a san lorenzo si scioglie la neve

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Stefano Boni, avventura Matilde è la nuova maestra di San Lorenzo, un piccolo paese che d'inverno rimane isolato a causa della neve. Dopo un lungo periodo di adattamento alla vita di montagna, quando tutto va per il meglio, nuovi arrivi minacciano la tranquillità degli abitanti facendo affiorare antichi rancori. Fra bufere di neve, duelli all'arma bianca, amori contrastati e lotte di potere, dal passato riemerge la figura di Facciarossa, cavaliere e brigante. Tutti in paese dovranno fare i conti con le proprie convinzioni e Matilde, rimasta affascinata dalla tradizione di canto popolare del Maggio Drammatico, dovrà prendere decisioni importanti.

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In uscita il 23/12/2015 (15,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine gennaio e inizio febbraio 2016

(4,99 euro)

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Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

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STEFANO BONI

A SAN LORENZO SI SCIOGLIE LA NEVE

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A SAN LORENZO SI SCIOGLIE LA NEVE Copyright © 2015 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-938-8 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Dicembre 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A mio padre A mia madre

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Venne l’inverno in queste zone che la neve, si sa, continuo abbonda;

circolare non posson le persone perché il piede calcato in esso sfonda.

da “Vera Storia”

di Amilcare Veggetti merciaio ambulante di Vaglie

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CAPITOLO 1 Fuori c’era solo la neve. Era caduta negli ultimi tre giorni imbiancando le strade, gli alberi e le case. Matilde guardava rapita il panorama dai finestrini dell’autobus. Il grosso mezzo si era fatto strada imponendo la sua lenta e rumorosa andatura con grandi catene agli pneumatici. In al-cune curve aveva dovuto lasciare il passo a vecchi camion che procede-vano verso valle. Matilde scese al bivio dell’ufficio postale. A contatto con la neve sulla strada le suole fecero un rumore ovattato. Le porte si chiusero dietro di lei e l’autobus ripartì nella puzza di gasolio. Lei era un punto marrone nel bianco uniforme. Le nubi basse minaccia-vano neve anche per quella sera. Gli alberi erano sculture immacolate, placide nel loro riposo invernale. I rami erano ricurvi sotto il peso della neve e in alcuni punti arrivavano quasi a toccare terra creando muraglie che nascondevano il bosco. Poco distante dalla fermata c’era un signore con un mulo; lei, quasi in-timorita dal panorama, non riusciva a muoversi, nonostante non fosse la prima volta che si trovava in quella situazione. L’uomo, strattonando il mulo, si avvicinò, lasciando orme regolari nella neve. «Bentornata», disse. Lei abbozzò un sorriso, stringendosi ancora di più nell’abito. «Oggi fa più freddo del solito», disse l’uomo come per scusarsi, come se l’aria gelida fosse colpa sua. «San Lorenzo è tutto gelato.» Allungò un braccio per prenderle la borsa e le indicò il mulo. «Venga, presto, andiamo a casa.» Lei mollò la presa sulla borsa e montò sull’animale con la consueta grazia. L’uomo, dall’aspetto imponente e massiccio, il volto perfettamente ra-sato, due occhi profondi sotto sopracciglia folte, le stese gentilmente una coperta intorno alle spalle e lei se la strinse forte al petto. Si misero in cammino, prendendo la strada a destra rispetto a quella su

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cui aveva proseguito l’autobus. Ogni volta che Matilde percorreva quei due chilometri a dorso di mulo, le venivano in mente le parole del Provveditore: «D’inverno San Lorenzo è isolato. La neve lassù copre tutto e si fa fati-ca a trovare la carraia. Abbiamo un accordo con il falegname del luogo. Ogni domenica la viene a prendere all’ufficio postale, dove si ferma l’autobus di linea, e l’accompagna con il suo mulo al paese. Alloggerà con il falegname e sua moglie. Ogni venerdì l’accompagnerà giù dove potrà prendere il mezzo per tornare in città.» Il Provveditore era un uomo basso e corpulento, con pochi capelli e un sorriso accomodante. Appena Matilde era entrata nel suo ufficio aveva subito sentito l’odore di sigaro e l’uomo doveva aver notato il suo di-sappunto dato che si era mosso svelto verso la finestra per scostarla di pochi centimetri. Matilde aveva guardato verso la scrivania e aveva vi-sto il posacenere vuoto. Con un gesto frettoloso l’uomo le aveva fatto cenno di sedersi. L’arredamento della stanza non era piaciuto a Matilde; troppa fòrmica e poco legno. Alle spalle del provveditore c’erano due foto molto grandi messe in cornice. Nella prima era ritratto Fausto Coppi pedalare al Passo dello Stelvio; nella seconda si vedeva un’auto da corsa, lunga e compatta, sfrecciare fra i marciapiedi di Montecarlo. Una scritta sottostante riportava “Juan Manuel Fangio - campione di Formula 1 con Ferrari”. Il Provveditore aveva seguito il suo sguardo e aveva sorriso compiaciu-to. «Che anno; e che finale a Monza. Quella è la macchina di Collins. Do-vette cedergli la vettura perché lui aveva rotto.» Matilde non aveva capito niente di quello che il Provveditore aveva det-to. Aveva guardato sul mobile alle spalle dell’uomo e aveva visto un ingombrante giradischi e alcuni quarantacinque giri, il primo dei quali, in copertina, aveva un ritratto di Ornella Vanoni in bianco e nero con un gatto in mano. «L’offerta che ho per lei è talmente particolare che me ne occupo per-sonalmente. È per questo che l’ho fatta venire qui.» Matilde si era arrotolata le mani nei manici della borsetta. A quel punto lui si era esibito in un lungo discorso sulla scuola di San Lorenzo, un paese alle pendici del Monte Cusna, quello che dalla pia-nura sembrava un uomo sdraiato. «Io non ci sono mai stato lassù, ma mi hanno detto che è un posto mol-

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to bello. Non sarà come stare in città, però sarà un’esperienza nuova che nel suo curriculum avrà la sua importanza.» Le aveva spiegato in che cosa consisteva la scuola e la classe e aveva concluso con il particolare accordo con il falegname del posto. Una si-tuazione insolita. Era un incarico scomodo, ma era l’unica vera proposta di lavoro e ave-va accettato. Stare fuori casa tanto tempo era una novità per lei; sotto certi aspetti quasi una follia. Vista la giovane età, qualche pettegolezzo nei suoi confronti sarebbe girato, ma era pur sempre una maestra, una donna rispettabile, colta, sobria e ben educata. La parte più difficile fu convincere mamma Lucia e papà Valentino; le rassicurazioni del Provveditore non furono sufficienti, vollero conosce-re di persona il falegname e la moglie. Valentino, che di mestiere face-va il portalettere, era una persona pratica che si vantava di capire subito se di una persona ci si poteva fidare. Il falegname e sua moglie gli era-no piaciuti senza riserve. In seguito dovette passare due giorni a con-vincere Lucia, ma alla fine anche la pratica famigliare fu risolta e Ma-tilde ebbe via libera. Era la nuova maestra di San Lorenzo. Preparare la prima valigia fu un lavoro meticoloso. Il guardaroba di Matilde non era molto fornito, ma non aveva la minima idea di come fossero le temperature in montagna. Per la prima settimana esagerò. Si era ancora a settembre, faceva bel tempo e le giornate erano calde; solo alla sera l’aria fresca, dovuta agli oltre mille metri di quota di San Lo-renzo, iniziava a dare fastidio. Il cappotto invernale che lei aveva porta-to con sé era eccessivo e le ci volle un po’ prima di riuscire a tarare la valigia in modo corretto. Fra i ricordi del primo giorno di scuola c’era sicuramente Laura. Era una bambina bionda di 7 anni, dolcissima. Era bisognosa di coccole e affettuosa oltre misura. Nonostante la difficoltà iniziale del distacco al mattino, quando i genitori la lasciavano da sola nella piccola scuola, si era affezionata rapidamente a Matilde. La scuola era stata mantenuta per motivi di opportunità e civiltà. Viste le condizioni delle strade, per i bambini di San Lorenzo non c’era pos-sibilità di raggiungere un’altra scuola con facilità. Gli studenti erano solo sette e di età diverse. Il costo per riscaldare la stanza e pagare la maestra non sarebbe stato giustificabile a lungo e negli anni successivi, molto probabilmente, la scuola sarebbe stata accorpata e trasferita a Ca-

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stellalto. La classe era mista e tutti i bambini di San Lorenzo finivano nella stes-sa aula; era Matilde che doveva seguire uno per uno gli alunni con compiti e spiegazioni dedicate. Un lavoro diverso, più articolato di co-me le avevano insegnato. La passione e la soddisfazione dell’insegnamento emergevano anche in quel paese ai limiti del mondo. Arrivò l’autunno e Matilde rimase affascinata dal mutare del bosco. Tranne qualche isolata macchia di abeti, vestigia di antichi boschi sem-preverdi, il bosco di faggi iniziava a colorarsi di rosso cupo e giallo ac-ceso. Con il passare dei giorni il marrone dei tronchi che si liberavano dalle foglie emergeva da quella tavolozza variopinta, seguendo una li-nea immaginaria che scendeva di quota lentamente. In base alla posi-zione del sole, i verdi, i rossi, i gialli, i marroni cambiavano di tonalità, mostrando una montagna sempre diversa, come se il gigante sdraiato, formato dal profilo del crinale del Monte Cusna, respirasse e si scrol-lasse di dosso una coperta multicolore. Quando arrivò l’inverno e iniziarono le prime nevicate, Matilde imparò davvero cosa voleva dire vivere in montagna. All’inizio vide il paesag-gio tingersi solo di due tinte: il bianco della neve e il marrone degli al-beri. Poi, con il tempo, iniziò a scorgere le diverse gradazioni e i diversi riflessi dei cristalli nel manto immacolato. Iniziò a distinguere il grigio della pietra dalle venature del bosco spoglio. Scoprì l’azzurro delicato della neve in ombra o dopo il tramonto. In quel periodo il dondolio del mulo portato da Antonio si fece più incerto, più cauto. Il freddo si fece pungente e scoprì che non aveva nessun cappotto davvero efficace con-tro quelle temperature rigide. Aveva approfittato delle vacanze di Natale per acquistare una giacca adatta e un maglione di lana molto pesante. Ora stava tornando, dopo diciassette giorni di assenza, e stava scoprendo che, letteralmente, San Lorenzo era congelato. La casa di Antonio era una vecchia costruzione in pietra di due piani. Poco distante, per lo spazio necessario a farci passare un carro, c’era il basso fabbricato adibito sia a falegnameria che a stallino per il mulo e la capra; più lontano, ai margini del cortile, c’era la latrina. Appena en-trati in San Lorenzo, si imboccava lo stretto vicolo a destra, verso il for-no, e la casa di Antonio e sua moglie Teresa era la prima sulla destra.

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Matilde aveva legato subito con entrambi; Teresa era originaria della bassa, verso il Po, e, chissà come, aveva conosciuto Antonio, innamo-randosene al punto da lasciare i larghi orizzonti della pianura per venire a seppellirsi in montagna, dove per un paio di mesi all’anno quasi non si vedeva il sole. Teresa si era dimostrata subito cortese e aperta e Ma-tilde aveva apprezzato il suo atteggiamento. I primi giorni erano stati duri. Trovava sollievo solo nella classe mista in cui insegnava. Non era abituata a quell’umanità così chiusa, a quella comunità forgiata dagli inverni terribili e dalle estati passate in altura, ai pascoli. La prima notte che passò a San Lorenzo non riuscì a dormire dalla ten-sione. Quando finalmente si fu abituata al nuovo ambiente, arrivarono i primi freddi e dormire tornò a essere un problema. Il piano di sopra del-la casa di Antonio era costituito da due stanze. In una, posta sopra la cucina, dormivano lei e Teresa. Il tepore del piano di sotto teneva tiepi-da anche la stanza soprastante. La stanza a lato, dove si andava a cori-care Antonio, era sopra la cantina ed era gelida. Talmente gelida che al lume della candela, da novembre, le pareti luccicavano di brina, come se il cielo stellato si fosse adagiato sulle pareti. Sotto gli enormi fagotti di piume, il caldo resisteva alla notte fredda; alla testa ci pensava il pesante berretto di lana, ma era il naso a tenere spesso Matilde sveglia per quasi tutta la notte. Le venne in mente uno dei primi capitoli del “Moby Dick” di Melville dell’Edizioni Nomad, libro che stava leggendo proprio in quel periodo. “E dico tanto più, perché se si vuole avere davvero un bel caldo in cor-po, qualche pezzetto di quest’ultimo dev’essere freddo: ché ogni qualità al mondo è tale solamente per contrasto. Niente esiste in se stesso. Se vi credete di stare proprio bene dappertutto, e di esserlo stati per un pez-zo, allora non si può dire che state ancora benone. Ma se, come me e Queequeg in quel letto, avete la punta del naso e il cocuzzolo appena appena congelati, allora nel complesso potete dire di sentire un caldo delizioso, un caldo inequivocabile. Per questo motivo il posto dove si dorme non dovrebbe mai avere un fuoco, che è una delle scomodità di lusso dei ricchi. Anzi in questo caso il colmo della raffinatezza è di non avere niente tranne la coperta tra voi col vostro calduccio e il gelo dell'aria esterna. Allora siete proprio come l'unica favilla calda nel cuore di un cristallo polare.”

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Non del tutto convinta delle teorie del romanziere americano, cercava di adattarsi e di godersi la parte di corpo al caldo, riconoscendo che, in tutta onestà, sotto la coperta stava davvero bene. Ma le notti non sempre erano comode e in certi momenti, quando i pen-sieri vagavano senza motivo e senza rispetto del sonno, aveva pensato di dare le dimissioni. Poi si concentrava su alcuni dei suoi studenti e sorrideva nel buio. Alberto aveva 9 anni ed era un creativo. Come la scintilla della creativi-tà avesse potuto colpire in un paesino sperduto, abitato da gente di fati-ca non si sa, ma Alberto aveva veramente la mente fervida e l’immaginazione sconfinata. A San Lorenzo la maggior parte degli sti-moli veniva dalla natura e non erano pochi. I ritmi, i rumori, le meravi-glie del bosco e della montagna, che per gli adulti si tramutavano in fa-tica, in Alberto diventavano fonte di ispirazione per viaggiare con la fantasia. Era l’organizzatore dei giochi della classe, sia al mattino nel caldo dell’aula, sia al pomeriggio dei giorni più caldi quando i genitori lasciavano i bambini fuori a correre fra i mucchi di neve spalata. Mirco aveva 9 anni e le idee chiare. Fare il pastore di pecore come suo padre, suo nonno e il padre di suo nonno. Non c’era altro interesse nella sua vita. Nato, cresciuto, e probabilmente anche concepito, nel recinto delle pecore, il suo universo era delimitato dalle stelle di notte e dai pa-scoli di giorno. Casa sua era dove si spostava il gregge. A ogni compi-to, a ogni esercizio, chiedeva a Matilde se l’argomento gli sarebbe stato utile per diventare un buon pastore. A dicembre Matilde si era abituata anche a dormire con il naso freddo. Fra gli impegni presi, il panorama e l’affetto della famiglia che la ospi-tava, iniziò a trovare piacevole il soggiorno a San Lorenzo. La casa di Antonio era arredata con gusto. I mobili li aveva costruiti tutti lui «d’inverno, quando non si combina molto.» C’erano degli stec-cati da riparare o dei tetti da rinforzare sotto il peso della neve, ma ri-maneva anche tanto tempo libero da dedicare alla propria casa. D’inverno San Lorenzo rallentava. Le strade erano bianche tracce nella coltre immacolata. Gli ingressi erano scavati nella neve a colpi di badi-le. La maggior parte degli uomini se ne era andata, verso la Lunigiana e la Maremma, dove il tepore del mare rendeva i versanti ancora pascola-bili e le mulattiere percorribili. Le donne andavano a servizio a Genova

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o in pianura. Restava solo chi non poteva viaggiare e chi aveva un’attività. Come la signora Lisa che aveva un piccolo negozio di gene-ri alimentari e la camera di suo figlio, caduto in guerra, da affittare a gente di passaggio. Nella bottega si potevano acquistare solo genere sfusi; d’inverno gli scaffali si svuotavano dato che solo saltuariamente e con l’aiuto del fornaio la signora Lisa raggiungeva Castellalto per rifor-nirsi. Non mancavano mai i barattoli di conserva di pomodori con lunga scadenza. La bottega della Lisa era uno dei due centri di informazione del paese, soprattutto dal punto di vista femminile. L’altro era la taver-na di Bruno, frequentata per lo più dagli uomini. Nei campi, il seme lavorava sottoterra. Si aspettava un’altra estate di massacrante lavoro. La più indaffarata era Matilde. Quel giorno di gennaio in cui stava tor-nando a scuola, dopo aver abbandonato l’autobus e percorso finalmente i due chilometri a dorso di mulo, percorrendo la strada che portava alla casa del falegname, lei e Antonio incontrarono un gruppo di tre perso-ne. Appena la più piccola dei tre vide Matilde le si fece incontro dando-le il benvenuto per prima. Claudia aveva 8 anni ed era la figlia del for-naio. Con i genitori condivideva la mole sconsiderata e più di una volta Matilde aveva fatto notare che non era la cosa più salutare per una bambina. Il fornaio e sua moglie avevano spiegato che il pediatra, all’ultima visita, aveva detto che andava tutto bene. I genitori salutarono la maestra e il falegname con molto garbo. «Bentornata. Andiamo in chiesa; stamattina non siamo riusciti.» «Cosa studiamo, domani, maestra?» chiese Claudia. Rino Medici, il fornaio, prese la figlia per una mano. «Vieni, che la maestra deve andare a casa che ha freddo. Non essere in-vadente.» Pestando un po’ la neve, la bambina si fece trascinare via a forza. Antonio sorrise e diede un tiro al mulo per completare l’ultimo tratto di strada. Anche quella volta, arrivando a casa del falegname, Matilde trovò Te-resa sorridente nel suo abito scuro abbottonato fino al collo e il grem-biule pulito e in ordine. Aveva appena preparato una specie di polenta di farina di castagne con latte e ricotta, simile ai fergadei della Lunigiana. Altre volte l’aveva ac-colta con un piatto di càzagài, una polenta fatta di farina di frumentone

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con verza e porro cotti in un brodo di cotechino e maiale. Ci fu il cortese scambio di saluti e Matilde si buttò letteralmente sul piatto fumante; il freddo, durante la salita a dorso di mulo, le era entrato nelle ossa. «Poverina, starai congelando», commentò la padrona di casa guardando l’ospite tremare. «C’è più freddo», mormorò la maestra. «Gliel’avevo detto ad Antonio che un panno solo non bastava. L’anno nuovo è iniziato con una gran gelata.» L’uomo rientrò in quel momento, dopo aver portato il mulo nello stalli-no. «Invece di arrabbiarti, c’è qualcosa di caldo anche per me?» «Dove non è arrivato il gelo, è arrivata la fame», disse Matilde. Ai due montanari piaceva il modo in cui si esprimeva. Una maestra così ben preparata e colta nel parlare non si era mai vista a San Lorenzo. Tanto tempo prima. Il corpo era sdraiato per metà dentro l’acqua del torrente. Le braccia e-rano aperte, lo sguardo spento, gli abiti bagnati. Le gambe erano stese fin quasi alla riva, le braghe sporche di terra e fango. La corrente aveva lavato il sangue, la pelle era bianca. Il capitano Edoardo si chinò sul corpo stando attento a non scivolare sulla riva melmosa. Il torrente, a novembre, portava via molta acqua; non era in piena come al disgelo e molti sassi affioravano. Gli alberi spogli aspettavano in silenzio il ritorno del caldo. Il capitano si guardò intorno. Tutto era marrone: le foglie a terra, i faggi asciutti, il riflesso smorto di quella giornata triste. Fissò per un attimo la persona alle sue spalle, in piedi con gli stivali affossati nel tappeto di foglie morte che copriva il sottobosco. Teneva le briglie del suo cavallo che si mostrava irrequieto. L’uomo, che di nome faceva Emilio, era spaventato. Disse qualcosa in dialetto e il capitano non capì. Edoardo tornò a occuparsi del cadavere. Prese il mento e lo girò per ve-dere meglio la faccia. Era un volto che conosceva bene. Come tolse la mano, la testa ritornò nella posizione originaria. Guardò le mani dell’uomo e osservò attentamente la destra. Era finita sopra una serie di sassi che formavano una sorta di cascatella che si buttava in una di quelle pozze dove trovavano riparo le trote e d’estate ci giocavano i

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bambini. Li chiamavano vasconi. Osservò l’acqua più lenta; con gesto rapido si tirò su la manica e si tolse il guanto. Immerse il braccio rime-scolando nella melma e tirò su un coltellaccio da funghi con la lama a-perta. «È stato un incidente?» disse Emilio con voce stridula. «Ha battuto la testa su questo sasso. Poi la corrente ha lavato via il san-gue.» Indicò la riva in prossimità degli scarponi del cadavere. C’era il segno evidente di una scivolata, la riva franata e alcune radici sottili messe a nudo. «Deve aver messo il piede su questa parte fangosa e deve essere scivo-lato dentro, battendo la testa.» «Voleva attraversare il torrente», disse Emilio. Il capitano fece un cenno negativo. «Nel caso sarebbe caduto con la faccia in avanti. Invece è caduto di schiena. Stava dando le spalle al torrente.» Emilio tirò su forte con il naso. Il capitano si rimise in piedi, appoggiandosi con le mani sulle ginoc-chia. Si sistemò l’uniforme, la manica e il guanto. Fece qualche passo guardando l’ambiente, toccando l’elsa della spada. Guardò una zona ben precisa del sottobosco, in prossimità del punto dove l’uomo nel tor-rente era scivolato. Lì il tappeto di foglie morte era tutto smosso; le fo-glie sottostanti, più scure e umide, erano rivoltate fino in superficie formando mucchi irregolari; i ramoscelli erano pestati e si vedeva qual-che mezza impronta. Il capitano guardò Emilio che teneva il suo cavallo. Poco prima stava seguendo la strada per tornare alla Reggia di Castellalto dopo la con-sueta ronda lungo i possedimenti a sud e stava pensando a cosa dire al merciaio ambulante da cui aveva preso le braghe di lana che portava sotto l’uniforme. A cavalcare erano scomode e tiravano dove non dove-vano tirare. La guardia che lo accompagnava sembrava a suo agio, con-tento per quella ronda priva di pericoli, in compagnia del suo superiore. All’improvviso si erano trovati davanti la figura tremante di Emilio che faceva loro cenno di fermarsi. «C’è un cadavere, un cadavere nel torrente», aveva detto ansimante. Il capitano era sceso da cavallo e aveva chiesto spiegazioni. «Stavo andando su all’ovile e passo sempre di qua. Io non l’ho toccato, io non son stato, giuro, io non…»

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Cercando di calmarlo si era fatto condurre dentro il bosco lasciando la guardia di sentinella sulla strada. Emilio l’aveva condotto fino al punto dove il corpo giaceva senza vita in mezzo all’acqua. «Passate sempre di qua, ma non c’è un sentiero», disse il capitano ri-prendendo le briglie del cavallo. «Faccio prima.» «Quindi siete passato di qua anche ieri.» «Sì. E non c’era.» «Tornavate dall’ovile?» «Era buio.» Il capitano Edoardo guardò l’uomo che gli stava di fronte. Emilio era più basso di lui, aveva poco meno di sessant’anni, i capelli arruffati co-lor ruggine e portava ancora i segni della guerra contro i Mori nella camminata zoppa. Si girò per guardare l’uomo disteso nel torrente. Sì, lo conosceva bene e nessuno avrebbe reclamato il suo corpo. «Quell’uomo è noto come Bibbo. Un poco di buono, ma non meritava certo di finire così.» «Bibbo» mormorò l’altro «Sì, brutta persona.» «E non è morto per la caduta. Non solo per quella. Ha la gola squarcia-ta, qualcuno l’ha ucciso, forse approfittando della caduta.» Emilio fece un passo indietro con espressione inorridita. «Un brigante. E io che passo sempre di qua. Potevo esserci io al suo posto.» Edoardo si mosse calciando i mucchi di foglie, con lo stivale che affon-dava fino alla caviglia. La calzatura emerse umida e bagnata. «Potrebbe essere stato aggredito o, vista la reputazione, era lui l’aggressore e la vittima si è difesa bene», disse il capitano. Si chinò per raccogliere qualcosa fra le foglie. Era una specie di fibbia o di spilla raffigurante una “G” elaborata. «E questa? È pulita, è asciutta, è stata persa da poco. Vi dice qualco-sa?» «È dei signori di Gora. La danno a chi lavora per loro quando c’è biso-gno per la raccolta.» Il capitano si avvicinò, prese le redini del cavallo che, fiutando il cada-vere, si mostrava sempre meno docile. «La raccolta?» «A ottobre, quando si fa la raccolta, i signori di Gora chiamano gente fidata che fa la guardia ai castagneti. Fino ai Santi è roba loro, poi fan-

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no entrare tutti. Quello lo danno a chi è pagato per il presidio.» «I signori di Gora sono vassalli di Re Valentino, li conosco bene. Que-sto ce l’aveva indosso uno che lavora per i signori di Gora?» «Sì.» «E Bibbo difficilmente avrebbe potuto lavorare per loro, con la sua fa-ma.» «No no… anzi, lui è uno di quelli da tenere lontano.» Il capitano fissò la spilla. «Torniamo sulla strada.» Raggiunsero la guardia che si era messa a favore di sole. Edoardo gli diede disposizione che nessuno si avvicinasse al cadavere e di aspettare finché non fossero arrivati gli aiutanti per portare il corpo di Bibbo alla Reggia. Era una bella gatta da pelare; Re Valentino non l’avrebbe presa bene. Doveva arrivare a Castellalto quanto prima, spiegare la situazione e cercare l’uomo che aveva sgozzato Bibbo. Aveva già un’idea su come procedere. Annusò l’aria. I rami si muovevano appena nella brezza sottile che si stava levando. Come tutta la gente di montagna, anche Edoardo aveva imparato a riconoscere l’odore di quell’aria. Stava per arrivare la neve.

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CAPITOLO 2 Nel tragitto che doveva percorrere tutti i giorni dalla casa del falegname alla piccola scuola, Matilde passava davanti alla chiesa di San Lorenzo e al suo basso campanile. La chiesa era tutta in pietra, sobria e austera come tutte le case di San Lorenzo. A sinistra c’era un fabbricato intona-cato con gli scuri verdi, dove era stata ricavata la canonica. La torre campanaria, a destra, era bassa e tozza, di poco più alta della chiesa e le proporzioni sbagliate erano evidenti alla prima occhiata. Matilde si era fermata a osservare la chiesetta innevata perché le dava un senso di quiete e serenità quando vide Antonio arrivare dal centro del paese con espressione cupa. Le folte sopracciglia rendevano l’espressione ancora più tetra e preoccupata. Camminava con passo spedito, come se volesse arrivare a casa in fretta o lasciarsi il centro del paese alle spalle il più velocemente possibile. “Centro del paese” era un’espressione molto generosa, ma lungo la strada, superata la scuola e l’osteria di Bruno, le case erano strette le une alle altre e a fatica ci pas-savano i carri. Le vie erano tortuose e piene di saliscendi. In alcune di quelle case, per entrare nelle camere da letto del piano di sopra era ne-cessario uscire e salire le scale di legno che portavano a ballatoi gonfi di neve. Anche di notte, anche d’inverno. Quello era il primo nucleo di San Lorenzo, i sassi storici, laddove si erano rifugiati gli abitanti della pianura in fuga durante le incursioni dei barbari. Chissà quante volte quelle pietre e quei sassi erano crollati e riposizionati nel corso dei se-coli. «Non ho ancora capito perché il campanile è così strano», disse Matilde con un sorriso innocente, cercando di catturare l’attenzione del fale-gname. Antonio continuò a camminare nervosamente nella neve gelata del mat-tino, superando la maestra con un grugnito e un gesto che voleva essere un saluto. «Signor Antonio?» il sorriso scomparve dalla faccia di Matilde. Il falegname disse semplicemente: «Arriva Giovanni», e continuò con

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la sua andatura decisa. Arrivato al bivio all’ingresso del paese, girò giù verso casa sua senza dire altro. Matilde rimase ferma alcuni istanti. Quando il freddo la infastidì, ripre-se a camminare e fu ben contenta di entrare a scuola e farsi abbracciare dal calore della stufa accesa. Ogni mattina Antonio si svegliava a un’ora gelida e andava a ravvivare il fuoco nella stufa della scuola per riscaldare gli ambienti prima che arrivasse la maestra. Spesso le braci di notte si spegnevano e il fale-gname doveva accendere il fuoco nella stanza ormai fredda; quando Matilde arrivava la temperatura era accettabile, ma non ancora confor-tevole. Mezz’ora dopo, quando arrivavano gli studenti, l’ambiente era sufficientemente riscaldato. Dopo aver ravvivato il fuoco, Antonio andava alla taverna di Bruno per la sveglia. Una sveglia colorata di rosso in un bicchiere tozzo. Matilde non approvava quel bicchiere di primo mattino. Anzi, non ap-provava il bicchiere a qualsiasi ora; Teresa invece non aveva obiezioni. Anche quella mattina Antonio doveva aver fatto il solito giro; scuola per stufa, taverna per sveglia. E proprio alla taverna doveva aver avuto la notizia che lo aveva fatto arrabbiare. «Arriva Giovanni» aveva detto. Chi era Giovanni? La mattinata scolastica non fu leggera. Marco era un bambino di 6 anni difficile da trattare. Aveva vere e pro-prie esplosioni di vivacità durante le quali non aveva timore di niente e nessuno. Urlava spesso, tanto che la sua voce era quasi diventata roca. In attesa dell’età dello sviluppo, era più tronco che gambe e la cosa gli dava un aspetto buffo. Nei momenti di calma si applicava nell’imparare a leggere e impugnare correttamente la matita. Nei momenti di furia cercava di inseguire i compagni con la scopa, lunga il doppio della sua altezza. Fabio era un bambino di 7 anni con una intelligenza molto acuta. Era l’alunno che imparava più in fretta e spesso buttava l’occhio sui compiti dei compagni più grandi. Aveva l’abitudine di urlare, sintomo del vigo-re dell’età; aveva legato molto con Marco. In mezzo a queste furie travestite da marmocchi, Matilde aveva

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un’alleata. Michela aveva 10 anni e questo le dava il diritto di ritenersi la vice maestra e chioccia dei compagni di classe. Aiutava Matilde nel tenere a freno Marco e Fabio, coccolava Laura sfogando su di lei l’assenza di una vera bambola, aiutava Alberto nell’organizzare i gio-chi. Era il suo ultimo anno di elementari e questo la faceva sentire “grande”. Quella mattina, il grande ritorno a scuola dopo le vacanze di Natale, Marco si era messo in testa di essere un pastore e i suoi compagni do-vevano essere le pecore. Fabio era stato promosso cane pastore. Nono-stante i tentativi di Matilde e Michela di farlo stare calmo, Marco aveva corso quasi tutta la mattina rincorrendo le sue “pecore”, dando ordini al suo “cane”, che urlava di gioia, menando in aria un rametto secco pe-scato nella catasta della legna. In tutta questa confusione, Mirco era ri-masto in disparte tutto il tempo; essendo lui un vero pastore, o aspirante tale, aveva giudicato tutta quella cagnara un indegno “gioco da bambi-ni”. «Non si fa così a fare il pastore», aveva detto imbronciato, appoggiato in un angolo, le braccia incrociate. Buttato via il bastone, riportato Fabio al silenzio e messa Michela di guardia a Marco, Matilde era riuscita a fare lezione. La solita lezione multipla ad argomenti diversi. Poi aveva chiesto a ognuno dei bambini che cosa aveva fatto nei giorni che non si erano visti. All’uscita c’erano sette genitori pronti a prelevare le sette meraviglie di San Lorenzo e riportarle a casa. Con il consueto garbo, la maestra salutò tutti e guardò il cielo. Un az-zurro così limpido non l’aveva mai visto in città. Era tanto intenso che ci si poteva nuotare con la fantasia. Presto l’ombra della montagna, in quelle giornate così brevi, avrebbe reso tutto più opaco, uniforme e ge-lido. Stava per rientrare per sistemare l’aula quando vide alcune persone par-lottare davanti all’osteria di Bruno. Parlavano animatamente e a bassa voce. Matilde non aveva mai visto la gente riunirsi all’aperto. Perché non entravano dentro, da Bruno? Solo una parola le arrivò all’orecchio e il tono non sembrava cordiale. La parola era “Giovanni”. Quella sera, nel letto soffice, con il berretto ben calcato fin quasi sopra gli occhi, con il naso che già si lamentava del freddo, con un filo di vo-ce per fare in modo che Antonio nella stanza di fianco non sentisse,

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Matilde chiese alla padrona di casa: «Teresa, chi è Giovanni?» «Meglio che dormi, cara. Non pensarci», rispose Teresa, con la voce tremante. Matilde diede la colpa del tremore alla voce al freddo. Al risveglio Matilde si ritrovò sola sotto le coperte. Sentiva parlare al piano di sotto. Di solito lei e Teresa si alzavano insieme, quando ormai Antonio era uscito per ripristinare il fuoco a scuola. Quella mattina in-vece Teresa si era alzata allo stesso orario del marito, stando attenta a non svegliarla. Non era sua intenzione origliare, ma scampoli di frasi arrivavano abba-stanza nitidi. «… devi dirglielo, ha diritto di…», era la voce di Teresa. «… lasciami stare… ho detto no… lo mandano via…», voce di Anto-nio. «… verità…», Teresa. «… occupiamo noi…», Antonio. «… giusto…», Teresa. «… vattene…», Antonio. Porta che sbatteva. Matilde sentì più freddo del solito. Quando scese, Teresa era visibilmente nervosa. Matilde aveva imparato che gli abitanti di San Lorenzo non potevano dissimulare, o almeno non secondo i canoni della città. Spesso la necessità di tacere qualcosa si traduceva in irritazione o scatti di rabbia. Teresa, che non era originaria del luogo, aveva un animo particolare e cercò di comportarsi come se non fosse successo niente. «Oggi mi sono alzata prima perché dovevo dire ad Antonio di passare al mulino. Ieri sera mi sono scordata. Spero di non aver fatto troppo rumore. Ho già messo l’acqua sul fuoco.» Matilde ringraziò. Fino a quel giorno non aveva pensato che la gente di San Lorenzo potesse mentire. Non a lei, almeno.

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Riuscì a far lezione senza drammi. Agitazione, creatività, empatia e vo-glia di studiare si mescolavano nelle sette anime della classe. Il suo gregge personale. All’uscita le madri la ringraziarono; i bambini parlavano molto bene di lei a casa e questo la riempiva di orgoglio. Prima di rientrare per sistemare aula e quaderni, diede uno sguardo ti-moroso all’osteria di Bruno. Nessuno parlava rabbiosamente all’ingresso. Si sentì più sollevata, San Lorenzo aveva ripreso il solito aspetto bianco e immobile. Un paese lontano da tutto dove nulla doveva accadere nei mesi invernali. Durante il rientro si era alzata una brezza fredda e umida che filtrava dal giaccone. Accelerò il passo per rientrare il prima possibile dal fale-gname. In quel periodo non si vedeva tutta l’operosità e la frenesia della comunità. I lavori venivano svolti per lo più in casa, al caldo delle stu-fe. Appena varcata la soglia di casa Teresa la accolse sorridendo. «Vieni, vieni vicino al fuoco. Con quest’aria umida chissà che pena camminare là fuori. Avevo detto ad Antonio di passare da te con qual-cosa per coprirti, ma si è chiuso in bottega a preparare non so cosa per il fornaio.» Senza dire nulla, Matilde raggiunse la sedia di fianco al camino. Senza volere aveva bagnato i guanti che si erano trasformati in due morse ge-lide. Mentre cercava di guadagnare calore, soffiandosi nelle mani, vide nell’angolo opposto della stanza, vicino a una zangola rotta, un sacco di farina di castagne che al mattino non c’era. Antonio tornò che era quasi ora di cena; varcò la soglia allargando le braccia e declamando: «Or che uomo sei dimostra / Quanto val l’erede al regno / Mostra a tutti d’esser degno / Di sfidare Oraldo in giostra.» Matilde lo guardò con gli occhi sbarrati. «Hai visto? Me la ricordo ancora, potrei cantarla tutta senza bisogno del suggeritore.» Teresa scosse la testa. Antonio riprese: «Vieni dunque o buon Rodrigo / Che costei più non mi dona / Prendi tu la mia corona / Perché altrove mi dirigo.» Poi fece il gesto di prendere qualcosa sulla testa e scagliarla per terra. Il falegname cantava con voce piena, evidenziando le sillabe iniziali di ogni verso e abbassando il tono in quelle centrali, secondo uno schema non molto modulato, simile a

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una cantilena. «Ma cos’è?» chiese Matilde. «Il Maggio dell’anno scorso», disse l’uomo, come se fosse una spiega-zione sufficiente. «Maggio?» «È una specie di teatro cantato all’aperto. Ogni abitante ha la sua parte e insieme mettiamo in scena un testo in rima. È una vera festa, tutti in un modo o nell’altro partecipano. Chi canta, chi suona, chi prepara i co-stumi, chi fa il pubblico. E si sta su prato per quattro o cinque ore, in allegria.» «E lei era?» «Ferdinando, Re di Castiglia, che mal consigliato e vittima di un tranel-lo mette in galera l’amato figlio. Quest’anno lo vedrà anche lei, il Mag-gio. A proposito. Sa suonare la fisarmonica, il violino o la chitarra?» «No.» «Peccato. È un po’ che dobbiamo cambiare i suonatori, ma non trovia-mo nessuno abbastanza bravo. Il Maggio non è solo cantato, c’è anche la musica.» Matilde cercava di immaginarsi la scena, ma non riusciva a inquadrare bene la situazione. «Ma perché fate questa recita?» «Non è una recita, è un Maggio drammatico. È preso dai classici, da Orlando, da Re Artù. Perché la facciamo?» Antonio guardò Teresa con la bocca aperta. «Suo nonno cantava il Maggio», disse lei «Credo ne avesse anche scrit-to uno. Forse i Tre Moschettieri.» «No, era Il Conte di Montecristo», la corresse il marito. «Hai ragione, era il Conte. È qualcosa che si fa da sempre, tutti in casa hanno avuto qualcuno che ha cantato il Maggio. È una festa, per quan-do arriva la bella stagione.» Matilde non sembrava convinta. «Di solito anche con i bambini delle scuole si fa una recita, a fine anno. Lo si fa per farli socializzare, interagire, divertire e sviluppare la memo-ria.» «No, no, è una cosa diversa. Fa parte di queste valli: la gente lavora, mangia e canta.» «Orlando?» chiese Matilde.

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«Certo. Una volta l’ho fatto io; ho anche provato a spaccare la mia spa-da sulla roccia, prima di morire.» «Durlindana.» «Chi?» «La spada di Orlando. Si chiama Durlindana e Orlando prova a romper-la in punto di morte perché non cada in mano ai mori. Non riuscendoci, ci si sdraia sopra.» «Qualcosa del genere», borbottò Antonio salendo al piano di sopra. Matilde rimase pensosa a fissare la copertina del suo libro, dove una grande coda di capodoglio riempiva tutto lo spazio. Ormai l’aveva fini-to. Nelle settimane che aveva passato a San Lorenzo non aveva mai a-vuto il sospetto che gli abitanti cantassero i classici mettendoli in scena all’aperto. La melodia e l’intonazione che Antonio aveva usato per can-tare quelle due strofe avevano qualcosa di potente e arcaico. Era un cantato spontaneo e semplice; lassù nessuno aveva preso lezioni e pro-babilmente era stato l’istinto e l’intonazione naturale a modulare quei suoni. Era molto simile al lavoro istintivo che avrebbe fatto uno dei suoi studenti, solo più adulto, più maturo. Non era tecnico, anche se la grammatica musicale era rispettata. Era evocativo, epico e potente. An-tonio aveva cantato versi in rima; lei dubitava che cantassero davvero le chansòn de gèste. Doveva essere una riscrittura. Poteva essere una cosa eccezionale, dal suo punto di vista. Facendo un rapido calcolo e guar-dando la vita su quelle montagna, che solo iniziava a conoscere, Matil-de dubitava che il nonno di Antonio fosse andato oltre la quinta ele-mentare. La cosa era molto interessante. Si ripromise di indagare. Tanto tempo prima. L’armadio era un gioiello. I quattro piedi a forma di artiglio prosegui-vano in colonne a torciglione per chiudersi in alto con piccoli becchi di falco. Le ante, grandi e spesse, in legno massiccio, erano decorate con figure geometriche regolari e la serratura aveva la forma di fauci di lu-po. Era un mobile alto e capiente; vi si poteva riporre tutti i vestiti senza che toccassero la base nella quale erano stati ricavati quattro cassetti. Il falegname Antonio aprì le ante al massimo e fece un passo indietro, visibilmente soddisfatto. Un profumo dolce di legno uscì dal mobile. «Non mi piace», disse la Principessa Matilde. Il volto di Antonio si fece serio e le braccia gli caddero lungo il corpo.

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«Mia signora, è un oggetto raro, degno della sua bellezza.» «È tetro. Buio. Mi fa paura. Spero non vi siate ispirato a me, non sono né un falco né un lupo», disse la Principessa con malizia. Il falegname aprì bocca un paio di volte senza dire nulla. Poi disse: «No, ma la regalità, l’eleganza delle forme è degna del vostro casato.» «Allora portatelo a mio padre, Re Valentino.» «Se così comandate», disse il falegname con un filo di voce. La Principessa sorrise. «Non fate quella faccia, Antonio, riconosco la vostra bravura; non sare-ste il falegname di corte se non usaste la pialla come un pennello. E non sono adirata con voi, siete il mio prossimo cognato, vi conosco da bam-bina, non posso che considerarvi di famiglia.» Il falegname, un uomo corpulento con le sopracciglia folte, fece un sor-riso sforzato. «Sicuramente questo armadio troverà degna collocazione nelle stanze di Sua Maestà. E poi, in realtà, è solamente un armadio.» «Niente fatto da voi è solamente un armadio, Antonio. Anzi, quello di cui ho veramente bisogno è un comò con una bella specchiera. Quello che uso adesso piace molto a mia madre, la Regina, e dovrò cederglielo. Lo voglio uguale, ma al centro questa volta metteteci le mie iniziali.» «Certamente, come desiderate.» La Principessa fece un cenno alla sua damigella, una ragazza con cui aveva condiviso gli studi, mora, con i capelli lunghissimi, rimasta in si-lenzio in un angolo senza interferire. Con un inchino lasciò la stanza in un fruscio di gonna e mantello. Matilde si mise sulla poltrona più vicina al camino, sistemò le pieghe del vestito e fece cenno al falegname di accomodarsi nel divanetto di fronte. «E ditemi, Antonio, che ha fatto oggi Giovanni?» chiese la Principessa con un filo di voce. Aveva abbozzato un leggero sorriso che le aveva riempito le guance, leggermente arrossate dal pudore e dalla domanda querula. Antonio sollevò gli occhi al cielo. Da quando suo fratello Giovanni e la Principessa Matilde si erano dichiarati amore reciproco, nonostante l’origine non aristocratica della famiglia del falegname, tutte le volte che Antonio consegnava qualcosa a Corte, la Principessa lo tormentava con domande sul suo promesso sposo. Re Valentino, contro ogni tradi-zione e regola del casato, aveva avallato l’unione; alle rimostranze degli

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altri nobili e vassalli aveva risposto con decisione: «il casato è il mio, le regole le faccio io.» Antonio sapeva che una fitta corrispondenza che impegnava i piccoli servitori della reggia correva fra la Principessa e suo fratello. La do-manda era solo un vezzo di Matilde che voleva sentir parlare del suo promesso sposo; un gioco infantile che svelava la tenera età della ra-gazza, dalle forme ancora piene, non perfettamente definite e come solo la maturità avrebbe modellato. Giovanni, dal canto suo, era solo di un paio di anni meno giovane, con il vigore e l’energia indomabile dei tor-renti al disgelo e gli occhi luccicanti come il cielo nelle limpide notti invernali «Non è a Castellalto, l’ho mandato due giorni fa su a Rio Alto per ripa-rare il tetto della carbonaia prima che arrivi l’inverno. Credo che questa non sia una notizia nuova per voi.» «No, infatti», rispose lei e nel suo sorriso Antonio la vide più bambina che donna. «Non è ancora tornato?» «No, dovrebbe tornare oggi o, al più tardi, domani. Non mi ha fatto sa-pere nulla; forse avete più informazioni voi.» «Nessuna.» Per un attimo si fece seria in volto. «E le lezioni come pro-seguono?» Da quando Re Valentino aveva accettato Giovanni come promesso spo-so della figlia, il falegname aveva dedicato parte del suo tempo a mi-gliorare l’educazione, l’arte della cavalleria, la scherma e la cultura. La famiglia dei falegnami era, a paragone di molte altre, di buona cultura, ma l’entrata a corte richiedeva qualcosa di più, un livello superiore di istruzione che fino a quel momento l’impegno in falegnameria e il poco denaro avevano impedito. «Giovanni sta diventando un perfetto cavaliere. Padroneggia la spada meglio del maestro a cui l’avete affidato e l’ho visto battersi per diletto qualche volta con il capitano Edoardo con soddisfazione per entrambi. Fra non molto tempo potrà camminare fra questi corridoi senza sfigura-re e la mia soddisfazione sarà doppia.» «Perché doppia?» «Perché stava diventando un falegname migliore di me. L’avete distrat-to al momento giusto.» «Mi considerate una distrazione, per lui?» disse lei fingendosi offesa. «Me ne guardo bene. Non mi permetterei mai. Ogni giorno non fa che decantare le vostre lodi: la leggerezza del vostro portamento, lo splen-

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dore dei vostri capelli, la luminosità del vostro sorriso.» Antonio sapeva che era quella parte che la Principessa voleva sentirsi dire. «Ora mi adulate», disse lei. «Non io, ma il vostro promesso. Parla talmente tanto di voi che a volte penso siate presente in bottega o a cena con noi. Io e mia moglie Teresa siamo diventati invisibili ai suoi occhi.» «Non esagerate.» «Tutt’altro, sto ridimensionando. Si sta facendo tardi, mia signora, con il vostro permesso chiedo di tornare alle mie umili faccende in bottega. Il lavoro mi aspetta. Darò disposizione per far spostare l’armadio dai miei garzoni.» «Non datevene pena, Antonio, ci penseranno i miei servitori. Re Valen-tino saprà ricompensarvi come meritate. Non vi trattengo oltre. Vi chiedo solo di darmi notizia dell’arrivo di Giovanni al suo ingresso in città.» «Non dubitate, Principessa. In tutto il regno sarete la prima a saperlo.» Uscito il falegname, Matilde si avvicinò alla finestra e guardò il pano-rama. Le montagne poco distanti erano imbiancate dal limitare del bo-sco fino alle cime, dove il vento batteva teso e in certe giornate solleva-va lunghi pennacchi di neve. Osservò per l’ennesima volta il profilo morbido e ondulato della catena del Monte Cusna, con la sagoma biz-zarra e rassicurante dell’uomo sdraiato su un letto di faggi. Giovanni era da quelle parti, verso sud, e stava camminando verso casa, verso di lei. Doveva parlare con suo padre, Re Valentino, per fissare le date dei festeggiamenti e la data delle nozze. Una volta celebrate, nessuna car-bonaia, bottega o armadio li avrebbe più divisi.

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CAPITOLO 3 L’indomani mattina Matilde era ancora di fronte alla chiesetta con il basso campanile. Era entrata solo un paio di volte nella piccola chiesa di San Lorenzo e l’aveva trovata come il paese: graziosa e ruvida. Ru-vida come la pietra di cui era fatta, come il legno delle porte, le panche e l’altare. Graziosa come la luce pallida che la illuminava di traverso, come la sensazione di raccoglimento e le immagini che danzavano alle candele. Don Piero l’accudiva come un dono del Signore. Curava quel-la parrocchia, formata da San Lorenzo e da quattro borgate sparpagliate fra quelle valli innevate. Tutti insieme i suoi parrocchiani non arrivava-no a 500. Matilde conosceva allevatori, in pianura, che accudivano più mucche che Don Piero anime. Il campanile era l’elemento più caratteri-stico di quella parrocchia. «È stato il 1920», disse una voce alle sue spalle. Matilde si girò e vide l’uomo fermo nel freddo e nel bianco del mattino. Era un uomo vigoroso, con una lunga barba scura e gli occhi azzurri come il cielo invernale di San Lorenzo. Sorrideva, protetto dalla sua giacca pesante; sulle spalle aveva un grosso zaino di cui non sembrava sentire il peso. Impugnava un bel bastone dritto con alcuni strani intarsi realizzati da mano precisa. «Prego?» disse lei. «È stato il terremoto del 1920. L’hanno sentito dalla Toscana alla Lom-bardia. Il vecchio campanile venne giù come un albero secco, demolen-do anche il tetto della chiesa. Anche altre case subirono molti danni; ci furono delle frane che si rimisero in moto tirando giù qualche abitazio-ne, ma tutti presero paura per il campanile. Fu uno schianto terribile. Quando lo ricostruirono decisero di farlo più basso, poco più alto della chiesa.» Matilde non disse nulla, non sorrise. Si strinse ancora di più nella sua giacca. «Ho conosciuto un pastore poeta che lo ha vissuto in prima persona», disse l’uomo. «Sa cosa scrisse? ‘Con le tende come dei soldati / fummo

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posti di fuori al paese / vi passammo così qualche mese / finalmente ogni scossa cessò.’ Monelli, mi pare si chiamasse.» Matilde continuò a fissarlo senza dire una parola. «Io sono Giovanni», disse lo sconosciuto. E fece un inchino appariscen-te. Matilde non si mosse. Con gli occhi guardò la scuola poco lontana. «Lei deve essere la maestra. Matilde, se non sbaglio.» Il sorriso era co-me gli occhi: misterioso e affascinante. «S… Sì, esatto. Ora scusate, devo andare, si è fatto tardi.» Arrivò a scuola di corsa e con il fiatone. Non le era ancora andato via quando arrivarono i primi bambini. Diede la colpa alla difficoltà di cor-rere nella neve. Per tutto il tempo delle lezioni rimase avvolta da una insolita inquietu-dine. Per fortuna i bambini più vivaci le avevano concesso una giornata di tregua. Durante la ricreazione era stato Alberto a tenerli buoni con una sorta di recita inventata sul momento. Solo Laura sembrò accorger-si di qualcosa perché le si avvicinò bisognosa di coccole come sempre. Solo che questa volta l’abbracciò come se fosse lei a voler coccolare la maestra. Le madri vennero a prendere i bambini come se nulla fosse. Solo Mi-chela tornò a casa da sola. Era la più grande e abitava vicino. Ancora una volta, Matilde gettò l’occhio verso la taverna di Bruno. Non c’era nessuno fuori, nessuno teneva un dibattito e tutto era regolare co-me al solito. Quando rincasò presso il falegname trovò Teresa a tavola con Antonio. Gli faceva compagnia Giovanni. Il falegname si alzò e fece le presenta-zioni. A Matilde si chiuse lo stomaco e non riuscì a mangiare molto. Lanciava sguardi fugaci verso Giovanni, cercando di non farsi notare. Il vino ros-so riempiva i bicchieri e come al solito lei rifiutò. Il rito della bottiglia che passava di mano in mano, anche fra le mani di Teresa, era l’aspetto che meno sopportava della vita di San Lorenzo. La comunità del paese non era fatta da ubriaconi, ma il bicchiere non mancava mai sulle tavo-le. Alla fine delle presentazioni scoprì che Giovanni era il fratello di Anto-nio. E la visita sembrava mettere in difficoltà il falegname. La conversazione a tavola, tuttavia, fu cordiale. Matilde non poté fare a

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meno di notare che Giovanni era molto più istruito rispetto alla media del paese, il volto era sempre sorridente e il tono di voce pacato. Con-trariamente alla maggior parte degli abitanti del paese, usava raramente termini dialettali. Ogni volta che la discussione sembrava indirizzarsi verso la scuola, Matilde notava che Antonio cercava di cambiare argomento. Infine ar-rivarono a citare più volte Re Melloni. «Chi è Re Melloni?» chiese Matilde. Giovanni avvicinò la sedia al tavolo. «È un brigante, un poco di buono, un avventuriero», disse. «È un criminale!» disse Antonio. Giovanni proseguì come se non ci fosse stata interruzione. «Ha effettuato alcune rapine fra Lucca e Carrara, vive con una banda di irregolari nei boschi e si dice che d’inverno venga a svernare da questa parte dell’Appennino, dove, però, non ha mai commesso reati.» Gli oc-chi azzurri di Giovanni lampeggiarono. «È un brigante di altri tempi, di quando le bande potevano comandare su intere vallate e trattare con i signorotti locali da pari. Veniva riconosciuta loro l’autorità, spesso ot-tenuta con la violenza. In questo Re Melloni è diverso. Odia la violenza fisica gratuita e non ha mai ucciso nessuno. Si dice che una volta abbia bastonato uno dei suoi perché stava per fare violenza alla moglie di un contadino a cui stavano alleggerendo il raccolto. Nessuno l’ha mai visto in faccia perché ha sempre il volto coperto. I Carabinieri di varie pro-vince gli danno la caccia. Chissà, forse è qualcuno che dopo la guerra ha continuato a vivere nei boschi per punire chi l’ha fatta franca.» «È un criminale!» ripeté Antonio. «Sicuramente. Nessuno lo mette in dubbio. Però ha un suo stile, quasi un personaggio da romanzo d’appendice.» «Stile un corno!» sbottò il falegname. «Qui la gente si spacca la schiena per cavare qualcosa dalla montagna e guadagnarsi da vivere onestamen-te.» Matilde si strinse nello scialle che si era buttata sulle spalle. «Se d’inverno è da queste parti, potrebbe iniziare a rapinare anche la gente di qui», disse. Giovanni scosse la testa. «Non credo. D’inverno non ci si muove facilmente da queste parti. Io lo so bene. E poi dicono che sia originario di questi luoghi, non commette-rebbe reati contro la sua stessa gente. Se passa di qua, lo fa solo per re-

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stare tranquillo e prendere tempo.» «E tu che ne sai?» disse Teresa. A Matilde mille domande morirono in gola. «Faccio solo ipotesi», rispose Giovanni allontanandosi con la sedia dal-la tavola. «Ora basta, questi discorsi non fanno che spaventare la signo-rina maestra.» Matilde sorrise imbarazzata. Teresa si alzò e iniziò a sparecchiare. «Dove dormirai, Giovanni? Qui c’è Matilde, non abbiamo spazio per te», disse Teresa con modi bruschi. «Non preoccuparti. Sono passato dal bivacco prima di arrivare a San Lorenzo e ho visto che è in ottimo stato. I pastori non lo usano in que-sto periodo. Ci ho già portato un po’ di legna che ho comprato da Ma-rio.» «Quanto resterai in paese?» chiese Teresa senza guardarlo in faccia. «Una settimana. Martedì prossimo andrò a Fivizzano per delle commis-sioni. Poi tornerò a La Spezia.» Antonio scosse la testa. «Ascolta Giovanni, non puoi restare una settimana nel bivacco. Questo è un inverno cattivo. Ci stringeremo un po’ e dormirai con me.» L’uomo si alzò e pose una mano sulla spalla del fratello falegname. «Ti ringrazio. Per stasera me ne starò al bivacco, così voi potrete orga-nizzarvi. Domani mi trasferirò qui. Sicuro di non darti problemi?» «Con gli altri ci penso io. Nostra madre mi ammazzerebbe di legnate se ti lasciassi al bivacco.» «Pace all’anima sua.» «Amen!» disse Teresa, visibilmente infastidita. Giovedì il cielo non si vedeva. Nubi basse e lattiginose uniformavano la luce rendendo San Lorenzo un quadro bianco con alcuni tratti marroni là dove sbucavano alberi, tetti e pietre. Quando il cielo era coperto la temperatura rimaneva meno rigida, ma l’umidità dell’aria era più fasti-diosa. Matilde aveva imparato a sopportare il gelo secco delle giornate limpide, mentre da quello viscido e insinuante delle giornate umide non sapeva come difendersi. All’uscita dei ragazzi si era ripromessa di sostare fuori dalla porta il minimo indispensabile. Quando se ne furono andati e Michela prese da

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sola, come d’abitudine in quei giorni, il sentiero di casa, Matilde fece per rientrare, ma vide la figura di Giovanni che le sorrideva. Aveva a-spettato in disparte rispetto ai genitori. Era uno di San Lorenzo, ma sembrava che nessuno volesse parlare con lui. Matilde sorrise e gettò uno sguardo verso la taverna di Bruno. Non c’era nessuno fuori; erano solo lei e Giovanni. «Buongiorno. Visto che oggi mi trasferisco, ho pensato che avrei potuto farle compagnia mentre torna a casa.» Lei sentì ancora di più l’umidità della giornata. «Devo sistemare alcune cose dentro», disse con un filo di voce. «Non si preoccupi. Aspetto.» A Matilde tremavano le mani mentre sistemava i quaderni e la stanza. Non riusciva a capire se i brividi fossero dovuti all’umidità presa fuori. Giovanni era là ad aspettarla al freddo. Rapidamente buttò tutto da una parte, si vestì e uscì. Lui era ancora lì che camminava avanti e indietro. «Poteva aspettarmi all’osteria», disse lei. «Oggi non fa così freddo. E poi là dentro non mi vogliono. E io non voglio loro.» A Matilde altre mille domande rimasero mute. Si incamminarono lungo la solita strada che passava davanti la chiesetta. La neve si era compat-tata e camminare non era così difficile. Quasi tutti erano a pranzo e non c’era gente per strada. Tutto era immobile; loro due erano gli unici ele-menti in movimento in quell’atmosfera liquida e bianca. «Ho notato che ieri non ha toccato il vino», disse lui. «Non mi piace.» «Sembrava infastidita.» «Non sono abituata. Qui tutti bevono.» Giovanni rise e fu una risata calda e potente. «Ha ragione. Qui ci si scalda con la legna e il vino. E un po’ di grappa. Ma non è un paese di ubriaconi. Ha ragione mio fratello, questa gente si rovina la schiena per vivere quassù. E anche d’estate, quando alla sera tornano a casa dai campi o dai pascoli, hanno bisogno di mangiare so-stanzioso. E il vino aiuta a mandare giù tutto.» «Non vuole che abbia una cattiva impressione dei suoi compaesani?» «Compaesani. È bello sentirselo dire. Ma è vero, sì. San Lorenzo è un bel posto e gli abitanti brava gente.» Matilde non disse nulla. «Senta. Avrei una cosa da proporle», disse lui.

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Lei si irrigidì. «Mi piacerebbe fare alcuni giochi con i suoi studenti. Magari ne tira fuori qualcosa di didattico. Sono giochi di equilibrismo, piccole costru-zioni che potrebbero piacere ai suoi bambini.» «Non so…» lasciò la frase in sospeso. Nel frattempo erano arrivati a casa e quando entrarono Antonio fulminò il fratello con lo sguardo. «Non guardarmi così, Antonio!» disse Giovanni mentre si toglieva il giaccone e si avvicinava alla stufa. «Abbiamo fatto un po’ di strada in-sieme. In fondo sono solo poche centinaia di metri ai bordi del paese. E poi sai che c’è Re Melloni a svernare da queste parti. Avrei potuto pro-teggerla se avesse cercato di rapinarla.» La risata che seguì fu calda e roboante. Matilde si tolse il giaccone e si mise a sedere. Notò solo in quel mo-mento che durante la breve passeggiata con Giovanni non aveva sentito l’umidità strisciante che la tormentava dal mattino. Involontariamente sorrise. Giovanni aveva insistito per tutto il pomeriggio e alla fine Antonio ave-va acconsentito. Avrebbe fatto il suo ridicolo spettacolo di giochi di e-quilibrio per i bambini. A patto che fosse presente anche lui. Venerdì il falegname si alzò presto e andò ad accendere la stufa nell’aula. Invece di prendere la solita sveglia da Bruno, ritornò a casa e accompagnò Matilde e Giovanni alla scuola. All’arrivo dei bambini, Antonio guardò il fratello. «Credo sia giusto dire ai genitori che sei qui dentro.» Giovanni stava mettendo a posto alcuni semplici utensili: bottiglie, pu-pazzi, forchette, tappi, stuzzicadenti. «E perché?» disse senza voltarsi. «Lascia che questi marmocchi vivano senza il peso del mondo degli adulti. Oggi faccio il saltimbanco, lascia perdere.» «Il saltimbanco tu lo fai sempre. Se la prenderanno con me. Io ci vivo a San Lorenzo.» «Non sono contagioso.» E rise con il solito tono che piaceva a Matilde. Antonio fissò la neve fuori dalla finestra. I candelotti di ghiaccio che pendevano dai tetti sgocciolavano al sole.

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«E va bene.» Giovanni fu presentato ai bambini come un artista vagabondo che ave-va viaggiato tutta l’Italia e conosceva tanti giochi e trucchi. Iniziò lo spettacolo mettendo in equilibrio un tappo, in cui aveva con-ficcato due forchette, appoggiato a uno stuzzicadenti appoggiato al col-lo di una bottiglia. Aumentò il numero dei tappi. Prese una forchetta, se la mise in bocca, vi incastrò alcuni stuzzicadenti e vi mise in equilibrio altre due forchette. Quindi vi mise in equilibrio un pupazzetto di legno raffigurante Pinocchio. I bambini guardavano con gli occhi sgranati. Alberto osservava stupito cercando di memorizzare attentamente la posizione dei vari strumenti. A casa avrebbe tentato di replicare i giochi e la mattina dopo avrebbe tentato di esibirsi davanti ai compagni. Terminati i giochi di equilibrio, Giovanni raccontò alcune favole da lui inventate. La sua voce calda e profonda ipnotizzò la platea. Laura non si era avvicinata in cerca delle solite coccole; Claudia aveva dimentica-to di rosicchiare la pagnotta che teneva in mano; Marco concentrava tutte le sue energie nel restare attento; Fabio lo interrompeva con mille domande. Anche Matilde era rimasta rapita dal talento di Giovanni che mimava gli avvenimenti, mutava tono di voce a seconda dei personaggi e cam-biava espressione seguendo l’andamento della narrazione. Lei aveva pensato di prendere spunto dai giochi e dai racconti per fare un po’ di didattica, ma decise di lasciare perdere. Sarebbe stato un giorno di di-vertimento, da lasciar scorrere senza pensare ad altro. Fra le storie, raccontò anche la leggenda del Cusna. «Sapete, bambini, perché queste montagne si chiamano dell’uomo mor-to? È una storia che risale ai tempi in cui i giganti camminavano sulla terra e tutta questa zona era un largo altipiano. Sapete cos’è un altipia-no? Diciamo che è una pianura che invece di essere all’altezza del mare è più su, vicino alle montagne. Ma lì dove oggi vedete il Cusna, non c’era nulla. A ogni primavera il gigante risaliva dalla Toscana con le sue pecore, perché l’erba da queste parti era molto buona. La gente del posto era contenta dell’arrivo del gigante perché era di animo buono e un’instancabile lavoratore. C’era da spostare dei massi? Da accatastare la legna? Scoppiava un temporale e non si sapeva dove ripararsi? Ecco che il gigante arrivava in aiuto con le sue potenti braccia e spostava le pietre, impilava la legna e costruiva ripari. Un giorno, per la verità un

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giorno molto triste, il gigante si sentì molto stanco e affaticato. Dovete sapere che i giganti sono molto forti e non si ammalano mai, ma viene il giorno in cui vengono richiamati dal dio dei giganti e iniziano a esse-re stanchi, poi si addormentano e rispondono alla chiamata, senza tor-nare mai più sulla Terra. Così stava per fare anche il nostro gigante che però riuscì a raggiungere l’altipiano e chiamare a raccolta i suoi amici pastori. Questi si riunirono intorno a lui e iniziarono a piangere perché non l’avrebbero più rivisto. Il gigante era triste, perché non voleva ab-bandonare i suoi amici e allora chiese al dio dei giganti di essere tra-sformato in pietra in modo che i pastori, ogni volta che avessero guar-dato verso le montagne, avrebbero riconosciuto il loro vecchio amico. Il dio dei giganti, che è un dio buono, acconsentì e lo trasformò in pietra. In questo modo, al posto dell’altipiano sorse la bella catena che sovra-sta San Lorenzo. Una catena di montagne che da allora protegge i pa-scoli dai forti venti e dai temporali che arrivano dal mare. Sul punto di esalare l’ultimo respiro, il gigante si commosse e iniziò a piangere. Quelle lacrime sgorgano ancora oggi sotto il Cusna e scendendo a valle, unendosi agli altri corsi d’acqua, arrivano a formare il torrente Sec-chiello.» L’apice del divertimento per grandi e piccini fu quando Giovanni si e-sibì in alcuni numeri di illusionismo con le carte. Il pubblico di una scuola elementare è facile da ammaliare; lui fu così bravo da incantare pure i due adulti presenti. Passarono così oltre due ore. Giovanni se ne andò scortato dal fratello, fra le proteste dei piccoli studenti. Matilde ebbe un bel da fare per con-vincerli a lasciarlo uscire. Alberto e Fabio chiesero insistentemente che Giovanni tornasse il giorno dopo e lei dovette imporre la sua volontà per convincerli che il divertimento era durato abbastanza e che era ora di tornare a fare i bravi scolari. Quello che non voleva ammettere era che anche lei desiderava che Gio-vanni tornasse a far “lezione” il giorno dopo. Fine anteprima. Continua...