alma mater studiorum - … · globalizzazione e dalle forze provenienti dalle economie ......

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MATRICOLA 586317 ALMA MATER STUDIORUM UNIVERSITÀ DI BOLOGNA SCUOLA DI ECONOMIA, MANAGEMENT E STATISTICA SEDE DI RIMINI CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA DELL’IMPRESA Internazionalizzazione delle piccole e medie imprese. Il caso del distretto calzaturiero fermano - maceratese Relazione finale in Economia e gestione delle imprese PRESENTATA DA RELATORE FEDERICA TOMASSONI CHIAR.MA PROF.SSA GIURI PAOLA SESSIONE II ANNO ACCADEMICO 2012/2013

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MATRICOLA 586317

ALMA MATER STUDIORUM

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI ECONOMIA, MANAGEMENT E STATISTICA

SEDE DI RIMINI

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA DELL’IMPRESA

Internazionalizzazione delle piccole e medie imprese.

Il caso del distretto calzaturiero fermano - maceratese

Relazione finale in Economia e gestione delle imprese

PRESENTATA DA RELATORE

FEDERICA TOMASSONI CHIAR.MA PROF.SSA GIURI PAOLA

SESSIONE II

ANNO ACCADEMICO 2012/2013

3

Sommario

1 INTRODUZIONE ................................................................................... 7

2 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ...................... 11

2.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 11

2.2 GLOBALIZZAZIONE .................................................................................. 12

2.3 INTERNAZIONALIZZAZIONE: PROSPETTIVE TEORICHE ............................... 14

2.4 MOTIVAZIONI ALLA BASE DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE .................... 19

2.5 MODALITÀ DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE .......................................... 21

2.5.1 Esportazioni ................................................................................ 23

2.5.2 Forme di cooperazione ................................................................ 26

2.5.3 Investimenti diretti esteri ............................................................. 28

2.6 CRITERI DI SCELTA TRA MODALITÀ .......................................................... 29

2.6.1 Fattori esterni .............................................................................. 30

2.6.2 Fattori interni .............................................................................. 32

2.7 STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................................... 32

2.8 PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................. 35

2.9 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE ITALIANE: QUADRO GENERALE

38

3 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI ................................ 45

3.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 45

3.2 VINCOLI DELLE PMI ALLA CRESCITA INTERNAZIONALE .......................... 47

3.3 FATTORI ALLA BASE DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................ 49

3.3.1 Fattori esterni .............................................................................. 49

3.3.2 Fattori interni .............................................................................. 50

3.4 MODALITÀ DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................ 52

3.4.1 Esportazioni ................................................................................ 54

3.4.2 Forme di cooperazione ................................................................ 58

3.4.3 Investimenti diretti esteri ............................................................. 58

3.5 STRATEGIE DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................................... 62

3.6 PROCESSO DI INTERNAZIONALIZZAZIONE ................................................. 62

4 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI ......................... 67

4.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 67

4

4.2 NETWORK ANALYSIS ................................................................................ 68

4.3 DISTRETTI INDUSTRIALI ........................................................................... 70

4.3.1 Caratteristiche ............................................................................. 72

4.4 DISTRETTI INDUSTRIALI E INTERNAZIONALIZZAZIONE ............................. 75

4.4.1 Limiti dei distretti ........................................................................ 77

4.5 INTERNAZIONALIZZAZIONE ATTIVA E PASSIVA ......................................... 78

4.5.1 Internazionalizzazione attiva ....................................................... 79

4.5.2 Internazionalizzazione passiva .................................................... 83

5 IL DISTRETTO CALZATURIERO FERMANO-MACERATESE 89

5.1 INTRODUZIONE ........................................................................................ 89

5.2 IL SETTORE CALZATURIERO...................................................................... 89

5.3 IL DISTRETTO CALZATURIERO MARCHIGIANO .......................................... 95

5.4 STORIA ..................................................................................................... 97

5.5 ASPETTI GENERALI ................................................................................. 100

5.6 COOPERAZIONE ...................................................................................... 102

5.7 INNOVAZIONE ........................................................................................ 103

5.8 STRATEGIA ............................................................................................ 105

6 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL DISTRETTO

CALZATURIERO FERMANO - MACERATESE ..................................... 107

6.1 INTRODUZIONE ...................................................................................... 107

6.2 ESPORTAZIONI ....................................................................................... 108

6.3 INTERNAZIONALIZZAZIONE PRODUTTIVA ............................................... 111

6.4 CASI AZIENDALI ..................................................................................... 119

6.4.1 Boccaccini SpA .......................................................................... 120

6.4.2 Donna Soft Srl ........................................................................... 123

6.4.3 Norma J. Baker Srl .................................................................... 125

6.4.4 Casi aziendali a confronto ........................................................ 128

CONCLUSIONI .............................................................................................. 131

INDICE DELLE TABELLE .......................................................................... 133

INDICE DELLE FIGURE ............................................................................. 135

BIBLIOGRAFIA............................................................................................. 137

5

SITOGRAFIA ................................................................................................. 149

RINGRAZIAMENTI ...................................................................................... 151

6

7

1 INTRODUZIONE

Il panorama competitivo attuale, condizionato sempre più dalla

globalizzazione e dalle forze provenienti dalle economie

emergenti, è caratterizzato da continui cambiamenti che impongono

alle imprese di rivedere le l oro scelte strategiche; la stagnazione

della domanda interna, inoltre, rende l’ambiente ancor più ricco di

sfide: l’internazionalizzazione può essere la strategia da

implementare per ottenere un vantaggio competitivo. Questa

opzione strategica non riguarda solo le imprese di grandi

dimensioni, ma anche le PMI, le quali si trovano da un lato a dover

fronteggiare la competizione estera nel territorio nazionale e

dall’altro a poter riorganizzare la propria catena del valore e il

sistema del valore a livello internazionale con relativa facilità

soprattutto grazie alle innovazioni tecnologiche. Scopo del

seguente lavoro è indagare le modalità di internazionalizzazione

delle piccole e medie imprese, poiché queste rivestono un ruolo

significativo nel nostro paese , rappresentando più del 90% delle

imprese attive (Istat, 2012). Si farà, dunque, riferimento al

territorio italiano, nel quale le PMI sono localizzate all’ interno di

cluster che favoriscono l’espansione nel mercato estero.

Il primo capitolo funge da introduzione: dopo un breve excursus

sulle varie teorie e dopo una panoramica sulla situazione attuale

dell’internazional izzazione delle imprese italiane, si indagano le

fonti, le modalità e i processi dell’espansion e su nuove aree

geografiche a livello di singola impresa , ancora in termini

generali, non soffermandosi , dunque, sulla distinzione tra grandi

imprese e PMI.

Nel secondo capitolo si indagano le fonti, le modali tà e i processi

di internazionalizzazione, con riferimento al bundle di risorse,

competenze e conoscenze che contraddistinguono una strategia di

successo delle PMI. Molti autori ne sottolineano i limiti nella

dotazione di risorse, competenze e conoscenze rispetto alle grandi

aziende; tuttavia, secondo analisi empiriche non risulta alcuna

8

correlazione significativa tra dimensione aziendale e performance

esportativa. La let teratura, tuttavia, ha privilegiato lo studio

dell’internazionalizzazione delle imprese di dimensioni maggiori,

trascurando le imprese di minori dimensioni: occorre considerare

che l’approccio all’espansione estera non è il medesimo. Infatti ,

l’espansione estera delle PMI è un fatto, ma non è stata ancora

teorizzata (Caroli, 2000; Quattrociocchi, 2003).

Nel terzo capitolo si analizza la prospettiva reticolare (network

analysis) , la quale afferma che l’espansione nei mercati esteri è

avviata e favorita dall’insieme di relazioni delle imprese piccole e

medie con altri interlocutori. All’interno di questa analisi

assumono, dunque, particolare importanza i distretti , i quali

aiutano le imprese minori a superare il limite dimensionale. Non

manca, tuttavia, chi considera nel distretto un l imite

all’internazionalizzazione, in quanto le imprese riescono a reperire

tutti i fattori produttivi in loco e, a volte, persino i propri clienti .

L’avvento di nuove tecnologie e della crescente integrazione dei

mercati ha imposto di rivedere la tradizionale defin izione di

distretto: si analizzerà, dunque, l’evoluzione del distretto , in

seguito alla globalizzazione, da area geografica con confini

delineati a insieme di relazioni. Nel tessuto industriale italiano i

distrett i giocano un ruolo fondamentale, registrand o segni positivi

anche all’interno dell’attuale recessione globale: secondo le

elaborazioni di Intesa San Paolo, l’export dei distretti industriali

italiani è in crescita da tredici trimestri consecutivi, con

performance superiore rispetto al resto dell’ec onomia (Il Sole 24

Ore, 20 giugno 2013). Tra i settori più performanti risultano quelli

tipici del made in Italy , le cosiddette quattro F , Fashion, Food,

Furniture, Fabricated metal products, machinery, plastic and

rubber products .

Nel capitolo quattro si vogliono indagare le peculiarità del

distretto fermano- maceratese, in cui si svolgono tutte le fasi della

produzione di calzature. È il più grande distretto calzaturiero

italiano, che presenta la più grande concentrazione italiana (ivi

9

risiede il 32,4% delle imprese del settore) ed europea di imprese

del settore: sono presenti circa quattromila imprese, soprattutto

PMI, la maggior parte di queste sono sub -fornitrici di imprese di

grandi dimensioni , le quali svolgono il ruolo di leader, ma il loro

peso è marginale (Cipriani, 2012). Oltre alla possibilità di sfruttare

le economie proprie dei distretti, il vantaggio competitivo risiede

soprattutto nelle risorse e competenze intangibil i: know-how ,

design, creatività, tradizione, cultura.

Nel capitolo cinque si analizza l’internazionalizzazione del

distretto calzaturiero, il quale è caratterizzato da una performance

esportativa notevole: secondo le elaborazioni Assocalzaturifici su

dati Istat, nel 2012, tra le province italiane, Ascoli Piceno – Fermo

detiene la quota parte maggiore di esportazione di calzature (13,9%

dell’export totale di calzature), mentre Macerata è al quinto posto

(5,2%), registrando un incremento della quota parte

rispettivamente dello 0,6% e del lo 0,1% rispetto all’anno

precedente (Assocalzaturifici , 2013). Anche per il distretto in

esame, coerentemente con quanto affermato sulla ridefinizione del

concetto di distretto, si può ri tenere che vi è un’evoluzione delle

relazioni: l’espansione verso mercati esteri ha fatto sì che, da un

lato, si ricorra sempre più a imprese oltre confine, non solo

distrettuale, ma anche nazionale, dall’altro, si potenzino le

relazioni di fornitura già consolidate. Tipicamente sono le imprese

di grandi dimensioni che non si fermano alla modali tà di

espansione sui mercati esteri più semplice e a più basso

coinvolgimento di risorse e competenze, de localizzando le fasi

labour-intensive del processo produttivo. Secondo un’indagine

della Banca d’Italia (Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013), tut tavia,

si stanno riportando all ’interno del distretto alcune delle fasi

precedentemente delocalizzate, al fine di aumentare la quali tà per

riposizionarsi su fasce alte di mercato.

10

11

2 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE IMPRESE

2.1 Introduzione

La crescente integrazione dei mercati e gli svilupp i tecnologici

condizionano notevolmente l’ambiente in cui operano le imprese e

con esso le dinamiche competitive. Se da un lato la globalizzazione

rappresenta un’opportunità grazie alla possibilità di riorganizzare a

livello internazionale la catena e il s istema del valore, dall’altro

può essere vista come una minaccia per via della competizione

sempre più aspra giocata sia a livello locale che globale. Le

imprese per sopravvivere devono rivedere le loro scelte

strategiche, le quali necessariamente impliche ranno un nuovo

approccio all’ambiente competitivo: le imprese possono limitarsi

ad avere un atteggiamento reattivo, reagendo alla competizione

estera all’interno del proprio mercato, oppure proattivo, optando,

cioè, per l’espansione in mercati esteri.

Nel presente capitolo viene studiata l’internazionalizzazione delle

imprese; dopo una breve introduzione sulla globalizzazione,

vengono passati in esame i principali approcci teorici , dalla teoria

del commercio internazionale di Smith alle più recenti teorie

dell’International business , osservando che l’espansione

internazionale rappresenta un fenomeno talmente complesso e

variegato da risultare di difficile modellizzazione: gli approcci

all’internazionalizzazione r isultano estremamente eterogenei e,

dunque, non raggruppabili in un’unica teoria.

Vengono indagati i fattori alla base della scelta di

internazionalizzazione, i quali sono classificabili in interni ed

esterni, a seconda che si riferiscano rispettivamente all’impresa e

all’ambiente in cui opera.

Nel paragrafo successivo si indagano le modalità con cui le

imprese attuano la strategia di espansione internazionale,

suddividendole in base al rischio e al l ivello di coinvolgimento in

termini di controllo e di impiego di risorse e competenze; anche

per le modalità vi sono dei fattori che ne determinano la scelta.

12

Si analizzano, poi, le strategie attuate sui mercati esteri con

riferimento all’offerta: si distingue tra strategie di adattamento e

di standardizzazione che riguardano non solo il prodotto ma anche

il prezzo, la promozione, la distribuzione.

Vengono studiati i processi di espansione internazionale,

analizzando le tre teorie principali , cioè il paradigma eclettico, il

modello di sviluppo per fasi e un accenno al modello reticolare,

che verrà poi ripreso nel capitolo tre.

Si passa, infine, ad una breve panoramica macroeconomica dei

rapporti del nostro paese con l’estero, indagando performance

esportativa e investimenti diretti esteri.

Avendo costruito le basi teoriche, si potranno analizzare le

peculiarità dell’internazionalizzazione delle imprese minori,

obiettivo del secondo capitolo.

2.2 Globalizzazione

La riduzione delle barriere a llo scambio di beni, servizi e capitali e

i cambiamenti tecnologici fungono da driver della globalizzazione,

cioè della crescente integrazione e interdipendenza tr a le diverse

economie nazionali (Hill, 2008). La globalizzazione è un fenomeno

pervasivo che influenza ogni relazione economica e sociale della

vita degli individui e permette la diffusione di conoscenze,

linguaggi, tecniche, prodotti in ogni luogo.

Si possono individuare tre dimensioni della globalizzazione:

- Economica: creazione di un mercato globale in forte

espansione, grazie alla riduzione dei costi di transazione ;

- Culturale: collasso di spazio e tempo, omologazio ne, ma

anche valorizzazione delle differenze;

- Politica: influenza delle istituzioni internazionali e

trasferimento della sovranità circa la poli tica economica .

Dal punto di vista economico, Blanchard (2009) individua tre

dimensioni di apertura:

- Apertura del mercato dei beni, che implica la possibilità di

scegliere tra beni prodotti nel mercato domestico o estero.

13

Sebbene si stiano riducendo, sono presenti vincoli

all’apertura dei mercati dei beni: dazi, ossia tasse sui beni

importati, e quote su alcuni prodotti esteri , ossia restrizioni

su quantità di beni che possono essere importati

- Apertura dei mercati finanziari, che implica la possibilità di

scegliere tra attività finanziarie nazionali ed estere. Vi è una

progressiva integrazione soprattutto grazie alla riduzione

delle restrizioni alla detenzione di attività finanziarie di un

paese terzo.

- Apertura dei mercati dei fattori : possibil ità di scegliere per

le imprese dove localizzare un’attività produttiva e per i

lavoratori dove lavorare. Ciò consente alle i mprese di

diventare multinazionali e quindi sfruttare i vantaggi di costi

o altri vantaggi rinvenibili in altri paesi. Per multinazionale

si intende un’impresa che svolge l’attività produttiva in due

o più paesi.

Vi è un lungo e acceso dibatt ito sulla glob alizzazione: i fautori

sostengono che stimola la crescita, favorisce la specializzazione

della produzione laddove si è in grado di produrre più

efficientemente, importando ciò che si produce con minore

efficienza; mentre secondo gli oppositori distrugge po sti di lavoro

nei settori labour-intensive nei paesi in cui il costo del lavoro è

alto, creandone dove è basso e dove le norme a tutela del

lavoratore e dell’ambiente sono lacunose , dunque accrescendo la

disoccupazione e riducendo gli st andard di vita del paese d’origine

(Hill, 2008).

Non vi è un preciso riferimento temporale sull’avvio della

globalizzazione, poiché rappresenta un processo; alcuni economisti

considerano la caduta del Muro di Berlino come punto di partenza

simbolico della crescente integraz ione, in quanto da un lato viene

meno il sistema di pianificazione economica e dall’altro si

costruisce consenso attorno al modello neo -liberista, ritenendo

l’individualismo di mercato come sola modalità per gestire le

relazioni economiche (Figini, 2010).

14

Keynes fa riferimento alla globalizzazione , affermando che già

prima della prima guerra mondiale :

«Un londinese poteva ordinare per telefono [. . .] i più disparati

prodotti esistenti nel mondo [.. .]; egli poteva, nello stesso

momento e con lo stesso mezzo, arrischiare la sua ricchezza nelle

risorse naturali o nelle nuove intraprese in ogni angolo del mondo

e partecipare, pur senza aver fatto un minimo sforzo, ai frutt i e ai

vantaggi da esse apportati [ . . .] . Egli poteva assicurarsi [ .. .] comodi

mezzi di trasporto a buon mercato, verso qualsiasi clima o paese

[.. .] . Ma, cosa più importante fra tutte, egli considerava questo

stato di cose come normale, del tutto certo e permanente, che nella

direzione di un ulteriore incremento, e ogni deviazione gli

appariva aberrante, scandalosa, da sfuggirsi» (Keynes, 1919).

2.3 Internazionalizzazione: prospettive teoriche

Con la crescente integrazione anche le imprese chiuse nei confini

nazionali si trovano a dover fronteggiare la competizione globale:

l’ambiente “locale” cresce costantemente e porta più grandi

opportunità in termini di mercati più grandi, ma implica anche

minacce in termini di competizione più aspra, complessità e cicli

di vita del prodotto più brevi (Ricci, Cillo, Landi, 2010); è

necessario, dunque, rivedere le scelte strategiche: una via

necessaria per difendere la propria posizione e per competere è

l’internazionalizzazione; con questo termine si intende sia la

consapevolezza che le transazioni internazionali eserciteranno nel

futuro un’influenza diretta e/o indiretta sia lo svolgimento di

transazioni con attori situati in paesi diversi dal proprio (Caroli,

Lipparini, 2002).

Si può affermare che la teoria sull’ internazionalizzazione nasce nel

1960 con le pubblicazioni di Hymer (1960); precedentemente, le

teorie principali fanno riferimento all ’ambito macroeconomico: la

teoria del commercio internazionale e la teoria della bilancia dei

pagamenti (Perrett i, 2003).

15

I flussi commerciali internazionali vengono spiegati attraverso la

teoria del vantaggio assoluto e comparato (Perretti , 2003).

Secondo la teoria del vantaggio , attribuita a Smith, i paesi

dovrebbero esportare ciò per cui hanno un vantaggio assoluto

rispetto a tutte le nazioni (Smith, 1776).

Vi sono due versioni della teoria del vantaggio comparato: la

versione classica, attribuita a Ricardo, e quella di Heckscher e

Ohlin (Perretti , 2003); la teoria si è poi evoluta in nuova teoria del

commercio internazionale, grazie al contributo di Krugman nel

1979.

La teoria ricardiana del vantaggio comparato afferma c he ogni

paese dovrebbe esportare ciò che produce in modo relativamente

più efficiente (Ricardo, 1817).

La teoria del vantaggio comparato di Heckscher e Ohlin suggerisce

che a determinare vantaggi differenti sono le diverse dotazioni di

fat tori tra paesi: quelli che dispongono di un’abbondanza di risorse

dovrebbero esportarle; a determinare lo scambio sono dunque le

dotazioni e non la produttività (Hill, 2008).

La nuova teoria del commercio internazionale afferma che il

commercio è alla base della specializz azione produttiva di una

nazione, grazie alla quale si possono ottenere economie di scala:

all’aumentare dell’output, i costi unitari si riducono più ch e

proporzionalmente (Hill, 2008).

La teoria della bilancia dei pagamenti considera gli investimenti

diretti esteri al pari delle altre forme di investimento, dunque un

mero flusso di capitale ; vengono spiegati dallo spread tra tassi

d’interesse dei paesi (Perretti , 2003).

Negli anni Cinquanta si consolida l’idea che flussi commerciali e

investimenti diretti esteri non sono attribuibil i principalmente a

variabili macroeconomiche, ma è l’espansione estera delle imprese

ad avere un ruolo fondamentale. Il contributo di Hymer (1960) con

la sua teoria delle imperfezioni di mercato e del vantaggio

monopolist ico dà avvio al fi lone teorico firm-based

dell’internazionalizzazione .

16

Hymer (1960) afferma che le imprese estere sostengono costi

superiori rispetto a quelle domestiche: teorizza, infatti, la presenza

di barriere alle operazioni internazionale, cioè dei vantagg i di cui

godono le imprese nazionali nel loro mercato domestico: le

imprese nazionali hanno maggiori informazioni sul proprio paese

riguardo all’economia, lingua, poli tica, leggi; acquisire questo tipo

di informazioni può risultare molto costoso per un ope ratore; ciò

rappresenta un fixed cost . Le barriere possono, inoltre, riferirsi a

discriminazioni del governo, dei consumatori, dei fornitori .

Un’ulteriore barriera è il rischio del tasso di cambio .

Nel determinare i vantaggi che un’impresa estera può aver e in un

mercato non domestico, Hymer (1960) rinvia all ’analisi di Bain , il

quale suddivide i vantaggi in:

- Vantaggio di costo, le cui determinanti sono: controllo delle

tecniche di produzione attraverso brevetti o segreti;

imperfezioni nei mercati dei fattori produttivi che

consentono all’impresa un accesso ad un costo inferiore o,

alternativamente, possesso o controllo di fattori strategici;

condizioni favorevoli di accesso a fattori produttivi;

condizioni finanziarie favorevoli che consentono di ottenere

più bassi tassi d’interesse;

- Vantaggio di differenziazione, le cui determinanti sono:

preferenza dei consumatori rispetto ad un brand e alla

reputazione aziendale; controllo di superiori design di

prodotto; proprietà o controllo di punti di vendita strateg ici .

Confrontando i vantaggi di un’impresa estera in un mercato terzo

con i costi per superare le barriere alle operazioni internazionali,

l’impresa valuta l’attrattività dell’internazionalizzazione.

Il contributo di Hymer (1960) si ha anche in materia di

investimenti dirett i esteri, i quali non sono da considerarsi come

semplice flusso di capitali , ma come trasferimento di un bundle di

risorse e competenze.

Mentre Hymer (1960) analizza l’espansione estera tramite

l’economia industriale, Vernon (1966) utilizza il concetto

17

microeconomico di ciclo di vita del prodotto per spiegare

l’internazionalizzazione delle multinazionali statunitensi del

secondo dopoguerra; risulta, tuttavia, una teoria product-specific ,

quindi non spiega l’espansione all’estero di impr ese diversificate

che presentano un’offerta di più prodotti. L’ipotesi di base è che

imprese localizzate in paesi avanzati godono di un vantaggio

competitivo legato alla loro capacità di innovazione , la quale è

connessa alla localizzazione in paesi con più alto costo del lavoro

e con consumatori con più alto reddito.

Alla base della teoria vi è l’idea che ogni prodotto segue un path ,

suddivisibile in diverse fasi , la cui sequenza è prevedibile. Nella

fase introduttiva la produzione di un nuovo prodotto avvi ene nel

paese di residenza, laddove si colloca la domanda e si può

beneficiare della funzione di R&S. Nella fase di sviluppo, quando,

cioè, l’impresa gode dei vantaggi legati a innovazione e processo,

si avvia l’espansione all ’estero inizialmente tramite esportazione e

successivamente tramite investimenti diretti esteri . N elle ultime

fasi di maturità e declino il prodotto diviene standardizzato, quindi

si ricercano riduzioni di costo con la delocalizzazione della

produzione in paesi in via di sviluppo; il paese innovatore da

esportatore diviene importatore.

Ulteriori contributi alla teoria dell’internazionalizzazione si hanno

con la teoria dei costi di transazione che si affronterà in

riferimento alla scelta della modalità con cui espandersi all’estero ;

un altro fi lone della letteratura teorizza l’approccio

comportamentale o processuale, che verrà analizzato nel paragrafo

relativo al processo di internazionalizzazione : le teorie più

rilevanti sono il modello di sviluppo per fasi, la prospettiva

reticolare e la teoria eclettica .

In ritardo rispetto agli altri ambiti disciplinari , anche l e teorie di

strategic management hanno contribuito allo studio

dell’internazionalizzazione (Perretti, 2003): tra queste s i colloca il

modello di Porter (1990).

18

Porter (1990) coniuga nella sua analisi il concetto di vantaggio

competitivo delle imprese con quello delle nazioni. Le differenze

di valori, cultura, struttura economica , istituzioni, storie delle

nazioni contribuiscono al successo competitivo.

Secondo il modello del diamante nazionale di Porter (fig. 1), i

determinanti del vantaggio competitivo di una nazione riferito ad

un settore sono quattro:

- Le condizioni dei fattori , cioè i fattori di produzione che ha

a disposizione una nazione

- Le condizioni della domanda, cioè la natura della domanda

di beni e servizi nel mercato domestico

- I settori industriali correlati e di sostegno, cioè la presenza o

assenza nella nazione di fornitori o di settori in cui le

imprese coordinano o condividono att ività della catena del

valore

- La strategia, la struttura e la rivalità dell e imprese

domestiche

Ogni determinante è parte di un sistema , soprattutto grazie al ruolo

della rivalità domestica e della concentrazione geografica.

L’effetto di un determinante dipende anche dagli altri e i va ntaggi

di uno possono creare o aumentare i vantaggi di un altro.

19

Figura 1 Il diamante di Porter per l’analisi dell’ambiente nazionale

Fonte: Porter (1990)

L’importanza del modello di Porter consiste nell’aver sottolineato

la necessità di un’analisi congiunta a livello di singola impresa,

singoli settori e di nazione; il modello, tuttavia, presenta dei

limiti, in quanto non fornisce una definizione di “sistema - paese” e

vi è un eccessivo ricorso ad approcci deterministici (Perretti ,

2003).

Concludendo, come si può notare, vi è una molteplicità di teorie e

modelli di internazionalizzazione che si dimostrano incomplete e

che non si coniugano in un’unica teoria (Perretti, 2003).

2.4 Motivazioni alla base dell’internazionalizzazione

La riduzione delle barriere a l commercio, la progressiva rimozione

delle restrizioni agli investimenti esteri ed il cambiamento

tecnologico, agevolato dall’avvento di internet, dall’evoluzione

dell’information technology e delle telecomunicazioni, dalla

pervasività della tecnologia sono i driver della globalizzazione e

quindi dell’internazionalizzazione (Hill, 2008).

Se da un lato la maggior possibilità di accesso a risorse e a

informazioni ha creato una convergenza di culture e stili di vita,

20

dall’altro permangono delle consistenti differenze nazionali .

L’integrazione e l’interdipendenza dell’economia globale hanno

creato le condizioni per una maggiore esposizione delle imprese

alla concorrenza estera e aumentato il livello di competitività.

Thompson, Strickland, Gamble (2009) individuano quattro motivi

principali che spingono le imprese a internazionalizzarsi , i quali

possono essere indicati come fattori interni :

- Accedere a nuovi mercati , soprattutto quando il mercato

domestico ha raggiunto la maturità

- Ridurre i cosi grazie a economie di scala ed economie di

esperienza. Molte imprese, inoltre, ricorrono all’estero

perché attratte dalla possibilità di accedere a ris orse e

competenze a basso costo: i l fenomeno della

delocalizzazione, soprattutto in paesi emergent i in cui il

costo della manodopera è basso ne è la prova. Questo

fenomeno consente alle imprese di focalizzarsi su att ività

produttive a più alto valore aggiunto.

- Ottimizzare lo sfruttamento delle proprie risorse e

competenze, ottenendo un vantaggio compet itivo anche nei

mercati esteri

- Diversificare i l rischio su più mercati

In alcuni casi , le imprese si espandono a livello internazionale per

avere accesso a materie prime localizzate in paesi terz i.

Tra i fattori esterni vi è l’internazionalizzazione “passiva” del

settore, cioè la crescente concorrenza sulle importazioni o

l’ingresso di imprese estere t ramite IDE che spingono le imprese

nazionale ad estendersi oltre confine. Un altro fattore esterno è

l’internazionalizzazione dei concorrenti, che l’impresa p uò

percepire come minaccia e si trova, dunque, nella condizione di

dover agire da follower (Saviolo, 2003).

Occorre, tuttavia, considerare che i fat tori interni ed esterni

rappresentato degli stimoli e, in quanto tali , non determinano

necessariamente l’avvio del processo di internazionalizzazione; gli

stimoli per potersi trasformare in azione devono incontrare un

21

atteggiamento positivo della proprietà o del management (Saviolo,

2003); questo può distinguersi in tre fattispecie:

- Caratteristiche della propr ietà o del management , le quali

includono la formazione, l’origine, l’età, le conoscenze

linguistiche, la capacità di gestione, l’orientamento

all’estero, la percezione del rischio, dei costi e delle

opportunità di profitto sui mercati esteri;

- Caratterist iche dell’impresa , le quali comprendono la

disponibil ità del personale al trasferimento all’estero, la

storia aziendale, le caratteristiche dei prodotti e le eventuali

esperienze internazionali passate;

- Caratteristiche dell’ambiente , le quali includono le

infrastrutture, l’istituzione, le regolamentazioni dei paesi

esteri, le informazioni necessarie per compiere un’analisi dei

paesi esteri, le dimensioni del mercato domestico.

2.5 Modalità dell’internazionalizzazione

Le modalità attraverso cui le imprese si es pandono in mercati

esteri sono essenzialmente due: esportazioni e investimenti diretti

esteri; tra questi due estremi si collocano gli accordi di

cooperazione, i quali sono diventati strumenti sempre più uti lizzati

(Grant, 2011) a causa della crescente tur bolenza dell’ambiente

economico, istituzionale e normativo esterno.

Secondo diversi autori (Caroli, Lipparini , 2002a; Mariotti ,

Mutinelli , 2003; Maiorino, 2006), l e modalità con le quali le

imprese sono presenti sui mercat i esteri si possono ricondurre a

quattro fattispecie (fig. 2), in base al l’intensità di coinvolgimento

e dunque controllo e rischio:

- Esportazione indiretta, at traverso: buyers , esportatori

nazional i , consorzi all’export, importatori esteri , trading

companies ;

- Esportazione diretta , attraverso: personale di vendita

dell’azienda , agenti;

22

- Forme di cooperazione internazionale , at traverso: licensing ,

franchising, consorzi , joint venture;

- Investimenti diretti esteri

Figura 2 Modalità di internazionalizzazione

Fonte: nostra elaborazione da Mariotti, Mutinelli, 2003

La scelta tra le moda lità può avvenire sfruttando l’analis i dei costi

di transazione, teorizzata da Williamson nel 1985 (Grant, 2011). Il

grado di opportunismo, l’incertezza e la frequenza delle

transazioni, l’ambiguità di valutazione della prestazione, la

distanza psichica e la longevità della relazione sono fattori alla

base della scelta tra mercati , gerarchia o forme ibride.

La teoria dei costi di transazione è utile per spiegare il progressivo

downsizing e la rifocalizzazione che ha caratterizzate le imprese

dagli anni ’90: la motivazione è l’aumento dell’efficienza dei

mercati rispetto alla gerarchia; i costi amministrativi interni

all’azienda risultano maggiori dei costi di transazione, poiché la

turbolenza dell’ambiente economico esterno ha aumentato i costi di

amministrazione, mentre gli svi luppi in campo Ict hanno ridotto

quelli di transazione (Grant, 2011).

La teoria è utile non solo per spiegare la riduzione delle

dimensioni aziendali , del l ivello di diversificazione e del livello di

23

integrazione verticale, ma anche per spiegare la scelta delle

modalità di espansione estera.

Applicando, infatti, all’internazionalizzazione il modello secondo

cui, all’aumentare dei costi di transazione è necessario aument are

il grado di controllo, possiamo affermare che all’aumentare della

complessità dello scambio è più efficiente ricorrere a forme di

controllo maggiore.

Occorre considerare che le transazioni su mercati esteri, rispetto a

quelle nel mercato domestico, sono caratterizzate da maggiori

costi, connessi alle differenze economiche, ist ituzionali , culturali

che aumentano le asimmetrie informative e dunque il rischio di

comportamenti opportunistici .

La scelta tra le modalità d’affermazione sul mercato estero è i l

risultato del trade-off t ra grado di controllo ed ammontare di

costi/ livello di rischio (Monti, 2011): le esportazioni richiedono un

investimento minore in risorse e competenze a conseguenza di ciò

risulta un’alternativa più flessibile che espone l’impre sa ad un

rischio più contenuto, tuttavia si ha un controllo più ridotto; al lato

apposto, invece, vi sono gli IDE che necessitano di risorse di più

alto livello, dunque di maggiori costi, di rischio più elevato e di

maggior rigidità a cui corrisponde un maggior controllo.

Molti autori (Caroli, Lipparini , 2002; Esposito, 2003) concordano

sul fatto che le diverse modalità non sono fasi necessarie di un

processo evolutivo: le imprese born global ne sono la conferma.

2.5.1 Esportazioni

Le esportazioni costituiscono secondo diversi autori (Marafioti,

2003) il primo stadio del processo di internazionalizzazione e

quello che spesso precede forme più complesse. Secondo studi

empirici, le esportazioni risultano supportate dagli investimenti

diretti esteri, i quali accrescono il flusso di scambio intra-firm di

beni intermedi e macchinari (Spi garelli , 2001).

Si può dist inguere tra esportazioni indirette e dirette , in base al

grado di coinvolgimento richiesto.

24

2.5.1.1 Esportazioni indirette

L’esportazione indiretta è la modali tà d’in ternazionalizzazione che

implica un minimo grado di risch io, minori costi , una minore

dotazione di risorse o competenze ma anche un minore grado di

controllo; i l rapporto con il mercato estero è limitato e mediato , il

che rende l’impresa più vulnerabile ri spetto al suo canale di

distribuzione, facilmente sostituibile da altre imprese , e più

“lontana psichicamente” al mercato estero (Spigarelli , 2001). Si fa

ricorso ad esportazione indiretta quando si decide di esternalizzare

la funzione commerciale ed affidarla ad operatori autonomi , che

generalmente rivendono la merce acquistata dall’impresa per conto

e per nome proprio, assumendosi dunque i rischi e gli oneri .

Questa modalità è utile per le imprese che si affacciano per la

prima volta in un mercato estero, affidandosi a operatori locali che

conoscono il proprio mercato o a operatori nazionali che

conoscono il mercato estero (Marafioti, 2003). Secondo studi

empirici, è la modali tà con cui nella maggior parte dei cas i si avvia

il processo di internazionalizzazione con un utilizzo limitato di

risorse e capacità (Spigarelli, 2001). I principali intermediari

dell’esportazione indiretta (Maiorino, 2006) sono i buyers

(compratori esteri presenti nel paese con propri agenti d’acquisto) ,

gl i importatori-distributori (imprese commerciali che acquistano la

proprietà dei prodotti per poi distribuirli all’interno del proprio

paese con i l relativo rischio di rivenderlo) , le società di import -

export (società nazionali d’esportazione che acquistano

direttamente la proprietà dei beni) , le trading companies

(compagnie di grandi dimensioni che operano in più paesi acquisti

e vendite, trattano più categorie merceologiche e con più

produttori per lo stesso prodotto: i vantaggi sono legati alla scala)

e i combination export managers .

L’espansione estera tramite esportazioni indirette non offre

l’opportunità di maturare delle conoscenze sul mercato estero e di

monitorare la domanda, dunque non consente di sviluppare

ulteriormente la strategia di ingresso (Marafioti, 2003).

25

2.5.1.2 Esportazioni dirette

Le esportazioni dirette implicano un coinvolgimento maggiore se

confrontate con quelle indirette in termini di risorse, competenze e

grado di controllo, infatti gli intermediari in questo caso operano

in nome e per conto dell’impresa, non acco llandosi i vari rischi di

esportazione (Mariotti, Mutinelli, 2003); è l’impresa a mantenere

la proprietà dei prodotti (Spigarelli , 2001) . I problemi connessi

con la scelta di collaborazione con terzi, così come quelli connessi

con alcuni tipi di partnership, risiedono nelle asimmetrie

informative che implicano una difficoltà nel monitorare la

coerenza delle prestazioni rese con l’accordo, nel costruire la

fiducia e dunque instaurare rapporti stabili e duraturi (Mariotti,

Mutinelli , 2003). Le esportazioni di rette, tuttavia, offrono diversi

vantaggi, tra cui controllo parziale o completo del prezzo, della

distribuzione, migliore protezione di marchi, brevetti e altri

intangibile assets (Marafioti, 2003); un ulteriore elemento di

vantaggio è il maggiore contatto con i l mercato (Spigarelli, 2001) .

I principali soggett i dell’esportazione diretta sono gli agenti

monomandatari e plurimandatari , i broker , personale interno

all’azienda , tra cui i rappresentanti, i dipendenti che si occupano

di vendita diretta al clien te finale, soprattutto nel caso di prodotto

ad alto valore aggiunto , oppure di altre forme di vendita, tra cui il

commercio elettronico e la vendita per corrispondenza (Maiorino,

2006).

Con il contratto d’agenzia l’impresa mandante affida all’agente la

vendita dei propri prodotti in cambio di provvigioni in base al

volume venduto, che da un lato motiva l’agente a vendere di più,

ma dall’altro , soprattutto nel caso di agenti plurimandatari, lo

incentiva a promuovere i prodotti più remunerativi.

Per ovviare ai problemi di conflitto d’interesse, l’impresa può

ricorrere a personale interno, tra cui dipendenti, che si recano

presso gli acquirenti nei mercati esteri, oppure ad altre forme di

vendita tra cui il commercio elettronico e la vendita per

corrispondenza.

26

Un’altra alternativa è il ricorso a broker , mediatori che procurano

una vendita occasionalmente.

2.5.2 Forme di cooperazione

Le forme di cooperazione si caratterizzano per la necessità di

coordinamento ex-ante delle decisioni tra i partner. Possono

comportare partecipazioni di capitale o basarsi su accordi

contrattuali (non-equity). In questa categoria rientrano il l icensing ,

i l franchising, gli accordi di produzione, i consorzi e joint venture.

Questa modalità rappresenta un meccanismo primario di

trasferimento di conoscenze e di competenze (Marafioti , 2003).

I contratti di licenza comportano la cessione di un dirit to di

proprietà intellet tuale o industriale dal l icenziante al licenziatario

per un preciso periodo di tempo in un terri torio determinato e

attraverso canali distributivi precisati a fronte del pagamento di

royalties . Il licenziatario reperisce e investe il capitale necessario

e gestisce a sua discrezione il mercato target; il licenziante,

dunque, non si assume i rischi e i costi connessi allo sfrut tamento

commerciale della sua proprietà intellet tuale nel mercato estero

(Hill, 2008). Quest’ultimo controlla l’operato del licenziatario

tramite clausole, le quali , tuttavia, non riescono a garantire un

controllo completo ed efficace.

All’interno delle politiche di branding , si ricorre sempre di più

alle licenze di marchio che consentono al licenziatario di accedere

a nuovi mercati traendo vantaggio dall’awareness della marca e al

licenziante di diversificare la produzione: quest’ultimo, però, deve

verificare la coerenza tra l’immagine della marca e l’attività

produttiva e commerciale del licenziatario (Gregori, Cardinali,

Travaglini, 2012).

Il contratto di franchising è similare a quello di l icensing , tuttavia

comporta una collaborazione continuativa con finalità prettamente

distributiva; la cessione è accompagnata da un’accurata definizione

delle modalità di sviluppo del business. È una modalità che

comporta costi fissi inferiori rispetto all’apertura di proprie filiali

27

commerciali , consente lo sfruttamento di economie di scala nella

produzione e nella commercializzazione e di conoscenze del

mercato estero del franchisee . Tuttavia, sono numerosi i rischi,

derivanti soprattutto dai costi e dalla difficoltà di monitoraggio del

franchisee (Hill, 2008) . È una modali tà adatta ad imprese con

processo produttivo standardizzabile, che non possono esportare i l

proprio output e non vogliono effettuare investimenti diretti

(Marafioti , 2003).

Per poter sfruttare i benefici in termini di bassi costi della

delocalizzazione senza effettuare IDE, le imprese possono ricorrere

ad accordi produttivi che richiedono minori risorse: questi

includono i contratti di subfornitura e il traffico di

perfezionamento passivo.

Per subfornitura internazionale si intende un contratto in cui

l’impresa committente commissiona all’impresa sub -fornitrice la

fornitura di merci o servizi per fini commerciali. I benefici

risiedono nella potenziale riduzione di costi diretti di produzione,

nel limitato bisogno di risorse e competenze; le difficoltà, invece,

risiedono nella probabili tà di comportamenti opportunistici e nel

controllo della quali tà della produzione.

Il traffico di perfezionamento passivo è il regime doganale che

consente di esportare temporaneamente al di fuori del terri torio

doganale dell’Unione Europea merci di cui è prevista la

reimportazione dopo una o più operazioni di perfezionamento con

parziale o totale esenzione dai dazi all’importazione. Consente di

delocalizzare fasi produttive labour- intensive pagando dazi sul

valore aggiunto all’estero; inoltre, si ha la garanzia di qualità,

poiché le materie prime vengono inviate dall’impresa (Mariotti,

Mutinelli , 2003).

La costituzione di una joint venture è la modalità di

internazionalizzazione più vicina all’IDE, in termini di costi,

rischio, controllo. Per joint venture si intende un’impresa

giuridicamente autonoma posseduta da due o più imprese, che

consente di ottenere vantaggi sinergici. Le imprese possono trarne

28

diversi benefici: accesso al mercato, ottenimento di economie,

reperimento di risorse. Costituire una joint venture con un’impresa

locale consente all’impresa di beneficiare dell’esperienza, delle

relazioni e della conoscenza del partner del mercato estero. D’altro

canto, il controllo non completo sulla società costituita non

consente di ottenere economie di esperienza e di localizzazione;

possono emergere conflitti e scontri per il controllo della joint

venture; vi è, inoltre, rischio che l’impresa partner si appropri

della tecnologia del processo produttivo (Hill, 2008).

2.5.3 Investimenti diretti esteri

Gli IDE rappresentano la modalità di esp ansione estera con il

maggior grado di controllo, rischio e irreversibilità

dell’investimento ed è per questo un’attività ad alto

coinvolgimento manageriale.

Secondo la teoria dei costi di transazione, si ricorre agli

investimenti diretti esteri in presenza di imperfezioni di mercato,

quali disequilibrio tra le parti, interventi governativi, imposizione

fiscale, incertezza su natura o valore del bene scambiato. Occorre

considerare, tuttavia, che vi sono altri fattori alla base degli

investimenti diretti esteri, cioè attività produttiva, paese d’origine

e caratteristiche dell’azienda (Monti, 2011).

Sempre con riferimento alla teoria dei costi di transazione,

effettuare lo sviluppo interno, dunque gli IDE, comporta dei costi

di controllo, coordinamento e comunicazione interna.

Un’impresa può effettuare un investimento diretto estero attraverso

due modalità: avviando una nuova attività - investimenti

greenfield- o acquisendo un’impresa che già oper a nel paese

obiettivo.

Gli investimenti greenfield consentono all’impresa di beneficiare

di vantaggi di costo e organizzativi, però aumentano la complessità

di gestione, soprattutto in riferimento al marketing, in quanto

l’impresa deve reperire le informaz ioni e le competenze per

operare sul mercato estero.

29

Gli investimenti non greenfield consentono all’impresa di

beneficiare delle conoscenze e competenze possedute dall’impresa

estera acquisita (Spigarelli, 2001).

Si possono distinguere due diverse modalità di IDE: la costituzione

di unità commerciali (“IDE orizzontali) oppure produttive (“IDE

verticali”) .

La motivazione alla base della prima modalità consiste

nell’avvicinarsi al mercato di destinazione, dunque sfruttare i

vantaggi derivanti da un contatto diretto con la domanda per poter

comprendere e anticipare i bisogni dei cl ienti e sviluppare in

maniera più intensa relazioni con operatori locali; si costituiscono

unità commerciali in paesi terzi anche per superare la barriera

dovuta ad alti costi di esportazione (di trasporto, doganali ecc.) .

Tipicamente, i settori, in cui si ricorre a IDE orizzontali , sono

caratterizzati da economie di scala a livello di impresa, al fine di

compensare i costi di duplicazione nel paese estero.

La costituzione di stabil imenti produttivi è motivata dalla ricerca

di maggior redditività dovuta soprattutto a minori costi de l lavoro

e di altri input, dalla necessità di superare le barriere al

commercio, oppure dalla necessità di reperire risorse presenti in

paesi terzi: in questo caso, dunque, si frammenta l’attività

produttiva. Generalmente, si fa ricorso a IDE verticali nei settori

in cui il processo produttivo può essere suddiviso in fasi

caratterizzate da intensità fattoriali diverse e in cui la concorrenza

è soprattutto sui costi.

I vantaggi degli investimenti dirett i esteri sono rappresentati dal

controllo, dalla possibilità di ottenere economie di apprendimento

e di localizzazione; dall’altro lato, però, è la modali tà più costosa

e più rischiosa (Hill, 2008) .

2.6 Criteri di scelta tra modalità

La scelta di come accedere ai mercati esteri , così come la scelta di

internazionalizzazione in sé, dipende da una serie di fattori interni

30

all’impresa ma anche esterni (settore, paese di origine e di

destinazione).

2.6.1 Fattori esterni

I fattori esterni possono dist inguersi in fattori di mercato, fat tori di

produzione e fattori ambientali riguardanti il paese estero obiettivo

e fattori riguardanti i l paese di origine (Marafioti , 2003).

I fat tori di mercato del paese estero includono:

- La dimensione attuale e potenziale di sviluppo del mercato :

più il mercato è grande, più sono consone modalità che

implicano grandi investimenti e un orizzonte temporale di

più lungo periodo;

- La struttura competitiva: più si è in condizioni di

concorrenza perfetta, minori saranno gli investimenti

sufficienti per poter accedere al mercato; viceversa, nel caso

in cui il numero di imprese sia limitato, occorrono

investimenti diretti ingenti.

- Strutture distributive presenti: l’assenza di queste obbliga

l’impresa a ricorrere a soluzioni dirette.

I fat tori produttivi del paese target comprendono:

- La quantità e la qualità dei fattori produttivi (capitale,

materie prime)

- La qualità e costo delle infrastrutture (trasporto,

comunicazione)

La qualità delle infrastrutture, de l tessuto produttivo e dell’offerta

di servizi a sostegno dell’internazionalizzazione sono condizioni

ambientali favorevoli: sollecitano l’incipit e l’evoluzione

concernente la scelta dei mercati su cui investire.

Tra i fattori ambientali del paese obiettivo vi sono:

- Le caratteristiche sociali, politiche, economiche che

influiscono sulle modalità di espansione estera ; alte tariffe

all’importazione l imitano le esportazioni verso quel paese

come modalità di internazionalizzazione;

31

- La distanza geografica; maggiore è la distanza, più alt i sono

i costi di trasporto e dunque maggiore è la propensione verso

investimenti diretti esteri.

- L’economia del paese target, cioè il t ipo (di mercato o

pianificata), la dimensione in termini di PIL, l’importanza

dei diversi set tori economici e la loro competit ività, le

prospettive future di crescita; fattori dell’ambiente

economico che determinano l’attrattività dei mercati oltre

che la modalità di internazionalizzazione sono la crescita del

Pil, l’andamento dell’inflazione , i bassi livelli d’imposizione

fiscale, la ridotta burocrazia locale, il riconoscimento delle

principali convenzioni, la liberalizzazione fiscale e giuridica

(Aulicino, 2005).

- Le relazioni economiche internazionali del paese estero ,

quantificabili attraverso l ’analisi flussi di IDE, il trend del

commercio internazionale;

- La cultura, cioè valori, religione lingua, società, st ili di vita.

Maggiore è la distanza culturale, più difficile sarà capire ed

anticipare i bisogni per un’impresa, dunque più strategica è

la presenza diretta nel paese al fine di possedere le

informazioni necessarie per compiere le analisi di mercato.

I fattori riferiti al paese di origine dell’impresa includono, come

quelli del paese di destinazione, fattori di mercato, di produzione e

dell’ambiente. Più il mercato domestico è innovativo e

competitivo, più l’impresa ha l’opportunità di maturare conoscenze

e competenze fruibili sui mercati esteri ; inoltre, più il mercato

domestico è grande, prima valuterà l’espansione sui mercati esteri.

Gli investimenti diretti esteri sono la modalità di

internazionalizzazione che si predil ige quando il mercato

domestico è caratterizzato da costo elevato dei fattori di

produzione oppure quando le politiche nazionali elargiscono

finanziamenti per att ività oltre confine (Marafioti, 2003).

32

2.6.2 Fattori interni

I fattori interni si classificano in due categorie a seconda che si

riferiscano ai prodotti o alle risorse dell’impresa (Marafioti , 2003).

Le caratterist iche e la t ipologia del prodotto influenzano la

modalità di ingresso nei mercati esteri, in quanto vantaggi di costo

o di differenziazione consentono di neutralizzare il costo di

trasporto, dunque optare per le esportazioni.

La disponibili tà di risorse tangibili e intangibili risulta

direttamente proporzionale all a possibilità e alla propensione a

valutare anche le modalità più impegnative in termini di rischio e

capitale necessario. Nel caso in cui è il know-how tecnologico a

determinare il vantaggio competitivo dell’impresa, è preferibile

evitare modalità di inte rnazionalizzazione come licenze e joint

venture, per evitare che altri si impossessino dalla tecnologia , a

meno che la condizione di vantaggio venga considerata temporanea

o la tecnologia velocemente imitabile; invece, se il vantaggio

competitivo è determinato da know-how gestionale sono preferibili

modalità come franchising e joint venture (Hill, 2008) .

2.7 Strategie di internazionalizzazione

Le strategie di internazionalizzazione si distinguono dalle modalità

di ingresso, poiché, mentre le prime indicano il path e le azioni sui

mercati esteri per perseguire gli obiettivi prefissati, le seconde

riguardano le forme con cui si trasferiscono all’estero prodotti,

processi e conoscenze (Spigarelli , 2001).

Attuare una strategia di internazionalizzazione significa

posizionarsi nel mercato globale in modo da ottimizzare i risultati:

scegliere dove rinvenire capitali e input, dove delocalizzare la

produzione, dove vendere i propri prodotti, dove posizionare la

funzione di ricerca e sviluppo; la strategia di

internazionalizzazione riguarda direttamente o indirettamente tutte

le attività della catena del valore di un’impresa.

Le tappe fondamentali delle strategie di internazionalizzazione

(Musso, 2010) possono venir classificate in:

33

- Scelta di quale attività internazional izzare:

approvvigionamento, attività operativa, vendite, ricerca e

sviluppo;

- Scelta del paese: individuare i criteri di scelta, ad esempio

distanza fisica o psichica;

- Scelta della modalità con cui internazionalizzarsi:

esportazioni, partnership, investimenti diretti esteri

- Scelta dell’assetto organizzativo

Una delle scelte strategiche fondamentali riguarda l’offerta, ossia

standardizzazione vs adattamento, in riferimento non solo al

prodotto o al packaging , ma anche al prezzo, alla distribuzione e

alla promozione.

La scelta tra standardizzazione e adattament o è influenzata dalle

caratteristiche del mercato estero, dall’organizzazione e

dall’industria. Se , da un lato, la standardizzazione permette di

ottenere benefici in termini di costo, dall’altro si disco sta

dall’orientamento al mercato. La scelta tra le due strategie è il

risultato di una valutazione di fattori economici, polit ici , legali, di

similarità o differenze tra i consumatori, di distribuzione, di

controllo dei prezzi ecc.

Tabella 1 Analisi dell’ambiente internazionale

Fonte: Lambin (2010)

Secondo Lambin (2010) si può classificare l’approccio alla

strategia secondo due dimensioni:

- Forze globali, che rappresentano incentivi a integrazione e

standardizzazione

34

- Forze locali , le quali richiedono sensibilità e adattamento

locale

In base all’intensità di queste due forze, si possono distinguere

quattro condizioni dell’ambiente internazionale (tab. 1) in cui

operano le imprese a cui corrispondono le quattro strategie di base :

- Nell’ambiente globale le forze globali sono forti , mentre

quelle locali deboli . È tipico dei mercati ad alta tecnologia.

Vi è una propensione per la standardizzazione globale.

L’obiettivo delle imprese è la redditività e i profitti ,

minimizzando i costi, grazie allo sfruttamento di economie

di scala, apprendimento e localizzazione

- Nell’ambiente transnazionale entrambe le forze sono

rilevanti . Sono necessari sia la standardizzazione che

l’adattamento : si adotta una strategia transnazionale, la

quale implica, da un lato, la necessità di mantenere bassi

costi grazie a economie di scala, esperienza, localizzazione e

dall’altro differenziare i prodotti nei diversi mercati.

- Negli ambienti internazionali tranquilli entrambe le forze

sono deboli . La strategia internazionale è la più semplice da

perseguire: le imprese vendono i prodotti a livello

internazionale con un adattamento minimo.

- Nell’ambiente multidomestico, o anche multinazionale, le

forze globali sono deboli mentre le locali fort i. La strategia

è di localizzazione: l’obiett ivo dell ’impresa è ottenere

redditività superiore adattando l’output alle preferenze dei

mercati locali . Tale strategia risulta più costosa; occorre che

i benefici superino i costi: o i consumatori sono disposti a

corrispondere un premium price che copra i maggiori costi o

l’adattamento è in grado di indurre una domanda futura

superiore.

Facendo riferimento alle scelte strategiche che intraprendono le

imprese per entrare nei mercati esteri , si può distinguere tra

scrematura, dumping , esplorazione o penetrazione (Spigarelli ,

2001).

35

La strategia di scrematura consente di restringere i segmenti di

mercato esteri con costi, rischi e strumenti necessari minimi,

mantenendo l’offerta pressoché inalterata; le modalità più

frequenti di internazionalizzazione sono l’esportazione indiretta e

il licensing .

La strategia di dumping consiste nella vendita del prodotto nel

mercato estero ad un prezzo inferiore a quello applicato nel

mercato d’origine; consente, così, di aumentare i volumi di

produzione e dunque ottimizzare la capacità produttiva . Le risorse

finanziarie, le competenze organizzative e i rischi sono minimi. Le

modalità principali sono l’esportazione indiretta.

La strategia di esplorazione consente di testare l’attratt ività di

investimenti esteri, grazie al reperimento di informazioni e

conoscenze, instaurando inizialmente delle relazioni commerciali a

bassi costo e coinvolgimento organizzativo. Le modalità per

valutare le opportunità di investimenti sono le esportazioni, il

licensing e le joint venture.

La strategia di penetrazione ha come obiettivo l’acquisizione e il

mantenimento nel lungo periodo della quota di mercato; implica,

dunque, un più alto rischio e coinvolgimento finanziario ed

organizzativo. La modalità principale sono gli i nvestimenti diretti

esteri.

2.8 Processo di internazionalizzazione

Il processo di internazionalizzazione non è solo il risultato di un

impulso proveniente da forze interne all’impresa, ma è esso stesso

un impulso evolutivo (Caroli , 2000) per l’impatto che ha sulla

strategia ed eventualmente sulla struttura organizzativa .

L’evoluzione del processo di internazionalizzazione non segue un

percorso standard, per cui risulta difficile poter modellizzare il

processo.

36

Tabella 2 Matrice di transizione: imprese e forme di internazionalizzazione tra il 2007 e il

2010 (numero di imprese; frequenze percentuali)

Fonte: elaborazioni Istat (2013) su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul

commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese

italiane) e su dati amministrativi

La matrice di transizione rappresenta l’evoluzione da una modalità

di internazionalizzazione ad un’altra; quella riportata in tabella 2

rappresenta i dati riferi ti agli anni 2007 e 2010 di un’indagine Istat

(2013) su 57012 imprese che hanno rapporti con l’estero. La

diagonale principale rappresenta il numero di imprese che non sono

passate da una modalità all’al tra, mentre quelle al di sotto

rappresentano un avanzamento della modali tà di

internazionalizzazione verso forme più complesse, mentre quelle al

di sopra verso forme più elementari . Secondo i dati, il 69,5% delle

imprese mantiene il proprio status , il 12,3% passa ad una modalità

di internazionalizzazione più elementare e circa il 18% verso una

forma più complessa. Secondo l’Istat (2013) la transizione verso

modalità più complesse ha un effetto positivo su valore aggiunto e

su occupazione.

Le teorie più rilevanti che studiano i processi di

internazionalizzazione sono: la teoria eclettica, il modello di

sviluppo per fasi , prospettiva reticolare (Caroli, Lipparini, 2002b).

Alcuni autori ritengono che nei processi di internazionalizzazione

coesistono i tre approcci, mentre altri autori sono so stenitori di una

singola teoria.

Secondo la teoria eclettica (OLI) di Dunning

l’internazionalizzazione delle imprese è funzione del possesso e

della capacità di acquisire determinati assets (Monti , 2011).

37

La teoria eclettica evidenzia due t ipi di vantaggi che influenzano

l’impegno internazionale di una società: i vantaggi ownership-

specific (O) e quell i location-specific (L). I vantaggi ownership-

specific si riferiscono alle caratterist iche e capacità relative

all’impresa di una particolare nazionalità o di una data proprietà

che le consentono di ottenere un vantaggio competitivo: queste

includono risorse e competenze tangibili e intangibili. I vantaggi

location-specific si riferiscono, invece, ai benefici potenziali

dell’attività in un particolare mercato estero ottenibili grazie a

caratteristiche della localizzazione tra cui dotazione di risorse,

costi di trasporto, di comunicazione, infrastrutture, barriere al

commercio, contesto economico e culturale, quad ro polit ico e

istituzione. Vi è un ulteriore vantaggio, Internalization ( I) che non

è inerente all’internazionalizzazione, ma riguarda l’ipotesi di base

che esistono imperfezioni di mercato; l’internalizzazione delle

transazione riflette una maggior efficacia della gestione interna .

L’internazionalizzaz ione è il risultato della combinazione di export

di beni intermedi, per produrre i quali l’impresa necessita di input

di cui il paese è ben fornito, con l’utilizzo di risorse, di cui è ben

fornito il paese di destinazione degli investimenti . Dal momento

che i mercati non sono perfetti , non trovano applicazioni le teorie

del commercio internazionale; le imprese, spinte dalle imperfezioni

del mercato, sfruttano i vantaggi Ownership-specific e Location-

specific di cui dispongono al fine di ottenere un vantaggi o

competitivo (Monti, 2011).

Più grandi sono i vantaggi Ownership-specific , maggiore è

l’incentivo a internalizzare; dunque, se si ha maggiore stimolo a

sfruttare i vantaggi all’estero, si propenderà maggiormente per gli

investimenti diretti esteri.

Quando si parla di sviluppo per stadi, si possono intendere tre tipi

di approccio (Lamieri, Lanza, 2008):

- Le imprese entrano in nuovi mercati esteri inizialmente

esportando i propri prodotti; passano poi a modalità più

impegnative.

38

- Le imprese si espandono geograficamente per stadi, cioè

prima in paesi adiacenti e via via in paesi più lontani.

- Le imprese si espandono, procedendo per stadi, a seconda

della vicinanza culturale.

Il modello di sviluppo per fasi si colloca all’interno della dottrina

comportamentale, secondo la quale l’internazionalizzazione va

analizzata in quanto processo, in cui svolgono un ruolo

fondamentale la conoscenza e l’apprendimento (Monti , 2011). Il

modello di sviluppo per fasi implica un processo di appre ndimento

graduale e sequenziale ( learning by exporting): le imprese che si

affacciano sui mercati esteri sono spinte a ridurre le inefficienze e

a ridisegnare i processi produttivi aumentando la produttività.

L’internazionalizzazione, dunque, consente alle imprese di

crescere e, a livello aggregato, ciò comporta un upgrading

qualitativo (Lamieri , Lanza, 2008). L’internazionalizzazione è

vista come un processo unidirezionale secondo una sequenza

predeterminata di fasi che incrementano la complessità

all’aumentare della conoscenza sul mercato estero (Monti, 2011).

Secondo la prospettiva reticolare, le relazioni tra imprese sono le

basi dell’espansione all’estero; quest’ultima teoria verrà analizzata

nel capitolo tre, riguardante l’internazionalizzazione delle imprese

distrettuali.

2.9 Internazionalizzazione delle imprese italiane: quadro

generale

Prima di procedere all’analisi dell’internazionalizzazione delle

piccole imprese, si vuole indagare la performance internazionale

italiana a l ivello aggregato.

39

Tabella 3 I primi venti esportatori mondiali di merci (in miliardi di dollari)

(1) include consistenti flussi di ri-esportazioni.

(2) stime segretariato Omc.

Fonte: elaborazioni ICE su dati Omc in “L’Italia nell’economia internazionale. Sintesi del Rapporto 2011-

2012”

La dimensione dei flussi di esportazione è un importante indicatore

della competitività di un paese.

Tradizionalmente l’attenzione degli economisti riguardo al

commercio internazionale si è concentrata sulle caratteristiche del

paese e delle industrie – s i pensi , ad esempio, alla teoria del

vantaggio comparato, economie di scala - trascurando l’eterogeneità

delle imprese (Banca d’Italia, 2009).

L’Italia secondo i dati dell’Omc nel 2011 , riportati in tabella 3, ha

confermato l’ottavo posto nella classifica d ei maggiori esportatori

mondiali , registrando una variazione in aumento dell’export del

16,9%, valore di un punto percentuale inferiore alla media dei

venti maggiori esportatori. Ai venti maggiori esportatori nel 2001

si attribuiva il 74,6% delle esportazioni mondiali, mentre nel 2011

il 69,7%; il caso ital iano è a conferma della perdita di quota parte

dei maggiori esportatori .

40

Figura 3 Esportazioni di beni e servizi (% PIL) in Italia e nel mondo

Fonte: nostre elaborazioni su dati World Bank www.worldbank.org

Il trend del grafico in figura 3 sulla percentuale delle esportazioni

rispetto al Pil dimostra come negli anni si faccia sempre più

ricorso all’export e come questo riflette l’andamento del contesto

economico e sociale sia interno che esterno.

Tuttavia il rapporto delle esportazioni sul Pil non è un indicatore

corretto per confrontare l’apertura dei mercati tra paesi in quanto i

fattori che determinano le differenze tra i valori dei ra pporti vi

sono la geografia e la dimensione del paese: infatti, minori sono le

dimensioni di un paese, minori sono le probabilità che si

specializzi in più prodotti e farà, dunque, un maggior ricorso agli

scambi con l’estero (Blanchard, 2009).

La variabile che determina la scelta tra beni nazionali ed esteri è il

tasso di cambio reale, cioè i l prezzo dei beni nazionali in termini

di beni esteri; la variabile che determina la scelta tra at tività

finanziarie nazionali ed estere è il tasso di rendimento relati vo, il

41

quale è determinato dai tassi di rendimento interno ed estero e dal

tasso atteso di deprezzamento della valuta interna.

Le esportazioni dipendono positivamente dal reddito estero e

negativamente dal tasso di cambio reale, se si considera

quest’ultimo come il prezzo dei beni interni in termini di beni

esteri.

Figura 4 Presenza commerciale italiana all’estero. Anno 2010, intervalli per numero di

presenze degli operatori all’export

Fonte: Istat, Annuario statistico. Commercio estero e attività internazionali delle imprese. Nota per la

stampa, 2010

Nel 2010 in Italia gli operatori che hanno fanno ricorso alle

esportazioni sono stati 205974, di cui 129144 (il 62,7%) registrano

un fatturato all’export inferiore a 75 mila euro e contribuiscono

allo 0,6% del valore complessivo dell’export. Il 44,7% degli

esportatori opera in un solo mercato e il 14, 6% su oltre dieci

mercati . Le tendenza rimane quella di esportare nelle principali

aree commerciali: i l 75,4% opera nel territorio c omunitario, il

38,7% negli altri paesi europei non appartenenti all’Unione

Europea, il 17,5% in Asia Orientale, il 17,3% in America

Settentrionale.

42

Tabella 4 Investimenti diretti esteri in uscita: principali paesi investitori (Valori in miliardi

di dollari a prezzi correnti)

Fonte: elaborazione ICE su dati Unctad in “L’Italia nell’economia internazionale. Sintesi del Rapporto

2011-2012”

L’altra modalità di internazionalizzazione è costituita dagli

investimenti dirett i esteri; secondo i dati Unctad riportati in tabella

4, l’Italia nel 2011 conferma la posizione all’ottavo posto tra i

principali investitori , attuando il 4,1% degli investimenti esteri. Si

può notare un’evoluzione in positivo, poiché nel 2001 ne attuava il

2,9%, giustificata soprattutto dalla ricerca di opportunità in paesi

in cui i l costo dei fattori produttivi è inferiore.

Figura 5 Flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia ( in US$)

Fonte: nostra elaborazione su dati World Bank www.worldbank.org

43

Il flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia è calcolato

come nuovi flussi di investimento a cui vengono detratti i

disinvestimenti. Si può notare dalla figura 5 come fino al 2007 il

trend fosse crescente: gli investimenti dirett i esteri sono stati

favoriti dal buon andamento dei mercati finanziari e dai bassi tassi

di interesse. Nel settore primario il maggior ricorso è attribuibile,

in parte, alla crescita dei prezzi delle materie prime, mentre nel

terziario all’espansione del commercio internazionale (Lamieri,

Lanza, 2008).

Dal 2008 il trend mostra una forte instabilità, dovuta

principalmente alla recessione globale e al contesto nazionale in

cui l’eccessiva burocratizzazione e l ’alto costo del lavoro fungono

da disincentivi all’investimento; si ricercano, dunque, nuovi

mercati .

44

45

3 INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

3.1 Introduzione

Il fenomeno dell’internazionalizzazione, che fino agli anni ’50 del

ventesimo secolo ha coinvolto principalmente le imprese di grandi

dimensioni, sta interessando sempre di più le piccole e medie

imprese. Queste ultime sono state trascurate dagli studiosi

dell’international business , poiché la loro limitata dotazione di

risorse finanziarie, imprenditorial i e tecnologiche era considerata

una barriera allo sviluppo internazionale che le obbliga a forme di

internazionalizzazione più lieve come l’esportazione e la

subfornitura.

La capacità delle imprese di minori dimensioni di avere una

presenza sui mercati es teri significativa in termini di qualità e di

quantità trova conferma nella letteratura degli ultimi venti anni

(Caroli, Lipparini , 2002b) .

Negli ultimi anni numerosi sono i contributi di autori che

affermano l’assenza di correlazione significativa tra dim ensione

aziendale e sviluppo oltre confine (Caroli, Lipparini , 2002; Caroli,

Fratocchi, 2000), tuttavia la dimensione influenza le modali tà di

espansione estera, le alternative strategiche potenzialmente

perseguibili e le soluzioni organizzative adottate. L’accumulazione

di conoscenze e il network di relazioni fungono da discriminante

per l’internazionalizzazione.

La globalizzazione richiede inventiva, agili tà e flessibilità, che

rappresentano da sempre i connotati delle PMI (Ricci , Cillo, Landi ,

2010). Secondo la letteratura europea e italiana, infatti, la

flessibilità organizzativa e strategica e l’impegn o imprenditoriale,

che rappresentano delle caratteristiche tipiche delle piccole e

medie imprese, possono permettere loro di ottenere dei vantaggi

nell’espansione estera rispetto alle imprese di d imensioni maggiori

(Zucchella, 2000).

Secondo alcuni autori la riduzione dei costi fissi, grazie alla

maggiore integrazione delle economie e alle nuove tecnologie,

46

offre numerose opportunità alle imprese di dimensi oni minori di

diventare “multinazionali tascabili”: essere piccoli non è più un

disvalore (Lamieri M., Lanza A., 2008).

Rifacendosi alle definizioni della Commissione Europea, la

classificazione di piccole e medie imprese si riferisce

principalmente a tre fattori: turnover , totale di attività e numero di

occupati . Nel presente lavoro si farà principalmente riferimento

alla classificazione dimensionale per numero di addetto.

Il presente capitolo è volto ad analizzare le peculiarità del

processo di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese,

le quali grazie ad apprendimento e network di relazioni sono in

grado di superare il vincolo dimensionale .

Nel primo paragrafo si indagano i vincoli al la crescita

internazionale, supportando l’analisi teorica con una ricerca

empirica.

Si passa poi all’individuazione delle determinanti

dell’internazionalizzazione delle imprese minori, in cui un ruolo

fondamentale è giocato dal “tessuto imprenditoriale”.

Nel paragrafo successivo, dopo una panoramica della situazione

italiana sulle modalità per classe dimensione, si passano in

rassegna esportazioni, cooperazioni e investimenti dirett i esteri,

soffermandosi sulle peculiarità analizzate in letteratura.

Viene poi analizzato brevemente quanto contraddistingue le

strategie, considerando, tuttavia, che la letteratura in materia

strategica è scarsa.

Da ultimo, si passano in rassegna i processi di espansione estera,

da cui l’internazionalizzazione può venire classificata come

congenita, trainata o programmata. Si verificherà, inoltre,

l’applicabil ità dei tre approcci teorici principali (teoria eclettica,

modello di sviluppo per fasi e prospett iva reticolare) alle imprese

di dimensioni inferiori , rimandando l’analisi della prospettiva

reticolare al capitolo successivo.

47

3.2 Vincoli delle PMI alla crescita internazionale

I punti di debolezza delle PMI sono:

- Cultura dell’internazionalizzazione non adeguata;

- Carenza di elaborazione strategica;

- Razionalità limitata nella gestione delle difficoltà e

dell’incertezza. L’assenza di esperienza internazionale e la

scarsa disponibilità di informazioni sono un freno per la

scelta razionale;

- Limiti nella disponibilità di risorse manageriali e di

competenze, in particolare deficit di competenze relative a

risoluzioni di problemi;

- Difficoltà di reper imento e di gestione delle risorse

finanziarie.

A causa di questi problemi la spinta delle PMI

all’internazionalizzazione è nella maggior parte dei casi contenuta;

le imprese sfruttano la prima opportunità di crescita all’estero,

procedono per gradualismo, seguono il cliente. Queste modalità ,

tuttavia, non sono prive di rischio (Mariotti, Rabbiosi , 2003).

La Commissione Europea nell’ambito di un’indagine relativa

all’internazionalizzazione delle PMI ha suddiviso i vincoli in due

categorie: barriere interne e barriere relative all’ambiente di

business.

Come riportato in figura 6, l e imprese percepiscono come barriera

più importante il prezzo dei prodotti , che implicherebbe o minori

profitti o perdita di competitività, soprattutto se la strategia

perseguita è la leadership di costo.

Un’altra barriera rilevante sono gli alti costi di

internazionalizzazione: sono, infatti , notevoli gli investimenti

necessari soprattutto per le modalità a più alto coinvolgimento.

48

Figura 6 Importanza delle barriere interne per l’internazionalizzazione, per classi

dimensionali delle PMI, punteggio medio su scala da 1 (non importante) a 5 (molto

importante), solo per le PMI attive nel contesto internazionale

Fonte: Commissione Europea, Internationalisation of European SMEs, 2009

Per quanto riguarda le barriere relative all’ambito di business in

figura 7, la mancanza di adeguate informazioni, di capitale e di

supporto pubblico sono i vincoli considerati più gravosi,

soprattutto per le micro imprese. Vengono, inoltre, indicate altre

barriere, quali i costi e le difficoltà delle pratiche di logistica,

leggi e regolamenti dei paesi esteri, tariffe e altri barriere al libero

scambio.

Figura 7 Barriere relative all’ambiente di business per le imprese sui mercati non EU –

EEA, per classe dimensionale (percentuale delle PMI che le considerano importanti)

Fonte: Commissione Europea, Internationalisation of European SMEs, 2009

49

I vincoli dimensionali possono essere superati sfruttando

conoscenze acquisite con l’esperienza e implementando strategie di

sviluppo finalizzate al miglioramento di competenze tecniche ,

finanziarie e gestionali.

3.3 Fattori alla base dell’internazionalizzazione

I motivi che spingono le imprese di minori dimensioni ad

internazionalizzarsi possono suddividersi in fattori esterni ed

interni , così come analizzato nel capitolo 1 per le imprese in

generale.

I fattori esterni fanno riferimento alla risposta dell’impresa agli

stimoli che fornisce l’ambiente; i fattori interni, inve ce, si

riferiscono allo sviluppo che l’impresa intende perseguire e al

rafforzamento del vantaggio competitivo (Caroli, Lipparini ,

2002b).

Dalla combinazione di fattori esterni ed interni prende avvio il

processo di internazionalizzazione. Nelle imprese di dimensioni

minori, alcuni autori concordano sul fatto che l’impulso

all’internazionalizzazione proviene dall’interno, mentre le

condizioni esterne rappresentano sostanzialmente uno stimolo

(Caroli, 2000) .

3.3.1 Fattori esterni

I fattori esterni possono essere suddivisi in due categorie: la prima

include le condizioni alla base dell’apertura di mercati e di sistemi

produttivi che consentono all’impresa locale di trovarsi nella

dimensione internazionale; la seconda categoria include le

caratteristiche ambientali tangibili e intangibili che permettono il

perseguimento di una strategia di internazionalizzazione di

successo.

Con la crescente interdipendenza dei sis temi economici il mercato

locale è soggetto alla concorrenza di imprese estere: le piccole

imprese si t rovano, dunque, a competere più aspramente

nell’ambiente locale, ma anche a dover cercare nuovi mercati;

50

inoltre, vi è la probabilità che vi sia domanda proveniente

dall’estero non sollecitata. La globalizzazione crea per le PMI,

inoltre, l’opportunità di internazionalizzare la nicchia di mercato

in cui opera l’impresa, estendere su più aree geografiche i rapporti

di fornitura instaurati con la grande impresa, favorire lo sviluppo

reticolare della grande impresa con cui ha dei rapporti, rafforzarsi

grazie a spill -over tecnologici prodotti localmente da imprese

internazionalizzate (Caroli, Lipparini, 2002b).

Le caratteristiche dell’ambiente che consentono di perseguire una

strategia di successo per le imprese minori, così come per le

imprese in generale, sono rappresentate dalle infrastrutture, dai

servizi a supporto dell’internazionalizzazione, dalla rete di

business relativamente a capacità innovativa, intensità delle

relazioni e livello di apertura internazionale; nel caso della PMI la

rete di business è ri levante poiché è qui che si reperiscono le

informazioni, risorse per avviare il processo di

internazionalizzazione, si trovano i partner grazie a i quali si

espande all’estero e si sviluppano le relazioni sociali tra

imprenditori e soggetti strategicamente ri levanti (Caroli, Lipparini ,

2002b).

Secondo alcune evidenze empiriche le esportazioni nelle piccole

imprese sono spinte maggiormente da fattori esterni, piuttosto che

interni (Caroli , Lipparini, 2002b).

3.3.2 Fattori interni

I fattori interni possono essere suddivisi in due categorie: le

caratteristiche dell’imprenditore o di chi prende le decisioni

all’interno dell’impresa e le caratteristiche dell’impresa in

generale; sebbene la seconda categoria contenga la prima, la

suddivisione sottolinea l’importanza di c olui o coloro che

detengono il potere decisionale nei processi di

internazionalizzazione del le imprese di minori dimensioni (Caroli,

Lipparini, 2002b). Per analizzare i fat tori interni si fa ricorso alla

resource based view : è, infatti , la coesistenza e la valorizzazione

51

di risorse tangibil i e intangibile e competenze produttive,

organizzative e adattive a condurre l’impresa nel processo di

espansione estera; secondo la RBV, l’internazionalizzazione è un

processo di mobilitazione, accumulazione e sviluppo d i più stock

di risorse per attività internazionali (Ruzzier et al. , 2007). Si fa

ricorso, inoltre, alla knowledge based view , secondo cui l’impresa

è un patrimonio di conoscenze il cui valore deriva

dall’utilizzazione.

Due fattori che caratterizzano oggett ivamente l’impresa sono la

dimensione e l’età, ma relativamente all’internazionalizzazione

non si sono trovate correlazioni significative. Diversi studi hanno

investigato il legame tra dimensione considerata sia in termini di

numero di addetto che di fattu rato e le esportazioni, ma non risulta

esserci alcuna relazione; tuttavia, vi è un legame tra

l’internazionalizzazione e la quantità di risorse e competenze

tangibili e intangibili. Alcuni studi si sono focalizzati sulla

relazione tra espansione estera ed età, ma i risultati non sono

univoci (Caroli , Lipparini, 2002b).

Tra le condizioni necessarie per dare avvio al processo di

internazionalizzazione vi sono la capacità di reperire informazioni

sui mercati e sui soggetti con cui instaurare relazioni, la cap acità

produttiva in grado di soddisfare la potenziale domanda

dall’estero, capacità organizzativa utile per gestire le relazioni;

risulta fondamentale possedere o poter accedere a risorse

finanziarie. Occorre poter ed essere in grado eventualmente di

adattare il proprio output alla domanda estera (Caroli , Lipparini,

2002b; Mariott i, Mutinell i, 2003).

Nelle PMI svolge un ruolo cruciale la “formula imprenditoriale”, la

quale viene intesa come insieme di risorse, competenze e relazioni

che identificano l’impresa e determinano il suo sviluppo

interpretando e reagendo agli stimoli esterni . Un ruolo centrale

viene affidato all’imprenditore, il decision maker , che con i l suo

atteggiamento, percezione del rischio, esperienza, capacità di

cogliere e sfruttare le oppo rtunità, inclinazione all’espansione

52

estera è in grado di dare avvio con successo al processo di

internazionalizzazione. L’imprenditore traduce fattori esterni ed

interni in stimoli che danno avvio al processo di

internazionalizzazione (Caroli, 2002). Assumono, inoltre, rilevanza

l’insieme di relazioni attuali dell’imprenditore con soggetti esteri e

la sua capacità di instaurarne delle nuove (Caroli, Lipparini ,

2002b; Maiorino, 2006; Mariotti, Mutinelli , 2003). Per quanto

riguarda la figura dell’imprenditore, le variabili correlate

positivamente all’internazionalizzazione dell’impresa si possono

riassumere in quattro: competenze in international business ,

orientamento internazionale, percezione del rischio ambientale e

know-how manageriale. L’esperienza dei manager e degli

imprenditori in ambito internazionale risulta una risorsa di

notevole importanza per le imprese e, in quanto conoscenza tacita,

risulta inimitabile e quindi fonte di vantaggio competit ivo (Ruzzier

et al. , 2007).

Lo sviluppo del capitale umano è un fattore fondamentale per la

crescita economica.

Le competenze gestionali hanno un impatto notevole sul processo

di espansione estera: si pensi, ad esempio, alla possibili tà di

accedere e alla capacità di elaborare le informazioni con i dati

relativi a caratteristiche, opportunità e rischi del mercato estero.

3.4 Modalità di internazionalizzazione

Tabella 5 Caratteristiche strutturali delle imprese per forme di internazionalizzazione,

2010

Fonte: Elaborazione Istat (2013) su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul

commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese

italiane) e su dati amministrativi

53

Secondo un’indagine Istat (2013) che incl ude più di 90000

imprese, riportata in tabella 5 , la modalità di

internazionalizzazione a cui si fa maggior ricorso sono

esportazioni-importazioni (30,8%), mentre sono molto meno le

imprese che ricorrono a forme di internazionalizzazione che

implicano un maggior coinvolgimento: il 4,7% sono localizzate sul

territorio i taliano ma a loro volta sono controllate dall’estero

(“controllo estero”), mentre il 3,4% hanno controllate estere

(“MNE”). Dall’indagine risulta, inoltre, che la dimensione media

in termini d i addetti cresce con l’aumentare del grado di

coinvolgimento dell’espansione estera: mediamente, le piccole

imprese ricorrono a commercio estero, mentre sono le medie

imprese a ricorrere a investimenti diretti esteri. Persino la

produttività media, considerata come valore aggiunto in termini di

singolo addetto, e il fatturato medio sono direttamente

proporzionali al grado di internazionalizzazione. Il grado di

apertura internazionale, misurato come esportazioni sul fatturato

complessivo, è maggiore per le imprese “globali” piuttosto che per

quelle multinazionali. Per globali si intendono, qui, imprese che

esportano in almeno cinque aree extra europee. La profittabilità

media, calcolata come margine operativo lordo su valore aggiunto,

è invece inversamente proporzionale al grado di complessità

dell’internazionalizzazione.

54

Figura 8 Percentuale di PMI europee impegnate in attività internazionali, che hanno piani

concreti per iniziare le attività o non del tutto. Per varie modalità di internazionalizzazione.

Fonte: Commissione Europea, “Internationalisation of European SMEs”, 2009 (N=9480)

L’evidenza empirica mostra che la strategia di presenza sul

mercato estero delle PMI maggiormente adottata è il ricorso

all’esportazione e ciò conferma le difficoltà, i rischi e i limiti di

risorse e competenze necessarie a strategie che implicano un

maggior coinvolgimento nel paese estero.

Il grafico in figura 8, che rappresenta la percentuale delle 9480

imprese oggetto di indagine statistica da par te della Commissione

Europea, conferma che le imprese di minori dimensione fanno

ricorso soprattutto a forme di espansione estera che implicano un

minor impegno di risorse.

3.4.1 Esportazioni

La maggior parte delle PMI inizia il percorso di espansione estera

attraverso le esportazioni; per buona parte delle piccole imprese le

esportazioni costituiscono l’unica strategia di

internazionalizzazione.

La modalità di espansione estera a cui le imprese medie e piccole

ricorrono maggiormente risulta essere l’export, proprio perché

richiede un esborso relativamente modesto di capitale, un minor

impiego di risorse, maggior semplicità strategica e organizzativa,

implicano un minore rischio e generano un ri torno economico più

velocemente (Marafioti, 2003; Spigarelli , 2001; C aroli , Lipparini,

55

2002b). Investimenti e cambiamenti di struttura e governo

risulteranno necessari eventualmente solo nel medio -lungo termine,

ma con gradualità (Caroli, Lipparini, 2002b).

Numerosi sono gli studi a sostegno dell’irri levanza della

dimensione aziendale nella propensione all’export (Varaldo, 1992;

Caroli, Lipparini, 2002a): tuttavia, esiste una proporzionalità

diretta tra dimensione e probabili tà che l’impresa abbia al proprio

interno la dotazione di risorse tangibili ed intangibili e di

competenze necessarie per ottenere un vantaggio competitivo sui

mercati esteri; inoltre, la dimensione risulta essere correlata con il

consolidamento dell’impresa sul mercato estero e con l’utilizzo di

modalità a più alto coinvolgimento (Caroli, Lipparini, 2002b).

Facendo riferimento alle imprese esportatrici italiane, secondo i

dati relativi al 2010, si può affermare che, nonostante i vincoli e le

difficoltà, le PMI dimostrano, relativamente alle grandi imprese,

un orientamento notevole ai mercati esteri ; l’an alisi della tabella

conferma il paradosso italiano: “L’Italia ha grandi aziende chiuse

nei confini nazionali e piccole aziende mondializzate” (Ohmae K.

in Corriere Economia del 28 ottobre 2002); infatti , solo il 54,9 %

delle grandi imprese esporta. Vi è un a grande eterogeneità tra le

imprese esportatrici: da un lato, numerosi esportatori di dimensioni

ridotte, dall’altro imprese leader di grandi dimensioni che

detengono una quota parte notevole delle esportazioni complessive.

Dalla tabella 6 emerge che le imprese esportatrici nel 2010 erano

189.006, cioè il 4,2% delle imprese attive, e impiegavano il 27,3%

degli addetti. L’82% delle imprese esportatrici impiegava meno di

venti addetti, ma contava solo il 13,8% delle esportazioni. La

propensione a esportare risulta proporzionale alle dimensioni

aziendali.

56

Tabella 6 Imprese esportatrici (a), addetti e relative esportazioni per classe di addetti –

Anno 2010 (valore delle esportazioni in milioni di euro e composizioni percentuali)

Fonte: Istat, 2012

Secondo il Rapporto sulle tendenze nel sistema produttivo italiano ,

in Italia, le imprese che esportano sono quelle che superano la self-

selection e quindi tendono a migliorare la loro produttività e ad

aumentare le dimensioni, in seguito al processo di apprendimento

grazie all’esportazione ( learning-by-exporting). Le imprese

esportatrici rispetto alle non esportatrici, secondo analisi

econometriche, risultano più produttive, con una maggior

dotazione di capitale e con una capacità innova tiva superiore.

Tuttavia, occorre indagare se il vantaggio competitivo è da

ricondursi ad una condizione ex -ante (self-selection) o ex-post

(learning-by-exporting). Tipicamente, gli economisti credono che

sia il primo fenomeno quello che consente alle impr ese di ottenere

un rendimento superiore alla media. L’auto -selezione è una

condizione iniziale che permette di superare le barriere all’entrata

nei nuovi mercati esteri: queste si riferiscono soprattutto ai costi

fissi , quali trasporto, distribuzione, mark eting, personale

qualificato (Banca d’Italia, 2009) .

57

L’esportazione indiretta risulta la modalità di

internazionalizzazione più ricorrente tra le imprese di dimensioni

inferiori per il limitato impiego di risorse e competenze ; inoltre,

ricorrere agli intermediari consente all’impresa di sopperire alla

carenza d’informazioni, di relazioni e di strutture nel territorio

estero (Caroli, Lipparini, 2002b) . Le esportazioni indirette ,

tuttavia, possono tramutarsi in una modalità ad alto rischio, poiché

viene a mancare il contatto diretto con il cliente che consente di

analizzarne i bisogni e prevederli: il mancato interesse nei

confronti del collocamento dei prodotti nelle piccole imprese è

causa di forte instabilità delle vendite (Spigarelli, 2001). Come

forma di esportazione indiretta, le PMI sono solite ricorrere anche

a consorzi di export, ovvero collaborazioni non societarie tra

imprese, senza scopo di lucro (Spigarelli , 2001).

Per le PMI i l tipo di domanda risulta una discriminante, in quanto

imprese a contatto diretto con i l cliente finale esportano con più

facili tà rispetto alle contoterziste (Caroli , Lipparini, 2002b).

Non mancano ostacoli che limitano e a volte impediscono l’ export .

Le imprese di dimensioni inferiori incontrano maggiori difficoltà

nel reperire informazioni adeguate riguardanti i mercati esteri; la

carenza di informazioni determina l’aumentare del rischio

percepito e rende più difficile relazionarsi con le amministrazioni e

assolvere gli adempimenti normativi sui mercati esteri. Altri

ostacoli per le PMI sono le difficoltà nella gestione delle

problematiche relative alle esportazioni, la difficoltà nel reperire e

nel gestire il credito e la minore capacità di cogliere opportunità e

di beneficiare della propria presenza sui mercati esteri. Ulte riori

vincoli vengono incontrati da quelle imprese che si affacciano sui

mercati esteri grazie alla spinta imitativa, la quale limita

ulteriormente l’operato delle imprese che rimangono nella

condizione di follower , senza definire un chiaro progetto aziend ale

(Caroli, Lipparini , 2002b) . Barriere tariffarie e costi di trasporto

elevati pongono l’impresa nella condizione di valutare

l’opportunità di al tre modalità di espansione.

58

3.4.2 Forme di cooperazione

Attraverso la cooperazione, le PMI possono superare i vincoli

derivanti da risorse, competenze, investimenti necessari a

competere a livello globale avendo stipulato “contratti di

relazioni”, che consentono anche alle imprese più piccole di

sfruttare conoscenze, canali di distribuzione e competenze di

marketing proprie della grande impresa (Quattrociocchi , 2003). Le

forme di coalizione permettono alle imprese di minori dimensioni

di condividere i vantaggi competit ivi, sfruttare le eventuali

sinergie, dividere i rischi e gli investimenti (Spigarelli, 2003).

Il ricorso al licensing consente alle PMI dotate di risorse

finanziarie l imitate di espandersi all’estero, poiché l’impresa

licenziante non deve farsi carico dei costi e dei rischi connessi al

collocamento commerciale all’estero.

Per via dei rischi e dei costi connessi , l’espansione estera

attraverso la costruzione di una rete di franchising è raramente

utilizzata dalle PMI.

3.4.3 Investimenti diretti esteri

Secondo Penrose, la disponibili tà di competenze manageriali e la

loro efficace implementazione rappresentano un fattore

determinante per la crescita dell’impresa. Altri vincoli possono

risiedere nelle competenze organizzative, nella capacità di

coordinamento, nella disponibilità di risorse finanziarie. Queste

ultime, tuttavia, hanno rilevanza secondaria rispetto all e

competenze manageriali (Buckley, 1999).

Secondo diverse indagini, in Italia si attribuisce importanza ad

entrambe le motivazioni, tuttavia la differenza risiede nella

tipologia di imprese che predilige una modalità rispetto all’altra: le

imprese di minor i dimensioni attuano principalmente IDE

verticale, mentre quelle di maggiori dimensioni IDE orizzontali

(Banca d’Italia, 2009).

59

Buckley (1999) teorizza il ricorso agli IDE da parte delle PMI

tramite l’ipotesi dei “guadagni del giocatore d’azzardo”, secondo

cui l’impresa che decide di internazionalizzarsi è come un

giocatore d’azzardo che inizia il gioco con un investimento meno

impegnativo e reinveste le sue “vincite” nel gioco “ until a real

‘killing’ was made”. Le imprese inizialmente investono un

ammontare non considerevole a causa degli alti costi di

informazione e coordinamento e dunque dell’incertezza che

l’investimento nei mercati esteri risult i relativamente redditizio;

una volta che questo si rivela profit tevole, l’incertezza si riduce e i

costi di ricerca tendono a zero.

Aharoni considera gli IDE delle PMI come un processo

manageriale, suddivisibile in cinque stadi (Buckley 1999):

1. È necessario un forte impulso iniziale che avvii il non

investitore ad intraprendere il percorso del l ’IDE. Secondo

l’autore, non è sufficiente lo stimolo che proviene dalla

possibilità di alti rendimenti.

2. La seconda fase riguarda la ricerca di informazioni

soprattutto inerenti al livello di rischio.

3. Aver raccolto le informazioni necessarie è sufficiente per

sviluppare l’impegno; nella terza fase, infatti , si decide di

investire.

4. La quarta fase riguarda le negoziazioni.

5. Intrapreso il percorso dell’IDE, nel lungo periodo l’impresa

si troverà nella condizione di dover compiere dei

cambiamenti soprattutto a livello strutturale ed

organizzativo.

Un terzo approccio sulla decisione di effettuare investimenti diretti

esteri da parte delle piccole imprese è teorizzato da Buckley.

L’impresa procede per stadi:

1. Parte dalla definizione di successo tramite un “indice di

success”, come misura che sintetizza la redditività, la

crescita, la percezione manageriale del successo e la

60

valutazione degli investimenti in relazione alla completa

internazionalizzazione.

2. Ogni investimento viene valutato su una scala di 5 punti .

3. Si procede, poi, alla valu tazione di ogni decisione secondaria

in base al risultato in termini di successo degli investimenti.

4. Nell’ultima fase vengono testati i risultati dell’indice di

successo, considerando che alcuni fattori esterni potrebbero

aver influenzato i risultat i.

Figura 9 Quota parte del numero di imprese estere partecipate da imprese italiane per

classe dimensionale

Fonte: elaborazione su dati ICE

Fino agli anni Ottanta, in Ital ia l’internazionalizzazione produttiva

ha riguardato principalmente le imprese di grandi dimensioni,

mentre negli anni Novanta anche tra le piccole e medie imprese si

è diffuso i l ricorso a questa modalità. Osservando i dati relativi

alle imprese estere partecipate da imprese italiane , riportati in

figura 9, cresce la quota parte relativa al numero di imprese di

piccolissime dimensioni (fino a 9 addetti), a ridursi è, invece,

quella di medie e grandi imprese.

La dimensione aziendale risulta, tuttavia, una discriminante:

indagini empiriche dimostrano, infatti, che passa ndo da

internazionalizzazioni più soft, come le esportazioni, a

61

internazionalizzazioni che comportano un più intensivo impiego di

risorse, come gli investimenti diretti esteri , la dimensione

aziendale assume ri levanza; non solo le imprese di più grandi

dimensioni sono più grandi, ma sono anche più produttive,

investono maggiormente in innovazione e R&S, hanno personale

più qualificato (Banca d’Italia, 2009). Secondo l’Istat (2013), tra il

2007 e il 2010 le imprese che hanno fatto ricorso a modalità di

internazionalizzazione che implicano un maggior impiego di

risorse hanno registrato performance superiori, soprattutto in

occupazione, produttività e valore aggiunto anche a l ivello

settoriale.

Tabella 7 Aree di destinazione delle attività decentrate per classi dimensionali d’impresa

(valori in percentuale)

Fonte: Inchiesta ISAE 2007 ad hoc sull’internazionalizzazione (Lamieri, Lanza, 2008)

Dalla suddivisione delle aree di destinazione del flusso degli

investimenti esteri i talian i per classi dimensionali delle imprese

riportata in tabella 7 si deduce che le dimensioni aziendali sono

correlate anche con la distanza tra il paese di origine e quello in

cui si investe: imprese di dimensioni maggiori tendono a investire

in paese logist icamente, politicamente e geograficamente più

lontani, che comportano, dunque, ri schi maggiori. Si può, quindi,

confermare che con la crescente integrazione delle economie e

quindi riduzione delle barriere, dei costi di trasporto e gli sviluppi

tecnologici vi sono maggiori opportunità per le imprese di minore

62

dimensione di ricorrere a forme di internazionalizzazione più

impegnative (Lamieri, Lanza, 2008).

3.5 Strategie di internazionalizzazione

La letteratura sull’internazionalizzazione delle PMI, seppur scars a,

si è focalizzata principalmente sul percorso che seguono, sulle

modalità, trascurando l’analisi delle scelte strategiche delle PMI

sui mercati esteri: dalla possibili tà di ottenere un vantaggio

competitivo alla costituzione di una strategia, alla decisi one

riguardante il marketing mix se adattare o standardizzare l’offerta

(Hagen, Palamara, Zucchella , 2008).

Nel caso delle PMI occorre scartare la possibilità di raggiungere il

vantaggio competitivo tramite leadership di costo a causa della

difficoltà di raggiungere economie di scala date le limitate

dimensioni aziendali .

Per quanto riguarda la scelta strategica tra differenziazione vs

concentrazione i risultat i sono inconcludenti (Hagen, Palamara,

Zucchella, 2008): analisi empiriche mostrano risultati d iscordanti

dell’effetto delle esportazioni di prodotti differenziati sulla

performance aziendale . La strategia di differenziazione mostra un

forte orientamento al cliente, ponendo attenzione su innovazione e

marketing.

Frequentemente, le imprese di piccole dimensioni adottano una

strategia di nicchia; questa consente di ottenere un vantaggio

competitivo sostenibile.

3.6 Processo di internazionalizzazione

L’espansione in mercati esteri porta con sé l’acquisizione di nuove

conoscenze, lo sviluppo di nuove relazi oni, l’affermazione della

propria reputazione e innovazioni strategiche. Tutto ciò costituisce

la base per il consolidamento della presenza sul mercato e per la

valutazione di una ulteriore estensione. Si può, dunque, affermare

che il processo non è il risultato di una pianificazione ex-ante ,

bensì di acquisizione di competenze che consentono all’impresa d i

63

rinnovarsi progressivamente. La generazione del nuovo impulso

evolutivo, tuttavia, è funzione della capacità di adattamento delle

routine aziendali al nuovo contesto e alle attese dei soggetti interni

ed esterni coinvolti e della risposta del mercato. Risulta pertanto

difficile poter modellizzare il processo; a tal proposito Grandinetti

e Rullani (1992 , p.3) affermano che “l’internazionalizzazione delle

piccole e medie imprese è un fatto, ma non ancora una teoria”.

Il processo di internazionalizzazione di una PMI è il risultato

dell’evolvere di impulsi e routine. L’impulso iniziale, che modifica

lo status quo dell’impresa, proviene dall’imprenditore - innovatore

come risposta a stimoli esterni. Si innescano così dei meccanismi

che inducono cambiamenti strutturali, apprendimento e

cambiamenti nella strategia. Durante la prima fase di impulso

l’impresa compie i primi passi nei mercati esteri . Alla prima fase

segue quella di stabilizzazione in cui si consolidano le routine e

con queste la presenza all’estero . Nuove competenze e

modificazioni nelle routine generano un nuovo impulso. Il

consolidamento all’estero rafforza la reputazione aziendale e la

fiducia dei consumatori e dunque l’insieme di relazioni aumenta

quantitativamente e qualitativamente; l’impresa si trova così nella

condizione di poter beneficiare di una mole notevole di

informazioni e conoscenze in grado di stimolare ulteriormente

l’apprendimento . Da qui segue un alternarsi di impulsi e routine

che consente lo sviluppo incrementale dell’espansione estera. Il

ruolo dell’imprenditore è fondamentale, non solo poiché con la sua

azione innovatrice è in grado di generare l’impulso, ma anche

poiché è egli a generare il fine tuning tra impulso e fattori interni

ed esterni che determina lo sviluppo di nuove routine efficaci e

coerenti con le motivazioni dell’internazionalizzazione (Caroli,

2002).

Per quanto riguarda le modali tà di at tuazione della strategia di

espansione oltre confine, Caroli (2007) suggerisce la distinzione

tra: internazionalizzazione congenita (born global o international

new venture), trainata e programmata; secondo la classificazione,

64

le discriminanti sono il momento d’avvio e la motivazione della

strategia di espansione estera. Occorre, tuttavia, considerare che

non risulta una distinzione esaustiva, in quanto le modalità

possono coesistere all’interno della stessa impresa (Caroli , 2007).

Le born global sono imprese di dimensioni medie e piccole che

mostrano un approccio diverso rispetto a quello identificato dallo

sviluppo per fasi; solo durante gli anni Ottanta studi empirici

hanno confermato l’emergere di un cambiamento nell’approccio

all’esportazione rispetto a quanto sosteneva la lettera tura

tradizionale, ovvero l’approccio comportamentista ( Rasmussen,

Madsen, 2002). Le imprese born global sin dalla nascita sono

contraddistinte da una considerevole espansione estera attraverso

modalità ad alto coinvolgimento oppure attraverso un’intensa

attività esportativa (Monti , 2011) . I fattori alla base dell’emergere

della nuova forma di internazionalizzazione sono la concorrenza

sempre più globale, i nuovi sviluppi nel campo dei trasporti e delle

tecnologie di comunicazione, il numero crescente di pe rsone con

esperienze internazionali (Rasmussen, Madsen, 2002), la riduzione

del ciclo di vita dei prodotti, lo sviluppo di nuove capacità

imprenditoriali fondamentali e strategiche per l’espansione

all’estero (Monti, 2011).

Buona parte delle international new venture serve nicchie di

mercato in ambito high tech ; questi settori, infatti , offrendo output

innovativi e specializzati, si trovano nella condizione di dover

espandere il mercato oltre i confini nazionali. Altre imprese born

global che non operano nei settori high tech rivolgono, comunque,

la loro offerta a nicchie di mercato (Monti, 2011) .

Secondo diversi autori (Rasmussen, Madsen, 2002), nel caso delle

international new venture non è l’apprendimento a svolgere un

ruolo fondamentale nel processo di internazionalizzazione, bensì il

network di relazioni.

L’internazionalizzazione trainata consiste nell’avvia re il processo

di espansione all’estero in seguito ad una spinta esercitata da

soggetti collegati verticalmente (clienti, fornitori) o

65

orizzontalmente (concorrenti) all’impresa: fa, dunque, riferimento

sia a rapporti collaborativi che competitivi. Nel primo caso

l’impresa si trova nella condizione di instaurare un rapporto

continuativo con i clienti o avvicinarsi fisicamente ai fornitori;

mentre nel secondo caso, è l’intensificarsi della concorrenza nel

mercato domestico che funge da spinta a cercare nuovi mercati in

cui competere. Come nel caso delle born global , il network di

relazioni svolge un ruolo fondamentale nella decisione e nel

processo di espansione internazionale (Caroli, 2007).

L’internazionalizzazione progettata implica una precisa volontà

dell’imprenditore di sfruttare un’opportunità di business sui

mercati esteri, di conseguire un vantaggio competitivo o di

sfruttare oltre confine quello esistente; è, dunque, il risultato di

una strategia deliberata e successivamente implementata (Caroli,

2007).

Un altro approccio utile per descrivere il processo di espansione

internazionale consiste nel verificare l’applicabilità alle imprese di

dimensioni inferiori delle tre teorie principali

dell’internazionalizzazione: teoria eclett ica, modello di sviluppo

per fasi, prospettiva reticolare. La verifica è necessaria perché le

imprese di minori dimensioni non sono la versione più piccola

delle grandi imprese, poiché hanno un atteggiamento diverso

nell’analisi e nella relazione con l’ambiente (Caroli , Lipparini,

2002b).

La teoria eclettica risulta verificata anche per le PMI, poiché

diversi studi empirici hanno confermato l’importanza degli

obiettivi di ricerca di nuovi mercati, ricerca di input significativi

per il processo produttivo e ricerca di condizioni favorevoli in cui

realizzare una o alcune fasi della catena del valore . L’obiettivo

principale risulta essere quello commerciale, i cui fattori sono s ia

interni che esterni . Tra i fat tori interni vi è la ricerca in nuovi

paesi del vantaggio competitivo ottenuto in una nicchia di mercato.

I fattori esterni , invece, includono la domanda dall’estero non

sollecitata e l’internazionalizzazione trainata da gr andi imprese

66

clienti; per le piccole imprese la stagnazione della domanda nel

mercato domestico non risulta essere una spinta all’espansione

verso nuove aree geografiche (Caroli , Lipparini , 2002b).

Anche la teoria dello sviluppo per stadi trova applicazion e

nell’espansione all’estero delle PMI, in quanto risulta un processo

che segue un percorso incrementale in cui l’apprendim ento è il

motore dello sviluppo. Alcuni autori non sono d’accordo con

questa visione in quanto sostengono che il processo non prosegu a

incrementandosi, ma per grandi salt i (Caroli, Lipparini , 2002b).

Secondo la prospettiva reticolare il motore dell’espansione in

mercati esteri sono le relazioni tra PMI e altri soggetti, i quali

possono essere grandi imprese internazionalizzate, pubblica

amministrazione o, se inserite in un cluster , altri operatori

distrettuali . Le relazioni consentono all’impresa di incide re su

conoscenza, in particolare su quella relativa al mercato estero,

sulle risorse e competenze soprattutto intangibili , sull’esperi enza e

sul “tessuto imprenditoriale” (Caroli , Lipparini, 2002b). Secondo

alcuni autori, la prospettiva reticolare costituisce l’unica strada per

competere in ambito internazionale, poiché consente di superare i

limiti dimensionali e favorisce il meccanismo di apprendimento

(Cedrola, Battaglia, 2011).

Alcuni autori sostengono che l’internazionalizzazione segue un

percorso riassumibile dalla congiunzione tra i l modello di sviluppo

per fasi e l’approccio reticolare: l’espansione si incrementa

instaurando e svi luppando le relazioni. (Caroli, Lipparini, 2002b).

67

4 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI DISTRETTI

4.1 Introduzione

La globalizzazione coinvolge tutte le dimensioni dell’impresa,

ampliando le possibili destinazioni dell’offerta e le reti di

relazioni con altre imprese e operatori presenti nel sistema locale e

globale (Pepe, Musso, 2001); si rende così necessaria la proiezione

delle reti locali nel contesto globale (Sanguigni, Bilotta, 2011).

Locale e globale diventano due componenti fondamentali per

l’espansione internazionale delle imprese, le quali si posizionano

nei mercati esteri, sfruttando le conoscenze e le competenze

acquisite nel contesto territoriale locale (Famigliett i, 2000).

Soprattutto per le imprese minori, l o studio

dell’internazionalizzazione è inevitab ilmente congiunto alla

variabile di appartenenza ad un contesto distrettuale e di

inserimento in una particolare catena distributiva: è il

rafforzamento della rete di relazione che consente il pieno

sfruttamento delle potenzialità dell’impresa (Pepe, Musso , 2001).

Le PMI riescono, infatti , a superare il vincolo dimensionale

risultando flessibili, efficienti e creative grazie alle reti, che

rappresentano, inoltre, il modo più spontaneo di ottenere e

mantenere un vantaggio competit ivo sui mercati sia locali c he

globali (Sanguigni, Bilotta, 2011).

Obiettivo del presente capitolo è analizzare

l’internazionalizzazione dei distretti che nella sua forma att iva e

passiva risulta fortemente dipendente dalla rete di relazioni tra

agenti economici, sia in qualità di imprese che di individui.

Nel primo paragrafo viene affrontata la network analysis , una delle

teorie fondamentali sull’internazionalizzazione, la quale trova

profonda applicazione nei distretti proprio per le loro peculiarità.

Si passano, dunque, in rassegna le caratterist iche dei contesti

distrettuali con una breve digressione sull’evoluzione del concetto

di distretto industriale.

68

Nel paragrafo successivo si analizza come e perché il radicamento

al territorio influenza l’espansione internazionale e se ne

analizzano i limiti .

L’internazionalizzazione si dist ingue in attiva e passiva, a seconda

che le imprese distrettuali instaurino rapporti oltre confine o che

imprese multinazionali investano nel distretto.

Si indagano, così , le modalità di internazionalizzaz ione delle

imprese distrettuali con riferimento a studi relativi al contesto

italiano, confrontando imprese distrettuali e non.

Dell’internazionalizzazione passiva si studiano le motivazioni, le

modalità e gli effetti .

4.2 Network analysis

Per network si intende un sistema di relazioni di lungo termine tra

due o più attori economici, ossia tra clienti , fornitori, distributori,

concorrenti, enti pubblici (Sanguigni, Bilotta, 2011; Monti, 2011).

Il network è importante per condividere la conoscenza sviluppata

internamente, per accedere alla conoscenza di altre organizzazioni

e per la creazione di fiducia (Sanguigni, Bilotta, 2011).

La prospettiva reticolare considera i mercati come reti di relazioni

tra imprese; lo sviluppo di tali relazioni consente l’accesso all a

conoscenza e all’informazione necessarie per operare (Sanguigni,

Bilotta, 2011). Le imprese acquisiscono dai partner le risorse e le

conoscenze, che altrimenti avrebbero dovuto sviluppare

internamente (Monti, 2011). Reperire all’interno della rete le

conoscenze è importante, poiché produrle internamente sarebbe

dispendioso e rischioso; le imprese possono, così, specializzarsi in

un sapere specifico che valorizzeranno poi su scala internazionale

(Sanguigni, Bilotta, 2011).

La creazione di network svolge un ruolo importante

nell’attivazione di sinergie, nello sviluppo di nuovi prodotti e nella

fruizione di economie d’esperienza (Sanguigni, Bilotta, 2011).

La condivisione di conoscenza è in grado di divenire st imolo a

ulteriore innovazione e sviluppo, gener ando effetti positivi sul

69

valore creato e sul rafforzamento e continuità delle relazioni

(Cedrola, Battaglia, 2011).

I primi autori che applicarono la network analysis

all’internazionalizzazione furono Johanson e Mattson, secondo i

quali vi è una forte dipendenza tra espansione estera e numero e

intensità delle relazioni: grazie alla fiducia ottenuta sul mercato

domestico, l’impresa può provare ad entrare in reti estere e,

successivamente, estenderle in altri paesi (Monti, 2011).

Il processo di internazionalizzazione dipende dal livello di

espansione estera della rete in cui l’impresa si colloca e da come

l’impresa stessa si posiziona all’interno del network . Maggiore

sarà il grado di internazionalizzazione e i l grado di coinvolgimento

nella rete, maggiore sarà la conoscenza sul mercato estero di cui

l’impresa potrà beneficiare (Monti, 2011) .

Quando l’internazionalizzazione assume i connotati di una

strategia collettiva, l’apprendimento avviene per interazione e su

più livelli : al learning by interacting nel l’ambiente domestico si

aggiunge l’apprendimento che deriva dalle relazioni con soggetti

provenienti da contesti diversi (Lipparini , 2002).

Lo sviluppo di relazioni fiduciarie e di collaborazione consente

anche e soprattutto alle imprese di minori dimensione di acquisire

conoscenze, risorse e competenze, ricorrendo a modell i diversi da

quelli proprietari e favorisce la competizione di successo sui

mercati mondiali (Cedrola, Battaglia, 2011).

La network analysis ha rivalutato i l ruolo del sistema locale ne i

processi di internazionalizzazione per il ruolo fondamentale che la

rete di relazioni riveste nell’ottenimento del vantaggio competitivo

e nella più efficace divisione del lavoro (Sammarra, 2003); la

strategia di internazionalizzazione, infatti, non può venire

concepita come endogena, autonoma rispetto al territorio, ma come

risultato della ricerca di più efficaci modalità di relazionarsi e di

cooperare con altri agenti e con l’ambiente (Famiglietti , 2000).

All’interno dell’approccio relazionale svolge u n ruolo importante

il distretto, luogo in cui generalmente le imprese indipendenti si

70

integrano in una rete di relazioni di cooperazione di lungo periodo .

Occorre comunque considerare che i l distretto non rappresenta né

una condizione necessaria né suffici ente allo sviluppo di network

di cooperazione, poiché non necessariamente l’operare nello stesso

territorio si traduce in comunanza gestionale , però può fungere da

acceleratore allo sviluppo di reti di relazioni grazie a maggiore

interazione sociale, cultura comune, più veloce e più efficiente

trasferimento di informazioni, conoscenze e competenze

(Ricciardelli, 2010).

Le ridotte dimensioni delle PMI vengono da molti considerate

come un limite allo sviluppo internazionale e all’innovazione di

prodotto e processo; questo vincolo, tuttavia, può essere superato

attraverso l’instaurazione di relazioni e collaborazioni, ossia

rapporti che caratterizzano le imprese localizzate nei distretti

industriali (Ricciardelli, 2010). La rete di relazioni della piccola

impresa consente l’accesso a risorse e competenze tangibili e

intangibili, che alternativamente non avrebbe potuto acquisire se

non con sforzi finanziari e manageriali notevoli ; grazie a quanto

acquisito, l’impresa ha la possibilità di elaborare ed implementar e

una strategia di successo sui mercati esteri (Cesaroni, 2005).

Secondo alcuni autori, le piccole e medie imprese distrettuali

organizzano addirittura l’attività oltre confine sul modello della

loro rete di relazioni locali (Corò, Volpe, 2006). Per la piccola

impresa hanno notevole importanza le relazioni con la gran de

impresa, poiché ne favoriscono l’espansione estera e hanno impatto

positivo su varie attività: ricerca e sviluppo, canali distributivi,

formazione delle risorse umane, tecnologie di produzio ne

(Famiglietti , 2000).

4.3 Distretti industriali

Molti autori hanno provato a definire il termine “distretto

industriale”: il primo è Marshall , che studiando i distretti

industriali inglesi , l i definisce come concentrazioni in un’unica

area geografica di tante piccole e medie imprese fortemente

71

specializzate nelle diverse fasi di un unico processo produttivo

(Becattini, 2002); le imprese beneficiano delle economie esterne,

ossia riduzioni di costo dovute a prossimità geografica,

specializzazione nella manodopera, infrastrutture logistiche, know-

how diffuso , “atmosfera industriale”: sono dei vantaggi

assimilabili alle economie di scala (Sammarra, 2003; Monti, 2011) .

Il distretto consente soprattutto alle piccole imprese di superare la

condizione di svantaggio r ispetto alle grandi in termini di

sfruttamento delle sinergie e delle economie di scala: “Sia le

grandi che le piccole aziende traggono dunque benefici […] [dalla

localizzazione dell’industria], ma questi benefici sono più

importanti per le piccole aziende , perché le liberano da molti degli

svantaggi nei quali dovrebbero operare altrimenti in concorrenza

con le grandi aziende” (Marshall A., Marshall M. P., 1975, p. 52,

in Becatt ini, 2002, p. 143). Il distretto marshalliano “non si può

ridurre alla proprietà della concentrazione territoriale

dell’industria in sé e per sé […] sviluppo «naturale» degli

automatismi del mercato, poiché salda in un blocco

concettualmente unitario i fenomeni economici e quelli socio -

culturali e prelude ad interventi pubblici confor mi” (Becattini,

2002, p. 152).

Il distretto è poi ridefinito da Becattini (2002), il quale ne

sottolinea il carattere di corrispondenza e di integrazione tra

relazioni economico-produttive e relazioni socio -culturali,

entrambe site e circoscritte: è caratt erizzato, infatti, da una

popolazione di famiglie e di imprese che interagiscono tra loro in

un’area geografica individuata; le imprese , specializzate in fasi

diverse del processo produttivo o in attività complementari , si

ripartiscono le fasi e si “radunano in squadre a composizione

variabile” che fanno capo solitamente ad un’impresa finale che si

interfaccia con il mercato esterno.

Negli anni Novanta, Porter fornisce una definizione di distretto

come cluster in cui assumono un ruolo rilevante le imprese c he ne

fanno parte, la produzione della conoscenza e del capitale sociale e

72

i rapporti internazionali (Sammarra, 2003). Porter (1998) sostiene

che i vantaggi derivanti dall’essere parte di un distretto, relativi

soprattutto a conoscenza, relazioni e motivazioni, consentono alle

imprese di avere una performance internazionale migliore. Mentre

per le economie di agglomerazione tradizionali l’importanza della

localizzazione è nella minimizzazione dei costi, per Porter (1998) i

vantaggi risiedono in informazion i, costi di transazione,

complementarietà e incentivi derivanti sia da investimenti pubblici

che privati.

Secondo Thompson, Strickland, Gamble (2009), a causa della

globalizzazione, in Italia si sono venuti a delineare nuovi distretti

più simili a cluster tecnologici: sono aree di sapere specialistico

diffuso, in cui vi è una forte propensione ad investire in ricerca e

sviluppo e una stretta collaborazione con Università e centri di

ricerca.

4.3.1 Caratteristiche

I distretti industrial i nel contesto i taliano rappresentano il motore

dello sviluppo economico e territoriale; grazie a questi piccole e

medie imprese superano il loro vincolo dimensionale, diventando

innovative e competitive (Famiglietti , 2000). Secondo alcuni autori

i distretti hanno sostenuto la crescita negli ult imi trenta anni del

Novecento, in cui la flessibilità e la capacità di innovazione di

processo delle imprese minori rappresentavano una fonte di

vantaggio competitivo e lo scarso sfruttamento delle economie di

scala non rappresentava uno svantaggio (Cutrini , Micucci,

Montanaro, 2013).

I distretti sono caratterizzati da un’area territoriale con alta

concentrazione di imprese medie e piccole fortemente radicate

nell’ambiente sociale, economico e culturale, ad elevata

specializzazione produttiva, con cicli produttivi interdipendenti

(Ricciardelli, 2010).

73

Essi non sono solo reti di relazioni tra imprese, ma anche network

sociali che connettono gli agenti economici in quanto individui

(Mariotti, 2004).

Secondo Becatt ini sono quattro le caratterist iche che

contraddistinguono un distretto: sistemi di valori comuni di etica

del lavoro, gran varietà di forme di lavoro, imprenditori che

considerano l’impresa come progetto di vita e la possibile

scomposizione del processo produttivo in fasi spaziali e t emporali

(Giannetti, Vasta, 2005).

Ogni distretto presenta peculiarità proprie che lo differenziano da

aree industriali e da altri distretti , in relazione a grado di

specializzazione tecnologica, concentrazione delle imprese, qualità

delle infrastrutture; tuttavia, connotati che accomunano i vari

distrett i sono radicamento al conteso locale e interdipendenza tra

imprese (Ricciardelli , 2010).

I punti di forza dei distrett i sono riconducibili alle caratteristiche

tipiche della piccola impresa: capacità di far e sistema,

specializzazione produttiva, flessibilità, preferenza al ricorso a

sub-fornitura piuttosto che sviluppo interno, circolazione rapida di

informazioni e dunque rapida diffusione di conoscenze e sviluppo

di competenze, al ta qualificazione della man odopera grazie al

processo di learning-by-doing (Famiglietti, 2000).

La specializzazione produttiva, la distribuzione della capacità

produttiva tra le diverse unità e la prossimità territoriale e

produttiva comportano vari benefici.

Le attività produttive sono parcellizzate in fasi distinte e altamente

specializzate (Sammarra, 2003). La specializzazione produttiva

consente il raggiungimento di economie di scala e di

apprendimento e dunque la riduzione dei costi unitari e l’ aumento

della produttività (Ricciardelli , 2010).

La distribuzione della capacità produttiva tra le diverse unità

comporta flessibilità qualitativa e quantitativa la quale consente

all’impresa di modificare rapidamente i volumi e la qualità della

74

produzione e di ricercare capacità produtti ve adeguate nel distretto

(Pepe, Musso, 2001; Ricciardelli , 2010) .

La prossimità territoriale e produttiva permette una più rapida

creazione e più efficace trasmissione della conoscenza

(Ricciardelli, 2010). Il distretto rappresenta un circuito

informativo naturale che è in grado di accrescere le competenze di

tutte le imprese, alimentandosi grazie alle esperienze degli

operatori economici che ne fanno parte (Cesaroni, 2005) e, inoltre,

di costruire la reputazione ; facendo circolare rapidamente

informazioni consente l’individuazione di interlocutori

commerciali e di fornitori con le caratteristiche ricercate, di

mercati di sbocco, di servizi e il miglioramento di prodotti e

processi; tramite le ist ituzioni, inoltre, fornisce supporti

informatici, organizzazione e partecipazioni a fieri internazionali,

attività di formazione specifiche (Pepe, Musso, 2001). La

circolazione rapida delle informazioni e la corrisp ondenza tra

ambiente economico- produttivo e socio- culturale consente alle

imprese un più efficace monitoraggio e, dunque, di affrontare con

costi inferiori i problemi relativi a incertezza e opportunismo

(Sammarra, 2003).

Tra imprese distrettuali la reputazione non si costruisce solo

tramite la rapida circolazione di informazioni, ma anche grazie alla

prossimità territoriale, ai rapporti diretti sia economici che

personali, alla possibilità di scambio ripetuto.

Una delle caratteristiche fondamentali del distretto è la

compresenza di competizione e cooperazione, le quali sono

entrambe conseguenza della parcell izzazione verticale e

orizzontale del lavoro tra le imprese: la cooperazione nasce dal

coordinamento tra operatori economici che svolgono att ività

complementari, mentre la competizione è tra imprese che svolgono

attività simili (Sammarra, 2003).

Un’altra peculiarità è la spiccata propensione all’imprenditorialità,

che, combinata alla presenza di casi di successo, favorisce la

creazione di start-up e lo sviluppo di spin-off , infatti i distretti

75

sono caratterizzati da barriere più basse alla creazione di nuovi

business (Porter, 1998, Sammarra, 1993) .

Ogni distretto, tuttavia, mostra performance differenti , non a causa

dei settori di appartenenza; performance migliori si riscontrano

laddove sono maggiori gli investimenti in innovazione, la

governante è efficiente, vi sono imprese leader che coordinano

tante filiere, le imprese subfornitrici hanno un elevato grado di

autonomia e si sviluppano sinergie con Università e centri di

ricerca (Ricciardelli, 2010).

4.4 Distretti industriali e internazionalizzazione

I distretti svolgono il ruolo di promotore e mediatore di valori e

vantaggi competitivi locali a livello internazionale (Pepe, Musso,

2001); hanno, infatti, consentito l’apertura internazionale

dell’Italia e la sua affermazione nel commercio estero (Corò,

Grandinetti, 1999).

Lo studio dell’espansione internazionale deve essere accompagnato

dalla comprensione del valore del territorio per le imprese

internazionalizzate, non solo e non necessariamente perché in quel

luogo si svolge il processo di produzione, ma p erché ivi si attinge

a conoscenze, valori , risorse (Sammarra, 2003).

Il distretto viene considerato un fautore dell’internazional izzazione

per via di alcune sue caratteristiche: legame che imprese

soprattutto di dimensioni inferiori instaurano con il terr itorio,

cooperazione tra attori che operano in diversi livelli del sistema

del valore, diffusione delle conoscenze e accesso a modelli di

comportamento di imprese che hanno già avviato il processo di

espansione all’estero, apprendimento per interazione, pr ossimità a

infrastrutture e risorse in grado di generare la crescita (Lipparini,

2002).

La globalizzazione dei mercati, lo sviluppo di nuove tecnologie e

la competizione internazionale tra imprese contribuiscono a

ridisegnare l’assetto dei distretti, poiché per molte imprese,

soprattutto quelle di dimensioni superiori, risulta più conveniente

76

esternalizzare fasi della produzione (Thompson, Strickland,

Gamble, 2009). La maggiore mobilità delle persone, delle

informazioni, dei capitali e delle merci riducon o il vantaggio

competitivo derivante dalla prossimità fisica (Distretti Italiani,

Unicredit, 2011). I distrett i hanno dovuto riposizionarsi per

recuperare produttività, al fine di rispondere all’aumento del costo

del lavoro e all’ingresso sul mercato globa le delle economie

emergenti; la prontezza di reazione e la flessibilità organizzativa e

strategica tipiche dei distretti hanno consentito un’efficace risposta

alla nuova congiuntura. Per rispondere all’aumento del costo del

lavoro, le imprese hanno instaurato nuovi rapporti cooperativi e

rafforzato quelli correnti; per quanto riguarda l’ingresso di

economie emergenti , i distretti hanno risposto puntando alla

differenziazione, cioè intervenendo su non price factors

(Famiglietti , 2000).

Secondo alcuni autori , solamente la formazione, lo sviluppo e la

specializzazione del know-how distrettuale permettono alle

imprese di rispondere all’estensione globale della catena del valore

a monte e a valle e di beneficiare dell’effetto distretto (MIT,

2003). È più efficace ricorrere al distretto laddove si richiedono

competenze più complesse e specialistiche, quali condivisione di

rischi e di idee, progettazione congiunta, poiché il locale

garantisce rapporti intensi e duraturi tra gruppi fortemente

integrati , mentre è più conveniente ricorrere alla rete globale per

funzioni caratterizzate da minor complessità, come l’acquisto di

materie prime o prodotti intermedi (Distretti Italiani, Unicredit,

2011).

Un’indagine del Sole 24 Ore (5 gennaio 2013) conferma che i

distrett i italiani che sono riusciti a resistere alla globalizzazione e

alla recente crisi sono quelli innovativi e quelli che si sono aperti

all’estero.

77

4.4.1 Limiti dei distretti

Il tessuto industriale italiano, costituito da distretti e caratterizzato

da produzione concentrata terri torialmente e catena del valore

frammentata tra le varie imprese distrettuali , secondo alcuni autori ,

è la causa della forte propensione alle esportazioni a discapito di

investimenti dirett i esteri , diversamente da quanto accade in altri

paesi quali Germania, Francia, USA (Genna, 2007).

Pur considerando l’importanza dei distretti indu striali quali

promotori di conoscenze specialistiche ben radicate nella cultura

locale, risultano, tuttavia, inadeguati nel trasmettere alle imprese

distrettuali conoscenze e competenze relative a innovazione,

marketing, valorizzazione di risorse intangibili . Occorre, dunque,

denunciare la presenza di l imiti a livello culturale, strategico e

organizzativo (Cedrola, Battaglia, 2011). Alcuni studiosi

ritengono, infatti , che il distretto sia un freno e una minaccia per

l’internazionalizzazione, l’innovazione, le relazione e il confronto

con soggetti al di fuori dei confini distrettuali (Lipparini, 2002).

Secondo alcuni autori, i distretti e le imprese di minori dimens ioni

stanno perdendo competitività e quote di mercato sul commercio

internazionale a causa di fattori esogeni, quali l’ingresso di

economie emergenti , nuove tecnologie, e di fattori endogeni, ossia

debole propensione all’innovazione e all’investimento, cla sse

imprenditoriale di età maggiore, difficoltà nel passaggio

generazionale (Genna, 2007).

Il modello distrettuale non è pronto a cogliere la sfida

dell’internazionalizzazione, inoltre, a causa dei limiti organizzativi

e strategici propri delle singole imp rese e a causa della scarsità di

interventi pubblici e di strumenti a promozione del territorio.

Un limite importante all’internazionalizzazione è la non sufficiente

collaborazione tra imprese soprattutto medie e piccole a l ivello

produttivo e, in particolar modo, a livello organizzativo;

l’inasprimento della competizione riduce ulteriormente il ricorso a

collaborazioni (Famiglietti, 2000).

78

Secondo alcuni autori negli anni recenti il vantaggio di

performance derivante dall’appartenenza delle imprese al di stretto

si è ridotto notevolmente: la performance è spiegata principalmente

dalle caratteristiche interne all’azienda, piuttosto che dall’essere

parte di un distretto; ciò non significa che è venuto meno il

contributo dell’effetto distretto, ma piuttosto c he è oggetto di una

“rimodulazione”: si sta assistendo all’evoluzione da “distretto del

processo produttivo” a “distretto del prodotto” (Cutrini, Micucci,

Montanaro, 2013).

4.5 Internazionalizzazione attiva e passiva

Corò e Grandinetti (1999) hanno individ uato sei tipologie di attori

che avviano i l processo di internazionalizzazione:

- Imprese leader nel distretto che proiettano a livello

internazionale la loro rete di relazioni ;

- Gruppi multinazionali che investono nel distretto ;

- PMI che decidono di intraprendere strategie di nicchia in

mercati internazionali o che sviluppano una cooperazione con

altre imprese per affrontare congiuntamente le sfide, i rischi e i

costi connessi all’ingresso in mercati esteri ;

- PMI operanti in stadi intermedi del processo di prod uzione che

decidono di eseguire subfornitura internazionale ;

- PMI operanti in settori complementari , di supporto o comunque

correlati all’attività principale del distretto, che decidono di

internazionalizzarsi ;

- Strutture operanti nei distretti che offrono servizi in attività,

quali marketing, qualità di prodotto, trasferimento tecnologico

e che interfacciano i circuiti della conoscenza locali con quelli

globali .

I distretti industriali possono essere coinvolti da

internazionalizzazione attiva e passiva. L’in ternazionalizzazione

attiva è il risultato dello sviluppo all’estero di imprese distrettuali ,

che può assumere tre dimensioni diverse: presidio di mercati di

sbocco e mercati di materie prime, ricorso a prestazioni

79

immateriali, delocalizzazione di subforni ture o attività della fi liera

(Mariotti, 2004; Genna, 2007). L’internazionalizzazione passiva è

il risultato di investimenti di imprese estere nei distretti, da cui

possono derivare vantaggi non solo per la multinazionale, ma

anche per il distretto e chi v i opera (Genna, 2007).

4.5.1 Internazionalizzazione attiva

Gli studiosi descrivono i distretti industriali italiani come un

sistema chiuso di imprese manifatturiere radicate nel contesto

locale, in grado di interagire con attori al di fuori del distretto solo

ai due estremi della catena del valore; tuttavia alla fine degli anni

Ottanta e negli anni Novanta anche dalle imprese distrettuali è

stata percepita l’importanza di estendere le loro relazioni al di

fuori dal contesto locale; la delocalizzazione ha evidenzi ato che i

distrett i sono abili non solo nel posizionamento dell’output

prodotto internamente in mercati internazionali , ma anche nella

riorganizzazione della filiera (Mariott i, Micucci, Montanaro,

2004).

L’appartenenza ad un sistema distrettuale funge sopr attutto per le

PMI da st imolo all’espansione internazionale grazie allo

sfruttamento dei benefici e delle esternalità positive derivanti dalla

loro natura district-based : le PMI distrettuali traggono i benefici

derivanti dalla divisione del lavoro e dall’apprendimento, dalla

fiducia e dal network di relazioni. La divisione del lavoro consente

lo sviluppo di competenze specialistiche e di alto l ivello, che

l’impresa può sfruttare sinergicamente sul mercato estero. Le

imprese possono, inoltre, sviluppare mecc anismi di apprendimento

derivanti da altrui esperienze sul mercato estero. Il sistem a

naturale di informazioni instaurato nel distretto ha importanza

fondamentale per la diffusione del clima di fiducia nei confronti

dell’espansione internazionale; la fiducia, rafforzandosi,

contribuisce alla diffusione di una “cultura internazionale”, in

modo che l’espansione all’estero venga considerata con un maggior

grado di familiarità (Cesaroni, 2005).

80

4.5.1.1 Modalità

Con riferimento ai distretti , l’internazionalizzazione può essere di

tipo fondamentalmente commerciale o produttivo; il primo inerente

alla propensione all’importazione e/o esportazione, il secondo agli

investimenti diretti (Sammarra, 2003). Alcuni autori individuano

una terza forma di tipo tecnologico (Famiglie tti, 2000).

L’internazionalizzazione di tipo tecnologico implica un iniziale

trasferimento di tecnologie e know-how che coinvolge ulteriori

unità produttive (Famiglietti, 2000).

Per quanto riguarda l’internazionalizzazione commerciale, è

visione condivisa e documentata che s ia in passato sia attualmente

i distretti industriali presentano una forte propensione

all’esportazione (Sammarra, 2003). Nei distretti italiani sono

localizzate il 40% delle imprese manifatturiere, che contribuiscono

al 27% del Pil e al 46% delle esportazioni (Ricciardell i, 2010).

La dimensione delle imprese viene considerata un vincolo, in

quanto si attuano forme più semplici di espansione internazionale

commerciale: l’esportazione indiretta, attraverso mediatori,

agenzie di export management , consorzi per l’esportazione ;

modalità più complesse di internazionalizzazione vengono attuate

all’interno del distretto da imprese leader, le quali assumono il

controllo diretto della rete distributiva o creano una rete di agenti

nei mercati ester i (Sammarra, 2003) .

Il mercato di destinazione dei prodotti in cui si realizza più della

metà del fatturato, ossia mercato prevalente, risulta essere per gran

parte delle imprese distrettuali e non quello nazionale.

Secondo i dati del Centro Studi Unioncam ere e Assocamerestero,

riportati in tabella 8, l e imprese distrettuali dimostrano una

maggiore propensione alle esportazioni, in quanto più de lla metà

del fatturato del 19,5% delle imprese distrettuali è realizzato

all’estero, contro il 10,1% delle imprese non distrettuali.

81

Tabella 8 Mercato di destinazione dei prodotti di imprese distrettuali e non

Mercato prevalente Imprese distrettuali Altre imprese

Locale 19,0 19,5

Regionale 18,0 25,0

Nazionale 43,5 45,4

UE 11,8 6,2

Extra-UE 7,7 3,9

Totale 100,0 100,0

Fonte: Centro Studi Unioncamere e Assocamerestero, 2002 in Esposito, 2003b

L’internazionalizzazione produttiva avviene tramite investimenti

diretti , joint venture, forme di cooperazione. Vi è una minore

propensione a modalità di tipo equity , non discordandosi dalla

tendenza delle imprese i tal iane non distrettuali . Una ulteriore

modalità può essere l’affidamento di una fase della lavorazione a

imprese estere senza la presenza di un accordo esplicito ; risulta

una forma particolarmente utile per imprese di minori dimensioni,

poiché richiedono un impiego di risorse limitato e implicano un

rischio relativamente basso (Sammarra, 2003). La modalità di

internazionalizzazione produttiva a cui le imprese distrettua li

fanno maggior ricorso è la subfornitura internazionale a discapito

degli IDE (Mariotti, Micucci, Montanaro, 2004).

Un’ulteriore distinzione delle forme di espansione estera a livello

di produzione può essere tra delocalizzazione di attività produttive

e rilocalizzazione, ossia trasferimento totale dell’impresa al di

fuori del distretto.

Da alcuni autori l’internazionalizzazione produttiva attiva è vista

come la causa di una futura e progressiva disintegrazione dei

distrett i, intesi come sistema di produz ione relat ivamente

autosufficienti e autocontenuti. Attualmente la delocalizzazione

interessa le fasi della produzione labour-intensive ed è attuata

principalmente da imprese che servono la fascia medio - bassa del

mercato, dunque non rappresenta ancora un’ effettiva minaccia di

disintegrazione dei distrett i, tuttavia in un’ottica di medio- lungo

termine nelle aree di destinazione si potrebbero sviluppare

competenze tali da modificare gli equil ibri distrettuali (Sammarra,

82

2003). Il fenomeno di delocalizzazione ha comportato una

riduzione del grado di integrazione verticale del distretto,

privilegiando lo sviluppo interno di attività strategiche e ad alto

valore aggiunto, come la progettazione e la dis tribuzione

(Famiglietti , 2000): l’internazionalizzazione a m onte e quella a

valle risultano così connesse l’un l’altra; nel caso in esame è

necessario che la delocalizzazione produttiva comporti il

potenziamento della funzione di marketing sia a livello di singola

impresa che distrettuale, sviluppando nuovi prodot ti e processi e

fornendo nuovi servizi a supporto dell’espansione estera (Pepe,

2006).

Il grado di espansione estera delle PMI distrettuali risulta maggiori

in termini di scambio commerciale, mentre più contenuto in

termini di delocalizzazione produttiva r ispetto alle piccole e medie

imprese non distrettuali (Mariotti, 2004; Genna, 2007), come

dimostrato dalla tabella 9 relativa alle modalità di

internazionalizzazione delle imprese italiane .

La modalità principale con cui le imprese distrettuali si

internazionalizzano risultano essere gli accordi per commesse

(38,5%) con un divario notevole rispetto alla percentuale di ricorso

delle imprese non distrettuali (17,4%) ; anche gli accordi per

distribuzione sono modalità a cui le imprese distrettuali fanno

maggior ricorso rispetto alle altre aziende. Invece, per quanto

riguarda le joint venture , gli accordi per affidamento e gli

investimenti dirett i esteri la situazione si capovolge: sono le

imprese non distrettuali a farne maggior ricorso.

83

Tabella 9 Modalità d’internazionalizzazione delle imprese italiane, suddivise in distrettuali

e non

Modalità

d’internazionalizzazione

Imprese

distrettuali

Altre

imprese

Accordi per commesse 38,5 17,4

Accordi per distribuzione 22,2 16,5

Joint ventures 15,4 22,4

Accordi per affidamento 12,8 22,2

Investimenti diretti 11,1 21,4

Totale 100,0 100,0

Fonte: Centro Studi Unioncamere, Assocamerestero 2002 in Mariotti, 2004; Genna, 2007; Esposito, 2003b

4.5.2 Internazionalizzazione passiva

4.5.2.1 Motivazioni

Gli investimenti diretti al l’estero possono venir considerati come

la creazione di relazioni che connettono la rete locale con la rete

estera, aumentando la competitività dell’impresa a livello

internazionale grazie all’accesso a un maggior quantitativo di

risorse sia tangibili che intangibili . Viene affidata dalle imprese

importanza maggiore al contesto locale che, in quanto bacino di

conoscenze nuove ed, eventualmente, specifiche, favorisce

l’apprendimento. L’interesse delle imprese ai distretti è spiegato

proprio dalla concentrazione di conoscenze specifiche.

Le motivazioni legate all’internazionalizzazione in un distretto

sono essenzialmente di tipo knowledge-based : i benefici ricercati

sono, infatti, l’integrazione della conoscenza locale con la propria

cultura e capacità produttiva, una divisione del lavoro più efficace

sfruttando il know-how del terri torio di destinazione, che consente

all’impresa di coniugare una più grande varietà interna con una

struttura più flessibile caratterizzata da più efficace creazione e

trasferimento di conoscenza.

Con riferimento al contesto italiano, non si può ritenere che le

imprese multinazionali siano spinte da motivazioni di tipo cost-

saving , poiché non sussistono particolari vantaggi di costo

(Sammarra, 2003). Si assiste addirittura alla riduzione

dell’integrazione verticale dei distretti italiani, in seguito alla

84

ricerca da parte di imprese di delocalizzare attività labour-

intensive laddove sussistono minori costi del lavoro e dei fattori

produttivi (Famiglietti, 2000).

Sono realizzabili , tuttavia, forme di efficiency gains , poiché la

presenza di numerose imprese terziste è un incentivo ad affidare

fasi della lavorazione all’esterno e, dunque, rendere la produzione

e la struttura organizzativa più flessibile; un’ulter iore forma di

efficiency gains deriva dal fatto che la prossimità geografica

consente di risparmiare sui costi di trasporto. Entrambe le forme,

tuttavia, da sole non sono sufficienti per motivare l’ingresso di

imprese estere nel distretto.

Altre motivazioni che trovato applicazione debole se non nulla

sempre con riferimento alle imprese multinazionali che decidono di

estendersi nei distretti italiani sono la prossimità a materie prime

e/o a mercati di sbocco e l’elevata dimensione del mercato interno.

Trovano, invece, applicazione le motivazioni di tipo strategico ,

quali l’ampliamento della gamma di prodotti per via della

differenziazione e diversificazione di prodotti e tecnologie nella

realtà distrettuale, la riduzione della competizione all’interno del

settore. Questo t ipo di motivazioni è, tuttavia, riconducibile

all’approccio knowledge-based .

Riassumendo, le ragioni alla base della localizzazione dell’impresa

multinazionale nel contesto distrettuale sono l’accesso a capitale

umano e sociale e la possibil ità di consentire alle altre unità

dell’impresa lo sfruttamento delle competenze acquisite

(Sammarra, 2003).

4.5.2.2 Modalità

Gli investimenti in entrata sono relativamente limitati , poiché vi

sono consistenti barriere ; i distretti, infatti, sono costituiti

principalmente da imprese a proprietà locale.

Gli attori distrettuali sono caratterizzati da cultura, valori e

tradizioni comuni, da legami sociali prima che economici: tutto ciò

rappresenta una notevole barriera all’entrata (Sammarra, 2003).

85

Nel processo di internazionalizzazione svolge un ruolo importante

il contesto socio- culturale: è importante che il comportamento

strategico dell’impresa sia teso alla costruzione di rapporti con il

contesto socio- culturale ed isti tuzionale con le altre imprese del

sistema territoriale (Famigliett i, 2000).

Modalità necessarie ad ovviare alle barriere all’entrata relative alla

cultura comune possono essere gli accordi di joint venture con

imprese radicate nel distretto oppure l’acquisizione di imprese

locali (Sammarra, 2003). Le joint venture consentono, infatti, di

superare le asimmetrie informative. L’acquisizione di un’impresa

può risultare modalità diretta di internazionalizzazione oppure

derivare dall’evoluzione del processo di espansione successiva

all’accordo di joint venture. Attraverso queste due modalità le

imprese instaurano rapporti o acquisiscono imprese radicate da cui

possono acquisire conoscenze e che hanno forti potenziali tà di

sviluppo; le imprese distrettuali, invece, possono sfruttare le reti

commerciali che operano nei mercati esteri.

Gli investimenti diretti greenfield in entrata sono modalità meno

appropriate per l’ingresso di imprese estere all’interno del distretto

e dunque più rischiose, poiché nuove imprese possono venir

percepite come estranee.

Un ruolo importante nello sviluppo di un network di relazioni tra

l’impresa internazionalizzata e il distretto è svolto dalla struttura

organizzativa della prima: il decentramento organizzativo deve

consentire un grado di autonomia, tale da poter accedere a

competenze e conoscenze distrettuali , beneficiare di spillover

informativi e tecnologici e successivamente trasferire alla rete

interna quanto acquisito.

Per i distretti l’ingresso di attori multinazionali è uno step

importante nel percorso evolutivo, in quanto favorisce l’apertura

verso l’esterno , f inora limitata e vincolata dal forte radicamento

nel territorio e dalla cultura comune. Tale processo di apertura

risulterà sostenibile nel lungo periodo solo se i distretti saranno in

86

grano di sviluppare nuova conoscenza beneficiando e sfruttando la

rete di relazioni.

4.5.2.3 Effetti dell’apertura internazionale sul distretto

L’ingresso di multinazionali può comportare un rafforzamento del

distretto, qualora l’integrazione nel terri torio sia tale da garantire

nuovi meccanismi di funzionamento lontani dai processi inerziali a

cui sono soggetti i sistemi locali.

I benefici per il sistema distrettuale sono proporzionali al valore

aggiunto apportato dall’impresa multinazionale e trasferito

attraverso le relazioni con attori locali; il valore aggiunto può

essere di tipo economico, di tipo intangibile nella forma di

reputazione esterna e di tipo intangibile nella forma di conoscenza

(Sammarra, 2003).

Il valore economico è rappresentato da quanto viene direttamente o

indirettamente trasferi to a operatori locali: remunerazione dei

dipendenti residenti nel territorio, quota parte di costi relativi a

materie prime, semilavorati, prodotti e servizi offerti da imprese

locali, imposte pagate ad amministrazioni locali, interessi tributa ri

a istituzioni finanziarie locali.

Il valore intangibile nella forma di reputazione esterna deriva dalla

proiezione del distretto a livello globale: l’ingresso della

multinazionale aumenta l’attrattività del sistema distrettuale a

operatori esteri, graz ie alla rete di relazioni tra questi e l’impresa

estera già operante, che consente il trasferimento di informazioni

relativamente a qualità e affidabilità di personale, sistema

produttivo, infrastrutture, servizi , amministrazione e istituzioni

locali (Sammarra, 2003) . Il distretto svolge in questo senso il ruolo

di promotore al lo scambio, poiché per i distributori risulta più

semplice entrare in contatto con le imprese una volta individuato il

distretto (Pepe, Musso, 2001).

Il valore intangibile può essere anche in termini di conoscenza,

poiché le multinazionali apportano nel distretto nuova conoscenza

tecnologica, relativa ai mercati esteri e stimola l’innovazione e lo

sviluppo di nuove competenze. Il livello di conoscenza trasferito

87

dipende dall’intensità di relazioni tra imprese: da trasferimenti di

conoscenza più semplici come quelli di apprendimento imitativo

derivanti da relazioni competitive o da confronti a trasferimenti

più complessi che implicano la formalizzazione come ad esempio

accordi in ricerca e sviluppo, pratiche di co -progettazione, accordi

per lo sviluppo di progetti (Sammarra, 2003) .

L’ingresso di gruppi consente alle imprese distrettuali di

beneficiare di rapporti di cooperazione, dunque instaurare relazioni

più stabili e durature, ampliare la gamma di produzione, espandersi

sui mercati esteri , elaborare strategie di più lungo termine

(Famiglietti , 2000).

88

89

5 IL DISTRETTO CALZATURIERO FERMANO-

MACERATESE

5.1 Introduzione

Il settore calzaturiero è uno tra i casi di suc cesso sia in ambito

nazionale che internazionale delle piccole e medie imprese e dei

distrett i industriali italiani. Nel 2008, infatti , l ’Italia si colloca

nell’ottavo posto per produzione di calzature, nel quarto per

esportazioni in quantità e nel secondo per esportazioni in valore

(Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013 e elaborazioni ICE) .

I fattori alla base del vantaggio competitivo sono il know-how ,

l’artigianalità , la sensibili tà italiana allo stile, al design,

all’estetica ; la localizzazione in distretti industriali è, quindi, pe r

il settore fonte di notevoli benefici.

Il primo paragrafo è un’introduzione sul settore calzaturiero

italiano , analizzandone l’incidenza nell’economia nazionale e

l’espansione internazionale.

Nei paragrafi successivi verrà analizzato il distretto calzaturiero

situato nelle province di Fermo, Macerata e, in parte, Ascoli

Piceno, tema principale del capitolo .

Dopo un breve excursus sulla storia e l’origine del distretto che

mette in luce la forte connotazione artigiana le, si analizzano i vari

aspetti strutturali : l’evoluzione del numero di imprese e l’elevata

concentrazione sia di imprese che di addetti.

Si studiano, poi, le caratteristiche che accomunano le imprese

distrettuali: cooperazione, strategie e innovazione in termini di

riposizionamento.

5.2 Il settore calzaturiero

Il calzaturiero è uno dei settori in cui l’Italia gode di un vantaggio

competitivo. Si possono identificare delle caratteristiche del

calzaturiero che lo accomunano ad altri settori performanti:

frammentazione, ossia presenza di tante piccole imprese, proprietà

90

a conduzione famigliare e concentrazione geografica (Donna,

Gambino, 1999). Il modello distrettuale è , infatt i, strettamente

legato ai settori del Made in Italy , ossia quei settori a cui è

associata l’immagine del paese nel mondo (Sc hilirò, 2008); vi sono

quattro comparti principali in cui l’Italia gode di vantaggio

competitivo: i beni di consumo durevoli per la persona (tessuti,

abiti , foulards , maglioni, calzature, occhialeria, gioielli), art icoli

per l’arredamento della casa (mobil i , impianti d’illuminazione di

design, piastrelle in ceramica), prodotti meccanici e i prodotti

alimentari (Becattini , 1998) .

Tabella 10 I settori principali dei distretti industriali

Settore Distretti %

Tessile - abbigliamento 45 28,8

Meccanica 38 24,4

Beni per la casa 32 20,5

Pelli, cuoio e calzature 20 12,8

Alimentari 7 4,5

Oreficeria 6 3,8

Cartotecniche e poligrafiche 4 2,6

Prodotti in gomma e plastica 4 2,6

Totale 156 100,0

Fonte: Istat, 2005

Oltre il 45 % dei distretti industriali (tab. 10) si occupa dei settori

inerenti alla moda ( tessile - abbigliamento; pelli, cuoio e calzature;

oreficeria).

L’organizzazione flessibile dei distretti è adatta al settore

calzaturiero, caratterizzato da produzione non standardizzata,

tecnologie statiche e mature e dunque scomponibili in fasi, capitale

investito relativamente ridotto e barriere all’entrata i nesistenti

(Donna, Gambino, 1999).

Il sistema moda italiano è uno dei comparti che ha contribuito

maggiormente alla crescita economica del paese (Distretti Italiani,

Unicredit, 2011), rappresentando una quota significativa

dell’economia italiana (The European House - Ambrosetti, 2010),

91

grazie alla capacità nel coniugare l’artigianalità e il know-how con

la sensib il ità allo sti le e all’estetica (Do nna, Gambino, 1999).

In termini di valore aggiunto, il sistema moda rappresenta l’11%

delle attività manifatturiere (fig. 10) , quota significativa se

confrontata con il 3,6% della Francia, il 4,9% della Spagna, il

2,9% del Regno Unito (The European House - Ambrosetti, 2010;

Distretti Italiani, Unicredit, 2011) .

Figura 10 Ripartizione del valore aggiunto del manifatturiero italiano

Fonte: The European House – Ambrosetti, 2010; elaborazioni The European House – Ambrosetti su dati

Eurostat

Con riferimento al settore delle calzature, in Italia , l’8°

Censimento generale dell’industria e dei servizi 2001 ( Istat, 2005)

rileva la presenza di venti distretti; come si può vedere in figura

10, il settore contribuisce per il 16,7% alla creazione del valore

aggiunto del sistema moda italiano (The European House -

Ambrosetti , 2010).

L’industria calzaturiera - così come l’industria orafa, delle

ceramiche, degli utensili, della maglieria – risulta uno tra i cas i di

maggior successo delle piccole e medie imprese italiane a livello

internazionale (Donna, Gambino, 1999).

92

Tabella 11 Esportazioni per attività economica – Anno 2011 (a), valori assoluti in migliaia

di euro e variazioni percentuali

(a) Dati provvisori

Fonte: Istat, 2012

Le calzature rientrano in Italia tra le dieci principali classi di

attività ordinate secondo il valore delle esportazioni, occupando il

settimo posto con un valore pari a 7.814.248 migliaia di euro e

registrando nel 2011 un aumento del 12,7% rispetto al 2010.

Secondo i dati Istat (2012) , riportati in tabella 11, le importazioni

in valore sono di 4.656 milioni di euro e registrano un aumento di

8,8% rispetto all’anno precedente.

Dal 1980 il Taiwan ha tolto all’It alia il primato nell’esportazione

di calzature; poiché il paese colloca il suo prodotto sulla fascia

medio – bassa, è necessario che l’Ital ia riveda le proprie strategie,

orientandosi su nicchie di mercato e sulla produzione di qualità

superiore (Anselmi, 1989b).

Occorre considerare che sebbene tra il 1981 e il 2010 il numero

degli addett i nel settore calzaturiero si sia quasi dimezzato a fronte

della competizione internazionale, l’Italia ha ancora un peso

rilevante nel commercio mondiale di calzature e ri sulta essere

l’unico grande esportatore tra i paesi avanzati, questo grazie alla

sua specializzazione in prodotti di elevata quali tà e prezzo. Nel

2008 l’Italia, ottavo produttore mondiale di calzature , era il quarto

per volumi esportati (Cutrini , Micucci, Montanaro, 2013), mentre

secondo se si considera il valore del prodotto esportato.

Il vantaggio competitivo di cui gode l’Italia deriva sicuramente

dalla qualità dei prodotti offerti , caratteristica fondamentale per i

93

prodotti della moda che fa sì che il consumatore sia disposto a

corrispondere un premium price .

Figura 11 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dall’Italia al resto

del mondo

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it

Figura 12 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in quantità (kg) dall’Italia al resto

del mondo

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it

Dai grafici riportati in figura 11 e 12, relativi alle esportazioni di

calzature dall’Italia al resto del mondo , emerge un fattore

rilevante, ossia l’aumento dei prezzi e, dunque, di qualità del

prodotto esportato. Da ciò si può dedurre sia il progressivo

94

posizionamento delle imprese calzaturiere verso fasce più alte del

mercato, sia l’interesse crescente dei clienti esteri per i prodotti di

qualità.

Le esportazioni in valore (fig. 11), dopo il calo coincidente con

l’aggravars i della crisi, non solo hanno raggiunto i livelli pre -crisi

ma sono in progressivo aumento. Per quanto riguarda le

esportazioni in quantità (fig. 12), invece, il t rend risulta

decrescente; in un decennio (2000 - 2010) si sono quasi dimezzate .

Secondo elaborazioni ICE riferite al 2011, i principali mercati di

sbocco delle calzature sono Francia, con una quota parte del

14,77% sul totale delle esportazioni italiane, Germania con

l’11,87%, Stati Uniti con l’8,83%, Svizzera con il 6,81% e Russia

con il 6,77%.

Tabella 12 Distribuzione settoriale delle imprese per forme di internazionalizzazione –Anno

2010 (numero di imprese, valori percentuali)

Fonte: Istat, 2013; Elaborazioni su dati Istat (Registro statistico delle imprese attive, rilevazione sul

commercio estero, indagini sulle imprese italiane a controllo estero e sulle affiliate estere delle imprese

italiane) e su dati amministrativi

Secondo dati Istat (2013) riportati in tabella 12, n el settore delle

calzature (“fabbricazione di articoli in pelle e simili” della

classificazione Ateco 2007) le modalità di internazionalizzazione

95

più frequenti sono quelle in cui vi è coesistenza di esportazioni ed

importazioni e quelle che riguardano solamente le esportazioni ,

così come lo sono in tutti gli altri settori tradizionali del Made in

Italy e in gran parte delle attività manifatturiere.

Ha un’incidenza notevole nel settore calzaturiero italiano il

fenomeno della delocalizzazione produttiva di fasi della

produzione labour-intensive e a basso valore aggiunto in paesi a

basso costo della manodopera (Sammarra, 2003), che ha

comportato la frammentazione internazionale dei processi

produttivi, come risposta alla crescente pressione competitiva

(Amighini, Rabellott i, 2003) .

5.3 Il distretto calzaturiero marchigiano

Il distretto fermano – maceratese raccoglie circa quattromila

imprese calzaturiere, localizzate in sessantasei comuni ,

principalmente delle province di Fermo e Macerata e alcuni

nell’Ascolano ; ivi è sita la maggior concentrazione mondial e di

imprese calzaturiere (Camera di Commercio di Fermo, 2011). Ne fa

parte una grande varietà di imprese specializzate in una o più fasi

della filiera produttiva che confluiscono all’ottenimento del

prodotto finito: vi sono imprese che effettuano lavorazi oni a basso

livello di investimento, tra cui l’orlatura delle tomaie, imprese che

investono in meccanica, come le produttrici di macchine e

attrezzature per la lavorazione di calzature, imprese le cui

fabbricazioni sono ad alto contenuto tecnologico, tra c ui tacchi,

fondi o suole, o ad alto contenuto stilistico, come gli accessori

(MIT, 2003).

All’interno del distretto si distinguono tre aree geografiche

secondo il segmento in cui sono specializzate: il comune di Porto

Sant’Elpidio nel segmento “donna”, il comune di Montegranaro nel

segmento “uomo”, il comune di Monte Urano nel segmento

“bambino”.

Il distretto abbraccia, dunque, tutte le fasi della filiera produttiva

per tutte le categorie di consumatori. Il mercato di riferimento è

96

prevalentemente (85 %) la fascia medio – alta (Osservatorio

Nazionale dei Distretti Italiani ).

La concentrazione delle imprese e l’elevato grado di

specializzazione nel calzaturiero rendono il modello non

replicabile e permettono la costituzione di una forte filiera

produttiva (Renzi, 2000).

Il distretto rappresenta un patrimonio di conoscen za, di maestranze

di eccellenza e di qualità (Camera di Commercio di Fermo, 2011).

Il fattore alla base sia dell’origine che dello sviluppo del distretto

risulta essere la forza imprenditoriale locale. Le ragioni dello

sviluppo del distretto si ritrovano anche nel sistema a filiera

costituito principalmente da piccole imprese che coniugano la

flessibilità e la specializzazione produttiva con la possibil ità di

beneficiare delle economie esterne, grazie all’effetto distretto

(Morganti, 2007).

Occorre, però, rilevare che la globalizzazione e le varie crisi hanno

modificato l’assetto organizzativo e industriale del distretto

marchigiano, che, tuttavia, non ha perso la sua attrattività, grazie

all’amp ia offerta e alle sue caratteristiche di creatività, design,

elevata qualità di macchinari e di output (Camera di Commercio di

Fermo, 2011). Come emerge per gli altri distretti i tal iani, la

globalizzazione ha “confermato la vocazione in quel mix di

artigianalità e industria che consentono al capitalismo ital iano di

unire estetica e innovazione di prodotto” (Il Sole 24 Ore, 5 gennaio

2013).

Per fronteggiare la concorrenza estera, occorre che le imprese

investano in una più elevata qualità del prodotto e del lo styling

(Anselmi, 1989).

Le varie crisi che si sono succedute nel tempo, soprattutto quella

attuale, e la crescente concorrenza estera, soprattutto cinese, hanno

dato avvio ad un processo di selezione, in cui riescono a

sopravvivere le imprese che offrono prodotti di qualità elevata, che

interagiscono con le altre imprese e, se contoterziste, che

garantiscono affidabilità, puntualità nelle consegne e che

97

innovano e migliorano le tecniche di lavorazione per soddisfare le

esigenze dei committenti (Morgant i, 2007).

Il cambiamento nell’assetto organizzativo distrettuale ha visto

l’affermarsi di alcune imprese leader, le quali instaurano rapporti

sempre più esclusivi con i subfornitori (Cutrini, Micucci,

Montanaro, 2013). Il distretto marchigiano ha assunto n el tempo la

forma di una rete di piccole e medie imprese coordinate da leader

da cui dipendono nella catena di subfornitura : la sua forma

organizzativa si è evoluta da circolare a stellare centrata su un

nucleo e caratterizzata da raggi anche molto larghi (Giannetti,

Vasta, 2005). Non manca chi ritiene che l’insediamento all’interno

del distretto di stabilimenti produttivi di grandi gruppi sia un

rischio per le imprese distrettuali sempre più vincolate alle

strategie dei gruppi (Morganti, 2007).

5.4 Storia

Già nel Trecento la presenza di produttori di calzature nelle

Marche è testimoniata da Boccaccio nel Decameron all’interno di

una novella (giornata ottava, novella quinta) in cui viene deriso il

giudice marchigiano messer Niccola da San Lepidio .

Nel Medioevo le poche informazioni reperibil i sono negli s tatuti

cittadini, i quali attestano la presenza di piccole botteghe artigiane

in numerosi centri del territorio dal XV secolo , e negli statuti delle

associazioni di mestiere, che testimoniano l’importanza notevole

delle corporazioni di calzolai . Primi segnali di scambi commerciali

si hanno nel Quattrocento, quando, a causa delle difficoltà

nell’approvvigionamento di materie prime per la concia e grazie

all’aumento della domanda, gli artigiani fanno ricorso alle

importazioni, principalmente dai Balcani e dall’Oriente (Paciaroni,

1989). La produzione è tipicamente quella di chiochierie , ossia

pantofole, i cui mercati di destinazione sono ancora locali

(Micucci, 1999).

Gli storici fanno risalire l’origine del distre tto all’Ottocento

(Anselmi, 1989) ; numerosi mezzadri, ex-mezzadri e inoccupati

98

avviano attività manifatturiere, in particolar modo nel settore delle

calzature, perché caratterizzato da scarso contenuto tecnologico,

modesti investimenti in materie prime, co sti d’impianto inesistenti

ed elementare organizzazione del lavoro e del la distribuzione.

L’attività è caratterizza ta da coinvolgimento dell’intera famiglia,

diffusione dell’attività al vicinato e progressivamente all’intera

popolazione dell’area (Rossi , Verducci, 1989). La produzione di

calzature si svolge principalmente in alcuni comuni: Montegranaro,

Monte Urano, Monte San Giusto e Sant’Elpidio a Mare e i l mercato

di destinazione, originalmente regionale, si estende allo Stato

Pontificio e al Regno di Napoli (Morganti, 2007). Secondo alcuni

storici sono i rapporti extra -regionali a consentire il passaggio

dall’art igianato locale all’attività manifatturiera (Moroni, 1989).

Nella seconda metà dell’Ottocento, le produzioni marchigiane

estendono le loro aree di destinazione; la vendita sui mercati

nazionali ed esteri è effettuata dagli stessi fabbricanti con

commercio ambulante, che è alla base del trasferimento di calzolai

in altre città d’Italia o all’estero per aprirvi piccole lavorazioni di

pantofole e, successivamente, negozi di scarpe (Sabbattucci

Severini, 1989). I principali mercati di destinazione delle calzature

marchigiane sono i paesi affacciati sull’Adriatico e sull’Egeo.

All’inizio del Novecento nel Fermano gli occupati nel settore

calzaturiero risultano secondi per numerosità solamente ai

mezzadri. Nel 1910, tuttavia, si assiste ad una crisi del settore

dovuta al ritardo italiano nella meccanicizzazione del processo

produttivo, al la concorrenza estera e alla conseguente drastica

riduzione delle esportazioni; durante i l primo conflitto mondiale,

inoltre, a causa della specializzazione nella produzione di

pantofole e scarpe leggere e dei tempi di produzione relativamente

lunghi, le imprese fermane trovano difficoltà nel soddisfare le

commesse militar i: secondo gli storici questa è la mancata spinta

all’organizzazione di fabbrica e alla meccanicizzazione del

processo produttivo che fa registrare al Fermano il ri tardo rispetto

alle altre zone interessate dal calzaturiero; solo t ra le due guerre,

99

dunque con un gap temporale di vent’anni, si assiste all’apertura

delle prime imprese meccanizzate . In questo periodo il mercato di

riferimento è quello interno e le poche esportazioni sono dirette ai

paesi affacciati sull’Egeo (Sabbatucci Severini , 1989).

Dal Secondo Dopoguerra il distretto ha rappresentato il motore

della crescita del territorio (Camera di Commercio di Fermo,

2011). Gli anni Cinquanta si caratterizzano per la forte

propensione all’export (Segreto, 1989). Si assiste alla “escalation

art igiano-industriale” (Renzi, 2000 p. 2): l’evoluzione

dell’agricoltura fa sì che molti giovani contadini si riversino nelle

botteghe artigiane che aumentano progressivamente in numero, in

fatturato e in occupati . Un ulteriore fattore alla base della svolta

risulta la capacità e l’abilità de lla tradizione art igiana nel

trasferimento di conoscenze tecniche, professionali e produttive

all’industria nascente (Morganti, 2007) : gli anni Sessanta sono gli

anni della “industrializzazione dell’art igianato calzaturiero”

(Segreto, 1989, p. 308), caratterizzati, inoltre, dall’enorme crescita

delle esportazioni.

Secondo il Censimento del 1971, le Marche detengono il primato

calzaturiero nazionale (Segreto, 1989).

100

5.5 Aspetti generali

Figura 13 Imprese attive nel settore preparazioni e concia cuoio – fabbricazione articoli da

viaggio (DC19: 1998-2009 Ateco 2002) e fabbricazione articoli in pelle e simili (C15: 2009-

2012 Ateco 2007)

Fonte: nostre elaborazioni su dati Infocamere – Movimprese www.infocamere.it/movimprese

Si considera per semplicità che tutte le imprese calzaturiere delle

province appartengano al distretto; le imprese si tuate in comuni

non appartenenti al distretto sono in numero limitato, non

invalidando, dunque, le osservazioni. Occorre, tuttavia, prendere

atto che a seguito della modifica nel 2009 da Ateco 2002 ad Ateco

2009, le due classificazioni non sono confrontabili direttamente

(Camera di Commercio di Fermo, 2011).

Secondo dati Infocamere riportati in figura 13, a fine 2012 il

distretto è formato da 4032 imprese, di cui 2667 nelle province di

Fermo ed Ascoli e 1365 nella provincia di Macerata. In linea con il

contesto nazionale, il processo di riduzione del numero delle

imprese attive non sembra arrestarsi.

La tendenza alla riduzione del numero di imprese è confermata da

un’indagine del Sole 24 Ore (27 settembre 2012) effettuata negli

stessi distretti italiani sia nel 1992 sia nel 2012: l’indagine che

considera la sola provincia di Fermo d enuncia una diminuzione da

5300 imprese a 2700, fenomeno che accomuna il distretto ad altri

101

poli italiani, e che viene spiegato parzialmente dalla

concentrazione di alcune imprese che hanno accresciuto la loro

dimensione nel tempo (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).

Le imprese nel distretto sono mediamente piccole imprese: il

numero medio di addetti è, infatti , 20 (Distretti Italiani, Unicredit,

2011); si riscontra, tuttavia, la presenza di grandi g ruppi, quali

Tod’s, Prada e tante medie imprese.

Tabella 13 Sedi di imprese attive e addetti totali nell’attività C152 Fabbricazione di

calzature; anno 2010

Fabbricazione di calzature

Imprese

attive

Quota % su

Italia

Addetti

totali

Quota % su

Italia

Ancona 100 0,83% 1.393 1,03%

Ascoli Piceno 116 0,96% 1.977 1,46%

Fermo 2.492 20,59% 22.083 16,34%

Macerata 1.192 9,85% 11.915 8,82%

Pesaro e Urbino 34 0,28% 304 0,22%

Marche 3.934 32,50% 37.672 27,88%

Toscana 2.385 19,70% 23.955 17,73%

Campania 1.563 12,91% 12.482 9,24%

Veneto 1.552 12,82% 19.459 14,40%

Altre regioni 2.670 22,06% 41.578 30,77%

ITALIA 12.104 100,00% 135.146 100,00%

Fonte: nostre elaborazioni su dati Camera di Commercio di Fermo, 2011

Le Marche risultano la regione con la più alta concentrazione di

imprese attive e di addetti nel settore calzaturiero, secondo i dati

del 2010 riportati in tabella 13 relativi alla classe di at tività C152

Fabbricazione di calzature, da cui esulano altre attività

complementari presenti nel distretto, quali preparazione e concia

del cuoio, fabbricazione di macchinari per la produzione di

calzature. Nelle Marche è presente il 32,5% delle imprese

calzaturiere italiane che occupano il 27,88% degli addetti del

settore; nel distretto in particolare operano il 31,39% delle imprese

calzaturiere italiane e il 26,62% degli addetti. Il distretto risulta,

così , leader italiano nel calzaturiero (Camera di Commercio di

Fermo, 2010).

102

5.6 Cooperazione

Come affermato precedentemente , risultano presenti nel distretto

alcune grandi imprese che instaurano rapporti sempre più esclusivi

con i fornitori (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012). I rapporti di

collaborazione più stabil i si sono evoluti in una vera e propria

interdipendenza dei cicli produttivi e in un’intensa interazione tra

le parti (Distretti Italian i, Unicredit, 2011).

La filiera produttiva che collega le imprese, soprattutto le grandi

imprese ai terzisti, risulta essere molto efficiente (Il Sole 24 Ore,

27 settembre 2012), principalmente grazie al clima di fiducia e alle

relazioni locali formali e informali. Non sono rari i casi in cui

imprese e terzisti st ipulano accordi ed eseguono commesse senza

aver formulato un contratto formale, ma sulla base di legami

fiduciari (Morganti , 2007). Nell’attuale contesto competitivo,

tuttavia, i legami tra imprese locali si stanno trasformando a causa

delle scelte strategiche delle imprese: nel caso di strategie di costo

si sciolgono per lasciare spazio a legami con imprese estere

localizzate in paesi a basso costo della manodopera ; i legami più

stabili e di lungo periodo sono strettamente collegati alla

differenziazione qualitativa, grazie al controllo dei committenti e

al confronto costante tra le due parti (Cutrini , Micucci, Montanaro,

2013): ciò ha consentito che molte aziende intermedie si

riposizionassero , offrendo un prodotto di qualità (Il Sole 24 Ore,

27 settembre 2012).

Figura 14 Estensione delle reti di imprese dei distretti della moda

Fonte: Distretti italiani, Unicredit, 2011

Rispetto ad altri distretti italiani l a rete di relazioni delle imprese

risulta principalmente chiusa all’interno dei confini aziendali;

come emerge da un’indagine di Distretti Italiani e Unicredit (2011)

su dodici distretti che operano nel comparto moda, le imprese del

103

distretto fermano - maceratese si relazionano principalmente tra

loro, estendendo l imitatamente il loro network (fig. 14).

Relativamente al l’estensione delle reti di imprese con altri distretti

emerge come le imprese fermano- maceratesi usufruiscano

maggiormente dell’effetto distretto ; la forte concentrazione di

imprese del settore calzaturiero nel terri torio e dunque la facilità

di reperimento in loco di forniture e risorse umane altamente

qualificate è una valida motivazione del fenomeno. Il distretto è,

inoltre, caratterizzato da coeso rapporto sociale, omogeneità del

tessuto economico, identità culturale (Renzi, 2000). Le relazioni

sociali consentono la condivisione di informazioni su tecniche,

innovazioni, opportunità, nuovi mercati , forza lavoro (Morganti,

2007), da cui deriva l’atteggiamento imitativo sano e creativo che

caratterizza il distretto (Renzi, 2000).

Sebbene il clima sembri favorevole alla cooperazione, iniziative di

collaborazione e consortili riguardanti il marketing, le fiere, la

ricerca e sviluppo non sembrano riscuoter e successo (Il Sole 24

Ore, 27 settembre 2012): diversi autori concordano che l a causa

principale sia cultura locale imprenditoriale fortemente

individualista (Morganti , 2007; Distrett i Italiani, Unicredit , 2010).

5.7 Innovazione

Sono soprattutto le grandi imprese ad investire in ricerca di nuovi

materiali e in innovazione stilistica, che consentono loro di

anticipare il mercato; le piccole imprese, invece, si limitano

principalmente a individuare e seguire il trend del mercato

(Distretti Italiani, Unicredit, 2011), soprattutto a causa della

scarsità di risorse finanziarie proprie e della difficoltà di reperirle

(Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).

L’atteggiamento proattivo verso l’innovazione, dunque ricerca di

nuovi materiali , di migliorie nelle tecnologie d i produzione, di

nuove opportunità fornite dal web, assume rilevanza strategica in

quello che viene considerato un distretto dall’imprenditorialità

creativa, ma improvvisata (Osservatorio Nazionale dei Distretti) .

104

Nel distretto, infatti, vi è una grande co ncentrazione di know-how

sulla qualità delle produzioni non solo di tipo artigianale, ma

anche industriale (Delai, 2012).

Come emerge in figura 15, i l distretto, nel suo complesso, risulta

uno dei pochi che è stato in grado di innovarsi, al fine di trovare

un posizionamento nella fascia medio - alta del mercato, grazie

all’abilità delle imprese di combinare tradizionalità e innovazione

stilistica e tecnologica (Distretti Italiani, Unicredit, 2011) ; il

merito della transizione dalla fascia media a quella med io - alta va

soprattutto alla manodopera qualificata (Il Sole 24 Ore, 27

settembre 2012).

Figura 15 Tradizione e riposizionamento dei distretti della moda

Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011

In tema di innovazione, va r ilevato il rapporto del distretto con le

Università e i centri di ricerca locali.

La rilevanza del distretto nel panorama nazionale ha cond otto alla

costituzione di un Its , isti tuto tecnico superiore, inerente alle

“Nuove tecnologie per il Made in Italy”, che offre due corsi di

formazione biennale che riguardano l’internazionalizzazione e

l’innovazione tecnologica e produttiva (Its moda – calzature).

Anche per quanto riguarda le forme di tutela dei propri marchi e

del design sono principalmente le imprese di maggiori dimensioni

a farne ricorso (Distretti Italiani, Unicredit, 2011).

Un limite notevole allo sviluppo del distretto è l’inadeguatezza

delle infrastrutture che , combinata alla posizione geografica

sfavorevole, rende difficoltosa la gestione sia del la logist ica in

entrata e in uscita sia dei rapporti commerciali. Le imprese,

soprattutto quelle di ridotte dimensioni, risentendo di maggiori

costi di approvvigionamento e commercializzazione, risultano

meno competit ive (Distretti Italiani, Unicredit, 201 1).

105

I frequenti rapporti di fornitura fanno sì che anche la logistica

interna abbia un peso notevole, sia per l’incidenza dei costi relativi

allo spostamento delle merci sui costi totali , sia per l’imp iego di

risorse in operazioni lontane dal core business . Dalla

consapevolezza che la condivisione tra imprese della rete di

trasporto degli output delle varie fasi produttive contribuisca

all’efficienza produttiva ed ambientale, nasce nel 2009 il progetto,

sviluppato dall’Università di Camerino, “Micro Green Logistic”. Il

progetto consiste nell’ideazione di un software che raccoglie le

prenotazioni delle commesse e guida i vettori di trasporto,

ottimizzando i carichi e i percorsi (Corradini , Paganelli , 2012) ;

sono quaranta le aziende che vi hanno preso parte n el 2012: in soli

tre mesi le emissioni di CO 2 si sono ridotte del 42,69 % e il

risparmio di carburante è stato del 38,1 % (Cna – Fita, 24 aprile

2012).

5.8 Strategia

Le imprese distrettuali , anche se con qualche eccezione, sono in

ritardo sulle poli tiche d i marchio (Morganti, 2007). Si riscontra

che negli ultimi anni il peso dei marchi è cresciuto, ma risulta

necessario potenziare ulteriormente l’orientamento al mercato (Il

Sole 24 Ore, 27 settembre 2012). Sono ancora poche le imprese

con un marchio proprio; prevalgono, invece, le collaborazioni con

le grandi imprese dell’alta moda con cui stipulano contratti di

licensing (Distrett i Italiani, Unicredit , 2011). Molte imprese

distrettuali, nell’ult imo decennio, si sono rit irate dal mercato

finale, limitandosi ad effettuare lavorazioni per conto -terzi , spinte,

da un lato, dalla carenza di risorse finanziarie, organizzative e

manageriali per affrontare la complessità dei rapporti business-to-

client (Morganti , 2007), dall’altro dalla possibil ità di sfruttare

l’effetto distretto nell’acquisizione di clienti business .

Alcune imprese vedono, tuttavia, nel distretto un limite, poiché la

facili tà con cui si reperiscono fornitori o, addirittura, clienti in

106

loco non incoraggia la pianificazione di strategie commerciali e

distributive efficienti (Distretti Italiani, Unicredit, 2011).

Un progetto importante in ambito di marketing è quello promosso

da Google e Unioncamere, “Distretti sul web”, con lo scopo di far

conoscere alle piccole e medie imprese distrettuali le opportun ità

che offre la rete e aiutarle nel percorso di digitalizzazione che

consentirà la crescita di competitività e l’accesso a nuovi mercati,

soprattutto internazionali.

Un aspetto rilevante delle strategie aziendali è occupato

dall’internazionalizzazione, a cui si dedicherà il capito seguente.

A livello aggregato, il crescente numero di factory outlets sta

accrescendo l’importanza del distretto, che attrae nuovi clienti

grazie alla presenza di importanti brands; ciò offre alle piccole

imprese distrettuali di sfruttare l’effetto sinergico derivante dal

canale distributivo in loco (Cipriani, 2012b).

107

6 INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL DISTRETTO

CALZATURIERO FERMANO - MACERATESE

6.1 Introduzione

Il distretto calzaturiero ha risposto ai rapidi e continui mutamenti

dell’ambiente internazionale con la riconfigurazione della filiera

produttiva e riposizionamento internazionale (Cipriani, 2012),

assumendo la configurazione di “rete locale integrata in network

globali di produzione, circolazione e utilizzazione delle

conoscenze” (Corò, Grandinetti, 1999, pp. 903 e ss.)

Come risposta al mutato contesto competitivo le imprese hanno,

infatti , ridefinito le proprie strategie: tuttavia, va considerato che

non tutte intraprendono quel percorso di delocalizzazione della

produzione che contribuisce al venir meno di attività labour-

intensive della filiera, bensì sfruttano maggiormente il network di

relazioni di subfornitura precedentemente instaurato, al fine di

offrire un prodotto di elevata qualità e di quel valore simbolico

insito nel Made in Italy .

L’internazionalizzazione rappresenta il fattore chiave di successo

del distretto , che presenta un elevato tasso di penetrazione sui

mercati esteri (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) .

Nel presente capitolo si vogliono indagare le modali tà di

internazionalizzazione delle imprese del distretto fermano –

maceratese, supportando dati e ricerche con interv iste rivolte ad

alcuni operatori locali. Si possono, dunque, individuare due

modalità ri levanti di espansione estera: le esportazioni e la

delocalizzazione produttiva.

Il primo capitolo analizza la performance esportativa del distretto:

secondo elaborazioni di Assocalzaturifici su dati Istat - Coeweb le

province di Fermo e Ascoli Piceno sono le prime province italiane

per esportazioni di calzature espresse in valore, mentre la

provincia di Macerata è quinta.

108

Nel paragrafo successivo si analizza la delocalizzazione

produttiva, le sue implicazioni e la scelta strategica alternativa,

concludendo con alcune considerazioni sull’efficacia dei due

percorsi e sugli effetti nell’equilibrio distrettuale.

6.2 Esportazioni

La forte tendenza delle imprese distrettuali al le esportazioni è un

“antico patrimonio” (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) , che nel

tempo si è accresciuto notevolmente .

Le imprese che operano s ia sui mercati nazionali che esteri

risultano abili nella differenziazione della produzione, che

consente l’adattamento del la produzione alle caratteristiche

economiche, sociali e di tendenza dei diversi mercati (Morganti ,

2007).

Tabella 14 Esportazioni italiane di calzature (CB152 Ateco 2007) nel mondo per province

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat - Coeweb, Assocalzaturifici (2013) www.assocalzaturifici.it

La performance esportativa del distretto si può osservare

direttamente dai dati Istat – Coeweb riportati in tabella 14 relativi

all’esportazione di calzature delle province i tal iane: secondo i dati

del 2012, Ascoli Piceno e Fermo sono, infatti, al primo posto con

una quota parte del 13,9% delle esportazioni italiane, mentre

Macerata è al quinto posto con il 5,2%. Va rilevato, inoltre, che le

esportazioni delle due province sono aumentate in valore assoluto,

ma risulta accresciuta anche la quota parte. Dal 2012 al 2011 le

esportazioni di calzature da Fermo, Ascoli Piceno e province sono

109

cresciute del 6,6%, mentre da Macerata e provincia del 3,6%;

inoltre, la quota parte delle esportazioni rispetto al totale italiano è

cresciuto rispettivamente dello 0,6 % e dello 0,1%.

Figura 16 Esportazione di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dalle Marche per

destinazione

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.coeweb.istat.it

Si considerano per semplicità come esportazioni del distretto le più

generali esportazioni marchigiane; la semplificazione non invalida

i risultati , poiché le altre due province marchigiane contribuiscono

in maniera irrisoria alle esportazioni di calzature : nel 2012, ad

esempio, il contributo alle esportazioni regionali delle due

province di Pesaro e Urbino e Ancona è stato del 3 %, secondo dati

Istat – Coeweb.

Secondo quanto emerge dai dati Istat riportati in figura 16, n el

tempo le quote parte di esportazione di calzature marchigiane

relative ai singoli paesi si sono andate modificando, a causa

principalmente del quadro economico generale. Nel 2009, con

l’inasprimento della crisi , il calo di esportazioni è attribuibile in

particolar modo al calo della domanda globale, m entre con la

ripresa si può notare che in valore assoluto la domanda proveniente

da tutti i paesi è aumentata. Va rilevato, inoltre, l’aumento in

termini percentuali della quota parte di esportazioni dirette ai paesi

asiatici che dal 7 % del 2005 ha raggiunto il 14 % nel 2012; si

110

osserva, inoltre, la progressiva riduzione in termini percentuali del

contributo dell’Europa che dall’81 % è passata al 76 %.

Secondo dati Istat - Coeweb, i paesi di destinazione delle

esportazioni di calzature marchigiane nel 2012 sono la Federazione

russa con una quota parte del 18% , Germania per l’11%, Francia

per il 10%, Stati Uniti per il 6% e Belgio per il 5%. La Russia

rappresenta per la regione un mercato strategico: quasi il 50 %

delle esportazioni di calzature italiane dire tte in Russia proviene

dalle Marche; è, inoltre, un mercato molto dinamico : la domanda di

calzature marchigiane da parte della Federazione russa ha, infatti,

registrato un tasso di crescita dal 2010 al 2012 del 41,4 % .

Un altro fenomeno da rilevare è la presenze delle calzature

marchigiane in mercati di prossimità, mentre risulta più

difficoltosa la penetrazione in mercati più lontani, ma anche più

strategici nel lungo termine, quali Canada, Cina, India, Brasile

(Sciuccati , 2012).

Figura 17 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori (euro) dalle province di

Ascoli Piceno, Fermo e Macerata al resto del mondo

Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat- Coeweb www.istat.coeweb.it

Il t rend delle esportazioni del distretto riportato in figura 17

risulta altalenante: rispecchia l’andamento delle esportazioni

italiane, tuttavia le rette che interpolano la curva risultano più

inclinate. Nell’ultimo decennio si hanno due minimi: il prim o nel

111

2004, per via dalla crisi che stava vivendo il distretto a causa

dell’aumento della concorrenza internazionale e, dunque, delle

numerose cessazioni di attività, della delocalizzazione di intere

lavorazioni (Morganti, 2007), mentre il secondo nel 2009 , in

concomitanza con la recessione globale. Attualmente, le

esportazioni hanno raggiunto i livelli pre -crisi .

Figura 18 Quota di esportazioni dei distretti della moda

Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011

Dall’indagine sui dodici distretti della moda, riportata in figura 18,

il distretto calzaturiero marchigiano risulta, insieme a quello

dell’occhiale di Belluno, essere fortemente orientato alle

esportazioni: le 229 imprese distrettuali intervistate dichiarano che

la quota destinata all’esportazione è pari all’80 % (Distr etti

Italiani, Unicredit , 2011); risulta essere il distretto più

internazionalizzato d’Italia (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).

6.3 Internazionalizzazione produttiva

Negli ultimi anni si assiste ad un mutament o dei rapporti tra

imprese distrettuali , che seguono due direzioni principali diverse:

la delocalizzazione di fasi della filiera produttiva a basso valore

aggiunto oppure l’intensificazione dei rapporti distrettuali tra

imprese committenti e subfornitrici (Cutrini , Micucci, Montanaro,

2013).

Si analizza ora la ridefinizione della filiera produttiva e la

ricollocazione internazionale che hanno coin volto i l distretto

nell’ultimo trentennio .

112

Tabella 15 Filiera delle calzature e localizzazione prevalente

Fase Descrizione

Localizzazione prevalente

Pre –

delocalizza-

zione

(fino alla fine

degli anni

Ottanta –

inizio anni

Novanta)

Prima

delocalizza-

zione (anni

Novanta,

inizio

Duemila)

Seconda

delocalizza-

zione (2005-

2010)

Preparazione

del modello e

del

campionario

Creazione

prototipo:

traduzione dell’idea

dello stilista –

modellista in

prodotto da lavorare

in serie

Distretto

(imprese

finali)

Distretto

(imprese

finali)

Distretto

(imprese

finali)

Ingegnerizza-

zione del

prodotto

Raccogliendo le

richieste del

mercato, si

apportano

modifiche al

prototipo

Distretto

(imprese

finali)

Distretto

(imprese

finali)

Distretto

(imprese

finali)

Taglio della

tomaia

Utilizzo di

macchinari a taglio

laser; per i pellami

pregiati è a volte

richiesto ancora il

taglio a mano dei

tagliatori esperti

Distretto

(imprese

intermedie)

Distretto

(imprese

intermedie)

o Europa

Centro -

orientale

Distretto o

Europa

Centro –

orientale /

Asia

Preparazione

della tomaia

I pezzi di pellame

tagliati, prima della

fase di orlatura,

devono essere

ridotti di spessore o

devono subire un

processo di

sgrossatura del

bordo (scarnitura)

Distretto

(imprese

intermedie)

Distretto

(imprese

intermedie)

Distretto o

Europa

Centro –

orientale/

Asia

Orlatura

della tomaia

L’orlatura consiste

nel cucire insieme i

pezzi della tomaia

che, in alcuni casi,

devono essere

preincollati

Distretto

(imprese

intermedie)

Europa

Centro –

orientale

(Romania,

Bulgaria) e

Africa

Mediterra-

nea

(Tunisia)

Europa

Centro –

orientale ma

sempre più

Asia (Cina,

Vietnam)

113

Preparazione

del fondo

Richiede

l’assemblaggio di

una serie di

componenti quali

suole, tacchi e

accessori vari, di

solito fabbricati

presso aziende

subfornitrici.

La preparazione

della suola consta di

operazioni quali:

tranciatura del

cuoio,

ugualizzatura,

fresatura, eventuale

trattamento termico

e incollaggio del

guardolo,

carteggiatura e

rifinitura

Distretto

(imprese

intermedie)

Distretto

(imprese

intermedie)

Distretto e

Asia (Cina)

Montaggio

La tomaia e il fondo

(suola, sottopiede,

tacco) vengono

unite insieme

utilizzando tecniche

diverse (lavorazione

ad ago, lavorazione

blake, lavorazione

ideal)

Distretto

(impresa

finale o

imprese

intermedie)

Distretto

(impresa

finale o

imprese

intermedie)

Distretto /

Asia ed

Europa

Centro –

orientale

Finissaggio e

imballaggio

La calzatura viene

rifinita e ad essa

vengono aggiunti

ulteriori accessori.

La scarpa viene poi

lucidata e

inscatolata

Distretto

(impresa

finale)

Distretto

(impresa

finale)

Distretto /

Asia ed

Europa

Centro -

orientale

114

Marketing e

vendite

Il prodotto finito

viene collocato sul

mercato, supportato

da particolari

strategie

commerciali

Distretto

(impresa

finale); le

risorse

destinate al

marketing e

commercia-

lizzazione

erano

comunque

marginali in

questo

periodo

Distretto

(impresa

finale)

Distretto

(impresa

finale):

varie

imprese

leader

investono

crescenti

risorse per

il marketing

e la

commercia-

lizzazione

Fonte: Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013, pp. 8-9

Alla fine degli anni Settanta tra le imprese del fermano -

maceratese vi è la tendenza ad esternalizzare alcune fasi della

filiera produttiva a terzisti e subfornitori distrettuali al tamente

specializzati : la divisione del lavoro consente rapidità nelle

consegne, qualità, ma soprattutto flessibilità tale da consentire la

risposta alla differenziazione della domanda; dopo un decennio , la

“disintegrazione verticale” del processo produttivo a livello

distrettuale è conclusa (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).

Dagli anni Novanta si assiste alla delocalizzazione di lavorazioni

ad alto contenuto di lavoro non qualificato (taglio e orlatura della

tomaia) in paesi a basso costo della manodopera - Romania,

Bulgaria e Serbia - (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) , mutando

gli assetti organizzativi delle imprese e creando nuovi network

produttivi (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013). Secondo alcuni

autori (Conti, Cucculell i, Paradisi , 2004), la consistente cresc ita

della domanda e, dunque, la necessità di garantirne adeguata

copertura in termini di capacità produttiva e di flessibilità

spiegano l’esternalizzazione delle fasi produttive al di f uori dei

confini aziendali , pur rimanendo in ambito locale; tuttavia nella

seconda metà degli anni Novanta, l’inasprimento della concorrenza

ha accresciuto il ricorso all’estero per quelle fasi già

esternalizzate. Alcuni autori, tuttavia, individuano nell’esigenza

115

della riduzione dei tempi di lavorazione, nelle piccole dimensioni

dei lott i e nel difficile controllo della qualità i limiti alla

delocalizzazione produttiva (Alessandrini , Canullo, 1997).

Negli ultimi dieci anni la delocalizzazione si intensifica: aumenta

sia il numero di paesi in cui le fasi della filiera vengono decentrate

sia le fasi delocalizzate. Ai paesi dell’Europa Centro – orientale e

alla Tunisia si aggiungono i paesi asiatici, in parti colare Cina e

Vietnam; al taglio e all’orlatura della tomaia si aggiungono la

preparazione della tomaia, del fondo e il montaggio (Cutrini ,

Micucci, Montanaro, 2013) . La delocalizzazione ha indebolito

inevitabilmente le fasi della filiera produttiva caratt erizzate da

maggior standardizzazione delle procedure e minor valore aggiunto

(Morganti, 2007), tuttavia ha consentito a lle imprese finali di

impiegare il personale e le risorse finanziarie nelle attività, quali

progettazione, marketing, commercializzazion e e strategia (Cutrini ,

Micucci, Montanaro, 2013). Alcune imprese intermedie sono

scomparse mentre altre hanno risposto alla delocalizzazione

svolgendo attività che richiedono una maggiore qualificazione e

che consentono di valorizzare il patrimonio distre ttuale di

conoscenze (Morganti, 2007) , dotandosi a loro volta di subfornitori

e contoterzisti e avanzando lungo la catena del valore: tale

processo ha permesso alle nuove imprese intermedie di divenire

imprese finali (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013).

Dagli anni Duemila , tuttavia, si registra i l rientro delle lavorazioni

precedentemente delocalizzate (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012) ,

poiché, come emerge da un’intervista, per le produzioni labour-

intensive “occorre una manualità di un certo tipo” (Mor ganti ,

2007, p. 65); secondo alcuni autori, come risposta alle difficili

condizioni di mercato si riportano in loco , se non addirittura

internamente all’azienda, quelle attività considerate fondamentali

per il vantaggio competit ivo (Conti, Cucculelli , Para disi , 2004): lo

scopo insito nel localizzare nuovamente in ambito locale la

produzione è il riposizionamento su fascia medio – alta e, dunque,

la ricerca di qualità, affidabilità e collaborazione (Cutrini,

116

Micucci, Montanaro, 2013) . Cleto Sagripanti , presidente di

Assocalzaturifici e Amministratore Delegato di Manas in

un’intervista afferma che , sebbene il mercato italiano sia in crisi,

il posizionamento del distretto nella fascia medio - alta consente di

rispondere alla domanda proveniente dai mercati este ri in crescita,

quali Russia, Estremo Oriente, America e Medioriente (Il Sole 24

Ore, 27 settembre 2012).

Occorre, però, rilevare che le produzioni che sono rientrate in

Italia non sempre e non necessariamente sono gestite da ital iani:

molti tomaifici di Monte Urano, ad esempi, sono gestiti da cinesi i

cui prezzi sono inferiori a quelli applicati alle produzioni

provenienti dell’Est Europa (Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2012).

Figura 19 Multi-localizzazione produttiva dei distretti della moda

Fonte: Distretti Italiani, Unicredit, 2011

L’indagine di Distretti Italiani e Unicredit (2011) , riportata in

figura 19, conferma la forte propensione delle imprese distrettuali

alla multi - localizzazione produttiva, soprattutto per quanto

riguarda il posizionamento di prodotti su fascia medio -bassa che

soffrono la competizione dei paesi low-cost .

Va rilevato che il ricorso a reti lunghe di fornitura consente alle

imprese di migliorare quel rapporto qualità -prezzo, che le rende

più competitive sia sul mercato nazionale che internazionale ,

tuttavia può risultare un rischio, poiché viene meno

l’interdipendenza tra imprese locali e parte dell’ampio sistema del

valore a l ivello distrettuale (Morganti, 2007).

117

Tabella 16 Importazioni di calzature (CB152 Ateco 2007) nelle Marche per paese di

provenienza

Fonte: nostre elaborazioni su dati Coeweb – Istat www.istat.coeweb.it

Osservando i dati relativi alle importazioni riportati in tabella 16

emerge che le calzature marchigiane sono importate

prevalentemente da Romania per una quota parte pari a 33,23 % nel

2012, Bulgaria per i l 13,45 % e Cina per il 12,64%: buona parte

dell’import può essere spiegata dalla delocalizzazione produtti va.

Si nota, inoltre, che le importazioni sono diminuite, probabilmente

a conferma dell’obiettivo di upgrading qualitativo: i paesi che ne

hanno sofferto maggiormente sono India, Tunisia, Serbia e

Romania; di contro, risulta in aumento la domanda di calzat ure

cinesi .

Si rileva, tuttavia, che il ricorso a traffico di perfezionamento

passivo a livello di distretto è di molto inferiore rispetto ad altri

distrett i calzaturieri: secondo un’analisi che coinvolge i distretti di

Fermo e Macerata, Barletta, Lecce, Brenta, Treviso, Verona, il

ricorso alla delocalizzazione produttiva è inversame nte

proporzionale all’orientamento alle esportazioni (Amighini,

Rabellotti, 2003).

La modalità di delocalizzazione produttiva di maggior frequenza è

il ricorso a subcontrat ti; per quanto riguarda le collaborazioni con

l’estero, queste sono soprattutto partnership commerciali, tuttavia

vi sono pure alcuni casi di joint venture con soci esteri , soprattutto

nei casi di delocalizzazione delle fasi produttive che apportano una

quota ri levante di valore aggiunto (Distretti Italiani, Unicredit,

118

2011). Il raro ricorso a forme di collaborazione commerciale

riguarda principalmente linee di prodotto complementari e d è

frutto di esigenze dei canali distributivi (Alessandrini, Canullo,

1997).

Tabella 17 Imprese estere partecipate da marchigiane per paese; fabbricazione di articoli in

pelle e simili; anni 2005 e 2011

Paesi 2005 2011

Paesi UE – 15 1 2

Altri paesi UE 23 26

Altri paesi Europa centro - orientale 7 16

Africa settentrionale 2 2

America centrale e meridionale 2 2

Asia centrale 1 2

Asia orientale 4 4

Totale 40 54

Fonte: elaborazioni da Banca dati Reprint, Politecnico di Milano – ICE www.ice.gov.it

Vi è un limitato ricorso all’internazionalizzazione con forme più

evolute sia a causa dei limiti dimensionali della maggior parte

delle imprese sia poiché è impossibile replicare esternamente la

rete di relazioni, il know-how , la cultura locale sedimentata tra

imprenditori, lavoratori e popolazione (Morganti, 2007).

Il percorso intrapreso dalle aziende marchigiane alternativo alla

delocalizzazione è l’esternalizzazione produttiva, rimanendo, però,

all’interno dei confini aziendali . Il mutato contesto compet it ivo ha

implicazioni sulle relazioni di subfornitura tra imprese che

diventano sempre più intense , di più lungo periodo, ma anche

caratterizzate da una connotazione più gerarchica , dunque di

maggior controllo (Cutrini, Micucci, Montanaro, 2013). La

motivazione insita in tale scelta strategica è la garanzia

dell’upgrading qualitativo, tale da consentire una maggiore

competitività e migliori risultati in termini di performance sia

nazionale ma soprattutto internazionale.

Risultano interessanti in questo ambi to i risultati di un’indagine

empirica svolta da Cutrini, Micucci e Montanaro (2013) su un

campione di 140 aziende del distretto in due periodi 2003 – 2007 e

119

2003 – 2009. Si individuano due percorsi differenti: il primo di

focalizzazione sulla qualità e il secondo di focalizzazione sui costi.

Investimenti nel marchio, in ricerca e sviluppo, in reti commerciali

sono alla base della differenziazione qualitativa a cui le imprese

fanno corrispondere un più elevato prezzo di vendita. Il

contenimento dei costi di produzione è, in genere, accompagnato

dalla delocalizzazione all’estero. La ricerca dimostra che il focus

sulla qualità ha effetti migliori sia nel periodo pre -crisi sia negli

anni di recessione: nel primo periodo la differenziazione

qualitativa ha consentito una crescita maggiore del valore

aziendale, mentre durante la crisi la minore probabil ità di uscire

dal mercato.

Va, infine, rilevato che il duplice percorso di delocalizzazione e di

focalizzazione sulla qualità ha effetti sull’assetto del distretto, di

cui, tuttavia, non se ne può prevedere la fine: l’indebolimento

causato dal progressivo trasferimento di alcune fasi della fi liera

produttiva è accompagnato dal rafforzamento di altre funzioni,

quali progettazione, miglioramento qualitativo, marketing, vendita.

Si sta passando così da un “distretto di produzione”, di cui si

esalta l’efficienza della filiera, ad un “distretto di prodotto”,

focalizzato su fasi a maggior valor aggiunto correlate alle

caratteristiche di unicità e qualità (Cutrini, Micucci, M ontanaro,

2013).

6.4 Casi aziendali

Si analizzano tre casi aziendali frutto di interviste svolte sulla base

di un questionario predefinito , con lo scopo di analizzare il trend e

le strategie di internazionalizzazione. Sono state selezionate tre

aziende distret tuali che operano su mercato finale, in particolare

nel segmento donna e che hanno una cl asse dimensionale tale da

consentirne la classificazione come piccole e medie imprese; ex-

ante si è verificata tramite le informazioni reperite sui siti

aziendali la presenza sui mercati esteri .

120

6.4.1 Boccaccini SpA

L’azienda Boccaccini rappresenta un noto caso di successo nel

panorama distrettuale: è un’azienda di medie dimensioni con circa

ottanta dipendenti e una classe di fatturato tra 15 e 20 milioni di

euro, con sede nel comune di Porto Sant’Elpidio; si occupa della

produzione di calzature, abbigliamento e accessori per il segmento

donna di fascia alta di mercato.

Nasce come piccola azienda calzaturiera a conduzione familiare nel

1959, in quello che per il distretto è i l periodo di escalation

art igiano – industriale.

La raffinatezza, la ricercatezza e l’innovazione continua del

prodotto fanno sì che l’azienda si posizioni sin da subito nella

fascia alta del mercato.

La svolta nelle polit iche di marketing si ha negli ann i Ottanta con

lo sviluppo in proprio del brand “L’Autre Chose” che da un lato

richiama volutamente l’idea di cambiamento, dall’altro consente di

consolidare la posizione di vantaggio competitivo nei mercati

nazionali ed internazionali . La fascia di mercato servita rimane

quella alta, ma lo stile si fa più giovane, più creativo, con una

lieve nota nostalgica.

La risposta del mercato è subito positiva sia in Italia che all’estero

grazie alla capacità di coniugare l’alta qualità delle Griffes con un

prezzo relativamente più basso.

Un altro step fondamentale che ne sta decretando il successo

attuale, soprattutto in termini di aumento di fatturato, è la

diversificazione di prodotto: nel 2005 alla produzione di calzature

si è affiancata quella di abbigliamento, bo rse ed accessori .

Oggi l’azienda conta circa 500 clienti multibrand in tutto il mondo

e quattro monobrand , presenti a Roma, Cortina d’Ampezzo, Milano

Marittima, Bologna e uno in prossima apertura a Milano.

Il brand comunica lo stile creativo dell’azienda, i cui must sono

qualità, stile e colore, e ne conferisce quell’unicità di direzione

che consente la fidelizzazione del cliente.

121

La qualità della produzione deriva sia da elementi tangibili , quali

accurata selezione dei materiali, sia intangibili, quali il valore

intrinseco del Made in Italy . La produzione è, infatti, tipicamente

svolta in Italia: in particolare, nello stabilimento produttivo di

Porto Sant’Elpidio per le calzature e in un laboratorio a Faenza per

il tessile. L’azienda svolge internamente le lavorazioni ad alto

valore aggiunto, esternalizzando a livello nazionale solo alcune

attività labour – intensive , non ricorrendo, così , a delocalizzazione

produttiva, coerentemente con la strategia di focalizzazione sulla

qualità.

I rapporti che l’impresa ha con l’estero, dunque, non sono di tipo

produttivo, bensì esclusivamente commerciale.

Le modalità di internazionalizzazione commerciale negli anni si

sono modificate con il fine di essere i l più vicino possibile al

cliente finale, dati i vincoli di budget.

Le scelte strategiche internazionali sono continuamente riviste,

rimanendo in linea con l’approccio al miglioramento continuo che

caratterizza tutte le attività dell’azienda.

I maggiori mercati di sbocco sono Germania, Olanda, Belgio,

Francia, Giappone, Russia e Stati Uniti , che vengono serviti con

esportazioni dirette.

La presenza in Germania era garantita da personale di una GmbH

che gestiva uno show-room in un fashion mall con altri brands,

tuttavia difficoltà di coordinamento, limiti nella gestione d el flusso

di clienti e vincoli di spese hanno implicato la revisione delle

scelte strategiche. Ora, infatti, il mercato tedesco è servito da

agenti plurimandatari a Düsseldorf e vi è in progetto l’apertura a

breve di un negozio monobrand .

Una collaborazione di successo si ha nel mercato olandese e belga

grazie alla corrispondenza tra offerta e domanda: la distribuzione,

iniziata cinque collezioni fa, risulta triplicata se non quadruplicata.

La presenza in Giappone, paese in cui si commercializzano

principalmente le calzature, viene gestita da personale interno di

nazionalità giapponese, direttamente dallo show-room di Milano.

122

Inoltre, in occasione della settimana della moda in giugno e

gennaio a Tokyo viene affittato uno show-room.

La Russia viene servita tramite un agente di base a Milano; la

domanda proveniente dal paese è principalmente di calzature,

mentre vi sono barriere in termini di preferenze locali per quanto

riguarda l’abbigliamento.

Gli Stati Uniti sono il paese in cui si riscontra un calo del la

domanda, la cui causa è attribuibile principalmente a fattori

esterni, in particolare all’attuale recessione. Il freno di acquisto

degli ultimi cinque anni impone all’impresa la revisione della

scelta strategica ottimale, valutando costi e benefici dell e singole

opportunità.

Ulteriori presenze estere vengono gestite dallo show-room di

Milano.

La percentuale di fatturato che si realizza tramite esportazioni

risulta essere del 40%, di cui il 24 % in Europa e il 13 % in

Giappone.

La strategia che si sta implementando è il rafforzamento e la

concentrazione della presenza estera, strategia che si concretizzerà

con l’apertura a breve termine di un flagship store in Francia, il

riallacciamento dei rapporti con la Spagna, l’apertura di un

negozio in Germania.

Il ricorso a flagship store ha un’implicazione notevole in termini

d’immagine, perché ne contribuisce il rafforzamento e, dunque, la

strategia di differenziazione qualitativa intrapresa dall’azienda.

Per quanto riguarda il marketing mix , l’attenzione riservata al

cliente porta inevitabilmente con sé la strategia di adattamento,

piuttosto che la standardizzazione. L’ampia offerta è volta alla

soddisfazione di vari tipi di esigenze; soprattutto per quanto

riguarda il comparto delle calzature nella collezione vie ne proposta

una vasta scelta che spazia e copre necessità dei clienti di vari

paesi. Per rispondere alle richieste del mercato estero si

sposteranno gli efforts sulla pre-collezione.

123

Lo spirito innovativo emerge anche in materia di promozione, su

cui si stanno effettuando i primi investimenti: in particolare si è

appena concluso il progetto di restyling del sito web, in cui risulta

potenziato l’e-commerce , sono in progetto sia investimenti in

progetti sulla rete social e una campagna adv; anche in materia di

promozione l’attenzione al cliente comporta l’adattamento che si

concretizza con la geolocalizzazione.

Come già osservato precedentemente, i canali distributivi vengono

adattati per ogni paese strategicamente ri levante.

Il prezzo, la quarta componente del marketing mix , può essere una

barriera su alcuni mercati , in termini di valuta o in termini di

percezione del prezzo rispetto al prodotto: in determinati paesi,

infatti , la cultura di corrispondere un premium price per il valore

aggiunto del prodotto è meno insita rispetto ad altri.

Concludendo, se agli albori l’impresa ha sfruttato il network di

relazioni distrettuali per avviare e sviluppare il processo di

internazionalizzazione, non si può dire lo stesso degli ult imi anni,

in cui l’impresa opera all ’estero in totale autonomia. La capacità

dell’azienda di dist inguersi sin da subito ne ha determinato il

successo e l’allontanamento dallo stereotipo distrettuale di impresa

calzaturiera, bensì di impresa globale che offre un total look , in

grado di rispondere alle esigenze del cliente.

6.4.2 Donna Soft Srl

Donna Soft nasce a Civitanova Marche nel 1984 come frutto del

progetto condiviso di tre uomini che avevano maturato esperienze

nelle botteghe artigiane distrettuali.

Oggi è un’azienda di piccole dimensioni, che conta circa

trentacinque dipendenti; si occupa della produzione di calzature di

qualità medio- alta per donne.

Il prodotto è un Made in Italy sia per produzione sia per le

caratteristiche di qualità, comfort ed eleganza. La produzione è,

infatti , svolta in Ital ia: il montaggio e il finissaggio sono svolti in

azienda; per il taglio e l’orlatura si ricorre a rapporti di

124

subfornitura, che, occasionalmente, sono stati delocalizzati in

paesi a basso costo della manodopera, in particolare in Romania.

L’esterna lizzazione internazionale non fa rinunciare alla qualità

del prodotto, poiché le fasi della filiera produttiva delocalizzate

sono standardizzabili, per cui non occorrono conoscenze

specifiche; inoltre, non fa rinunciare all’etichettatura Made in

Italy , poiché in Italia avviene l’ultima trasformazione sostanziale

che ne conferisce l’origine non preferenziale, quindi l’indicazione

Made in .

I rapporti con l’estero non si esauriscono in ambito produttivo, ma

si instaurano anche rapporti commerciali. Il mercato di

destinazione del prodotto finito è prevalentemente l’Italia, tuttavia

si stanno adottando strategie che consentono l’acquisizione di una

maggiore quota dei mercati esteri.

Le modalità di internazionalizzazione a cui si ricorre sono le

esportazioni indirette, tramite importatori che acquistano un

minicampionario, e le esportazioni dirette, tramite agenti all’estero

a cui si affidano i campionari e si pagano delle provvigioni; il

ricarico dell’importatore risulta superiore a quello dell’agente, a

causa del differente rischio assunto.

Oggi la percentuale di fatturato attribuibile al mercato italiano è

dell’80%, contro il 20 % estero; i mercati serviti sono l’Europa e il

Nord America.

A causa della riduzione della domanda italiana di calzature, in

particolare di qualità superiore, e a causa dei lunghi tempi di

pagamento dei clienti, l ’azienda si sta orientando sempre più sui

mercati esteri , consapevole che occorre un adattamento ai gusti e

alle esigenze dei singoli mercati .

Si riscontrano, inoltre, minori di fficoltà nella penetrazione di

mercati , quali Canada, Grecia e Australia, poiché non ci sono

problemi di adattamento.

Prossimamente l’azienda parteciperà alla più importante fiera di

calzature, “The Micam” a Milano, e, a seguire, “The Micam

Shanghai” e “Obuv Mir Kozhi”, per catturare quote del mercato

125

rispettivamente cinese e russo. Si sta, inoltre, programmando la

presenza alle fiere di Tokyo e Istanbul.

Il rapporto con i l distretto si limita alla fornitura e non alla

condivisione di esperienze o di altre forme di cooperazione; più

che il panorama distrettuale, in materia di internazionalizzazione a

svolgere un ruolo importante è l’Assocalzaturifici , associazione di

categoria che raggruppa i produttori italiani di calzature.

In risposta alla maggiore compet itività internazionale, l’azienda si

sta focalizzando sulla differenziazione qualitativa, in particolare

sulla cura e attenzione nella selezione delle materie prime, dei

pellami e nella realizzazione del prodotto finito.

6.4.3 Norma J. Baker Srl

Norma J. Baker è la prova tangibile che le piccole dimensioni e la

conduzione famigliare non sono un limite al l’espansione

internazionale: presenta, infatti, un’eccellente performance sul

mercato russo.

L’azienda produce calzature per donna di qualità elevata ed oggi

conta circa trenta dipendenti.

Nasce negli anni Quaranta in un piccolo laboratorio artigiano,

producendo sandali estivi con marchio proprio. Successivamente le

condizioni di mercato inducono l’azienda ad operare per conto

terzi; tuttavia, seguendo i consigli di agenti italiani l’azienda

ritorna sui primi passi , producendo calzature con un marchio

proprio, “Gian Mauro”.

La vera svolta si ha con la creazione del brand “Norma J. Baker”,

al quale corrisponde un cambiamento anche nella produzione: si

inizia a produrre per tutte le collezioni, differenziandole

stilisticamente a seconda delle stagioni. Il mercato di riferimento è

esclusivamente quello italiano, di cui sono coperte tutte le regioni.

La presenza all’importante fiera calzaturiera italiana di Milano e

precedentemente Bologna consente all’azienda di incontrare e di

far apprezzare il proprio prodotto alla clientela estera. Si

instaurano, in particolare, rapporti con il Giappone; il fatturato,

126

precedentemente attribuibile interamente al mercato italiano, iniz ia

ad essere realizzato all’estero: la quota parte attribuibile al

Giappone è del 10 %, mentre il restante 90 % all’Italia.

I crescenti problemi sul fronte dei pagamenti in Italia,

l’interruzione dei rapporti con il Giappone e l’incontro con

un’importante cliente russa fanno sì che l’azienda si focalizzi sulla

Russia, uno dei mercati strategicamente rilevanti per il Made in

Italy .

Oggi il forte orientamen to all’export è confermato dalla quote

parte del fatturato attribuibile all’estero; le quote si sono, infatti,

rovesciate: contro il 10 % realizzato ne l mercato italiano, il 90 % è

realizzato all’estero, principalmente in Russia e a seguire Ucraina

e Bielorussia. Si stanno, inoltre, instaurando le prime relazioni con

clienti cinesi.

I mercati esteri vengono seguiti direttamente dal personale

dell’azienda, adeguatamente qualificato e preparato; eventuali

lacune in materia linguistica vengono colmate ricorrendo a

traduttori .

Le modalità concrete con cui l’azienda si affaccia sui mercati

esteri sono la partecipazione a fiere, in particolare alle due

importanti fiere della Russia, una per la collezione

autunno/inverno, l’altra per la collezione primavera/estate, la

presentazione della collezione ai clienti più importanti negli hotels

di Mosca e di altre città e la presenza in show-rooms in Russia,

Ucraina ed altre parti del mondo.

Per quanto riguarda il marketing mix si è assistito ad un

cambiamento di rotta in termini di prodotto: con la penetrazione

nel mercato russo l’azienda ha optato per un forte adattamento

della produzione alle esigenze della domanda; seguendo il

consiglio di un’importante cliente, si è offerto un prodotto che

mancava sul mercato. La blue ocean strategy , coniugata con la

consapevolezza che il mercato ha delle particolari esigenze , ha

consent ito all’azienda di avere immediato successo.

127

I rapidi cambiamenti della domanda russa hanno fatto rivedere

all’azienda la strategia di forte adattamento. Oggi, infatti, il

prodotto ha tutte le caratteristiche del Made in Italy , in termini di

gusto ed eleganza; si è voluto ridare un più ampio respiro alla

collezione che diventa internazionale, vicina ai dettagli moda, ma

con un gusto più sobrio.

In termini di promozioni, il brand è presente nella più importante

testata di moda, “Vogue Russia”; i canali promozionali sono

manifestazioni, fiere, meeting a cui presenziano personaggi dello

spettacolo.

I canali distributivi sono principalmente negozi multibrand ; in

Russia è, inoltre, presente con due monobrand : a Mosca e a

Novosibirsk.

Alla forte internazionalizzazione commerciale si contrappone

l’internalizzazione produttiva: due scelte correlate, poiché la

produzione Made in Italy è alla base della differenziazione

qualitativa che rende più di nicchia le lavorazioni artigianali.

In termini produttivi, infatti , la scelta dell’azienda è quella di

mantenere l’intera filiera produttiva in Ital ia, non ricorrendo

all’estero laddove il costo della manodopera è sì inferiore, ma non

viene garantito lo stesso standard qualitativo. La produzione nella

sua quasi totalità viene svolta all’interno dell’azienda, mentre si

esternalizzano le sole fasi di giunteria e taglio in sedi distaccate

dell’azienda, pur rimanendo all’interno dei confini distrettuali.

L’obiettivo della soddisfazione delle esigenze del cl iente fa sì che

l’azienda non rinunci mai alla qualità; in risposta alla maggiore

competitività in ternazionale, infatti, l ’impresa si adopera per la

continua ricerca di prodotti, cercando di contenere i costi

solamente laddove sono superflui.

I rapporti con l’estero, tuttavia, non si esauriscono in ambito

commerciale, infatt i numerose sono le iniziative sociali. In

Marocco l’azienda ha organizzato a proprie spese un corso tenuto

dalla stilista e dal caporeparto dell’orlatura per far apprendere a

dei ragazzi le tecniche di produzione delle calzature; in Lituania

128

sono state inviate ad un orfanotrofio borse e calzature con cui si è

organizzata una pesca, il cui ricavat o è stato uti lizzato per

migliorare le condizioni dello stesso istituto; in Ucraina si è voluto

insegnare ad alcune famiglie disoccupate i lavori di manovia e di

orlatura, che hanno consentito di trovare lavoro presso un

calzaturificio.

L’impegno sociale rappresenta indubbiamente per l’azienda nella

soddisfazione delle attese degli stakeholders un valore aggiunto,

che merita di essere reso noto .

6.4.4 Casi aziendali a confronto

Tabella 18 Casi aziendali a confronto

Caratteristiche Boccaccini SpA Donna Soft Srl Norma J. Baker

Srl

Modalità Esportazioni

dirette e indirette;

delocalizzazione

produttiva

occasionale

Esportazioni dirette

e indirette;

delocalizzazione

produttiva

occasionale

Esportazioni

dirette

Percentuale

fatturato estero

40% (24% in

Europa, 13% in

Giappone)

20% 90% (Russia)

Penetrazione Ampia Limitata Limitata

Strategia di

marketing

Adattamento Standardizzazione Prima

adattamento ora

standardizzazione

Rapporto

distretto/

espansione

estera

Non rilevato Non rilevato Non rilevato

Fonte: nostre elaborazioni

Come emerge dal confronto tra i casi aziendali in tabella 18, nel

distretto risulta esserci un’eterogeneità tra strategie di

internazionalizzazione di imprese che servono lo stesso segmento.

Nel primo caso si ha una strategia di internazionalizzazione

pianificata ex-ante e continuamente monitorata ed eventualmente

rivista ex-post .

129

Il secondo caso è caratterizzato da una strategia di

internazionalizzazione improvvisata, motivata soprattutto dalla

riduzione costante della domanda e dalle difficoltà di pagamento

dei clienti nazionali.

Il terzo caso, invece, ha intrapreso un percorso di crescita

notevole, focalizzandosi principalmente su un solo mercato

strategico: partendo da un’internazionalizzazione trainata, rivede

continuamente le proprie strategie e le implementa

opportunamente.

I tre casi sono accomunati dalla maggior propensio ne a

internazionalizzazione commerciale, rispetto a quella produttiva,

questo perché il beneficio di reperire fornitori in loco è superiore

al costo di ricerca di fornitori esteri. Tuttavia, occasionalmente e

per le fasi a minor valore aggiunto la Boccacci ni SpA e Donna Soft

Srl ricorrono a subforniture estere.

Altro elemento che accomuna le tre aziende è la consapevolezza

che il rapporto con il distretto si limita ai rapporti di produzione.

130

131

Conclusioni

Il distretto gioca un ruolo fondamentale sopr attutto per la

possibilità di reperire i fornitori in loco ; non si può affermare,

invece, che il network di relazioni locali favorisce

l’internazionalizzazione, poiché non risulta esserci cooperazione,

bensì quell’individualismo tipico dell’imprenditoria i taliana.

La performance esportativa viene spiegata maggiormente dal

vantaggio competitivo di cui gode il distretto; la fonte del

vantaggio risulta essere la qualità, alla quale sicuramente

contribuisce la rete di forniture locali. Nel tempo, tuttavia, la rete

si è andata modificando, di pari passo con la crescente integrazione

dei mercati che ha favorito il ricorso a subfornitori esteri

soprattutto per attività labour-intensive . Sono le imprese locali

intermedie a soffrire maggiormente la concorrenza dei p aesi dove

il costo della manodopera è minore; la delocalizzazione produttiva

sta, infatti, avviando un meccanismo di selezione che le obbliga a

rivedere le proprie strategie : le alternative strategiche che si

prospettano sono il rafforzamento delle relazio ni con le imprese

clienti , il ricorso a forme cooperative quali le licenze oppure lo

spostamento verso attività sempre più a valle.

La risposta delle imprese finali alla crescente integrazione dei

mercati è indubbiamente l’upgrading qualitativo che le consente di

operare su fasce di mercato in cui non si soffre le concorrenza dei

paesi che offrono prodotti a basso costo. La sfida internazionale,

da un lato, ha visto lo sviluppo di quelle imprese che sono state in

grado di cogliere le opportunità provenienti dall’esternalizzazione

focalizzandosi su attività a più alto valore aggiunto, quali

comunicazione e distribuzione; dall’altro, ha colto impreparate

molte imprese soprattutto quelle che operavano principalmente nel

mercato nazionale e che hanno sofferto, dunque, del calo della

domanda interna. La strategia che accomuna le latecomers sui

mercati esteri è principalmente frutto di un atteggiamento imitativo

e non di una pianificazione ex-ante .

132

Si riscontrano ottime performance nazionali e internazionali

soprattutto per quelle imprese che investono in attività a valle

della catena del valore, quali marketing, comunicazione,

distribuzione, at tività su cui si possono concentrare grazie

all’esternalizzazione di fasi della produzione e alla

delocalizzazione.

Una ri flessione finale viene espressa in merito alle strategie delle

piccole e medie imprese nell’ottimizzazione dello sfruttamento

dell’effetto distretto. Le imprese che stanno soffrendo

maggiormente il calo della domanda nazionale dovrebbero superare

la barriera culturale dell’individualismo e sfruttare maggiormente

le relazioni locali al fine di raggiungere efficacemente i mercati

esteri condividendo sia informazioni, ma anche strutture, quali ad

esempio spazi in fiere, show-room. L’imitazione tout court delle

strategie internazionali può, invece, avere effetti spiacevoli, se

queste non si adattano alle risorse e competenze interne

dell’azienda e alle esigenze del mercato estero. Tuttavia, dai

numerosi casi di successo del distretto le latecomers potrebbero

prendere spunto, investendo maggiormente ed efficacemente nelle

attività a maggior valore aggiunto. Nel nuovo contesto globale, il

miglioramento continuo della produzione non è più sufficiente, ma

occorre poterlo e saperlo comunicare efficacemente.

133

Indice delle tabelle

Tabella 1 Analisi dell’ambiente internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

Tabella 2 Matrice di transizione: imprese e forme di

internazionalizzazione tra il 2007 e i l 2010 (numero di

imprese; frequenze percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

Tabella 3 I primi venti esportatori mondiali di merci (in miliardi di

dollari) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39

Tabella 4 Investimenti dirett i esteri in uscita: principali paesi

investitori (Valori in miliardi di dollari a prezzi correnti) . 42

Tabella 5 Caratteristiche struttu rali delle imprese per forme di

internazionalizzazione, 2010 .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 52

Tabella 6 Imprese esportatrici (a), addetti e relative esportazioni

per classe di addetti – Anno 2010 (valore delle esportazioni

in milioni di euro e composizioni percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56

Tabella 7 Aree di destinazione delle att ività decentrate per classi

dimensionali d’impresa (valori in percentuale) . . . . . . . . . . . . . . . . . 61

Tabella 8 Mercato di destinazione dei prodotti di imprese

distrettuali e non .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81

Tabella 9 Modalità d’internazionalizzazione delle imprese ital iane,

suddivise in distrettuali e non .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

Tabella 10 I settori principali dei distretti industrial i . . . . . . . . . . . . . . . . 90

Tabella 11 Esportazioni per attivit à economica – Anno 2011 (a),

valori assoluti in migliaia di euro e variazioni percentuali 92

Tabella 12 Distribuzione settoriale delle imprese per forme di

internazionalizzazione –Anno 2010 (numero di imprese,

valori percentuali) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 94

Tabella 13 Sedi di imprese attive e addetti totali nell’attività C152

Fabbricazione di calzature; anno 2010 .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101

Tabella 14 Esportazioni italiane di calzature (CB152 Ateco 2007)

nel mondo per province .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108

Tabella 15 Filiera delle calzature e localizzazione prevalente .. . . 112

Tabella 16 Importazioni di calzature (CB152 Ateco 2007) nelle

Marche per paese di provenienza .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117

Tabella 17 Imprese estere partecipate d a marchigiane per paese;

fabbricazione di articoli in pelle e simili ; anni 2005 e 2011

.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118

134

Tabella 18 Casi aziendali a confronto .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128

135

Indice delle figure

Figura 1 Il diamante di Porter per l’analisi dell’ambiente nazionale

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

Figura 2 Modalità di internazionalizzazione .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22

Figura 3 Esportazioni di beni e servizi (% PIL) in Italia e nel

mondo .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40

Figura 4 Presenza commerciale italiana all’estero. Anno 2010,

intervalli per numero di presenze degli operatori al l’export 41

Figura 5 Flusso netto di investimenti diretti esteri in Italia ( in

US$) .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 42

Figura 6 Importanza delle barriere interne per

l’internazionalizzazione, per classi dimensionali delle PMI,

punteggio medio su scala da 1 (non importante) a 5 (molto

importante), solo per le PMI attive nel contesto

internazionale .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48

Figura 7 Barriere relative all’ambiente di business per le imprese

sui mercati non EU – EEA, per classe dimensionale

(percentuale delle PMI che le considerano importanti) . . . . . . 48

Figura 8 Percentuale di PMI europee impegnate in attività

internazionali , che hanno piani concreti per iniziare le

attività o non del tutto. Per varie modalità di

internazionalizzazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54

Figura 9 Quota parte del numero di imprese estere partecipate da

imprese italiane per classe dimensionale .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 60

Figura 10 Ripartizione del valore aggiunto del manifatturiero

italiano .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 91

Figura 11 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori

(euro) dall’Italia al resto del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

Figura 12 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in quantità

(kg) dall’Italia al resto del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

Figura 13 Imprese attive nel settore preparazioni e concia cuoio –

fabbricazione articoli da viaggi o (DC19: 1998-2009 Ateco

2002) e fabbricazione articoli in pelle e simili (C15: 2009 -

2012 Ateco 2007) .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100

Figura 14 Estensione delle reti di imprese dei distrett i della moda

.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102

136

Figura 15 Tradizione e riposizionamento dei distretti della moda

.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104

Figura 16 Esportazione di calzature (CB152 Ateco2007) in valori

(euro) dalle Marche per destinazione .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109

Figura 17 Esportazioni di calzature (CB152 Ateco2007) in valori

(euro) dalle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata al

resto del mondo... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 110

Figura 18 Quota di esportazioni dei distretti della moda .. . . . . . . . . . 111

Figura 19 Multi -localizzazione produttiva dei distrett i della moda

.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116

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Its moda – calzature www.itsmodacalzature.it

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Ringraziamenti

In primis desidero ringraziare la Professoressa Giuri per la

disponibil ità e i preziosi suggerimenti .

Ringrazio le aziende Boccaccini SpA, Donna Soft Srl e Norma J.

Baker Srl; in particolare, ringrazio sentitamente il Dott . Spagnolo

Andrea, la Dott.ssa Perugini Silvia, l’Amministratore Scocco

Claudio e l’Amministratore Iachi ni Mauro per aver collaborato a lla

stesura dei casi.

Last but not least r ingrazio i miei genitori che con il continuo

sostegno e supporto hanno contribuito al raggiungimento di questo

traguardo.