di Hymer (1960); precedentemente, le
teorie principali fanno riferimento all ’ambito macroeconomico: la
teoria del commercio internazionale e la teoria della bilancia dei
pagamenti (Perrett i, 2003).
15
I flussi commerciali internazionali vengono spiegati attraverso la
teoria del vantaggio assoluto e comparato (Perretti , 2003).
Secondo la teoria del vantaggio , attribuita a Smith, i paesi
dovrebbero esportare ciò per cui hanno un vantaggio assoluto
rispetto a tutte le nazioni (Smith, 1776).
Vi sono due versioni della teoria del vantaggio comparato: la
versione classica, attribuita a Ricardo, e quella di Heckscher e
Ohlin (Perretti , 2003); la teoria si è poi evoluta in nuova teoria del
commercio internazionale, grazie al contributo di Krugman nel
1979.
La teoria ricardiana del vantaggio comparato afferma c he ogni
paese dovrebbe esportare ciò che produce in modo relativamente
più efficiente (Ricardo, 1817).
La teoria del vantaggio comparato di Heckscher e Ohlin suggerisce
che a determinare vantaggi differenti sono le diverse dotazioni di
fat tori tra paesi: quelli che dispongono di un’abbondanza di risorse
dovrebbero esportarle; a determinare lo scambio sono dunque le
dotazioni e non la produttività (Hill, 2008).
La nuova teoria del commercio internazionale afferma che il
commercio è alla base della specializz azione produttiva di una
nazione, grazie alla quale si possono ottenere economie di scala:
all’aumentare dell’output, i costi unitari si riducono più ch e
proporzionalmente (Hill, 2008).
La teoria della bilancia dei pagamenti considera gli investimenti
diretti esteri al pari delle altre forme di investimento, dunque un
mero flusso di capitale ; vengono spiegati dallo spread tra tassi
d’interesse dei paesi (Perretti , 2003).
Negli anni Cinquanta si consolida l’idea che flussi commerciali e
investimenti diretti esteri non sono attribuibil i principalmente a
variabili macroeconomiche, ma è l’espansione estera delle imprese
ad avere un ruolo fondamentale. Il contributo di Hymer (1960) con
la sua teoria delle imperfezioni di mercato e del vantaggio
monopolist ico dà avvio al fi lone teorico firm-based
dell’internazionalizzazione .
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Hymer (1960) afferma che le imprese estere sostengono costi
superiori rispetto a quelle domestiche: teorizza, infatti, la presenza
di barriere alle operazioni internazionale, cioè dei vantagg i di cui
godono le imprese nazionali nel loro mercato domestico: le
imprese nazionali hanno maggiori informazioni sul proprio paese
riguardo all’economia, lingua, poli tica, leggi; acquisire questo tipo
di informazioni può risultare molto costoso per un ope ratore; ciò
rappresenta un fixed cost . Le barriere possono, inoltre, riferirsi a
discriminazioni del governo, dei consumatori, dei fornitori .
Un’ulteriore barriera è il rischio del tasso di cambio .
Nel determinare i vantaggi che un’impresa estera può aver e in un
mercato non domestico, Hymer (1960) rinvia all ’analisi di Bain , il
quale suddivide i vantaggi in:
- Vantaggio di costo, le cui determinanti sono: controllo delle
tecniche di produzione attraverso brevetti o segreti;
imperfezioni nei mercati dei fattori produttivi che
consentono all’impresa un accesso ad un costo inferiore o,
alternativamente, possesso o controllo di fattori strategici;
condizioni favorevoli di accesso a fattori produttivi;
condizioni finanziarie favorevoli che consentono di ottenere
più bassi tassi d’interesse;
- Vantaggio di differenziazione, le cui determinanti sono:
preferenza dei consumatori rispetto ad un brand e alla
reputazione aziendale; controllo di superiori design di
prodotto; proprietà o controllo di punti di vendita strateg ici .
Confrontando i vantaggi di un’impresa estera in un mercato terzo
con i costi per superare le barriere alle operazioni internazionali,
l’impresa valuta l’attrattività dell’internazionalizzazione.
Il contributo di Hymer (1960) si ha anche in materia di
investimenti dirett i esteri, i quali non sono da considerarsi come
semplice flusso di capitali , ma come trasferimento di un bundle di
risorse e competenze.
Mentre Hymer (1960) analizza l’espansione estera tramite
l’economia industriale, Vernon (1966) utilizza il concetto
17
microeconomico di ciclo di vita del prodotto per spiegare
l’internazionalizzazione delle multinazionali statunitensi del
secondo dopoguerra; risulta, tuttavia, una teoria product-specific ,
quindi non spiega l’espansione all’estero di impr ese diversificate
che presentano un’offerta di più prodotti. L’ipotesi di base è che
imprese localizzate in paesi avanzati godono di un vantaggio
competitivo legato alla loro capacità di innovazione , la quale è
connessa alla localizzazione in paesi con più alto costo del lavoro
e con consumatori con più alto reddito.
Alla base della teoria vi è l’idea che ogni prodotto segue un path ,
suddivisibile in diverse fasi , la cui sequenza è prevedibile. Nella
fase introduttiva la produzione di un nuovo prodotto avvi ene nel
paese di residenza, laddove si colloca la domanda e si può
beneficiare della funzione di R&S. Nella fase di sviluppo, quando,
cioè, l’impresa gode dei vantaggi legati a innovazione e processo,
si avvia l’espansione all ’estero inizialmente tramite esportazione e
successivamente tramite investimenti diretti esteri . N elle ultime
fasi di maturità e declino il prodotto diviene standardizzato, quindi
si ricercano riduzioni di costo con la delocalizzazione della
produzione in paesi in via di sviluppo; il paese innovatore da
esportatore diviene importatore.
Ulteriori contributi alla teoria dell’internazionalizzazione si hanno
con la teoria dei costi di transazione che si affronterà in
riferimento alla scelta della modalità con cui espandersi all’estero ;
un altro fi lone della letteratura teorizza l’approccio
comportamentale o processuale, che verrà analizzato nel paragrafo
relativo al processo di internazionalizzazione : le teorie più
rilevanti sono il modello di sviluppo per fasi, la prospettiva
reticolare e la teoria eclettica .
In ritardo rispetto agli altri ambiti disciplinari , anche l e teorie di
strategic management hanno contribuito allo studio
dell’internazionalizzazione (Perretti, 2003): tra queste s i colloca il
modello di Porter (1990).
18
Porter (1990) coniuga nella sua analisi il concetto di vantaggio
competitivo delle imprese con quello delle nazioni. Le differenze
di valori, cultura, struttura economica , istituzioni, storie delle
nazioni contribuiscono al successo competitivo.
Secondo il modello del diamante nazionale di Porter (fig. 1), i
determinanti del vantaggio competitivo di una nazione riferito ad
un settore sono quattro:
- Le condizioni dei fattori , cioè i fattori di produzione che ha
a disposizione una nazione
- Le condizioni della domanda, cioè la natura della domanda
di beni e servizi nel mercato domestico
- I settori industriali correlati e di sostegno, cioè la presenza o
assenza nella nazione di fornitori o di settori in cui le
imprese coordinano o condividono att ività della catena del
valore
- La strategia, la struttura e la rivalità dell e imprese
domestiche
Ogni determinante è parte di un sistema , soprattutto grazie al ruolo
della rivalità domestica e della concentrazione geografica.
L’effetto di un determinante dipende anche dagli altri e i va ntaggi
di uno possono creare o aumentare i vantaggi di un altro.
19
Figura 1 Il diamante di Porter per l’analisi dell’ambiente nazionale
Fonte: Porter (1990)
L’importanza del modello di Porter consiste nell’aver sottolineato
la necessità di un’analisi congiunta a livello di singola impresa,
singoli settori e di nazione; il modello, tuttavia, presenta dei
limiti, in quanto non fornisce una definizione di “sistema - paese” e
vi è un eccessivo ricorso ad approcci deterministici (Perretti ,
2003).
Concludendo, come si può notare, vi è una molteplicità di teorie e
modelli di internazionalizzazione che si dimostrano incomplete e
che non si coniugano in un’unica teoria (Perretti, 2003).
2.4 Motivazioni alla base dell’internazionalizzazione
La riduzione delle barriere a l commercio, la progressiva rimozione
delle restrizioni agli investimenti esteri ed il cambiamento
tecnologico, agevolato dall’avvento di internet, dall’evoluzione
dell’information technology e delle telecomunicazioni, dalla
pervasività della tecnologia sono i driver della globalizzazione e
quindi dell’internazionalizzazione (Hill, 2008).
Se da un lato la maggior possibilità di accesso a risorse e a
informazioni ha creato una convergenza di culture e stili di vita,
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dall’altro permangono delle consistenti differenze nazionali .
L’integrazione e l’interdipendenza dell’economia globale hanno
creato le condizioni per una maggiore esposizione delle imprese
alla concorrenza estera e aumentato il livello di competitività.
Thompson, Strickland, Gamble (2009) individuano quattro motivi
principali che spingono le imprese a internazionalizzarsi , i quali
possono essere indicati come fattori interni :
- Accedere a nuovi mercati , soprattutto quando il mercato
domestico ha raggiunto la maturità
- Ridurre i cosi grazie a economie di scala ed economie di
esperienza. Molte imprese, inoltre, ricorrono all’estero
perché attratte dalla possibilità di accedere a ris orse e
competenze a basso costo: i l fenomeno della
delocalizzazione, soprattutto in paesi emergent i in cui il
costo della manodopera è basso ne è la prova. Questo
fenomeno consente alle imprese di focalizzarsi su att ività
produttive a più alto valore aggiunto.
- Ottimizzare lo sfruttamento delle proprie risorse e
competenze, ottenendo un vantaggio compet itivo anche nei
mercati esteri
- Diversificare i l rischio su più mercati
In alcuni casi , le imprese si espandono a livello internazionale per
avere accesso a materie prime localizzate in paesi terz i.
Tra i fattori esterni vi è l’internazionalizzazione “passiva” del
settore, cioè la crescente concorrenza sulle importazioni o
l’ingresso di imprese estere t ramite IDE che spingono le imprese
nazionale ad estendersi oltre confine. Un altro fattore esterno è
l’internazionalizzazione dei concorrenti, che l’impresa p uò
percepire come minaccia e si trova, dunque, nella condizione di
dover agire da follower (Saviolo, 2003).
Occorre, tuttavia, considerare che i fat tori interni ed esterni
rappresentato degli stimoli e, in quanto tali , non determinano
necessariamente l’avvio del processo di internazionalizzazione; gli
stimoli per potersi trasformare in azione devono incontrare un
21
atteggiamento positivo della proprietà o del management (Saviolo,
2003); questo può distinguersi in tre fattispecie:
- Caratteristiche della propr ietà o del management , le quali
includono la formazione, l’origine, l’età, le conoscenze
linguistiche, la capacità di gestione, l’orientamento
all’estero, la percezione del rischio, dei costi e delle
opportunità di profitto sui mercati esteri;
- Caratterist iche dell’impresa , le quali comprendono la
disponibil ità del personale al trasferimento all’estero, la
storia aziendale, le caratteristiche dei prodotti e le eventuali
esperienze internazionali passate;
- Caratteristiche dell’ambiente , le quali includono le
infrastrutture, l’istituzione, le regolamentazioni dei paesi
esteri, le informazioni necessarie per compiere un’analisi dei
paesi esteri, le dimensioni del mercato domestico.
2.5 Modalità dell’internazionalizzazione
Le modalità attraverso cui le imprese si es pandono in mercati
esteri sono essenzialmente due: esportazioni e investimenti diretti
esteri; tra questi due estremi si collocano gli accordi di
cooperazione, i quali sono diventati strumenti sempre più uti lizzati
(Grant, 2011) a causa della crescente tur bolenza dell’ambiente
economico, istituzionale e normativo esterno.
Secondo diversi autori (Caroli, Lipparini , 2002a; Mariotti ,
Mutinelli , 2003; Maiorino, 2006), l e modalità con le quali le
imprese sono presenti sui mercat i esteri si possono ricondurre a
quattro fattispecie (fig. 2), in base al l’intensità di coinvolgimento
e dunque controllo e rischio:
- Esportazione indiretta, at traverso: buyers , esportatori
nazional i , consorzi all’export, importatori esteri , trading
companies ;
- Esportazione diretta , attraverso: personale di vendita
dell’azienda , agenti;
22
- Forme di cooperazione internazionale , at traverso: licensing ,
franchising, consorzi , joint venture;
- Investimenti diretti esteri
Figura 2 Modalità di internazionalizzazione
Fonte: nostra elaborazione da Mariotti, Mutinelli, 2003
La scelta tra le moda lità può avvenire sfruttando l’analis i dei costi
di transazione, teorizzata da Williamson nel 1985 (Grant, 2011). Il
grado di opportunismo, l’incertezza e la frequenza delle
transazioni, l’ambiguità di valutazione della prestazione, la
distanza psichica e la longevità della relazione sono fattori alla
base della scelta tra mercati , gerarchia o forme ibride.
La teoria dei costi di transazione è utile per spiegare il progressivo
downsizing e la rifocalizzazione che ha caratterizzate le imprese
dagli anni ’90: la motivazione è l’aumento dell’efficienza dei
mercati rispetto alla gerarchia; i costi amministrativi interni
all’azienda risultano maggiori dei costi di transazione, poiché la
turbolenza dell’ambiente economico esterno ha aumentato i costi di
amministrazione, mentre gli svi luppi in campo Ict hanno ridotto
quelli di transazione (Grant, 2011).
La teoria è utile non solo per spiegare la riduzione delle
dimensioni aziendali , del l ivello di diversificazione e del livello di
23
integrazione verticale, ma anche per spiegare la scelta delle
modalità di espansione estera.
Applicando, infatti, all’internazionalizzazione il modello secondo
cui, all’aumentare dei costi di transazione è necessario aument are
il grado di controllo, possiamo affermare che all’aumentare della
complessità dello scambio è più efficiente ricorrere a forme di
controllo maggiore.
Occorre considerare che le transazioni su mercati esteri, rispetto a
quelle nel mercato domestico, sono caratterizzate da maggiori
costi, connessi alle differenze economiche, ist ituzionali , culturali
che aumentano le asimmetrie informative e dunque il rischio di
comportamenti opportunistici .
La scelta tra le modalità d’affermazione sul mercato estero è i l
risultato del trade-off t ra grado di controllo ed ammontare di
costi/ livello di rischio (Monti, 2011): le esportazioni richiedono un
investimento minore in risorse e competenze a conseguenza di ciò
risulta un’alternativa più flessibile che espone l’impre sa ad un
rischio più contenuto, tuttavia si ha un controllo più ridotto; al lato
apposto, invece, vi sono gli IDE che necessitano di risorse di più
alto livello, dunque di maggiori costi, di rischio più elevato e di
maggior rigidità a cui corrisponde un maggior controllo.
Molti autori (Caroli, Lipparini , 2002; Esposito, 2003) concordano
sul fatto che le diverse modalità non sono fasi necessarie di un
processo evolutivo: le imprese born global ne sono la conferma.
2.5.1 Esportazioni
Le esportazioni costituiscono secondo diversi autori (Marafioti,
2003) il primo stadio del processo di internazionalizzazione e
quello che spesso precede forme più complesse. Secondo studi
empirici, le esportazioni risultano supportate dagli investimenti
diretti esteri, i quali accrescono il flusso di scambio intra-firm di
beni intermedi e macchinari (Spi garelli , 2001).
Si può dist inguere tra esportazioni indirette e dirette , in base al
grado di coinvolgimento richiesto.
24
2.5.1.1 Esportazioni indirette
L’esportazione indiretta è la modali tà d’in ternazionalizzazione che
implica un minimo grado di risch io, minori costi , una minore
dotazione di risorse o competenze ma anche un minore grado di
controllo; i l rapporto con il mercato estero è limitato e mediato , il
che rende l’impresa più vulnerabile ri spetto al suo canale di
distribuzione, facilmente sostituibile da altre imprese , e più
“lontana psichicamente” al mercato estero (Spigarelli , 2001). Si fa
ricorso ad esportazione indiretta quando si decide di esternalizzare
la funzione commerciale ed affidarla ad operatori autonomi , che
generalmente rivendono la merce acquistata dall’impresa per conto
e per nome proprio, assumendosi dunque i rischi e gli oneri .
Questa modalità è utile per le imprese che si affacciano per la
prima volta in un mercato estero, affidandosi a operatori locali che
conoscono il proprio mercato o a operatori nazionali che
conoscono il mercato estero (Marafioti, 2003). Secondo studi
empirici, è la modali tà con cui nella maggior parte dei cas i si avvia
il processo di internazionalizzazione con un utilizzo limitato di
risorse e capacità (Spigarelli, 2001). I principali intermediari
dell’esportazione indiretta (Maiorino, 2006) sono i buyers
(compratori esteri presenti nel paese con propri agenti d’acquisto) ,
gl i importatori-distributori (imprese commerciali che acquistano la
proprietà dei prodotti per poi distribuirli all’interno del proprio
paese con i l relativo rischio di rivenderlo) , le società di import -
export (società nazionali d’esportazione che acquistano
direttamente la proprietà dei beni) , le trading companies
(compagnie di grandi dimensioni che operano in più paesi acquisti
e vendite, trattano più categorie merceologiche e con più
produttori per lo stesso prodotto: i vantaggi sono legati alla scala)
e i combination export managers .
L’espansione estera tramite esportazioni indirette non offre
l’opportunità di maturare delle conoscenze sul mercato estero e di
monitorare la domanda, dunque non consente di sviluppare
ulteriormente la strategia di ingresso (Marafioti, 2003).
25
2.5.1.2 Esportazioni dirette
Le esportazioni dirette implicano un coinvolgimento maggiore se
confrontate con quelle indirette in termini di risorse, competenze e
grado di controllo, infatti gli intermediari in questo caso operano
in nome e per conto dell’impresa, non acco llandosi i vari rischi di
esportazione (Mariotti, Mutinelli, 2003); è l’impresa a mantenere
la proprietà dei prodotti (Spigarelli , 2001) . I problemi connessi
con la scelta di collaborazione con terzi, così come quelli connessi
con alcuni tipi di partnership, risiedono nelle asimmetrie
informative che implicano una difficoltà nel monitorare la
coerenza delle prestazioni rese con l’accordo, nel costruire la
fiducia e dunque instaurare rapporti stabili e duraturi (Mariotti,
Mutinelli , 2003). Le esportazioni di rette, tuttavia, offrono diversi
vantaggi, tra cui controllo parziale o completo del prezzo, della
distribuzione, migliore protezione di marchi, brevetti e altri
intangibile assets (Marafioti, 2003); un ulteriore elemento di
vantaggio è il maggiore contatto con i l mercato (Spigarelli, 2001) .
I principali soggett i dell’esportazione diretta sono gli agenti
monomandatari e plurimandatari , i broker , personale interno
all’azienda , tra cui i rappresentanti, i dipendenti che si occupano
di vendita diretta al clien te finale, soprattutto nel caso di prodotto
ad alto valore aggiunto , oppure di altre forme di vendita, tra cui il
commercio elettronico e la vendita per corrispondenza (Maiorino,
2006).
Con il contratto d’agenzia l’impresa mandante affida all’agente la
vendita dei propri prodotti in cambio di provvigioni in base al
volume venduto, che da un lato motiva l’agente a vendere di più,
ma dall’altro , soprattutto nel caso di agenti plurimandatari, lo
incentiva a promuovere i prodotti più remunerativi.
Per ovviare ai problemi di conflitto d’interesse, l’impresa può
ricorrere a personale interno, tra cui dipendenti, che si recano
presso gli acquirenti nei mercati esteri, oppure ad altre forme di
vendita tra cui il commercio elettronico e la vendita per
corrispondenza.
26
Un’altra alternativa è il ricorso a broker , mediatori che procurano
una vendita occasionalmente.
2.5.2 Forme di cooperazione
Le forme di cooperazione si caratterizzano per la necessità di
coordinamento ex-ante delle decisioni tra i partner. Possono
comportare partecipazioni di capitale o basarsi su accordi
contrattuali (non-equity). In questa categoria rientrano il l icensing ,
i l franchising, gli accordi di produzione, i consorzi e joint venture.
Questa modalità rappresenta un meccanismo primario di
trasferimento di conoscenze e di competenze (Marafioti , 2003).
I contratti di licenza comportano la cessione di un dirit to di
proprietà intellet tuale o industriale dal l icenziante al licenziatario
per un preciso periodo di tempo in un terri torio determinato e
attraverso canali distributivi precisati a fronte del pagamento di
royalties . Il licenziatario reperisce e investe il capitale necessario
e gestisce a sua discrezione il mercato target; il licenziante,
dunque, non si assume i rischi e i costi connessi allo sfrut tamento
commerciale della sua proprietà intellet tuale nel mercato estero
(Hill, 2008). Quest’ultimo controlla l’operato del licenziatario
tramite clausole, le quali , tuttavia, non riescono a garantire un
controllo completo ed efficace.
All’interno delle politiche di branding , si ricorre sempre di più
alle licenze di marchio che consentono al licenziatario di accedere
a nuovi mercati traendo vantaggio dall’awareness della marca e al
licenziante di diversificare la produzione: quest’ultimo, però, deve
verificare la coerenza tra l’immagine della marca e l’attività
produttiva e commerciale del licenziatario (Gregori, Cardinali,
Travaglini, 2012).
Il contratto di franchising è similare a quello di l icensing , tuttavia
comporta una collaborazione continuativa con finalità prettamente
distributiva; la cessione è accompagnata da un’accurata definizione
delle modalità di sviluppo del business. È una modalità che
comporta costi fissi inferiori rispetto all’apertura di proprie filiali
27
commerciali , consente lo sfruttamento di economie di scala nella
produzione e nella commercializzazione e di conoscenze del
mercato estero del franchisee . Tuttavia, sono numerosi i rischi,
derivanti soprattutto dai costi e dalla difficoltà di monitoraggio del
franchisee (Hill, 2008) . È una modali tà adatta ad imprese con
processo produttivo standardizzabile, che non possono esportare i l
proprio output e non vogliono effettuare investimenti diretti
(Marafioti , 2003).
Per poter sfruttare i benefici in termini di bassi costi della
delocalizzazione senza effettuare IDE, le imprese possono ricorrere
ad accordi produttivi che richiedono minori risorse: questi
includono i contratti di subfornitura e il traffico di
perfezionamento passivo.
Per subfornitura internazionale si intende un contratto in cui
l’impresa committente commissiona all’impresa sub -fornitrice la
fornitura di merci o servizi per fini commerciali. I benefici
risiedono nella potenziale riduzione di costi diretti di produzione,
nel limitato bisogno di risorse e competenze; le difficoltà, invece,
risiedono nella probabili tà di comportamenti opportunistici e nel
controllo della quali tà della produzione.
Il traffico di perfezionamento passivo è il regime doganale che
consente di esportare temporaneamente al di fuori del terri torio
doganale dell’Unione Europea merci di cui è prevista la
reimportazione dopo una o più operazioni di perfezionamento con
parziale o totale esenzione dai dazi all’importazione. Consente di
delocalizzare fasi produttive labour- intensive pagando dazi sul
valore aggiunto all’estero; inoltre, si ha la garanzia di qualità,
poiché le materie prime vengono inviate dall’impresa (Mariotti,
Mutinelli , 2003).
La costituzione di una joint venture è la modalità di
internazionalizzazione più vicina all’IDE, in termini di costi,
rischio, controllo. Per joint venture si intende un’impresa
giuridicamente autonoma posseduta da due o più imprese, che
consente di ottenere vantaggi sinergici. Le imprese possono trarne
28
diversi benefici: accesso al mercato, ottenimento di economie,
reperimento di risorse. Costituire una joint venture con un’impresa
locale consente all’impresa di beneficiare dell’esperienza, delle
relazioni e della conoscenza del partner del mercato estero. D’altro
canto, il controllo non completo sulla società costituita non
consente di ottenere economie di esperienza e di localizzazione;
possono emergere conflitti e scontri per il controllo della joint
venture; vi è, inoltre, rischio che l’impresa partner si appropri
della tecnologia del processo produttivo (Hill, 2008).
2.5.3 Investimenti diretti esteri
Gli IDE rappresentano la modalità di esp ansione estera con il
maggior grado di controllo, rischio e irreversibilità
dell’investimento ed è per questo un’attività ad alto
coinvolgimento manageriale.
Secondo la teoria dei costi di transazione, si ricorre agli
investimenti diretti esteri in presenza di imperfezioni di mercato,
quali disequilibrio tra le parti, interventi governativi, imposizione
fiscale, incertezza su natura o valore del bene scambiato. Occorre
considerare, tuttavia, che vi sono altri fattori alla base degli
investimenti diretti esteri, cioè attività produttiva, paese d’origine
e caratteristiche dell’azienda (Monti, 2011).
Sempre con riferimento alla teoria dei costi di transazione,
effettuare lo sviluppo interno, dunque gli IDE, comporta dei costi
di controllo, coordinamento e comunicazione interna.
Un’impresa può effettuare un investimento diretto estero attraverso
due modalità: avviando una nuova attività - investimenti
greenfield- o acquisendo un’impresa che già oper a nel paese
obiettivo.
Gli investimenti greenfield consentono all’impresa di beneficiare
di vantaggi di costo e organizzativi, però aumentano la complessità
di gestione, soprattutto in riferimento al marketing, in quanto
l’impresa deve reperire le informaz ioni e le competenze per
operare sul mercato estero.
29
Gli investimenti non greenfield consentono all’impresa di
beneficiare delle conoscenze e competenze possedute dall’impresa
estera acquisita (Spigarelli, 2001).
Si possono distinguere due diverse modalità di IDE: la costituzione
di unità commerciali (“IDE orizzontali) oppure produttive (“IDE
verticali”) .
La motivazione alla base della prima modalità consiste
nell’avvicinarsi al mercato di destinazione, dunque sfruttare i
vantaggi derivanti da un contatto diretto con la domanda per poter
comprendere e anticipare i bisogni dei cl ienti e sviluppare in
maniera più intensa relazioni con operatori locali; si costituiscono
unità commerciali in paesi terzi anche per superare la barriera
dovuta ad alti costi di esportazione (di trasporto, doganali ecc.) .
Tipicamente, i settori, in cui si ricorre a IDE orizzontali , sono
caratterizzati da economie di scala a livello di impresa, al fine di
compensare i costi di duplicazione nel paese estero.
La costituzione di stabil imenti produttivi è motivata dalla ricerca
di maggior redditività dovuta soprattutto a minori costi de l lavoro
e di altri input, dalla necessità di superare le barriere al
commercio, oppure dalla necessità di reperire risorse presenti in
paesi terzi: in questo caso, dunque, si frammenta l’attività
produttiva. Generalmente, si fa ricorso a IDE verticali nei settori
in cui il processo produttivo può essere suddiviso in fasi
caratterizzate da intensità fattoriali diverse e in cui la concorrenza
è soprattutto sui costi.
I vantaggi degli investimenti dirett i esteri sono rappresentati dal
controllo, dalla possibilità di ottenere economie di apprendimento
e di localizzazione; dall’altro lato, però, è la modali tà più costosa
e più rischiosa (Hill, 2008) .
2.6 Criteri di scelta tra modalità
La scelta di come accedere ai mercati esteri , così come la scelta di
internazionalizzazione in sé, dipende da una serie di fattori interni
30
all’impresa ma anche esterni (settore, paese di origine e di
destinazione).
2.6.1 Fattori esterni
I fattori esterni possono dist inguersi in fattori di mercato, fat tori di
produzione e fattori ambientali riguardanti il paese estero obiettivo
e fattori riguardanti i l paese di origine (Marafioti , 2003).
I fat tori di mercato del paese estero includono:
- La dimensione attuale e potenziale di sviluppo del mercato :
più il mercato è grande, più sono consone modalità che
implicano grandi investimenti e un orizzonte temporale di
più lungo periodo;
- La struttura competitiva: più si è in condizioni di
concorrenza perfetta, minori saranno gli investimenti
sufficienti per poter accedere al mercato; viceversa, nel caso
in cui il numero di imprese sia limitato, occorrono
investimenti diretti ingenti.
- Strutture distributive presenti: l’assenza di queste obbliga
l’impresa a ricorrere a soluzioni dirette.
I fat tori produttivi del paese target comprendono:
- La quantità e la qualità dei fattori produttivi (capitale,
materie prime)
- La qualità e costo delle infrastrutture (trasporto,
comunicazione)
La qualità delle infrastrutture, de l tessuto produttivo e dell’offerta
di servizi a sostegno dell’internazionalizzazione sono condizioni
ambientali favorevoli: sollecitano l’incipit e l’evoluzione
concernente la scelta dei mercati su cui investire.
Tra i fattori ambientali del paese obiettivo vi sono:
- Le caratteristiche sociali, politiche, economiche che
influiscono sulle modalità di espansione estera ; alte tariffe
all’importazione l imitano le esportazioni verso quel paese
come modalità di internazionalizzazione;
31
- La distanza geografica; maggiore è la distanza, più alt i sono
i costi di trasporto e dunque maggiore è la propensione verso
investimenti diretti esteri.
- L’economia del paese target, cioè il t ipo (di mercato o
pianificata), la dimensione in termini di PIL, l’importanza
dei diversi set tori economici e la loro competit ività, le
prospettive future di crescita; fattori dell’ambiente
economico che determinano l’attrattività dei mercati oltre
che la modalità di internazionalizzazione sono la crescita del
Pil, l’andamento dell’inflazione , i bassi livelli d’imposizione
fiscale, la ridotta burocrazia locale, il riconoscimento delle
principali convenzioni, la liberalizzazione fiscale e giuridica
(Aulicino, 2005).
- Le relazioni economiche internazionali del paese estero ,
quantificabili attraverso l ’analisi flussi di IDE, il trend del
commercio internazionale;
- La cultura, cioè valori, religione lingua, società, st ili di vita.
Maggiore è la distanza culturale, più difficile sarà capire ed
anticipare i bisogni per un’impresa, dunque più strategica è
la presenza diretta nel paese al fine di possedere le
informazioni necessarie per compiere le analisi di mercato.
I fattori riferiti al paese di origine dell’impresa includono, come
quelli del paese di destinazione, fattori di mercato, di produzione e
dell’ambiente. Più il mercato domestico è innovativo e
competitivo, più l’impresa ha l’opportunità di maturare conoscenze
e competenze fruibili sui mercati esteri ; inoltre, più il mercato
domestico è grande, prima valuterà l’espansione sui mercati esteri.
Gli investimenti diretti esteri sono la modalità di
internazionalizzazione che si predil ige quando il mercato
domestico è caratterizzato da costo elevato dei fattori di
produzione oppure quando le politiche nazionali elargiscono
finanziamenti per att ività oltre confine (Marafioti, 2003).
32
2.6.2 Fattori interni
I fattori interni si classificano in due categorie a seconda che si
riferiscano ai prodotti o alle risorse dell’impresa (Marafioti , 2003).
Le caratterist iche e la t ipologia del prodotto influenzano la
modalità di ingresso nei mercati esteri, in quanto vantaggi di costo
o di differenziazione consentono di neutralizzare il costo di
trasporto, dunque optare per le esportazioni.
La disponibili tà di risorse tangibili e intangibili risulta
direttamente proporzionale all a possibilità e alla propensione a
valutare anche le modalità più impegnative in termini di rischio e
capitale necessario. Nel caso in cui è il know-how tecnologico a
determinare il vantaggio competitivo dell’impresa, è preferibile
evitare modalità di inte rnazionalizzazione come licenze e joint
venture, per evitare che altri si impossessino dalla tecnologia , a
meno che la condizione di vantaggio venga considerata temporanea
o la tecnologia velocemente imitabile; invece, se il vantaggio
competitivo è determinato da know-how gestionale sono preferibili
modalità come franchising e joint venture (Hill, 2008) .
2.7 Strategie di internazionalizzazione
Le strategie di internazionalizzazione si distinguono dalle modalità
di ingresso, poiché, mentre le prime indicano il path e le azioni sui
mercati esteri per perseguire gli obiettivi prefissati, le seconde
riguardano le forme con cui si trasferiscono all’estero prodotti,
processi e conoscenze (Spigarelli , 2001).
Attuare una strategia di internazionalizzazione significa
posizionarsi nel mercato globale in modo da ottimizzare i risultati:
scegliere dove rinvenire capitali e input, dove delocalizzare la
produzione, dove vendere i propri prodotti, dove posizionare la
funzione di ricerca e sviluppo; la strategia di
internazionalizzazione riguarda direttamente o indirettamente tutte
le attività della catena del valore di un’impresa.
Le tappe fondamentali delle strategie di internazionalizzazione
(Musso, 2010) possono venir classificate in:
33
- Scelta di quale attività internazional izzare:
approvvigionamento, attività operativa, vendite, ricerca e
sviluppo;
- Scelta del paese: individuare i criteri di scelta, ad esempio
distanza fisica o psichica;
- Scelta della modalità con cui internazionalizzarsi:
esportazioni, partnership, investimenti diretti esteri
- Scelta dell’assetto organizzativo
Una delle scelte strategiche fondamentali riguarda l’offerta, ossia
standardizzazione vs adattamento, in riferimento non solo al
prodotto o al packaging , ma anche al prezzo, alla distribuzione e
alla promozione.
La scelta tra standardizzazione e adattament o è influenzata dalle
caratteristiche del mercato estero, dall’organizzazione e
dall’industria. Se , da un lato, la standardizzazione permette di
ottenere benefici in termini di costo, dall’altro si disco sta
dall’orientamento al mercato. La scelta tra le due strategie è il
risultato di una valutazione di fattori economici, polit ici , legali, di
similarità o differenze tra i consumatori, di distribuzione, di
controllo dei prezzi ecc.
Tabella 1 Analisi dell’ambiente internazionale
Fonte: Lambin (2010)
Secondo Lambin (2010) si può classificare l’approccio alla
strategia secondo due dimensioni:
- Forze globali, che rappresentano incentivi a integrazione e
standardizzazione
34
- Forze locali , le quali richiedono sensibilità e adattamento
locale
In base all’intensità di queste due forze, si possono distinguere
quattro condizioni dell’ambiente internazionale (tab. 1) in cui
operano le imprese a cui corrispondono le quattro strategie di base :
- Nell’ambiente globale le forze globali sono forti , mentre
quelle locali deboli . È tipico dei mercati ad alta tecnologia.
Vi è una propensione per la standardizzazione globale.
L’obiettivo delle imprese è la redditività e i profitti ,
minimizzando i costi, grazie allo sfruttamento di economie
di scala, apprendimento e localizzazione
- Nell’ambiente transnazionale entrambe le forze sono
rilevanti . Sono necessari sia la standardizzazione che
l’adattamento : si adotta una strategia transnazionale, la
quale implica, da un lato, la necessità di mantenere bassi
costi grazie a economie di scala, esperienza, localizzazione e
dall’altro differenziare i prodotti nei diversi mercati.
- Negli ambienti internazionali tranquilli entrambe le forze
sono deboli . La strategia internazionale è la più semplice da
perseguire: le imprese vendono i prodotti a livello
internazionale con un adattamento minimo.
- Nell’ambiente multidomestico, o anche multinazionale, le
forze globali sono deboli mentre le locali fort i. La strategia
è di localizzazione: l’obiett ivo dell ’impresa è ottenere
redditività superiore adattando l’output alle preferenze dei
mercati locali . Tale strategia risulta più costosa; occorre che
i benefici superino i costi: o i consumatori sono disposti a
corrispondere un premium price che copra i maggiori costi o
l’adattamento è in grado di indurre una domanda futura
superiore.
Facendo riferimento alle scelte strategiche che intraprendono le
imprese per entrare nei mercati esteri , si può distinguere tra
scrematura, dumping , esplorazione o penetrazione (Spigarelli ,
2001).
35
La strategia di scrematura consente di restringere i segmenti di
mercato esteri con costi, rischi e strumenti necessari minimi,
mantenendo l’offerta pressoché inalterata; le modalità più
frequenti di internazionalizzazione sono l’esportazione indiretta e
il licensing .
La strategia di dumping consiste nella vendita del prodotto nel
mercato estero ad un prezzo inferiore a quello applicato nel
mercato d’origine; consente, così, di aumentare i volumi di
produzione e dunque ottimizzare la capacità produttiva . Le risorse
finanziarie, le competenze organizzative e i rischi sono minimi. Le
modalità principali sono l’esportazione indiretta.
La strategia di esplorazione consente di testare l’attratt ività di
investimenti esteri, grazie al reperimento di informazioni e
conoscenze, instaurando inizialmente delle relazioni commerciali a
bassi costo e coinvolgimento organizzativo. Le modalità per
valutare le opportunità di investimenti sono le esportazioni, il
licensing e le joint venture.
La strategia di penetrazione ha come obiettivo l’acquisizione e il
mantenimento nel lungo periodo della quota di mercato; implica,
dunque, un più alto rischio e coinvolgimento finanziario ed
organizzativo. La modalità principale sono gli i nvestimenti diretti
esteri.
2.8 Processo di internazionalizzazione
Il processo di internazionalizzazione non è solo il risultato di un
impulso proveniente da forze interne all’impresa, ma è esso stesso
un impulso evolutivo (Caroli , 2000) per l’impatto che ha sulla
strategia ed eventualmente sulla struttura organizzativa .
L’evoluzione del processo di internazionalizzazione non segue un
percorso standard, per cui risulta difficile poter modellizzare il
processo.
36
Tabella 2 Matrice di transizione: imprese e forme di internazionalizzazione tra il 2007 e il
2010 (numero di imprese; frequenze percentuali)
Fonte: elaborazioni Istat (2013) su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul
commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese
italiane) e su dati amministrativi
La matrice di transizione rappresenta l’evoluzione da una modalità
di internazionalizzazione ad un’altra; quella riportata in tabella 2
rappresenta i dati riferi ti agli anni 2007 e 2010 di un’indagine Istat
(2013) su 57012 imprese che hanno rapporti con l’estero. La
diagonale principale rappresenta il numero di imprese che non sono
passate da una modalità all’al tra, mentre quelle al di sotto
rappresentano un avanzamento della modali tà di
internazionalizzazione verso forme più complesse, mentre quelle al
di sopra verso forme più elementari . Secondo i dati, il 69,5% delle
imprese mantiene il proprio status , il 12,3% passa ad una modalità
di internazionalizzazione più elementare e circa il 18% verso una
forma più complessa. Secondo l’Istat (2013) la transizione verso
modalità più complesse ha un effetto positivo su valore aggiunto e
su occupazione.
Le teorie più rilevanti che studiano i processi di
internazionalizzazione sono: la teoria eclettica, il modello di
sviluppo per fasi , prospettiva reticolare (Caroli, Lipparini, 2002b).
Alcuni autori ritengono che nei processi di internazionalizzazione
coesistono i tre approcci, mentre altri autori sono so stenitori di una
singola teoria.
Secondo la teoria eclettica (OLI) di Dunning
l’internazionalizzazione delle imprese è funzione del possesso e
della capacità di acquisire determinati assets (Monti , 2011).
37
La teoria eclettica evidenzia due t ipi di vantaggi che influenzano
l’impegno internazionale di una società: i vantaggi ownership-
specific (O) e quell i location-specific (L). I vantaggi ownership-
specific si riferiscono alle caratterist iche e capacità relative
all’impresa di una particolare nazionalità o di una data proprietà
che le consentono di ottenere un vantaggio competitivo: queste
includono risorse e competenze tangibili e intangibili. I vantaggi
location-specific si riferiscono, invece, ai benefici potenziali
dell’attività in un particolare mercato estero ottenibili grazie a
caratteristiche della localizzazione tra cui dotazione di risorse,
costi di trasporto, di comunicazione, infrastrutture, barriere al
commercio, contesto economico e culturale, quad ro polit ico e
istituzione. Vi è un ulteriore vantaggio, Internalization ( I) che non
è inerente all’internazionalizzazione, ma riguarda l’ipotesi di base
che esistono imperfezioni di mercato; l’internalizzazione delle
transazione riflette una maggior efficacia della gestione interna .
L’internazionalizzaz ione è il risultato della combinazione di export
di beni intermedi, per produrre i quali l’impresa necessita di input
di cui il paese è ben fornito, con l’utilizzo di risorse, di cui è ben
fornito il paese di destinazione degli investimenti . Dal momento
che i mercati non sono perfetti , non trovano applicazioni le teorie
del commercio internazionale; le imprese, spinte dalle imperfezioni
del mercato, sfruttano i vantaggi Ownership-specific e Location-
specific di cui dispongono al fine di ottenere un vantaggi o
competitivo (Monti, 2011).
Più grandi sono i vantaggi Ownership-specific , maggiore è
l’incentivo a internalizzare; dunque, se si ha maggiore stimolo a
sfruttare i vantaggi all’estero, si propenderà maggiormente per gli
investimenti diretti esteri.
Quando si parla di sviluppo per stadi, si possono intendere tre tipi
di approccio (Lamieri, Lanza, 2008):
- Le imprese entrano in nuovi mercati esteri inizialmente
esportando i propri prodotti; passano poi a modalità più
impegnative.
38
- Le imprese si espandono geograficamente per stadi, cioè
prima in paesi adiacenti e via via in paesi più lontani.
- Le imprese si espandono, procedendo per stadi, a seconda
della vicinanza culturale.
Il modello di sviluppo per fasi si colloca all’interno della dottrina
comportamentale, secondo la quale l’internazionalizzazione va
analizzata in quanto processo, in cui svolgono un ruolo
fondamentale la conoscenza e l’apprendimento (Monti , 2011). Il
modello di sviluppo per fasi implica un processo di appre ndimento
graduale e sequenziale ( learning by exporting): le imprese che si
affacciano sui mercati esteri sono spinte a ridurre le inefficienze e
a ridisegnare i processi produttivi aumentando la produttività.
L’internazionalizzazione, dunque, consente alle imprese di
crescere e, a livello aggregato, ciò comporta un upgrading
qualitativo (Lamieri , Lanza, 2008). L’internazionalizzazione è
vista come un processo unidirezionale secondo una sequenza
predeterminata di fasi che incrementano la complessità
all’aumentare della conoscenza sul mercato estero (Monti, 2011).
Secondo la prospettiva reticolare, le relazioni tra imprese sono le
basi dell’espansione all’estero; quest’ultima teoria verrà analizzata
nel capitolo tre, riguardante l’internazionalizzazione delle imprese
distrettuali.
2.9 Internazionalizzazione delle imprese italiane: quadro
generale
Prima di procedere all’analisi dell’internazionalizzazione delle
piccole imprese, si vuole indagare la performance internazionale
italiana a l ivello aggregato.
39
Tabella 3 I primi venti esportatori mondiali di merci (in miliardi di dollari)
(1) include consistenti flussi di ri-esportazioni.
(2) stime segretariato Omc.
Fonte: elaborazioni ICE su dati Omc in “L’Italia nell’economia internazionale. Sintesi del Rapporto 2011-
2012”
La dimensione dei flussi di esportazione è un importante indicatore
della competitività di un paese.
Tradizionalmente l’attenzione degli economisti riguardo al
commercio internazionale si è concentrata sulle caratteristiche del
paese e delle industrie – s i pensi , ad esempio, alla teoria del
vantaggio comparato, economie di scala - trascurando l’eterogeneità
delle imprese (Banca d’Italia, 2009).
L’Italia secondo i dati dell’Omc nel 2011 , riportati in tabella 3, ha
confermato l’ottavo posto nella classifica d ei maggiori esportatori
mondiali , registrando una variazione in aumento dell’export del
16,9%, valore di un punto percentuale inferiore alla media dei
venti maggiori esportatori. Ai venti maggiori esportatori nel 2001
si attribuiva il 74,6% delle esportazioni mondiali, mentre nel 2011
il 69,7%; il caso ital iano è a conferma della perdita di quota parte
dei maggiori esportatori .
40
Figura 3 Esportazioni di beni e servizi (% PIL) in Italia e nel mondo
Fonte: nostre elaborazioni su dati World Bank www.worldbank.org
Il trend del grafico in figura 3 sulla percentuale delle esportazioni
rispetto al Pil dimostra come negli anni si faccia sempre più
ricorso all’export e come questo riflette l’andamento del contesto
economico e sociale sia interno che esterno.
Tuttavia il rapporto delle esportazioni sul Pil non è un indicatore
corretto per confrontare l’apertura dei mercati tra paesi in quanto i
fattori che determinano le differenze tra i valori dei ra pporti vi
sono la geografia e la dimensione del paese: infatti, minori sono le
dimensioni di un paese, minori sono le probabilità che si
specializzi in più prodotti e farà, dunque, un maggior ricorso agli
scambi con l’estero (Blanchard, 2009).
La variabile che determina la scelta tra beni nazionali ed esteri è il
tasso di cambio reale, cioè i l prezzo dei beni nazionali in termini
di beni esteri; la variabile che determina la scelta tra at tività
finanziarie nazionali ed estere è il tasso di rendimento relati vo, il
41
quale è determinato dai tassi di rendimento interno ed estero e dal
tasso atteso di deprezzamento della valuta interna.
Le esportazioni dipendono positivamente dal reddito estero e
negativamente dal tasso di cambio reale, se si considera
quest’ultimo come il prezzo dei beni interni in termini di beni
esteri.
Figura 4 Presenza commerciale italiana all’estero. Anno 2010, intervalli per numero di
presenze degli operatori all’export
Fonte: Istat, Annuario statistico. Commercio estero e attività internazionali delle imprese. Nota per la
stampa, 2010
Nel 2010 in Italia gli operatori che hanno fanno ricorso alle
esportazioni sono stati 205974, di cui 129144 (il 62,7%) registrano
un fatturato all’export inferiore a 75 mila euro e contribuiscono
allo 0,6% del valore complessivo dell’export. Il 44,7% degli
esportatori opera in un solo mercato e il 14, 6% su oltre dieci
mercati . Le tendenza rimane quella di esportare nelle principali
aree commerciali: i l 75,4% opera nel territorio c omunitario, il
38,7% negli altri paesi europei non appartenenti all’Unione
Europea, il 17,5% in Asia Orientale, il 17,3% in America
Settentrionale.
42
Tabella 4 Investimenti diretti esteri in uscita: principali paesi investitori (Valori in miliardi
di dollari a prezzi correnti)
Fonte: elaborazione ICE su dati Unctad in “L’Italia nell’economia internazionale. Sintesi del Rapporto
2011-2012”
L’altra modalità di internazionalizzazione è costituita dagli
investimenti dirett i esteri; secondo i dati Unctad riportati in tabella
4, l’Italia nel 2011 conferma la posizione all’ottavo posto tra i
principali investitori , attuando il 4,1% degli investimenti esteri. Si
può notare un’evoluzione in positivo, poiché nel 2001 ne attuava il
2,9%, giustificata soprattutto dalla ricerca di opportunità in paesi
in cui i l costo dei fattori produttivi è inferiore.
Figura 5 Flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia ( in US$)
Fonte: nostra elaborazione su dati World Bank www.worldbank.org
43
Il flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia è calcolato
come nuovi flussi di investimento a cui vengono detratti i
disinvestimenti. Si può notare dalla figura 5 come fino al 2007 il
trend fosse crescente: gli investimenti dirett i esteri sono stati
favoriti dal buon andamento dei mercati finanziari e dai bassi tassi
di interesse. Nel settore primario il maggior ricorso è attribuibile,
in parte, alla crescita dei prezzi delle materie prime, mentre nel
terziario all’espansione del commercio internazionale (Lamieri,
Lanza, 2008).
Dal 2008 il trend mostra una forte instabilità, dovuta
principalmente alla recessione globale e al contesto nazionale in
cui l’eccessiva burocratizzazione e l ’alto costo del lavoro fungono
da disincentivi all’investimento; si ricercano, dunque, nuovi
mercati .
45
3 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI
3.1 Introduzione
Il fenomeno dell’internazionalizzazione, che fino agli anni ’50 del
ventesimo secolo ha coinvolto principalmente le imprese di grandi
dimensioni, sta interessando sempre di più le piccole e medie
imprese. Queste ultime sono state trascurate dagli studiosi
dell’international business , poiché la loro limitata dotazione di
risorse finanziarie, imprenditorial i e tecnologiche era considerata
una barriera allo sviluppo internazionale che le obbliga a forme di
internazionalizzazione più lieve come l’esportazione e la
subfornitura.
La capacità delle imprese di minori dimensioni di avere una
presenza sui mercati es teri significativa in termini di qualità e di
quantità trova conferma nella letteratura degli ultimi venti anni
(Caroli, Lipparini , 2002b) .
Negli ultimi anni numerosi sono i contributi di autori che
affermano l’assenza di correlazione significativa tra dim ensione
aziendale e sviluppo oltre confine (Caroli, Lipparini , 2002; Caroli,
Fratocchi, 2000), tuttavia la dimensione influenza le modali tà di
espansione estera, le alternative strategiche potenzialmente
perseguibili e le soluzioni organizzative adottate. L’accumulazione
di conoscenze e il network di relazioni fungono da discriminante
per l’internazionalizzazione.
La globalizzazione richiede inventiva, agili tà e flessibilità, che
rappresentano da sempre i connotati delle PMI (Ricci , Cillo, Landi ,
2010). Secondo la letteratura europea e italiana, infatti, la
flessibilità organizzativa e strategica e l’impegn o imprenditoriale,
che rappresentano delle caratteristiche tipiche delle piccole e
medie imprese, possono permettere loro di ottenere dei vantaggi
nell’espansione estera rispetto alle imprese di d imensioni maggiori
(Zucchella, 2000).
Secondo alcuni autori la riduzione dei costi fissi, grazie alla
maggiore integrazione delle economie e alle nuove tecnologie,
46
offre numerose opportunità alle imprese di dimensi oni minori di
diventare “multinazionali tascabili”: essere piccoli non è più un
disvalore (Lamieri M., Lanza A., 2008).
Rifacendosi alle definizioni della Commissione Europea, la
classificazione di piccole e medie imprese si riferisce
principalmente a tre fattori: turnover , totale di attività e numero di
occupati . Nel presente lavoro si farà principalmente riferimento
alla classificazione dimensionale per numero di addetto.
Il presente capitolo è volto ad analizzare le peculiarità del
processo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese,
le quali grazie ad apprendimento e network di relazioni sono in
grado di superare il vincolo dimensionale .
Nel primo paragrafo si indagano i vincoli al la crescita
internazionale, supportando l’analisi teorica con una ricerca
empirica.
Si passa poi all’individuazione delle determinanti
dell’internazionalizzazione delle imprese minori, in cui un ruolo
fondamentale è giocato dal “tessuto imprenditoriale”.
Nel paragrafo successivo, dopo una panoramica della situazione
italiana sulle modalità per classe dimensione, si passano in
rassegna esportazioni, cooperazioni e investimenti dirett i esteri,
soffermandosi sulle peculiarità analizzate in letteratura.
Viene poi analizzato brevemente quanto contraddistingue le
strategie, considerando, tuttavia, che la letteratura in materia
strategica è scarsa.
Da ultimo, si passano in rassegna i processi di espansione estera,
da cui l’internazionalizzazione può venire classificata come
congenita, trainata o programmata. Si verificherà, inoltre,
l’applicabil ità dei tre approcci teorici principali (teoria eclettica,
modello di sviluppo per fasi e prospett iva reticolare) alle imprese
di dimensioni inferiori , rimandando l’analisi della prospettiva
reticolare al capitolo successivo.
47
3.2 Vincoli delle PMI alla crescita internazionale
I punti di debolezza delle PMI sono:
- Cultura dell’internazionalizzazione non adeguata;
- Carenza di elaborazione strategica;
- Razionalità limitata nella gestione delle difficoltà e
dell’incertezza. L’assenza di esperienza internazionale e la
scarsa disponibilità di informazioni sono un freno per la
scelta razionale;
- Limiti nella disponibilità di risorse manageriali e di
competenze, in particolare deficit di competenze relative a
risoluzioni di problemi;
- Difficoltà di reper imento e di gestione delle risorse
finanziarie.
A causa di questi problemi la spinta delle PMI
all’internazionalizzazione è nella maggior parte dei casi contenuta;
le imprese sfruttano la prima opportunità di crescita all’estero,
procedono per gradualismo, seguono il cliente. Queste modalità ,
tuttavia, non sono prive di rischio (Mariotti, Rabbiosi , 2003).
La Commissione Europea nell’ambito di un’indagine relativa
all’internazionalizzazione delle PMI ha suddiviso i vincoli in due
categorie: barriere interne e barriere relative all’ambiente di
business.
Come riportato in figura 6, l e imprese percepiscono come barriera
più importante il prezzo dei prodotti , che implicherebbe o minori
profitti o perdita di competitività, soprattutto se la strategia
perseguita è la leadership di costo.
Un’altra barriera rilevante sono gli alti costi di
internazionalizzazione: sono, infatti , notevoli gli investimenti
necessari soprattutto per le modalità a più alto coinvolgimento.
48
Figura 6 Importanza delle barriere interne per l’internazionalizzazione, per classi
dimensionali delle PMI, punteggio medio su scala da 1 (non importante) a 5 (molto
importante), solo per le PMI attive nel contesto internazionale
Fonte: Commissione Europea, Internationalisation of European SMEs, 2009
Per quanto riguarda le barriere relative all’ambito di business in
figura 7, la mancanza di adeguate informazioni, di capitale e di
supporto pubblico sono i vincoli considerati più gravosi,
soprattutto per le micro imprese. Vengono, inoltre, indicate altre
barriere, quali i costi e le difficoltà delle pratiche di logistica,
leggi e regolamenti dei paesi esteri, tariffe e altri barriere al libero
scambio.
Figura 7 Barriere relative all’ambiente di business per le imprese sui mercati non EU –
EEA, per classe dimensionale (percentuale delle PMI che le considerano importanti)
Fonte: Commissione Europea, Internationalisation of European SMEs, 2009
49
I vincoli dimensionali possono essere superati sfruttando
conoscenze acquisite con l’esperienza e implementando strategie di
sviluppo finalizzate al miglioramento di competenze tecniche ,
finanziarie e gestionali.
3.3 Fattori alla base dell’internazionalizzazione
I motivi che spingono le imprese di minori dimensioni ad
internazionalizzarsi possono suddividersi in fattori esterni ed
interni , così come analizzato nel capitolo 1 per le imprese in
generale.
I fattori esterni fanno riferimento alla risposta dell’impresa agli
stimoli che fornisce l’ambiente; i fattori interni, inve ce, si
riferiscono allo sviluppo che l’impresa intende perseguire e al
rafforzamento del vantaggio competitivo (Caroli, Lipparini ,
2002b).
Dalla combinazione di fattori esterni ed interni prende avvio il
processo di internazionalizzazione. Nelle imprese di dimensioni
minori, alcuni autori concordano sul fatto che l’impulso
all’internazionalizzazione proviene dall’interno, mentre le
condizioni esterne rappresentano sostanzialmente uno stimolo
(Caroli, 2000) .
3.3.1 Fattori esterni
I fattori esterni possono essere suddivisi in due categorie: la prima
include le condizioni alla base dell’apertura di mercati e di sistemi
produttivi che consentono all’impresa locale di trovarsi nella
dimensione internazionale; la seconda categoria include le
caratteristiche ambientali tangibili e intangibili che permettono il
perseguimento di una strategia di internazionalizzazione di
successo.
Con la crescente interdipendenza dei sis temi economici il mercato
locale è soggetto alla concorrenza di imprese estere: le piccole
imprese si t rovano, dunque, a competere più aspramente
nell’ambiente locale, ma anche a dover cercare nuovi mercati;
50
inoltre, vi è la probabilità che vi sia domanda proveniente
dall’estero non sollecitata. La globalizzazione crea per le PMI,
inoltre, l’opportunità di internazionalizzare la nicchia di mercato
in cui opera l’impresa, estendere su più aree geografiche i rapporti
di fornitura instaurati con la grande impresa, favorire lo sviluppo
reticolare della grande impresa con cui ha dei rapporti, rafforzarsi
grazie a spill -over tecnologici prodotti localmente da imprese
internazionalizzate (Caroli, Lipparini, 2002b).
Le caratteristiche dell’ambiente che consentono di perseguire una
strategia di successo per le imprese minori, così come per le
imprese in generale, sono rappresentate dalle infrastrutture, dai
servizi a supporto dell’internazionalizzazione, dalla rete di
business relativamente a capacità innovativa, intensità delle
relazioni e livello di apertura internazionale; nel caso della PMI la
rete di business è ri levante poiché è qui che si reperiscono le
informazioni, risorse per avviare il processo di
internazionalizzazione, si trovano i partner grazie a i quali si
espande all’estero e si sviluppano le relazioni sociali tra
imprenditori e soggetti strategicamente ri levanti (Caroli, Lipparini ,
2002b).
Secondo alcune evidenze empiriche le esportazioni nelle piccole
imprese sono spinte maggiormente da fattori esterni, piuttosto che
interni (Caroli , Lipparini, 2002b).
3.3.2 Fattori interni
I fattori interni possono essere suddivisi in due categorie: le
caratteristiche dell’imprenditore o di chi prende le decisioni
all’interno dell’impresa e le caratteristiche dell’impresa in
generale; sebbene la seconda categoria contenga la prima, la
suddivisione sottolinea l’importanza di c olui o coloro che
detengono il potere decisionale nei processi di
internazionalizzazione del le imprese di minori dimensioni (Caroli,
Lipparini, 2002b). Per analizzare i fat tori interni si fa ricorso alla
resource based view : è, infatti , la coesistenza e la valorizzazione
51
di risorse tangibil i e intangibile e competenze produttive,
organizzative e adattive a condurre l’impresa nel processo di
espansione estera; secondo la RBV, l’internazionalizzazione è un
processo di mobilitazione, accumulazione e sviluppo d i più stock
di risorse per attività internazionali (Ruzzier et al. , 2007). Si fa
ricorso, inoltre, alla knowledge based view , secondo cui l’impresa
è un patrimonio di conoscenze il cui valore deriva
dall’utilizzazione.
Due fattori che caratterizzano oggett ivamente l’impresa sono la
dimensione e l’età, ma relativamente all’internazionalizzazione
non si sono trovate correlazioni significative. Diversi studi hanno
investigato il legame tra dimensione considerata sia in termini di
numero di addetto che di fattu rato e le esportazioni, ma non risulta
esserci alcuna relazione; tuttavia, vi è un legame tra
l’internazionalizzazione e la quantità di risorse e competenze
tangibili e intangibili. Alcuni studi si sono focalizzati sulla
relazione tra espansione estera ed età, ma i risultati non sono
univoci (Caroli , Lipparini, 2002b).
Tra le condizioni necessarie per dare avvio al processo di
internazionalizzazione vi sono la capacità di reperire informazioni
sui mercati e sui soggetti con cui instaurare relazioni, la cap acità
produttiva in grado di soddisfare la potenziale domanda
dall’estero, capacità organizzativa utile per gestire le relazioni;
risulta fondamentale possedere o poter accedere a risorse
finanziarie. Occorre poter ed essere in grado eventualmente di
adattare il proprio output alla domanda estera (Caroli , Lipparini,
2002b; Mariott i, Mutinell i, 2003).
Nelle PMI svolge un ruolo cruciale la “formula imprenditoriale”, la
quale viene intesa come insieme di risorse, competenze e relazioni
che identificano l’impresa e determinano il suo sviluppo
interpretando e reagendo agli stimoli esterni . Un ruolo centrale
viene affidato all’imprenditore, il decision maker , che con i l suo
atteggiamento, percezione del rischio, esperienza, capacità di
cogliere e sfruttare le oppo rtunità, inclinazione all’espansione
52
estera è in grado di dare avvio con successo al processo di
internazionalizzazione. L’imprenditore traduce fattori esterni ed
interni in stimoli che danno avvio al processo di
internazionalizzazione (Caroli, 2002). Assumono, inoltre, rilevanza
l’insieme di relazioni attuali dell’imprenditore con soggetti esteri e
la sua capacità di instaurarne delle nuove (Caroli, Lipparini ,
2002b; Maiorino, 2006; Mariotti, Mutinelli , 2003). Per quanto
riguarda la figura dell’imprenditore, le variabili correlate
positivamente all’internazionalizzazione dell’impresa si possono
riassumere in quattro: competenze in international business ,
orientamento internazionale, percezione del rischio ambientale e
know-how manageriale. L’esperienza dei manager e degli
imprenditori in ambito internazionale risulta una risorsa di
notevole importanza per le imprese e, in quanto conoscenza tacita,
risulta inimitabile e quindi fonte di vantaggio competit ivo (Ruzzier
et al. , 2007).
Lo sviluppo del capitale umano è un fattore fondamentale per la
crescita economica.
Le competenze gestionali hanno un impatto notevole sul processo
di espansione estera: si pensi, ad esempio, alla possibili tà di
accedere e alla capacità di elaborare le informazioni con i dati
relativi a caratteristiche, opportunità e rischi del mercato estero.
3.4 Modalità di internazionalizzazione
Tabella 5 Caratteristiche strutturali delle imprese per forme di internazionalizzazione,
2010
Fonte: Elaborazione Istat (2013) su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul
commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese
italiane) e su dati amministrativi
53
Secondo un’indagine Istat (2013) che incl ude più di 90000
imprese, riportata in tabella 5 , la modalità di
internazionalizzazione a cui si fa maggior ricorso sono
esportazioni-importazioni (30,8%), mentre sono molto meno le
imprese che ricorrono a forme di internazionalizzazione che
implicano un maggior coinvolgimento: il 4,7% sono localizzate sul
territorio i taliano ma a loro volta sono controllate dall’estero
(“controllo estero”), mentre il 3,4% hanno controllate estere
(“MNE”). Dall’indagine risulta, inoltre, che la dimensione media
in termini d i addetti cresce con l’aumentare del grado di
coinvolgimento dell’espansione estera: mediamente, le piccole
imprese ricorrono a commercio estero, mentre sono le medie
imprese a ricorrere a investimenti diretti esteri. Persino la
produttività media, considerata come valore aggiunto in termini di
singolo addetto, e il fatturato medio sono direttamente
proporzionali al grado di internazionalizzazione. Il grado di
apertura internazionale, misurato come esportazioni sul fatturato
complessivo, è maggiore per le imprese “globali” piuttosto che per
quelle multinazionali. Per globali si intendono, qui, imprese che
esportano in almeno cinque aree extra europee. La profittabilità
media, calcolata come margine operativo lordo su valore aggiunto,
è invece inversamente proporzionale al grado di complessità
dell’internazionalizzazione.
54
Figura 8 Percentuale di PMI europee impegnate in attività internazionali, che hanno piani
concreti per iniziare le attività o non del tutto. Per varie modalità di internazionalizzazione.
Fonte: Commissione Europea, “Internationalisation of European SMEs”, 2009 (N=9480)
L’evidenza empirica mostra che la strategia di presenza sul
mercato estero delle PMI maggiormente adottata è il ricorso
all’esportazione e ciò conferma le difficoltà, i rischi e i limiti di
risorse e competenze necessarie a strategie che implicano un
maggior coinvolgimento nel paese estero.
Il grafico in figura 8, che rappresenta la percentuale delle 9480
imprese oggetto di indagine statistica da par te della Commissione
Europea, conferma che le imprese di minori dimensione fanno
ricorso soprattutto a forme di espansione estera che implicano un
minor impegno di risorse.
3.4.1 Esportazioni
La maggior parte delle PMI inizia il percorso di espansione estera
attraverso le esportazioni; per buona parte delle piccole imprese le
esportazioni costituiscono l’unica strategia di
internazionalizzazione.
La modalità di espansione estera a cui le imprese medie e piccole
ricorrono maggiormente risulta essere l’export, proprio perché
richiede un esborso relativamente modesto di capitale, un minor
impiego di risorse, maggior semplicità strategica e organizzativa,
implicano un minore rischio e generano un ri torno economico più
velocemente (Marafioti, 2003; Spigarelli , 2001; C aroli , Lipparini,
55
2002b). Investimenti e cambiamenti di struttura e governo
risulteranno necessari eventualmente solo nel medio -lungo termine,
ma con gradualità (Caroli, Lipparini, 2002b).
Numerosi sono gli studi a sostegno dell’irri levanza della
dimensione aziendale nella propensione all’export (Varaldo, 1992;
Caroli, Lipparini, 2002a): tuttavia, esiste una proporzionalità
diretta tra dimensione e probabili tà che l’impresa abbia al proprio
interno la dotazione di risorse tangibili ed intangibili e di
competenze necessarie per ottenere un vantaggio competitivo sui
mercati esteri; inoltre, la dimensione risulta essere correlata con il
consolidamento dell’impresa sul mercato estero e con l’utilizzo di
modalità a più alto coinvolgimento (Caroli, Lipparini, 2002b).
Facendo riferimento alle imprese esportatrici italiane, secondo i
dati relativi al 2010, si può affermare che, nonostante i vincoli e le
difficoltà, le PMI dimostrano, relativamente alle grandi imprese,
un orientamento notevole ai mercati esteri ; l’an alisi della tabella
conferma il paradosso italiano: “L’Italia ha grandi aziende chiuse
nei confini nazionali e piccole aziende mondializzate” (Ohmae K.
in Corriere Economia del 28 ottobre 2002); infatti , solo il 54,9 %
delle grandi imprese esporta. Vi è un a grande eterogeneità tra le
imprese esportatrici: da un lato, numerosi esportatori di dimensioni
ridotte, dall’altro imprese leader di grandi dimensioni che
detengono una quota parte notevole delle esportazioni complessive.
Dalla tabella 6 emerge che le imprese esportatrici nel 2010 erano
189.006, cioè il 4,2% delle imprese attive, e impiegavano il 27,3%
degli addetti. L’82% delle imprese esportatrici impiegava meno di
venti addetti, ma contava solo il 13,8% delle esportazioni. La
propensione a esportare risulta proporzionale alle dimensioni
aziendali.
56
Tabella 6 Imprese esportatrici (a), addetti e relative esportazioni per classe di addetti –
Anno 2010 (valore delle esportazioni in milioni di euro e composizioni percentuali)
Fonte: Istat, 2012
Secondo il Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano ,
in Italia, le imprese che esportano sono quelle che superano la self-
selection e quindi tendono a migliorare la loro produttività e ad
aumentare le dimensioni, in seguito al processo di apprendimento
grazie all’esportazione ( learning-by-exporting). Le imprese
esportatrici rispetto alle non esportatrici, secondo analisi
econometriche, risultano più produttive, con una maggior
dotazione di capitale e con una capacità innova tiva superiore.
Tuttavia, occorre indagare se il vantaggio competitivo è da
ricondursi ad una condizione ex -ante (self-selection) o ex-post
(learning-by-exporting). Tipicamente, gli economisti credono che
sia il primo fenomeno quello che consente alle impr ese di ottenere
un rendimento superiore alla media. L’auto -selezione è una
condizione iniziale che permette di superare le barriere all’entrata
nei nuovi mercati esteri: queste si riferiscono soprattutto ai costi
fissi , quali trasporto, distribuzione, mark eting, personale
qualificato (Banca d’Italia, 2009) .
57
L’esportazione indiretta risulta la modalità di
internazionalizzazione più ricorrente tra le imprese di dimensioni
inferiori per il limitato impiego di risorse e competenze ; inoltre,
ricorrere agli intermediari consente all’impresa di sopperire alla
carenza d’informazioni, di relazioni e di strutture nel territorio
estero (Caroli, Lipparini, 2002b) . Le esportazioni indirette ,
tuttavia, possono tramutarsi in una modalità ad alto rischio, poiché
viene a mancare il contatto diretto con il cliente che consente di
analizzarne i bisogni e prevederli: il mancato interesse nei
confronti del collocamento dei prodotti nelle piccole imprese è
causa di forte instabilità delle vendite (Spigarelli, 2001). Come
forma di esportazione indiretta, le PMI sono solite ricorrere anche
a consorzi di export, ovvero collaborazioni non societarie tra
imprese, senza scopo di lucro (Spigarelli , 2001).
Per le PMI i l tipo di domanda risulta una discriminante, in quanto
imprese a contatto diretto con i l cliente finale esportano con più
facili tà rispetto alle contoterziste (Caroli , Lipparini, 2002b).
Non mancano ostacoli che limitano e a volte impediscono l’ export .
Le imprese di dimensioni inferiori incontrano maggiori difficoltà
nel reperire informazioni adeguate riguardanti i mercati esteri; la
carenza di informazioni determina l’aumentare del rischio
percepito e rende più difficile relazionarsi con le amministrazioni e
assolvere gli adempimenti normativi sui mercati esteri. Altri
ostacoli per le PMI sono le difficoltà nella gestione delle
problematiche relative alle esportazioni, la difficoltà nel reperire e
nel gestire il credito e la minore capacità di cogliere opportunità e
di beneficiare della propria presenza sui mercati esteri. Ulte riori
vincoli vengono incontrati da quelle imprese che si affacciano sui
mercati esteri grazie alla spinta imitativa, la quale limita
ulteriormente l’operato delle imprese che rimangono nella
condizione di follower , senza definire un chiaro progetto aziend ale
(Caroli, Lipparini , 2002b) . Barriere tariffarie e costi di trasporto
elevati pongono l’impresa nella condizione di valutare
l’opportunità di al tre modalità di espansione.
58
3.4.2 Forme di cooperazione
Attraverso la cooperazione, le PMI possono superare i vincoli
derivanti da risorse, competenze, investimenti necessari a
competere a livello globale avendo stipulato “contratti di
relazioni”, che consentono anche alle imprese più piccole di
sfruttare conoscenze, canali di distribuzione e competenze di
marketing proprie della grande impresa (Quattrociocchi , 2003). Le
forme di coalizione permettono alle imprese di minori dimensioni
di condividere i vantaggi competit ivi, sfruttare le eventuali
sinergie, dividere i rischi e gli investimenti (Spigarelli, 2003).
Il ricorso al licensing consente alle PMI dotate di risorse
finanziarie l imitate di espandersi all’estero, poiché l’impresa
licenziante non deve farsi carico dei costi e dei rischi connessi al
collocamento commerciale all’estero.
Per via dei rischi e dei costi connessi , l’espansione estera
attraverso la costruzione di una rete di franchising è raramente
utilizzata dalle PMI.
3.4.3 Investimenti diretti esteri
Secondo Penrose, la disponibili tà di competenze manageriali e la
loro efficace implementazione rappresentano un fattore
determinante per la crescita dell’impresa. Altri vincoli possono
risiedere nelle competenze organizzative, nella capacità di
coordinamento, nella disponibilità di risorse finanziarie. Queste
ultime, tuttavia, hanno rilevanza secondaria rispetto all e
competenze manageriali (Buckley, 1999).
Secondo diverse indagini, in Italia si attribuisce importanza ad
entrambe le motivazioni, tuttavia la differenza risiede nella
tipologia di imprese che predilige una modalità rispetto all’altra: le
imprese di minor i dimensioni attuano principalmente IDE
verticale, mentre quelle di maggiori dimensioni IDE orizzontali
(Banca d’Italia, 2009).
59
Buckley (1999) teorizza il ricorso agli IDE da parte delle PMI
tramite l’ipotesi dei “guadagni del giocatore d’azzardo”, secondo
cui l’impresa che decide di internazionalizzarsi è come un
giocatore d’azzardo che inizia il gioco con un investimento meno
impegnativo e reinveste le sue “vincite” nel gioco “ until a real
‘killing’ was made”. Le imprese inizialmente investono un
ammontare non considerevole a causa degli alti costi di
informazione e coordinamento e dunque dell’incertezza che
l’investimento nei mercati esteri risult i relativamente redditizio;
una volta che questo si rivela profit tevole, l’incertezza si riduce e i
costi di ricerca tendono a zero.
Aharoni considera gli IDE delle PMI come un processo
manageriale, suddivisibile in cinque stadi (Buckley 1999):
1. È necessario un forte impulso iniziale che avvii il non
investitore ad intraprendere il percorso del l ’IDE. Secondo
l’autore, non è sufficiente lo stimolo che proviene dalla
possibilità di alti rendimenti.
2. La seconda fase riguarda la ricerca di informazioni
soprattutto inerenti al livello di rischio.
3. Aver raccolto le informazioni necessarie è sufficiente per
sviluppare l’impegno; nella terza fase, infatti , si decide di
investire.
4. La quarta fase riguarda le negoziazioni.
5. Intrapreso il percorso dell’IDE, nel lungo periodo l’impresa
si troverà nella condizione di dover compiere dei
cambiamenti soprattutto a livello strutturale ed
organizzativo.
Un terzo approccio sulla decisione di effettuare investimenti diretti
esteri da parte delle piccole imprese è teorizzato da Buckley.
L’impresa procede per stadi:
1. Parte dalla definizione di successo tramite un “indice di
success”, come misura che sintetizza la redditività, la
crescita, la percezione manageriale del successo e la
60
valutazione degli investimenti in relazione alla completa
internazionalizzazione.
2. Ogni investimento viene valutato su una scala di 5 punti .
3. Si procede, poi, alla valu tazione di ogni decisione secondaria
in base al risultato in termini di successo degli investimenti.
4. Nell’ultima fase vengono testati i risultati dell’indice di
successo, considerando che alcuni fattori esterni potrebbero
aver influenzato i risultat i.
Figura 9 Quota parte del numero di imprese estere partecipate da imprese italiane per
classe dimensionale
Fonte: elaborazione su dati ICE
Fino agli anni Ottanta, in Ital ia l’internazionalizzazione produttiva
ha riguardato principalmente le imprese di grandi dimensioni,
mentre negli anni Novanta anche tra le piccole e medie imprese si
è diffuso i l ricorso a questa modalità. Osservando i dati relativi
alle imprese estere partecipate da imprese italiane , riportati in
figura 9, cresce la quota parte relativa al numero di imprese di
piccolissime dimensioni (fino a 9 addetti), a ridursi è, invece,
quella di medie e grandi imprese.
La dimensione aziendale risulta, tuttavia, una discriminante:
indagini empiriche dimostrano, infatti, che passa ndo da
internazionalizzazioni più soft, come le esportazioni, a
61
internazionalizzazioni che comportano un più intensivo impiego di
risorse, come gli investimenti diretti esteri , la dimensione
aziendale assume ri levanza; non solo le imprese di più grandi
dimensioni sono più grandi, ma sono anche più produttive,
investono maggiormente in innovazione e R&S, hanno personale
più qualificato (Banca d’Italia, 2009). Secondo l’Istat (2013), tra il
2007 e il 2010 le imprese che hanno fatto ricorso a modalità di
internazionalizzazione che implicano un maggior impiego di
risorse hanno registrato performance superiori, soprattutto in
occupazione, produttività e valore aggiunto anche a l ivello
settoriale.
Tabella 7 Aree di destinazione delle attività decentrate per classi dimensionali d’impresa
(valori in percentuale)
Fonte: Inchiesta ISAE 2007 ad hoc sull’internazionalizzazione (Lamieri, Lanza, 2008)
Dalla suddivisione delle aree di destinazione del flusso degli
investimenti esteri i talian i per classi dimensionali delle imprese
riportata in tabella 7 si deduce che le dimensioni aziendali sono
correlate anche con la distanza tra il paese di origine e quello in
cui si investe: imprese di dimensioni maggiori tendono a investire
in paese logist icamente, politicamente e geograficamente più
lontani, che comportano, dunque, ri schi maggiori. Si può, quindi,
confermare che con la crescente integrazione delle economie e
quindi riduzione delle barriere, dei costi di trasporto e gli sviluppi
tecnologici vi sono maggiori opportunità per le imprese di minore
62
dimensione di ricorrere a forme di internazionalizzazione più
impegnative (Lamieri, Lanza, 2008).
3.5 Strategie di internazionalizzazione
La letteratura sull’internazionalizzazione delle PMI, seppur scars a,
si è focalizzata principalmente sul percorso che seguono, sulle
modalità, trascurando l’analisi delle scelte strategiche delle PMI
sui mercati esteri: dalla possibili tà di ottenere un vantaggio
competitivo alla costituzione di una strategia, alla decisi one
riguardante il marketing mix se adattare o standardizzare l’offerta
(Hagen, Palamara, Zucchella , 2008).
Nel caso delle PMI occorre scartare la possibilità di raggiungere il
vantaggio competitivo tramite leadership di costo a causa della
difficoltà di raggiungere economie di scala date le limitate
dimensioni aziendali .
Per quanto riguarda la scelta strategica tra differenziazione vs
concentrazione i risultat i sono inconcludenti (Hagen, Palamara,
Zucchella, 2008): analisi empiriche mostrano risultati d iscordanti
dell’effetto delle esportazioni di prodotti differenziati sulla
performance aziendale . La strategia di differenziazione mostra un
forte orientamento al cliente, ponendo attenzione su innovazione e
marketing.
Frequentemente, le imprese di piccole dimensioni adottano una
strategia di nicchia; questa consente di ottenere un vantaggio
competitivo sostenibile.
3.6 Processo di internazionalizzazione
L’espansione in mercati esteri porta con sé l’acquisizione di nuove
conoscenze, lo sviluppo di nuove relazi oni, l’affermazione della
propria reputazione e innovazioni strategiche. Tutto ciò costituisce
la base per il consolidamento della presenza sul mercato e per la
valutazione di una ulteriore estensione. Si può, dunque, affermare
che il processo non è il risultato di una pianificazione ex-ante ,
bensì di acquisizione di competenze che consentono all’impresa d i
63
rinnovarsi progressivamente. La generazione del nuovo impulso
evolutivo, tuttavia, è funzione della capacità di adattamento delle
routine aziendali al nuovo contesto e alle attese dei soggetti interni
ed esterni coinvolti e della risposta del mercato. Risulta pertanto
difficile poter modellizzare il processo; a tal proposito Grandinetti
e Rullani (1992 , p.3) affermano che “l’internazionalizzazione delle
piccole e medie imprese è un fatto, ma non ancora una teoria”.
Il processo di internazionalizzazione di una PMI è il risultato
dell’evolvere di impulsi e routine. L’impulso iniziale, che modifica
lo status quo dell’impresa, proviene dall’imprenditore - innovatore
come risposta a stimoli esterni. Si innescano così dei meccanismi
che inducono cambiamenti strutturali, apprendimento e
cambiamenti nella strategia. Durante la prima fase di impulso
l’impresa compie i primi passi nei mercati esteri . Alla prima fase
segue quella di stabilizzazione in cui si consolidano le routine e
con queste la presenza all’estero . Nuove competenze e
modificazioni nelle routine generano un nuovo impulso. Il
consolidamento all’estero rafforza la reputazione aziendale e la
fiducia dei consumatori e dunque l’insieme di relazioni aumenta
quantitativamente e qualitativamente; l’impresa si trova così nella
condizione di poter beneficiare di una mole notevole di
informazioni e conoscenze in grado di stimolare ulteriormente
l’apprendimento . Da qui segue un alternarsi di impulsi e routine
che consente lo sviluppo incrementale dell’espansione estera. Il
ruolo dell’imprenditore è fondamentale, non solo poiché con la sua
azione innovatrice è in grado di generare l’impulso, ma anche
poiché è egli a generare il fine tuning tra impulso e fattori interni
ed esterni che determina lo sviluppo di nuove routine efficaci e
coerenti con le motivazioni dell’internazionalizzazione (Caroli,
2002).
Per quanto riguarda le modali tà di at tuazione della strategia di
espansione oltre confine, Caroli (2007) suggerisce la distinzione
tra: internazionalizzazione congenita (born global o international
new venture), trainata e programmata; secondo la classificazione,
64
le discriminanti sono il momento d’avvio e la motivazione della
strategia di espansione estera. Occorre, tuttavia, considerare che
non risulta una distinzione esaustiva, in quanto le modalità
possono coesistere all’interno della stessa impresa (Caroli , 2007).
Le born global sono imprese di dimensioni medie e piccole che
mostrano un approccio diverso rispetto a quello identificato dallo
sviluppo per fasi; solo durante gli anni Ottanta studi empirici
hanno confermato l’emergere di un cambiamento nell’approccio
all’esportazione rispetto a quanto sosteneva la lettera tura
tradizionale, ovvero l’approccio comportamentista ( Rasmussen,
Madsen, 2002). Le imprese born global sin dalla nascita sono
contraddistinte da una considerevole espansione estera attraverso
modalità ad alto coinvolgimento oppure attraverso un’intensa
attività esportativa (Monti , 2011) . I fattori alla base dell’emergere
della nuova forma di internazionalizzazione sono la concorrenza
sempre più globale, i nuovi sviluppi nel campo dei trasporti e delle
tecnologie di comunicazione, il numero crescente di pe rsone con
esperienze internazionali (Rasmussen, Madsen, 2002), la riduzione
del ciclo di vita dei prodotti, lo sviluppo di nuove capacità
imprenditoriali fondamentali e strategiche per l’espansione
all’estero (Monti, 2011).
Buona parte delle international new venture serve nicchie di
mercato in ambito high tech ; questi settori, infatti , offrendo output
innovativi e specializzati, si trovano nella condizione di dover
espandere il mercato oltre i confini nazionali. Altre imprese born
global che non operano nei settori high tech rivolgono, comunque,
la loro offerta a nicchie di mercato (Monti, 2011) .
Secondo diversi autori (Rasmussen, Madsen, 2002), nel caso delle
international new venture non è l’apprendimento a svolgere un
ruolo fondamentale nel processo di internazionalizzazione, bensì il
network di relazioni.
L’internazionalizzazione trainata consiste nell’avvia re il processo
di espansione all’estero in seguito ad una spinta esercitata da
soggetti collegati verticalmente (clienti, fornitori) o
65
orizzontalmente (concorrenti) all’impresa: fa, dunque, riferimento
sia a rapporti collaborativi che competitivi. Nel primo caso
l’impresa si trova nella condizione di instaurare un rapporto
continuativo con i clienti o avvicinarsi fisicamente ai fornitori;
mentre nel secondo caso, è l’intensificarsi della concorrenza nel
mercato domestico che funge da spinta a cercare nuovi mercati in
cui competere. Come nel caso delle born global , il network di
relazioni svolge un ruolo fondamentale nella decisione e nel
processo di espansione internazionale (Caroli, 2007).
L’internazionalizzazione progettata implica una precisa volontà
dell’imprenditore di sfruttare un’opportunità di business sui
mercati esteri, di conseguire un vantaggio competitivo o di
sfruttare oltre confine quello esistente; è, dunque, il risultato di
una strategia deliberata e successivamente implementata (Caroli,
2007).
Un altro approccio utile per descrivere il processo di espansione
internazionale consiste nel verificare l’applicabilità alle imprese di
dimensioni inferiori delle tre teorie principali
dell’internazionalizzazione: teoria eclett ica, modello di sviluppo
per fasi, prospettiva reticolare. La verifica è necessaria perché le
imprese di minori dimensioni non sono la versione più piccola
delle grandi imprese, poiché hanno un atteggiamento diverso
nell’analisi e nella relazione con l’ambiente (Caroli , Lipparini,
2002b).
La teoria eclettica risulta verificata anche per le PMI, poiché
diversi studi empirici hanno confermato l’importanza degli
obiettivi di ricerca di nuovi mercati, ricerca di input significativi
per il processo produttivo e ricerca di condizioni favorevoli in cui
realizzare una o alcune fasi della catena del valore . L’obiettivo
principale risulta essere quello commerciale, i cui fattori sono s ia
interni che esterni . Tra i fat tori interni vi è la ricerca in nuovi
paesi del vantaggio competitivo ottenuto in una nicchia di mercato.
I fattori esterni , invece, includono la domanda dall’estero non
sollecitata e l’internazionalizzazione trainata da gr andi imprese
66
clienti; per le piccole imprese la stagnazione della domanda nel
mercato domestico non risulta essere una spinta all’espansione
verso nuove aree geografiche (Caroli , Lipparini , 2002b).
Anche la teoria dello sviluppo per stadi trova applicazion e
nell’espansione all’estero delle PMI, in quanto risulta un processo
che segue un percorso incrementale in cui l’apprendim ento è il
motore dello sviluppo. Alcuni autori non sono d’accordo con
questa visione in quanto sostengono che il processo non prosegu a
incrementandosi, ma per grandi salt i (Caroli, Lipparini , 2002b).
Secondo la prospettiva reticolare il motore dell’espansione in
mercati esteri sono le relazioni tra PMI e altri soggetti, i quali
possono essere grandi imprese internazionalizzate, pubblica
amministrazione o, se inserite in un cluster , altri operatori
distrettuali . Le relazioni consentono all’impresa di incide re su
conoscenza, in particolare su quella relativa al mercato estero,
sulle risorse e competenze soprattutto intangibili , sull’esperi enza e
sul “tessuto imprenditoriale” (Caroli , Lipparini, 2002b). Secondo
alcuni autori, la prospettiva reticolare costituisce l’unica strada per
competere in ambito internazionale, poiché consente di superare i
limiti dimensionali e favorisce il meccanismo di apprendimento
(Cedrola, Battaglia, 2011).
Alcuni autori sostengono che l’internazionalizzazione segue un
percorso riassumibile dalla congiunzione tra i l modello di sviluppo
per fasi e l’approccio reticolare: l’espansione si incrementa
instaurando e svi luppando le relazioni. (Caroli, Lipparini, 2002b).
67
4 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI
4.1 Introduzione
La globalizzazione coinvolge tutte le dimensioni dell’impresa,
ampliando le possibili destinazioni dell’offerta e le reti di
relazioni con altre imprese e operatori presenti nel sistema locale e
globale (Pepe, Musso, 2001); si rende così necessaria la proiezione
delle reti locali nel contesto globale (Sanguigni, Bilotta, 2011).
Locale e globale diventano due componenti fondamentali per
l’espansione internazionale delle imprese, le quali si posizionano
nei mercati esteri, sfruttando le conoscenze e le competenze
acquisite nel contesto territoriale locale (Famigliett i, 2000).
Soprattutto per le imprese minori, l o studio
dell’internazionalizzazione è inevitab ilmente congiunto alla
variabile di appartenenza ad un contesto distrettuale e di
inserimento in una particolare catena distributiva: è il
rafforzamento della rete di relazione che consente il pieno
sfruttamento delle potenzialità dell’impresa (Pepe, Musso , 2001).
Le PMI riescono, infatti , a superare il vincolo dimensionale
risultando flessibili, efficienti e creative grazie alle reti, che
rappresentano, inoltre, il modo più spontaneo di ottenere e
mantenere un vantaggio competit ivo sui mercati sia locali c he
globali (Sanguigni, Bilotta, 2011).
Obiettivo del presente capitolo è analizzare
l’internazionalizzazione dei distretti che nella sua forma att iva e
passiva risulta fortemente dipendente dalla rete di relazioni tra
agenti economici, sia in qualità di imprese che di individui.
Nel primo paragrafo viene affrontata la network analysis , una delle
teorie fondamentali sull’internazionalizzazione, la quale trova
profonda applicazione nei distretti proprio per le loro peculiarità.
Si passano, dunque, in rassegna le caratterist iche dei contesti
distrettuali con una breve digressione sull’evoluzione del concetto
di distretto industriale.
68
Nel paragrafo successivo si analizza come e perché il radicamento
al territorio influenza l’espansione internazionale e se ne
analizzano i limiti .
L’internazionalizzazione si dist ingue in attiva e passiva, a seconda
che le imprese distrettuali instaurino rapporti oltre confine o che
imprese multinazionali investano nel distretto.
Si indagano, così , le modalità di internazionalizzaz ione delle
imprese distrettuali con riferimento a studi relativi al contesto
italiano, confrontando imprese distrettuali e non.
Dell’internazionalizzazione passiva si studiano le motivazioni, le
modalità e gli effetti .
4.2 Network analysis
Per network si intende un sistema di relazioni di lungo termine tra
due o più attori economici, ossia tra clienti , fornitori, distributori,
concorrenti, enti pubblici (Sanguigni, Bilotta, 2011; Monti, 2011).
Il network è importante per condividere la conoscenza sviluppata
internamente, per accedere alla conoscenza di altre organizzazioni
e per la creazione di fiducia (Sanguigni, Bilotta, 2011).
La prospettiva reticolare considera i mercati come reti di relazioni
tra imprese; lo sviluppo di tali relazioni consente l’accesso all a
conoscenza e all’informazione necessarie per operare (Sanguigni,
Bilotta, 2011). Le imprese acquisiscono dai partner le risorse e le
conoscenze, che altrimenti avrebbero dovuto sviluppare
internamente (Monti, 2011). Reperire all’interno della rete le
conoscenze è importante, poiché produrle internamente sarebbe
dispendioso e rischioso; le imprese possono, così, specializzarsi in
un sapere specifico che valorizzeranno poi su scala internazionale
(Sanguigni, Bilotta, 2011).
La creazione di network svolge un ruolo importante
nell’attivazione di sinergie, nello sviluppo di nuovi prodotti e nella
fruizione di economie d’esperienza (Sanguigni, Bilotta, 2011).
La condivisione di conoscenza è in grado di divenire st imolo a
ulteriore innovazione e sviluppo, gener ando effetti positivi sul
69
valore creato e sul rafforzamento e continuità delle relazioni
(Cedrola, Battaglia, 2011).
I primi autori che applicarono la network analysis
all’internazionalizzazione furono Johanson e Mattson, secondo i
quali vi è una forte dipendenza tra espansione estera e numero e
intensità delle relazioni: grazie alla fiducia ottenuta sul mercato
domestico, l’impresa può provare ad entrare in reti estere e,
successivamente, estenderle in altri paesi (Monti, 2011).
Il processo di internazionalizzazione dipende dal livello di
espansione estera della rete in cui l’impresa si colloca e da come
l’impresa stessa si posiziona all’interno del network . Maggiore
sarà il grado di internazionalizzazione e i l grado di coinvolgimento
nella rete, maggiore sarà la conoscenza sul mercato estero di cui
l’impresa potrà beneficiare (Monti, 2011) .
Quando l’internazionalizzazione assume i connotati di una
strategia collettiva, l’apprendimento avviene per interazione e su
più livelli : al learning by interacting nel l’ambiente domestico si
aggiunge l’apprendimento che deriva dalle relazioni con soggetti
provenienti da contesti diversi (Lipparini , 2002).
Lo sviluppo di relazioni fiduciarie e di collaborazione consente
anche e soprattutto alle imprese di minori dimensione di acquisire
conoscenze, risorse e competenze, ricorrendo a modell i diversi da
quelli proprietari e favorisce la competizione di successo sui
mercati mondiali (Cedrola, Battaglia, 2011).
La network analysis ha rivalutato i l ruolo del sistema locale ne i
processi di internazionalizzazione per il ruolo fondamentale che la
rete di relazioni riveste nell’ottenimento del vantaggio competitivo
e nella più efficace divisione del lavoro (Sammarra, 2003); la
strategia di internazionalizzazione, infatti, non può venire
concepita come endogena, autonoma rispetto al territorio, ma come
risultato della ricerca di più efficaci modalità di relazionarsi e di
cooperare con altri agenti e con l’ambiente (Famiglietti , 2000).
All’interno dell’approccio relazionale svolge u n ruolo importante
il distretto, luogo in cui generalmente le imprese indipendenti si
70
integrano in una rete di relazioni di cooperazione di lungo periodo .
Occorre comunque considerare che i l distretto non rappresenta né
una condizione necessaria né suffici ente allo sviluppo di network
di cooperazione, poiché non necessariamente l’operare nello stesso
territorio si traduce in comunanza gestionale , però può fungere da
acceleratore allo sviluppo di reti di relazioni grazie a maggiore
interazione sociale, cultura comune, più veloce e più efficiente
trasferimento di informazioni, conoscenze e competenze
(Ricciardelli, 2010).
Le ridotte dimensioni delle PMI vengono da molti considerate
come un limite allo sviluppo internazionale e all’innovazione di
prodotto e processo; questo vincolo, tuttavia, può essere superato
attraverso l’instaurazione di relazioni e collaborazioni, ossia
rapporti che caratterizzano le imprese localizzate nei distretti
industriali (Ricciardelli, 2010). La rete di relazioni della piccola
impresa consente l’accesso a risorse e competenze tangibili e
intangibili, che alternativamente non avrebbe potuto acquisire se
non con sforzi finanziari e manageriali notevoli ; grazie a quanto
acquisito, l’impresa ha la possibilità di elaborare ed implementar e
una strategia di successo sui mercati esteri (Cesaroni, 2005).
Secondo alcuni autori, le piccole e medie imprese distrettuali
organizzano addirittura l’attività oltre confine sul modello della
loro rete di relazioni locali (Corò, Volpe, 2006). Per la piccola
impresa hanno notevole importanza le relazioni con la gran de
impresa, poiché ne favoriscono l’espansione estera e hanno impatto
positivo su varie attività: ricerca e sviluppo, canali distributivi,
formazione delle risorse umane, tecnologie di produzio ne
(Famiglietti , 2000).
4.3 Distretti industriali
Molti autori hanno provato a definire il termine “distretto
industriale”: il primo è Marshall , che studiando i distretti
industriali inglesi , l i definisce come concentrazioni in un’unica
area geografica di tante piccole e medie imprese fortemente
71
specializzate nelle diverse fasi di un unico processo produttivo
(Becattini, 2002); le imprese beneficiano delle economie esterne,
ossia riduzioni di costo dovute a prossimità geografica,
specializzazione nella manodopera, infrastrutture logistiche, know-
how diffuso , “atmosfera industriale”: sono dei vantaggi
assimilabili alle economie di scala (Sammarra, 2003; Monti, 2011) .
Il distretto consente soprattutto alle piccole imprese di superare la
condizione di svantaggio r ispetto alle grandi in termini di
sfruttamento delle sinergie e delle economie di scala: “Sia le
grandi che le piccole aziende traggono dunque benefici […] [dalla
localizzazione dell’industria], ma questi benefici sono più
importanti per le piccole aziende , perché le liberano da molti degli
svantaggi nei quali dovrebbero operare altrimenti in concorrenza
con le grandi aziende” (Marshall A., Marshall M. P., 1975, p. 52,
in Becatt ini, 2002, p. 143). Il distretto marshalliano “non si può
ridurre alla proprietà della concentrazione territoriale
dell’industria in sé e per sé […] sviluppo «naturale» degli
automatismi del mercato, poiché salda in un blocco
concettualmente unitario i fenomeni economici e quelli socio -
culturali e prelude ad interventi pubblici confor mi” (Becattini,
2002, p. 152).
Il distretto è poi ridefinito da Becattini (2002), il quale ne
sottolinea il carattere di corrispondenza e di integrazione tra
relazioni economico-produttive e relazioni socio -culturali,
entrambe site e circoscritte: è caratt erizzato, infatti, da una
popolazione di famiglie e di imprese che interagiscono tra loro in
un’area geografica individuata; le imprese , specializzate in fasi
diverse del processo produttivo o in attività complementari , si
ripartiscono le fasi e si “radunano in squadre a composizione
variabile” che fanno capo solitamente ad un’impresa finale che si
interfaccia con il mercato esterno.
Negli anni Novanta, Porter fornisce una definizione di distretto
come cluster in cui assumono un ruolo rilevante le imprese c he ne
fanno parte, la produzione della conoscenza e del capitale sociale e
72
i rapporti internazionali (Sammarra, 2003). Porter (1998) sostiene
che i vantaggi derivanti dall’essere parte di un distretto, relativi
soprattutto a conoscenza, relazioni e motivazioni, consentono alle
imprese di avere una performance internazionale migliore. Mentre
per le economie di agglomerazione tradizionali l’importanza della
localizzazione è nella minimizzazione dei costi, per Porter (1998) i
vantaggi risiedono in informazion i, costi di transazione,
complementarietà e incentivi derivanti sia da investimenti pubblici
che privati.
Secondo Thompson, Strickland, Gamble (2009), a causa della
globalizzazione, in Italia si sono venuti a delineare nuovi distretti
più simili a cluster tecnologici: sono aree di sapere specialistico
diffuso, in cui vi è una forte propensione ad investire in ricerca e
sviluppo e una stretta collaborazione con Università e centri di
ricerca.
4.3.1 Caratteristiche
I distretti industrial i nel contesto i taliano rappresentano il motore
dello sviluppo economico e territoriale; grazie a questi piccole e
medie imprese superano il loro vincolo dimensionale, diventando
innovative e competitive (Famiglietti , 2000). Secondo alcuni autori
i distretti hanno sostenuto la crescita negli ult imi trenta anni del
Novecento, in cui la flessibilità e la capacità di innovazione di
processo delle imprese minori rappresentavano una fonte di
vantaggio competitivo e lo scarso sfruttamento delle economie di
scala non rappresentava uno svantaggio (Cutrini , Micucci,
Montanaro, 2013).
I distretti sono caratterizzati da un’area territoriale con alta
concentrazione di imprese medie e piccole fortemente radicate
nell’ambiente sociale, economico e culturale, ad elevata
specializzazione produttiva, con cicli produttivi interdipendenti
(Ricciardelli, 2010).
73
Essi non sono solo reti di relazioni tra imprese, ma anche network
sociali che connettono gli agenti economici in quanto individui
(Mariotti, 2004).
Secondo Becatt ini sono quattro le caratterist iche che
contraddistinguono un distretto: sistemi di valori comuni di etica
del lavoro, gran varietà di forme di lavoro, imprenditori che
considerano l’impresa come progetto di vita e la possibile
scomposizione del processo produttivo in fasi spaziali e t emporali
(Giannetti, Vasta, 2005).
Ogni distretto presenta peculiarità proprie che lo differenziano da
aree industriali e da altri distretti , in relazione a grado di
specializzazione tecnologica, concentrazione delle imprese, qualità
delle infrastrutture; tuttavia, connotati che accomunano i vari
distrett i sono radicamento al conteso locale e interdipendenza tra
imprese (Ricciardelli , 2010).
I punti di forza dei distrett i sono riconducibili alle caratteristiche
tipiche della piccola impresa: capacità di far e sistema,
specializzazione produttiva, flessibilità, preferenza al ricorso a
sub-fornitura piuttosto che sviluppo interno, circolazione rapida di
informazioni e dunque rapida diffusione di conoscenze e sviluppo
di competenze, al ta qualificazione della man odopera grazie al
processo di learning-by-doing (Famiglietti, 2000).
La specializzazione produttiva, la distribuzione della capacità
produttiva tra le diverse unità e la prossimità territoriale e
produttiva comportano vari benefici.
Le attività produttive sono parcellizzate in fasi distinte e altamente
specializzate (Sammarra, 2003). La specializzazione produttiva
consente il raggiungimento di economie di scala e di
apprendimento e dunque la riduzione dei costi unitari e l’ aumento
della produttività (Ricciardelli , 2010).
La distribuzione della capacità produttiva tra le diverse unità
comporta flessibilità qualitativa e quantitativa la quale consente
all’impresa di modificare rapidamente i volumi e la qualità della
74
produzione e di ricercare capacità produtti ve adeguate nel distretto
(Pepe, Musso, 2001; Ricciardelli , 2010) .
La prossimità territoriale e produttiva permette una più rapida
creazione e più efficace trasmissione della conoscenza
(Ricciardelli, 2010). Il distretto rappresenta un circuito
informativo naturale che è in grado di accrescere le competenze di
tutte le imprese, alimentandosi grazie alle esperienze degli
operatori economici che ne fanno parte (Cesaroni, 2005) e, inoltre,
di costruire la reputazione ; facendo circolare rapidamente
informazioni consente l’individuazione di interlocutori
commerciali e di fornitori con le caratteristiche ricercate, di
mercati di sbocco, di servizi e il miglioramento di prodotti e
processi; tramite le ist ituzioni, inoltre, fornisce supporti
informatici, organizzazione e partecipazioni a fieri internazionali,
attività di formazione specifiche (Pepe, Musso, 2001). La
circolazione rapida delle informazioni e la corrisp ondenza tra
ambiente economico- produttivo e socio- culturale consente alle
imprese un più efficace monitoraggio e, dunque, di affrontare con
costi inferiori i problemi relativi a incertezza e opportunismo
(Sammarra, 2003).
Tra imprese distrettuali la reputazione non si costruisce solo
tramite la rapida circolazione di informazioni, ma anche grazie alla
prossimità territoriale, ai rapporti diretti sia economici che
personali, alla possibilità di scambio ripetuto.
Una delle caratteristiche fondamentali del distretto è la
compresenza di competizione e cooperazione, le quali sono
entrambe conseguenza della parcell izzazione verticale e
orizzontale del lavoro tra le imprese: la cooperazione nasce dal
coordinamento tra operatori economici che svolgono att ività
complementari, mentre la competizione è tra imprese che svolgono
attività simili (Sammarra, 2003).
Un’altra peculiarità è la spiccata propensione all’imprenditorialità,
che, combinata alla presenza di casi di successo, favorisce la
creazione di start-up e lo sviluppo di spin-off , infatti i distretti
75
sono caratterizzati da barriere più basse alla creazione di nuovi
business (Porter, 1998, Sammarra, 1993) .
Ogni distretto, tuttavia, mostra performance differenti , non a causa
dei settori di appartenenza; performance migliori si riscontrano
laddove sono maggiori gli investimenti in innovazione, la
governante è efficiente, vi sono imprese leader che coordinano
tante filiere, le imprese subfornitrici hanno un elevato grado di
autonomia e si sviluppano sinergie con Università e centri di
ricerca (Ricciardelli, 2010).
4.4 Distretti industriali e internazionalizzazione
I distretti svolgono il ruolo di promotore e mediatore di valori e
vantaggi competitivi locali a livello internazionale (Pepe, Musso,
2001); hanno, infatti, consentito l’apertura internazionale
dell’Italia e la sua affermazione nel commercio estero (Corò,
Grandinetti, 1999).
Lo studio dell’espansione internazionale deve essere accompagnato
dalla comprensione del valore del territorio per le imprese
internazionalizzate, non solo e non necessariamente perché in quel
luogo si svolge il processo di produzione, ma p erché ivi si attinge
a conoscenze, valori , risorse (Sammarra, 2003).
Il distretto viene considerato un fautore dell’internazional izzazione
per via di alcune sue caratteristiche: legame che imprese
soprattutto di dimensioni inferiori instaurano con il terr itorio,
cooperazione tra attori che operano in diversi livelli del sistema
del valore, diffusione delle conoscenze e accesso a modelli di
comportamento di imprese che hanno già avviato il processo di
espansione all’estero, apprendimento per interazione, pr ossimità a
infrastrutture e risorse in grado di generare la crescita (Lipparini,
2002).
La globalizzazione dei mercati, lo sviluppo di nuove tecnologie e
la competizione internazionale tra imprese contribuiscono a
ridisegnare l’assetto dei distretti, poiché per molte imprese,
soprattutto quelle di dimensioni superiori, risulta più conveniente
76
esternalizzare fasi della produzione (Thompson, Strickland,
Gamble, 2009). La maggiore mobilità delle persone, delle
informazioni, dei capitali e delle merci riducon o il vantaggio
competitivo derivante dalla prossimità fisica (Distretti Italiani,
Unicredit, 2011). I distrett i hanno dovuto riposizionarsi per
recuperare produttività, al fine di rispondere all’aumento del costo
del lavoro e all’ingresso sul mercato globa le delle economie
emergenti; la prontezza di reazione e la flessibilità organizzativa e
strategica tipiche dei distretti hanno consentito un’efficace risposta
alla nuova congiuntura. Per rispondere all’aumento del costo del
lavoro, le imprese hanno instaurato nuovi rapporti cooperativi e
rafforzato quelli correnti; per quanto riguarda l’ingresso di
economie emergenti , i distretti hanno risposto puntando alla
differenziazione, cioè intervenendo su non price factors
(Famiglietti , 2000).
Secondo alcuni autori , solamente la formazione, lo sviluppo e la
specializzazione del know-how distrettuale permettono alle
imprese di rispondere all’estensione globale della catena del valore
a monte e a valle e di beneficiare dell’effetto distretto (MIT,
2003). È più efficace ricorrere al distretto laddove si richiedono
competenze più complesse e specialistiche, quali condivisione di
rischi e di idee, progettazione congiunta, poiché il locale
garantisce rapporti intensi e duraturi tra gruppi fortemente
integrati , mentre è più conveniente ricorrere alla rete globale per
funzioni caratterizzate da minor complessità, come l’acquisto di
materie prime o prodotti intermedi (Distretti Italiani, Unicredit,
2011).
Un’indagine del Sole 24 Ore (5 gennaio 2013) conferma che i
distrett i italiani che sono riusciti a resistere alla globalizzazione e
alla recente crisi sono quelli innovativi e quelli che si sono aperti
all’estero.
77
4.4.1 Limiti dei distretti
Il tessuto industriale italiano, costituito da distretti e caratterizzato
da produzione concentrata terri torialmente e catena del valore
frammentata tra le varie imprese distrettuali , secondo alcuni autori ,
è la causa della forte propensione alle esportazioni a discapito di
investimenti dirett i esteri , diversamente da quanto accade in altri
paesi quali Germania, Francia, USA (Genna, 2007).
Pur considerando l’importanza dei distretti indu striali quali
promotori di conoscenze specialistiche ben radicate nella cultura
locale, risultano, tuttavia, inadeguati nel trasmettere alle imprese
distrettuali conoscenze e competenze relative a innovazione,
marketing, valorizzazione di risorse intangibili . Occorre, dunque,
denunciare la presenza di l imiti a livello culturale, strategico e
organizzativo (Cedrola, Battaglia, 2011). Alcuni studiosi
ritengono, infatti , che il distretto sia un freno e una minaccia per
l’internazionalizzazione, l’innovazione, le relazione e il confronto
con soggetti al di fuori dei confini distrettuali (Lipparini, 2002).
Secondo alcuni autori, i distretti e le imprese di minori dimens ioni
stanno perdendo competitività e quote di mercato sul commercio
internazionale a causa di fattori esogeni, quali l’ingresso di
economie emergenti , nuove tecnologie, e di fattori endogeni, ossia
debole propensione all’innovazione e all’investimento, cla sse
imprenditoriale di età maggiore, difficoltà nel passaggio
generazionale (Genna, 2007).
Il modello distrettuale non è pronto a cogliere la sfida
dell’internazionalizzazione, inoltre, a causa dei limiti organizzativi
e strategici propri delle singole imp rese e a causa della scarsità di
interventi pubblici e di strumenti a promozione del territorio.
Un limite importante all’internazionalizzazione è la non sufficiente
collaborazione tra imprese soprattutto medie e piccole a l ivello
produttivo e, in particolar modo, a livello organizzativo;
l’inasprimento della competizione riduce ulteriormente il ricorso a
collaborazioni (Famiglietti, 2000).
78
Secondo alcuni autori negli anni recenti il vantaggio di
performance derivante dall’appartenenza delle imprese al di stretto
si è ridotto notevolmente: la performance è spiegata principalmente
dalle caratteristiche interne all’azienda, piuttosto che dall’essere
parte di un distretto; ciò non significa che è venuto meno il
contributo dell’effetto distretto, ma piuttosto c he è oggetto di una
“rimodulazione”: si sta assistendo all’evoluzione da “distretto del
processo produttivo” a “distretto del prodotto” (Cutrini, Micucci,
Montanaro, 2013).
4.5 Internazionalizzazione attiva e passiva
Corò e Grandinetti (1999) hanno individ uato sei tipologie di attori
che avviano i l processo di internazionalizzazione:
- Imprese leader nel distretto che proiettano a livello
internazionale la loro rete di relazioni ;
- Gruppi multinazionali che investono nel distretto ;
- PMI che decidono di intraprendere strategie di nicchia in
mercati internazionali o che sviluppano una cooperazione con
altre imprese per affrontare congiuntamente le sfide, i rischi e i
costi connessi all’ingresso in mercati esteri ;
- PMI operanti in stadi intermedi del processo di prod uzione che
decidono di eseguire subfornitura internazionale ;
- PMI operanti in settori complementari , di supporto o comunque
correlati all’attività principale del distretto, che decidono di
internazionalizzarsi ;
- Strutture operanti nei distretti che offrono servizi in attività,
quali marketing, qualità di prodotto, trasferimento tecnologico
e che interfacciano i circuiti della conoscenza locali con quelli
globali .
I distretti industriali possono essere coinvolti da
internazionalizzazione attiva e passiva. L’in ternazionalizzazione
attiva è il risultato dello sviluppo all’estero di imprese distrettuali ,
che può assumere tre dimensioni diverse: presidio di mercati di
sbocco e mercati di materie prime, ricorso a prestazioni
79
immateriali, delocalizzazione di subforni ture o attività della fi liera
(Mariotti, 2004; Genna, 2007). L’internazionalizzazione passiva è
il risultato di investimenti di imprese estere nei distretti, da cui
possono derivare vantaggi non solo per la multinazionale, ma
anche per il distretto e chi v i opera (Genna, 2007).
4.5.1 Internazionalizzazione attiva
Gli studiosi descrivono i distretti industriali italiani come un
sistema chiuso di imprese manifatturiere radicate nel contesto
locale, in grado di interagire con attori al di fuori del distretto solo
ai due estremi della catena del valore; tuttavia alla fine degli anni
Ottanta e negli anni Novanta anche dalle imprese distrettuali è
stata percepita l’importanza di estendere le loro relazioni al di
fuori dal contesto locale; la delocalizzazione ha evidenzi ato che i
distrett i sono abili non solo nel posizionamento dell’output
prodotto internamente in mercati internazionali , ma anche nella
riorganizzazione della filiera (Mariott i, Micucci, Montanaro,
2004).
L’appartenenza ad un sistema distrettuale funge sopr attutto per le
PMI da st imolo all’espansione internazionale grazie allo
sfruttamento dei benefici e delle esternalità positive derivanti dalla
loro natura district-based : le PMI distrettuali traggono i benefici
derivanti dalla divisione del lavoro e dall’apprendimento, dalla
fiducia e dal network di relazioni. La divisione del lavoro consente
lo sviluppo di competenze specialistiche e di alto l ivello, che
l’impresa può sfruttare sinergicamente sul mercato estero. Le
imprese possono, inoltre, sviluppare mecc anismi di apprendimento
derivanti da altrui esperienze sul mercato estero. Il sistem a
naturale di informazioni instaurato nel distretto ha importanza
fondamentale per la diffusione del clima di fiducia nei confronti
dell’espansione internazionale; la fiducia, rafforzandosi,
contribuisce alla diffusione di una “cultura internazionale”, in
modo che l’espansione all’estero venga considerata con un maggior
grado di familiarità (Cesaroni, 2005).
80
4.5.1.1 Modalità
Con riferimento ai distretti , l’internazionalizzazione può essere di
tipo fondamentalmente commerciale o produttivo; il primo inerente
alla propensione all’importazione e/o esportazione, il secondo agli
investimenti diretti (Sammarra, 2003). Alcuni autori individuano
una terza forma di tipo tecnologico (Famiglie tti, 2000).
L’internazionalizzazione di tipo tecnologico implica un iniziale
trasferimento di tecnologie e know-how che coinvolge ulteriori
unità produttive (Famiglietti, 2000).
Per quanto riguarda l’internazionalizzazione commerciale, è
visione condivisa e documentata che s ia in passato sia attualmente
i distretti industriali presentano una forte propensione
all’esportazione (Sammarra, 2003). Nei distretti italiani sono
localizzate il 40% delle imprese manifatturiere, che contribuiscono
al 27% del Pil e al 46% delle esportazioni (Ricciardell i, 2010).
La dimensione delle imprese viene considerata un vincolo, in
quanto si attuano forme più semplici di espansione internazionale
commerciale: l’esportazione indiretta, attraverso mediatori,
agenzie di export management , consorzi per l’esportazione ;
modalità più complesse di internazionalizzazione vengono attuate
all’interno del distretto da imprese leader, le quali assumono il
controllo diretto della rete distributiva o creano una rete di agenti
nei mercati ester i (Sammarra, 2003) .
Il mercato di destinazione dei prodotti in cui si realizza più della
metà del fatturato, ossia mercato prevalente, risulta essere per gran
parte delle imprese distrettuali e non quello nazionale.
Secondo i dati del Centro Studi Unioncam ere e Assocamerestero,
riportati in tabella 8, l e imprese distrettuali dimostrano una
maggiore propensione alle esportazioni, in quanto più de lla metà
del fatturato del 19,5% delle imprese distrettuali è realizzato
all’estero, contro il 10,1% delle imprese non distrettuali.
81
Tabella 8 Mercato di destinazione dei prodotti di imprese distrettuali e non
Mercato prevalente Imprese distrettuali Altre imprese
Locale 19,0 19,5
Regionale 18,0 25,0
Nazionale 43,5 45,4
UE 11,8 6,2
Extra-UE 7,7 3,9
Totale 100,0 100,0
Fonte: Centro Studi Unioncamere e Assocamerestero, 2002 in Esposito, 2003b
L’internazionalizzazione produttiva avviene tramite investimenti
diretti , joint venture, forme di cooperazione. Vi è una minore
propensione a modalità di tipo equity , non discordandosi dalla
tendenza delle imprese i tal iane non distrettuali . Una ulteriore
modalità può essere l’affidamento di una fase della lavorazione a
imprese estere senza la presenza di un accordo esplicito ; risulta
una forma particolarmente utile per imprese di minori dimensioni,
poiché richiedono un impiego di risorse limitato e implicano un
rischio relativamente basso (Sammarra, 2003). La modalità di
internazionalizzazione produttiva a cui le imprese distrettua li
fanno maggior ricorso è la subfornitura internazionale a discapito
degli IDE (Mariotti, Micucci, Montanaro, 2004).
Un’ulteriore distinzione delle forme di espansione estera a livello
di produzione può essere tra delocalizzazione di attività produttive
e rilocalizzazione, ossia trasferimento totale dell’impresa al di
fuori del distretto.
Da alcuni autori l’internazionalizzazione produttiva attiva è vista
come la causa di una futura e progressiva disintegrazione dei
distrett i, intesi come sistema di produz ione relat ivamente
autosufficienti e autocontenuti. Attualmente la delocalizzazione
interessa le fasi della produzione labour-intensive ed è attuata
principalmente da imprese che servono la fascia medio - bassa del
mercato, dunque non rappresenta ancora un’ effettiva minaccia di
disintegrazione dei distrett i, tuttavia in un’ottica di medio- lungo
termine nelle aree di destinazione si potrebbero sviluppare
competenze tali da modificare gli equil ibri distrettuali (Sammarra,
82
2003). Il fenomeno di delocalizzazione ha comportato una
riduzione del grado di integrazione verticale del distretto,
privilegiando lo sviluppo interno di attività strategiche e ad alto
valore aggiunto, come la progettazione e la dis tribuzione
(Famiglietti , 2000): l’internazionalizzazione a m onte e quella a
valle risultano così connesse l’un l’altra; nel caso in esame è
necessario che la delocalizzazione produttiva comporti il
potenziamento della funzione di marketing sia a livello di singola
impresa che distrettuale, sviluppando nuovi prodot ti e processi e
fornendo nuovi servizi a supporto dell’espansione estera (Pepe,
2006).
Il grado di espansione estera delle PMI distrettuali risulta maggiori
in termini di scambio commerciale, mentre più contenuto in
termini di delocalizzazione produttiva r ispetto alle piccole e medie
imprese non distrettuali (Mariotti, 2004; Genna, 2007), come
dimostrato dalla tabella 9 relativa alle modalità di
internazionalizzazione delle imprese italiane .
La modalità principale con cui le imprese distrettuali si
internazionalizzano risultano essere gli accordi per commesse
(38,5%) con un divario notevole rispetto alla percentuale di ricorso
delle imprese non distrettuali (17,4%) ; anche gli accordi per
distribuzione sono modalità a cui le imprese distrettuali fanno
maggior ricorso rispetto alle altre aziende. Invece, per quanto
riguarda le joint venture , gli accordi per affidamento e gli
investimenti dirett i esteri la situazione si capovolge: sono le
imprese non distrettuali a farne maggior ricorso.
83
Tabella 9 Modalità d’internazionalizzazione delle imprese italiane, suddivise in distrettuali
e non
Modalità
d’internazionalizzazione
Imprese
distrettuali
Altre
imprese
Accordi per commesse 38,5 17,4
Accordi per distribuzione 22,2 16,5
Joint ventures 15,4 22,4
Accordi per affidamento 12,8 22,2
Investimenti diretti 11,1 21,4
Totale 100,0 100,0
Fonte: Centro Studi Unioncamere, Assocamerestero 2002 in Mariotti, 2004; Genna, 2007; Esposito, 2003b
4.5.2 Internazionalizzazione passiva
4.5.2.1 Motivazioni
Gli investimenti diretti al l’estero possono venir considerati come
la creazione di relazioni che connettono la rete locale con la rete
estera, aumentando la competitività dell’impresa a livello
internazionale grazie all’accesso a un maggior quantitativo di
risorse sia tangibili che intangibili . Viene affidata dalle imprese
importanza maggiore al contesto locale che, in quanto bacino di
conoscenze nuove ed, eventualmente, specifiche, favorisce
l’apprendimento. L’interesse delle imprese ai distretti è spiegato
proprio dalla concentrazione di conoscenze specifiche.
Le motivazioni legate all’internazionalizzazione in un distretto
sono essenzialmente di tipo knowledge-based : i benefici ricercati
sono, infatti, l’integrazione della conoscenza locale con la propria
cultura e capacità produttiva, una divisione del lavoro più efficace
sfruttando il know-how del terri torio di destinazione, che consente
all’impresa di coniugare una più grande varietà interna con una
struttura più flessibile caratterizzata da più efficace creazione e
trasferimento di conoscenza.
Con riferimento al contesto italiano, non si può ritenere che le
imprese multinazionali siano spinte da motivazioni di tipo cost-
saving , poiché non sussistono particolari vantaggi di costo
(Sammarra, 2003). Si assiste addirittura alla riduzione
dell’integrazione verticale dei distretti italiani, in seguito alla
84
ricerca da parte di imprese di delocalizzare attività labour-
intensive laddove sussistono minori costi del lavoro e dei fattori
produttivi (Famiglietti, 2000).
Sono realizzabili , tuttavia, forme di efficiency gains , poiché la
presenza di numerose imprese terziste è un incentivo ad affidare
fasi della lavorazione all’esterno e, dunque, rendere la produzione
e la struttura organizzativa più flessibile; un’ulter iore forma di
efficiency gains deriva dal fatto che la prossimità geografica
consente di risparmiare sui costi di trasporto. Entrambe le forme,
tuttavia, da sole non sono sufficienti per motivare l’ingresso di
imprese estere nel distretto.
Altre motivazioni che trovato applicazione debole se non nulla
sempre con riferimento alle imprese multinazionali che decidono di
estendersi nei distretti italiani sono la prossimità a materie prime
e/o a mercati di sbocco e l’elevata dimensione del mercato interno.
Trovano, invece, applicazione le motivazioni di tipo strategico ,
quali l’ampliamento della gamma di prodotti per via della
differenziazione e diversificazione di prodotti e tecnologie nella
realtà distrettuale, la riduzione della competizione all’interno del
settore. Questo t ipo di motivazioni è, tuttavia, riconducibile
all’approccio knowledge-based .
Riassumendo, le ragioni alla base della localizzazione dell’impresa
multinazionale nel contesto distrettuale sono l’accesso a capitale
umano e sociale e la possibil ità di consentire alle altre unità
dell’impresa lo sfruttamento delle competenze acquisite
(Sammarra, 2003).
4.5.2.2 Modalità
Gli investimenti in entrata sono relativamente limitati , poiché vi
sono consistenti barriere ; i distretti, infatti, sono costituiti
principalmente da imprese a proprietà locale.
Gli attori distrettuali sono caratterizzati da cultura, valori e
tradizioni comuni, da legami sociali prima che economici: tutto ciò
rappresenta una notevole barriera all’entrata (Sammarra, 2003).
85
Nel processo di internazionalizzazione svolge un ruolo importante
il contesto socio- culturale: è importante che il comportamento
strategico dell’impresa sia teso alla costruzione di rapporti con il
contesto socio- culturale ed isti tuzionale con le altre imprese del
sistema territoriale (Famigliett i, 2000).
Modalità necessarie ad ovviare alle barriere all’entrata relative alla
cultura comune possono essere gli accordi di joint venture con
imprese radicate nel distretto oppure l’acquisizione di imprese
locali (Sammarra, 2003). Le joint venture consentono, infatti, di
superare le asimmetrie informative. L’acquisizione di un’impresa
può risultare modalità diretta di internazionalizzazione oppure
derivare dall’evoluzione del processo di espansione successiva
all’accordo di joint venture. Attraverso queste due modalità le
imprese instaurano rapporti o acquisiscono imprese radicate da cui
possono acquisire conoscenze e che hanno forti potenziali tà di
sviluppo; le imprese distrettuali, invece, possono sfruttare le reti
commerciali che operano nei mercati esteri.
Gli investimenti diretti greenfield in entrata sono modalità meno
appropriate per l’ingresso di imprese estere all’interno del distretto
e dunque più rischiose, poiché nuove imprese possono venir
percepite come estranee.
Un ruolo importante nello sviluppo di un network di relazioni tra
l’impresa internazionalizzata e il distretto è svolto dalla struttura
organizzativa della prima: il decentramento organizzativo deve
consentire un grado di autonomia, tale da poter accedere a
competenze e conoscenze distrettuali , beneficiare di spillover
informativi e tecnologici e successivamente trasferire alla rete
interna quanto acquisito.
Per i distretti l’ingresso di attori multinazionali è uno step
importante nel percorso evolutivo, in quanto favorisce l’apertura
verso l’esterno , f inora limitata e vincolata dal forte radicamento
nel territorio e dalla cultura comune. Tale processo di apertura
risulterà sostenibile nel lungo periodo solo se i distretti saranno in
86
grano di sviluppare nuova conoscenza beneficiando e sfruttando la
rete di relazioni.
4.5.2.3 Effetti dell’apertura internazionale sul distretto
L’ingresso di multinazionali può comportare un rafforzamento del
distretto, qualora l’integrazione nel terri torio sia tale da garantire
nuovi meccanismi di funzionamento lontani dai processi inerziali a
cui sono soggetti i sistemi locali.
I benefici per il sistema distrettuale sono proporzionali al valore
aggiunto apportato dall’impresa multinazionale e trasferito
attraverso le relazioni con attori locali; il valore aggiunto può
essere di tipo economico, di tipo intangibile nella forma di
reputazione esterna e di tipo intangibile nella forma di conoscenza
(Sammarra, 2003).
Il valore economico è rappresentato da quanto viene direttamente o
indirettamente trasferi to a operatori locali: remunerazione dei
dipendenti residenti nel territorio, quota parte di costi relativi a
materie prime, semilavorati, prodotti e servizi offerti da imprese
locali, imposte pagate ad amministrazioni locali, interessi tributa ri
a istituzioni finanziarie locali.
Il valore intangibile nella forma di reputazione esterna deriva dalla
proiezione del distretto a livello globale: l’ingresso della
multinazionale aumenta l’attrattività del sistema distrettuale a
operatori esteri, graz ie alla rete di relazioni tra questi e l’impresa
estera già operante, che consente il trasferimento di informazioni
relativamente a qualità e affidabilità di personale, sistema
produttivo, infrastrutture, servizi , amministrazione e istituzioni
locali (Sammarra, 2003) . Il distretto svolge in questo senso il ruolo
di promotore al lo scambio, poiché per i distributori risulta più
semplice entrare in contatto con le imprese una volta individuato il
distretto (Pepe, Musso, 2001).
Il valore intangibile può essere anche in termini di conoscenza,
poiché le multinazionali apportano nel distretto nuova conoscenza
tecnologica, relativa ai mercati esteri e stimola l’innovazione e lo
sviluppo di nuove competenze. Il livello di conoscenza trasferito
87
dipende dall’intensità di relazioni tra imprese: da trasferimenti di
conoscenza più semplici come quelli di apprendimento imitativo
derivanti da relazioni competitive o da confronti a trasferimenti
più complessi che implicano la formalizzazione come ad esempio
accordi in ricerca e sviluppo, pratiche di co -progettazione, accordi
per lo sviluppo di progetti (Sammarra, 2003) .
L’ingresso di gruppi consente alle imprese distrettuali di
beneficiare di rapporti di cooperazione, dunque instaurare relazioni
più stabili e durature, ampliare la gamma di produzione, espandersi
sui mercati esteri , elaborare strategie di più lungo termine
(Famiglietti , 2000).
89
5 IL DISTRETTO CALZATURIERO FERMANO-
MACERATESE
5.1 Introduzione
Il settore calzaturiero è uno tra i casi di suc cesso sia in ambito
nazionale che internazionale delle piccole e medie imprese e dei
distrett i industriali italiani. Nel 2008, infatti , l ’Italia si colloca
nell’ottavo posto per produzione di calzature, nel quarto per
esportazioni in quantità e nel secondo per esportazioni in valore
(Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013 e elaborazioni ICE) .
I fattori alla base del vantaggio competitivo sono il know-how ,
l’artigianalità , la sensibili tà italiana allo stile, al design,
all’estetica ; la localizzazione in distretti industriali è, quindi, pe r
il settore fonte di notevoli benefici.
Il primo paragrafo è un’introduzione sul settore calzaturiero
italiano , analizzandone l’incidenza nell’economia nazionale e
l’espansione internazionale.
Nei paragrafi successivi verrà analizzato il distretto calzaturiero
situato nelle province di Fermo, Macerata e, in parte, Ascoli
Piceno, tema principale del capitolo .
Dopo un breve excursus sulla storia e l’origine del distretto che
mette in luce la forte connotazione artigiana le, si analizzano i vari
aspetti strutturali : l’evoluzione del numero di imprese e l’elevata
concentrazione sia di imprese che di addetti.
Si studiano, poi, le caratteristiche che accomunano le imprese
distrettuali: cooperazione, strategie e innovazione in termini di
riposizionamento.
5.2 Il settore calzaturiero
Il calzaturiero è uno dei settori in cui l’Italia gode di un vantaggio
competitivo. Si possono identificare delle caratteristiche del
calzaturiero che lo accomunano ad altri settori performanti:
frammentazione, ossia presenza di tante piccole imprese, proprietà
90
a conduzione famigliare e concentrazione geografica (Donna,
Gambino, 1999). Il modello distrettuale è , infatt i, strettamente
legato ai settori del Made in Italy , ossia quei settori a cui è
associata l’immagine del paese nel mondo (Sc hilirò, 2008); vi sono
quattro comparti principali in cui l’Italia gode di vantaggio
competitivo: i beni di consumo durevoli per la persona (tessuti,
abiti , foulards , maglioni, calzature, occhialeria, gioielli), art icoli
per l’arredamento della casa (mobil i , impianti d’illuminazione di
design, piastrelle in ceramica), prodotti meccanici e i prodotti
alimentari (Becattini , 1998) .
Tabella 10 I settori principali dei distretti industriali
Settore Distretti %
Tessile - abbigliamento 45 28,8
Meccanica 38 24,4
Beni per la casa 32 20,5
Pelli, cuoio e calzature 20 12,8
Alimentari 7 4,5
Oreficeria 6 3,8
Cartotecniche e poligrafiche 4 2,6
Prodotti in gomma e plastica 4 2,6
Totale 156 100,0
Fonte: Istat, 2005
Oltre il 45 % dei distretti industriali (tab. 10) si occupa dei settori
inerenti alla moda ( tessile - abbigliamento; pelli, cuoio e calzature;
oreficeria).
L’organizzazione flessibile dei distretti è adatta al settore
calzaturiero, caratterizzato da produzione non standardizzata,
tecnologie statiche e mature e dunque scomponibili in fasi, capitale
investito relativamente ridotto e barriere all’entrata i nesistenti
(Donna, Gambino, 1999).
Il sistema moda italiano è uno dei comparti che ha contribuito
maggiormente alla crescita economica del paese (Distretti Italiani,
Unicredit, 2011), rappresentando una quota significativa
dell’economia italiana (The European House - Ambrosetti, 2010),
91
grazie alla capacità nel coniugare l’artigianalità e il know-how con
la sensib il ità allo sti le e all’estetica (Do nna, Gambino, 1999).
In termini di valore aggiunto, il sistema moda rappresenta l’11%
delle attività manifatturiere (fig. 10) , quota significativa se
confrontata con il 3,6% della Francia, il 4,9% della Spagna, il
2,9% del Regno Unito (The European House - Ambrosetti, 2010;
Distretti Italiani, Unicredit, 2011) .
Figura 10 Ripartizione del valore aggiunto del manifatturiero italiano
Fonte: The European House – Ambrosetti, 2010; elaborazioni The European House – Ambrosetti su dati
Eurostat
Con riferimento al settore delle calzature, in Italia , l’8°
Censimento generale dell’industria e dei servizi 2001 ( Istat, 2005)
rileva la presenza di venti distretti; come si può vedere in figura
10, il settore contribuisce per il 16,7% alla creazione del valore
aggiunto del sistema moda italiano (The European House -
Ambrosetti , 2010).
L’industria calzaturiera - così come l’industria orafa, delle
ceramiche, degli utensili, della maglieria – risulta uno tra i cas i di
maggior successo delle piccole e medie imprese italiane a livello
internazionale (Donna, Gambino, 1999).
92
Tabella 11 Esportazioni per attività economica – Anno 2011 (a), valori assoluti in migliaia
di euro e variazioni percentuali
(a) Dati provvisori
Fonte: Istat, 2012
Le calzature rientrano in Italia tra le dieci principali classi di
attività ordinate secondo il valore delle esportazioni, occupando il
settimo posto con un valore pari a 7.814.248 migliaia di euro e
registrando nel 2011 un aumento del 12,7% rispetto al 2010.
Secondo i dati Istat (2012) , riportati in tabella 11, le importazioni
in valore sono di 4.656 milioni di euro e registrano un aumento di
8,8% rispetto all’anno precedente.
Dal 1980 il Taiwan ha tolto all’It alia il primato nell’esportazione
di calzature; poiché il paese colloca il suo prodotto sulla fascia
medio – bassa, è necessario che l’Ital ia riveda le proprie strategie,
orientandosi su nicchie di mercato e sulla produzione di qualità
superiore (Anselmi, 1989b).
Occorre considerare che sebbene tra il 1981 e il 2010 il numero
degli addett i nel settore calzaturiero si sia quasi dimezzato a fronte
della competizione internazionale, l’Italia ha ancora un peso
rilevante nel commercio mondiale di calzature e ri sulta essere
l’unico grande esportatore tra i paesi avanzati, questo grazie alla
sua specializzazione in prodotti di elevata quali tà e prezzo. Nel
2008 l’Italia, ottavo produttore mondiale di calzature , era il quarto
per volumi esportati (Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013), mentre
secondo se si considera il valore del prodotto esportato.
Il vantaggio competitivo di cui gode l’Italia deriva sicuramente
dalla qualità dei prodotti offerti , caratteristica fondamentale per i
93
prodotti della moda che fa sì che il consumatore sia disposto a
corrispondere un premium price .
Figura 11 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dall’Italia al resto
del mondo
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it
Figura 12 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in quantità (kg) dall’Italia al resto
del mondo
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it
Dai grafici riportati in figura 11 e 12, relativi alle esportazioni di
calzature dall’Italia al resto del mondo , emerge un fattore
rilevante, ossia l’aumento dei prezzi e, dunque, di qualità del
prodotto esportato. Da ciò si può dedurre sia il progressivo
94
posizionamento delle imprese calzaturiere verso fasce più alte del
mercato, sia l’interesse crescente dei clienti esteri per i prodotti di
qualità.
Le esportazioni in valore (fig. 11), dopo il calo coincidente con
l’aggravars i della crisi, non solo hanno raggiunto i livelli pre -crisi
ma sono in progressivo aumento. Per quanto riguarda le
esportazioni in quantità (fig. 12), invece, il t rend risulta
decrescente; in un decennio (2000 - 2010) si sono quasi dimezzate .
Secondo elaborazioni ICE riferite al 2011, i principali mercati di
sbocco delle calzature sono Francia, con una quota parte del
14,77% sul totale delle esportazioni italiane, Germania con
l’11,87%, Stati Uniti con l’8,83%, Svizzera con il 6,81% e Russia
con il 6,77%.
Tabella 12 Distribuzione settoriale delle imprese per forme di internazionalizzazione –Anno
2010 (numero di imprese, valori percentuali)
Fonte: Istat, 2013; Elaborazioni su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul
commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese
italiane) e su dati amministrativi
Secondo dati Istat (2013) riportati in tabella 12, n el settore delle
calzature (“fabbricazione di articoli in pelle e simili” della
classificazione Ateco 2007) le modalità di internazionalizzazione
95
più frequenti sono quelle in cui vi è coesistenza di esportazioni ed
importazioni e quelle che riguardano solamente le esportazioni ,
così come lo sono in tutti gli altri settori tradizionali del Made in
Italy e in gran parte delle attività manifatturiere.
Ha un’incidenza notevole nel settore calzaturiero italiano il
fenomeno della delocalizzazione produttiva di fasi della
produzione labour-intensive e a basso valore aggiunto in paesi a
basso costo della manodopera (Sammarra, 2003), che ha
comportato la frammentazione internazionale dei processi
produttivi, come risposta alla crescente pressione competitiva
(Amighini, Rabellott i, 2003) .
5.3 Il distretto calzaturiero marchigiano
Il distretto fermano – maceratese raccoglie circa quattromila
imprese calzaturiere, localizzate in sessantasei comuni ,
principalmente delle province di Fermo e Macerata e alcuni
nell’Ascolano ; ivi è sita la maggior concentrazione mondial e di
imprese calzaturiere (Camera di Commercio di Fermo, 2011). Ne fa
parte una grande varietà di imprese specializzate in una o più fasi
della filiera produttiva che confluiscono all’ottenimento del
prodotto finito: vi sono imprese che effettuano lavorazi oni a basso
livello di investimento, tra cui l’orlatura delle tomaie, imprese che
investono in meccanica, come le produttrici di macchine e
attrezzature per la lavorazione di calzature, imprese le cui
fabbricazioni sono ad alto contenuto tecnologico, tra c ui tacchi,
fondi o suole, o ad alto contenuto stilistico, come gli accessori
(MIT, 2003).
All’interno del distretto si distinguono tre aree geografiche
secondo il segmento in cui sono specializzate: il comune di Porto
Sant’Elpidio nel segmento “donna”, il comune di Montegranaro nel
segmento “uomo”, il comune di Monte Urano nel segmento
“bambino”.
Il distretto abbraccia, dunque, tutte le fasi della filiera produttiva
per tutte le categorie di consumatori. Il mercato di riferimento è
96
prevalentemente (85 %) la fascia medio – alta (Osservatorio
Nazionale dei Distretti Italiani ).
La concentrazione delle imprese e l’elevato grado di
specializzazione nel calzaturiero rendono il modello non
replicabile e permettono la costituzione di una forte filiera
produttiva (Renzi, 2000).
Il distretto rappresenta un patrimonio di conoscen za, di maestranze
di eccellenza e di qualità (Camera di Commercio di Fermo, 2011).
Il fattore alla base sia dell’origine che dello sviluppo del distretto
risulta essere la forza imprenditoriale locale. Le ragioni dello
sviluppo del distretto si ritrovano anche nel sistema a filiera
costituito principalmente da piccole imprese che coniugano la
flessibilità e la specializzazione produttiva con la possibil ità di
beneficiare delle economie esterne, grazie all’effetto distretto
(Morganti, 2007).
Occorre, però, rilevare che la globalizzazione e le varie crisi hanno
modificato l’assetto organizzativo e industriale del distretto
marchigiano, che, tuttavia, non ha perso la sua attrattività, grazie
all’amp ia offerta e alle sue caratteristiche di creatività, design,
elevata qualità di macchinari e di output (Camera di Commercio di
Fermo, 2011). Come emerge per gli altri distretti i tal iani, la
globalizzazione ha “confermato la vocazione in quel mix di
artigianalità e industria che consentono al capitalismo ital iano di
unire estetica e innovazione di prodotto” (Il Sole 24 Ore, 5 gennaio
2013).
Per fronteggiare la concorrenza estera, occorre che le imprese
investano in una più elevata qualità del prodotto e del lo styling
(Anselmi, 1989).
Le varie crisi che si sono succedute nel tempo, soprattutto quella
attuale, e la crescente concorrenza estera, soprattutto cinese, hanno
dato avvio ad un processo di selezione, in cui riescono a
sopravvivere le imprese che offrono prodotti di qualità elevata, che
interagiscono con le altre imprese e, se contoterziste, che
garantiscono affidabilità, puntualità nelle consegne e che
97
innovano e migliorano le tecniche di lavorazione per soddisfare le
esigenze dei committenti (Morgant i, 2007).
Il cambiamento nell’assetto organizzativo distrettuale ha visto
l’affermarsi di alcune imprese leader, le quali instaurano rapporti
sempre più esclusivi con i subfornitori (Cutrini, Micucci,
Montanaro, 2013). Il distretto marchigiano ha assunto n el tempo la
forma di una rete di piccole e medie imprese coordinate da leader
da cui dipendono nella catena di subfornitura : la sua forma
organizzativa si è evoluta da circolare a stellare centrata su un
nucleo e caratterizzata da raggi anche molto larghi (Giannetti,
Vasta, 2005). Non manca chi ritiene che l’insediamento all’interno
del distretto di stabilimenti produttivi di grandi gruppi sia un
rischio per le imprese distrettuali sempre più vincolate alle
strategie dei gruppi (Morganti, 2007).
5.4 Storia
Già nel Trecento la presenza di produttori di calzature nelle
Marche è testimoniata da Boccaccio nel Decameron all’interno di
una novella (giornata ottava, novella quinta) in cui viene deriso il
giudice marchigiano messer Niccola da San Lepidio .
Nel Medioevo le poche informazioni reperibil i sono negli s tatuti
cittadini, i quali attestano la presenza di piccole botteghe artigiane
in numerosi centri del territorio dal XV secolo , e negli statuti delle
associazioni di mestiere, che testimoniano l’importanza notevole
delle corporazioni di calzolai . Primi segnali di scambi commerciali
si hanno nel Quattrocento, quando, a causa delle difficoltà
nell’approvvigionamento di materie prime per la concia e grazie
all’aumento della domanda, gli artigiani fanno ricorso alle
importazioni, principalmente dai Balcani e dall’Oriente (Paciaroni,
1989). La produzione è tipicamente quella di chiochierie , ossia
pantofole, i cui mercati di destinazione sono ancora locali
(Micucci, 1999).
Gli storici fanno risalire l’origine del distre tto all’Ottocento
(Anselmi, 1989) ; numerosi mezzadri, ex-mezzadri e inoccupati
98
avviano attività manifatturiere, in particolar modo nel settore delle
calzature, perché caratterizzato da scarso contenuto tecnologico,
modesti investimenti in materie prime, co sti d’impianto inesistenti
ed elementare organizzazione del lavoro e del la distribuzione.
L’attività è caratterizza ta da coinvolgimento dell’intera famiglia,
diffusione dell’attività al vicinato e progressivamente all’intera
popolazione dell’area (Rossi , Verducci, 1989). La produzione di
calzature si svolge principalmente in alcuni comuni: Montegranaro,
Monte Urano, Monte San Giusto e Sant’Elpidio a Mare e i l mercato
di destinazione, originalmente regionale, si estende allo Stato
Pontificio e al Regno di Napoli (Morganti, 2007). Secondo alcuni
storici sono i rapporti extra -regionali a consentire il passaggio
dall’art igianato locale all’attività manifatturiera (Moroni, 1989).
Nella seconda metà dell’Ottocento, le produzioni marchigiane
estendono le loro aree di destinazione; la vendita sui mercati
nazionali ed esteri è effettuata dagli stessi fabbricanti con
commercio ambulante, che è alla base del trasferimento di calzolai
in altre città d’Italia o all’estero per aprirvi piccole lavorazioni di
pantofole e, successivamente, negozi di scarpe (Sabbattucci
Severini, 1989). I principali mercati di destinazione delle calzature
marchigiane sono i paesi affacciati sull’Adriatico e sull’Egeo.
All’inizio del Novecento nel Fermano gli occupati nel settore
calzaturiero risultano secondi per numerosità solamente ai
mezzadri. Nel 1910, tuttavia, si assiste ad una crisi del settore
dovuta al ritardo italiano nella meccanicizzazione del processo
produttivo, al la concorrenza estera e alla conseguente drastica
riduzione delle esportazioni; durante i l primo conflitto mondiale,
inoltre, a causa della specializzazione nella produzione di
pantofole e scarpe leggere e dei tempi di produzione relativamente
lunghi, le imprese fermane trovano difficoltà nel soddisfare le
commesse militar i: secondo gli storici questa è la mancata spinta
all’organizzazione di fabbrica e alla meccanicizzazione del
processo produttivo che fa registrare al Fermano il ri tardo rispetto
alle altre zone interessate dal calzaturiero; solo t ra le due guerre,
99
dunque con un gap temporale di vent’anni, si assiste all’apertura
delle prime imprese meccanizzate . In questo periodo il mercato di
riferimento è quello interno e le poche esportazioni sono dirette ai
paesi affacciati sull’Egeo (Sabbatucci Severini , 1989).
Dal Secondo Dopoguerra il distretto ha rappresentato il motore
della crescita del territorio (Camera di Commercio di Fermo,
2011). Gli anni Cinquanta si caratterizzano per la forte
propensione all’export (Segreto, 1989). Si assiste alla “escalation
art igiano-industriale” (Renzi, 2000 p. 2): l’evoluzione
dell’agricoltura fa sì che molti giovani contadini si riversino nelle
botteghe artigiane che aumentano progressivamente in numero, in
fatturato e in occupati . Un ulteriore fattore alla base della svolta
risulta la capacità e l’abilità de lla tradizione art igiana nel
trasferimento di conoscenze tecniche, professionali e produttive
all’industria nascente (Morganti, 2007) : gli anni Sessanta sono gli
anni della “industrializzazione dell’art igianato calzaturiero”
(Segreto, 1989, p. 308), caratterizzati, inoltre, dall’enorme crescita
delle esportazioni.
Secondo il Censimento del 1971, le Marche detengono il primato
calzaturiero nazionale (Segreto, 1989).
100
5.5 Aspetti generali
Figura 13 Imprese attive nel settore preparazioni e concia cuoio – fabbricazione articoli da
viaggio (DC19: 1998-2009 Ateco 2002) e fabbricazione articoli in pelle e simili (C15: 2009-
2012 Ateco 2007)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Infocamere – Movimprese www.infocamere.it/movimprese
Si considera per semplicità che tutte le imprese calzaturiere delle
province appartengano al distretto; le imprese si tuate in comuni
non appartenenti al distretto sono in numero limitato, non
invalidando, dunque, le osservazioni. Occorre, tuttavia, prendere
atto che a seguito della modifica nel 2009 da Ateco 2002 ad Ateco
2009, le due classificazioni non sono confrontabili direttamente
(Camera di Commercio di Fermo, 2011).
Secondo dati Infocamere riportati in figura 13, a fine 2012 il
distretto è formato da 4032 imprese, di cui 2667 nelle province di
Fermo ed Ascoli e 1365 nella provincia di Macerata. In linea con il
contesto nazionale, il processo di riduzione del numero delle
imprese attive non sembra arrestarsi.
La tendenza alla riduzione del numero di imprese è confermata da
un’indagine del Sole 24 Ore (27 settembre 2012) effettuata negli
stessi distretti italiani sia nel 1992 sia nel 2012: l’indagine che
considera la sola provincia di Fermo d enuncia una diminuzione da
5300 imprese a 2700, fenomeno che accomuna il distretto ad altri
101
poli italiani, e che viene spiegato parzialmente dalla
concentrazione di alcune imprese che hanno accresciuto la loro
dimensione nel tempo (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).
Le imprese nel distretto sono mediamente piccole imprese: il
numero medio di addetti è, infatti , 20 (Distretti Italiani, Unicredit,
2011); si riscontra, tuttavia, la presenza di grandi g ruppi, quali
Tod’s, Prada e tante medie imprese.
Tabella 13 Sedi di imprese attive e addetti totali nell’attività C152 Fabbricazione di
calzature; anno 2010
Fabbricazione di calzature
Imprese
attive
Quota % su
Italia
Addetti
totali
Quota % su
Italia
Ancona 100 0,83% 1.393 1,03%
Ascoli Piceno 116 0,96% 1.977 1,46%
Fermo 2.492 20,59% 22.083 16,34%
Macerata 1.192 9,85% 11.915 8,82%
Pesaro e Urbino 34 0,28% 304 0,22%
Marche 3.934 32,50% 37.672 27,88%
Toscana 2.385 19,70% 23.955 17,73%
Campania 1.563 12,91% 12.482 9,24%
Veneto 1.552 12,82% 19.459 14,40%
Altre regioni 2.670 22,06% 41.578 30,77%
ITALIA 12.104 100,00% 135.146 100,00%
Fonte: nostre elaborazioni su dati Camera di Commercio di Fermo, 2011
Le Marche risultano la regione con la più alta concentrazione di
imprese attive e di addetti nel settore calzaturiero, secondo i dati
del 2010 riportati in tabella 13 relativi alla classe di at tività C152
Fabbricazione di calzature, da cui esulano altre attività
complementari presenti nel distretto, quali preparazione e concia
del cuoio, fabbricazione di macchinari per la produzione di
calzature. Nelle Marche è presente il 32,5% delle imprese
calzaturiere italiane che occupano il 27,88% degli addetti del
settore; nel distretto in particolare operano il 31,39% delle imprese
calzaturiere italiane e il 26,62% degli addetti. Il distretto risulta,
così , leader italiano nel calzaturiero (Camera di Commercio di
Fermo, 2010).
102
5.6 Cooperazione
Come affermato precedentemente , risultano presenti nel distretto
alcune grandi imprese che instaurano rapporti sempre più esclusivi
con i fornitori (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012). I rapporti di
collaborazione più stabil i si sono evoluti in una vera e propria
interdipendenza dei cicli produttivi e in un’intensa interazione tra
le parti (Distretti Italian i, Unicredit, 2011).
La filiera produttiva che collega le imprese, soprattutto le grandi
imprese ai terzisti, risulta essere molto efficiente (Il Sole 24 Ore,
27 settembre 2012), principalmente grazie al clima di fiducia e alle
relazioni locali formali e informali. Non sono rari i casi in cui
imprese e terzisti st ipulano accordi ed eseguono commesse senza
aver formulato un contratto formale, ma sulla base di legami
fiduciari (Morganti , 2007). Nell’attuale contesto competitivo,
tuttavia, i legami tra imprese locali si stanno trasformando a causa
delle scelte strategiche delle imprese: nel caso di strategie di costo
si sciolgono per lasciare spazio a legami con imprese estere
localizzate in paesi a basso costo della manodopera ; i legami più
stabili e di lungo periodo sono strettamente collegati alla
differenziazione qualitativa, grazie al controllo dei committenti e
al confronto costante tra le due parti (Cutrini , Micucci, Montanaro,
2013): ciò ha consentito che molte aziende intermedie si
riposizionassero , offrendo un prodotto di qualità (Il Sole 24 Ore,
27 settembre 2012).
Figura 14 Estensione delle reti di imprese dei distretti della moda
Fonte: Distretti italiani, Unicredit, 2011
Rispetto ad altri distretti italiani l a rete di relazioni delle imprese
risulta principalmente chiusa all’interno dei confini aziendali;
come emerge da un’indagine di Distretti Italiani e Unicredit (2011)
su dodici distretti che operano nel comparto moda, le imprese del
103
distretto fermano - maceratese si relazionano principalmente tra
loro, estendendo l imitatamente il loro network (fig. 14).
Relativamente al l’estensione delle reti di imprese con altri distretti
emerge come le imprese fermano- maceratesi usufruiscano
maggiormente dell’effetto distretto ; la forte concentrazione di
imprese del settore calzaturiero nel terri torio e dunque la facilità
di reperimento in loco di forniture e risorse umane altamente
qualificate è una valida motivazione del fenomeno. Il distretto è,
inoltre, caratterizzato da coeso rapporto sociale, omogeneità del
tessuto economico, identità culturale (Renzi, 2000). Le relazioni
sociali consentono la condivisione di informazioni su tecniche,
innovazioni, opportunità, nuovi mercati , forza lavoro (Morganti,
2007), da cui deriva l’atteggiamento imitativo sano e creativo che
caratterizza il distretto (Renzi, 2000).
Sebbene il clima sembri favorevole alla cooperazione, iniziative di
collaborazione e consortili riguardanti il marketing, le fiere, la
ricerca e sviluppo non sembrano riscuoter e successo (Il Sole 24
Ore, 27 settembre 2012): diversi autori concordano che l a causa
principale sia cultura locale imprenditoriale fortemente
individualista (Morganti , 2007; Distrett i Italiani, Unicredit , 2010).
5.7 Innovazione
Sono soprattutto le grandi imprese ad investire in ricerca di nuovi
materiali e in innovazione stilistica, che consentono loro di
anticipare il mercato; le piccole imprese, invece, si limitano
principalmente a individuare e seguire il trend del mercato
(Distretti Italiani, Unicredit, 2011), soprattutto a causa della
scarsità di risorse finanziarie proprie e della difficoltà di reperirle
(Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).
L’atteggiamento proattivo verso l’innovazione, dunque ricerca di
nuovi materiali , di migliorie nelle tecnologie d i produzione, di
nuove opportunità fornite dal web, assume rilevanza strategica in
quello che viene considerato un distretto dall’imprenditorialità
creativa, ma improvvisata (Osservatorio Nazionale dei Distretti) .
104
Nel distretto, infatti, vi è una grande co ncentrazione di know-how
sulla qualità delle produzioni non solo di tipo artigianale, ma
anche industriale (Delai, 2012).
Come emerge in figura 15, i l distretto, nel suo complesso, risulta
uno dei pochi che è stato in grado di innovarsi, al fine di trovare
un posizionamento nella fascia medio - alta del mercato, grazie
all’abilità delle imprese di combinare tradizionalità e innovazione
stilistica e tecnologica (Distretti Italiani, Unicredit, 2011) ; il
merito della transizione dalla fascia media a quella med io - alta va
soprattutto alla manodopera qualificata (Il Sole 24 Ore, 27
settembre 2012).
Figura 15 Tradizione e riposizionamento dei distretti della moda
Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011
In tema di innovazione, va r ilevato il rapporto del distretto con le
Università e i centri di ricerca locali.
La rilevanza del distretto nel panorama nazionale ha cond otto alla
costituzione di un Its , isti tuto tecnico superiore, inerente alle
“Nuove tecnologie per il Made in Italy”, che offre due corsi di
formazione biennale che riguardano l’internazionalizzazione e
l’innovazione tecnologica e produttiva (Its moda – calzature).
Anche per quanto riguarda le forme di tutela dei propri marchi e
del design sono principalmente le imprese di maggiori dimensioni
a farne ricorso (Distretti Italiani, Unicredit, 2011).
Un limite notevole allo sviluppo del distretto è l’inadeguatezza
delle infrastrutture che , combinata alla posizione geografica
sfavorevole, rende difficoltosa la gestione sia del la logist ica in
entrata e in uscita sia dei rapporti commerciali. Le imprese,
soprattutto quelle di ridotte dimensioni, risentendo di maggiori
costi di approvvigionamento e commercializzazione, risultano
meno competit ive (Distretti Italiani, Unicredit, 201 1).
105
I frequenti rapporti di fornitura fanno sì che anche la logistica
interna abbia un peso notevole, sia per l’incidenza dei costi relativi
allo spostamento delle merci sui costi totali , sia per l’imp iego di
risorse in operazioni lontane dal core business . Dalla
consapevolezza che la condivisione tra imprese della rete di
trasporto degli output delle varie fasi produttive contribuisca
all’efficienza produttiva ed ambientale, nasce nel 2009 il progetto,
sviluppato dall’Università di Camerino, “Micro Green Logistic”. Il
progetto consiste nell’ideazione di un software che raccoglie le
prenotazioni delle commesse e guida i vettori di trasporto,
ottimizzando i carichi e i percorsi (Corradini , Paganelli , 2012) ;
sono quaranta le aziende che vi hanno preso parte n el 2012: in soli
tre mesi le emissioni di CO 2 si sono ridotte del 42,69 % e il
risparmio di carburante è stato del 38,1 % (Cna – Fita, 24 aprile
2012).
5.8 Strategia
Le imprese distrettuali , anche se con qualche eccezione, sono in
ritardo sulle poli tiche d i marchio (Morganti, 2007). Si riscontra
che negli ultimi anni il peso dei marchi è cresciuto, ma risulta
necessario potenziare ulteriormente l’orientamento al mercato (Il
Sole 24 Ore, 27 settembre 2012). Sono ancora poche le imprese
con un marchio proprio; prevalgono, invece, le collaborazioni con
le grandi imprese dell’alta moda con cui stipulano contratti di
licensing (Distrett i Italiani, Unicredit , 2011). Molte imprese
distrettuali, nell’ult imo decennio, si sono rit irate dal mercato
finale, limitandosi ad effettuare lavorazioni per conto -terzi , spinte,
da un lato, dalla carenza di risorse finanziarie, organizzative e
manageriali per affrontare la complessità dei rapporti business-to-
client (Morganti , 2007), dall’altro dalla possibil ità di sfruttare
l’effetto distretto nell’acquisizione di clienti business .
Alcune imprese vedono, tuttavia, nel distretto un limite, poiché la
facili tà con cui si reperiscono fornitori o, addirittura, clienti in
106
loco non incoraggia la pianificazione di strategie commerciali e
distributive efficienti (Distretti Italiani, Unicredit, 2011).
Un progetto importante in ambito di marketing è quello promosso
da Google e Unioncamere, “Distretti sul web”, con lo scopo di far
conoscere alle piccole e medie imprese distrettuali le opportun ità
che offre la rete e aiutarle nel percorso di digitalizzazione che
consentirà la crescita di competitività e l’accesso a nuovi mercati,
soprattutto internazionali.
Un aspetto rilevante delle strategie aziendali è occupato
dall’internazionalizzazione, a cui si dedicherà il capito seguente.
A livello aggregato, il crescente numero di factory outlets sta
accrescendo l’importanza del distretto, che attrae nuovi clienti
grazie alla presenza di importanti brands; ciò offre alle piccole
imprese distrettuali di sfruttare l’effetto sinergico derivante dal
canale distributivo in loco (Cipriani, 2012b).
107
6 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL DISTRETTO
CALZATURIERO FERMANO - MACERATESE
6.1 Introduzione
Il distretto calzaturiero ha risposto ai rapidi e continui mutamenti
dell’ambiente internazionale con la riconfigurazione della filiera
produttiva e riposizionamento internazionale (Cipriani, 2012),
assumendo la configurazione di “rete locale integrata in network
globali di produzione, circolazione e utilizzazione delle
conoscenze” (Corò, Grandinetti, 1999, pp. 903 e ss.)
Come risposta al mutato contesto competitivo le imprese hanno,
infatti , ridefinito le proprie strategie: tuttavia, va considerato che
non tutte intraprendono quel percorso di delocalizzazione della
produzione che contribuisce al venir meno di attività labour-
intensive della filiera, bensì sfruttano maggiormente il network di
relazioni di subfornitura precedentemente instaurato, al fine di
offrire un prodotto di elevata qualità e di quel valore simbolico
insito nel Made in Italy .
L’internazionalizzazione rappresenta il fattore chiave di successo
del distretto , che presenta un elevato tasso di penetrazione sui
mercati esteri (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) .
Nel presente capitolo si vogliono indagare le modali tà di
internazionalizzazione delle imprese del distretto fermano –
maceratese, supportando dati e ricerche con interv iste rivolte ad
alcuni operatori locali. Si possono, dunque, individuare due
modalità ri levanti di espansione estera: le esportazioni e la
delocalizzazione produttiva.
Il primo capitolo analizza la performance esportativa del distretto:
secondo elaborazioni di Assocalzaturifici su dati Istat - Coeweb le
province di Fermo e Ascoli Piceno sono le prime province italiane
per esportazioni di calzature espresse in valore, mentre la
provincia di Macerata è quinta.
108
Nel paragrafo successivo si analizza la delocalizzazione
produttiva, le sue implicazioni e la scelta strategica alternativa,
concludendo con alcune considerazioni sull’efficacia dei due
percorsi e sugli effetti nell’equilibrio distrettuale.
6.2 Esportazioni
La forte tendenza delle imprese distrettuali al le esportazioni è un
“antico patrimonio” (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) , che nel
tempo si è accresciuto notevolmente .
Le imprese che operano s ia sui mercati nazionali che esteri
risultano abili nella differenziazione della produzione, che
consente l’adattamento del la produzione alle caratteristiche
economiche, sociali e di tendenza dei diversi mercati (Morganti ,
2007).
Tabella 14 Esportazioni italiane di calzature (CB152 Ateco 2007) nel mondo per province
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat - Coeweb, Assocalzaturifici (2013) www.assocalzaturifici.it
La performance esportativa del distretto si può osservare
direttamente dai dati Istat – Coeweb riportati in tabella 14 relativi
all’esportazione di calzature delle province i tal iane: secondo i dati
del 2012, Ascoli Piceno e Fermo sono, infatti, al primo posto con
una quota parte del 13,9% delle esportazioni italiane, mentre
Macerata è al quinto posto con il 5,2%. Va rilevato, inoltre, che le
esportazioni delle due province sono aumentate in valore assoluto,
ma risulta accresciuta anche la quota parte. Dal 2012 al 2011 le
esportazioni di calzature da Fermo, Ascoli Piceno e province sono
109
cresciute del 6,6%, mentre da Macerata e provincia del 3,6%;
inoltre, la quota parte delle esportazioni rispetto al totale italiano è
cresciuto rispettivamente dello 0,6 % e dello 0,1%.
Figura 16 Esportazione di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dalle Marche per
destinazione
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it
Si considerano per semplicità come esportazioni del distretto le più
generali esportazioni marchigiane; la semplificazione non invalida
i risultati , poiché le altre due province marchigiane contribuiscono
in maniera irrisoria alle esportazioni di calzature : nel 2012, ad
esempio, il contributo alle esportazioni regionali delle due
province di Pesaro e Urbino e Ancona è stato del 3 %, secondo dati
Istat – Coeweb.
Secondo quanto emerge dai dati Istat riportati in figura 16, n el
tempo le quote parte di esportazione di calzature marchigiane
relative ai singoli paesi si sono andate modificando, a causa
principalmente del quadro economico generale. Nel 2009, con
l’inasprimento della crisi , il calo di esportazioni è attribuibile in
particolar modo al calo della domanda globale, m entre con la
ripresa si può notare che in valore assoluto la domanda proveniente
da tutti i paesi è aumentata. Va rilevato, inoltre, l’aumento in
termini percentuali della quota parte di esportazioni dirette ai paesi
asiatici che dal 7 % del 2005 ha raggiunto il 14 % nel 2012; si
110
osserva, inoltre, la progressiva riduzione in termini percentuali del
contributo dell’Europa che dall’81 % è passata al 76 %.
Secondo dati Istat - Coeweb, i paesi di destinazione delle
esportazioni di calzature marchigiane nel 2012 sono la Federazione
russa con una quota parte del 18% , Germania per l’11%, Francia
per il 10%, Stati Uniti per il 6% e Belgio per il 5%. La Russia
rappresenta per la regione un mercato strategico: quasi il 50 %
delle esportazioni di calzature italiane dire tte in Russia proviene
dalle Marche; è, inoltre, un mercato molto dinamico : la domanda di
calzature marchigiane da parte della Federazione russa ha, infatti,
registrato un tasso di crescita dal 2010 al 2012 del 41,4 % .
Un altro fenomeno da rilevare è la presenze delle calzature
marchigiane in mercati di prossimità, mentre risulta più
difficoltosa la penetrazione in mercati più lontani, ma anche più
strategici nel lungo termine, quali Canada, Cina, India, Brasile
(Sciuccati , 2012).
Figura 17 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dalle province di
Ascoli Piceno, Fermo e Macerata al resto del mondo
Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.istat.coeweb.it
Il t rend delle esportazioni del distretto riportato in figura 17
risulta altalenante: rispecchia l’andamento delle esportazioni
italiane, tuttavia le rette che interpolano la curva risultano più
inclinate. Nell’ultimo decennio si hanno due minimi: il prim o nel
111
2004, per via dalla crisi che stava vivendo il distretto a causa
dell’aumento della concorrenza internazionale e, dunque, delle
numerose cessazioni di attività, della delocalizzazione di intere
lavorazioni (Morganti, 2007), mentre il secondo nel 2009 , in
concomitanza con la recessione globale. Attualmente, le
esportazioni hanno raggiunto i livelli pre -crisi .
Figura 18 Quota di esportazioni dei distretti della moda
Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011
Dall’indagine sui dodici distretti della moda, riportata in figura 18,
il distretto calzaturiero marchigiano risulta, insieme a quello
dell’occhiale di Belluno, essere fortemente orientato alle
esportazioni: le 229 imprese distrettuali intervistate dichiarano che
la quota destinata all’esportazione è pari all’80 % (Distr etti
Italiani, Unicredit , 2011); risulta essere il distretto più
internazionalizzato d’Italia (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).
6.3 Internazionalizzazione produttiva
Negli ultimi anni si assiste ad un mutament o dei rapporti tra
imprese distrettuali , che seguono due direzioni principali diverse:
la delocalizzazione di fasi della filiera produttiva a basso valore
aggiunto oppure l’intensificazione dei rapporti distrettuali tra
imprese committenti e subfornitrici (Cutrini , Micucci, Montanaro,
2013).
Si analizza ora la ridefinizione della filiera produttiva e la
ricollocazione internazionale che hanno coin volto i l distretto
nell’ultimo trentennio .
112
Tabella 15 Filiera delle calzature e localizzazione prevalente
Fase Descrizione
Localizzazione prevalente
Pre –
delocalizza-
zione
(fino alla fine
degli anni
Ottanta –
inizio anni
Novanta)
Prima
delocalizza-
zione (anni
Novanta,
inizio
Duemila)
Seconda
delocalizza-
zione (2005-
2010)
Preparazione
del modello e
del
campionario
Creazione
prototipo:
traduzione dell’idea
dello stilista –
modellista in
prodotto da lavorare
in serie
Distretto
(imprese
finali)
Distretto
(imprese
finali)
Distretto
(imprese
finali)
Ingegnerizza-
zione del
prodotto
Raccogliendo le
richieste del
mercato, si
apportano
modifiche al
prototipo
Distretto
(imprese
finali)
Distretto
(imprese
finali)
Distretto
(imprese
finali)
Taglio della
tomaia
Utilizzo di
macchinari a taglio
laser; per i pellami
pregiati è a volte
richiesto ancora il
taglio a mano dei
tagliatori esperti
Distretto
(imprese
intermedie)
Distretto
(imprese
intermedie)
o Europa
Centro -
orientale
Distretto o
Europa
Centro –
orientale /
Asia
Preparazione
della tomaia
I pezzi di pellame
tagliati, prima della
fase di orlatura,
devono essere
ridotti di spessore o
devono subire un
processo di
sgrossatura del
bordo (scarnitura)
Distretto
(imprese
intermedie)
Distretto
(imprese
intermedie)
Distretto o
Europa
Centro –
orientale/
Asia
Orlatura
della tomaia
L’orlatura consiste
nel cucire insieme i
pezzi della tomaia
che, in alcuni casi,
devono essere
preincollati
Distretto
(imprese
intermedie)
Europa
Centro –
orientale
(Romania,
Bulgaria) e
Africa
Mediterra-
nea
(Tunisia)
Europa
Centro –
orientale ma
sempre più
Asia (Cina,
Vietnam)
113
Preparazione
del fondo
Richiede
l’assemblaggio di
una serie di
componenti quali
suole, tacchi e
accessori vari, di
solito fabbricati
presso aziende
subfornitrici.
La preparazione
della suola consta di
operazioni quali:
tranciatura del
cuoio,
ugualizzatura,
fresatura, eventuale
trattamento termico
e incollaggio del
guardolo,
carteggiatura e
rifinitura
Distretto
(imprese
intermedie)
Distretto
(imprese
intermedie)
Distretto e
Asia (Cina)
Montaggio
La tomaia e il fondo
(suola, sottopiede,
tacco) vengono
unite insieme
utilizzando tecniche
diverse (lavorazione
ad ago, lavorazione
blake, lavorazione
ideal)
Distretto
(impresa
finale o
imprese
intermedie)
Distretto
(impresa
finale o
imprese
intermedie)
Distretto /
Asia ed
Europa
Centro –
orientale
Finissaggio e
imballaggio
La calzatura viene
rifinita e ad essa
vengono aggiunti
ulteriori accessori.
La scarpa viene poi
lucidata e
inscatolata
Distretto
(impresa
finale)
Distretto
(impresa
finale)
Distretto /
Asia ed
Europa
Centro -
orientale
114
Marketing e
vendite
Il prodotto finito
viene collocato sul
mercato, supportato
da particolari
strategie
commerciali
Distretto
(impresa
finale); le
risorse
destinate al
marketing e
commercia-
lizzazione
erano
comunque
marginali in
questo
periodo
Distretto
(impresa
finale)
Distretto
(impresa
finale):
varie
imprese
leader
investono
crescenti
risorse per
il marketing
e la
commercia-
lizzazione
Fonte: Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013, pp. 8-9
Alla fine degli anni Settanta tra le imprese del fermano -
maceratese vi è la tendenza ad esternalizzare alcune fasi della
filiera produttiva a terzisti e subfornitori distrettuali al tamente
specializzati : la divisione del lavoro consente rapidità nelle
consegne, qualità, ma soprattutto flessibilità tale da consentire la
risposta alla differenziazione della domanda; dopo un decennio , la
“disintegrazione verticale” del processo produttivo a livello
distrettuale è conclusa (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).
Dagli anni Novanta si assiste alla delocalizzazione di lavorazioni
ad alto contenuto di lavoro non qualificato (taglio e orlatura della
tomaia) in paesi a basso costo della manodopera - Romania,
Bulgaria e Serbia - (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) , mutando
gli assetti organizzativi delle imprese e creando nuovi network
produttivi (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013). Secondo alcuni
autori (Conti, Cucculell i, Paradisi , 2004), la consistente cresc ita
della domanda e, dunque, la necessità di garantirne adeguata
copertura in termini di capacità produttiva e di flessibilità
spiegano l’esternalizzazione delle fasi produttive al di f uori dei
confini aziendali , pur rimanendo in ambito locale; tuttavia nella
seconda metà degli anni Novanta, l’inasprimento della concorrenza
ha accresciuto il ricorso all’estero per quelle fasi già
esternalizzate. Alcuni autori, tuttavia, individuano nell’esigenza
115
della riduzione dei tempi di lavorazione, nelle piccole dimensioni
dei lott i e nel difficile controllo della qualità i limiti alla
delocalizzazione produttiva (Alessandrini , Canullo, 1997).
Negli ultimi dieci anni la delocalizzazione si intensifica: aumenta
sia il numero di paesi in cui le fasi della filiera vengono decentrate
sia le fasi delocalizzate. Ai paesi dell’Europa Centro – orientale e
alla Tunisia si aggiungono i paesi asiatici, in parti colare Cina e
Vietnam; al taglio e all’orlatura della tomaia si aggiungono la
preparazione della tomaia, del fondo e il montaggio (Cutrini ,
Micucci, Montanaro, 2013) . La delocalizzazione ha indebolito
inevitabilmente le fasi della filiera produttiva caratt erizzate da
maggior standardizzazione delle procedure e minor valore aggiunto
(Morganti, 2007), tuttavia ha consentito a lle imprese finali di
impiegare il personale e le risorse finanziarie nelle attività, quali
progettazione, marketing, commercializzazion e e strategia (Cutrini ,
Micucci, Montanaro, 2013). Alcune imprese intermedie sono
scomparse mentre altre hanno risposto alla delocalizzazione
svolgendo attività che richiedono una maggiore qualificazione e
che consentono di valorizzare il patrimonio distre ttuale di
conoscenze (Morganti, 2007) , dotandosi a loro volta di subfornitori
e contoterzisti e avanzando lungo la catena del valore: tale
processo ha permesso alle nuove imprese intermedie di divenire
imprese finali (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).
Dagli anni Duemila , tuttavia, si registra i l rientro delle lavorazioni
precedentemente delocalizzate (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) ,
poiché, come emerge da un’intervista, per le produzioni labour-
intensive “occorre una manualità di un certo tipo” (Mor ganti ,
2007, p. 65); secondo alcuni autori, come risposta alle difficili
condizioni di mercato si riportano in loco , se non addirittura
internamente all’azienda, quelle attività considerate fondamentali
per il vantaggio competit ivo (Conti, Cucculelli , Para disi , 2004): lo
scopo insito nel localizzare nuovamente in ambito locale la
produzione è il riposizionamento su fascia medio – alta e, dunque,
la ricerca di qualità, affidabilità e collaborazione (Cutrini,
116
Micucci, Montanaro, 2013) . Cleto Sagripanti , presidente di
Assocalzaturifici e Amministratore Delegato di Manas in
un’intervista afferma che , sebbene il mercato italiano sia in crisi,
il posizionamento del distretto nella fascia medio - alta consente di
rispondere alla domanda proveniente dai mercati este ri in crescita,
quali Russia, Estremo Oriente, America e Medioriente (Il Sole 24
Ore, 27 settembre 2012).
Occorre, però, rilevare che le produzioni che sono rientrate in
Italia non sempre e non necessariamente sono gestite da ital iani:
molti tomaifici di Monte Urano, ad esempi, sono gestiti da cinesi i
cui prezzi sono inferiori a quelli applicati alle produzioni
provenienti dell’Est Europa (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).
Figura 19 Multi-localizzazione produttiva dei distretti della moda
Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011
L’indagine di Distretti Italiani e Unicredit (2011) , riportata in
figura 19, conferma la forte propensione delle imprese distrettuali
alla multi - localizzazione produttiva, soprattutto per quanto
riguarda il posizionamento di prodotti su fascia medio -bassa che
soffrono la competizione dei paesi low-cost .
Va rilevato che il ricorso a reti lunghe di fornitura consente alle
imprese di migliorare quel rapporto qualità -prezzo, che le rende
più competitive sia sul mercato nazionale che internazionale ,
tuttavia può risultare un rischio, poiché viene meno
l’interdipendenza tra imprese locali e parte dell’ampio sistema del
valore a l ivello distrettuale (Morganti, 2007).
117
Tabella 16 Importazioni di calzature (CB152 Ateco 2007) nelle Marche per paese di
provenienza
Fonte: nostre elaborazioni su dati Coeweb – Istat www.istat.coeweb.it
Osservando i dati relativi alle importazioni riportati in tabella 16
emerge che le calzature marchigiane sono importate
prevalentemente da Romania per una quota parte pari a 33,23 % nel
2012, Bulgaria per i l 13,45 % e Cina per il 12,64%: buona parte
dell’import può essere spiegata dalla delocalizzazione produtti va.
Si nota, inoltre, che le importazioni sono diminuite, probabilmente
a conferma dell’obiettivo di upgrading qualitativo: i paesi che ne
hanno sofferto maggiormente sono India, Tunisia, Serbia e
Romania; di contro, risulta in aumento la domanda di calzat ure
cinesi .
Si rileva, tuttavia, che il ricorso a traffico di perfezionamento
passivo a livello di distretto è di molto inferiore rispetto ad altri
distrett i calzaturieri: secondo un’analisi che coinvolge i distretti di
Fermo e Macerata, Barletta, Lecce, Brenta, Treviso, Verona, il
ricorso alla delocalizzazione produttiva è inversame nte
proporzionale all’orientamento alle esportazioni (Amighini,
Rabellotti, 2003).
La modalità di delocalizzazione produttiva di maggior frequenza è
il ricorso a subcontrat ti; per quanto riguarda le collaborazioni con
l’estero, queste sono soprattutto partnership commerciali, tuttavia
vi sono pure alcuni casi di joint venture con soci esteri , soprattutto
nei casi di delocalizzazione delle fasi produttive che apportano una
quota ri levante di valore aggiunto (Distretti Italiani, Unicredit,
118
2011). Il raro ricorso a forme di collaborazione commerciale
riguarda principalmente linee di prodotto complementari e d è
frutto di esigenze dei canali distributivi (Alessandrini, Canullo,
1997).
Tabella 17 Imprese estere partecipate da marchigiane per paese; fabbricazione di articoli in
pelle e simili; anni 2005 e 2011
Paesi 2005 2011
Paesi UE – 15 1 2
Altri paesi UE 23 26
Altri paesi Europa centro - orientale 7 16
Africa settentrionale 2 2
America centrale e meridionale 2 2
Asia centrale 1 2
Asia orientale 4 4
Totale 40 54
Fonte: elaborazioni da Banca dati Reprint, Politecnico di Milano – ICE www.ice.gov.it
Vi è un limitato ricorso all’internazionalizzazione con forme più
evolute sia a causa dei limiti dimensionali della maggior parte
delle imprese sia poiché è impossibile replicare esternamente la
rete di relazioni, il know-how , la cultura locale sedimentata tra
imprenditori, lavoratori e popolazione (Morganti, 2007).
Il percorso intrapreso dalle aziende marchigiane alternativo alla
delocalizzazione è l’esternalizzazione produttiva, rimanendo, però,
all’interno dei confini aziendali . Il mutato contesto compet it ivo ha
implicazioni sulle relazioni di subfornitura tra imprese che
diventano sempre più intense , di più lungo periodo, ma anche
caratterizzate da una connotazione più gerarchica , dunque di
maggior controllo (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013). La
motivazione insita in tale scelta strategica è la garanzia
dell’upgrading qualitativo, tale da consentire una maggiore
competitività e migliori risultati in termini di performance sia
nazionale ma soprattutto internazionale.
Risultano interessanti in questo ambi to i risultati di un’indagine
empirica svolta da Cutrini, Micucci e Montanaro (2013) su un
campione di 140 aziende del distretto in due periodi 2003 – 2007 e
119
2003 – 2009. Si individuano due percorsi differenti: il primo di
focalizzazione sulla qualità e il secondo di focalizzazione sui costi.
Investimenti nel marchio, in ricerca e sviluppo, in reti commerciali
sono alla base della differenziazione qualitativa a cui le imprese
fanno corrispondere un più elevato prezzo di vendita. Il
contenimento dei costi di produzione è, in genere, accompagnato
dalla delocalizzazione all’estero. La ricerca dimostra che il focus
sulla qualità ha effetti migliori sia nel periodo pre -crisi sia negli
anni di recessione: nel primo periodo la differenziazione
qualitativa ha consentito una crescita maggiore del valore
aziendale, mentre durante la crisi la minore probabil ità di uscire
dal mercato.
Va, infine, rilevato che il duplice percorso di delocalizzazione e di
focalizzazione sulla qualità ha effetti sull’assetto del distretto, di
cui, tuttavia, non se ne può prevedere la fine: l’indebolimento
causato dal progressivo trasferimento di alcune fasi della fi liera
produttiva è accompagnato dal rafforzamento di altre funzioni,
quali progettazione, miglioramento qualitativo, marketing, vendita.
Si sta passando così da un “distretto di produzione”, di cui si
esalta l’efficienza della filiera, ad un “distretto di prodotto”,
focalizzato su fasi a maggior valor aggiunto correlate alle
caratteristiche di unicità e qualità (Cutrini, Micucci, M ontanaro,
2013).
6.4 Casi aziendali
Si analizzano tre casi aziendali frutto di interviste svolte sulla base
di un questionario predefinito , con lo scopo di analizzare il trend e
le strategie di internazionalizzazione. Sono state selezionate tre
aziende distret tuali che operano su mercato finale, in particolare
nel segmento donna e che hanno una cl asse dimensionale tale da
consentirne la classificazione come piccole e medie imprese; ex-
ante si è verificata tramite le informazioni reperite sui siti
aziendali la presenza sui mercati esteri .
120
6.4.1 Boccaccini SpA
L’azienda Boccaccini rappresenta un noto caso di successo nel
panorama distrettuale: è un’azienda di medie dimensioni con circa
ottanta dipendenti e una classe di fatturato tra 15 e 20 milioni di
euro, con sede nel comune di Porto Sant’Elpidio; si occupa della
produzione di calzature, abbigliamento e accessori per il segmento
donna di fascia alta di mercato.
Nasce come piccola azienda calzaturiera a conduzione familiare nel
1959, in quello che per il distretto è i l periodo di escalation
art igiano – industriale.
La raffinatezza, la ricercatezza e l’innovazione continua del
prodotto fanno sì che l’azienda si posizioni sin da subito nella
fascia alta del mercato.
La svolta nelle polit iche di marketing si ha negli ann i Ottanta con
lo sviluppo in proprio del brand “L’Autre Chose” che da un lato
richiama volutamente l’idea di cambiamento, dall’altro consente di
consolidare la posizione di vantaggio competitivo nei mercati
nazionali ed internazionali . La fascia di mercato servita rimane
quella alta, ma lo stile si fa più giovane, più creativo, con una
lieve nota nostalgica.
La risposta del mercato è subito positiva sia in Italia che all’estero
grazie alla capacità di coniugare l’alta qualità delle Griffes con un
prezzo relativamente più basso.
Un altro step fondamentale che ne sta decretando il successo
attuale, soprattutto in termini di aumento di fatturato, è la
diversificazione di prodotto: nel 2005 alla produzione di calzature
si è affiancata quella di abbigliamento, bo rse ed accessori .
Oggi l’azienda conta circa 500 clienti multibrand in tutto il mondo
e quattro monobrand , presenti a Roma, Cortina d’Ampezzo, Milano
Marittima, Bologna e uno in prossima apertura a Milano.
Il brand comunica lo stile creativo dell’azienda, i cui must sono
qualità, stile e colore, e ne conferisce quell’unicità di direzione
che consente la fidelizzazione del cliente.
121
La qualità della produzione deriva sia da elementi tangibili , quali
accurata selezione dei materiali, sia intangibili, quali il valore
intrinseco del Made in Italy . La produzione è, infatti, tipicamente
svolta in Italia: in particolare, nello stabilimento produttivo di
Porto Sant’Elpidio per le calzature e in un laboratorio a Faenza per
il tessile. L’azienda svolge internamente le lavorazioni ad alto
valore aggiunto, esternalizzando a livello nazionale solo alcune
attività labour – intensive , non ricorrendo, così , a delocalizzazione
produttiva, coerentemente con la strategia di focalizzazione sulla
qualità.
I rapporti che l’impresa ha con l’estero, dunque, non sono di tipo
produttivo, bensì esclusivamente commerciale.
Le modalità di internazionalizzazione commerciale negli anni si
sono modificate con il fine di essere i l più vicino possibile al
cliente finale, dati i vincoli di budget.
Le scelte strategiche internazionali sono continuamente riviste,
rimanendo in linea con l’approccio al miglioramento continuo che
caratterizza tutte le attività dell’azienda.
I maggiori mercati di sbocco sono Germania, Olanda, Belgio,
Francia, Giappone, Russia e Stati Uniti , che vengono serviti con
esportazioni dirette.
La presenza in Germania era garantita da personale di una GmbH
che gestiva uno show-room in un fashion mall con altri brands,
tuttavia difficoltà di coordinamento, limiti nella gestione d el flusso
di clienti e vincoli di spese hanno implicato la revisione delle
scelte strategiche. Ora, infatti, il mercato tedesco è servito da
agenti plurimandatari a Düsseldorf e vi è in progetto l’apertura a
breve di un negozio monobrand .
Una collaborazione di successo si ha nel mercato olandese e belga
grazie alla corrispondenza tra offerta e domanda: la distribuzione,
iniziata cinque collezioni fa, risulta triplicata se non quadruplicata.
La presenza in Giappone, paese in cui si commercializzano
principalmente le calzature, viene gestita da personale interno di
nazionalità giapponese, direttamente dallo show-room di Milano.
122
Inoltre, in occasione della settimana della moda in giugno e
gennaio a Tokyo viene affittato uno show-room.
La Russia viene servita tramite un agente di base a Milano; la
domanda proveniente dal paese è principalmente di calzature,
mentre vi sono barriere in termini di preferenze locali per quanto
riguarda l’abbigliamento.
Gli Stati Uniti sono il paese in cui si riscontra un calo del la
domanda, la cui causa è attribuibile principalmente a fattori
esterni, in particolare all’attuale recessione. Il freno di acquisto
degli ultimi cinque anni impone all’impresa la revisione della
scelta strategica ottimale, valutando costi e benefici dell e singole
opportunità.
Ulteriori presenze estere vengono gestite dallo show-room di
Milano.
La percentuale di fatturato che si realizza tramite esportazioni
risulta essere del 40%, di cui il 24 % in Europa e il 13 % in
Giappone.
La strategia che si sta implementando è il rafforzamento e la
concentrazione della presenza estera, strategia che si concretizzerà
con l’apertura a breve termine di un flagship store in Francia, il
riallacciamento dei rapporti con la Spagna, l’apertura di un
negozio in Germania.
Il ricorso a flagship store ha un’implicazione notevole in termini
d’immagine, perché ne contribuisce il rafforzamento e, dunque, la
strategia di differenziazione qualitativa intrapresa dall’azienda.
Per quanto riguarda il marketing mix , l’attenzione riservata al
cliente porta inevitabilmente con sé la strategia di adattamento,
piuttosto che la standardizzazione. L’ampia offerta è volta alla
soddisfazione di vari tipi di esigenze; soprattutto per quanto
riguarda il comparto delle calzature nella collezione vie ne proposta
una vasta scelta che spazia e copre necessità dei clienti di vari
paesi. Per rispondere alle richieste del mercato estero si
sposteranno gli efforts sulla pre-collezione.
123
Lo spirito innovativo emerge anche in materia di promozione, su
cui si stanno effettuando i primi investimenti: in particolare si è
appena concluso il progetto di restyling del sito web, in cui risulta
potenziato l’e-commerce , sono in progetto sia investimenti in
progetti sulla rete social e una campagna adv; anche in materia di
promozione l’attenzione al cliente comporta l’adattamento che si
concretizza con la geolocalizzazione.
Come già osservato precedentemente, i canali distributivi vengono
adattati per ogni paese strategicamente ri levante.
Il prezzo, la quarta componente del marketing mix , può essere una
barriera su alcuni mercati , in termini di valuta o in termini di
percezione del prezzo rispetto al prodotto: in determinati paesi,
infatti , la cultura di corrispondere un premium price per il valore
aggiunto del prodotto è meno insita rispetto ad altri.
Concludendo, se agli albori l’impresa ha sfruttato il network di
relazioni distrettuali per avviare e sviluppare il processo di
internazionalizzazione, non si può dire lo stesso degli ult imi anni,
in cui l’impresa opera all ’estero in totale autonomia. La capacità
dell’azienda di dist inguersi sin da subito ne ha determinato il
successo e l’allontanamento dallo stereotipo distrettuale di impresa
calzaturiera, bensì di impresa globale che offre un total look , in
grado di rispondere alle esigenze del cliente.
6.4.2 Donna Soft Srl
Donna Soft nasce a Civitanova Marche nel 1984 come frutto del
progetto condiviso di tre uomini che avevano maturato esperienze
nelle botteghe artigiane distrettuali.
Oggi è un’azienda di piccole dimensioni, che conta circa
trentacinque dipendenti; si occupa della produzione di calzature di
qualità medio- alta per donne.
Il prodotto è un Made in Italy sia per produzione sia per le
caratteristiche di qualità, comfort ed eleganza. La produzione è,
infatti , svolta in Ital ia: il montaggio e il finissaggio sono svolti in
azienda; per il taglio e l’orlatura si ricorre a rapporti di
124
subfornitura, che, occasionalmente, sono stati delocalizzati in
paesi a basso costo della manodopera, in particolare in Romania.
L’esterna lizzazione internazionale non fa rinunciare alla qualità
del prodotto, poiché le fasi della filiera produttiva delocalizzate
sono standardizzabili, per cui non occorrono conoscenze
specifiche; inoltre, non fa rinunciare all’etichettatura Made in
Italy , poiché in Italia avviene l’ultima trasformazione sostanziale
che ne conferisce l’origine non preferenziale, quindi l’indicazione
Made in .
I rapporti con l’estero non si esauriscono in ambito produttivo, ma
si instaurano anche rapporti commerciali. Il mercato di
destinazione del prodotto finito è prevalentemente l’Italia, tuttavia
si stanno adottando strategie che consentono l’acquisizione di una
maggiore quota dei mercati esteri.
Le modalità di internazionalizzazione a cui si ricorre sono le
esportazioni indirette, tramite importatori che acquistano un
minicampionario, e le esportazioni dirette, tramite agenti all’estero
a cui si affidano i campionari e si pagano delle provvigioni; il
ricarico dell’importatore risulta superiore a quello dell’agente, a
causa del differente rischio assunto.
Oggi la percentuale di fatturato attribuibile al mercato italiano è
dell’80%, contro il 20 % estero; i mercati serviti sono l’Europa e il
Nord America.
A causa della riduzione della domanda italiana di calzature, in
particolare di qualità superiore, e a causa dei lunghi tempi di
pagamento dei clienti, l ’azienda si sta orientando sempre più sui
mercati esteri , consapevole che occorre un adattamento ai gusti e
alle esigenze dei singoli mercati .
Si riscontrano, inoltre, minori di fficoltà nella penetrazione di
mercati , quali Canada, Grecia e Australia, poiché non ci sono
problemi di adattamento.
Prossimamente l’azienda parteciperà alla più importante fiera di
calzature, “The Micam” a Milano, e, a seguire, “The Micam
Shanghai” e “Obuv Mir Kozhi”, per catturare quote del mercato
125
rispettivamente cinese e russo. Si sta, inoltre, programmando la
presenza alle fiere di Tokyo e Istanbul.
Il rapporto con i l distretto si limita alla fornitura e non alla
condivisione di esperienze o di altre forme di cooperazione; più
che il panorama distrettuale, in materia di internazionalizzazione a
svolgere un ruolo importante è l’Assocalzaturifici , associazione di
categoria che raggruppa i produttori italiani di calzature.
In risposta alla maggiore compet itività internazionale, l’azienda si
sta focalizzando sulla differenziazione qualitativa, in particolare
sulla cura e attenzione nella selezione delle materie prime, dei
pellami e nella realizzazione del prodotto finito.
6.4.3 Norma J. Baker Srl
Norma J. Baker è la prova tangibile che le piccole dimensioni e la
conduzione famigliare non sono un limite al l’espansione
internazionale: presenta, infatti, un’eccellente performance sul
mercato russo.
L’azienda produce calzature per donna di qualità elevata ed oggi
conta circa trenta dipendenti.
Nasce negli anni Quaranta in un piccolo laboratorio artigiano,
producendo sandali estivi con marchio proprio. Successivamente le
condizioni di mercato inducono l’azienda ad operare per conto
terzi; tuttavia, seguendo i consigli di agenti italiani l’azienda
ritorna sui primi passi , producendo calzature con un marchio
proprio, “Gian Mauro”.
La vera svolta si ha con la creazione del brand “Norma J. Baker”,
al quale corrisponde un cambiamento anche nella produzione: si
inizia a produrre per tutte le collezioni, differenziandole
stilisticamente a seconda delle stagioni. Il mercato di riferimento è
esclusivamente quello italiano, di cui sono coperte tutte le regioni.
La presenza all’importante fiera calzaturiera italiana di Milano e
precedentemente Bologna consente all’azienda di incontrare e di
far apprezzare il proprio prodotto alla clientela estera. Si
instaurano, in particolare, rapporti con il Giappone; il fatturato,
126
precedentemente attribuibile interamente al mercato italiano, iniz ia
ad essere realizzato all’estero: la quota parte attribuibile al
Giappone è del 10 %, mentre il restante 90 % all’Italia.
I crescenti problemi sul fronte dei pagamenti in Italia,
l’interruzione dei rapporti con il Giappone e l’incontro con
un’importante cliente russa fanno sì che l’azienda si focalizzi sulla
Russia, uno dei mercati strategicamente rilevanti per il Made in
Italy .
Oggi il forte orientamen to all’export è confermato dalla quote
parte del fatturato attribuibile all’estero; le quote si sono, infatti,
rovesciate: contro il 10 % realizzato ne l mercato italiano, il 90 % è
realizzato all’estero, principalmente in Russia e a seguire Ucraina
e Bielorussia. Si stanno, inoltre, instaurando le prime relazioni con
clienti cinesi.
I mercati esteri vengono seguiti direttamente dal personale
dell’azienda, adeguatamente qualificato e preparato; eventuali
lacune in materia linguistica vengono colmate ricorrendo a
traduttori .
Le modalità concrete con cui l’azienda si affaccia sui mercati
esteri sono la partecipazione a fiere, in particolare alle due
importanti fiere della Russia, una per la collezione
autunno/inverno, l’altra per la collezione primavera/estate, la
presentazione della collezione ai clienti più importanti negli hotels
di Mosca e di altre città e la presenza in show-rooms in Russia,
Ucraina ed altre parti del mondo.
Per quanto riguarda il marketing mix si è assistito ad un
cambiamento di rotta in termini di prodotto: con la penetrazione
nel mercato russo l’azienda ha optato per un forte adattamento
della produzione alle esigenze della domanda; seguendo il
consiglio di un’importante cliente, si è offerto un prodotto che
mancava sul mercato. La blue ocean strategy , coniugata con la
consapevolezza che il mercato ha delle particolari esigenze , ha
consent ito all’azienda di avere immediato successo.
127
I rapidi cambiamenti della domanda russa hanno fatto rivedere
all’azienda la strategia di forte adattamento. Oggi, infatti, il
prodotto ha tutte le caratteristiche del Made in Italy , in termini di
gusto ed eleganza; si è voluto ridare un più ampio respiro alla
collezione che diventa internazionale, vicina ai dettagli moda, ma
con un gusto più sobrio.
In termini di promozioni, il brand è presente nella più importante
testata di moda, “Vogue Russia”; i canali promozionali sono
manifestazioni, fiere, meeting a cui presenziano personaggi dello
spettacolo.
I canali distributivi sono principalmente negozi multibrand ; in
Russia è, inoltre, presente con due monobrand : a Mosca e a
Novosibirsk.
Alla forte internazionalizzazione commerciale si contrappone
l’internalizzazione produttiva: due scelte correlate, poiché la
produzione Made in Italy è alla base della differenziazione
qualitativa che rende più di nicchia le lavorazioni artigianali.
In termini produttivi, infatti , la scelta dell’azienda è quella di
mantenere l’intera filiera produttiva in Ital ia, non ricorrendo
all’estero laddove il costo della manodopera è sì inferiore, ma non
viene garantito lo stesso standard qualitativo. La produzione nella
sua quasi totalità viene svolta all’interno dell’azienda, mentre si
esternalizzano le sole fasi di giunteria e taglio in sedi distaccate
dell’azienda, pur rimanendo all’interno dei confini distrettuali.
L’obiettivo della soddisfazione delle esigenze del cl iente fa sì che
l’azienda non rinunci mai alla qualità; in risposta alla maggiore
competitività in ternazionale, infatti, l ’impresa si adopera per la
continua ricerca di prodotti, cercando di contenere i costi
solamente laddove sono superflui.
I rapporti con l’estero, tuttavia, non si esauriscono in ambito
commerciale, infatt i numerose sono le iniziative sociali. In
Marocco l’azienda ha organizzato a proprie spese un corso tenuto
dalla stilista e dal caporeparto dell’orlatura per far apprendere a
dei ragazzi le tecniche di produzione delle calzature; in Lituania
128
sono state inviate ad un orfanotrofio borse e calzature con cui si è
organizzata una pesca, il cui ricavat o è stato uti lizzato per
migliorare le condizioni dello stesso istituto; in Ucraina si è voluto
insegnare ad alcune famiglie disoccupate i lavori di manovia e di
orlatura, che hanno consentito di trovare lavoro presso un
calzaturificio.
L’impegno sociale rappresenta indubbiamente per l’azienda nella
soddisfazione delle attese degli stakeholders un valore aggiunto,
che merita di essere reso noto .
6.4.4 Casi aziendali a confronto
Tabella 18 Casi aziendali a confronto
Caratteristiche Boccaccini SpA Donna Soft Srl Norma J. Baker
Srl
Modalità Esportazioni
dirette e indirette;
delocalizzazione
produttiva
occasionale
Esportazioni dirette
e indirette;
delocalizzazione
produttiva
occasionale
Esportazioni
dirette
Percentuale
fatturato estero
40% (24% in
Europa, 13% in
Giappone)
20% 90% (Russia)
Penetrazione Ampia Limitata Limitata
Strategia di
marketing
Adattamento Standardizzazione Prima
adattamento ora
standardizzazione
Rapporto
distretto/
espansione
estera
Non rilevato Non rilevato Non rilevato
Fonte: nostre elaborazioni
Come emerge dal confronto tra i casi aziendali in tabella 18, nel
distretto risulta esserci un’eterogeneità tra strategie di
internazionalizzazione di imprese che servono lo stesso segmento.
Nel primo caso si ha una strategia di internazionalizzazione
pianificata ex-ante e continuamente monitorata ed eventualmente
rivista ex-post .
129
Il secondo caso è caratterizzato da una strategia di
internazionalizzazione improvvisata, motivata soprattutto dalla
riduzione costante della domanda e dalle difficoltà di pagamento
dei clienti nazionali.
Il terzo caso, invece, ha intrapreso un percorso di crescita
notevole, focalizzandosi principalmente su un solo mercato
strategico: partendo da un’internazionalizzazione trainata, rivede
continuamente le proprie strategie e le implementa
opportunamente.
I tre casi sono accomunati dalla maggior propensio ne a
internazionalizzazione commerciale, rispetto a quella produttiva,
questo perché il beneficio di reperire fornitori in loco è superiore
al costo di ricerca di fornitori esteri. Tuttavia, occasionalmente e
per le fasi a minor valore aggiunto la Boccacci ni SpA e Donna Soft
Srl ricorrono a subforniture estere.
Altro elemento che accomuna le tre aziende è la consapevolezza
che il rapporto con il distretto si limita ai rapporti di produzione.
131
Conclusioni
Il distretto gioca un ruolo fondamentale sopr attutto per la
possibilità di reperire i fornitori in loco ; non si può affermare,
invece, che il network di relazioni locali favorisce
l’internazionalizzazione, poiché non risulta esserci cooperazione,
bensì quell’individualismo tipico dell’imprenditoria i taliana.
La performance esportativa viene spiegata maggiormente dal
vantaggio competitivo di cui gode il distretto; la fonte del
vantaggio risulta essere la qualità, alla quale sicuramente
contribuisce la rete di forniture locali. Nel tempo, tuttavia, la rete
si è andata modificando, di pari passo con la crescente integrazione
dei mercati che ha favorito il ricorso a subfornitori esteri
soprattutto per attività labour-intensive . Sono le imprese locali
intermedie a soffrire maggiormente la concorrenza dei p aesi dove
il costo della manodopera è minore; la delocalizzazione produttiva
sta, infatti, avviando un meccanismo di selezione che le obbliga a
rivedere le proprie strategie : le alternative strategiche che si
prospettano sono il rafforzamento delle relazio ni con le imprese
clienti , il ricorso a forme cooperative quali le licenze oppure lo
spostamento verso attività sempre più a valle.
La risposta delle imprese finali alla crescente integrazione dei
mercati è indubbiamente l’upgrading qualitativo che le consente di
operare su fasce di mercato in cui non si soffre le concorrenza dei
paesi che offrono prodotti a basso costo. La sfida internazionale,
da un lato, ha visto lo sviluppo di quelle imprese che sono state in
grado di cogliere le opportunità provenienti dall’esternalizzazione
focalizzandosi su attività a più alto valore aggiunto, quali
comunicazione e distribuzione; dall’altro, ha colto impreparate
molte imprese soprattutto quelle che operavano principalmente nel
mercato nazionale e che hanno sofferto, dunque, del calo della
domanda interna. La strategia che accomuna le latecomers sui
mercati esteri è principalmente frutto di un atteggiamento imitativo
e non di una pianificazione ex-ante .
132
Si riscontrano ottime performance nazionali e internazionali
soprattutto per quelle imprese che investono in attività a valle
della catena del valore, quali marketing, comunicazione,
distribuzione, at tività su cui si possono concentrare grazie
all’esternalizzazione di fasi della produzione e alla
delocalizzazione.
Una ri flessione finale viene espressa in merito alle strategie delle
piccole e medie imprese nell’ottimizzazione dello sfruttamento
dell’effetto distretto. Le imprese che stanno soffrendo
maggiormente il calo della domanda nazionale dovrebbero superare
la barriera culturale dell’individualismo e sfruttare maggiormente
le relazioni locali al fine di raggiungere efficacemente i mercati
esteri condividendo sia informazioni, ma anche strutture, quali ad
esempio spazi in fiere, show-room. L’imitazione tout court delle
strategie internazionali può, invece, avere effetti spiacevoli, se
queste non si adattano alle risorse e competenze interne
dell’azienda e alle esigenze del mercato estero. Tuttavia, dai
numerosi casi di successo del distretto le latecomers potrebbero
prendere spunto, investendo maggiormente ed efficacemente nelle
attività a maggior valore aggiunto. Nel nuovo contesto globale, il
miglioramento continuo della produzione non è più sufficiente, ma
occorre poterlo e saperlo comunicare efficacemente.
133
Indice delle tabelle
Tabella 1 Analisi dell’ambiente internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33
Tabella 2 Matrice di transizione: imprese e forme di
internazionalizzazione tra il 2007 e i l 2010 (numero di
imprese; frequenze percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36
Tabella 3 I primi venti esportatori mondiali di merci (in miliardi di
dollari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39
Tabella 4 Investimenti dirett i esteri in uscita: principali paesi
investitori (Valori in miliardi di dollari a prezzi correnti) . 42
Tabella 5 Caratteristiche struttu rali delle imprese per forme di
internazionalizzazione, 2010 .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52
Tabella 6 Imprese esportatrici (a), addetti e relative esportazioni
per classe di addetti – Anno 2010 (valore delle esportazioni
in milioni di euro e composizioni percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
Tabella 7 Aree di destinazione delle att ività decentrate per classi
dimensionali d’impresa (valori in percentuale) . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
Tabella 8 Mercato di destinazione dei prodotti di imprese
distrettuali e non .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81
Tabella 9 Modalità d’internazionalizzazione delle imprese ital iane,
suddivise in distrettuali e non .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
Tabella 10 I settori principali dei distretti industrial i . . . . . . . . . . . . . . . . 90
Tabella 11 Esportazioni per attivit à economica – Anno 2011 (a),
valori assoluti in migliaia di euro e variazioni percentuali 92
Tabella 12 Distribuzione settoriale delle imprese per forme di
internazionalizzazione –Anno 2010 (numero di imprese,
valori percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94
Tabella 13 Sedi di imprese attive e addetti totali nell’attività C152
Fabbricazione di calzature; anno 2010 .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101
Tabella 14 Esportazioni italiane di calzature (CB152 Ateco 2007)
nel mondo per province .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108
Tabella 15 Filiera delle calzature e localizzazione prevalente .. . . 112
Tabella 16 Importazioni di calzature (CB152 Ateco 2007) nelle
Marche per paese di provenienza .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117
Tabella 17 Imprese estere partecipate d a marchigiane per paese;
fabbricazione di articoli in pelle e simili ; anni 2005 e 2011
.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118
134
Tabella 18 Casi aziendali a confronto .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128
135
Indice delle figure
Figura 1 Il diamante di Porter per l’analisi dell’ambiente nazionale
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
Figura 2 Modalità di internazionalizzazione .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22
Figura 3 Esportazioni di beni e servizi (% PIL) in Italia e nel
mondo .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40
Figura 4 Presenza commerciale italiana all’estero. Anno 2010,
intervalli per numero di presenze degli operatori al l’export 41
Figura 5 Flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia ( in
US$) .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42
Figura 6 Importanza delle barriere interne per
l’internazionalizzazione, per classi dimensionali delle PMI,
punteggio medio su scala da 1 (non importante) a 5 (molto
importante), solo per le PMI attive nel contesto
internazionale .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48
Figura 7 Barriere relative all’ambiente di business per le imprese
sui mercati non EU – EEA, per classe dimensionale
(percentuale delle PMI che le considerano importanti) . . . . . . 48
Figura 8 Percentuale di PMI europee impegnate in attività
internazionali , che hanno piani concreti per iniziare le
attività o non del tutto. Per varie modalità di
internazionalizzazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
Figura 9 Quota parte del numero di imprese estere partecipate da
imprese italiane per classe dimensionale .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60
Figura 10 Ripartizione del valore aggiunto del manifatturiero
italiano .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91
Figura 11 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori
(euro) dall’Italia al resto del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
Figura 12 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in quantità
(kg) dall’Italia al resto del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93
Figura 13 Imprese attive nel settore preparazioni e concia cuoio –
fabbricazione articoli da viaggi o (DC19: 1998-2009 Ateco
2002) e fabbricazione articoli in pelle e simili (C15: 2009 -
2012 Ateco 2007) .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100
Figura 14 Estensione delle reti di imprese dei distrett i della moda
.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102
136
Figura 15 Tradizione e riposizionamento dei distretti della moda
.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104
Figura 16 Esportazione di calzature (CB152 Ateco2007) in valori
(euro) dalle Marche per destinazione .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
Figura 17 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori
(euro) dalle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata al
resto del mondo... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110
Figura 18 Quota di esportazioni dei distretti della moda .. . . . . . . . . . 111
Figura 19 Multi -localizzazione produttiva dei distrett i della moda
.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116
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Osservatorio dei Distretti www.osservatoriodistretti.org
Its moda – calzature www.itsmodacalzature.it
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Ringraziamenti
In primis desidero ringraziare la Professoressa Giuri per la
disponibil ità e i preziosi suggerimenti .
Ringrazio le aziende Boccaccini SpA, Donna Soft Srl e Norma J.
Baker Srl; in particolare, ringrazio sentitamente il Dott . Spagnolo
Andrea, la Dott.ssa Perugini Silvia, l’Amministratore Scocco
Claudio e l’Amministratore Iachi ni Mauro per aver collaborato a lla
stesura dei casi.
Last but not least r ingrazio i miei genitori che con il continuo
sostegno e supporto hanno contribuito al raggiungimento di questo
traguardo.