a est del nordest

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est del nord est

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altri viaggi | 6|

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le foto sono di maurizio crema

elaborazione della foto di copertina di beppe calgaro

redazione e impaginazione: luca albani

grafica di copertina: vanessa collavino

© 11 ediciclo editore s.r.l.via cesare beccaria, 1/1 - 6 portogruaro (ve)tel. 1. - fax 1.6

www.ediciclo.it [email protected]

è vietata la riproduzione totale o parziale, effettuata con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia.

isbn: --6-1-

Maurizio Crema

A Est del Nordestin spider alla conquista della Romania

e del Far Est

edicicloeditore

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Agli amici, quelli veriche mi sopportano ancora

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Introduzione

Tutto era pronto perché niente era stato organizzato. Dovevo partire due giorni prima e invece un lutto e un passaggio epocale mi avevano frenato. Poco male. L’obiettivo era prefissato e l’idea pazza era rimasta. Anzi, s’era rafforzata perché serviva anche co-me omaggio: arrivare fino alle Porte di Ferro e al Danubio, via terra. Finalmente mangiarsi tutta la strada verso la Romania, a Est del Nordest. E anche più in là.

C’era un libro anche questa volta a fare da compagno di viag-gio, quello di Claudio Magris, ricco e lento come lo scorrere di quel grande fiume che non mi apparteneva. Io ero nato sulle sponde di un altro corso d’acqua, l’Adige, che a paragone era un corsetto, un abbozzo che non finiva neanche in delta ma in un canale serpentino; eppure mi sembrava serio e fiero quel mio rivo che non segnava confini ma che prepotente aveva scavato valli e passato città. Ma volevo conquistare un altro viaggio e un altro fiume, per arrivare a un altro confine: quello dell’Europa.

Ueh, ueh, olà. Ormai la dovevi salutare così l’Europa, come si faceva con un Arlecchino o un Pantalone tanto è divisa, chiasso-sa, crapulona e indistinta. Una maschera che faceva la feroce con i deboli – la Grecia, la Romania – e l’accondiscendente con i forti tedeschi. Una pura finzione geografica avrebbe potuto dire Met-ternich. Invece per me era fatta di sangue, terra, acque, storie, speranze, fuochi e tristezze. Ma per raccontarle finalmente dopo gli anni ruggenti della delocalizzazione e quelli dell’Unione c’era

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e vent’anni di vita mentre scorre la campagna del Veneto Orien-tale, vecchie bonifiche e nuova colza gialla e il mare è lì, vicino ma imprigionato ancora dalla laguna. Avevo deciso di fermarmi in serata a Fiume, Rijeka per i moderni, perché la conoscevo po-co, e, soprattutto, perché poteva essere lo sbocco al mare di un altro viaggio sul Danubio, cioè l’Istro. Quello degli Argonauti. Giasoneeeeee, giasoneeeeee!

bisogno di arrivarci senza balzi, urli, motori roventi d’aereo. E al-lora avevo deciso di fare l’ennesima pazzia, di prender su la mia spider vecchia di vent’anni, da crollo del Muro, e di mangiarmi tutta la polvere e il caldo fino alle porte della Romania. Mille e passa chilometri da fare in pochi giorni, tanto per vedere se ave-vo ancora il fisico ed esisteva davvero una strada verso l’Altra Europa e il Mondo Nuovo, l’Est.

Non c’era tanto neanche da organizzare. La carta verde ce l’ave-vo, quella stradale me l’ero comprata a Fiume, il Danubio di Ma-gris pure, le suggestioni salgariane anche, e qualche indirizzo era in tasca. Avevo fatto anche il solito tentativo di portare qualcuno con me, di condividere questa follia. Senza successo. Diverso era andare in barca a vela, anche se scassata, oppure in moto fino in Montenegro, c’era sempre da passare tutto il mare bello e verace dell’Altro Adriatico. Ora no. Solo asfalto e miraggi, echi e ombre di un mondo disgregato, quello dei Balcani. Per poi tuffarsi nella Romania fino ad arrivare da dove ero partito: a Istria. E magari an-che più in là, in Moldova, nello Stato che non c’è, la Transnistria.

Perché? Già, perché? Per non stare fermi ad aspettare un al-tro anno, un cambiamento, una spiegazione. Un’ispirazione. Vo-levo capire un’altra parte di me e della nostra storia, quella che incontravo ogni giorno per strada, badante, fabbrica. Viaggiare per tornare indietro di dieci, vent’anni, a quando tutto era inizia-to e non l’avevo capito. A quando il mondo cambiò per allargar-si a dismisura e iniziare a ingoiare sicurezze, welfare, aspirazio-ni, ideologie. A quando c’era il Muro che divideva e proteggeva come un vallo di Traiano. Traianooo, Traianoooo. In culo ce l’abbiamo, fregati da una parte e dall’altra, più poveri e indifesi. traianoooo!

Il grido si perde nel vento della corsa di questa piccola e con-sumata spider rossa giapponese arrivata già a 220.000 chilometri

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Verso est

Non amo le autostrade, sto molto meglio nelle strade di campa-gna e non solo perché non costano. D’estate non finisci bollito, prima cosa. E poi in spider ti puoi godere la vista libera, l’aria, gli odori. Come in moto ma più comodo; come in bici, ma sen-za fatica. Sei in mezzo al mondo che ti scorre via gentilmente o meno (dipende dalla velocità) e puoi fermarti a chiedere un’in-formazione senza violentare nessuno, così, mettendo una freccia e urlando un hey.

Lo feci molte volte in quello spicchio di viaggio che da Muggia (ex dogana Serenissima) e Capodistria (Koper) doveva andare a Fiume, perché avevo scelto la prima strada piccola che mi capi-tava dopo l’assedio di code e caselli, perdendomi quasi subito in mezzo a quel verde brillante che sembrava Irlanda e poi scivo-lava via con la regolarità austriaca. Questa è la Slovenia, terra di mezzo, orgogliosa e furba, nuovo muro d’Europa verso est (la Croazia) e pallida superstite di una nazione che non esiste più (la Iugoslavia) di cui in molti hanno nostalgia. Non qui, dove cerca-no una purezza che non esiste ma sono convinti di avercela fat-ta ad agguantare il futuro senza dover scontare errori e orrori (la guerra incivile aveva colpito duro più giù, qui i morti nel 1991 erano stati venti, trenta, o solo quattro, boh). Slovenia riemersa, sloveni sommersi dall’Italia e dal fascismo, come Pahor insegna.

Che bella Pirano e le sue saline veneziane, monumentale opifi-cio a un’industria che era Serenissima (lo è stata per secoli) e as-

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soldava migliaia di persone che vivevano in quella pianura piatta e infuocata in mezzo a case di pietra che erano magazzini e poi rifugi per le famiglie che lavoravano qui. La coltivazione d’acqua di mare passava tra quattro stadi (o erano tre?) prima di conqui-stare il titolo di bianchissimo minerale gran protettore del cibo ai tempi in cui il frigorifero non esisteva e il ghiaccio era una rarità da ricchi. Roba pregiata, tanto da dare anche un salario. Ne avrei viste altre di saline, a Corfù (con quella chiesetta dispersa), a Ci-pro, a Muggia, c’era una strada del sale che seguiva il mare in un commercio solido e solidale. C’era un mondo deciso che sapeva come sopravvivere e che dialogava. C’erano miniere di salgem-ma resti di antichi mari imprigionati dalla roccia e dal tempo, e questi moderni campi di sole dove veniva evaporata e filtrata tan-te volte quell’acqua maledetta dai naufraghi perché imbevibile e assassina. Che tortura deve essere abbandonati in mezzo al mare, cotti dal sole e circondati da un elemento che non può che in-ghiottirti e ucciderti definitivamente. Anche lo scappottamento ti cuoce la testa, ma puoi sempre fermarti all’ombra a riposarla o metterti un cappello (che brutto!) e bere molto. E con la mia auto non hai scelta: è senza aria condizionata e i finestrini sono rotti piombati, diventa un forno, meglio rischiare l’insolazione.

Ho scelto questo mezzo di locomozione perché non ne avevo un altro sottomano, perché non dovevo organizzarlo con nessu-no, perché ero solo e un po’ disperato. Ho scelto la mia Mazda perché è filante e simpatica, maneggevole e libera, insinuante ma non strafottente, è una femmina sui quarant’anni, ancora piacen-te, che sa sorridere alla vita e anche essere maliziosa senza però pensare per forza che i maschi debbano seguirla o corteggiarla. Sa farsi avanti senza imporsi e anche passare inosservata perché non è cromata né accessoriata. È semplice ma orgogliosa, un po’ straniera e selvaggia, ma non aggressiva e procace. E poi ha due

fari da occhioni che si alzano come nei cartoni animati e hanno un grande e solo difetto, stanno su anche quando spegni il moto-re; così ti possono fottere tutta la batteria. Scherzo che mi è sta-to fatto anche senza dimenticanza, così, un passante burlone che approfitta della cappotta aperta o della portiera non chiusa. Me-glio lui che quel vendicatore di chissà quali torti che ti segna la portiera con la chiave.

L’ex ragazza di vent’anni – le auto viaggiano a metà strada tra donne e gatte come anagrafe – si mangia olio da motore a quin-tali e ogni tanto spia di giallo e di rosso dal cruscotto, ma sono problemi passanti, come il fischio che usa quando lasci la chia-ve inserita, lancinante, penetrante, sostanzialmente inutile. Ed è un bel rischio voler fare mille e passa chilometri (e altrettanti al ritorno) in pochi giorni, di filata, senza respiro alla sua età e con 220.000 già alle spalle. Ma io e lei siamo affiatati. E alla fine avrò ragione. Tranne un paio di multe e qualche paura di finire senza benzina, mi riporterà indietro senza fondersi trasforman-do quel viaggio in un racconto, quasi in un sogno. L’Italia degli anni Sessanta e del Sorpasso, la Romania degli anni Duemila e dell’Europa.

Ma ora c’era da attraversare il primo confine, quello croato. Arrivò senza preavviso ed emozione, telefonato. Molto peggio sarebbe andata alle Porte di Ferro, la grande diga sul Danubio, e giù verso la Bulgaria, dove s’addensano i traffici e i confini e c’è ancora profumo d’Oriente ottomano. Ma questa è un’altra sto-ria, che arriverà molto più avanti, dopo un arcobaleno d’Istria, il sogno e la malia degli zingari, il delta labirintico, la sacra Bucovi-na, l’incubo Transilvania. E tanti fantasmi che iniziano a danzare davanti al mio viaggio, badanti, puttane, imprenditori del Nor-dest e milionari del nuovo Est.

verso est

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fanno fatica a portarli a scuola perché la loro vita è in strada, per-ché il mondo gli sembra già abbastanza grande lì intorno e quello che vedono in televisione è lontano. Spero che possa continuare così, ma sono sicura che tempo pochi anni si sentiranno soffo-care in quella casetta con l’orto e l’acqua da prendere nel pozzo in giardino, in quei campi sempre uguali, e scapperanno in città, mi chiederanno di venire qui, di cambiare paese, vita. Vorranno i cinema e le discoteche, il motorino e i viaggi, toccare con mano quel mondo che vedono solo in tv. Non gli basteranno più i 200 euro che gli mando ogni mese.

E io allora che farò? Io che qui rimango straniera, io che sono una serva e che sono appesa alla sopravvivenza di un vecchio rin-citrullito che passa tutto il giorno davanti alla televisione? Dieci anni fa, mi sembra ieri. Presi quell’autobus dal mio paese, lassù, al nord vicino alla Russia che oggi è Ucraina, credo. Non avevo documenti, una sola valigia e qualche marco tedesco, i lei allo-ra valevano ancora meno. Viaggiammo per la Slovacchia, fino al grande fiume. Di là c’è Vienna, l’Europa, ci dissero quegli uo-mini che avevano voluto mille marchi per un passaggio di ven-tiquattr’ore verso il nulla. Qualcuno accennò a una protesta, lo picchiarono. Noi rimanemmo zitti. Loro accesero il motore e se ne andarono nella notte, a fari spenti. Iniziammo a camminare, e non ci siamo più fermati fino ad arrivare qui, in questa Italia che si chiama Veneto ma che tutti definiscono Nordest e non ho an-cora capito perché».

La badante

«Il mio futuro è qui, la mia vita anche, le speranze pure. Dietro ho lasciato la mia carne, i miei figli, e poco altro se non un pae-se fermo, grigio, disfatto e confuso. Come mio marito, che beve tutto il giorno e mi cerca per farsi dare altri soldi. Il mio futuro è qui, dietro a un vecchio che trema e ogni tanto sibila ordini in una lingua che all’inizio non capivo perché non era neppure ita-liano, dialetto mi hanno spiegato poi che fosse. Parole che arri-vavano da un passato tutto loro, di quando quest’anziano sulla sedia a rotelle era giovane e anche questo posto, il Veneto, lo era.

La figlia di questo signore che ogni giorno devo imboccare, rimboccare, spostare e pulire come ho fatto ai miei bambini si fa vedere poco. Mi raccomanda sempre di tenere il telefono acce-so, ma poi ho capito che lo fa per togliersi i sensi di colpa. A lei importa soprattutto che il vecchio non si lamenti e che io lo sor-vegli perché non muoia da solo, in questa grande casa piena di oggetti, vestiti, quadri, piatti, aggeggi elettronici e vuota di vita. Qui nemmeno i nipoti passano mai, e cosa ci verrebbero a fare? Il nonno non ha neanche la voglia e la memoria per raccontare storie, la loro storia. E poi di passato ne hanno piene le scatole, lo vedono sempre in tv. Loro amano il presente, Internet, han-no il mondo nelle mani. Ogni tanto li guardo di sottecchio, pen-so ai miei figli che hanno la stessa età e vivono in un paesino con i loro nonni. So che fanno quello che vogliono, che i miei vecchi ormai non li possono più fermare, e neanche controllare. Che

1la badante

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Fiume

La città ha un’impronta asburgica, più esattamente mitteleuro-pea. Un mondo affondato con la Prima guerra mondiale, disper-so come un secolo e passa prima s’era volatilizzata Venezia che qui non era mai arrivata. Invece ci fu l’Italia, D’Annunzio e mar-cette, fanfare e altre sponde. Poi arrivò la Iugoslavia, e ora siamo in Croazia. A raccontarla così sembra proprio un posto di gran-di movimenti, cinque storie per una città. Poi ti guardi in giro, spii i turisti del Nord che affollano i bar e segui i camerieri at-tenti al loro portafoglio come al tuo e capisci che alla fine siamo sempre lì, c’è da campare. Questo è un altro confine che è solo mentale, oppure un crocevia come tanti altri che affronterai più avanti, posti che hanno vissuto sull’orlo di un balzo mai arrivato e che ora sopravvivono appesi a qualche suggestione. Vai in gi-ro e ti manca qualcosa, guardi il mare e capisci. Manca il fiume, l’Istro, il ramo fantasma del Danubio, quello che avrebbe dovuto collegare il cuore dell’Europa all’Adriatico e al mare interno tra le terre. Lì, fuori, stanno solo il Quarnaro e le isole Assiatidi (o Apsirtidi), nate dalle membra del fratello di Medea, che qui in-torno ha anche un paesino, Medveja. Mito sanguinolento quello, che affiora da queste parti perché secondo la leggenda passarono da qui gli Argonauti. Alla fine la maliarda stregonesca scappò dal suo amore-incubo, da quel Giasone che la sfruttò per conquista-re il vello d’oro e abbandonarla poi per una più giovane e lei si vendicò nella maniera peggiore, uccidendo i due figli avuti da lui.

Brrrr. Si potrebbe ripensare a una spietatezza che ha fatto storia e ha contagiato generazioni, ma sono solo echi, malie. Qui sem-mai domina l’ipocrisia di una borghesia rifatta da nuove patrie e vecchi affari, libera anche da legami di sangue o ipotesi di fratel-lanza. Siamo solo noi, al massimo in famiglia.

Eppure appena fuori Capodistria e ancora ben lontano dall’Istro, quasi prosciugato dal caldo, era apparso un arcoba-leno a farmi da buon viatico. Cadeva verso est, mi indicava la strada, ero su quella giusta, Iride era con me, e anche gli dèi, mi dissi sempre da solo. Più semplicemente, ero partito. E alla sera bevevo birra a Fiume (Rijeka in croato) in uno di quei posti con le sedie di paglia e il cibo da catena di montaggio che ti accolgo-no in tutto il mondo con la stessa facile cortesia. Cercavo di se-guire le chiacchiere dei ragazzi del tavolo di fianco, d’attaccare discorso col cameriere, osservavo una bella donna al passeggio. Ma ero stanco e solo, meglio andare a dormire. L’indomani avrei scoperto che la mia spiderina era stata sequestrata per parcheg-gio in strisce gialle. «Era tua quella macchina rossa? L’ho appena vista portar via col carro attrezzi, ma non preoccuparti, il depo-sito è qui vicino», mi avrebbe detto un ragazzo col mezzo sorri-so e in italiano con accento venetico. Avrei capito dopo che qui la Germania ha fatto scuola e che regole fanno rima con multe. Tutto era veramente organizzato per strizzare ben bene i turisti, soprattutto quelli di passaggio distratti come me che guardano la luna e pestano le cacche per strada. Fuggire, scappare. Roma-nia, aspettami!

Però prima almeno dovevo avere una bussola. Sprovvisto di TomTom e diavolerie elettroniche per la mia atavica allergia al controllo e la psicosi da Grande Fratello, mi ingegnai. E al di-stributore per il pieno (la benzina in Croazia costa un po’ di più che in Slovenia ma meno che in Serbia, credo) comprai una car-

1fiume

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ta geografica dell’Europa, di quelle che s’allungano per tutto il continente e anche di più, che ti fanno pensare come qualsiasi posto possa essere vicino, in contatto, fratello. Ma è proprio per rompere quest’incantesimo che sono partito, per fugare questo sogno di viaggio alla Luna di Ariosto che ho deciso di sellare il mio ippogrifo quotidiano. Non esistono Paesi vicini e confini fa-cili, popoli comuni e nazioni unite. Ci sono strade e percorsi. Io voglio fare all’inverso quello che hanno fatto per anni milioni di uomini, il cammino della speranza e della ricerca del benessere, del futuro. Per conquistarne un altro. Il mio.

L’uomo del Nordest

«All’inizio è stata un’avventura, curiosità, pura curiosità. Avevo qualche contatto, gente che ci forniva suole, tomaie. Ed era crol-lato il Muro. A dir la verità se n’erano sgretolati un bel po’, dalla Germania all’Ungheria, dalla Cecoslovacchia (ma lì l’hanno riti-rato su) alla Romania, come se fosse cascata tutta la scenografia che aveva tenuto in piedi il nostro mondo oltre che il loro. Era come se si fosse aperta davanti a noi una prateria, il nostro Far West. Ma invece del nulla, tanti bisonti e pochi indiani, c’erano fabbriche inutili, periferie cadenti e campi incolti. In pochi lì, in Romania, nel 1991, avevano ancora un’idea di quello che voleva-no se non il benessere.

Erano passati da una rivoluzione, ammazzato il loro dittatore come noi alla fine della guerra, ma le macerie non erano fuori, per le strade, ma nelle teste. Un sistema che li accompagnava e li pro-teggeva era crollato miseramente. A pensarci bene, vent’anni do-po anche il nostro sembra allo stesso punto. Due zoppi insieme non imparano a camminare. Di sicuro lì ho trovato tutto da rico-struire. Potevi fare qualsiasi cosa e rischiavi altrettanto. Non c’era legge, né regola. La gente aveva bisogno del lavoro come il pane e nei negozi non c’era molto di più. Tu li pagavi per comprarsi al-meno quello, 100-200.000 lire al mese. E gli insegnavi a lavorare. Alle donne. Gli uomini no, quelli facevano altri affari o stavano al bar, a bere, a perdersi. Avevo trovato una fabbrica dismessa e di-messa, lo scotch alle finestre, una discarica in cortile, il tetto che

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perdeva. Portai i vecchi macchinari che avevo in Italia, li feci pas-sare come ferro vecchio, rottami, così da non pagare dazi, tanto lì aveva già iniziato a scaricare mezzo mondo. Aprii una società, bastava un milione di lire e nemmeno quello. Le tasse erano ridi-cole, i contributi pure, la burocrazia anche. Una pacchia. Il Pae-se di Bengodi per un imprenditore. Presi cento donne, dopo tre anni erano già il doppio. Facevo fare le tomaie e le suole che mi servivano per le mie scarpe italiane, le facevo passare come mate-ria prima, pagando poche imposte col sistema del traffico di per-fezionamento passivo, una sigla strana, tpp, da esplosivo, ma che racchiudeva mille possibilità. Le ragazze lavoravano dieci, dodici ore al giorno, sei giorni e anche sette se serviva. Ogni tanto con-cedevo qualche premio, ma i sindacati dovevano rimanere fuori dalla porta. C’erano un paio dei miei a sorvegliarle, le più carine erano anche divertenti in altri modi, ma non dovevano alzare la testa. Primo lavorare! Ho fatto tanti soldi, molti li ho lasciati lì o messi da parte in qualche paradiso, per i momenti bui. Che sono arrivati. In Romania come da me, nel Nordest. E ora sto pensan-do al da farsi. A Est ormai non c’è più futuro, è Europa. La Mol-dova o l’Ucraina sono vicine, ma anche la Cina si è fatta sotto. Il mondo s’è ristretto. Forse è arrivato il momento di tirare i remi in barca, di godermi la vita. I ragazzi sono grandi. Potrei ritirarmi in quella bella isola sul Danubio che mi ero preso, oppure ai Carai-bi, in quel condominio ad Antigua che mi avevano consigliato di comprare. E l’Italia? No, quella è finita. Una storia finita».

Infine al confine

Guido e penso, penso e guido, guardo e viaggio. Sono lì e anche da un’altra parte, in un altro tempo. Scorre la vita dal mio finestrino e l’ingoia la strada sotto di me. Vorrei ma non posso, bea vita dietro le spalle. Ma che cazz… L’autostrada è nuova di zecca e fa scorre-re i turisti in due fondamentali direzioni: verso Zagabria, la capita-le della Croazia che sembra una piccola Vienna post-comunista, e giù verso Dubrovnik e la costa della Dalmazia, la quinta repubblica marinara di Ragusa e il grande incanto di quel mare azzurro e sco-glio che tante volte ho solcato in barca e che mi riempie di voglia ancora. Spalato nel 1994 tra le mura e la piazza veneziana, il mar-mo lucido del passeggio della gente, gli sguardi fieri delle ragazze sempre alte ma anche mediterranee, le isole vicine che si svolgono come perle in una collana: Brazza dove avevo casa in un’ipotetica parentela con Iride; Lesina Hvar con i suoi locali e le notti incen-diarie; Lissa della battaglia e dell’abbandono che non aveva porto per diporto e un paese abbandonato dopo la guerra fredda; Lago-sta-Lastovo che fa da ultima Thule e speranza di vacanza, senza la ressa. Perché sono qui in macchina? Perché sono così stupido da non saltare in una barca a vela ad aspettare il tramonto per la cena in trattoria o l’alba per il tuffo da liberazione? Perché sono così stu-pido e solo? Perché devo fare un’altra rotta verso l’interno, l’umi-dità, il caldo appiccicaticcio e stantio delle sterminate pianure del continente, trovare un’altra strada, raccontare un’altra storia, come Pausania, a cercare il mito e il sogno in una pietra, nell’altarino che

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incontri a un crocicchio, nello sguardo del contadino incartapeco-rito. Tanto so che lì, tra quelle isole e il mare, ci sarà sempre malia, che il vero incanto di Medea è quello: l’ipotesi di esotico, d’Oriente e di mare che ogni volta si affaccia tra quelle mura e le callette stret-te, la traccia di Venezia che s’immerge nei minareti del Montene-gro e finisce nel sole della Grecia classica, un mondo di scorribande che sento profondamente mio anche se mai familiare. Una scoper-ta continua perché so da dove parte e mai dove potrebbe finire: a Istanbul e Beirut, al Cairo, a Damasco? E po’ più in giù? Tutto par-tendo da Venezia, il mio nido e base, un posto che mi sopporta e supporta durante i sempre più lunghi inverni. Un deserto di pietre e acqua che diventa oasi. Che poesia! Che romanticismo! Che no-stalgia! Meglio pensare a questa autostrada dall’asfalto di cemento che scorre monotona tra pianure e paesetti, campi di mais e illusio-ni come quelle dei turisti che stanno scendendo a mare per godersi il meritato riposo annuale. Anche loro ce l’hanno fatta, come i cine-si più in là, come gli africani tra vent’anni; la classe media che spen-de e compra finalmente raggiungerà quel benessere che permette di spendere per stare meglio e ti fa star meglio se spendi, finendo in depressione se non ce la fai più e devi stare attento ai saldi, agli sconti, ai bollini premio. Come accade qui, nei Balcani che un tem-po erano iugoslavi e ricchi e che ora s’arrabattono. «Che vuoi farci, quando ero giovane io, vent’anni fa, mio padre aveva un signor sti-pendio e io potevo andare in vacanza negli Stati Uniti per un me-se, anche andare a scuola là. Si viaggiava dappertutto, avevamo il passaporto e i soldi anche per farci una casetta, l’auto nuova, l’uni-versità all’estero, ma era un altro mondo, c’era la Iugoslavia, era-vamo giovani e in mezzo al mondo. Ora siamo puri e divisi, e non contiamo più nulla» mormorava Irena, che non ha neanche venti-cinque anni, un padre da una parte, la madre dall’altra (tra confini tipo Slovenia e Serbia). «O forse sì, che ne so. Mi sento di Spalato

ma non croata, e nemmeno balcanica o europea. Tutti quei casini, le religioni, le razze, i lutti, bah. Stronzate. Mi viene in mente mia nonna, la casetta che avevamo a Supetar, dove andavo da piccola, senza acqua, luce. Facevamo il bagno, si pescava, mi godevo il sole. E aspettavo che finisse la buriana, la guerra. Ma ora sono laureata, devo trovarmi un lavoro. E c’è la crisi. Spalato rimane la mia città. Ripartirò da lì».

E io da dove riparto? Dal confine con la Serbia. La lunga sfilata di paesetti e campi della Slavonia che nascondono ancora cicatrici da guerre e mine si sta per chiudere alla fermata di Slavonski Brod, Vukovar martire e delle stragi. Passaporti e poliziotti, prego, carta verde, in Serbia non si scherza, qui non c’è ancora Europa e non ci sperano come in Croazia. Il ghigno del poliziotto in nero mi ricorda qualcosa, un altro tempo, confine, passaggio: Ungheria, 1985, Cor-tina di Ferro, vecchie macchine da scrivere e Budapest davanti. Un confine che si stava richiudendo su di noi facendoci abbandonare le nostre conquiste. Allora passammo sotto la neve in Iugoslavia, in alto, sopra Zagabria. La strada era quella di prima, già fatta. Non vorrei che… forse…

La Serbia rimane ancora un cuneo alieno in mezzo all’Unione Europea, un altro mondo che non vuole entrare, paese diverso. Ma i ragazzi sono uguali! L’avrei scoperto in quella notte piena e prepo-tente che non m’avrebbe fatto dormire in un locale da musica viva che si chiama ancora Iugoslavia e che ha disegnato sul muro la vec-chia federazione unita. Un altro mito, come Tito. Ma il mito sono lo-ro, i ragazzi con l’assoluta propensione al presente di chi non si fida del futuro. Bea vita, eh! Ci si dice da noi, per convincerci che è vero. Io dovrei averla: un bel lavoro, una spiderina che funziona e un viag-gio davanti. Già, vero. Un sacco di possibilità. E un futuro dietro le spalle. Proprio come loro, i balcanici. E forse anche gli altri, i rume-ni, i moldavi, gli istri, i transnistri, i sinistri. I diversi. Gli stranieri. Io.

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La prostituta

«In fin dei conti cosa pretendi per una sveltina? Questo è busi-ness, cinquanta euro, non puoi chiedere che un attimo di piace-re, in fin dei conti quanto ti sarebbe costato un invito a cena o una serata in discoteca? Almeno con me non devi fare tante sto-rie e inventarti romanticismi o tattiche: basta un fischio e io ci sono, pronta, calda, come una stufa, il tuo termosifone. Che poi io sia una brava, è un’altra faccenda. Di certo non mi spreco con te che sei un pezzente, un impiegato, un lavoratore dipendente, forse anche peggio, un operaio, che magari a casa ha una moglie e un paio di figli, ovviamente uno maschio l’altra femmina. Li ho anch’io, tutte e due femmine, a casa con i nonni. E le devo man-tenere perché da quelle parti, a Giurgiu, dove passa il Danubio e se ne va via senza considerarci proprio, non c’è niente. Solo il fiume. E i miei genitori hanno una pensione da fame, come tutti gli altri nostri vecchi.

Cinquanta euro per dieci secondi di piacere, una seghina e via. Vuoi la bocca? E allora paghi cento, mica mi spreco. E con il goldone, ovviamente. Le negre costano meno, hai ragione. Pe-rò puzzano e sembrano tutte delle scimmie viste da vicino. Io in-vece sono bionda, ho la pelle lattea e solo un attimo di pancetta. Non sono come quelle tette e culi che vedi sempre in tv, però mi ci avvicino. E poi mica dobbiamo passare la serata assieme, quella ti costerebbe una fortuna e tu non ce l’hai. Puoi solo so-gnare di andare con una puttana di lusso, una di quelle che oggi

chiamano Escot, Escort, insomma, come la macchina. Quelle a uno come te non ti cagherebbero nemmeno, vanno con i capi, i politici, i banchieri, e costano. Magari mi potessi far pagare così, anche se ho delle amiche che si sono prese le loro soddisfazio-ni dalle parti del lago di Garda. Girano con dei macchinoni e si sono comprate pure casa a furia di fare marchette lungo la pro-vinciale. Ma bisogna essere libere, non avere il magnaccia che ti morde sul collo, che ti succhia il sangue, la vita e i soldi che fai, che ti protegge e intanto ti strizza come un limone.

Merda! Sono una schiava, ecco cosa sono. Ma almeno vivo, qui da voi c’è tutto, basta avere i soldi. E vivo meglio di quella mia vicina di casa che fa la badante, meglio essere una puttana che la serva di un vecchio bavoso. Ho fatto quella vita per due mesi, dopo ho scelto di battere. Dieci minuti, cento euro, e vaiii! Sono libera, la do a chi mi piace e per gli altri c’è l’attenzione di una macchina. Su e giù, hai presente i pistoni del motore? La ca-tena di montaggio? Già, proprio di montaggio. Siamo tutti mac-chine, l’importante è saperlo e decidere quando smettere. Io so quando. Appena ho fatto i soldi me ne vado, chiuso, stop. Tor-no al mio paese a fare la signora. O forse no. In fin dei conti qui sono libera. Piaccio. Mi sbavate ancora addosso voi italiani fru-strati, e mi regalate vestiti, gioielli, vacanze. Là sarei solo una ex puttana. E poi sai che noia, nel paesino, a guardare quel fiume pieno di merda».

la prostituta

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Incubo e Alex

La strada ti entra nelle ossa e nella pelle. Lo cantava Finardi per la musica, ma il viaggio fa lo stesso. Non è come andare in barca, in auto, non ci sono la natura, il vento, il mare a deviarti. L’unico svincolo è quello segnalato, l’unica incertezza è il cartello erra-to. Non hai scuse dunque se sbagli o arrivi in ritardo. Per que-sto diventa una corsa contro te stesso, un digrignare i denti, un perderti nei pensieri fissando sempre lo sguardo avanti, alla stra-da, all’orizzonte. E quando il cielo si fa baluginoso, opaco, l’afa ti prende e ti soffoca, allora capisci che non sei soltanto di corsa ma che stai mangiando i chilometri, che stai già conquistandoli. Per questo avevo scelto quella vecchia macchina dal rosso ormai opacizzato dal tempo e da zero optional. Aveva storia, già. Era elegante, prima della mia “cura”. Ma, soprattutto, non ti face-va sconti. Nessun servosterzo, aggeggione vario, vetri elettrici, condizionatori. Lì sudavo e prendevo polvere anche se tenevo la cappotta chiusa (e lo dovevo fare altrimenti cuocevo il cervello). Quando hai davanti mille chilometri da fare in un giorno non puoi permetterti tante pause o divagazioni.

Scorrevano le città della guerra alla mia destra, Bihać nella Bo-snia serba, Tuzla e poi Sarajevo in quella musulmana, e prima Sla-vonski Brod, i laghi di Plitvice. Sembrava che fossero solo fondali, che dietro non potesse iniziare ancora la vita. Eppure nelle cam-pagne i campi erano regolarmente coltivati, le case ricostruite an-che se spiccavano come cicatrici i mattoni nuovi messi dopo gli

anni Novanta. Alexander Langer sarebbe stato contento di tutto questo? Lui fu uno dei primi pacifisti che chiesero l’intervento di guerra umanitario (che ossimoro schifoso) per liberare Sarajevo dall’assedio. Si suicidò il 3 luglio del 1995, prima di Srebrenica e delle bombe al mercato, prima della pace in forma di tregua e de-gli accordi di Dayton che ancora oggi odorano di truffa e ambigui-tà ma hanno funzionato. Chissà che cavolo gli era venuto in men-te, come poteva farsi ingoiare dalla disperazione uno così? E io, e tutti gli altri, che dovremmo fare? Lui era un viaggiatore leggero, come si descrisse, un politico vero che s’era impegnato fino alla morte per questi Paesi, per questo mondo che sentiva forse come specchio dell’Europa dove faceva il deputato e che ancora oggi tie-ne lontane queste nazioni e questa gente. Il sudtirolese che parlava l’italiano come da caricatura e che aveva il sorriso aperto e un po’ intimidito del ragazzo di oratorio, del cattolico che si scusava per la sua militanza politica, nella realtà. Chiese allora, quindici anni fa, l’immediata integrazione nell’Unione Europea dei Paesi che mi stavano scorrendo davanti, di queste marche di confine che avevo conosciuto e battuto anch’io. E mise il dito in un’altra piaga, tutta nostra questa volta: «Occorre superare la dimensione degli attuali stati nazionali (o pretesi tali) contemporaneamente in due direzio-ni: verso il basso (con nuove e ricche autonomie) e verso l’alto, con ordinamenti federalisti sovranazionali», scriveva nel 1991. Profeti-co. E azzeccato. E allora perché ti sei ucciso, cazzo? Avresti potuto aiutarci in questi quindici anni di melma e contraddizioni, avresti potuto aiutarci nei prossimi quindici, trenta, a superare il rinco-glionimento del berlusconismo e la guerra preventiva di Bush, il pantano afghano e il trituramento dell’Iraq, la nuova Cina arrem-bante e le crisi da finanza di carta che ammazzano il welfare, la sa-nità e la scuola pubbliche, le conquiste dell’Europa sociale, quello che ci ha fatto diversi dagli americani e dagli ex comunisti, quel-

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lo che ci fatto diventare un faro fioco ma pur sempre una luce in questo mondo di lupi, una terra promessa per i fratelli dell’ex area comunista. Porca vacca, merda.

Per fortuna che c’è la strada da conquistare e il motore che va e mi porta via questa malinconia.

Per fortuna che respiro e sogno ancora di vedere posti diversi per capirci di più io.

Per fortuna che sono ancora un po’ scemo e ho energia da buttare.

Per fortuna che Vukovar è già passata, con i suoi fantasmi di massacri e chi ha iniziato prima a massacrare, e che arriva il con-fine assurdo.

Serbia. Solo Serbia. Stop con federazioni, nazioni, repubbli-che altre. Ormai sono rimasti solo loro. E rischiano anche di frammentarsi ancora in Vojvodina o Sangiaccato.

Il caldo è infernale, non c’è vento. Per fortuna neanche code. Il cartello in cirillico mi fa strano e già straniero. Controlli pochi e distratti. Tanto che cosa vuoi che faccia uno così, al massimo andrà a divertirsi a Belgrado alla caccia di qualche ragazzetta che ci casca con la macchina scoperta. Già, questo era il mio proble-ma quando la comprai, tredici anni fa, già usata da sei: sarebbero venute con me per la macchina? Per questo l’ho sempre un po’ trascurata questa spiderina, per non darmi arie e fare il cafonal. Quindi botte e graffi rimasero. L’unico vero intervento fu dopo il cappottamento. Lo dovevo fare, era ridotta a un ammasso di fer-raglia, un osso spolpato da un cane molosso. M’ero salvato per miracolo, credo, e sbalzato proprio di fronte a una bella croce con nome in orizzontale. La bestemmia strozzata in gola e anzi tanti rigraziamenti al Signor Creatore. Puro culo.

E ora eccomi qui, stessa auto, ottocento chilometri più in là, in Serbia. Erano serviti a qualcosa tutti questi anni? Forse avevi

ragione tu Alex, ma cosa vuoi, se ti arriva il messaggio di salvezza non puoi buttare via niente di quello che rimane. Oh, beninte-so, senza fare il santo e il missionario, eh! No, no, credo che a un certo punto quello che conti è vivere bene, al massimo ma senza esagerare. Se poi chiedessi a Vasco cosa vuol dire esagerare lui risponderebbe in maniera un po’ diversa rispetto al signor Rossi. Rispettare se stessi e gli altri, questo l’undicesimo comandamen-to che cerco di seguire prima di tutti gli altri che non ricordo mai come i nomi dei sette nani.

Il sorriso malizioso e la cannuccia tra le labbra, ma non capi-sce niente di quello che dico. Lei è proprio bella, mora, piena, un po’ selvaggia. Sta fra due amiche e io intimidito a tre metri, osservo, seguo come un cane in cerca di padrone. In italiano cer-co di attaccare bottone in mezzo a quella bolgia – ma ogni sera è così qui?! – di musica, birra, luci che riempiono quella notte qualunque di Belgrado. Lei mi sorride, scuote la testa, io ripro-vo in inglese a dire qualcosa di simpatico, ma lei viene di nuovo assorbita dalle amiche, dalla musica, dal ballo e mi dimentica, mi dimenticherà per altre tre ore, fino a quando la notte si spegne nell’alba, quando anch’io non ho più forze e la saluto frettoloso e ingobbito trascinandomi sorpreso fuori in un giorno che stava già riprendendosi tra le strade della città vecchia. Gente ce n’era ancora in giro, evidentemente qui ci danno dentro sempre.

Ma questo sarebbe successo al ritorno, in una notte che sa-rebbe dovuta finire in un hotel a quattro stelle dove avevo la-sciato il mio nome e che non avrei mai più raggiunto causa fe-ston in quel locale budello nei sotterranei di Belgrado. Avrei fat-to un pisolino in una piazzola dell’autostrada più tardi, col sole già caldo e il confine vicino ad aspettarmi con i suoi cinque chi-lometri di coda da emigranti turchi di ritorno. Gli esodi biblici sono questi, oggi.

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Ma ora invece c’era da conquistare il Danubio e quindi Bel-grado passò intorno a me dall’autostrada che solca il cuore del-la città, su un grande ponte che scorre proprio sopra il Danubio e poi la Sava, imbottigliato da una coda molto cittadina da post ufficio che mi avrebbe fatto arrivare al confine con la Romania e l’Unione Europea solo a sera, mannaggia. Palazzoni e pubbli-cità, Yugo modello Fiat d’antan e suv neri intorno a me, quasi, quasi una capatina in città, magari a Novi Beograd, dove stavano nascosti Karadžić e Mladić, i macellai dei Balcani. No, meglio al ritorno. Ora c’era da andare avanti. Ma dell’autostrada non ne posso più e poi c’è da fare questa scorciatoia per non finire a Niš e tagliare dritto. Sì, sì, andiam. Esco nella periferia di Belgrado, la cartina parla chiaro, Pančevo e poi Požarevac, cioè Passarowitz della pace che inchiodò Venezia e ingrandì a dismisura l’Austria ai danni della Sublime Porta. E io, chiaramente, mi perdo. Stra-dine di campagna, paesotti insignificanti, tortuosità e boschi e campi e nulla. Poi buio, freddo, ma dove… sono finito? Tutto si fa indistinto e non solo perché ci vedo sempre peggio da miope. Questo posto, questi posti sono assurdi, sembrano sconvolti dal passaggio di un gigante. Montagne s’ergono all’improvviso nel-la campagna quasi piatta, le strade prendono svolte impossibili, solo un pazzo potrebbe averle disegnate. Ma dove sono finito? Guido per ore in mezzo a quel caos cercando di raccapezzarmi in una strada che in teoria dovrebbe essere dritta e lineare e invece è un tormento di fari negli occhi o curve nascoste. Pazzia. Deve finire questa pazzia. Alla fine sbuco in un paese che scimmiotta una città, con quattro cinque simil grattacieli spuntati dal nulla ai bordi della strada. C’è un albergo. Parcheggio davanti esausto ed entro. Tutto parla comunista, a partire dalla moquette di pelo di plastica muschiata, ai televisori a colori incerti, al truciolato alle pareti da finta baita, alla faccia sfiorita e mal truccata della custo-

de di quel posto da Shining. E come nel film con Nicholson mi sarei sentito per tutta la notte. Sobbalzando a ogni latrato, sire-na, urlo umano, alzandomi in piedi a controllare dal mio poggio-lo se m’avessero fregato la macchina parcheggiata sotto in strada. Ero troppo stanco per continuare e troppo esausto per dormire. Non mangiai niente e riposai ancora meno in quel letto sfondato. L’unica consolazione è che nessun italiano, ma che dico, nessun occidentale forse si faceva vedere da quelle parti da anni. Ero un vero esploratore. Più esattamente, un vero pistola.

Alla fine all’alba mi appisolai con un ultimo controllo e il gior-no dopo ritrovai l’auto, miracolo! Feci una colazione a base di uova alla coque e marmellata di polistirolo. Ma dove ero finito?

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Maschere per un curdo

«Mi hanno portato a insegnare a fare le maschere veneziane pri-ma a Iaşi e poi nella capitale di quell’altro posto, dello stato pic-colo con cui confina, Moldova si chiama, già. Per fortuna io ci sono abituato a queste divisioni, anche dalle mie parti, in Kurdi-stan, siamo persi in cinque o sei nazioni, dalla Turchia all’Iran. Anche se oggi un posto nostro ce l’abbiamo, al nord dell’Iraq, dove finiscono il casino degli arabi e anche le bombe umane. Da noi a Mosul, da dove vengo io, non ci sono pazzi fanatici, so-lo gente che vuole chiudere col passato, con Saddam e Osama, col casino. Certo, qualche attentato c’è ancora, ma vuoi mettere con quando ci gasavano i baathisti? Con i massacri del tuo ami-co Tarek Aziz? Io sono scappato da lì da vent’anni e passa, ero già un oppositore, uno che lottava per la libertà del mio popolo, e sono finito a Venezia a fare architettura, studente, quando an-cora l’Italia era aperta e la città sull’acqua un sogno strano, una piccola Babilonia. Mi hanno ospitato amici, fratelli di paese, mi sono trovato bene e ho imparato un mestiere. No, non quello di pizzaiolo al taglio, no, un mio compaesano ne ha messe in piedi cinque o sei, fa i soldi quello. No, io ho iniziato a fare maschere, quelle per il carnevale, baute e roba del genere. Mi ha insegna-to un amico argentino, era rinato il carnevale, veniva un sacco di gente, era una festa di popolo, una marea umana assediava la città, una bolgia, bella anche, un caos! E tutti volevano un ricor-do, qualcosa di unico.

Iniziarono a spuntare i primi laboratori, ma non bastavano. C’era bisogno di gente, non è un lavoro semplice. Devi imparare a fare l’impasto, il cartone arriva dalla Germania, è particolare, rici-clato e compresso, e poi bisogna usare la colla giusta, e le decora-zioni. Per una maschera basica, una di quelle bianche, ci metti cin-que minuti, poi c’è da aspettare che asciughi. Ma per una comples-sa ce ne vogliono di più, con tutti quei brillantini e colori, un’ora, due. Ma si vendevano bene, io nelle due settimane di carnevale guadagnavo anche cinque, dieci milioni. Ora è più difficile, c’è la crisi, l’euro, la concorrenza. A Venezia vendono tutti maschere o vetro di Murano, né l’uno né l’altro lo fanno lì, quasi tutto arriva da fuori, dalla Cina, dall’Albania (a Scutari ci sono due o tre fab-briche di maschere, ma da anni!), dalla Romania. Solo che non è un lavoro facile, bisogna insegnarlo, ci vuole pazienza.

Io sono stato a Iaşi in inverno, un freddo, peggio di Venezia. C’erano una ventina di donne in uno scantinato, ognuna col suo banchetto, la colla, i colori, le maschere arrivavano dalla Cina o chissà da dove. Loro dovevano solo imparare a lavorarle. Un eu-ro, una maschera. O anche la metà, non so. Io insegnavo e basta, volevano farmi diventare socio, aprire una fabbrica come quelle albanesi. Ci abbiamo provato, ne ho portate in Italia migliaia, in macchina, tutto regolare eh! Ma poi, quando si sono spostati in Moldova – o Moldavia? Come si dice? – li ho mollati. Ora lavoro a casa mia, e vendo ai negozi che conosco. Io mi fido di loro e loro di me. Campo, metto da parte qualche soldo, ho quasi cinquant’anni e voglio tornare in Kurdistan. Oggi si sta meglio là che qua, e c’è un futuro. Tutto da fare, ma c’è un futuro davanti».

maschere per un curdo

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Miniere a cielo aperto

In una città fantasma. Con una chiesetta ortodossa rattrappita tra casermoni comunisti, una stazione di servizio arrugginita e un ponte che stava su un torrente aspro. Troppo grande quel po-sto per essere in mezzo al niente e per giustificare due alberghi, anche se in disfacimento come quello dove avevo dormito. E la natura non sembrava certamente così incantevole. Decisi di an-dare a investigare. Tanto erano le otto di mattina, avevo tempo prima di ritornare in viaggio verso R. Tirai giù la cappotta per godermi di nuovo l’aria libera dopo la notte da incubo. Un chilo-metro tra bordi sempre più rosicchiati, con una polvere grigia ad alzarsi a ogni colpo di vento, un caldo già soffocante, e poi s’aprì quella mostruosa ferita. In fondo il fiumiciattolo faceva tristez-za, intorno le pareti di quello che doveva essere un canyon erano state metodicamente mangiate aprendo una valle perpendicolare che si buttava giù per cinquanta, cento metri in angoli innaturali. Nessun albero viveva lì, neanche un animale aveva deciso di far-si una tana o un nido. Un cartello sul ciglio della strada vietava qualcosa, di guardare, fotografare, capire, presumo. L’opera co-lossale di disfacimeno continuava fino a perdita d’occhio, chissà per quanti chilometri. Chissà cosa cercava lì l’uomo da anni, che preziosa risorsa fosse stata ad aver scatenato quell’insaziabile fa-me che ancora divorava tutto.

Avrei ritrovato più tardi, nella terra di R., un’opera così con-tundente e pervasiva, solo che lì c’erano ancora uomini e tracce

di uomini all’opera, nastri trasportatori che si allungavano per chilometri come serpenti, torrette di snodo, scavatrici, camion a solcare le viscere di quella terra smossa a cercare chissà cosa (carbone?), guardie a sorvegliare il tutto. Lì invece, ancora in Serbia, era rimasta solo l’impronta del gigante caduto. Tutto era immobile, abbandonato. Morto. Una miniera fantasma per una città fantasma. Mi venivano in mente quelle scene da film we-stern, il deserto che avanzava, i cartelli che sbattevano schioda-ti dal vento e i binari arrugginiti che finivano nella montagna. È finito il grande duello tra la Serbia e il resto del mondo, il pisto-lero balcanico è stanco e ha abdicato anche sul Kosovo in cam-bio della pace e della Fiat Zastava. Meglio l’Europa che i sogni in Grande, la Iugoslavia era morta per sempre lì, in quel budello di sviluppo sfruttato. Rimaneva solo il fantasma di Tito che aleg-giava come un progresso mutilato, come quella valle a due passi dall’Unione Europea.

miniere a cielo aperto

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L’operaio serbo

«Noi abbiamo bisogno dell’Europa, del Kosovo non me ne fre-ga niente, altro che culla della Serbia, roba solo per preti e con-tadini nostalgici, io voglio star bene, comprarmi un’auto che funzioni meglio della vecchia Yugo, e farmi le vacanze al mare non in Montenegro, che costa carissimo, ma in Grecia, dove il mare è più blu. E magari in Italia, dove si mangia bene e ci so-no anche delle antiche città da visitare. Io voglio la Fiat, la Ma-gneti Marelli, la Benetton, le loro fabbriche, gli stipendi di 400 euro, un futuro alla Marchionne. Un lavoro sicuro per i prossi-mi vent’anni, tanto è qui che quelle, le multinazionali, vogliono investire perché stanno fuori dall’Unione Europea, hanno van-taggi fiscali, gli diamo gratis anche le aree perché altrimenti ri-marrebbero inutili.

A Kragujevac ci sono 20.000 disoccupati e le fabbriche anco-ra bombardate da voi nel 1999, dai vostri Tornado e dai caccia americani. Noi vogliamo tornare a fare quello che facevamo pri-ma. Negli anni Sessanta costruivamo la 1400, una specie di spi-der, e la 600, l’utilitaria che poi utilizzava la Milicja, la nostra po-lizia che mitragliava multe ai vostri turisti distratti. Ora facciamo la Punto e la prossima auto per la vostra classe media. Dici che non esiste più la borghesia in Italia? Che se l’è mangiata la crisi degli ultimi dieci anni? Che i vostri stipendi sono fermi, anzi van-no indietro erosi dall’inflazione e dai costi della vita in euro? Ma voi almeno l’euro, la paga, la cassa integrazione ce l’avete! Con

gli ospedali che funzionano e una pensione decente. Sai quanto prende un nostro vecchio? Duecento dei vostri euro al mese, so-pravvive, se ha una casa sua. Altrimenti fa la fame ed è costretto a vivere con i nipoti e i figli, come se fossimo tutti tornati all’uni-versità.

Noi abbiamo diritto a un futuro, a un po’ di benessere. Ci avete tenuti esclusi, rinchiusi nel ghetto dei Balcani per vent’an-ni perché eravamo i cattivi, i sanguinari, i reprobi, peggio degli albanesi e dei rumeni eravamo. Ma ora quelli sono in Europa e avete bisogno di gente che sa lavorare come me e di meno rego-le, avete bisogno di stare fuori dall’Europa per fare concorrenza ai cinesi. E venite qui a fare le calze Omsa, le tegole, i mobili, il vino dopo aver già comprato tutte le banche e le assicurazioni e le compagnie telefoniche. E noi non vediamo l’ora che arriviate. Venite, venite, le streghe son finite. Ora è il tempo dello svilup-po, del capitalismo. Forza Fiat!».

1l’operaio serbo

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Ritorno al passato

Saltai sulla mia cavalcatura e diedi di speroni, oooops, di acce-leratore. La mazdina slittò sul ciglio sterrato e diede un balzo sull’asfalto, riprendendo la strada verso Oriente. Salutai la cit-tà fantasma con soddisfazione, non mi avevano fregato la mac-china, incassai un paio di sguardi stupiti dei passanti, per lo più vecchietti, e m’inerpicai in salita. Ben presto mi infilai in una bo-scaglia fitta ma non assillante che lasciava filtrare la luce del sole e sapeva di muschio, di fresco, di vita. Un paradiso rispetto alla morte che lasciavo alle spalle. Mi lanciai in una galoppata sfre-nata, prima, seconda, terza, curva, derapata, frenata, sole, vento, libertà, libertà. Poche volte incrociai segni di vita umana, un pa-io di macchine parcheggiate al limite degli alberi, un’auto che mi incrociò senza fari in quella penombra acquosa, poi niente per un’ora, due, tanto che cominciai a preoccuparmi, e se avevo sba-gliato strada? E se mi stavo infilando di nuovo in una corsa allu-cinante verso il niente? E se qualcuno mi avesse fermato, pisto-la in pugno? Altro che cavaliere solitario, alone ranger, solo un allocco. Mi avrebbero lasciato in mutande e a piedi in mezzo a quel nulla che di notte chissà cosa sarebbe diventato, bella fine da pistola! Non potevo che sorridere a quell’io spaurito e senza nessun tipo di risorsa al ciglio di quel niente pieno di natura. In fin dei conti era la fine che avevo sempre temuto in ogni viag-gio e che mi aveva sempre disperatamente tentato di organiz-zare missioni di gruppo, avventure almeno in due, compagnie

anche brancaleoniche ma almeno nutrite. Invece ero lì, ai confi-ni della Serbia, da solo, con una vecchia auto che aveva vissuto tempi migliori come me e come unica consolazione il serbatoio pieno, anzi, per tre quarti pieno perché ne avevo già consuma-to un bel po’ quando finalmente arrivai in campi aperti, fuori da quella foresta di Sherwood. E subito mi assalì il profumo del mare, quell’idea di roccia assolata, odore di erbe selvatiche e sal-mastro che ai Greci disperati in cammino da anni fin dai deserti dell’Asia farebbe urlare thalassa, thalassa! Mare, mare.

Mi viene in mente Ulisse, il mio eroe Bakim Fehmiu morto di-silluso a Belgrado, lui, che era anche albanese; e anche il trip di Giasone, la sua Argo e gli altri nobili viaggiatori che fondarono forse Lubiana, il cui fantasma avevo già incontrato a Fiume. E in-vece era il Danubio. Ma era come se avessi conquistato il mare, il mio mare, quello di Mezzo.

Bello e possente scorreva, la sua acqua era verde di smeraldo tra le pendici rigogliose o rocciose di quella valle che aveva co-struito nei secoli e nei millenni prima di arrivare al Mar Nero. Gagliardo e orgoglioso scorreva lambendo campi ben coltiva-ti e case coloniche, orti e frutteti che gentili digradavano verso l’acqua benigna protetti da vecchie fortezze e castelli. E poi si rinserrava in una gola, sommergendo un antico villaggio turco. Qui le chiatte che arrivavano dal nord portando legna o car-bone o altri beni filavano nel vento caldo e pieno che arrivava dal mare, scommettevo, malgrado mancassero mille chilometri a quel mare. Ma forse era vero, forse quel dio d’acqua che sol-cava e univa l’Europa aveva uno sbocco anche sull’Adriatico, precipitava anche di fronte all’Italia, all’Eridano Po, aprendo una possibile porta a quel viaggio fantastico cantato da Orfeo e narrato da Apollonio Rodio, un viaggio più grande e comples-so dell’Odissea.

ritorno al passato

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a est del nordest

Fermai la mia fedele compagna e mi issai su una roccia prima di una galleria. Il vento mi agitava i vestiti asciugandomi il sudo-re e mi riempiva della luce limpida riflessa dall’acqua dolce lag-giù; essa si perdeva tra le tortuose anse per mille e mille chilome-tri in su verso il cuore dell’Europa e in giù fino alla sua fine e al Mar Nero. Garrirono le trombe della chiatta, forse mi salutava o, più probabilmente, avvisava chi, dopo lo sperone di roccia, stava risalendo che arrivava. L’altra sponda era a un passo, Romania! Ma solo più avanti, quando la valle si sarebbe aperta e il grande fiume impoltronito in un lento e stanco fluire, avrei potuto var-carlo. Laggiù, dove il suo corso è sbarrato da anni dalle Porte di Ferro, la gigantesca diga da centrale elettrica costruita dove Tra-iano aveva gettato un ponte tra Occidente e Oriente, tra Latini e Barbari, tra montagne e pianure, quelle pianure che si sarebbero allungate fino alla fine della terra, al Catai.

Il rumantirom

«Li odio, li odiamo, ci danno fastidio, perché vergognarsi a dirlo se lo pensiamo. Sono diversi, se ne fregano di stare in un posto, mettere radici, comprar casa. Li accusiamo di rubare, di spor-care, di mendicare, di sfruttare i loro bambini e rapire i nostri. È vero, siamo diversi, a loro non interessa piantare le tende una volta per sempre, vogliono essere liberi, di errare, cambiare, im-migrare, di non pagare le tasse, le bollette, i debiti. Hanno il loro Elvis, le loro Madonne – sporche e con la faccia scura – il cine-ma e la musica, hanno il cielo e le stelle a guidarli come i nostri Magi, che loro pensano siano della stessa razza perché arrivano dall’Asia, dall’Oriente. Hanno i carri ma soprattutto le Merce-des, i camper e le roulotte, anche se le sequestrano i poliziotti quando sono parcheggiate vicino alle nostre case, ai nostri nego-zi, nelle nostre città. Cosa volete, da sempre ci prendono in giro, ci guardano come degli scemi perché ogni giorno andiamo al la-voro, ci tirano le maledizioni quando non gli diamo l’elemosina, come se fosse obbligatorio! Siamo vilipesi e offesi da quegli es-seri. Ho capito che li hanno sterminati, ma alzi la mano chi non ha pensato – una volta, una volta sola! – a bruciarne qualcuno. Sì, degli ebrei si parla sempre, film su film, il popolo eletto e sfi-gato, loro invece niente, nessun ricordo, nessuna Giornata della Memoria, ci sarà una ragione! Non ditemi perché ne hanno fatto fuori la metà o un quarto degli ebrei. Eppure si accanivano su di loro come sugli altri, nei campi ci sono finiti e sono stati brucia-

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a est del nordest6 il rumantirom

ti, sezionati, torturati scientificamente, per fare esperimenti, eu-genetica la chiamavano. Eppure nessuno ne parla, nemmeno gli ebrei. Al massimo si ricordano di loro nelle omelie dei preti più spaccaballe e negli articoli strappalacrime natalizi, la piccola Iri-na, la triste Giulia, la sfortunatina Daniela, cinque, sei, otto an-ni, che camminano per ore per andare a scuola, e prendono i bus per poi tornare nelle loro baracche di periferia e di cartone, sot-to i ponti, con la stufa a legna o quella a gas che rischia sempre di esplodere e di uccidere qualcuno. E poi vedi le foto di quei tuguri e hanno sempre la tv con lo schermo piatto e il mangia dvd che neanch’io posso permettermi, sicuramente rubato! Per questo ci passiamo sopra con le ruspe. E non veniteci a chiede-re di metterli in una casa popolare che non c’è posto nemmeno per i nostri, per quelli che pagano le tasse. I campi attrezzati? Gli darei io il campo… col campo quelli ti fanno subito un accam-pamento e chiamano zii, cugini, nonni, nipoti, in pochi giorni ti ritrovi in cortile una tribù, puzzolente per giunta. No. No. Lo so che non li capiamo, proprio non capiamo come si può vivere vi-cino a una discarica dove i rifiuti fumano per autocombustione e i loro bambini ci razzolano dentro per rubare qualcosa, oppure in un parcheggio di una tangenziale. Ma a loro piace così, sono arrivati col Sultano ottomano per battere il ferro e fare pentole mezzo millennio fa e ora girano con la Mercedes o il camper al posto dell’asino o del cavallo. Non sono vittime! Non sono vit-time perché non sono e non vogliono diventare come noi. Ci ac-cusano di essere schiavi delle cose e loro invece sono liberi come l’aria, hanno la musica, i balli, le storie e i fuochi, i matrimoni e le feste, le famiglie e i ricordi di tanti posti. Che si fottano! Che stiano fuori dalle palle. E poi questa storia assurda, che hanno il nostro stesso nome, basta, stop, niente più rom, solo zingari, al massimo gitani li dovranno chiamare. La Romania è un’altra co-

sa. Non vogliamo confonderci, mischiarci con loro, noi siamo cittadini europei e loro sono solo dei nomadi, degli accattoni, dei bugiardi, dei ladri. Dicono che tutti quanti arriviamo dai Roma-ni!!! Siete fuori di testa, tutti quanti, la crisi vi ha mandato nel pallone, avete bisogno innanzitutto di nemici. Sono loro quelli scuri, sporchi, poveri, l’uomo nero che passa e va, che si nascon-de vicino alle scuole per rapire i tuoi teneri bambini per poi but-tarli in mezzo alla strada a farli mendicare o peggio… Noi siamo diversi, noi siamo rumeni e loro non sono più rom, no, c’è una legge. Chiamateli zingari, singani, gipsy, ma non rumeni. Noi sia-mo diversi. Noi siamo europei».

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Porte di Ferro

Uno ha in mente un castello protetto da un ponte levatoio e da un portone gigante spesso e cigolante. Là, in fondo, stava invece una strada d’acciaio lunga cinquecento metri più o meno, larga cinque, alta chissà quanto, forse dieci. Chissà cosa doveva essere secoli fa, ai tempi dei Romani. Oggi è una diga mastodontica ma tutto som-mato placida, come l’acqua che fermava e indirizzava a tonnellate producendo da grandi turbine l’energia elettrica per rifornire in-nanzitutto i cento lampioni che la segnavano. Di là iniziava la Ro-mania.

Ce l’avevo fatta, dopo due giorni e 1100 chilometri ero arrivato al confine, di là iniziava il mio vero viaggio.

Mi sentivo svuotato, senza più un obiettivo e con l’acuta con-sapevolezza che tutta quella galoppata non avesse senso. Potevo pensarci prima, eh? Questo è il problema quando fai da solo, puoi prendertela solo con te stesso e devi contare su una persona che purtroppo conosci abbastanza bene, sai quanto è debole, incerta, volubile. Stupida. Che poi stia scrivendo su quel viaggio mi po-trebbe far capire che qualcosa sia servito, ma poi sarà pubblicato? E apprezzato? E citato?

eee eeeeee eeeeeeeee, niente sirene in giro, nessun incanto femmineo, solo il caldo e l’asfalto della strada che saliva sulle Por-te di Ferro. Bandiere svolazzanti, poche auto e ancora meno tir per strada, sembrava che i più scegliessero altri varchi per entra-re in Europa, che quella fosse proprio una frontiera militarizzata e

super controllata come le garitte e il muso dei poliziotti voleva far credere. Alzai le spalle, potevo anche sputare per terra come un vero cowboy, non lo feci. Non avevo nemmeno il cappellone, solo un cappellino da baseball di lanetta che mi proteggeva sì dal sole quando non avevo la cappotta come in quel momento ma mi face-va bollire anche il cervello, come in quel momento. Niente da fare, c’era in me sempre un sottofondo di imbecillità che non riuscivo proprio a togliermi, un che di naïve che ritornava sempre a galla, per questo forse non ho fatto mai carriera.

Mi feci forza e mi presentai alle forze dell’ordine che scrupolosa-mente ispezionarono dappertutto questo viaggiatore in spider, fa-cendomi aprire cofano e sportello dietro, aspirando gli odori e cu-riosando sulle mille stronzate depositate in un’auto che sembrava piccola ma che aveva tanti anfratti dove le cose sparivano per secoli e ricomparivano dopo millenni tipo paradossi quantistici o punta-te di Lost. I doganieri serbi erano vestiti di blu scuro e avevano la faccia scanzonata, capivi che erano lì per dovere ma che se entrava anche un dinosauro o un carretto di cocaina a loro interessava gran poco. Quelli rumeni, non appena individuata la targa italiana, in-vece si diedero un gran daffare. Deve essere lo stesso meccanismo che si innesca quando vai in un locale nuovo e paghi e quelli ti dan-no lo scontrino, ti chiedi se sembri uno della Finanza o se sei stato sorteggiato per vincere il premio regolarità dopo un’evasione dura-ta due ore. Ecco, io ero l’evaso dall’Est verace e ancora turbolento che rientrava nell’alveo dell’Unione Europea e veniva controllato accuratamente per essere riaccettato nel mondo civile.

Questo pensavano i ragazzi col mascellone e le mostrine della nato in Romania mentre esploravano la mia auto sempre più per-plessi non solo perché non trovavano i chili di droga che sospetta-vano avessi contrabbandato dal Kosovo in Serbia per poi rivender-li a Costanza sul Mar Nero dove imperava la festa modello Rimini.

porte di ferro

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a est del nordest 1porte di ferro

Era ovvio, quella era una rotta classica dei trafficanti di droga, anda-re verso la Turchia invece che verso l’Italia per confondere le acque, dare le vertigini e provare le capacità delle attente forze dell’ordi-ne appena entrate nella grande famiglia della legalità. E poi cosa ci faceva una spider al loro confine, che cosa aveva in testa quel defi-ciente che si fa mille e passa chilometri per venire da Noi? No, no, doveva esserci un trabocchetto, un secondo fine. L’unica altra spie-gazione è che dovesse sposarsi una delle nostre ragazze, magari una del paese. Pensiero che moltiplicò i loro sforzi per trovare qualche problema, venivo anche a rubargli le donne, io, così pasciuto e ricco da ostentare una vecchia macchina quasi arrugginita!

Alla fine il caldo li vinse e mi mollarono. Ero solo quello che sembravo: un pistola che invece di andare a farsi una vacanza in Costa Smeralda, a Cortina o a Taormina, era venuto lì a rimor-chiare. Chissà cosa avrebbero detto e pensato se mi avessero vi-sto due giorni dopo ripassare da lì. Ma non lo farò, cari, io esco dal vostro Paese più in basso e vi lascio con un palmo di naso e la sensazione che possa avervi contrabbandato chili di eroina sotto il naso. Piuttosto, non è che davvero qualcuno me li ha nascosti nel serbatoio a mia insaputa, magari nella città mineraria, e ades-so sto rischiando la galera? E in Romania non scherzano pro-prio. «Da noi non è come in Italia, qui c’è la certezza della pena, e quando finisci in gattabuia – si dice così?! – ci stai per tutta la condanna, e senza tante comodità. Niente tv, acqua solo fredda d’inverno, e poche visite. Ti raccomando poi le prigioni, se stan-no ancora in piedi è un miracolo, ma la nostra polizia si fa rispet-tare», mi aveva spiegato a suo tempo Gregorj (nome di fantasia), ex poliziotto che ora fa il muratore nel mitico Nordest, uno che mi ha fatto sempre pensare a un agente segreto della Securita-te malgrado il sorriso largo e avvolgente e le spalle poderose da pugile. Non so perché, ma quell’uomo così concreto e attivo mi

sembrava troppo preparato per essere stato solo un manovale nel suo paesino vicino a Timişoara.

Era in Italia da quindici anni, aveva imboccato la strada inver-sa delle fabbriche del Veneto e l’aveva fatto in clandestinità, ov-viamente. La sua storia era appassionante e piena di buchi, come quella di molti suoi compatrioti che ora avevano una famiglia e una vita alla luce del sole e allora scappavano innanzitutto da loro stessi e da un sistema, credo. Non erano convinti che il comunismo fos-se veramente finito, anche perché al governo c’erano gli stessi di prima, spiegavano a mezza bocca. E loro lo sapevano bene. Come sapevano bene come si viveva ora in Romania. Ogni mese spediva-no quei 200-300 euro che servivano a mantenere un figlio, una mo-glie, una madre e qualche parente maschio alcolizzato. In cambio ricevevano notizie e aggiornamenti dal fronte dello sviluppo e della crisi, che da loro mordeva di più, con rivolte di piazza (incassa tu un taglio degli stipendi del 25%) ma che in fin dei conti assorbi-vano anche con disincanto balcanico: «Noi a penare ci siamo abi-tuati, prima c’era la crisi, ora è tornata, ci arrangeremo». E quindi quando scoppiò la polemica sugli immigrati, presi, ripresi, depor-tati e rilasciati, sorridevano: «Voi europei siete così, gridate, vi lan-ciate in crociate e poi ve ne dimenticate per un’altra emergenza. Non avete capito che con noi dovrete sempre aver a che fare, che noi siamo il vostro presente e, temo, il vostro futuro». Che cosa in-tendi dire Gregorj? «Tu lo sai bene, Mauricio, la questione ora è se voi diventerete come i rumeni o noi come gli italiani, o, per meglio dire, se tutti diventeremo come i cinesi oppure i cinesi come noi».

Nel frattempo i cinesi s’erano accampati di fronte alla loro am-basciata a Bucarest come dei terremotati, sbattuti fuori dai can-tieri dell’edilizia arrembante della capitale dopo esser stati fat-ti entrare di contrabbando senza passaporto. Chiamala se vuoi, globalizzazione.

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Lo zio

«Qui, come in tutto l’Est, quello che conta è solo il denaro. For-se era così anche prima, quando c’era il comunismo, ma ora non hanno più scuse ideologiche, mirano solo ai soldi. Neppure al po-tere, quello arriva dopo. Paghi e puoi avere tutto. Come da noi, in Occidente. In tv vedi i ragazzi in fila per farsi assumere come po-liziotti e ti dicono candidamente che lo fanno per poi taglieggiare gli automobilisti o i commercianti, in divisa ti viene meglio. Certo, ci sono anche brave persone, ma la società è malata o distratta o solo ectoplasmica. Io mantengo dei vecchietti che altrimenti non potrebbero sopravvivere, qua le pensioni sono bassissime, non ri-esci a campare e la gente si deve arrangiare, per fortuna ha l’orto. Ed è abituata. Lo faceva prima con Ceauşescu, lo fa ora con que-sti qui che comandano, e sono sempre gli stessi, si sono solo pal-leggiati i posti e si fanno la guerra a colpi di scoop e inchieste, ar-rivando a manovrare le indagini e anche le tv. Ma sono storture che non ci dovrebbero sorprendere molto, non le vediamo anche dalle nostre parti, in Italia?

Qui a Bucarest ho comprato una trentina di palazzi, in centro, di quelli liberty, bellissimi un secolo fa, ora sono cadenti. Stanno lì, aspetto che passi questa crisi, appena riparte il mercato, e non sarà prima del 2012 o del 2013, io vendo. Sono un contadino del mattone, prendo e aspetto che il raccolto germogli, con pazien-za, arriva sempre il momento. Però non ristrutturo, non coltivo il mio orto, lascio ad altri il lavoro, io cerco solo di intuire quale sa-

rà il posto giusto, il gusto che verrà, e per far questo devo capire lo spirito di un posto, la sua gente. E questa è una città semplice, che vive su un paio di boulevard e poi si irradia intorno, la per-corri e capisci i centri di potere e d’espansione, le vetrine di oggi e del futuro, le speranze e dove andranno. Ma è così che si fanno gli affari immobiliari, o meglio, è così che mi diverto io. Patti chiari e amicizia lunga. Come con le donne. Io le pago, tutte, da vent’an-ni. Prima no, arrivavano a frotte, facevo il dj con Vasco Rossi e poi gestivo discoteche, anche dalle vostre parti, e le ragazze ti as-sediavano. Pensavo perché ero bello, anche adesso me la cavo che ho quasi sessant’anni, ma allora ero meglio, sembravo un india-no d’America. Poi, con gli anni, ho capito che le donne c’erano perché avevo una posizione, un ruolo, un potere. Forse loro sono più basiche, o hanno capito cosa conta, comunque puntano an-che inconsapevolmente al sodo. E allora mi sono adeguato: pago e le saluto, senza tante storie e romanticismi. Sono pronto anche a farmi pagare, mi piace la democrazia, ma fino a oggi m’è succes-so solo una volta di far la parte dell’uomo oggetto, divertente, ma non offriva abbastanza. Il mio non è maschilismo, è solo chiarez-za. A me le donne piacciono, ho un sacco di amiche che vorreb-bero anche mettersi con me, ma le stoppo subito quando metto in chiaro le mie condizioni. Certo, questo per ora non mi ha per-messo di farmi una famiglia ma arrivando dalla mia era ovvio, mio padre lo stavo uccidendo perché continuava a pestare mia madre, mi ha fermato mio fratello altrimenti ora non sarei qui. Ma ci cre-do ancora, tanto che sto pensando di adottare una figlia, qui in Romania e in Russia un single lo può fare, basta pagare. Presto concluderò tutte le pratiche, sarà una bambina, le ragazze sono più affettuose e anche intelligenti. Le farò fare le scuole migliori, gli sport che vorrà, nessun autoritarismo, nessuna violenza come quelle che ho subito io, ma dialogo vero, profondo, limpido, al-

lo zio

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a est del nordest

la pari. Non le imporrò niente ma potrà fare tutto, all’età giusta, s’intende. Tanto io lavorerò ancora una decina d’anni, non credo di vivere di più, non mi interessa diventare un vecchio inutile. Mi son già messo d’accordo con mio fratello, se dovessi morire toc-cherà a lui la potestà della piccola.

Nel frattempo mi piacerebbe anche fare il prete; qui in Roma-nia si può, è una specie di tirocinio, ti metti in tonaca e puoi anche celebrare messa, basta pagare. Ho un amico pope a Timişoara, un tipo simpatico, che insieme a dei colleghi va ogni tanto anche in un bordello su un lago, ragazze bellissime e santità, non male. Qui è diverso dall’Italia, i pope si possono sposare, fare figli, avere una famiglia, e anche farsi un’amante, c’è meno ipocrisia che in Ita-lia, dove sono costretti a nascondersi, a vivere nel terrore di essere beccati o ricattati, l’inferno in terra. Certo, l’Italia è l’Italia, è bella, si mangia bene, si vive ancora bene; qui è un casino, non hai la cer-tezza di niente, le leggi valgono a seconda del giudice e dell’avver-sario che hai, è un po’ una terra selvaggia. Già, il Far Est come dici tu. Ma è così anche a Mosca, in Cechia, in Ucraina, tutto l’Est è lo stesso paese. L’unica differenza è che alcuni sono in Unione Euro-pea e altri sono fuori, ma non s’è ancora capito bene perché. An-zi, si sa benissimo: c’erano dei debiti geopolitici da pagare, appog-gio durante la guerra in Bosnia e in Kosovo, manodopera a basso costo, un mercato di ventitré milioni di persone da conquistare al comunismo, terra vergine e, soprattutto, arrivare vicino ai confini della Russia, il vero e grande nemico degli Stati Uniti. Lo so, lo so, oggi è più pericolosa la Cina, ma Putin ha più bombe atomiche e chi comanda ha dei tic, viaggia sempre sugli stessi binari, ci sono correnti sotterranee che governano il mondo da decenni, secoli, e anche l’economia. Ora tutti hanno ripreso a scommettere aspet-tando la prossima bolla e sperando che il cerino acceso finisca ad altri. E io osservo e aspetto, faccio il contadino del mattone».

Danubio

Il grande fiume scorre via lento allargandosi nella pianura, cer-co una sponda dove celebrare un bagno rituale, il classico ce l’ho fatta, sono arrivato. Entro senza volerlo a Dobreta Turnu Severin, antica città citata dal generale romano Gaio Scribonio Curione e ora diventata un affastellato caotico di fabbriche abbandonate e case fatiscenti che cuociono al sole. Finisco in mezzo a dei lavori in corso di quello che potrebbe essere il viale principale che fini-sce in una torre da Dracula. Parcheggio. Faccio un giro, niente e polvere, polvere di niente. Risalgo in macchina, torno indietro verso la gigantesca diga e finalmente trovo un passaggio sterrato fino a una casetta. Prima c’era il centro turistico, una sorta di vil-laggio vacanze che qualche imprenditore rumeno s’era inventato per allietare chi non ha i soldi per andare a un vero mare e si do-veva accontentare del grande fiume. Musica a tutto volume, tre ombrelloni, un acquascooter, una specie di piscina e una spiaggia di sabbia riportata. No. Voglio qualcosa di più vero e scendo do-ve c’è un canneto, mi spoglio, metto i piedi nell’acqua giallastra e vengo assorbito da una fanghiglia che mi sa di sabbie mobili, che schifo! Guardo in giro, bottiglie di plastica a galleggiare, pezzi di cartone e di ferro. Salto fuori e realizzo che il grande fiume è di-ventato una grande discarica, che trasporta i rifiuti di milioni di uomini e i detriti di migliaia di aziende, che l’uomo europeo ha cambiato per sempre la natura di questo essere, che oggi è in pe-ricolo, lo sta soffocando. Uccidendo. E anch’io rischio di fare la

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a est del nordest6

stessa fine, non siamo mica sul Gange ad Haridwar qui. Nessuna vacca per strada, niente di mistico, nemmeno uno spirito. Quel-li sono rimasti nelle bottiglie che si scolano al bar, già, una birra forse è meglio della nuotata. Farò un brindisi al grande fiume che sta morendo e avrei rivisto alla fine nel suo Delta, immenso e la-birintico tra pellicani e fenicotteri.

Il poeta

Immortale. Di versi. Diverso. Inverso. In versi. La città antica ha i suoi resti abbandonati. Dimenticati. Ignorati. «La vera ter-ra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli», scriveva Proust. Parlava dell’Italia, il grande delitto della memoria. La terra e la patria lontana di Ovidio, anzi di Pu-blio Ovidio Nasone. Il poeta, lo storico, l’intellettuale dell’Impe-ro romano sepolto da qualche parte qui intorno. A Tomi. Cioè, Costanza. Ma dove? Pazienza che non si sia mai trovata la sua tomba, in fin dei conti era un esiliato, un reietto, un condannato dai tempi di Augusto e Traiano, che qui a Histria – sulle rive di questo mare che invece di essere nero è grigio come le loro ro-vine – avevano delle colonie. Come poi l’ebbero i Genovesi e i Veneziani. Già anche loro stavano sul Mar Nero, ma più a nord, alle foci del Nistro, nell’antica Tyras dei Greci che divenne Al-bum Castrum (Castello Bianco) per i Romani e Asperon con i Bi-zantini (sempre Bianco, eh!) e infine si tinse di nero con i sere-nissimi, che battezzarono quella città lontana, oggi in Ucraina a due passi dalla Moldova, Maurocastro (o Moncastro, cioè Ca-stello Nero che sta sul mare chiuso e scuro). I Turchi nel 1503 tornarono all’antico glauco e la chiamarono Akkerman, i rumeni Cetatea Albă, i russi Belgorod Dnestrovski (Città Bianca del Ni-stro) e oggi, con la fine dell’urss, è in Ucraina ed è denominata Bilhorod-Dnistrovs’kyi.

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a est del nordest

Io, per mutar contrada, o nel levantedonde si mostra la vermiglia aurorao dove cade il sole, o per ch’io morae torni al cielo qual peregrino erranteterrò di voi memoria […]*. Che labirinto, che sapore d’esotico. Ma lasciare tutto incolto, tra-scurato, degradato è un insulto in primo luogo a loro stessi, alla memoria, alle radici di questa terra che tanto è disseminata di lupe romane – ne hanno contate diciassette tra Romania e Mol-dova – e che poi assedia e affoga i resti di quell’antica civiltà di palazzi, casermoni, sterpaglie. Forse i rumeni preferiscono i Daci ai Romani, vogliono essere barbari. Vogliono essere anche in que-sto come noi. Senza memoria e senza cura. Quindi, senza futuro.

*. Torquato Tasso.

Emigrazione e nuvole

La strada diritta è stata smarrita volutamente, c’era da agguantare un altro posto, un luogo simbolo di cui ora non ricordo neanche la storia tanto era fuori dalla mia. E m’infilai in questa campagna piatta e distesa costellata di piccoli alberi, salici, incroci con ster-rati, senza case. Quelle stavano tutte allineate lungo la strada in piccoli paesi che vivevano attaccati all’arteria con queste abitazio-ni tutte uguali, sanguisughe che succhiavano un po’ di movimen-to dall’affaccio d’asfalto per molti chilometri sconvolto anche dal-la realizzazione di fognature e canali di scolo per l’acqua piovana.

Le casette di questi contadini di paese sono tutte uguali, dif-feriscono solo dal colore dell’intonaco – la maggior parte grigie, per questo risaltavano le verdine o le azzurre – e dalle condizio-ni del tetto, che, avrei scoperto più tardi in Moldova, è preva-lentemente di eternit. Amianto. O alluminio. Quello che sembra stagno o lamiera e rifulge al sole simpaticamente è un coperchio di tante possibili bare adagiate per chilometri lungo quella stra-da statale che va verso i Carpazi. Le casette in questione vengo-no spesso ingentilite da inferriate a ghirigori con porte colorate e da panchine di legno dove la famiglia – nonna, nonno, nipoti piccoli, qualche mamma, mai uomini adulti – passa le ore chiac-chierando e osservando i vicini dall’altra parte della strada o le auto di passaggio.

La mia faceva la sua figura passando, suscitando reazioni di-verse in quei posti speduti d’Europa: vecchi che alzavano il ba-

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stone come se stessi spaventando il mulo che tirava il carretto in sosta davanti alla loro porta, o gridolini estatici delle ragazze del luogo sempre alte e sode, maglietta e pantalocini dai colori smor-ti a contrastare le vestaglie e i palandrani dei nonni che le sorve-gliavano. Qualcuna più spavalda faceva anche il gesto di buttarsi in mezzo alla strada – «Signooore, signoreee» – urlavano in un italiano già imparato chissà dove suscitando in me altra meravi-glia: come capivano dalla mia targa Ve che ero italiano? Solo noi possiamo andare in giro per quei posti con una vecchia spider impolverata? O altri cumpà, più trafficanti di me, erano già venu-ti da quelle parti a fare incetta di giovani corpi da buttare in fab-brica o sulle strade dell’Occidente?

Di certo l’assenza totale degli uomini adulti – gli unici incro-ciati due poliziotti che volevano fare gli americani ma che non mi insidiarono per scucirmi una falsa multa – forse era dovuta all’emigrazione massiccia, capillare, penetrante che aveva spopo-lato la Romania negli ultimi dieci anni sia di maschi che di fem-mine tra i trenta e i quarant’anni. Un esodo di milioni di persone – i rumeni che lavorano per lo più come muratori in Italia sono 800.000, almeno i regolari, con famiglie e figli arrivano oltre il milione (erano 437.000 nel 2005), i moldavi la metà – che aveva lasciato indietro decine di migliaia di figli e nonni che avevano dovuto inventarsi una convivenza non sempre riuscita. I giovani spesso angariavano i vecchi, vivevano come scugnizzi per le stra-de, spillando i soldi in arrivo dalla mamma in crisi di coscienza in Italia, Spagna o chissà che posto d’Occidente, snobbando gli anziani spesso stanchi e disillusi dopo tanti crolli di regimi e illu-sioni di regime. Per non dire del salto nella modernità che ave-va preso i fratelli maggiori finiti a Bucarest o a Parigi, che quan-do tornavano era come se fossero stati in Amerika. In pochi an-ni – dieci, quindici – un mondo, una società era stata spazzata

via come se fosse passata una tempesta, una peste, un caterpillar. Equilibri vecchi di secoli appena sfiorati dal comunismo, che in fin dei conti attaccava la gente alla terra in cooperative e istru-iva i suoi cittadini in scuole selezionate, erano stati frantumati dall’impellente necessità dell’oggi e dal sogno di un futuro mi-gliore. Un’emigrazione di massa che s’è cercato di invertire con bonus e vantaggi ma che la crisi economica – che in Romania ha colpito durissimo – ha volatilizzato come sogni al sole.

Mihai a metà del 2008 aveva salutato tutti, soprattutto il can-tiere edile dove lavorara, ed era tornato in Romania per aprire un negozio di pneumatici, meglio del solito bar o del tabacca-io d’angolo. Un’attività vera, da gestire e far prosperare a testa alta dopo gli anni di duro lavoro e sacrifici in Italia. Ma la crisi ha tagliato le gambe delle sue illusioni, la concorrenza straniera aveva già occupato quello che doveva essere il suo spazio vitale di lavoro, ed è tornato in Italia. Come altri 130.000 suoi concit-tadini. Che sono andati a ingrossare l’esercito dei lavoratori si-lenziosi e limitrofi, quelli che trovi nelle case come badanti e nei cantieri come muratori, nelle officine, nei campi. Gente che ogni anno manda in Romania 22,3 miliardi di euro (dato 2009), 15,2 nella sorella Moldova, e chissà quante famiglie come quelle che mi scorrevano vicino sono tenute unite da questo cordone om-belicale lontano.

«Io sono tornata tre anni fa, ma se potessi… non me ne sarei mai andata. Lavoravo a Jesolo, conosci Jesolo? Sta sul mare». Già, conosco Jesolo e anche quel mare, ma tu invece come fai a conoscerlo così bene? Lei avrà trent’anni, i capelli del biondo balcanico, cioè un po’ slavati, e il viso pallido arrossato dal caldo micidiale di quel posto abbandonato da Dio dove mi ero ferma-to per capire dov’ero. Il bar sta all’angolo della strada principale e prima di un quartiere di palazzoni tutti uguali. Ha una veran-

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da con gli ombrelloni e una sala senza condizionatore. Lei, Irina, spunta da una specie di finestra circolare che arriva direttamente dalla cucina. Mi vede boccheggiante, mi sorride e subito mi parla in italiano, devo averlo scritto in faccia che sono italiano e non è che la cosa mi faccia piacere: «Facevo la cameriera anche là, solo che prendevo dieci volte di più e vivevo in un bel posto, si lavo-rava duro, dodici ore al giorno, ma c’era tutto. Anche le disco-teche». Faccio fatica a pensare a Jesolo come al Paese di Bengo-di, poi mi guardo attorno, il vuoto della sala, le pareti con poster anni Ottanta e la gente fuori, quattro birre al bar, e sto zitto. Lì proprio non c’è futuro, l’unica è sposarsi qualcuno di bravo e ti-rare a campare facendo famiglia sperando nei figli, che possano conquistare quel sogno che lei ha dovuto lasciare per chissà cosa (permesso scaduto? Angherie? Minacce?). «Prendevo un sacco di mance, la gente era gentile, tutti quei tedeschi… a proposito, vuoi qualcosa?», lo chiede come distratta, come se non fosse più abituata agli avventori o non sapesse cosa potermi offrire, quasi vergognandosi del posto dove era finita e di se stessa. Ringrazio, prendo semplicemente dell’acqua. Lei sospira: «Avevo imparato anche a fare lo spritz, conosci lo spritz? Buono, eh!?».

Già, lo spritz. Pubblicità e sballo, party quotidiano. I ragazzi in Italia si riempiono e ciacolano, ciacolano, si guardano, si an-nusano, sciolgono quell’imbarazzo strano che hanno anche fra di loro, come se non fossero più abituati a guardarsi in faccia, a vedersi i brufoli o il colore degli occhi. Saltano da un lavoretto all’altro, dal designer al magazziniere del supermercato per man-tenersi all’università e vivono in cinque, dieci per casa, due per camera, comuni di precarietà. Trafficano, tastano, sperano. E do-po la laurea triennale fanno la biennale, e dopo lo stage, il ma-ster, un praticantato lungo e continuo, come lumache scivolano lentamente da un posto all’altro, da un anno all’altro, cercando

di trovare requie, sicurezza. Ne hanno una sola: i loro genitori. E l’ombelico così si perpetua, s’allunga, s’attorciglia lasciandoli sempre lì, sulla battigia. Guardo Irina, così si è presentata, i suoi occhi chiari, troppo chiari, e ascolto ancora: «Non vedo l’ora di tornare da voi, non sai per caso di qualche lavoro, anche in ne-ro?». E mi sembra di parlare con una ragazza veneta come tante, una di quelle che si vedono offrire 200 euro al mese per fare la commessa, sabati compresi. E ringrazia che ti voglio dare un la-voro. Ringrazia di vivere, anzi, di sopravvivere Irina. Jesolo non è il Paese di Bengodi, ed è sempre più vicina alla Cina. Ma qui è sicuramente peggio. E tu lo sai bene.

6emigrazione e nuvole

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Il contadino

«Mi hanno dato un milione. Di euro. Per un pezzo di terra che avevo pagato tremila marchi. Euro. Marchi. Un milione. Tremila. Pazzesco questo capitalismo, veramente fanno crescere i soldi dal nulla, come le pentole d’oro. Ora ho messo tutto in banca e il di-rettore mi guarda in modo diverso anche se puzzo come prima di campo e merda. Mi parla, mi dà consigli. I soldi cambiano vera-mente tutto, ti fanno scoprire un sacco di possibilità e di persone. Sono proprio pazzi questi italiani. Sono arrivati qui, hanno guar-dato le cartine, hanno visto che il fiume era vicino, per modo di dire, pero c’era. E hanno fatto la loro offerta. Un milione di euro. Non so nemmeno cosa faccia in lei, credo un sacco di zeri dopo il quattro. So solo che ora sono ricco e non devo più spezzarmi la schiena tutto il giorno su quella terra avida e dura. Non ho ancora capito cosa devo fare anche se il direttore mi dà un sacco di con-sigli. Altri amici hanno preso tanti soldi dai loro campi – questi occidentali hanno proprio la mania della terra, si vede che anche loro prima erano tutti contadini – e si sono comprati una casetta, una bella auto e hanno iniziato a passare il tempo al bar. Non sa-rebbe male, anche se poi dopo tre anni si sono ritrovati col culo per terra. Ma io sono diverso. Io non mi farò incantare da questi serpenti e girare la testa, io. Io e la mia vecchia staremo tranquil-li per tutta la vita, la casetta, magari col riscaldamento finalmente sempre acceso e non a legna come prima. E anche un’auto, quella si servirebbe, per poter andare in paese e anche più in là, maga-

ri in città, a Caracal, forse anche a Bucarest. No, no, lì c’è troppa confusione, lo vedo in tv. Ecco, una televisione di quelle grandi e piatte da mettere in salotto, ecco un bell’acquisto. Mi consiglierà quella signorina così gentile che sta al supermercato, giovane, che sorride sempre. Magari con questi soldi posso anche invitarla fuo-ri a bere un caffè, un giorno. Mi metto il vestito buono, mi com-pro le scarpe italiane, quelle Geox che pare siano così comode, e la vado a invitare. Prima però compro la televisione, così capisce che ho i soldi in tasca, che ormai sono uno importante, che ha un futuro. Che bello essere ricchi, cambia veramente tutto. Di den-tro e di fuori. Benedetti quei pazzi di italiani!».

6il contadino

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Verso nord

Torno indietro ma come al solito non dalla stessa strada, mai tornare sui tuoi passi, anche se qualche volta è molto più intelli-gente. Come quella. M’infilo infatti in una carretera stravolta dai lavori in corso dove la coda si aggiunge a coda, il passaggio è a un solo senso di marcia, la gente lavora indefessamente da una parte e dall’altra in un continuo sfilare di tubi, canali, ponticelli di cemento, scavatrici, gente a torso nudo bruciata dal sole, per-sonaggi col caschetto che indicano, polvere, polvere, polvere e sete e sole che sembra di essere in un deserto ma sei in una delle grandi e decisive strade fondamentali per arrivare a una città e intorno hai le solite casette, i soliti alberelli striminziti e una stra-da sconvolta assistita curiosamente dalle facce dei vecchi che ci vivono. Credo che per loro sia più la goduria di aver qualcosa da raccontare che la rottura di palle di mangiarsi polvere e rumori per giorni e giorni (a vedere come procedono i lavori). Chissà quante storie si incrociano standosene comodamente seduti lì, molte di più di quelle che mi perdo standomene scomodamen-te seduto qui, indeciso se alzare la cappotta per difendermi dal-la polvere e tenerla giù per rinfrescarmi da non si sa cosa. Nel frattempo guido a passo d’uomo e scruto nervosamente la car-tina sperando di uscire da quel budello o cercando di trovare strade alternative. Non mi importa dover scodinzolare in mez-zo alla campagna per ore, voglio solo salvarmi da quell’incubo a cielo aperto. Ma le alternative non esistono, dovrei tornare sulla

strada maestra di prima e nel frattempo sono finito nel mezzo di quel flusso a singhiozzo, non posso andare né avanti né indietro, proprio come se fossi prigioniero della folla, fossi finito in quel-la manifestazione, in quell’oceano arrabbiato che vent’anni fa…

6verso nord

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Il rivoluzionario

«Non ne posso più, non mangio da giorni, fa un freddo cane, ci hanno lasciati soli, ci hanno abbandonato. Lui ci deve ricevere, ci deve salvare, deve ascoltarci non può far finta di niente. Urlo, e come me altre migliaia. La piazza davanti alla Casa Bianca scop-pia di gente. Siamo arrivati dappertutto, dalla provincia, dalle miniere, dalle periferie, dall’altro mondo per chiedere al segreta-rio, alla nostra guida, a Ceauşescu, di dar da mangiare al popo-lo e dopo anche un po’ di democrazia. Da dieci giorni il Paese è sconvolto, è come se un terremoto avesse scosso l’edificio ru-meno dalla fondamenta scrollandolo ma senza farlo cadere. Tut-to rimaneva in piedi ma era sull’orlo del baratro. Una situazione assurda, disperata per chi a casa ha due bambini e una moglie da sfamare e fa il minatore come quelli che stanno arrivando a frot-te, un esercito dicono. Una situazione molto interessante, surre-ale direi, per un drammaturgo come me che ha lo stesso nome di uno importante scappato all’estero, in Occidente, svangandosela da tutti i problemi e le illusioni di questo comunismo diventato sempre più straccione, quasi peggio di quello albanese. “Dacci la paga, dacci quello che ci spetta, porca puttana”, urla il mio vici-no insieme ad altri mille mentre la rabbia monta come un’onda e preme, preme. Poi appare il Conducător. Un vecchietto raggrin-zito appeso a un cappello più grande di lui e a una moglie incom-bente oltre che grassa. Le urla si chetano. Lui inizia a gracchiare dal microfono, la sua voce rimbomba e si diffonde da ogni par-

te, rimbalza, echeggia sempre più stralunata, lontana. Dice paro-le ma non hanno un senso, è solo un discorso, il solito schifoso e maledetto discorso! “Basta, basta, vogliamo il pane!!!”, urlo in-sieme ad altri duemila, tremila, cinquemila, “Finiscila, buffone di m…”. Si alzano i pugni, i cari e vecchi pugni del comunismo, loro rivendicano diritti, il primo, basico, sopravvivere. E lui de-ve dare una risposta, risolvere. Distende le palme delle sue mani ossute verso di noi, le fa ondeggiare come se ci volesse calmare con un fluido misterioso ma non sento niente, nulla. In cinque-mila iniziamo a fischiare e il sibilo rimbomba nei microfoni che strategicamente gli agenti del kgb entrati pochi giorni prima co-me turisti (duemila turisti la Romania di allora non li aveva mai visti) hanno piazzato ai bordi della piazza, allargandosi, ampli-ficandosi, avvolgendolo, e strozzandolo. Lui diventa paonazzo, non capisce, non può capire, ma come? I suoi figli, i suoi suddi-ti che l’hanno sempre adorato, rispettato, temuto in quei venti-cinque anni, certo, non lo avevano fatto presidente a vita per la ribellione di quei due partiti comunisti fratelli occidentali, ma comunque è sempre lui, il Conducător, il loro duce. Sua moglie, la bastarda sanguinaria, lo prende per un braccio, cerca di sco-starlo, lo vuole spingere indietro ma lui fa resistenza, ma come? Come? Che succede? Balbetta e non capisce. Sono a bocca aper-ta come lui, che dramma, la Storia. Poi arrivano dei nerboruti di quelli che girano sempre con gli occhiali e la pistola in fondina e lo prendono di peso. La folla applaude, scrosciante, liberatoria, dagli al buffone, dagli all’untore, dagli al dittatore.

Due giorni dopo avrei assistito al processo e alla fucilazione in tv. Non sarei stato soddisfatto né felice. Non sarebbe cambiato niente. La mia tavola era ancora vuota e lo sarebbe rimasta anco-ra per molto, molto tempo».

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Craiova

Mi scossi, i clacson rimbombavano, tutti protestavano contro quei lavori e quella coda soffocante, ma nessuno riusciva a muoversi d’un passo. Il mondo che va veloce era rimasto imbottigliato nel-la modernità e ora bestemmiava, come vent’anni prima, contro un potere imperscrutabile, lontano, sostanzialmente beota. Bella me-tafora. Ma io lì c’ero, e volevo uscirne al più presto e vivo, porca troia. E sgommo, e parto, e arrivo a Craiova.

La città era polverosa e definita da quella assurda torre che sem-brava vecchia ma era in cemento. Tutte le strade ruotavano at-torno a lei e al centro commerciale specchi e vetro che avevano costruito lì vicino. Entrai nella torre, androne dimesso, scala di legno, fili elettrici sospesi, nessun pipistrello e nemmeno un Dra-cula, il suo castello – quello di Vlad – era molto più a nordest ed era già diventata un’attrazione per turisti, con gusto anche. Quel giorno c’era la neve che si scioglieva dal tetto creando un ritmico rintocco nel cortile di pietra. La foresta vicina respirava con la pri-mavera che stava arrivando e la croce di pietra scolpita di facce e segni sorvegliava la dimora arcana e il mercatino di cianfrusaglie per i turisti. Ma lì, a Craiova, imperava il caldo e un sogno di viag-gio che poteva diventare una chimera.

Mi aggiravo per quella città cercando una storia, un’idea, uno spunto per giustificare di essere arrivato fin lì, mille e passa chilo-metri bisogna pur farli per qualcosa, o no?! Il centro aveva anche una via pedonale con qualche negozietto ai lati, vestiti, elettrodo-

mestici, gli onnipresenti telefonini. Una signora col fazzoletto in testa vendeva mais arrostito, tre suonavano nenie tzigane convinti e sudati, due ragazzi stavano vestiti di tutta moda – jeans bucati e occhiali da sole panavisor – e parlottavano occhieggiando le rade ragazze che passavano. Spacciatori, pensai. Chissà cosa pensava-no di me, che lì in mezzo ero il più improbabile, nemmeno pote-vo passare da imprenditore del Nordest messo com’ero, pantalo-ni di lino chiari a mezzo ginocchio, maglietta sporca e infradito. Avevo bisogno di ricaricare le pile del cellulare, chiesi un po’ in giro, alla fine un negozio di fotocopie ospitò la mia richiesta sen-za fretta e soldi, c’era ancora della gente gentile a questo mondo. Uscii nella vampata del secondo pomeriggio e intravidi dall’altra parte della strada un bugigattolo con una vetrina polverosa e una scritta in rosso. Ceasornicar. Mi ci tuffai subito per scoprire che era un orologiaio, un vecchio tecnico piegato sul suo banchetto pieno di pezzi e rotelle e arnesi, con in testa una specie di lampa-dina e all’occhio una lente d’ingrandimento. Mi venne in mente il ciabattino di Cattaro in Montenegro, il fornaio di Valona in Al-bania, la venditrice di formaggi a Shanghai, e mille altri artigiani sparsi per il mondo, gente che continua a fare il suo lavoro con le dita e l’attenzione come cento, mille anni fa. Dinosauri di un’era di mestieri fagocitata da quella delle professioni e delle macchine che ancora resistevano in quelle piccole riserve del dettaglio, del tocco, del su misura che la grande ondata della modernità post e trituratutto non era riuscita a sommergere perché non era conve-niente o solo per la classica distrazione del mastodonte. No, non erano dinosauri ma formiche, laboriose formiche del lavoro mi-cro che anche da noi stavano riemergendo dal passato per fare le rammendatrici, le sarte, le tiraossa, i meccanici di biciclette come faceva mio padre subito dopo la guerra nella pianura mantovana, tra zanzare e mais.

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Cercai di scambiare con lui qualche parola, come al solito c’era il problema della lingua: io non so il rumeno e i rumeni in genere non sanno l’inglese, tranne qualche giovane. «Ah, ma sei italiano, io ho lavorato dal 2001 al Nord, a Verona, come fornaio», mi disse lui troncando i miei esercizi da alfabeto muto e le mie espressioni onomatopeiche. Come al solito, loro quando imparavano l’italiano lo facevano bene e anche sul dialetto si battevano alla grande. Che coincidenza! Che segno del destino, lavorava nella mia stessa cit-tà di nascita quest’uomo col nome altisonante – Costantino – e lo sguardo fiero e pieno di chi ha negli occhi la sua vita e il suo cuore. Costantino un Grande.

«Mi pagavano bene, ma era un lavoro duro e sempre uguale, sai come siete fatti voi del Veneto, poche ciance e molta sostanza. Mi hanno sempre trattato onestamente ma senza attenzione: finché lavoravo tutti amici, poi usciti dalla fabbrica ognuno per sé. Non è che si guadagnava tanto, 50-60 euro al giorno, ma ne pagavi 20 d’affitto e c’era il mangiare. Ho deciso di tornare a fare il lavoro di mio padre, quello che m’aveva insegnato: ora guadagno di più in proporzione e campo bene. Questo è il mio Paese, questa è la mia gente. E qui mi sento veramente importante, servo a qualcosa. An-che se quando c’era il comunismo si stava meglio, col mio lavoro da orologiaio in sei mesi un’auto me la compravo, oggi invece…».

Lo avevo capito subito dalla processione di gente che buttava l’occhio dentro, che chiedeva lumi su un orologio elettronico sca-rico, che portava la cipolla del nonno, che chiedeva informazioni sull’autobus. C’era il ragazzo sluccato che pensava di aver fatto l’acquisto del secolo beccandosi il solito bidone che s’era subito fermato e il bambino spedito dalla madre a mettere a posto l’oro-logino da polso placcato d’oro che si guardava in giro come se fos-se in un paese strano, quasi magico, proprio come me che mi ero seduto al fianco dell’uomo. Ma non potevo rimanere troppo in

quel posto microbico dove c’era tutto quello che gli occorreva ed era spesso dietro di me. Lo salutai e ringraziai, avevo rotto la mia solitudine e imparato qualcosa.

Baldanzoso per il successo ottenuto ripresi ad aggirarmi per Craiova passando davanti a un vecchio palazzo semi diroccato sti-le liberty che aveva una grande scritta sul lato della strada e un piccolo giardino. Mi intrufolai soprattutto per respirare un po’ di fresco, scoprii di essere finito in una biblioteca e nella sede del par-tito socialista rumeno, gli eredi dei comunisti di Ceauşescu. Ma soprattutto in un luogo strano dove le pareti si moltiplicavano in un labirinto dove anch’io mi perdevo. «È un gioco di prospetti-va molto in voga negli anni Venti, spesso nei salotti di allora delle famiglie altolocate piazzavano due grandi specchi di fronte e co-sì creavano questo gioco di rimandi che, se guardi bene, potrebbe farti apparire il fantasma della casa». La signora Rita sorrideva, il sole era ancora ben alto e non avevo certo paura, ma di notte, in quel salone spoglio, un lume di candela poteva sicuramente diven-tare uno spirito tormentato.

Poi finimmo nella biblioteca, a bere acqua per scacciare la sete in-fernale di quel giorno caldissimo e di quel posto chiuso e a raccon-tarci le nostre vite. La mia a dir la verità non tanto, era molto più in-teressante sentire la sua, di quella signora di mezza età – in Italia non si potrebbe mai dire oggi di una cinquantenne, questo perché ormai un umano, donna o uomo che sia, rimane giovane fino a passare nel-la categoria di anziano – che aveva attraversato il comunismo e la ri-voluzione “liberale” per finire in Europa.

«Mio padre era un anticomunista, è stato in prigione per sette anni, un giorno è sparito e non è più tornato per altrettanti. Mia madre non pianse, almeno davanti a me, non si fece vedere inti-morita. Io non potei fare l’università di commercio estero, era vie-tato per i parenti di quelli che il regime chiamava criminali, e mi

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iscrissi a lingue. Per questo so il francese e curo questa biblioteca fondata nel 1999 grazie alle donazioni e all’appoggio di un grande intellettuale rumeno. Sopra sta la sede del pds, il partito socialista, i vecchi comunisti. Qui in Romania non è cambiato niente» rac-conta asciutta. «Comandano ancora i comunisti e gli ebrei. Noi siamo schiavi del potere come nel resto dell’Europa. Però si vive meglio di prima perché si può andare all’estero».

Lei è stata a Parigi, ha coronato uno dei suoi sogni. Peccato poi che da un po’ d’anni non si muova più perché non ha soldi abbastanza, lo stipendio da bibliotecaria è quello che è, e lei sta mettendo via risparmi per far studiare all’estero i suoi figli. E per fortuna i suoi le hanno lasciato una casa, perché altrimenti sareb-be stata dura pagare un affitto. Rita che ti dice di essere felice ma sembra malinconica perché non ha più vent’anni e un mondo da-vanti ma solo ricordi da perseguitata e una vita che deve accon-tentarsi dell’oggi, di fare la guardia a migliaia di libri e ad aspet-tare che passi qualcuno a volerli leggere, sempre di meno perché «i ragazzi preferiscono il cellulare e Google al leggere, che è no-ioso e solitario, loro vogliono conquistare la libertà e li capisco, con tutta la tv che vedono». Rita che vede male l’Italia ma poi si corregge perché alla fin fine siamo un grande Paese con un sacco di storia. Rita che ha gli occhiali ed è rotondetta e aspetta sempre la sera per sperare un futuro diverso per i suoi figli. Rita che sor-veglia quel palazzo in stile liberty che cade a pezzi e lei definisce ancora “esuberante” come quel magnate che l’ha pensato e fat-to costruire negli anni Venti, quando la Romania poteva pensarsi come una seconda Francia e Bucarest la Parigi dei Balcani. Rita che ogni tanto sussurra perché non si fida dei “comunisti” del piano di sopra che trafficano sempre per tornare al potere. Rita che cerca di convincerti di star bene ma si capisce che si sente an-cora esule, diversa, disadattata. Come me.

Il rom

eoooo, batti e ribatti, aeeeeee, batti e ribatti, eoooo, ogni mat-tina, aeeeeee, in mezzo a questi casermoni sempre più vuoti, do-ve la gente si rifugia e si perde, aoooooo, che cascano a pezzi e non mettono a posto mai, magari dentro hanno di tutto, ma fuori, guai a farti vedere, eoooo, devi stanarli, gridare a tutti polmoni che vuoi i loro ferri vecchi, i loro scarti, aoooooo, che non san-no che farsene ma quando vengono giù subito iniziano a contrat-tare, quattro lei e non si accontentano, ma cosa vogliono aooo-ooo, già li dobbiamo svegliare dal loro sonno, ci odiano, ci ten-gono lontani in periferie sempre più schifose, ci vogliono anche cambiare nome, chiamarci zingari perché gli roviniamo la reputa-zione, rom uguale romania, ci vorrebbero anche bruciare tut-ti, si vergognano di noi, ma c’eravamo prima di loro e rimarremo anche quando loro non ci saranno più, emigrati tutti da qualche altra parte, in Europa, negli Usa & Getta, buona questa aoooo-oo, che mi tocca urlare da sembrare un nano di Biancaneve ma hanno le orecchie tappate come le loro case, temono tutto, la po-vertà, la crisi, e soprattutto noi tzigani, noi liberi di andare e veni-re, noi che sui confini ci sputiamo sopra, e perché poi dovremmo fermarci, perché? eoooo, oggi proprio non c’è nessuno che viene giù, ma è domenica, chissà i bagordi ieri sera, birra e vodka tutta la notte, una volta alla settimana si può, quando ti permettono i capi, il governo, il potere, ci sputo sopra al loro governo e ai loro confini, ma in Italia non vado, per ora, mi piace più stare qui, a

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urlare aoooooo, e a cacciare ferro vecchio, vivere dei loro resti, ci chiamano ratti, spazzatura perché viviamo dei loro rifiuti ma senza di noi non saprebbero che farsene, verrebbero seppelliti da quelle robe vecchie a cui sono attaccati come parassiti, si tengono stretti tutto e non sanno che l’unica cosa che vale è l’oro, quello che continua a crescere e che io ho ben piantato dentro di me, al posto dei denti, dieci ne ho e presto mi metto anche l’undicesimo dente d’oro, una riserva per i momenti bui e per quando me ne andrò da qualche altra parte in Europa, tanto ho il passaporto, so-no anch’io europeo, anche se i francesi ci buttano fuori, ci pagano anche per andarcene, e io ritorno, tiè, con i loro soldi mi compro una Mercedes e torno a Parigi, come un signore, un re, qui non mi metto a stare, siamo in tanti e saremo sempre di più perché sia-mo il futuro, povertà e senza terra, nomadi con tutto quello che serve dentro di noi aoooooo, gente venite, vi pago per la vostra vecchia bicicletta, la stufa o le pentole ammaccate, è il nostro la-voro, lo facciamo fin da quando siamo arrivati qui nel Medioevo, insieme al Sultano, battere ferro e rame, e anche rubarlo alle vo-stre linee elettriche e dentro i televisori che tanto amate, eoooo, sveglia! che qui c’è il vostro futuro, senza casa, e senza patria, noi siamo i veri uomini, viviamo lieti all’aria aperta, le nostre donne fanno un sacco di figli perché tanto prima o poi troveranno la lo-ro strada, e dalla strada impareranno a vivere aoooooo, voglio il vostro ferro vecchio e anche le vostre speranze, i sogni, la musica ve la diamo noi, insieme alle illusioni di poter essere ricchi e felici, noi compriamo ferro vecchio e vi vendiamo illusioni, noi siamo il vostro specchio, per questo avete paura, perché siamo diversi o così uguali. eoooo, aeeeeee.

Matrimonio zingaro

La notte era scesa appiccicaticcia sulla città e l’aveva avvolta appena solo disturbata dalle rare luci che s’irradiavano dai lam-pioni e dalle vetrine colorando facce e posti di un giallo incer-to. Mangiai una pizza alta e spessa dopo aver rifiutato un paio di ristoranti pseudo chic ed esser stato rifiutato da altrettan-ti. Rimbalzavo da un posto all’altro sempre più affamato alla ricerca anche di umanità, di storie da osservare, di parole da scambiare. A Craiova non c’erano caffè e nemmeno bar come dalle nostre parti, posti dove bere e ciacolare. No, lì la gente si incontrava per fare qualcosa o bighellonava per strada sotto i lampioni incerti che segnavano gli angoli e i palazzi come quel quadro di Magritte che sta alla Fondazione Guggenheim a Ve-nezia. Alla fine mi arresi, erano già le dieci di sera, e m’infilai in quella pizzeria lunga e stretta che ovviamente mi propinò un pezzo di ex congelato cotto a forno elettrico. Meglio la birra. Il vero problema è che intorno a me ben presto si fece il deserto e io restai a fissare il muro e un improbabile menu in rumeno. Triste e avvilente. E dove stava l’avventura? Mille e passa chilo-metri per arrivare lì ed ero in castigo in un angolo. Pagai dopo un paio di sollecitazioni – probabilmente si erano anche dimen-ticati di me – e iniziai a bighellonare arrivando all’incrocio di una grande strada che avevo già esplorato prima. Musica e risa-te, vita! Arrivai davanti a un ristorante dove per tutto il giorno s’erano avvicendati persone e cose. Fuori un assembramento, i

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a est del nordest matrimonio zingaro

curiosi stavano davanti, ai lati, dall’altra parte della strada, fa-cevano ali a chi usciva da quella bolgia di voci stridate e musi-che parossistiche.

Mi feci avanti, buttai lo sguardo, stavano tutti vestiti come gangster con le donne scollate in completi sgargianti, fiori tra i capelli e rossetti pesanti. Divisi anche lì tra i sessi, con continue trattative tra i due fronti e rilanci al microfono. Ma cos’è? Chiesi ai primi ragazzi che trovai lì. Loro sorrisero.

«Tu italiano, eh, io rumeno, stato in Italia ma ora qui, non po-tevo più rimanere io, ma vorrei tanto tornare, eh».

«Già, già, ma questi chi sono?». «Io so, tu no?». «No».«Matrimonio, matrimonio zingaro, io non invitato, ma tu

puoi entrare, tranquillo». «Come posso entrare?». «Tu straniero, tu italiano, tu puoi. Io no, non invitato, ma tu

puoi».Altri due o tre suoi amici intorno confermarono l’asserzione,

iniziando a toccarmi per capire se ero veramente italiano, pro-babilmente dai vestiti. Io mi divincolai, troppa pressione, tutta quella gente fuori per un momento aveva distolto la sua attenzio-ne dal locale illuminato e innondato di musica per guardare me. Io mi schermai con le mani e tirai dritto: «Ci vediamo dopo». Nessuno mi seguì, per fortuna, anche perché era appena uscita una ragazza vestita di bianco con i capelli scuri raccolti seguita da altre due della sua età fasciate tra lo smeraldo e il rosso acce-so che potevano essere tra le vedette del matrimonio. Tutti s’ac-costarono a loro che sventolavano due ampi ventagli, cercando di allungare le mani aperte aspettandosi un regalo o chissà cosa ma furono subito ricondotti all’ordine da un ragazzo tracagnot-

to basso e muscoloso che sembrava schizzare nel suo smoking platinato che le raggiunse iniziando a far cagnara in una discus-sione. Uscii di scena e mi immersi nel buio della strada appena illuminata da un lampione. Da solo iniziai a respirare meglio. E raggiunsi un altro locale con un tendone e musica a tutto volu-me. Entrai, trovai posto su una seggiolona e ordinai da bere per festeggiare lo scampato pericolo. E capii subito di essere finito dalla padella nella brace. Era un karaoke. Si esibivano ragazzi regolarmente seguiti dalle rispettive famiglie che imbracciavano chitarre e ti ferivano i timpani con acuti e stonature degne di un cartone animato. Il volume era tale che ovunque ti inseguivano quei tentativi brutali che rimbalzavano anche in tv con una ca-mera montata su piedistallo. La rete locale aveva deciso di da-re spazio a quei dilettanti allo sbaraglio nella serata del sabato e a giudicare della folla la trasmissione aveva anche successo, per mia sfortuna. Infatti le performance si susseguivano senza solu-zioni di continuità lasciando solo pochi minuti di intervallo a chi era capitato lì per caso. Ma nessuno tranne uno straniero come me sarebbe capitato lì per caso a farsi torturare. Bevvi veloce la mia birra e uscii ributtandomi nel buio di quella notte di città ru-mena di periferia riflettendo sui destini del mondo e miei perso-nali alle soglie dei cinquant’anni e con la pensione ancora troppo lontana per darmi al viaggio imperituro o alla vela.

Mi aggirai per tutto l’isolato e alla fine fui di nuovo attirato dal-la musica e dagli zingari. La festa s’era ulteriormente caricata e il mio amico di prima era ancora lì, appoggiato a un’auto in sosta che sbirciava dentro e fuori; non appena mi vide mi salutò calo-rosamente: «Dove sei stato? Guarda che la festa sta aumentando, entra, vai, non preoccuparti». Aveva la faccia talmente imberbe e l’espressione così convinta che entrai sfiorando un paio di signore agghindate e luccicanti.Viste da vicino non avevano più di diciot-

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to anni anche se erano truccate da Marlene anni Quaranta. Den-tro era una bolgia con la musica a tutto volume e il complesso di chitarre, violini, pianoforti, batterie e voci che ci dava dentro con-vinto come negli anni Sessanta da noi mentre solo qualche coppia ballava. Gli altri erano impegnati a guardarsi, anzi, a guatarsi (i più giovani) e a bere (gli anziani), cercando di convincere gli uni e gli altri a farsi un ballo. Un circo era, un quadro di Chagall, un film di Fellini. In una parola, un sogno, o un incubo?

* * *

«Vieni, vieni signore, vieni italiano, vieni».Erano così le sirene per Ulisse? Potevano prendere le sem-

bianze di tre ragazzine che al massimo avranno avuto tredici an-ni che alle due (o erano le tre?) di una notte d’estate si metteva-no a ballare in circolo intorno a te?

La strada era vuota, ma loro la riempivano con quella danza che aveva tutto meno che l’innocenza. Mi circondavano e mi co-stringevano a seguirle tra le vocine di richiamo e le movenze da creature della foresta. Mi ricordo soprattutto di quella vestita di rosso, forse la più grande, di sicuro la più spavalda e pericolosa: i capelli nerissimi come quelli delle favole e la gonna lunga rilu-cente di strasse e medagliette sonanti che ruotava come una co-rolla pronta dischiudersi. «Vieni, vieni, signore, balla con noi», diceva in italiano, o me lo stavo sognando? O mi stavo sognan-do tutto? Ero già instupidito da quella scena che sapeva di fore-sta anche se eravamo a Craiova (ma c’ero veramente lì?), tra ca-se addormentate e luci baluginanti come stelle in quel cielo buio e ancora infinito che noi abbiamo ormai dimenticato. Le segui-vo ipnotizzato e già mi saliva la voglia ancestrale di ballare con loro, che male c’era? Cosa poteva succedermi?

Mi guardavano con quegli occhi grandi da felino che brilla-vano nella notte e mi costringevano a seguirle in tondo, in dan-za. Mi guardai intorno, non c’era nessuno, veramente ero solo come un cane. Esposto. Indifeso. Davanti a quelle creature ma-giche. Scattò l’allarme, pericolo, mi mossi, loro mi si avvicina-rono, io scossi la testa, «vieni, vieni, signore, balla con noi», mi diceva la strega vestita di rosso, io mi divincolai, non so se mi avevano preso veramente ma era come se fossi finito già invi-schiato in una rete invisibile, un ragno rosso si stava avvicinan-do per ghermirmi e divorarmi, io ero piccolo, solo, indifeso, e loro stavano intorno, mi circondavano, mi volevano, mi… Presi a correre, loro gridarono «signoreeee, ma dove scappi, signo-reeeeee», ma io avevo già girato l’angolo, trovato la mia ragnet-ta, aperto la portiera, acceso il motore. Innescai la retro senza neanche guardare, una macchina passò veloce strombazzando, misi la prima e scappai a gomme levate, col fiatone, ringrazian-do il mio Dio e tutte le cerimonie a cui avevo già assistito che mi facevano da serbatoio di fortuna. Perché di una cosa sola sono ancora sicuro: quella notte ebbi fortuna. Tempo poco e sareb-bero spuntati fuori i fratelli maggiori, gli amici, i sodali, i padri, i capi tribù o quello che vuoi tu, e mi avrebbero gentilmente spo-gliato di tutto, auto compresa. Lasciandomi forse in mutande e in vita. E poi chi mi avrebbe salvato, laggiù, in fondo alla Roma-nia e in mezzo agli zingari?

* * *

Praticamente scappai a gambe levate, mi rifugiai in albergo e il giorno dopo di buon mattino feci dietro front. E il Delta del Danubio? Il Mar Nero? Li avrei conosciuti e toccati più avanti, in un altro viaggio, in un’altra vita, in un altro sogno. Quello do-

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veva finire, stop. Troppa solitudine, troppi rischi, troppo tutto. Avrei deluso Magris, non avrei mai trovato la fine di quel labi-rinto, l’altra Istria dell’Istro, avrei solo sfiorato la città di Canetti sul grande fiume e appena intravisto il fantasma della Mitteleu-ropa. Ma mi ero guardato abbastanza in quello specchio defor-mato della mia e nostra storia che è la Romania, avevo bisogno di contorni netti, di confini familiari. Avevo bisogno di casa.

Ma non presi la stessa strada dell’andata, quella no, non si poteva, non ero arrivato a questo punto. No. Sarei tornato per la Bulgaria, verso Calafat e poi Niš in Serbia, la città dove nac-que Costantino, ritrovando l’autostrada per il ritorno.

Fu una giornata caldissima, passata tra una corsa libera e scappottata nella grande pianura, tra paesini persi nel nulla e campi di grano appena ingialliti, e finita nella cittadina ville li-berty sul Danubio, Calafat, dove c’è un museo per l’ennesimo inventore dell’aereo e poco altro. Lì stava il confine, e un tra-ghetto con una coda di auto già nutrita. Passarono le ore in at-tesa del passaggio. Quattro ragazzi fumavano e bevevano, anda-vano in vacanza in Grecia, nella Calcidica. Bel posto. Una fami-gliola tornava a Torino dopo aver passato le ferie dai genitori, lui faceva l’operaio e di notte il dj, era pieno di energia e non vedeva l’ora di mangiarsi il ritorno, quei duemila chilometri di Balcani e Italia, che lo separavano dalla sua vita piena. In mezzo il grande fiume che i rumeni chiamavano Dunărea ormai sedato e pronto per tuffarsi nel Mar Nero. Ma avebbe dovuto aspetta-re: mancavano ancora centinaia di chilometri prima della sua fi-ne, avrebbe dovuto lambire Bulgaria, nostalgie Belle Epoque e grandi sogni di modernità.

Catalin, il dj rumeno d’esportazione in radio libera piemon-tese, era un entusiasta e mi fece da guida in quel budello che ta-gliava la Bulgaria per arrivare in Serbia, cartelli in cirillico vero

(i santi della scrittura bizantina erano di qui) e una campagna ancora più arretrata rispetto a quella rumena. Passavamo veloci in mezzo a quel mondo fermo all’Ottocento che era ancora l’al-tra Europa cercando di anticipare la sera, ogni tanto appariva un viso di bambina o di vecchio che pascolava il suo animale e guardava sbigottito quella piccola macchinetta rossa con la cap-potta nera come una coccinella. Arrivammo in fretta alla fron-tiera con la Serbia, un budello di sbarre e poliziotti impettiti, una torretta e tante bandiere delle due parti. I bulgari furono at-tenti anche se non c’era nessuno oltre a noi: verificarono sopra e sotto che non portassimo droga e armi e chissà cos’altro, dili-genza, poco più. Se fossi stato un contrabbandiere li avrei messi nel sacco, sicuro. Ma se fossi stato un contrabbandiere qualcun altro probabilmente mi avrebbe denunciato.

I serbi fecero i duri, controllarono anche le macchine foto-grafiche e il bagagliaio, era inquietante soprattutto quello che stava appeso lassù, sulla torretta, fucile imbracciato. Ma mi la-sciarono con una mezza battuta sulle donne migliori tra qui e là, smozzicata in quella lingua franca che era italoinglishlava, una macedonia di corruzioni e correzioni che sapeva di tante inva-sioni come il rumeno, il cui ceppo latino era mischiato al dacio, all’ungherese, perfino al turco e all’albanese, come bucurie, gio-ia in italiano, che nella lingua del Paese delle aquile è bukurì. Il volto si dice obraz dal paleoslavo obrazu, ma 2 è dui e 6 sest, mentre “tutto finisce!” fa “sa finini!”, acqua è apà, e freddo frig. Un mistero la lingua, tutte le lingue, un segno d’identità che è molto meno sbandierabile di quanto pensino certi puristi del paese e della razza.

Era arrivata la sera e il mio amico torinesizzato Catalin partì a razzo, voleva a tutti i costi entrare in autostrada. Trovammo un ponte bloccato, dovemmo passare in mezzo a tratturi di campa-

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gna, le luci di quel viaggio erano fioche e sparirono presto sotto una pioggia battente. Nel complesso fu un’allucinazione sorretta da una consapevolezza: se l’avessi perso sarei stato finito, in mez-zo al nulla di quel posto. E quindi anch’io andavo a più non pos-so dietro ai suoi occhietti rossi che apparivano e sparivano, fino a quando non trovammo l’autostrada. E la fiumana di emigran-ti turchi che tornavano verso la Germania dopo le ferie a casa. Macchine e macchine, sulle tre corsie e nel grill vicino a Belgra-do in cui ci salutammo: «Io voglio arrivare a Torino, ormai siamo vicini alla Croazia, altri mille e cinquecento chilometri e sono a casa», mi disse serio e deciso Catalin mentre i bambini spilucca-vano un panino prima di svenire in auto come la loro mamma. Lo ringraziai e me ne uscii dall’autostrada nella capitale serba.

Fu una notte assurda, conclusa nell’aiuola di una piazzola di sosta a pochi chilometri dal confine croato. Dormii un paio d’ore tra l’alba e il primo mattino, tra l’allucinazione e il sogno, risve-gliandomi con gli occhi di pietra e la bocca impastata ringrazian-do ancora Dio di non essere finito catturato dagli zingari e da Mangiafuoco. Ero a pezzi dopo quella notte di sballo serbo e ave-vo davanti mille chilometri e una coda pazzesca di turchi. Mi fer-mai solo per la benzina e le sigarette e la Coca-Cola, fino ad Ab-bazia, in Istria, dove finiva l’Istro e iniziava l’Istria, quella vera. Mi immersi nel mio mare, ero quasi a casa. Ce l’avevo fatta. An-che questa volta. Quando riemersi, respirando a pieni polmoni dopo quell’abbraccio tonificante che mi levò sudore e stanchez-za, avevo una sola convinzione: non sarebbe stato l’ultimo viag-gio. C’è ancora tanto da vedere e da imparare in questo mondo.

Cartoline d’altri viaggi a Est

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L’avventura continua

Tremila chilometri per niente? No, io non ci sto. E non ci so-no stato. Romania, Moldova, Transnistria, la corsa alla frontiera dell’Europa ha visto altre tappe, altre storie, altri viaggi, nuove avventure. Con mezzi diversi, dal treno all’aereo passando per barche e auto. Perché sognare è bello, ma conoscere è meglio. Quando si può. Queste sono le cartoline, i flash, i racconti di queste nuove tappe del mio personale cammino di conoscenza verso Oriente. Alla fiera del Far Est.

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Sogno e incubo[Romania]

«Il cuore della Romania è in Bucovina, lì la gente è ancora aper-ta e non pensa come in tutto il resto dell’Est solo al denaro», mi disse lo “zio” di Bucarest.

Così sembra spiazzante, ma in realtà ti apre la porta a un nuo-vo sogno, a un altro viaggio. Quello verso la Bucovina, la terra dei monasteri affrescati protetti da castelli turriti e che un tempo – quello di Ştefan cel Mare, Stefan iii “il Grande” – faceva da ba-luardo contro l’Impero ottomano.

«Viviamo semplicemente, la stalla, i lavori per abbellire il no-stro monastero, in comunità. L’abbiamo fondato nel 1997 e ci viviamo in una ventina». Tutti giovani come il mio Virgilio in to-naca, poco più che ragazzi. Con la barba lunga e i baffi, un po’ hippy, molto sorridenti e anche impacciati, rustici con un passa-to spesso di studi e una vita lontano dalle grandi città e anche dai paesi. Il più vicino è Dulceana, un nome da favola per un villag-gio di poche case incuneato tra monti.

Sono finito qui perdendomi, come al solito. Ero in preda a una fantasia frenetica da galoppata, contagiato dalla voglia di collezionare questi posti un po’ turistici ma soprattutto lontani più di 600 chilometri dalla capitale, dalla grande metropoli Bu-carest, a due passi dall’Ucraina, in una terra che più percorrevo e più mi sembrava davvero quella sognata, cercata, voluta. Dol-ci colline, boschi che cominciavano a indorare d’autunno, campi arati, paesi con casette colorate di legno, decorate come se arri-

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vassero da un presepe, villaggi hobbit che si aprono ai lati delle strade percorse indistintamente da carretti tirati da cavalli, auto, camion, il solito casino rumeno insomma, ma che sembra non badare troppo alla modernità e dove trovi gente quasi sempre gentile, pronta a darti una mano, a indicarti una strada, a ven-derti anche dei nanetti da giardino. «Li fanno in Germania, so-no belli vero?», mi fa l’uomo con i baffoni e la pancia da Babbo Natale che spunta dopo avermi visto mitragliare foto su foto a quel giardino di assurdi pupazzi dove Biancaneve sorride a Eolo e due nanetti rasta se la ghignano guardando un leone accuccia-to o un levriero da punta. E io che speravo di aver trovato la fab-brica favolosa, l’opificio da dove partiva la guerriglia silenziosa al mondo civilizzato, la miniera delle guardie da giardino che in Italia un tempo venivano sequestrate in segno di rivolta contro la modernità di paccottiglia.

Ce ne sono di tutti i tipi: portaombrellone, accattoni, sdraia-ti, illuminanti, proteggenti, indicanti. Ma li vendete? Domanda difficile da fare in italiano spanglish a uno che sa solo il rume-nomoldav. Ma il suo cane è placido e ti accompagna gentilmente fuori dal suo giardino fatato e taroccato. Io insisto, ma davvero li fanno in Germania? Penso alla storia che anche le maschere di carnevale veneziane, quelle che tanto piacciono ai turisti tede-schi e giapponesi, vengono realizzate tra la Romania (Iaşi) e l’Al-bania (Scutari) da curdi e veneti, una moderna delocalizzazione di cazzate che arriva dopo gli anni dello spostamento di fabbri-che tipiche del Nordest come quelle tessili. Ma Oleg o Olaf, que-sto vichingo di Bucovina che sembra un Obelix in sedicesimo (invece di due metri è 1,60), rimane inflessibilmente onesto: «Ja, ja, tgermania», fa scortandomi sul ponticello di legno che segna il confine tra il suo negozio all’aria aperta e la strada. Non mi apre le porte della casetta col tetto a punta, evidentemente non si

fida molto di questo intruso. E io me ne vado un po’ deluso. Ma sono solo all’inizio della mia galoppata nell’ultima Thule rume-na, avrò tempo per meravigliarmi e perdermi nello spirito anco-ra puro di questi posti.

«Vedi, questa è la nostra chiesa, il nostro pittore, che arriva dall’Ucraina, sta completando gli affreschi», mi spiega un pa-dre del monastero della Trasfigurazione (“Schimbarea la Faţă”, in rumeno) di Doroteia che mi ha preso gentilmente in conse-gna dopo che un suo confratello mi aveva visto curiosare fuo-ri dall’alto muro facendomi entrare. La strada sterrata mi aveva messo in attenzione più volte, temevo di finire in mezzo alla fo-resta, ai lupi, al “niente pieno” della natura. Oppure in un po-sto tenebroso e allucinato come quel Tanacu dove cinque anni fa avevano crocifisso una suora perché posseduta dal maligno: qui Dracula e le sue ombre terrifiche sono sempre in agguato, soprattutto nella mente del viaggiatore eccitato e solitario. «È un lavoro lungo, difficile, ma lui è bravo e noi abbiamo tempo», sorride il monaco con cui dialogo in inglese dopo che avevano tentato di appiopparmi a un ragazzotto dalla barba e dai capel-li rossi che era stato a fare il manovale in Italia. Il pittore dall’al-to della sua impalcatura mi sorride ma non distoglie l’attenzione dal suo compito certosino, appeso lassù a quattro metri come un novello Michelangelo si impegna nella sua personale Cappella Sistina. Non conta dove sei, importa come fai il tuo lavoro, di-rebbe un buddista o anche un trappista. O uno di questi monaci ragazzi che ridono quando chiedo se possono sposarsi: «Quello lo fanno i preti di città, i pope, noi abbiamo fatto voto di casti-tà», mi spiega gentile il mio Virgilio di quella terra sacra e un po’ fatata, che comunque non è fuori dal mondo. Infatti attacca una filippica sul problema del momento: i rom e Sarkozy. «Ci con-

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fondono sempre con loro, la gente in Europa non capisce che rumeni e rom sono due popoli diversi, anche noi non li soppor-tiamo, rubano, non lavorano, vanno in giro a far chissà cosa», di-ce senza tanti complimenti. Poi si ferma, mi guarda di sottecchi e chiede: «Non sarai mica un giornalista?». Cavolo, ma ce l’ho scritto in fronte? Anche lì, in mezzo alla foresta e ai prati verdi da pubblicità della cioccolata svizzera? Cerco di trovare un si-stema per uscire da quella marcatura, ma lui sorride. «Tanto è lo stesso, chi vuoi che sia interessato all’opinione di un povere monaco di campagna che per giunta sta in un monastero di pa-ese, piccolo, disperso». Di sicuro lui è un tipo simpatico che ha un tic: appena vede che sto girando per inquadrarlo con qualche macchina da ripresa lui se ne va, fugge, come fanno in India, do-ve credono tutti che tu, con una telecamerina, gli possa rubare anche l’anima. Se bastasse questo ci saremmo liberati da tanta di quella gente laggiù in Occidente…

Mi offre l’acqua del loro pozzo ma non la grappa che sicu-ramente fanno per sopportare un inverno che qui, appesi alla grande pianura bessarabica e sarmatica, sarà sicuramente duro e puro. Ogni tanto occhieggiano alcuni suoi confratelli, che conti-nuano indaffarati a rassettare, a far legna, a pregare. Il mio Virgi-lio improvvisato a un tratto si illumina, ha finalmente da occupa-re questo guardone matricolato dopo che mi vede seguire con la bocca aperta un monaco che tamburella su un’asse cantandosela come se fosse un’arpa. «Aspetta, sono quasi le cinque». Un suo compare alto e segaligno s’inerpica sul campanile affrescato che sormonta la porta di legno d’entrata del monastero di Doroteia. S’infila dentro e inizia una performance degna di un percussio-nista jazz che va avanti quasi dieci minuti. Tarappa titropta rop-taratta tatattattta e via così in un crescendo rossiniano che po-trebbe concludersi tranquillamente con il lancio delle bacchette

modello concerto rock e invece parte la campana e mi si spiega che il segaligno ha fatto tutto con mani e legno, neanche uno xi-lofono aveva quello!

Ma s’è fatto tardi, io devo vedere qualche altro monastero e loro prepararsi alle preghiere della sera, quindi vengo accompa-gnato verso il portone d’entrata di quel piccolo castello fatato con l’ultima spiegazione: «Qui passò Ştefan cel Mare e fondò la chiesa di…».

Fatalità, serviva un’impronta leggendaria per dare lustro e storia anche al piccolo monastero di provincia che, evidente-mente, aspira a vivere per secoli, come quello di Moldoviţa che pesco dopo una cinquantina di chilometri, strade sbagliate, ri-chiesta di informazioni e il timore che arrivi presto la sera e mi colga impreparato e incasinato. «Dopo la rivoluzione sono sorti tanti monasteri, in Maramureş ce n’era uno solo e adesso saran-no cinque o sei, lo stesso in Transilvania. Ma l’ondata di vocazio-ni è già finita, i giovani pensano ad altro, e questi posti restano vuoti, abbandonati. Preferiscono andare in città o all’estero, in Italia», fa la monaca. «Non sono suora, io ho fatto i voti, ormai più di trent’anni fa», dettaglia con il suo fare teutonico e una punta di perfidia questa florida sorella di Bucovina, tanto per far capire che loro lì sono le uniche vestali di quella tradizione e che bisogna diffidare delle imitazioni tipo i ragazzi del bosco di Doroteia. «Sotto il comunismo era difficile fare i monaci, ti co-stringevano a lavorare, io insegnavo in una scuola. Ma in seguito Ceauşescu iniziò anche a restaurare i monasteri, e poi la gente di qui si fidava di noi, non ci avrebbe mai denunciato come sobil-latori o reazionari».

Il suo italiano è irto e solido ma lei sorride spesso, si vede che gli piace aver agganciato questa truppa di italiani raccogliticcia che, per vocazione al disordine, s’era infilata nel “suo” monaste-

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ro sull’orlo della sera. Ci aveva visto vagare dispersi tra le mu-ra possenti e gli affreschi affascinanti della chiesa dell’Annun-ciazione con bocca aperta e fare un po’ beota. C’era da capirci, davanti a pareti intere di storie rischi di avere il torcicollo per seguire i tanti passaggi della Bibbia e dei Vangeli dipinti mezzo millennio fa da monaci austeri e umili che non avevano lasciato il loro nome ai posteri. «Lavoravano per la gloria di Dio», sottoli-nea la nostra guida iniziando a raccontare della passione di Gesù dipinta in colori unici che arrivavano direttamente dalla natura, della sua ascesi e delle storie varie che scorrono tra terra e cielo soffermandosi su un episodio preciso affrescato solo in questo monastero (il canone ortodosso lasciava qualche spazio d’inter-pretazione): l’assedio di Costantinopoli da parte di Maometto ii, il conquistatore di quella che diventerà sotto i Turchi Istanbul. Cannoni e cavalieri sono pronti a lanciare il loro assalto finale al-le mura turrite difese da lance e balestre, il dramma sta per com-piersi. La paura di finire così, sommersi dagli Ottomani musul-mani, da queste parti era palpabile in quel lungo Medioevo che finì solo nel xix secolo, in pieno Romanticismo.

I colori brillanti – qui in Bucovina è stato inventato un blu naturale mai eguagliato – quelle scene mosse da scatti in due dimensioni, irreggimentate in un’algida narrazione, prepotenti spiegano secoli d’assedio e conquiste e lotte e battaglie tra due mondi che non riuscivano proprio a parlarsi, tanto che ora in queste terre le tracce del Turco sono minime e poco è restato an-che della loro cultura. Sommersa dalla sconfitta dell’Impero solo qualche comunità è sopravvissuta ma senza minareti. In Gauga-sia, la regione autonoma nel sud della Repubblica sorella – ma ex urss – della Moldova, a trecento e passa chilometri da qui, l’unica traccia ottomana sono i baffoni che ancora ornano le fac-ce dei contadini.

Il confine dell’Impero turco lambiva questi luoghi. Qui rac-contano orgogliosi che Iaşi, il principale centro della regione a sette ore di treno da Bucarest, non fu mai conquistata dalle ar-mate ottomane che si susseguirono nei secoli per tentare lo scon-finamento a nord e a ovest. Ştefan iii riuscì a unire i principi voi-vodi – “perché qua non ci sono mai stati re”, altra sottolineatu-ra che mi è stata fatta più volte – e a battere gli Ottomani con la tecnica privilegiata dai temporeggiatori di ogni epoca: bruciare le campagne, avvelenare i pozzi, fiaccare il nemico e poi coglier-lo di sorpresa in qualche gola. Non per niente il condottiero del xv secolo che campeggia sempre orgoglioso a cavallo nelle piaz-ze delle due Moldove viene paragonato a un altro capo balcani-co, a quel Giorgio Castriota Scanderbeg (Gjergj Kastrioti Skën-derbeu) che nello stesso periodo bastonava il Turco in Albania.

È singolare che a salvare l’Europa cristiana allora furono un rumeno e un albanese, alfieri di popoli che oggi vengono acco-munati dallo stesso destino reietto e dall’appellativo di «perico-losi, sanguinari e anche per sovrappiù svogliati». Un classico di chi si sente la terra sprofondare sotto i suoi tappettini da welfare e di chi non riesce a capacitarsi che il mondo di colpo, dopo il crollo del Muro e della Cortina di Ferro, s’è allargato fino a ri-schiare di farti ingoiare dalla Cina. Lo sguardo s’è aperto troppo in là, fino alla Grande Muraglia, e ha lasciato gli europei, neo e non, sbigottiti e impauriti. Hai voglia a spiegare che di albanesi in Italia ce ne sono 400.000, e i rumeni sono 800.000 (un milio-ne e 300.000 con famiglie e bambini); lavorano tutti e tra loro i delinquenti sono pochi, fanno i lavori che tuo figlio – il ragaz-zo dello spritz e degli occhiali firmati – rifiuta; ti accudiscono il padre e il nonno che altrimenti non sapresti dove sbattere. Non l’hanno chiesto loro di venire in Europa e non hanno alcuna col-pa se laggiù si fa la fame.

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La storia dei “sanguinari” poi ha una radice antica, che affon-da anche in questo caso nel secolo post illuminista. E si intreccia nella tenebrosa voglia di avventura degli inglesi e degli europei incarnandosi nella leggenda dei vampiri. «Dracula, che in veri-tà si chiamava Vlad, al massimo era l’“Impalatore”, cioè Tepes: non era altro che un capo guerriero, un uccisore di Turchi, uno insomma di quelli che vi ha salvato nel xv secolo comandando gli eserciti della Valacchia» sento la reprimenda di Simona che mi gira in testa come un calabrone. «I vampiri semmai stavano da altre parti e fanno parte di altre storie. È vero che quello era un cattivone, che ha ammazzato migliaia di Turchi infilandogli un palo nel culo, ma a quel tempo lo stesso facevano loro con i nostri e anche gli ungheresi che furono i primi a criminalizzare il nostro Vlad iii Dracul, che in rumeno vuol dire “figlio del dra-go” e non figlio del Diavolo».

Su questa storia qui sono molto suscettibili, quasi quanto quella dei rumeni che son tutti zingari. Tanto che in una mostra a Bucarest, interessante e ricca, campeggiava una spiegazione da propaganda. La leggenda dei vampiri – secondo i curatori – sa-rebbe stata messa in giro da britannici e ungheresi due secoli fa per far passare i rumeni come selvaggi e arretrati in quanto al-leati potenziali dei russi, cattivoni imponenti già a quell’epoca. Insomma, un complotto internazionale degno dei Savi di Sion e di quelli plutomassonici. Si aprirebbe poi un capitolo da labi-rinto sulle questioni e gli intrecci che da una guerra in un antico Afghanistan, cioè la Crimea – il posto dove Cavour ha spedito i bersaglieri per guadagnare credibilità internazionale, le mosse della diplomazia sono sempre così scontate? Sangue per favori e business? – arriverebbe alle grandi mareggiate della Storia che lasciano dietro di loro problemi con minoranze (la Transilvania è stata per secoli ungherese e la minoranza magiara laggiù è una

forte maggioranza) che non si integrano e deportazioni di massa per ripulire etnicamente campagne e villaggi.

Spunta poi la storia che i veri vampiri fossero i Bogumili, set-ta di cavalieri e guerrieri tipo Templari apparsa sulla scena bal-canica nel xii secolo, oppure genti centroasiatiche (gli Hassasi, i fumatori di hashish che il Vecchio della Montagna utilizzava come killer). Fu comunque lo scrittore britannico Bram Stoker a saldare la storia di Dracul con quella dei vampiri dando il La a una pubblicistica che ancora adesso va per la maggiore, tanto da far resuscitare invece che mostri succhia sangue progetti spe-culativi come quello che si voleva realizzare alla periferia di Bu-carest qualche anno fa: un bel parco di divertimenti “Dracula”. Idea che non decollò, pare perché si potevano accendere specu-lazioni più semplici, ma che di questi tempi potrebbe ritornare buona per rilanciare il turismo e l’edilizia dopo la grande crisi del 2008 che ancora morde molti ricconi con in pancia un sacco di palazzi vuoti.

Anche sul castello di Dracul-Vlad ci sono discussioni e litigi. La cartolina ufficiale lo vuole vicino a Braşov, 160 chilometri dal-la capitale, città bella e anche movimentata dove in inverno puoi incontrare per strada qualche orso in cerca di cibo (per ora li hanno avvistati solo in periferia, sembra possano esserci anche i lupi). Il castello di Bran è turrito e irto, non sta su una collina so-litaria, non è nero, e non ha sempre i fulmini che lo illuminano in notti di tregenda. Quando l’ho visitato non era neppure avvolto dalla pioggia, anzi, il sole della primavera lo scaldava e scioglie-va la neve che ancora aveva sui tetti e nei cortili. I gradini sono ripidi e consigliano attenzione, le stanze sono decorate, i cami-ni spenti e quindi ti mette davvero i brividi (soprattutto d’inver-no) ma ha l’aria di essere fin troppo perfetto, restaurato come si dovrebbe, come ti aspetti. Insomma una grande operazione di

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“marketting” completata dal solito mercatino di cianfrusaglie si-mil-etniche made in China che lo assediano.

Molto più bella ed evocativa è la fortezza che sta a pochi chi-lometri, a Râşnov, una città fortificata che sta su un cocuzzolo e pare non sia mai stata conquistata; dai Turchi, ma dal principe di Transilvania Gabriel Báthory nel xvii secolo sì. Formava in-sieme ad altre sette la cintura di castelli della Transilvania che doveva servire da difesa contro gli Ottomani e fece da marca di confine sassone e asburgica. Anche in questo caso i restauri sono stati profondi – questi lavori fervono in tutta la Romania, sembrano l’unico settore che non si sia fermato, complici forse i soldi dell’Unesco o dell’Unione Europea – il posto è bello, do-minante e imponente. Ti perdi volentieri sui camminamenti del-le mura come potresti fare in altri castelli di città come quello di Sighişoara, città natale di Vlad. Simona, l’amica giornalista, però smonta l’incanto e fa sicura: «Il vero castello di Dracula è quello di Arges vicino a Poienari. Sta qui vicino a Bucarest, cento chi-lometri, e Brad Pitt vuole girarci un film sui vampiri. È un posto bellissimo, quello giusto per Vlad».

Mah, il solito gioco di specchi e suggestioni che fa della Ro-mania una nazione particolare e incasinata, da viaggiare. Ognu-no si potrebbe tirar fuori il suo castello e il suo vampiro, basta applicarsi e perdersi in mezzo a questo paese grande che vorreb-be tanto diventare un grande paese ma per ora può solo appen-dersi alla nostalgia di un altro tempo, un altro anno: 1938.

La carta geografica è appesa vicino allo sportello della bigliet-teria del monastero di Voronet, uno dei più belli della Bucovina. Dentro la giovane monaca col solito cappello cilindrico e il vesti-to nero – potrebbe avvicinarsi molto a un burka senza velo – leg-ge e incassa i soldi: biglietti, eventuali foto, videocamere, carto-line, santini, libretti, carte geografiche. Tra quest’ultime ne man-

ca una, quella affissa: la “Grande Romania - 1938” pre Seconda guerra mondiale e post indipendenza 1918; comprendeva anche la Moldova fino al fiume Nistro, Tiraspol quindi era il suo confi-ne con la Russia – come lo è oggi, questi ricorsi ricordi storici –, e s’allungava ben bene formando una delle nazioni più estese del Vecchio Continente. Roba da Francia, per intendersi, proprio il modello di quel giovane regno che aveva Parigi come grande fra-tello e obiettivo. Che energia doveva esserci in giro per Bucarest, e in tutto il Paese allora, se la Romania era diventata la mecca e la speranza per emigrati anche italiani e veneti. In migliaia arri-varono dalle parti di Iaşi e Brăila, nel Far Est, tra la fine del xix e l’inizio del xx secolo. Dopo il secondo conflitto, a metà degli anni Cinquanta, gli italiani superstiti furono costretti a scegliere: o Roma o Bucarest. Rimasero in qualche migliaio e si integraro-no, ma ancora rimane una comunità col diritto di nominare un deputato al parlamento della Repubblica, privilegio che ho visto all’opera per ora solo in Croazia. Erano tempi di elettricità, auto, boulevard, Belle Epoque, ottimismo, energia, investimenti, tutto quanto fa sviluppo con la sicurezza di poter solo crescere sorret-ti dalla tecnica e dal sol dell’avvenire. Poi arrivarono l’alleanza con i nazisti, le Guardie di Ferro del “piccolo Mussolini” Codre-anu, il maresciallo Ion Antonescu, e l’Armata Rossa sovietica a far piazza pulita piantando nuovi confini, creando un’altra Mol-dova e piazzando un solo partito al governo. Un comunismo di-verso, pensavamo noi in Occidente abbagliati da Ceauşescu. Poi nel 1989 abbiamo scoperto la miseria nascosta, la megalomania da operetta e la fame di un popolo allo stremo. Furono anni ter-ribili, pare, ma anche equivoci.

«È stato un golpe di palazzo, hanno ammazzato Ceauşescu e sua moglie, e al governo sono finiti quelli del suo partito. Lui è sempre stato un burattino, la faccia di un regime che si reggeva

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sulla Securitate, la polizia segreta, e che ha deciso di eliminarlo per non perdere il potere, come infatti è successo. Qui governa-no sempre gli stessi, anche adesso» fa il signor Emil. «Vero, ma quella è stata una rivoluzione di popolo, io l’ho visto quando scappava con l’elicottero dal tetto della sua Casa Bianca, è sta-to il suo pilota ad atterrare in piena campagna e a scappare, ed è stato il suo popolo a prenderlo e a fucilarlo, la gente non ne po-teva più di lui», dice Carlo Carnu, ex operatore cinematografi-co nella Cinecittà di Bucarest a Buftea, una ventina di chilometri dalla capitale. «E non è vero che gli anni seguenti sono stati di fame, che i padri mandavano a prostituire le figlie con gli stra-nieri per dar da mangiare alla famiglia come dice qualcuno, c’era una nazione da ricostruire, un sistema da iniziare, ma non c’era questo caos, quest’anarchia. Forse si sta peggio ora, con questa crisi, con gli stipendi pubblici tagliati del 25% e i prezzi sempre in rialzo. Il boom degli ultimi anni ha illuso molti, e ubriacato al-tri, e ora è più difficile accontentarsi. I giovani non hanno lavoro e sognano tutti di andare all’estero».

Ora sono in 800.000 “ufficiali”, chissà quanti irregolari e quanti altri hanno perso il lavoro? Un recente studio della cgia di Mestre fotografa che un terzo degli immigrati stranieri vene-ti è a spasso. Il governatore Zaia, presidente leghista della Re-gione Veneto, ha lanciato il monito: «Non se ne facciano entra-re altri, prima i veneti». Alla fabbrica dei grissini Bibanesi sono già andati più in là: «Prima quelli di Godega di Sant’Urbano (Treviso) residenti qui da almeno cinque anni», pazienza che siano anche stranieri (ma forse si sono distratti i leghisti locali), l’importante è che paghino le tasse in loco e che non diano fa-stidio. Meglio sorvolare sul fatto che molti degli irregolari siano “assunti” da veneti a fare le badanti o i camerieri, o i manova-li, o i contadini, e che è difficile controllare gli stranieri quando

non si riesce nemmeno a pescare gli evasori, in moltiplicazione esponenziale con la crisi galoppante che vive anche il Nordest (75.000 posti di lavoro persi in un anno, 130.000 persone in cer-ca di un qualche impiego). Oltre tutto come fai a fermare l’in-vasione degli immigrati? I rumeni entrano senza problemi, so-no europei. Un viaggio della speranza da Iaşi, 1500 chilometri e passa da Treviso, in bus dura 36 ore e costa 63 euro. Come per gli aerei low cost ma con qualche speranza in più. I moldavi in-vece hanno altri sistemi, pare.

«Sono arrivata in Italia da clandestina una decina di anni fa, autobus fino al confine tra la Slovacchia e l’Austria, e poi a pie-di, di notte, in mezzo ai boschi, a varcare la frontiera. Dall’altra parte ci sono venuti a prendere in camioncino e ci hanno deposi-tato alla stazione dei treni di Vienna», ricorda Vania, che oggi fa la badante dalle parti di Mestre, a due passi e qualche canale dal palazzo della Regione di Zaia: «Ho pagato 2000 euro e ora sto aspettando da un anno la regolarizzazione che mi ha promesso il vostro governo. Voglio pagare i contributi, le tasse, come voi. Anzi, come una parte di voi».

Già, il governo si è concentrato in questi anni sugli sbarchi e l’emigrazione delle carrette via mare, ma l’80% dei migranti arri-vano via terra, dai confini dell’est o da quelli del nord. Non puoi fermarli. A meno di non costruire un altro Muro. Come quello di Berlino. O come in Terra Santa. La fortezza europea cerca di difendersi come Ceauşescu faceva con i suoi sudditi. Lui il suo castello di moderno Dracula se l’era costruito in città, a Buca-rest, radendo al suolo interi quartieri Bauhaus e liberty della ca-pitale e spostando anche una chiesa un chilometro più in là.

La Casa del Popolo oggi è ancora una cattedrale nel deserto. Questo pachiderma di marmo secondo solo al Pentagono come grandezza (e, forse, come inutilità) sorge in cima a una collinetta

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cercano di fregarti. Arrivai qui nel 1991, era il caos, i padri man-davano a prostituire le figlie perché c’era la fame, ho visto scene che neanche s’immagina, ma ora le cose sono migliorate, anche se bisogna sempre stare attenti a tutto, soprattutto ora, che gira-no pochi soldi e c’è la crisi».

Quando parli con gli imprenditori della prima ora sembra sempre di ascoltare un reduce dal Vietnam, dalla Bosnia, o dal-la Tannhäuser bladerunneriana, ma li si può capire. Certi Pae-si post comunisti sembravano veramente reduci da un bombar-damento a tappeto e ancora adesso per le strade di Bucarest o della Romania ti puoi imbattere facilmente in case sbrecciate, in fabbriche fatiscenti, in luoghi che potrebbero arrivare da una guerra atomica. E invece sei qui, dentro alla Casa dei fantasmi di Ceauşescu, dai soffitti altissimi e dai finestroni pure, con gli stucchi d’oro e i pavimenti di marmo, gli specchi e i lampadari in vetro di Boemia (o giù di lì) grandi come quelli delle nostre cat-tedrali. Tutto sembra pronto per un ballo di fine Ottocento, per un concerto di Strauss, solo che il valzer che ti sembra di ascol-tare è solo quello degli addii e delle illusioni. Ma come hanno fatto a fargli costuire questo monumento? Come hanno potu-to permettergli di radere al suolo interi quartieri come se fosse scoppiata una bomba atomica (non per niente chiamavano que-sta zona Hiroshima)? Perché questa pazzia che s’annida anche sottoterra, per chilometri, tra bunker e gallerie che uniscono tut-ti i palazzi del potere rumeno in una ragnatela nascosta e para-noica? «Lo hanno lasciato divertire, questo palazzo assurdamen-te grande era il suo giocattolo, suo e di sua moglie Elena, che era più pazza e paranoica di lui» mi spiega un funzionario di lungo corso, talmente lungo che arriva da quei tempi. «Lo tenevano occupato mentre gli altri, i burattinai, quelli che l’hanno sem-pre manovrato e poi gettato via al momento opportuno come

alla fine di un grande viale. Ed è quasi tutto circondato da ster-paglia. Dall’altra parte un altro palazzone cadente per ora atten-de restauri e ospita una partitella di calcio tra guardie o autisti dei boss. Nel parcheggio di quello che oggi è il Parlamento ru-meno sta in bella mostra anche il veicolo elettorale di un depu-tato, un ex scuolabus dipinto di blu e arancione con la faccia del giovane rampante e la scritta che urla il cambiamento: sembra proprio un carrozzone di quelli dei vecchi circhi, chissà se il no-stro onorevole signore riceve ancora i suoi elettori.

Il parlamento è blindato, la guardia mi blocca subito quan-do cerco di entrare indossando la mia faccia da bravo ragazzo. Mi aggiro, voglio visitare il museo d’arte contemporanea che ha conquistato un’ala del mastodonte neoclassicomunista. An-che qui vengo stoppato, chiuso per apertura serale (c’è la notte bianca per i 500 anni di fondazione di Bucarest). Nel piazzale davanti sta parcheggiata una macchina dei pompieri, evidente-mente c’è qualche pericolo. Forse dovuto ai lavori in corso che hanno recintato la zona più dimessa del posto, quella che dà sulla sterpaglia e sui resti di una balaustra. Mi affaccio sulla pas-serella pericolante e getto lo sguardo sulla città che si allunga sotto, tetti che sembrano Parigi e boulevard strombazzanti che finiscono nell’entrata monumentale della Casa del Popolo. Mi ritiro in fretta, non vorrei attivare l’attenzione delle tante guar-die a difesa della democrazia che pullulano là sotto. Ritorno in-dietro calpestando un po’ di vetri rotti (alcuni finestroni dell’ala sono effettivamente rattoppati con lo scotch) ed entro nel san-cta sanctorum del Conducător attraverso una fiera dell’elettro-nica dove pesco i soliti italiani a caccia di nuovi affari e mi sor-bisco le avventure di un imprenditore, Paolo Mantega, uno dei cosiddetti pionieri: «Conosco tutto di questo posto, anche la lingua, e le assicuro che serve perché solo così puoi capire se

1sogno e incubo

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Confine chiuso[Romania]

Vicovu de Sus, la strada finisce di fronte a una sbarra da passaggio a livello, il cartello di divieto, l’asfalto mangiato e una fila di piop-pi oltre il campo. Questo è il confine tra Bucovina (Romania) e Ucraina? Una strada tra casette di legno linde che si blocca al mar-gine del villaggio, così, senza preavviso? Almeno a Basarabeasca, arrivavi con un po’ di movimento, tra un passaggio a livello e bi-nari sconnessi, dune e gobbe, carretti e contadini con i baffoni e il cappello a cilindro e la moglie col velo. Ma là eri in Moldova nella regione “turcomanna” o tartara della Gaugasia non in Romania, Europa. Il confine poggia sullo stesso stato, l’Ucraina, ma qui sia-mo al centro del Vecchio Mondo (o mondo vecchio?) e dell’ordi-ne, non all’inizio del nulla bessarabico.

In ogni caso in un posto ero arrivato ed evidentemente non po-tevo più proseguire, quindi scendo e mi armo di macchina foto-grafica e telecamera, tanto per documentare quella situazione di irrealtà chiusa da una nuova cortina di filo spinato, quando vedo spuntare un paio di teste sopra una divisa blu, ohi, ohi, guarda ca-so poliziotti. Nascondo tutto il mio armamentario da documen-tarista e inizio a fischiettare del tipo sono passato qui per caso, mi sono perso, sono il classico stupido occidentale. E glielo di-co anche: «Ma non si può andare dall’altra parte?!». Grande in-tuizione, penso autoironico, una strada abbandonata bloccata da una sbarra con un disco rosso in linea bianca. Loro mi guardano – uno è basso e cicciotto, l’altro più alto e sempre in carne, il ber-

un capro espiatorio, conducevano tranquillamente i loro affari nell’ombra. Come continuano a fare anche oggi».

Un brivido, una scossa elettrica, questi saloni grandiosi e inu-tili hanno degli spifferi, ti gelano dentro, nel profondo. Anche perché tra l’eco dei tuoi passi vuoti ti sembra di distinguere la forma di altri fantasmi, di altre suggestioni, di misteri che sono anche i tuoi, della tua vita, della tua Italia. Ti volti di scatto e dal-lo specchio gigantesco che domina questo salone (uno dei cento) fugge un’ombra, un gobbo dal mento a punta, la insegui dopo una delle tante maestose scalinate che scendono qui nel ventre della Casa del dittatore, ne senti i passi ritmati e frenetici, serra-ti nell’esercizio del potere e l’ombra riappare là in fondo, questa volta è ancora più bassa ma ha la testa quasi rotonda, i capelli ap-piccicati al cranio, il doppio petto. E il sorriso del Joker. È pro-prio vero, la Romania è lo specchio deformato dell’Italia, tricolo-ri diversi per un passato che fa fatica a morire.

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Transilvania e nuvole ungheresi[Romania]

«I problemi esistevano anche ai tempi dell’Impero, solo che non se ne parlava. I regnanti non avevano percezione delle minoran-ze». Vivevano lassù, a Vienna, e un po’ a Budapest, la sua città. Il resto di quel regno che voleva far rivivere i fasti del Sacro Romano Impero e che s’allungava dall’Italia Settentrionale ai Balcani fino alla Transilvania e alla Moldova erano pure espressioni geografi-che, folklore, posizioni di forza e di difesa, punti d’appoggio per commerci o posti dove poter spremere imposte.

Péter Esterházy ha i capelli candidi e folti come un direttore d’orchestra modello Beethoven e lo sguardo vivace e disincanta-to di chi arriva da lontano e vede ancora più in là. Il suo Harmo-nia Caelestis è il racconto della fine di quell’Impero e l’inizio di un comunismo, quello ungherese, simile agli altri dell’area di mezzo, quella Mitteleuropa che ho sempre più il sospetto fosse solo un sogno soffuso, una speranza di meticciato che rivedi in qualche palazzo di Fiume, Zagabria, a Bucarest come a Budapest, ma che alla fine fosse piuttosto un timbro di ordine con il caos delle diver-sità culturali, di storie, di religione, infilate solo sotto il tappeto di Cecco Beppe, il Kaiser. Il comunismo tentò di ereditare quell’uni-formità impettita e piccolo borghese ammantandola di egualitari-smo e laicità, perpetuando un altro dominio e un’altra gigantesca finzione, crollata col Muro nel 1989.

Ora tocca all’Europa riproporre la sfida delle diversità e del dialogo per allungare i confini del benessere e tacitare le paure

retto in testa piazzato con malavoglia e la noia a corroderti le ossa e il cervello – e mangiano la foglia: questo è uno scemo europeo. Mi sorridono commiserandomi e mi spiegano in rumeno misto a qualche parola in inglese che sì, mi sono perso, che devo andar-mene, non sloggiare no, perché lì siamo ancora in Europa e quin-di vige la gentilezza e l’ordine, ma di là c’è il lupo, l’Altro Mondo, e non si può passare proprio in Ucraina, anzi, in urss come uno dei due si pregia di ricordarmi tanto per far capire che la guerra fredda mica è finita, si è solo spostata più in là e loro sono le sen-tinelle della nostra pace. Ma come? – faccio io nella stessa lingua franca e mista, solo che al posto del rumeno piazzo un po’ di ve-neto o latino – non si va dall’altra parte da qui? Ma la cartina stra-dale dice che… insomma, non c’è la possibilità, la libertà… e nel frattempo spero che non mi abbiamo sgamato a fotografare loro e il confine proibito, le guardie si prendono sempre sul serio anche se stanno a sorvegliare campi di patate a perdita d’occhio, d’altra parte devono fare una parte sennò perché pagarli? Loro ora sono un po’ meno gentili, cominciano a fare segni con le mani di smam-mare, che non si può parcheggiare lì, che se voglio proprio passare c’è un altro posto più in là, dopo un ponte, a qualche chilometro, che insomma quello è un luogo sacro, importante, da proteggere a ogni costo. Io faccio la faccia delusa e sempre più beota, ma risal-go in macchina mentre i due sorridono sempre più impacciati. Mi metto la cintura di sicurezza, non si sa mai che non mi appioppino anche una multa per arrotondare la loro noia, faccio manovra e ri-torno da dove ero venuto sbirciando dallo specchietto retrovisore mentre quelli entrano in una delle casette di confine evidentemen-te esausti per quella discussione.

Solo il giorno dopo avrei saputo che quelle file di pioppi e quel confine dell’Unione Europea era uno dei più porosi e sforacchiati del mondo. Da cacciatori e contrabbandieri. Alla salute, Bruxelles!

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nemmeno un problema solo dell’Europa dell’Est. Dappertutto i nazionalismi si impongono, e non necessariamente lo fanno con un linguaggio del silenzio e della tranquillità».

Sorride, l’ironia gli fa alzare un sopracciglio, forse gli vengono in mente le parole di Zygmunt Bauman, l’esploratore della socie-tà liquida, convinto che il potere governi sventolando l’insicurez-za e regni con l’incertezza. «Questi sentimenti si rappresentano su più livelli, quello più primitivo è dei politici. Da noi, come da voi», osserva asciutto lo scrittore, poi ti guarda: «Forse sono stato un po’ ingiusto, ma ogni tanto va bene», aggiunge quasi per scusar-si mentre mi viene in mente la storia degli Csángó, un nome che sa molto di blues e invece designa un popolo dalle salde tradizio-ni ungheresi che sopravvive in un’ottantina di villaggi con le chie-sette di legno sparsi nella valle del fiume Siret (Moldova rumena), tra Roman e Bacău con propaggini in Bucovina, vicino a Suceava.

Sono rimasti in 60.000, più o meno, e come gli indiani d’Ame-rica vivono un po’ protetti e un po’ segregati in questo lembo di terra arcaica fin dal Medioevo. Cattolici in una terra di ortodossi, ungheresi in una nazione che è la Romania, gli Csángó (come gli Székely nella Transilvania centrale dalle parti di Harghita, Cova-sna e Mures, secondo lo scrittore Stoker, Dracula arriverebbe da questa popolazione pallida erede degli Unni) vivono da secoli sot-to assedio, cancellati dal nazionalismo rumeno e sballottati dal-le guerre e dalla Storia, ignorati anche dalla Chiesa cattolica, che negli anni del comunismo preferì “proteggere” i fedeli autoctoni, che in Moldova sono circa 250.000, a Iaşi hanno un vescovado importante con tanto di cattedrale nuova di zecca e inaugurata ai primi del Duemila da Giovanni Paolo II in persona, così almeno mi disse uno dei curati di quella diocesi magnificando le loro atti-vità ma svicolando sulle tribolazioni di questo popolo che ha ispi-rato le opere di Béla Bartók (ungherese nato in un villaggio oggi

delle guerra. Si è partiti con la Slovenia, l’Ungheria, la Repubbli-ca Ceca, la Slovacchia nel 2004, per arrivare a Romania e Bulgaria nel 2007, prima di approdare forse alla Croazia nel 2013 e chis-sà quando a Bosnia e Serbia, i veri snodi per una pace durevole e prospera nei Balcani. Nel frattempo Sarkozy deporta i rom e Bru-xelles s’arrabbia temendo di ritornare ai tempi di Adolf mentre in tanti guardano all’esperimento francese con interesse da sondaggi e gli episodi di xenofobia si moltiplicano ai danni delle minoran-ze ungheresi in Slovacchia e di quelle rumene in Ungheria, che ac-cusa Bucarest di tenere i suoi cugini dei Carpazi e di Transilvania (circa un milione e mezzo di persone, in parte Székely e Csángó dalle musiche esotiche e dagli abiti colorati, i figli della grande am-putazione post Grande Guerra), sotto una cappa di controllo, e i rumeni rispondono che quelli se ne stanno per conto loro rifiutan-do di imparare anche la lingua della nazione dove la Storia li ha spiaggiati. Budapest ha concesso la doppia cittadinanza ai fratelli d’oltre confine, ed è scoppiato l’ennesimo caso.

«Si pensava che con l’entrata nell’Unione Europea questi pro-blemi dovessero essere superati, ma è un percorso lungo lasciarsi alle spalle diffidenze e paure – dice lo scrittore ungherese premia-to a Verona col Grosso d’Oro della Fondazione Masi – è curio-so vedere come lavora la tradizione, le cose sono così uguali nel tempo che è difficile potersi liberare di questi retaggi». Esterházy riflette, guarda il sole ancora caldo di questo inizio d’autunno e sembra armarsi del disincanto di chi vede ritornare sempre gli stessi fantasmi, paure, problemi, sfide, questo sì un sentimento molto “europeo”, forse uno dei pochi che ci accomuna in questo Vecchio Continente frullatore e minestrone.

«Manca spesso la fiducia» mormora con il riserbo di chi non si sente guru e non vuole dare lezioni come anni prima faceva all’università di Budapest (matematica). «Non è semplice, non è

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ser e König. «C’è un lavoro sociale e personale sul passato e sul nostro ruolo in questo passato che si dovrebbe fare» aggiunge con forza lo scrittore ungherese. «Quello che manca nei Paesi post co-munisti è l’autoconoscenza: chi siamo, cosa abbiamo fatto, che co-sa significa questo noi». Problema che onestamente hanno anche l’Europa e l’Italia in particolare. «Solo che nell’Europa dell’Est sono peggiori le condizioni per permettere queste riflessioni per-ché tutto è più incerto economicamente e socialmente. Si soprav-vive ma si è perso quale sia il significato di vivere».

Sarà per questo che si fa fatica ad accettare come vivono gli al-tri, soprattutto i diversi, come per esempio i rom? «Il loro è un problema reale, esiste effettivamente un conflitto tra la loro cultu-ra e gli altri. La diversità sono convinto che sia una ricchezza, pe-rò dall’altro lato crea problemi di convivenza e i motivi di questi problemi sono molto profondi e variegati. E la società come tale continua a fare errori, a mettere barriere, a parlare di maggioran-za e minoranza. Quello che è veramente grave nelle nostre socie-tà è che manca un colloquio sereno, sobrio, ben intenzionato. A volte si parla a voce troppo alta, come se fossimo sempre in un campo di calcio, allo stadio. E io so cosa vuol dire perché da gio-vane giocavo a calcio». Ride lo scrittore dell’Est: «È un linguaggio molto forte e colorito, anche qui in Italia si sente questa forma di linguaggio. Da noi abbiamo coniato un motto: Forza Ungheria».

Ohibò, qui si rischia veramente un “tutto il mondo è paese” nelle sfortune e nella superficialità. Si salvi chi può. Ma dove?

rumeno, Sânnicolau Mare) e anche del folletto serbo Bregović. Le loro case colorate e linde, i loro villaggi da presepe, li incontri pe-regrinando in Moldova, sono oasi in mezzo al caos delle periferia comuniste, spicchi di un mondo fatto di carretti e chiese di legno che sembrano arrivare veramente da un altro tempo e chissà fino a quando resisteranno in queste riserve indiane tra una natura ad-domesticata e rigogliosa.

«L’importante è avere tanti rapporti personali. Io sono convin-to che la cultura possa essere un ponte tra i popoli, se io leggo un romanzo rumeno capisco un po’ di quel popolo anche se non è nella sua lingua, e lo stesso può fare un rumeno con i miei libri. Ma non basta, bisogna anche confrontarsi, parlarsi, viaggiare. In Slovacchia lo si è visto chiaramente, ci sono state tensioni, mo-menti di scontro sulla questione degli abitanti di origine unghere-se, poi sono arrivate azioni comuni tra scrittori, poeti, si è aperto un dialogo che è importante».

Sembra poco, ma è un po’ anche il sale di questo libro e di tut-ti i viaggi fatti con curiosità e disponibilità, aperti, non organizzati né trincerati. La paura della Romania era anche mia, come quella dell’Albania, della Serbia, prossimamente della Georgia o dell’Ar-menia, o di Beirut. Invece poi ti muovi, vinci diffidenze e pigrizie, e capisci che il mondo e la gente, soprattutto la gente, sono diver-si. Aperti, amichevoli, curiosi. Come te. Ovviamente, senza farsi troppe illusioni. La Gara de Nord di Bucarest alle cinque di matti-na non è proprio come stare in un hotel a cinque stelle, ma anche a Padova o Milano non è molto diverso. Vero?

Ogni volta che si racconta di Vienna, Impero, Austria-Unghe-ria, fa sempre capolino l’ipotesi di una nostalgia. «In Ungheria og-gi non si può parlare di nostalgia per quei tempi e non credo nep-pure in altri Paesi dell’Est» afferma Esterházy. «Ci sono altre no-stalgie, ma non quella per il K und K», che dovrebbe stare per Kai-

111transilvania e nuvole ungheresi

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del laboratorio artigiano stretto tra le richieste sempre più pres-santi delle grandi fabbriche tipo Benetton e dei controlli fiscali che iniziavano a farsi un po’ più capillari. Lì, a mille chilometri dall’Italia e a otto-dieci ore di tir, c’era una terra vergine al ca-pitalismo, un mondo che aspettava solo di essere arato e anche un po’ colonizzato. Arrivarono alla spicciolata in una società che era passata dalla dittatura al caos, dalla povertà alla fame, dai kombinat (le fabbriche in serie tipo sovietico) alla disoccu-pazione, alla ruggine, all’anarchia. Di quel tempo sono rimaste tracce nelle tante periferie della Romania dove ancora oggi ci-miniere spente e ammassi di ferraglia troneggiano ai bordi delle strade principali assediando ancora i quartieri popolari dei ca-sermoni fatti col cemento scadente che si sbreccia come se fosse stato bombardato.

Chi fu il primo Cristoforo Colombo del Nordest? Chi scoprì questa terra vergine per l’industria veneta?

Come al solito in questi casi non si riesce mai a trovare un “colpevole” solo. Si sa che il Delocalizzatore Zero arrivò intor-no al 1990, subito dopo la fine della dittatura. Ma forse non ce ne fu uno solo. C’erano quelli che già lavoravano da queste parti nel tessile come nell’alimentare, magari legati al partito comuni-sta italiano. E poi quelli che avevano già assaggiato l’Est per le sue donne e gli ampi territori di caccia che offriva e ancora of-fre tra il Delta del Danubio e le montagne selvagge. E c’erano i disperati, i falliti, i vessati dal 740 e dal fisco e gli esploratori di professione che facevano da scout per le grandi aziende e intra-vedere qui un affare anche per le piccole dato il basso costo della manodopera – allora uno stipendio di un operaio viaggiava sul-le 100.000 lire al mese o giù di lì – e la tanta manodopera dispo-nibile dopo la fine del sistema comunista. In più la terra costava poco. Con dieci, venti milioni di lire potevi partire o ripartire,

L’altra Italia e l’ottava provincia del Veneto[Romania]

«Le fonti ufficiali parlano di circa 25.000 imprese controllate da capitali italiani, forse tremila sono venete, ma quelle veramente attive sono molto meno, forse neanche la metà. E la crisi ha co-stretto alla chiusura più di qualcuno, solo nei primi sei mesi del 2010 sono fallite 15.000 imprese qui in Romania. È molto pro-babile che tra queste ve siano anche di italiane».

Luca Serena ha poco più di quarant’anni, da almeno una de-cina lavora in Romania. Trevigiano, è presidente di Unimpresa Romania, 700 iscritti, la Confindustria di qui, e guida un grup-po veneto attivo tra l’immobiliare e il tessile. È l’ultimo alfiere di una storia che arriva da lontano – l’emigrazione dal Veneto e dal Friuli della metà del secolo xix – e anche da più vicino, l’ondata della delocalizzazione delle imprese industriali che ne-gli anni Novanta del secolo scorso ha fatto diventare Timişoara, la città più vicina all’Italia in quello che era un tempo Impero austro-ungarico, l’ottava provincia del Veneto. Fu un esodo ar-rembante più che biblico, una marea da popolo delle partite Iva e delle fabbrichette, di uomini che al posto della valigia di cartone – quella che imbracciavano i loro nonni emigranti per fare gli spaccapietre e i manovali – appena caduto il Muro por-tavano un po’ di capitali (lirette appena svalutate dalla crisi del 1992) e qualche macchinario per lo più obsoleto. Fu un’inva-sione verace e anche pacifica di una generazione che aveva as-saggiato lo sviluppo e se lo voleva tenere e non s’accontentava

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gua, latina come l’italiano, ma lontanissimo per modo di vive-re. Il clima rigido fece il resto, portando a far germogliare anche altre attività, quelle in rosa. «Ormai hanno chiuso quasi tutte le società aperte per coprire la fidanzata, l’amante, dare lavoro a una segretaria particolare», dice Luca. Sarà, ma anche oggi al-meno la metà delle famose 25.000 imprese italiche sono inatti-ve, scatole vuote e letti pieni. L’altra sponda era spesso quella del talamo piuttosto che quella dell’industria.

Allora, negli ormai mitici anni Novanta – per me, che ero più giovane, e, soprattutto, per il Nordest, che era arrembante – Timişoara era una città grigia e rigida, scomoda e con pochi servizi. Di sera, soprattutto d’inverno, le strade si svuotavano e si riempivano i pochi ristoranti già aperti dagli italiani. Poi, do-po cena, c’erano i night con pupe mozzafiato e poco altro, posti più squallidi che ruspanti. Solo a Bucarest andava un po’ me-glio, anche se gli orfani della strada, gli scugnizzi rumeni, erano cinquemila. Si nascondevano nelle fogne e nei tombini per cat-turare un po’ di caldo dopo aver vagato per le strade a caccia di cibo. «Oggi sono molti di meno e soprattutto li hanno spostati dal centro, non si vedono più, sono in periferia», dice Luca. E sono rimasti soprattutto i cani randagi per strada, pare che sia-no migliaia, li vedi a tutte le ore, scorrazzano da soli o in bran-chi, ti fanno compagnia ma anche ti guardano fisso. Li volevano eliminare con una caccia a tappeto ma gli animalisti si sono op-posti e ora rimangono a presidiare gli angoli delle piazze e i pa-lazzi Bauhaus del centro in disfacimento.

La marea delle imprese del Nordest continuò a ingrossarsi con le fabbriche che lavoravano legno per i mobilifici del Livenza, quelle che facevano parti delle calzature da passeggio oppure pez-zi dei condizionatori e dei frigoriferi del distretto trevigiano-por-denonese, infine arrivarono le società di servizi (artigiani, avvo-

come negli anni Cinquanta da noi, come prima del boom. La Ro-mania e Timişoara offrivano un’occasione o una nuova carta da giocare al poker della globalizzazione ai tanti imprenditori del Nordest già fatti o in erba. Operai, artigiani soprattutto, ma an-che professionisti o piccoli industriali decisero di scomettere qui sul loro futuro, tanto se avessero perso sarebbero sempre potuti tornare indietro nell’ovatta del Nordest. E aprirono fabbriche di scarpe, di magliette, di giacche a vento, di pantaloni, abiti firma-ti e non. Poi arrivarono quelli che facevano pezzi per altri: parti d’auto, di frigoriferi, condizionatori, moto, trattori.

In pochi anni, nel 1995, nell’area di Timişoara operavano già mille fabbrichette made in Nordest, e poi arrivarono Arad, Cluj-Napoca, Bucarest, tutta la Romania diventava terreno di conquista per questi industriali avventurosi attirati dai bassi co-sti della manodopera e dagli spazi che si aprivano ai loro inve-stimenti. Fu come una nuova corsa all’oro nel Far West ameri-cano, una corsa al Far Est che al posto del metallo giallo aveva come obiettivo pascoli più aperti per le industrie e praterie di sviluppo in tutto quel Centro Europa che solo allora si affac-ciava alla storia industriale e libera. Dovettero fare i conti con la corruzione e il caos di un sistema legislativo che non sapeva nulla di codici e protezioni perché abituato al collettivismo e al socialismo reale. «Ancora oggi ti chiedono se vuoi un buon av-vocato, cioè uno che conosce il diritto e la giurisprudenza, o un bravo avvocato, cioè uno che conosce bene il giudice», mi racconta col vincolo dell’anonimato un imprenditore, vent’anni dopo quella grande corsa. Figurarsi allora che i nordestini dove-vano farsi largo tra amministrazioni pubbliche ignoranti e una società allo sbando, tra cricche locali ancora legate al vecchio si-stema della Securitate (la polizia segreta di Ceauşescu) e i nuovi potentati in costruzione. In più c’era un Paese vicino per la lin-

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pensano assolutamente ad associarsi in cooperative perché sanno di comunista e dittatura», sottolinea Mister X. E così ti ritrovi ad ammirare distese e distese di pianura incolta oppure zappata an-cora con l’aratro tirato dal cavallo o dalla vacca, come nell’Otto-cento, come quando qui arrivò la prima ondata di emigranti del Nordest (escludendo ovviamente i Romani di Traiano e Ovidio, ma questa è un’altra storia che racconterò più avanti, quando vi parlerò del Mar Nero e delle colonie che un tempo erano impe-riali e poi furono anche genovesi).

cati, consulenti, grossisti, banche come Unicredit, Intesa, Veneto Banca) fino al 2005, quando un’indagine ufficiale dell’Unionca-mere del Veneto registrò circa 3800 aziende di capitali veneti in tutta la Romania su un totale di quasi 18.000 italiane, ma quelle attive erano 2578 su 11.656. Poi poco altro. «Molti di quelli della prima ora hanno chiuso per la crisi, altri si sono trasferiti in Mol-dova, dove il lavoro costa un po’ meno, la maggior parte ha deci-so di spostarsi in Cina, in India, Vietnam», spiega l’imprenditore trevigiano. «Chi è rimasto lo ha fatto soprattutto perché si è con-solidato, ha fatto investimenti, e ha pensato anche di scommette-re nel futuro di questo Paese di ventidue milioni di abitanti dove ora dovrebbero svilupparsi anche l’agricoltura e le energie rinno-vabili dopo il boom dell’edilizia degli anni scorsi che ha un po’ inebriato tutti, facendo decollare i consumi interni». E anche le illusioni se in tanti ormai utilizzavano la carta di credito come se fosse una matrice stampa soldi e accendevano mutui con la stes-sa leggerezza di una grigliata in campagna. Il risultato è stata una crisi brutale, disoccupazione al 10%, tagli di un quarto degli sti-pendi pubblici e cali di quelli privati di 200-300 euro. «Tutti par-lano di questi trenta miliardi di fondi europei in arrivo per l’agri-coltura e per costruire strade e ferrovie» ricorda Luca. «Ma nes-suno spiega che quei soldi avrebbero bisogno di almeno un 20% di investimenti locali, rumeni, per essere attivati». Il risultato è che il tesoro resta a Bruxelles, che al pari del Fondo Monetario Internazionale si fida poco del governo di Bucarest, e le autostra-de sono in ritardo, e l’agricoltura di quello che un secolo e mezzo fa era il granaio d’Europa è allo sfascio. Complice anche un siste-ma schizofrenico. «Il governo post comunista ha privatizzato la proprietà della terra, dividendola tra tutti i contadini col risulta-to di creare tanti piccolissimi proprietari che al massimo riescono a produrre per la sussistenza loro e della loro famiglia e che non

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dove proveniva il leggendario pugile Primo Carnera, il “gigante buono”). Trentini, veneti, friulani, giuliani, gente che già allora si trovava naturalmente appesa all’Oriente, che non pensava so-lo all’Australia o all’America come carta da giocarsi per vincere la fame e la miseria che infuriavano in quell’Italietta già prostra-ta da scandali e da un’unità fittizia. In migliaia ogni primavera si spostavano verso est, verso il grande Paese danubiano, appena unificato dopo secoli di dominio turco, a cercare lavoro come stagionali. E lo trovavano nei cantieri, nei campi, nelle città che si stavano costruendo in maniera frenetica sul modello francese e grazie ai soldi del petrolio e del gas – stavano appena iniziando a sfruttarlo – e alle ricchezze dei latifondisti dei cereali del gra-naio d’Europa.

Ora di quella prosperità sotterranea rimangono solo i tralic-ci arrugginiti di certi pozzi nella pianura verso Iaşi e le ricerche delle compagnie multinazionali nel Mar Nero che certificano co-me al largo di Costanza e del Delta vi sia un giacimento immen-so. Ma allora, poco dopo l’unità d’Italia, la Romania prometteva soprattutto lavoro duro, e anche ben pagato, ai nordestini emi-granti: 7, 8, 12 lire al giorno, ricoveri in baracche sulla terra bat-tuta e cibo a volontà, se ti accontentavi di “ciorbă”, la minestra rumena. Carne solo alla domenica, quando potevi andare a ripo-sare e a bighellonare in queste città spoglie dove la principale at-trattiva erano i bar, come a casa tua, nelle montagne tra Belluno e Udine che allora non avevano ancora conosciuto il boom del-lo ski e del trekking enogastronomico. I cognomi di questo spic-chio di Nordest sopravvissuto al comunismo dopo la Seconda guerra mondiale sono i “soliti”: Paladini, Bellio, Riccobon, Bu-tolo, Olivotto, Vanelli, Tomaselli. Aurora Paladini di Brezoi, la decana, novantasei anni, era l’unica ad aver conservato la citta-dinanza italiana, forse perché s’era dimenticata di esserlo in quel

La terra promessa e il signor Geox[Romania]

La fotografia è un po’ rigida e ingiallita dal tempo, doppia fi-la di scolari impettiti come se fossero davanti al comandante di un reggimento e non a una macchina da ripresa. In mezzo, uni-ci seduti a sorpassarli lo stesso di una testa, un paio di insegnan-ti. Dietro di loro un edificio di pietre dalle grandi finestre in cui campeggia una scritta: “Soc. ‘Carpatina’”. Era la scuola italiana a Brezoi, distretto di Valcea. Transilvania, Romania profonda a 70 chilometri circa da Sibiu, una delle città fortificate sassoni, e a 200 o poco più da Bucarest. Inverni gelati e orsi alle porte, un altro mondo che era già molto Nordest alla fine del xix secolo.

«Nel 1895 a Brezoi sono venuti 115 italiani, la maggioranza dal Friuli e dal Veneto, soprattutto da Belluno, hanno costruito la ferrovia Ramnicu Valcea-Sibiu, le stazioni della zona, la cana-lizzazione della città. Erano boscaioli, specialisti nella lavorazio-ne del legno, lo tagliavano e lo trasportavano fino a Brezoi con delle zattere. Grazie a loro la città ha avuto uno dei primi siste-mi di illuminazione elettrica della Romania. La Carpatina era la società di sfruttamento delle foreste fondata nel 1886 dal triesti-no Giovanni Stagni». Elena Butolo ha raccontato tutto questo a Corina Tucu in un libro, Veneti in Romania. Più che veneti erano gente del Nordest in generale i protagonisti di quest’emigrazione fatta di manovali, spaccapietre, boscaioli, contadini ma anche ar-chitetti, mosaicisti, scultori, impresari e giornalisti come Mode-sto Gino Ferrarini, nonno da Sequals (il paese vicino a Udine da

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rendere più stabile e civile l’Europa. Non per niente sul fronte-spizio del suo giornale campeggiava il motto mazziniano: «Giu-stizia per tutti, Tutti per la giustizia». Cazzavillan fece fortuna ma non dimenticò mai i suoi compaesani, fondando un comi-tato di mutuo soccorso per gli operai e i capimastri che lavora-vano in città, la “Dante Alighieri” per divulgare l’italiano e una scuola, la “Regina Margherita”, dove andavano i figli dei prole-tari per costruirsi un futuro da architetti e ingegneri. Altri tem-pi, anche se Unimpresa Romania aiuta ancora oggi gli orfani di Bucarest ed è impegnata in molte altre attività sociali e di svilup-po. «Ci siamo integrati, questa è la nostra comunità, non ci sono solo gli affari», dice Luca Serena. E gli industriali per sdebitarsi hanno finanziato restauro e spostamento della Lupa dell’Impero da viale Traiano – dove stava persa e sperduta in mezzo al caos del traffico di Bucarest – a una piazzetta pavimentata con por-fido in quello che sta diventando il quartiere chic della capitale, Lipscani – un appellativo che deriva dai tanti tedeschi di Leip-zig (Lipsca in rumeno) che stavano qui. All’inizio del xv secolo la maggior parte dei commercianti e degli artigiani – rumeni, au-striaci, greci, bulgari, serbi, armeni ed ebrei – aprirono botteghe in questa parte della città. Anche Ceauşescu la risparmiò e fiori-rono gallerie d’arte, negozietti d’antiquariato. Poi col crollo del comunismo nel 1989 il quartiere divenne praticamente terra di nessuno occupata dai rom. Le case si degradarono, spuntarono voragini nelle stradine, un buco nero s’era aperto al centro del-la capitale. Qualche anno fa iniziarono gli sgomberi forzati e gli acquisti altolocati, i lavori per le fognature e i restauri. E sono ri-tornati gli artisti, le gallerie, i bar e anche boutique di vestiti e ar-redamento. Ma rimane ancora un segno del passaggio dei rom: i negozi di abiti da sposa. Il matrimonio per i nomadi è un fatto serio, serissimo, come ho sperimentato a Craiova.

1953 quando si dovette scegliere: te ne vai oppure resti, ma solo come rumena. Un destino simile ad altre minoranze che ora vi-ve un’altra beffa: «Sono molto scontento della politica italiana per quanto riguarda gli italo-rumeni. Dopo il 1990 ci aspettava-mo iniziative concrete che aiutassero noi di Brezoi nel rilancio di attivtà imprenditoriali, invece sono venute qui delle società ita-liane che hanno preso fondi della Comunità Europea e con quei soldi si sono rimodernati le fabbriche da loro e qui hanno chiuso anche la Carpatina. In realtà volevano solo sfruttare la situazio-ne e noi siamo rimasti come ai tempi dei comunisti, marginaliz-zati e impoveriti», il ricordo di Bruno Ricobon, madre friulana e padre bellunese. «Gli italiani che hanno una tradizione di emi-grazione più numerosa ci hanno dimenticati e ci pongono anche intralci a prendere la cittadinanza». Ma quanti sono gli italiani di Romania? Modesto Gino Ferrarini ha fatto degli studi e parla di un numero tra gli 8000 e i 10.000, sparsi tra Bucarest, Greci, Brăila, Pitesti, Iaşi, Costanza, Ploieşti. Superstiti di una comuni-tà che prima della Seconda guerra mondiale contava 60-70.000 abitanti. Forse oggi sono più gli imprenditori e i loro dirigenti dei superstiti di quell’altra emigrazione, più povera, più di car-tone di quella di vent’anni fa. Però quelli hanno costruito chiese, ospedali, palazzi. E anche giornali, come l’«Universul» di Luigi Cazzavillan, fondato nel 1884, che in breve tempo diventerà il quotidiano più diffuso di Romania.

Nato ad Arzignano, questo vicentino fu un vero romantico e un garibaldino: a quattordici anni lasciò la scuola per com-battere contro gli austriaci in Trentino, poi andò in Francia, nel 1876 lottò con i serbi nella loro guerra di indipendenza contro i turchi, altro che Byron! Cazzavillan era un convinto assertore della fraternità tra italiani e rumeni, usciti dalle stesse lotte ri-sorgimentali contro l’Austria, propugnava un’unione latina per

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cento operaie (qui allora lavoravano soprattutto le donne), pren-devano due o tre capifabbrica italiani per sorvegliarle e via a pro-durre a nastro reggiseni o mutande, asciugamani o maglioncini, tanto, anche se un prodotto su dieci era difettoso con i costi che avevano si potevano anche buttare. E pazienza se saltava la cor-rente elettrica o mancava il gas per il riscaldamento (problema anche oggi, in inverno), tanto in un paio di anni si diventava ric-chi in nero e in marchi e si poteva mollare tutto, fare la bella vita. Pazienza poi che la metà di queste illusioni svaniva al sole della concorrenza sempre più spietata o al ricatto di qualche poten-te locale. La Romania era ancora grande in quegli anni Novan-ta ruggenti. Si poteva lavorare da fachonisti (una storpiatura di fashion, per dire che c’era un po’ di gusto proprio), ma soprat-tutto col contratto “lohn”: specifiche tecniche, numero di capi e caratteristiche decise dal committente, che pagava a chiusura della produzione. Era (è?) il traffico di perfezionamento passivo che permetteva di delocalizzare la produzione mantenendo spes-so il made in Italy e di pagare molto meno i prodotti (un operaio rumeno costava un decimo di uno italiano negli anni Novanta, ora un ottavo o un quinto, dipende dai posti). Nel frattempo si potevano scaricare costi e fatture sulla consorella rumena dove le tasse erano al 10 o 20%, creando una bella provvista all’este-ro, un tesoretto per i momenti difficili o per investire in terra o mattone in quella che i Romani chiamavano Dacia.

Oggi tutto è più difficile. C’è più concorrenza, controlli, e me-no possibilità. Chi investe parte con milioni di euro e deve ave-re obbligatoriamente uno sguardo più lontano, si deve inventa-re nuovi business come l’eolico vicino al Mar Nero, sfruttare il vento in questa pianura piatta e immensa più che la terra dura e difficile, in posti dove lasci un trattore in una stalla e l’anno do-po non trovi le ruote.

Ora il passeggio finisce nella piazzetta con la lupa capitoli-na, inaugurata al cospetto del sindaco di Roma Alemanno. Un simbolo non raro in questi Balcani ai bordi delle steppe. In qua-si tutte le grandi città della Romania e della Moldova ne spun-ta una, ne hanno contate diciassette, record mondiale, più che in Italia, un vero culto, un ricordo di altri tempi, ma forse so-prattutto il simbolo di una voglia di integrazione, di ritrovare quell’Europa sotto il segno della pax imperiale.

L’Italia qui in Romania è ancora un modello di gusto e bel vi-vere, spunta dalle vetrine luccicanti di Bucarest anche con mar-chi taroccati, ma gli italiani… negli anni Novanta e Duemila hanno combinato anche grossi guai, crac e fregature. E ora sono visti un po’ con sospetto e diffidenza. «Meglio i tedeschi o i ca-nadesi, quelli vengono, investono soldi veri e non scappano al-la prima difficoltà», mi fa Dimitri, imprenditore della nouvelle vague rumena. Oggi a Timişoara ci sono le Generali che hanno varato una tenuta da 5000 ettari con coltivazioni intensive e an-cora tante fabbriche che secondo uno studio della Fondazione Nord Est (Frontiere mobili) sono mimetizzate nelle periferie e nelle campagne, piccole unità produttive, produzioni satelliti, fortini lasciati dai pionieri del Nordest a presidiare un posto che considerano sempre più ostile: «Il costo del lavoro è alto, fino a poco tempo fa non si trovava manodopera perché con l’entra-ta nell’Unione Europea è emigrata in Italia, e dovevamo rubarci gli operai migliori a suon di aumenti» commentava un impredi-tore ancora pochi anni orsono. «Poi cominciano anche a esserci i sindacati, aumentano i controlli, la burocrazia. Quasi peggio che da noi».

Non è più tempo dei ruspanti, degli improvvisati che un gior-no dei primi anni Novanta, presi dal miraggio della ricchezza facile e veloce, aprivano la loro fabbrichetta, ci piazzavano due-

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menti per 767 persone su 880. Insomma, il sospetto è che il pas-saggio sia stato fatto per avere le mani più libere per trovare pro-duttori più economici di Geox in Asia e lasciare ad altri la patata bollente di una ristrutturazione pesante. La logica di una multi-nazionale sempre meno produttiva e sempre più concentrata sui servizi, sulla vendita. Più commerciante che industriale, l’ottica che ha reso strabici molti imprenditori del Nordest e non solo negli anni Duemila. In Romania meglio aprire solo negozi. L’im-presa nomade si è fatta ancora più immateriale, quasi ectoplasmi-ca, lasciando a Timişoara solo l’illusione di un nuovo sviluppo e i centri commerciali che infestano la sua periferia come le nostre.

Non è più tempo per il tessile, l’abbigliamento, le calzature, le fabbriche a quattro ruote sono già andate più in là, in Moldova, Ucraina, nel Far Est. Anche la Geox di Mario Moretti Polegato, l’ambasciatore della Romania in Italia, ha sbaraccato cedendo la sua fabbrica di Timişoara da 1500 addetti (scesi nel 2009 a 900 dopo tagli decisi) a un altro veneto, tale Vincenzo Tagliaboschi. «Abbiamo venduto a un imprenditore che poteva produrre an-cora per noi, preferendo investire sulla logistica a Crocetta del Montello e affidando la produzione a subfornitori asiatici», spie-gano dal quartier generale Geox. La “scarpa che respira” arrivò ad Arad, trenta chilometri da Timişoara, addirittura nel 1993, quando insieme alla Diadora dava commesse alla fabbrica stata-le Libertate. Nel 1998 il console generale onorario Moretti Pole-gato sbarcò più decisamente, aprendo un’attività in proprio ar-rivando a produrre fino a tre milioni di scarpe all’anno. Tutto in casa o al massimo in qualche aziendina satellite della zona, per-ché così si proteggevano meglio i brevetti e si tenevano i costi bassi comunque. Anni fa visitai la fabbricona e chiesi a minimo dieci delle operaie – da queste parti sono sempre le donne a es-sere al bancone e alla macchina da cucire – quanto costavano ve-ramente quelle scarpe e quegli stivali che imbastivano e suolava-no tutto il santo giorno. Gli sguardi si abbassavano, le bocche si cucivano più delle tomaie ma alla fine qualche risposta arrivò di soppiatto e di nascosto dai capi: 7 euro un mocassino, 15 massi-mo per gli stivali. Roba che veniva venduta nei negozi italiani a 100 euro. I salari delle operaie di Timi viaggiavano sui 250 euro (ma oggi sono già calati), un sesto del costo di un operaio italia-no, ma sempre di più di uno cinese.

Oggi Geox ha venduto e fa fabbricare le sue scarpe nel più glo-bale Far Est. E pare che il Tagliaboschi, fedele al suo nome, ab-bia subito deciso di sfrondare decisamente annunciando licenzia-

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Nuova Cina e vecchie ristrettezze[Romania]

Gli operai cinesi applaudivano i giovani rumeni dell’associazio-ne di volontariato Amicu che avevano appena finito di distribuire pane, pasta, bibite, frutta ai duecento accampati di fronte all’am-basciata di Pechino. Per proteggersi avevano messo su delle tende improvvisate, come soffitto teloni di plastica, sui fuochi pentole dove bollivano dei molluschi pescati nel lago vicino mezzo in sec-ca e altrettanto inquinato. La polizia di Bucarest aveva portato dei bagni chimici, qualcuno stendeva il bucato sulle ringhiere di fron-te alla tangenziale della capitale. Sullo sfondo due grattacieli in co-struzione dove i lavori languivano e il palazzo dell’informazione, in inconfondibile stile comunista. Molti di questi disperati (sareb-bero in tutto quasi tremila i cinesi senza lavoro e senza speranze in Romania) erano entrati nel Paese alla chetichella e agitavano il decreto d’espulsione: «Ho pagato 10.000 dollari per venire a lavo-rare qui, mi avevano promesso mille euro al mese e me ne hanno dati 250, lavoravamo 8-10 ore al giorno e se ti capitava un inciden-te se ne fregavano. E ora mi hanno ritirato il passaporto – mi disse il giovane che sventola il documento d’espulsione, un ragazzo esi-le sui venticinque anni attorniato da una decina di suoi compaesa-ni (arrivano da sei province cinesi diverse) – non so cosa fare, non posso tornare perché ho i debiti e l’ambasciata non fa nulla, per loro non esistiamo».

«Negli ultimi mesi hanno chiuso metà delle piccole imprese dell’edilizia, quella dei cinesi non è l’unica storia di disoccupa-

zione straniera qui in Romania. Ora sono senza lavoro pakistani, indiani, cingalesi, gente che era stata assunta perché eravamo in pieno boom edilizio e non si trovavano muratori rumeni, qui nel-la capitale la disoccupazione era a zero. Lavoravano tutti da voi in Italia e in Spagna e non avevano nessuna intenzione di tornare indietro malgrado il piano di incentivazione del governo, assolu-tamente insufficiente» mi aveva spiegato Manuela Meriscà, pre-sidente della Invest Prod, società di Bucarest da 85 addetti e 4,5 milioni di fatturato che realizzava (o fa ancora?) infissi e finestre, una delle poche donne d’intrapresa di Romania «poi è scoppiata la crisi e li hanno licenziati, come molti altri rumeni». «Ma io ri-mango ottimista» affermava Manuela, una che il settore lo cono-sceva bene (l’azienda è del 1993) e che lavorava anche con le im-prese italiane. «Il nostro è un Paese giovane, la crisi è molto più reale in altre nazioni. Noi abbiamo un problema di sovraconsu-mo, di troppi debiti per comprare auto, cellulari, frigoriferi. Ma qui a differenza dell’Ungheria c’è ancora tutto da fare: strade, uf-fici, porti, aeroporti; l’agricoltura è ancora a zero. Consumeremo meno, stringeremo la cinghia – tanto ci siamo abituati – e poi ri-partiremo. Anche prima dell’Italia».

«Qui la gente si era indebitata con tre-quattro banche per comprare l’auto, il telefonino, il frigorifero, perfino per fare la spesa proprio come negli Stati Uniti» raccontava Simona Railea-nu, consulente per diverse imprese italiane. «E ora hanno iniziato a non pagare le rate, tanto che possono fare: pignorargli la tv?».

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Il Delta e la memoria storica[Romania]

In primavera è una tavolozza di colori, un capolavoro d’impressio-ni, le ninfee a sbocciare di colori accesi, i fiori a guardare il sole e i giovani uccelli a slanciarsi nel cielo. Poi sarebbe arrivata l’estate ad assorbire quell’energia, a prosciugare i mille canali e a seccare le canne a riva. E l’autunno, la stagione in cui sono arrivato io, so-lito fuori tempo.

L’alba era arrivata fredda e decisa nella casetta a due piani dove in giardino c’era anche la gabbia col cerbiatto: «L’abbiamo trovato perso in mezzo ai canneti, ferito da chissà quale cacciatore, l’ab-biamo portato qui e ora aspettiamo. La prossima primavera lo la-sceremo libero anche se i ragazzi si sono affezionati e temiamo che lo uccidano libero, ma sta peggio lì, in gabbia».

Già. L’omone con radi capelli e faccia larga non te le aspette-resti così sensibile, ma l’apparenza inganna. Come quell’alba. Il freddo non ci avrebbe abbandonato, no, proprio no. Fine ottobre, i colori della natura s’erano spenti come da noi, ormai la tavolozza virava verso l’ocra e il verde ramarro. Ci guardiamo, Marco mette in borsa la sua macchina fotografica e sorride come fa lui, un po’ per convincerti e convincersi che non stiamo facendo una cazzata.

Eravamo arrivati da Galaţi e Brăila, città industriali a meno di duecento chilometri da Bucarest che stanno a un passo dalla Mol-dova e su uno dei tanti bracci del Danubio. Nella pianura alluviona-le verdeggiante dove ogni tanto spuntano cavalli al pascolo, pasto-ri con i loro greggi, ci sono resti di antiche città romane, Arrubium,

Troesmis. A Tulcea, l’ultimo grande centro abitato prima della ra-gnatela di natura anfibia e del Mar Nero, c’è anche una moschea che rammenta un’altra dominazione. Poi la strada diventa sterrata e quasi pista e l’acqua comincia farla da padrona e si finisce a Du-navatu, non mi ricordo se de Sus o de Jos, detta così sembra come dalle nostre parti, di giù o di su. Ma lì siamo ai confini dell’Europa, finis terrae e non solo metaforicamente. Da qui in poi ti puoi muo-vere solo in barca e con la guida, altrimenti ti perdi in questo labi-rinto di canali che sfocia a Sulina – sogno o incubo di C. e porto industriale – e più in basso a Sfântu Gheorghe, l’ultimo paese dei Lipoveni, la popolazione del Delta, e ai resti di Uspenia, Heracleea, Argamum, Histria, la vecchia colonia ellenica e romana sul mare che sta a due passi da Istria e a duemila chilometri da dove ero partito e in mezzo a quel viaggio assurdo con la spider e al fantasma del poe-ta imperiale Ovidio, esiliato da queste parti alla fine del suo impero, dove la civiltà per i Romani finiva insieme alla geografia e iniziava un altro mondo. Come oggi, d’altronde. Corsi e ricorsi storici?

Ci portiamo tutti i vestiti che abbiamo, carichiamo gli zaini in macchina e salutiamo la famigliola in riva al grande fiume dopo una colazione da uova e pancetta locale, una botta di trigliceridi degna del grande freddo che arriverà: «Qui d’inverno nevica e tira vento», ci dice la signora. Poi arriva il suo amico vestito come un guardacaccia, o un ranger: ci avrebbe portato al fiume, in uno dei suoi bracci, ad affittare una barca e una guida per quel mondo che si allungava per chilometri e chilometri in tutte le direzioni. Un parco alla fine del mondo, un altro mondo fatto di case su palafit-te e gente silenziosa, di pensioni come la nostra e torrette di legno dove ti acquattavi per aspettare il passaggio degli animali che af-follavano il Delta. Tanti. Ma alcuni se n’erano già andati a migrare al caldo dell’Africa. Pazienza. Noi siamo qui e ora. Chissà se esiste un tempo per tutto, noi avevamo solo questo.

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Il Delta del Danubio è popolato ma i suoi abitanti spuntano all’improvviso dalle rive come i fenicotteri che sono i veri padro-ni di quel mondo. Fondamentalmente è un labirinto che solo loro conoscono e ti devi affidare. Di sicuro è pescoso. Almeno a giudi-care dalla caccia del tipo che ci incrocia. La nostra guida e l’altro chiacchierano e si mostrano i risultati di questa pesca: lucci, che qui vanno alla grande, e altre bestie ben messe. Quindi l’inquina-mento non arriva oppure anche loro hanno imparato a conviverci. Di sicuro pescare non sembra un’impresa. Il nostro uomo infatti dopo ore di esplorazioni e rincorse a stormi di pellicani, fenicotte-ri, garzelle, cormorani e altri pennuti che vengono sorpresi e fug-gono con nuvole di vari colori nel cielo, si ferma in un laghetto, spegne il motore e inforca la canna da pesca. Un, due, tre tentativi e poi arriva regolare il pesce. Ghigna alla nostra sorpresa il Caron-te del Delta. «Volete provare?», ci fa sornione. Sì, sì. Il mio tentati-vo rischia di farmi finire in acqua, ma poi la lenza viene tirata lon-tano quel tanto che serve a farmi attendere invano una pesca mi-racolosa. Stessa sorte per Marco. Evidentemente non è così facile.

È comunque uno spettacolo seguire atterraggi e partenze sull’acqua di pellicani e altri bestioni alati. Utilizzano le zampe co-me carrelli che scivolano sul liquido come su una pista creando quell’equilibrio necessario a potenziare il ritmo delle ali e avviare finalmente il volo. È un equilibrio instabile quello a cui assistia-mo, ma anche sapiente. Sono animali anfibi che hanno imparara-to a convivere e a sfruttare due elementi, acqua e aria, per vivere e viaggiare. Un gioco mirabile che mi suscita meraviglia perché mi è anche straniero. Noi abbiamo sempre bisogno di appendici mec-caniche per vincere le resistenze della natura. Siamo fatti per la terra ma ci siamo immersi anche nei cieli con l’ingegno. Ma rima-niamo sempre limitati davanti a quelle evoluzioni della natura. Pe-rò anche qui, in questo dedalo di acque e terre che ogni stagione

modella alla sua maniera, l’uomo è riuscito a inserirsi, in qualche maniera colonizzare. Sospetto che non sia stata così aulica.

L’inverno non è ancora iniziato ma fa già un freddo cane, l’umidi-tà ti pervade sempre e le zanzare d’estate ti ammazzeranno. Però le palafitte sugli argini, con i loro colori pastello e l’aria sempre un po’ dimessa, ti danno una sensazione serafica, olimpico distacco dai po-teri e dalle rincorse. Ma anche ti senti sull’orlo di un confine che ha mischiato tante storie, dagli Argonauti ai Genovesi, ai Turchi. Chis-sà cosa accadeva qui ai tempi del comunismo, come questo confine fluido poteva essere aggirato dai tanti traffici che l’uomo sa costru-ire ai margini di un sistema. Non posso credere che controllassero tutto, anzi, conoscendo come agivano i ragazzi del Partito, sarà stata una grande finzione, una fluida apparizione e sparizione di ordine e socialità. Ai margini del mondo e dentro a chissà cosa. Come oggi, i signori del Delta se ne stanno per i fatti loro. Aspettano le stagioni, cavalcano le acque con i loro barchini e cercano la solitudine. Sem-brano tutti cacciatori o ex soldati con le solo vesti a caki e i cappelli da carristi, potrebbero trasformarsi in guerriglieri. E di sicuro sono contrabbandieri. Oggi deve essere ancora più ghiotta l’occasione. Di là del fiume, tra gli alberi, c’è l’Ucraina. Vuoi mettere le possibi-lità che ti dà un bel Paese fuori dall’Unione.

Qui mi potrei perdere ma non sono un uomo per tutte le sta-gioni, soffro il freddo e già ho maledetto più volte la nostra voglia di curiosare un habitat che alla fine sembra tutto uguale: pennuti, canali, canneti per miglia e miglia. Penso a quello che è accaduto nel delta del Mississipi e non riesco a figurarmelo lì. La morte di un universo così frammentato non riusciremo mai a percepirla fi-no in fondo, anche le sue conseguenze ci sembrano arcane. L’equi-librio prima o poi si spezzerà e noi finiremo appesi all’amo come lucci, occhietti spalancati e bocca serrata intorno allo strumento della nostra morte: il progresso, la tecnologia.

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Nella cantina degli gnomi di Bacco[Moldova]

La fontana sotto il finto castello turrito sprizza un liquido rosso acceso. «Non si preoccupi, non è vino, è acqua colorata, un gio-co per fare un po’ di scena», spiega la guida, spigliata ragazza con gli occhiali sulla trentina che ha imparato l’italiano lavorando in Italia, a Rimini, cameriera con laurea, un classico: «Bel posto, e ti davano un sacco di mance, il mare poi era bello, mi divertivo, non come qui». Qui è a Mileştii Mici (combinatul de vinuri de calitate, come si premuniscono di sottolineare nella loro pubblicità), Ia-loveni, una manciata di chilometri da Chişinău, la capitale della Moldova – la repubblica di quattro milioni e mezzo di anime al-la Gogol’ gemella della Romania – appena fuori da quella perife-ria che ha ancora l’impronta del comunismo e dei kombinat. Poi partono i vigneti che si allungano per chilometri su quelle dolci colline che sono la vera connotazione geografica di questo picco-lo paese che un tempo era la vigna dell’urss e ora si ritrova con le frontiere russe sbarrate. «Perché abbiamo rifiutato di riconoscere l’indipendenza della Repubblica di Transnistria, dove c’è ancora il comunismo e l’Armata Rossa», fa la guida.

Stop, stop, qui stiamo già infilandoci in un ginepraio balcani-co, anzi bessarabico. Meglio concentrarsi su questa fontana su-per kitch buona per la coppia russa (lui sui sessanta grasso e pe-lato, lei sui trentacinque bionda e formosa, non ci credo che sia-no marito e moglie) che si faceva foto su foto davanti al “monu-mento” d’entrata e poi avrei ritrovato nella foresteria circondata

da un complesso tzigano violini e menestrelli, tavola imbandita e lume di candela (molto romantico).

Anche la patria del metropolita di Georgia Sergi di Nekresi, un omone sui due metri con barba e bastone pastorale che sembra un druido, ha subito lo stesso ostracismo russo. Solo che il mio gran pastore è un convinto assertore del fatto che il vino è stato inventa-to laggiù, in Crimea, e quindi si è davanti a un’offesa, a una bestem-mia quando si costringe un popolo di così antiche tradizioni a sco-larsi gran parte del vino che produce: «Dieci litri al giorno sono un po’ troppi», fa il metropolita forse ricordando come uno dei pro-verbi più in voga dalle sue parti sia «bevi alla mattina, il resto del giorno sarà sicuramente bello».

In Moldova la gente è meno pimpante e divertente di quella ge-orgiana, è più malinconica, più slava, se con questo aggettivo si spiega un po’ lo scoppio di energia che ogni tanto li prende e la vo-glia di vivere che viene protetta e sepolta sotto una coltre di disin-canto. Eppure tutti e due hanno vissuto e vivono grazie alla vite di Dioniso e alla sua vivificante ebbrezza. Mah.

In questa cantina ci entri in macchina e ti puoi perdere facilmen-te. «Si tratta di una vecchia miniera con gallerie che si allungano per 200 chilometri nel sottosuolo, solo 50 utilizzati per la produzione e il riposo del nettare di Bacco (il resto a che serve?), a cento metri di profondità, la temperatura è costante a 12-14°C e l’umidità intorno al 90%», spiega cantilenante la guida attaccando la lezioncina im-parata a memoria. Il portone si apre dopo opportuna confabulazio-ne con un guardiano – sembra di essere a Fort Knox – ed entri in questo mondo misterioso che fa effettivamente impressione. Galle-rie su gallerie che si sviluppano ogni tanto in androni più ampi, in grotte levigate dal lavoro di chissà quanti uomini che ora conten-gono cisterne per ettolitri su ettolitri di rosso moldavo, Cabernet, Merlot, Pinot nero, ma anche bianchi – Chardonnay, Sauvignon,

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Aligoté – che rimangono a riposare per anni, decenni in queste ba-re cilindriche. Ogni tanto spuntano le care e vecchie botti di legno e anche delle nicchie nella roccia dove vedi infilate bottiglie piene di muffa o sepolte dalla polvere. «Ma non vanno in aceto?» chiedo io poco esperto. «Nooo, in questo ambiente anche i vini bianchi pos-sono conservarsi per decenni, questa azienda ne ha degli anni Ses-santa», risponde sicura la cameriera di Rimini prestata all’enologia. I miei dubbi rimangono anche se in alcune riviste specializzate i vini moldavi vengono magnificati come ruspanti e ancora genuini come quelli di una volta, come prima dell’era delle produzioni da catena di montaggio tutte robuste, corpose, muscolari, rotonde e barricate. Il Negru de Purcari o il Rara Neagra sono «carichi, luminosi, con bellissime trasparenze, al naso sanno di prugne mature e fichi, liqui-rizia, spezie come zafferano, note di eucalipto; in bocca il velluto dei bei tannini verticali, flessibili, con ricordi di cioccolato e caffè». Ora, a parte la sviolinata che sa da presa per il culo (sfido chiunque a pescare tutte queste sensazioni da un goccio di rosso, mi viene in mente quell’amico che leggeva la mano di qualche bella ragazza alle feste raccontandogli la storia dell’orso e della sua vita: «Tu hai avuto una delusione amorosa, hai sofferto nella tua adolescenza per il rap-porto conflittuale con tua madre», per poi riuscire a portarsele a let-to), effettivamente in Moldova ci sono dei vini gustosi, soprattutto i rossi. Ma sulla loro longevità non scommetterei un leu, la moneta di qui che è un sedicesimo circa dell’euro o forse meno.

Di sicuro se non stai attento e non hai una guida in auto, qui sot-to, nel regno degli gnomi di Bacco, rischi veramente di perderti per sempre; tra queste strade che portano il nome del vino che con-servano, Cabernet, Fetească, Merlot. Le gallerie continuano pare fino a Chişinău confermando l’impressione che hai quando ti han-no fatto visitare uno dei sancta santorum di Milesti Mici: un salo-ne con le pareti tappezzate di vini in rastrelliera e protetto da una

porta di cemento armato spessa trenta centimetri che scorre su un binario. Roba da bunker. «Questo posto, con la fine dell’urss, se l’erano anche dimenticato, pare che per festeggiare l’indipendenza degli alti notabili abbiamo passato giorni qua dentro», dice la gui-da. Più prosaicamente forse s’erano nascosti qui in attesa di capire cosa stesse accadendo sopra, nel mondo esterno crollante.

Insomma, mi stavo aggirando in una cantina gigante, da Guinness – milioni di bottiglie e di litri – che alla bisogna servi-va anche da rifugio anti atomico. Niente di meglio che aspettare la fine del mondo bevendo e festeggiando. Come ha fatto Putin da queste parti celebrando pare il suo mezzo secolo di vita nella cantina moldavo-russa situata a pochi chilometri dall’Ucraina che tanto piace alla regina Elisabetta, a Purcari, dove producono – pa-re – il miglior Negru del regno.

Il giro esplorativo a Mileştii Mici costa un biglietto d’entrata che ti permette qualche assaggio alla fine e dura un’ora e poco più. C’è il tempo per capire che tutto in questa città sotterranea del vino – dove riposano due milioni di bottiglie – che esplori in auto è regola-to ancora dalla flemma comunista e che l’obiettivo di fondo sareb-be quello di far decollare le vendite anche in Occidente. C’è la vo-glia di seguire esempi italiani o francesi, ma a occhio dovranno an-cora passare anni prima che possa decollare un vero business. Per fortuna. Altrimenti anche qui sarebbero sommersi dalla retorica del tannino e degli aromi di «ananas e cedro con chiusura di man-dorle». Come se a qualche chilometro invece che le steppe russe ci fosse il Mar dei Sargassi e il Corsaro Nero del mio concittadino scribacchino Salgari! Forse qualcuno aveva bevuto troppo, o forse la retorica da sommellier aveva tracimato in una trombonata degna di Prova d’orchestra di Fellini. Comunque il rosso di qui è buono, verace, sui bianchi non mi pronuncio, figurarsi sugli aromatizzati. Se i nostri sono pompati, questi qui…

1nella cantina degli gnomi di bacco

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Ai confini dell’Europa[Moldova]

«Voi ci passate tutti per poveri, è vero che siamo arretrati, ma que-sta non è l’Africa» protesta Corina, ventotto anni, occhi chiari e un lavoro da manager bancaria dopo aver insegnato italiano come assistente all’università di Chişinău, la capitale più oscurata d’Eu-ropa (pochi lampioni e vetrine buie all’insegna del risparmio ener-getico), circa trecento chilometri da Bucarest e un confine epocale in mezzo segnato dal fiume Prut, cioè quello con l’Unione Euro-pea. «Siamo molto religiosi e gran lavoratori. Chi è in Italia man-tiene in piedi una famiglia qui e non vede l’ora di tornare da noi per impiantare una sua attività, di creare ricchezza nel suo Paese».

«La Moldova non offre grandi possibilità, meglio andare all’estero, a fare le badanti, o il muratore, vedere il mondo», sus-surra invece Irina, vent’anni, che studia odontoiatria all’universi-tà, un lavoro che qui rende 100 euro al mese se va bene. In città.

In campagna, dove molte case non hanno l’acqua corrente (fuori in giardino c’è il pozzo) e il riscaldamento è a legna, mol-to meno.

«Sono in tanti che fanno fatica a coniugare il pranzo con la ce-na e hanno risolto mangiando una volta sola al giorno, spesso gra-zie ai frutti dell’orto», spiega don Sergio Bergamin, un padova-no di San Martino di Lupari di circa sessant’anni, occhiali spessi e sguardo buono, che insieme ad altri tre confratelli dei salesia-ni (due polacchi e un veronese) dopo aver lavorato in Romania a Bacău e Costanza, nella periferia di Chişinău ha messo in piedi un

centro Don Bosco. «Qui il problema dell’emigrazione ha assun-to risvolti pesantissimi a livello sociale, sono migliaia i ragazzi che vivono sulla strada, 30-35.000 quelli che sono sotto la soglia della povertà, 15.000 gli internati in una specie di orfanotrofi» osser-va mentre fa vedere l’opera realizzata in soli tre anni dove prima c’era un’officina abbandonata a due passi dai binari dell’arrug-ginita ferrovia per Mosca. «E nelle campagne è ancora peggio. Sono i figli delle badanti andate a lavorare in Italia e che torna-no forse dopo anni, di padri spesso alcolizzati, finiti in carcere, ragazzi di cinque, dieci, quindici anni lasciati alle cure dei non-ni che fanno quello che possono ma anche per loro è dura vivere con una pensione di 30-50 euro al mese e un costo della vita ele-vatissimo. Ragazzi che spesso hanno abbandonato la scuola e vi-vono da sbandati, fumano, bevono già da piccoli, vanno nelle sale giochi. E con loro la polizia è molto dura».

In Moldova su quattro milioni e mezzo di abitanti, un milione è emigrato in Europa, la maggior parte donne: madri, sorelle, fi-glie che tengono in piedi con i soldi che spediscono ogni mese in-tere famiglie sorreggendo con il loro lavoro anche quelle italiane. Ufficialmente dovrebbero essere 150.000 solo in Italia, ma qui scommettono che sono più del doppio con gli illegali, quelli che scappano con tutti i mezzi, visti falsi, nascosti nei camion, a pie-di nelle foreste della Slovacchia e dell’Austria. Soprattutto donne che finiscono a fare le badanti o le prostitute. Una marea dolen-te o orgogliosa che sta rallentando a causa della crisi economica dell’Occidente – alcuni anzi ritornano in patria – ma che di sicu-ro dietro di sé spesso ha lasciato il deserto.

1ai confini dell’europa

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Il Paese delle noci[Moldova]

«Prima eravamo peggio della Sicilia». Prima quando? Il sociologo strabuzza un po’ gli occhi, si gratta la sua testa quasi pelata, punta lo sguardo verso un futuro indistinto e racconta: «Quando è arri-vata l’indipendenza dalla Russia nel 1991» dice Andrei Badiu, uno che un tempo, quando c’erano i Soviet qui e altrove, poteva defi-nirsi intellettuale e che ora probabilmente è un tecnico prestato al governo o all’impresa capitalista. «La libertà aveva portato anar-chia, voglia di conquistare il benessere, egoismo, o solo paura. Del futuro, del vicino, di tutto. Allora ci ha pensato il partito a risolve-re la questione, spazzando via la delinquenza».

Almeno dalla strada. Oggi di notte cammini per Chişinău, la ca-pitale del più povero stato dell’Europa, senza problemi. Qualche ragazzo spavaldo, un paio di ubriachi, una vamp un po’ provocan-te, una poliziotta scortata da due militari che ti si avvicinano per chiederti il passaporto. «Hai solo la carta d’identità» ti fa la don-netta in divisa un po’ disorientata da quel pezzo con foto che per lei equivarrebbe al paradiso in terra d’Europa. «Non va bene, do-ve possiamo controllare se sei veramente quello scritto? se hai il permesso di rimanere? Ci sono sempre più immigrati illegali qui, gente che arriva dall’Italia e si ferma anni. Come faccio a control-lare il visto?», cerca di spiegare in un inglese stentato o in rumeno moldavo o in italiano afframezzato. Io piazzo la faccia da angio-letto e ribatto: «Abito qui vicino, se vuoi ti porto al passaporto». Lei scuote la testa, gli altri due non capisconono un’acca, e mi la-

scia andare, tra le strade poco illuminate di questa capitale appe-sa all’orlo dell’Europa. In Italia, a Milano, Padova, un quartiere così ti farebbe venire la pelle d’oca: marciapiedi dissestati, strade coi buchi, nessuna insegna luminosa. Qui ti fa tenerezza, quasi co-me le discoteche con le vasche degli squali e le ragazze alte di loro inerpicate su tacchi vertiginosi e costosissimi. Fanno anche tene-rezza questi gendarmi post comunisti che non sanno come pren-derti a te evidente prodotto dell’Unione Europea.

Come quel soldatino che m’ha fermato dopo che ho attraversa-to la strada in pieno centro e non sulle striscie, in pieno giorno e non con l’autorizzazione: «Ti devo dare la multa». Gli ho riso in faccia, una multa per aver camminato in mezzo alla strada? Ma è come dare la multa a chi va in bici contromano o pedala un po’ alticcio! La risata mi si spegne dentro, in Italia questo lo fanno, ora. Il soldatino però non se ne accorge, confabula col commilito-ne subito spuntato da un altro angolo, riprova a chiedermi il pas-saporto anche lui. Io non glielo do. Dai dai, pedala vecchio mio, vai a beccare qualche altro frescone, io oggi non sono giusto per te. Conosco questi paesi, in altri posti, e sotto altre paure sono fi-nito sotto torchio per aver fotografato una base militare. Ancora oggi non credo che ci volessero arrestare. Ma dopo otto ore di in-terrogatori vari e minacce non tanto velate, mi sbolognarono a un vero poliziotto da noir, rugoso, con l’occhio svagato e profondo, la camicia slacciata, la pistola appesa alla cintura: «Ma che cazzo devo fare di voi?! Andate via, rush, sparite, mi avete fatto perdere fin troppo tempo», ci disse. E fu quasi una medaglia da appuntare al petto, avevamo forzato la mano e l’ordine in zona di guerra, la military police ci voleva sbattere in gattabuia e non le abbiamo ne-anche prese di santa ragione. La ragione arrivò dopo quando rea-lizzai che io e Maurizio eravamo due cani sciolti, se ci avessero ar-restato non saremmo neanche finiti sui giornali o in tv. Non ave-

1il paese delle noci

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a est del nordest1 11

vamo nessuno dietro e quindi eravamo solo dei coglioni, altro che eroi. O no? Di questo riflettevo quella notte mentre camminavo in salita verso il mio appartamentino nella zona chic di Chişinău, do-ve una villa stile liberty spuntava prima di una casa rosicchiata dal tempo e di un palazzo a specchi e cemento.

«Ogni giorno si celebra un matrimonio tra un italiano e una moldava, un segno di come queste due comunità si stiano fon-dendo», declamava il commercialista alla fine della conferenza d’affari in cui aveva sciorinato i dati di un Paese dove lo stipen-dio medio è di 200 euro al mese e la gente vive soprattutto in campagna. Un posto dove il tempo s’è spostato e scorre sui ritmi di altre nazioni che danno un’ombra da Grande Fratello: Rus-sia, Europa, usa, ma anche la Romania sembra tanto grande qui, tanto che può permettersi di investire ben centotrenta milioni in opere pubbliche e sociali nella Repubblica sorella. «Qui arriva-va l’Impero romano, il vallo di Traiano è a trenta chilometri da Chişinău», raccontava a un convegno in Italia l’allora viceministro giovane e intraprendente di una coalizione di destra che aveva fatto la liberal aumentando i biglietti del tram (che era gratis per giovani e vecchi) e aprendo ai mitici capitali stranieri. «Questo è il primo paese esportatore di noci in Europa», spiegò poi il suo consulente. Noci? «Già, ma ci sono anche un sacco di fabbriche tessili e d’abbigliamento che producono per marchi conosciutis-simi», ah, la Cina d’Europa. «Ma abbiamo il problema che trop-pa gente vive all’estero e non ritorna» diceva Veaceslav Guţuţui, il viceministro. «Per questo stiamo cercando di approntare una legge che favorisca i loro investimenti in patria».

Intanto tornano sempre meno fondi, anche se per il posto so-no sempre tantissimi: un miliardo e seicento milioni di euro di rimesse dagli immigrati nel 2009. Intere famiglie puntellate da soldi esteri, che finiscono in medicine, affitti, libri di scuola ma

anche birre, giochi, auto, vacanze per i ragazzi abbandonati con i nonni o i mariti sfaticati.

Ma anche questa emergenza qui scorre via lentamente e appic-ciccosa. A spiccare ci sono solo le donne. Quelle giovani, curate e attente come modelle in erba. E quelle di mezza età, concrete e piene di energia come dinamo. Una vita che nonostante tutto scorre tra le contraddizioni e le incrostazioni di una nazione che non ha ancora abbandonato il comunismo e non è ancora entra-ta in Occidente. Non ha la forza selvaggia e fiera dell’Albania la Moldova, è più criptica, fugace, immersa in riti che sanno di sa-trapia, di principato vassallo. Come lo era un tempo la Bessara-bia (il suo antico nome) col Turco. Qui l’Oriente si era consoli-dato e aveva fatto confine, perdendosi nello stesso tempo in gio-chi bizantini. Dopo i Mongoli arrivarono gli Ottomani. L’Islam era affondato in questa immensa pianura cercando di appendersi a riferimenti geografici – il Danubio – e rifluendo sempre dalle montagne costellate di monasteri ortodossi come la Bucovina o di castelli sassoni senza lasciare tracce, quasi che anch’esso fosse un fantasma nelle nebbie del Delta, una finzione, un incubo buo-no per Dracul.

Caduto il Turco, era toccato a un altro impero immenso e senza volto, quello dello zar. «Bene o male siamo stati sotto Mosca per gli ultimi 150 anni, ma anche ai tempi dell’urss eravamo l’unica repubblica dove non si scriveva in cirillico. Il nostro è sempre sta-to un alfabeto latino», ricorda orgoglioso il sociologo. Noi siamo diversi da loro, rimarca. Il problema è: a chi siete simili? «A voi italiani, una faccia una razza, non per niente qui c’erano i Roma-ni, è arrivato Traiano». Ah, mi dimenticavo…

«La nostra è una comunità appena nata, la Chiesa cattolica è di assoluta minoranza in Moldova, 20.000 fedeli, ma abbiamo

il paese delle noci

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grande entusiasmo» racconta don Sergio, il prete di frontiera. «Abbiamo realizzato una sala giochi e una palestra per i ragazzi del quartiere. Pensi che all’inizio ci chiedevano se dovevano pa-gare per entrare tanto non sono abituati a strutture come queste. La casa famiglia per accogliere undici orfanelli ormai è quasi fi-nita e servirà a salvare altre giovani vite abbandonate».

Il caro e vecchio oratorio dei salesiani ruota attorno a uno spa-zioso campo da basket e di volley, una sala con i calcetti, una pa-lestra attrezzata e luminosa. Vicino ci sono i laboratori professio-nali. «A settembre dovrebbero partire i primi corsi per idrauli-ci, elettricisti, tecnici di manutenzione del riscaldamento» spiega don Sergio. «Organizziamo corsi di italiano e vorremmo anche fare una piccola scuola di informatica, cerchiamo di dare una ba-se a quei giovani che in futuro vorranno costruire qualcosa qui in Moldova. Basta con l’emigrazione, il disagio, le sofferenze e le disgrazie, per questo vediamo con favore gli italiani che vo-gliono investire qui. Basta che portino soldi veri e attività vere». Come la sua. Intorno i ragazzi si accalcano, sono abituati a stare sulla strada e della strada. A Bucarest negli anni Novanta viveva-no sotto i tombini, nelle fogne dove esalava il caldo del riscalda-mento collettivo e dove potevano scappare da chi li voleva usa-re come donatori d’organi o scippatori. A Chişinău non era me-glio, sottile è il confine della disperazione e della libertà. «Vede questa è la chiesa che abbiamo messo su e là ci sono i dormito-ri, ospiteremo dieci ragazzi alla volta, senza famiglia, di più non possiamo, non abbiamo le risorse» fa don Sergio.

Le stanze sono linde, i mobili nuovi di zecca, una pulizia che stona con le erbacce in giardino e i muri di cinta che ricordano quelli di un carcere. Ma il suo sorriso è vita e serenità, lui non rin-chiude, aiuta. Un prete all’antica, dei tempi degli oratori. Uno stampo che s’è perso anche da noi.

Preti di frontiera[Moldova]

La voce è da omone, come lui è. L’occhiale è spesso e assoluta-mente fuori moda, come la pancia, esuberante, in tandem col suo eloquio. La gente gli parla, lo tocca, gli chiede, è una pro-cessione continua verso don Cesare, il prete di frontiera finito (o sbattuto?) ai margini dell’Europa dalla natia Puglia dopo una storia di condanne e centri di accoglienza per immigrati. Una coppia di giovani vuole sapere come fare ad avere il permesso di soggiorno in Italia. Un anziano italiano gli presenta la giova-ne fidanzata conosciuta da poco, lui benedice la coppia con un occhio ammiccante: «L’amore non ha età», sospira quasi aves-se voglia di qualche avventura vietatagli dall’abito talare. L’am-basciatore lo consulta spesso, gli imprenditori religiosamente al sabato affollano la sua messa per la comunità e finanziano le mille attività sociali che porta avanti questo prete-manager che in Moldova e Transnistria, l’autoproclamata repubblica che si rifà a Lenin e sta dall’altra parte del fiume Nistro (Dnestr in rus-so e Nistru in moldavo), ha trovato la sua nuova patria e un ter-reno fertile per la sua opera missionaria. «Io prima cerco di aiu-tare la gente e poi penso a educarla alla religione, ma la povertà è tanta come i bisogni e io cerco di darmi da fare, concretamen-te. Come fate voi del Nordest, poche parole, tanti fatti», raccon-ta seduti nell’asettico ufficio che funge da anagrafe dell’amba-sciata italiana a Chişinău, un posto dove sulla porta d’entrata c’è un bell’adesivo: “Qui niente armi”, che è anche un programma

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a est del nordest1 1preti di frontiera

rità, ma dar da mangiare a duecento anziani al giorno non risol-ve i problemi. Questo Paese ha bisogno di imprenditori e quelli veneti sono l’ideale». Ma perché non lancia ponti con la sua Pu-glia? «Sono dieci anni che lancio ponti, alla fine da qualche par-te uno lo deve costruire» risponde ironicamente corrosivo il don Cesare. «Io voglio costruire il dialogo e mi auguro che questa terra non venga inquinata dagli avventurieri».

Tortuga Moldova, di sicuro dall’altra parte del Nistro gli af-fari torbidi sono proliferati e non c’è dubbio che anche qui in questo pezzo di Romania sovietizzato sono spuntati come funghi all’ombra del nuovo capitalismo e dell’indipendenza dall’urss. Non per niente metà dei locali notturni sono in mano ai russi.

Perché i moldavi per entrare in Italia hanno utilizzato spesso Padova, Vicenza, Verona? «Le migliori immigrazioni nascono da quelle clandestine» risponde il prete-manager di frontiera. «So-no gli irregolari che tracciano le rotte, quindi bisogna dire gra-zie alle tante donne, molte volte vittime della prostituzione, che hanno tracciato questo percorso. Il Veneto era il luogo della ven-dita delle donne, della consegna delle badanti e così via. Tutto questo processo è passato, superato». Superato? «Molte volte ci avvicinano degli irregolari con un forte accento veneto, e questo ti fa capire che l’integrazione c’è, esiste, si fa nel concreto ogni giorno», taglia corto don Cesare. Un’emigrazione che ha lascia-to dietro di sé tanti ragazzi soli, allo sbando. «I ragazzi sulla stra-da esistevano ma ci abbiamo lavorato, abbiamo creato struttu-re, centri d’accoglienza, scuole. L’emigrazione genera sofferenza, solitudine, disperazione. Abbiamo tante donne sole che lavora-no come badanti in Italia, molto spesso abbandonate dai mariti che trovano nell’alcol una compensazione. Queste sono malattie sociali che devono essere curate. Ricordo che la Regione Veneto ha stanziato 600-700.000 euro per la cura dei bambini moldavi,

per molti locali notturni della capitale. Un segno d’inquietudine che potrebbe anche essere ribaltato: c’è sorveglianza, quindi lì dentro si può stare tranquilli.

C’è sempre un’altra faccia della medaglia qui ai confini dell’Europa ed è sempre un po’ fluttuante tra il lecito e l’illecito, quella linea di confine dove si muove bene don Cesare Lodeser-to e dove ha deciso di stare fin dagli anni Novanta quando qui gli italiani erano mosche bianche e di preti c’era solo lui.

«Alle cinque di mattina si vedono i carretti dei contadini che vengono a vendere la loro roba, durante la giornata ci sono i suv dei nuovi ricchi e alla sera la città si svuota. Qui a Chişinău si as-sistono concentrate a tutte le contraddizioni di un Paese giova-ne» racconta pacioso. «Ci sono tutte le comodità occidentali, al-berghi, ristoranti (anche italiani), locali notturni, boutique, ma la vita costa come in Occidente». Poi riflette sul resto del Pae-se: «Non è che la campagna sia tanto diversa da quelle meridio-nali di non molti anni fa, è una vita difficile ma la gente riesce a campare anche del proprio prodotto. Purtroppo è vero che qui si muore prima, le aspettive di vita sono attorno ai sessanta-ses-santacinque anni, una delle più basse d’Europa. Per questo vo-gliamo aprire agli imprenditori [dice proprio vogliamo, plura-lia maestatis? n.d.A.], per migliorare anche la loro esistenza. La Moldova rappresenta il vero ponte per dialogare con l’Est. Qui non si può venire solo per il basso costo del lavoro, più o meno la metà di quello rumeno, o per sfruttare i bassi valori dei terreni o la possibilità di vendere in Russia senza dazi. Si viene per gene-rare sviluppo. Il moldavo è una persona di qualità, nel momento in cui si sente sfruttato ti abbandona».

Marchionne, ti fischiano le orecchie? Certo che questo don Cesare è un tipo particolare, sembra veramente un manager. «Io parlo come un prete che inizialmente è venuto qui per fare ca-

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L’ultima fermata del Nordest[Moldova]

«Sono arrivato qui nel 1999, ed era il Far West. Ora abbiamo fatto passi avanti ma c’è ancora molto da fare. È la piattafor-ma ideale per poi esportare in Russia, in Bielorussia e in Ucrai-na, un mercato potenziale da cinquecento milioni di persone» scandisce Stefano Mercuri, presidente dell’associazione degli imprenditori italiani in Moldova, una cinquantina di soci che danno lavoro a circa tremila addetti. «Il costo del lavoro è bas-so, 100-150 euro al mese [chissà perché cambia a ogni interlo-cutore ’sto stipendio, n.d.A.], più della metà di quello rumeno. La burocrazia non è facile anche se è cambiato il governo, i co-munisti di Voronin sono finalmente all’opposizione, ci sono spi-ragli di maggiore apertura al mercato, però lavorare qui rimane pur sempre una sfida» avverte il cinquantasettenne imprendito-re marchigiano dell’edilizia e delle fonti energetiche alternative che a Udine ha un gruppo d’investimento. «Ma in Italia è an-che peggio, i clienti non pagano, le banche ti strozzano. Alme-no qui se hai un po’ di soldi da parte puoi ancora tentare di far fortuna».

Al governatore del Veneto Luca Zaia già fischiano le orecchie anche se proprio dalla sua Treviso partì l’ondata di emigrazione produttiva degli anni Novanta che culminò con un’assemblea di Confindustria a Timişoara e circa 4000 imprese di capitali nor-destini al lavoro nell’antica Dacia imperiale romana oggi confini dell’Unione Europea.

un gesto eroico». E il governo moldavo ha chiesto l’apertura di un patronato acli. «Una realtà che lavora tantissimo, per la le-galità, per lo sviluppo, senza volere conversioni ma aiutando la gente». Un prete concreto don Cesare, che in Italia è sotto accu-sa. «Perché non amo i compromessi, e questo si paga. Ma si ri-cordi che si possono fermare gli uomini ma pare che non si pos-sa fermare Dio. E questa è una cosa importante e simpatica. Ti-reremo le somme al momento opportuno. Io non posso perdere tempo a discutere su ciò che gli altri vogliono dire, io cammino, devo guardare in faccia la gente che soffre. Un giorno dovrò ren-dere conto a Dio se ho fatto qualcosa di male, ma ancora non de-vo dar conto di nulla e per questo lo ringrazio». Di sicuro è in missione. «Sono stato mandato dal vescovo di Lecce, siamo qui da dieci anni, abbiamo nove strutture, anche un poliambulatorio in Transnistria, altro Paese complesso. Altre ne stiamo costruen-do, per esempio una scuola materna qui a Chişinău. E per i miei cinquant’anni ho deciso di farmi un regalo: una mensa da quat-trocento posti al centro della città. Questo è il prete discusso. Alla fine della giornata uno comunque non si misura con quello che ha o fa, ma con quello che ha dentro».

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a est del nordest1 1l’ultima fermata del nordest

Per questo mettono in piedi una società, per un anno sono a po-sto con la burocrazia.

Chişinău, la capitale di questo piccolo stato insomma, è lo specchio di un mondo ancora sospeso tra Occidente e Russia, discoteche con piccoli squali nelle vasche ai lati della pista e stra-de sterrate a due passi dal centro, pizzerie e ristoranti italiani e casette col tetto di eternit e l’orto in periferia, tram elettrici fa-tiscenti degli anni Cinquanta e suv neri a vetri oscurati, strade buie e centri commerciali scintillanti. «L’economia, dopo un pe-riodo di crescita al traino della Romania, ha subito una battuta d’arresto; il governo di centrodestra ha dovuto aumentare i prez-zi delle tariffe di trasporti e gas per far fronte al deficit di otto miliardi di lei, circa mezzo miliardo di euro, ma ha ottenuto pre-stiti dal fmi e dall’Europa per quasi due miliardi» spiega Sergio Dalpiaz, cinquantanove anni, responsabile di Eximbank, il quar-to istituto di credito del Paese controllato dal 2006 da Veneto Banca holding, una ventina di sportelli e altrettanti uffici opera-tivi. «Il problema vero è che la situazione politica non si è ancora stabilizzata, i comunisti rimangono molto forti con il 45% circa dei voti». Il 7 aprile 2009, parlamento e palazzo del presidente Voronin furono assaltati da dimostranti che denunciavano uno stato di polizia e la corruzione dilagante. L’hanno chiamata la ri-voluzione di Twitter, anche se qui quelli che navigano in Rete so-no molto pochi e in campagna si viaggia ancora col carrettino e l’asino. Le elezioni hanno segnato un cambio di maggioranza ma tutto è rimasto sospeso, in un limbo reso ancora più incerto dai contrasti con la Russia per il destino della Transnistria, la regio-ne resasi indipendente nel 1991 dove in pratica si vive ancora ai tempi del Soviet. «In queste condizioni è difficile investire» am-mette Giampietro Zannoni, presidente di Venetos Grup, un bel-lunese di cinquantasette anni che in Veneto ha attività nell’idro-

«Non è la Romania degli anni Novanta, qui c’è poca manodo-pera, in campagna hai problemi con gas e luce, ma le tasse so-no basse e i terreni costano poco» sgombra subito da facili illu-sioni Piero, cinquantotto anni, trevigiano da delocalizzazione da una vita (ha aperto e chiuso diverse aziende del casual di qua e di là dei confini dell’Unione Europea), che non vuole compari-re col cognome per diatribe con gli ex datori di lavoro ma che a cinquanta chilometri da Chişinău ha messo in piedi una fabbri-ca d’abbigliamento da trenta addette. «Qui, come in Romania, lavorano soprattutto le donne – per investire da queste parti ti devi sacrificare, ci vogliono le palle –, ma io dico ai miei colleghi piccoli imprenditori, venite qui, ci sono ancora un mondo e un mercato da conquistare».

Per ora quelli che hanno fatto il salto sono pochi, 700 le im-prese di capitali italiani registrate, più o meno 200 quelle vera-mente operative (una cinquantina dal Nordest, rami moda, edi-lizia, informatica, ma anche casse da morto come in Transilva-nia fa Marco Comello e i materassi della Molven del padova-no Adriano Ceccato). Il resto sono solo di facciata o per “amo-re”, cioè per sistemare l’amica, un classico della delocalizzazione all’italiana e alla nordestina.

«E ci sono anche quelli come me, che hanno deciso di goder-si la pensione perché la vita costa molto meno e proviamo an-che qualche iniziativa imprenditoriale nel campo dell’allevamen-to, suini per la precisione», avverte Giuseppe, che non ha diffi-coltà ad ammettere che è «arrivato per turismo sessuale ma poi il posto mi è piaciuto, poca gente, poco traffico, poco stress, tutto quello che in Italia si è perso. Però occhio, qui sono come san-guisughe, appena vedono uno straniero vogliono spremergli tut-ti i soldi e attenti all’espulsione, dopo novanta giorni il permesso di soggiorno per turismo scade e diventi un immigrato illegale».

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Florida d’Italia[Moldova]

L’ultima spiaggia per gli anziani d’Italia, stretti da pensioni smil-ze e costi della vita sempre più alti, potrebbe diventare questo Paese al centro dell’Europa e fuori dall’Unione Europea. «Qui la vita costa poco e ci sono anche belle ragazze» scherza Enzo (no-me in codice, quello vero non l’ha voluto dire), trevigiano, meno di settant’anni ma più di sessanta. «Con i miei mille euro di pen-sione posso godermela, e anche comprarmi una casetta». Dopo anni di emigrazione – sono un milione circa i moldavi espatriati all’estero per cercare fortuna, circa 150.000 in Italia, più o meno 50.000 in Veneto – il flusso potrebbe invertirsi e gli anziani italia-ni e veneti iniziano a seguire le loro badanti nella terra d’origine, un tempo urss. «I vantaggi ci sono per tutti e due. Lei potrebbe badare al vecchietto e ai figli che aveva dovuto lasciare per anda-re a lavorare in Italia» spiega l’ambasciatore d’Italia nella capita-le Chişinău, Stefano De Leo. «E l’anziano vivrebbe bene con la sua pensione perché il costo della vita qui è molto più basso che in Italia e, soprattutto, i ritmi sono più naturali, ancora legati alle stagioni. Per ora siamo a conoscenza di una ventina di casi, ma potrebbero anche aumentare nei prossimi anni».

Certo, Chişinău non è propriamente bucolica: periferie da palazzoni sempre uguali in puro stile comunista, tram elettrici scalcagnati, un freddo cane d’inverno. «Ma qui non c’è traffico, e la città è assolutamente sicura, chiunque può constatarlo cam-minando per strada di notte», sottolinea don Cesare. «Questa

elettrico e qui dal 1999 lavora tra edilizia, informatica e coltiva-zioni biologiche (l’agricoltura è la prima risorsa della Moldova, soprattutto il suo vino, che ora però fa fatica a essere esportato in Russia e cerca disperatamente uno sbocco in Europa) seconda realtà del Nordest qui in Moldova dopo Eximbank. «Ma qual-cosa comunque si muove. Stiamo lavorando a una joint venture per un salumificio, c’è chi vorrebbe comprare una rete di distri-butori, chi studia sbarchi nel commerciale e nel campo delle uti-lity. Peccato poi che non si possa comprare la terra, qui è molto fertile, era il giardino dell’urss». Piccoli passi d’esplorazione. La Romania rimane lontana. E ancora di più l’Europa. Ma forse è più vicina l’America. Anzi, la Florida.

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Baron tzigano[Moldova]

«Noi vogliamo stare in pace e amore con tutti, l’Europa deve ca-pire che i rom sono una nazione anche senza Stato, e il Consiglio della ue ci deve rispettare».

Il barone degli zingari Artur Cerari (Aptyp Hepapb in cirilli-co maccheronico per uno che non riesce a trovare quei caratteri sulla tastiera) ci ha ricevuto nel suo palazzo sulla collina di So-roca dopo una serrata trattativa conclusasi con lo sganciamento di 100 euro e 400 lei moldavi. All’inizio il grande capo di tutti gli zingari dell’ex urss, circa venti milioni, e guida spirituale di quelli moldavi (270.000), sindaco senza fascia ma con molti os-sequi di quelli di Soroca (27.000) aveva chiesto sull’unghia 400 dollari per aprire le porte del suo posto un po’ fatato. Ovviamen-te non lui in persona, lui non si sporcherebbe mai a trattare di vil denaro. È stata la figlia, giovane e attenta, a definire l’affare che è stato chiuso dal nostro autista Igor (che temeva che non pagassimo e che ci finisse di mezzo lui e la sua auto) ed Enrico, che in quel momento avrebbe venduto anche sua madre per po-ter riprendere il capo dei rom fino all’Indo, un signore sui cin-quantacinque anni con barba e capelli candidi che lo fanno sem-brare una via di mezzo tra Babbo Natale e Sai Baba. Occhioni o naso completano perfettamente il parallelo col Maestro delle Feste e noi per lui quel giorno siamo stati sicuramente una festa visto che si è intascato l’equivalente di uno stipendio dell’opera-ia che lavora nella fabbrica di scarpe del veronese Maritan che

potrebbe diventare un’isola felice dove trascorrere gli ultimi an-ni in un contesto più legato alla natura» conferma l’ambasciato-re che ha lavorato a Scutari (Albania) e Baghdad (Iraq) «E poi c’è la sicurezza di continuare a vivere con la badante che si ave-va in italia». Mille euro al mese sono sufficienti? «Qui lo stipen-dio medio è di 200 [e dai! un’altra cifra, n.d.A.]», risponde De Leo. «Uno straniero può rimanere per turismo novanta giorni. Il permesso di soggiorno si ottiene per matrimonio, studio, la-voro dipendente, volontariato, impresa…», enumera don Cesa-re, primo italiano a ottenere il passaporto moldavo, uno dei po-chi stranieri che può andare in Transnistria senza problemi. «Il governo sta studiando altre forme, come la residenza elettiva». Ma perché tanta voglia d’emigrare qui? D’inverno è dura. E gli ospedali non sono dei migliori. «È vero. La gente muore prima, la vita media è di sessant’anni – conferma don Cesare – ma i no-stri vecchietti stanno aumentando. Il clima moldavo piace». Per aggirare le barriere burocratiche poi c’è il vecchio sistema. «Or-mai vengono contratti cinque matrimoni alla settimana tra don-ne di qui e italiani, i confini si allargano con l’affetto», racconta il prete-manager. Di solito però il signore è un po’ più anziano della signora… «L’amore non ha confini, l’amore ha storie che molte volte sembrano fuori posto» risponde il patron della Fon-dazione Regina Pacis, che convoca tutti gli imprenditori italia-ni di qui a messa ogni sabato. E pochi sgarrano. «Ci auguriamo che tutto questo sia un percorso, come è un percorso quello del-le tante badanti che stanno rientrando portandosi dietro il vec-chietto italiano che hanno assistito. Gente che ha deciso di venir qui a concludere l’esistenza. Per ora non sono molti, aumente-ranno». Sia fatta la volontà della Provvidenza e dell’inps.

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arriviamo da una storia antica e fin dai tempi dell’India, da dove ci siamo spostati con Alessandro Magno. Allora come oggi cam-piamo lavorando la latta, facendo pentole, coperchi, bicchieri». A dir la verità di questa attività metallurgica a Soroca si vede traccia solo sui tetti dei palazzi dei rom, che scintillano al sole e sembrano quelli di pagode tibetane. Fanno una certa impressio-ne, anche perché spesso sovrastano tre, cinque piani mezzi co-struiti, tirati su anche un po’ sbilenchi su strade ancora sterrate e piene di buchi. Posti anche accoglienti, nel salone del Baron c’è un bel forno di terracotta dove si fa anche il pane, sormontati in qualche caso con qualche tocco da mausoleo, tipo i tre cavalli di ferro che decorano il tetto del suo vicino di fronte. Ma sono va-riazioni di stile che ti aspetti nella città degli zingari, dove anche il cimitero diventa un museo e i compaesani sono in piena azio-ne per dipingere di azzurro o di verde le inferriate e le panchi-ne che adornano le tombe. «Noi siamo molto religiosi, ortodossi s’intende, a Pasqua qui ci sarà una grande festa, tutta la nostra gente verrà con carri e auto per celebrare la Resurrezione di Cri-sto». Hristos a înviat! E giù di Noroc! I brindisi e gli auguri si ac-cavalleranno sicuramente, la musica tzigana riempirà la collina e la città e le campagne in fiore celebrando non solo Cristo risorto ma anche l’imperitura storia degli zingari del Baron, che preso dalla frenesia e dalla telecamera accesa prima si mette al piano e ci regala una delle sue canzoni che parleranno sicuramente di amori, viaggi, bevute e zingarate, e poi finisce con la fisarmoni-ca a suonare una polka incalzante e arrembante che di certo ha fatto fremere e divertire legioni di suoi sudditi. «Mi raccoman-do, andate in pace e siate felici, la vita è una ed è un dono del Si-gnore, godetela» forse sono state le sue ultime parole prima della nostra partenza dopo il giro in paese. Lui sicuramente ha capito molto della vita. Molto più di noi.

mi giurano stia in basso, dalle parti del fiume Nistro, magari pro-prio a due passi dal massiccio castello a quadritorre che sorve-glia da secoli, dal xvi credo, il guado oggi servito da una chiatta che unisce regolarmente Moldova e Ucraina. Artur però di sol-di non vuole parlare, lui mentre gli altri delle troupe trattano mi offre caffè e vodka e mi racconta nella sua lingua flautata dove moldavo, latino, russo si mischiano a qualche parola di francese e italiano, un bailamme che ogni tanto mi illumina. Questa è la traduzione di quella chiacchierata come l’ho capita io. Lui sicu-ramente potrebbe smentirmi, ma farebbe parte del gioco e della malia che era iniziata non appena abbiamo messo piede in quella collina fuori dal mondo, dal mondo almeno che noi conosciamo.

«Qui viviamo tranquilli, abbiamo autonomia, decidiamo sul-le scuole, la vita, le costruzioni, paghiamo le tasse al governo e il governo ci rispetta, non ci sono problemi con i moldavi. E nem-meno con i russi e gli ucraini», racconta il Baron che non esclu-de bari un po’ ogni tanto, accentuando su quel punto, sfumando sull’altro, un vero politico, un’anguilla che ha saputo sgusciare in tanti posti, stati, regimi diversi. Ma stiamolo a ascoltare, faccia-moci trasportare… «A dir la verità stavamo anche meglio quan-do c’era l’urss, allora potevamo andare dove volevamo in quel grande Paese». Mi fa vedere una spilletta rossa di quei tempi e anche una foto con qualche pezzo grosso del partito comunista dopo che aveva svelato che una delle due auto nere Zil parcheg-giate nel giardino del suo palazzo coperte da tappeti erano di Andropov (segretario del pcus ed ex capo del kgb pre Gorba-ciov). «Eravamo rispettati e benvoluti, non come adesso in Eu-ropa. Anche se, e questo lo dico a te ma non lo direi mai in pub-blico, Sarkozy ha ragione: i rom rumeni sono criminali, non co-me noi che rispettiamo le regole e le leggi, lavoriamo, paghiamo le tasse. Quelli se ne fregano di tutto, sono diversi da noi, che

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signora vendeva tranquillamente mutande e vestiti. Era normale in quella città offrire in maniera improvvisata: spillette sovieti-che fatte in Cina, croste che dovevano essere quadri, cibi volanti, ricariche dei cellulari, abiti e reggiseni, uova colorate o di cera. Varcai la cancellata e iniziai a perdermi in quella marea di lapidi e ricordi in caratteri latini e cirillici, che risalivano a due secoli fa e s’allungavano fino a oggi tra cappelle neoclassiche e croci roz-ze dipinte d’azzurro o di rosso. Volti in bianco e nero mi sorri-devano con baffoni o foulard, sguardi accesi d’energia giovanile e facce bonarie, paffute, contente del loro raccolto. Qualche vol-ta spuntava il generale di una guerra contro i nazisti e il soldato dell’Armata Rossa con tanto di stella, ma il cimitero degli eroi sa-rebbe arrivato più avanti, con le sentinelle sempe impettite a fare il cambio della guadia al monumento anni Sessanta e le fiamme sempre accese ad ardere. Ma quello invece era il cimitero vero, intimo, della gente. Giovani e vecchi non avevano dimenticato i loro morti, non li avevano nascosti in un ghetto per tirarli fuori solo il 2 novembre, il giorno in cui sto scrivendo. A quel tempo era primavera e neppure una data di festa, eppure erano in molti a sedersi sotto un platano, su quelle panchinette da due per go-dersi ancora la compagnia di quella persona amata, a lasciare un ricordo, a bere un bicchiere alla salute. Provai tenerezza e li rin-graziai. Quel posto non era morto, aveva un’anima. E m’aveva fatto capire un po’ di più quella gente, ancora viva malgrado il grigio che li avvolge.

Quella era la terra. Il cielo, la luce l’ho trovata in una not-te lunghissima, la vigilia di Pasqua in un monastero femminile a una trentina di chilometri da Chişinău. Mi ci hanno portato Piero e la sua famiglia che un po’ mi avevano adottato in quei giorni. Lei giovane ed efficiente, donna manager con figlia a ca-

Terra e cielo[Moldova]

È la panchina che ti spiazza. Di legno o di ferro, aspetta, ti aspet-ta. Se gli vuoi fare compagnia, se vuoi un po’ di riposo prima di quello eterno, se hai bisogno di stare tranquillo, lei c’è. E tu ti puoi fermare quando vuoi a parlare con chi sta là sotto, a riflet-tere su chi sta ancora sopra, a chiedere un consiglio o a conqui-stare il silenzio. Ce ne sono molte nel cimitero di Chişinău, ma poi avrei scoperto essere un’usanza di qui ma anche in Romania, come le lapidi con la facciona del protagonista o delle coppie se-polte in sovrimpressione, o gli angeli e le croci elaborate di pie-tra, i racconti di gesta o i ricordi. Ma sono le panchine ad avermi intenerito, le panchine e le loro occupanti. Signore d’età, cicciot-te e ingolfate nei loro vestiti da babuska, stivali e fazzoletto in te-sta, stavano con le mani giunte o dei fiori secchi in mano. Ogni tanto si alzavano, eliminavano qualche altra erbaccia, una foglia morta dall’altro inverno, poi si risiedevano. Ogni tanto mormo-ravano, non erano preghiere, credo, ma un colloquio che durava con il marito o il figlio che se n’era andato prima di loro.

Quel cimitero l’ho scoperto per caso. Stava dietro la casa che mi ospitava, tra il parco e il centro, protetto da mura di mattoni e da un’inferriata. C’era un via vai continuo di gente che mi aveva incuriosito, pensavo a un posto di ritrovo, bar, caffè all’aperto, un posto in mezzo alla natura. Solo la fioraia all’angolo che espo-neva corone dai colori accesi e vasi di piante mi aveva fatto in-sospettire. Però poco più in là, su un altro marciapiede, un’altra

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appesi al soffitto. Era il sabato di Pasqua. Quell’anno quella or-tossa sarebbe coincisa straordinariamente con quella cattolica. Ma per loro quello non contava. La rottura, lo scisma, la divi-sione con Roma affondava talmente lontano nei secoli che non faceva neppure più parte della loro storia. Qui Gesù, la Chiesa, le preghiere che iniziarono ad avvolgermi in una musica rap-sodica e ipnotica formano un secolare mantello d’identità, di protezione, di riconoscimento. La forza dell’ortodossia è anche nello stesso momento la sua debolezza: è antica, potente, divi-sa, baluardo. Affonda la sua identità nel passato, rifulge ancora di riti sempre uguali e imperituri, loro hanno il coraggio di farli vivere per ore, per una notte come quella che mi lasciò esausto, in piedi fino alle tre, quattro della mattina, fino all’alba dura-no, a salutare il sole della Resurrezione tra le colline, tra canti e processioni che avvolgevano quel piccolo monastero come tut-te le chiese della Moldova e della Romania, nelle campagne co-me nelle città, era una vera prova di forza. Era la manifestazio-ne pulsante e sanguigna di uno spirito che voleva farsi mistico nella fatica e che nello stesso tempo si manifestava come uni-co. E anche diverso. Dal Cattolicesimo, più indulgente nei riti, più morbido nell’approccio, meno identitario. E dall’Islam, da sempre il suo contraltare, l’avversario, in Bosnia come nei Bal-cani tutti e nella Grecia del Monte Athos, fino alla Bulgaria e a questa terra tra grandi fiumi e pianure che un tempo era Da-cia e Bessarabia. Si riannodava un legame antico lì, in quella campagna di confine, e si ritrovava un’identità che la moder-nità stava rosicchiando. Il cuore della terra che guardava il cie-lo erano quelle donne di tutte le età che orgogliose cantavano da ore mentre i loro uomini lentamente ma inesorabilmente si eclissavano prosciugati da quell’esercizio prima di tutto fisico che solo come sfida poteva reggere.

rico, lui imprenditore del Nordest che aveva battuto in lungo e in largo la Nuova Europa e alla fine s’era fermato lì, ai confini dell’Unione Europea, per coltivare i suoi affari in una terra anco-ra vergine. Chi rimane in questi posti, Romania come Moldova, ha spesso non solo affari che gli fanno mettere radici. C’è anche il cuore, la voglia di ripartire, una nuova avventura da costruire, una nuova famiglia da far crescere, come un’altra impresa. Già, come nel Nordest: fabbrica e famiglia, ff. Ripartire per ripro-vare la sensazione di essere ancora pionieri nella vita come ne-gli affari. Ne ho visti tanti, i migliori avevano sempre una donna forte al fianco. Niente di appariscente, quelli che avevano scelto le bellezze sembravano sempre borderline, ai limiti, sul filo del rasoio in famiglia come nel business, un po’ Bonnie & Clide di periferia: lui sovrappeso e stempiato, lei che mostrava le prime rughe su un viso e un corpo che un tempo doveva essere da urlo, gente sempre sull’orlo del crollo. Matti e un po’ disperati.

Piero e la sua donna no, avevano un che di solido, di vero, di calore. E quella sera, in quel monastero in mezzo alle colline sco-prii il centro di quel legame, il fuoco che li scaldava ancora mal-grado tutto intorno girasse solo sul denaro e il potere, come da noi d’altronde.

La gente aveva cominciato ad arrivare alla spicciolata, le au-to parcheggiate vicino alla chiesetta illuminata dalle candele, una luce fioca, il villaggio vicino e le colline intorno che si pro-filavano indistinte tra le fiammelle dei ceri che baluginavano nel buio. Erano appena passate le ventidue, davanti al portone cinque o sei nonne infagottate, monache che accendevano can-dele, qualche ragazzo, l’altoparlante da Nuovo Cinema Paradiso che gracchiava una musica solenne e registrata. I saluti, cestini con uova sode colorate e altre cibarie, dentro una chiesa essen-ziale, quadri severi alle pareti, l’iconostasi dorata, candelabri

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del giorno dopo, quando ogni cortile, ogni frasca, ogni salotto si trasforma in una piccola reggia e il vino denso, perché ancora ru-spante, scorre a fiumi prima di lasciare il posto alla vodka e allo stordimento che avrei visto anch’io in un’aia di campagna, dove una famiglia raccolta dal mondo stava festeggiando da ore ballan-do intorno a un fuoco e sbertucciando per una volta le galline ap-pollaiate sul vecchio sidecar arrugginito e sovietico.

Non ressi a quella sfida, anch’io crollai dopo cinque ore in piedi, come la bambina bionda e il mio anfitrione. Me ne an-dai dal monastero quando la notte era ancora densa, avvolto da quegli sguardi intensi e da quei canti ancora possenti e ricchi di sfumature che potevo solo intuire perché, curiosamente, faceva-no parte anche della mia storia. Anche se era una storia dimen-ticata. Come quella festa nella casa dei nonni che iniziò nel mez-zo della domenica e finì a notte. Come quel viaggio ai confini del mio mondo che iniziò da Venezia e finì dove era iniziato, tra un sogno e un incubo.

Mi appoggiai a una colonna, in disparte, mi feci cullare per ore da quelle voci gregoriane. Dopo che le campane e gli asperso-ri avevano benedetto le mura di quel piccolo castello di Dio per una, due, tre e chissà quante altre volte, i fedeli che nel frattem-po s’erano ingrossati e riempivano tutta la chiesa e anche la piaz-za esterna, giovani, ragazzi, bambini, anziani e adulti di tutti ceti, ora brandivano i loro ceri come spade celesti e cantavano, canta-vano in una lingua per me sconosciuta che mi riempiva di sere-nità e forza. Un pope guidava le letture di passi della Bibbia che si susseguivano, la badessa al suo fianco, la voce piena, lo sguar-do vigile che accarezzava il suo gregge e seguiva il canto delle sue pupille assiepate lassù, nel coro, in alto a diffondere il Verbo in una polifonia che dal Purgatorio man mano saliva verso il Para-diso. Erano giovani quelle monache con i capelli raccolti nel ne-ro di una cuffia, la pelle arrossata dal calore della candele e dalla gioia di quella notte di Resurrezione. Erano fiere di cantare per il loro Dio e il loro popolo, fiere di essere dentro un cammino che affondava le sue radici nei millenni e che era sopravvissuto anche al comunismo. Cantavano per ringraziare la Natura di un’altra primavera in arrivo, perché da quelle parti l’inverno era durissi-mo tra meno trenta gradi e due metri di neve. E la gente cantava con loro compatta, le ragazze da marito del paese arrivate alla ce-rimonia per farsi vedere dai giovinotti emigrati all’estero o finiti nelle grande città, e quelle più truccate che avevano già assaggia-to le discoteche di Chişinău o le notti di baldoria con i loro coeta-nei ma che tornavano a casa sempre sotto l’occhio vigile di padri e madri. Cantavano i vecchi ricordando altre liturgie sovietiche e scaldandosi al calore diffuso da quella folla raccolta nella chie-sa ringraziando per un altro anno in più, e anche i contadini no-dosi come le loro vigne e scuri come la loro terra che malgrado tutto spillava ancora qualcosa pregustando già la festa di Pasqua

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L’amico imprenditore italiano non è del Sud ma lavorando da queste parti da anni era diventato un fatalista convinto. E anche i suoi colleghi o la gente che ho conosciuto, rumeni e moldavi, ha lo stesso approccio. Il confine del Nistro è ancora un rebus e non solo perché formalmente quel Paese non è riconosciuto da nessu-no, nemmeno dai russi che l’hanno creato quando nel 1992 l’ar-mata del generale Lebed si schierò con i secessionisti dell’auto-proclamata Repubblica di Transnistria, e passò il fiume che scim-miotta l’Istro occupando Thighina (o Bender per i russi), la città che si profila in fondo all’autostrada, dopo i fili spinati di questa frontiera che ufficialmente non esiste. Vi furono scontri, una vera battaglia, morti e feriti. Da allora la situazione è congelata, e pro-sperano i traffici.

Sono nervoso e lo è anche la mia guida. Lui è moldavo ma mo-stra alle guardie transnistrie (evocativo, eh?) un passaporto rume-no, cioè europeo. Bene, proprio un bel pasticcio. Prima di arriva-re mi ha detto di nascondere macchina fotografica e telecamera, io mi sono infilato nelle mutande la memoria di tutte le mie preziose foto e ho distribuito le cassette sotto il tappettino e gli apparecchi tra le varie tasche di quel canguro d’auto che mi ritrovo. Passiamo una prima frontiera, mi si spiega che è quella moldava, ah! Poi la terra di nessuno di un chilometro tra sterpaglie e fili spinati, un’au-toblindo russa, sacchetti di sabbia e pennoni a sventolare bandiere col montone. E arriva un altro stop. Spunta il cirillico. Questa è la Transnistria, Pridnestrovie in russo, mi spiega il mio Virgilio guar-dia del corpo autista e chissà che altro. Il poliziotto che ci scruta ha il colbacchetto nero e la divisa caki, mostrine lucenti e un bel pisto-lone alla cintura. Un altro passa in rassegna l’auto, batte con uno sfollagente sulla carrozzeria, si fa aprire il cofano dietro, controlla dentro e poi fa richiudere. Aprono le portiere dietro, io sudo fred-do, non mi va proprio di finire in galera in un posto come questo

Il Paese che non c’è[Transnistria]

La Bessarabia (Besarabya in turco) è una regione compresa tra i fiumi Prut (affluente di sinistra del Danubio nel suo corso infe-riore) e il Nistro: attualmente è suddivisa tra la Moldova (parte settentrionale, dopo la disfatta dei Mongoli del 1343 fu annessa al principato di Moldova) e l’Ucraina (parte meridionale o “Bes-sarabia storica”, o Budjak “Bessarabia Vecchia”, Bugeac in ru-meno, Bugiac in lingua tartara e Bugiak in turco).

Già questo incrocio di lingue fa capire come da queste parti sia passato di tutto e non sia ancora finito. È rimasto sospeso, aleggia come un fantasma tra la pianura di campi coltivati e fi-lari di alberi che si allungano a distesa fino al confine che non c’è. Pensi di trovarti davanti a un qualche punto geografico, un monte, un fiume, un cocuzzolo, e invece l’autostrada rattoppa-ta finisce in un posto di blocco sorvegliato da soldati dove il primo comandamento dei cartelli è non fotografare né filmare. D’altra parte, come si può registrarare un posto che non esi-ste? Sono passati una cinquantina di chilometri da Chişinău, ne mancheranno duecento a Kiev, ma ora mi ritrovo a fare i conti con un paradosso. «Non credo che vi sia bisogno di visto per entrare in Transnistria, ma tu portati dietro il passaporto e in ogni caso spera, non è detto che ti permetteranno di passare. Non esiste un criterio, c’è gente che conosco che entra e rien-tra, altri italiani che sono rimasti bloccati per ore senza speran-za. Tu prova».

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Comunque il timbro prezioso ce l’ho, non è da tutti finire in un posto che non c’è (ufficialmente). Anche se nel mondo non sono poi così rari, mi viene in mente subito la Cipro Nord turca, stessa bandiera con la mezzaluna di Ankara ma in campo bianco. E lì, a Nicosia, c’è anche l’ultimo Muro d’Europa, ma questa è un’altra storia che c’entra molto con Venezia, oh yeah. Mettiamo in moto, il documento funziona, ci alzano la sbarra fatidica. Siamo dentro. L’autostrada si snoda ancora fra campi piatti e filari di alberi, poi entriamo in una città moderna e spettrale, qualche tram, pochis-sime auto, una ruota di luna park grandiosamente arrugginita e i resti di una fortezza che ora è base militare sul Nistro. Il fiume ar-riva d’improvviso, dopo una rotonda affollata di vecchie auto, si allunga pigro e marrone verso il Mar Nero, riflette la luce del sole e mi abbaglia mentre giriamo attorno e finiamo quasi dritti con-tro un carro armato, dei soldati lo sorvegliano e guardano distrat-ti la strada, un flash e sono già dietro, mi giro, sono russi. Passia-mo in mezzo a uno slalom di barriere di cemento, dall’alto di una torretta spuntano altri soldati armati, e poi siamo sul viadotto che oltrepassa il fiume sacro alla santa madre Russia e allo zar che conquistò questo posto nel 1812 e da allora se lo tiene ben stretto anche se è caduto insieme al comunismo. Ora comanda per inter-posta persona la Repubblica di Putin, come in Abkhazia e in Os-sezia. Mah! Getto un altro sguardo a Tighina, lì la maggioranza della popolazione era moldava, ma ora sono quasi tutti scappati dall’altra parte e la pulizia etnica, anzi, la semplificazione etnica, è stata completata. Di qui, in Transnistria, meno di 500.000 rus-sofoni, di là tre milioni di moldavi. Il resto sono emigrati. Bah! Mi concentro di nuovo sulla strada, la città ha già lasciato posto alla solita campagna piatta, poi spunta una costruzione moderna, nuova di zecca, scopro che è lo stadio dello Sheriff, la squadra del signore e padrone di questo staterello che gioca anche la Cham-

dove l’unico soggetto riconosciuto dal mondo è la squadra di Ti-raspol (città del Tyras, l’antico nome latino per Nistro), lo Sheriff, punta di un iceberg che nella parte sommersa controlla un gruppo che conta supermercati, distributori, fabbriche, televisioni, giorna-li, distillerie, agenzie pubblicitarie, società di costruzioni (o mam-ma mia, mi sembra di essere in Italia!). In pratica metà della ric-chezza di questo Paese è nelle tasche di un paio di agenti segreti e del figlio del capo Oleg Smirnov. Le guardie di frontiera ci fanno cenno di accostare, parcheggiamo davanti a un prefabbricato bas-so e lungo dove si assiepano in altri cinquanta, donne, bambini, uo-mini. Tutto è scritto in cirillico, siamo già in Russia. Guardo in giro, controllo con la coda dell’occhio cosa accade all’auto, nessuno se la fila. E io mi metto in fila. C’è da compilare un foglietto con tut-to quello che sono, nascita, residenza, lavoro (turista, meglio non fare i giornalisti da certe parti, o in tutte?!). Una donna dai capelli scarmigliati e rossi, gli occhi verdi e la pelle con le lentiggini, sgomi-ta e si piazza davanti al gabbiotto mitragliando in russo la poliziot-ta dall’altra parte del vetro. Ride alle battute degli uomini intorno, alza un figlio di tre anni e tiene sotto controllo l’altro, capisco che vuole andare a Kiev e arriva da chissà dove. Io cerco di scambiare qualche parola con gli altri della coda, l’inglese non è diffuso ma in-tuisco che molti stiano andando in Ucraina per poi finire in Russia dove c’è ancora lavoro ed è più facile trovare un posto rispetto alla dura Europa che fa un sacco di storie, che quella è una porta do-ve transitano spesso in un’emigrazione insistita che si porta dietro chissà cos’altro. Poi è il mio turno e sorrido, il mio solito sorriso be-ota da ufficioso a ufficiale. La poliziotta, capelli neri e occhi azzur-ri, mi guarda distratta e timbra. Il mio fascino non ha fatto molto presa, ma almeno se l’è bevuta che ero solo un turista. D’altra parte il problema non è entrare, mi fa subito dopo il mio compagno di viaggio, ma uscire. Ah, grazie!

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prattutto, fuori tempo. Proprio come nel film di Zemeckis. Poi scopro che il supermercato è dello Sheriff, che la simil boutique è dello Sheriff, che anche la panetteria all’angolo è dello Sheriff, ma anche la banca, la stazione di servizio, la cattedrale, lo stadio. Non è un fondale di un film, questi vivono in un Grande Fratel-lo. Tutto è del grande capo, del Leader, che ha costruito un mon-do su misura per sé e i suoi affari a colpi di leggi ad personam e di monopoli. Tutto quello che è importato nel Paese che non c’è passa da una delle sue società, dal petrolio ai profumi, dalle scarpe alle auto. E quello che le fabbriche producono per l’este-ro, anche quelle degli italiani che lavorano qui, sotto discretissi-me coperture, passano da sue controllate. Sto camminando in un Matrix che è reale e nello stesso tempo irreale, una Rete i cui gangli finiscono sempre e comunque lassù, da Igor Smirnov. La sensazione di essere spiato e controllato diventa forte, dilagan-te, ti guardi in giro, mi aspetto da un momento all’altro di essere rapito, di scomparire nel nulla perché nessuno qui mi conosce e io sono in un posto che non esiste, precipitato in una finzione in un altro tempo e spazio. Forse devo smetterla di viaggiare, me-glio starsene a casa, tranquillo, caminetto, cane e pipa. Questa è l’ultima volta che mi infilo in casini di questo tipo, giuro! Per fortuna la mia guida mi ripesca mentre mi sono messo schiena al muro in un posto riparato, schivo, grigio, insomma, una nullità. Dai vieni, andiamo – mi fa – ti porto al fiume e dopo andiamo al-la Kvint, alla distilleria dove fanno il famoso cognac. Di chi è la distilleria? Fate un nome, uno a caso? No, no, basta è un’osses-sione, l’unica fortuna è che il Grande Capo non compare mai, in tv o nei cartelloni, altrimenti mi sembrerebbe proprio di essere in un altro posto e in un altro tempo. O solo nel mio?

pions. Assurdità nell’assurdità. Ma il massimo lo raggiungiamo quando entriamo a Tiraspol, la capitale, e dopo il palazzo monu-mentale del governo e la statua di Lenin con suo crapone pelato che non riluce più neppure a Mosca. Passiamo davanti a un pa-lazzo dove campeggia la scritta Venezia. Venezia! Ma dai, anche qui, in pieno comunismo irreale… dai gira, che voglio fare una foto, dico al mio Virgilio. E lui esegue: inversione a U proprio davanti all’entrata della base russa. Bravo, perfetto, l’ideale per farsi ben volere dalle truppe occupanti che stanno qui da quasi vent’anni. Ormai sono praticamente maggiorenni, già, bella ma-novra. L’ho voluta io, sì… ma già siamo fuorilegge o al limite e tu ti metti anche a fare il rodeo drive, ma pensa te.

Comunque al primo incrocio rigiriamo, ripassiamo davanti al-la base e finalmente arriviamo al centro di questa capitale che non esiste. Parcheggiamo. Il mio Virgilio s’infila in un palazzo squadrato e io mi immergo in questo altro mondo: avete pre-sente il film Ritorno al futuro, quello dello scienziato pazzoide che inventa l’auto per viaggiare nel tempo? Bene, io ero stato catapultato nel passato, negli anni Settanta, nel comunismo so-vietico: ragazze con stivaletto di plastica dai colori acidi e gon-ne smorte su uno sguardo fiero e slavo e truccatissimo. Vetrine con le tendine che un tempo erano bianche e ora assolutamente grigie sormontate da astruse parole in cirillico gialle o rosse do-ve spuntano in esposizione tre oggetti, tipo uno shampoo, due tinture per capelli, una parrucca. Negozi dove sfila su rastrellie-re da caserma un campionario dell’essenzialità, completi di po-liestere, maglioni infeltriti, scarpe da ginnastica simil Adidas e da passeggio che se non hai i calli devi essee un fachiro per indos-sarle. Come Doc finiva a fare il pistolero in Texas io temevo di dover fare il membro del pci in trasferta nel Paradiso socialista, cercavo di mimetizzarmi ma tutto di me era fuori luogo e, so-

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dello stato che non è riconosciuto da nessuno tranne che da pezzi di Abkhazia e Ossezia – dei turisti. Turisti di che? Del tempo che fu? Però si avvicinano, cercano di parlarci, i sorrisi bambini mentre vogliono spiegarci che festeggiano – scopriremo giorni dopo che il 22 aprile è l’anniversario della nascita di Vladimir Il’ic Ul’janov, il compagno col pizzetto e lo sguardo fisso – come vivono, cosa so-gnano ancora quegli occhi un po’ umidi che guardano a un passato che non esiste più eppure vive ancora in loro e in quel monumento alto otto-dieci metri. La testa pelata del grande rivoluzionario riful-ge al sole di questa Pasqua imminente, i baffoni e il mento aguzzo fendono l’aria, l’orizzonte, il braccio sta teso e chiuso in un pugno serrato mentre sembra che si protenda, come se il gigante stesse per parlare, per lanciare un comizio dei suoi, per infervorarsi nel-la grande illusione comunista. Quello che spicca in questa statua, una delle ultime rimaste di Lenin sulla faccia della terra, è la co-da che sfugge alla sua sinistra: il suo cappotto stilizzato si confon-de in un’ala di granito, pronto a portare in volo lui e le sue parole come in un quadro di Chagall. Non gli bastano i tulipani rossi co-me omaggio, il vecchio condottiero vorrebbe di più, forse risorgere per lanciare una nuova sfida al capitalismo. Ma quello è un mira-colo riservato solo agli dèi, a Gesù. Lui era solo un uomo che morì presto, nel 1924, e non vide i disastri che aveva contribuito a par-torire come questo stato ai confini dell’Europa, una lingua di terra delimitata dal fiume Nistro grande poco più della Valle d’Aosta e meno della Liguria dove vivono in mezzo milione senza un passa-porto valido per il resto del mondo (devono usarne altri, ucraini, russi, moldavi) e con una moneta, il rublo, seppellita dalla storia ma non dai maneggi del Grande Fratello che tutto comanda qui.

«I grandi magazzini Sheriff? Le pompe di benzina? La concessio-naria Mercedes? La fabbrica tessile? L’acciaieria, i cementifici? Ri-storanti, discoteche, perfino la squadra di calcio, tutto è suo. Senza il

Nostalgia canaglia[Transnistria]

I fiori stanno distesi davanti al gigante di granito rosso che guar-da il sol dell’avvenire con cipiglio fiero. Un gruppo di vecchietti, le facce abbronzate e solcate da rughe con medaglie dell’Armata Rossa e spille cccp orgogliosamente al bavero, parlotta tranquillo all’ombra della statua di Lenin che troneggia nella grande piazza del Soviet Supremo della Pridnestrovskaia Moldavskaia Respublica (Pridnestrovie in breve, in cirillico scriverlo è un’impresa), l’ultima repubblica socialista sovietica sopravvissuta al naufragio dell’urss. In alto, sulla sommità del palazzo in stile classicocomunista svetta ancora la falce e il martello incorniciati da spighe e uva e sormonta-ti da una stella rossa. Tutto come allora, vent’anni fa, quando cadde l’Unione e scoppiò la guerra civile tra moldavi e russi, tra cirillico e latino, tra voglia d’Europa e nostalgia del sistema che resse questo sterminato Paese per settant’anni fino all’arrivo di Gorby. Duemi-la e passa morti e una dittatura dell’ex capo del kgb Igor Smirnov dopo quei ragazzi classe 1945 stanno a festeggiare il faro della Ri-voluzione d’ottobre, l’ideologo e la scintilla di quel movimento che voleva cambiare il mondo e ha lasciato solo ricordi e miserie. Sor-ridono quando io e il mio compare filmico Enrico chiediamo noti-zie, storie, informazioni provando tutte le lingue che conosciamo, compreso il dialetto veneto, senza avere l’unica che ci permette-rebbe di dialogare con loro: il russo. Sono un po’ timorosi, chi sia-mo, da dove veniamo – «Italianiskj, eh!» – ma non ci credono, non capiscono come possano arrivare fin lì – a Tiraspol, nella capitale

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macchinari come le strutture, gli uffici, i bassorilievi, tutto sembra essersi fermato al 1991, quando ancora c’era l’urss caro lei, tranne il castello di Bender, la città dall’altra parte del Nistro che i molda-vi chiamo Tighina e i russi hanno conquistato dopo una battaglia nel 1991. Le sue torri spuntano dalle grandi vetrate della fabbrica che confina assurdamente con questa fortezza fondata nel xv seco-lo da Ştefan cel Mare, fatta possente da Solimano il Magnifico alla metà del secolo dopo e conquistata dai russi alla fine del xviii se-colo grazie anche al barone di Münchausen, che qui si sparò sulla palla di cannone per far vincere le truppe del principe Potemkin, anzi del Serenissimo Principe Potemkin Tavriceskij (cioè di Tauria-Crimea), sposo segreto della zarina Caterina ii. All’inizio di quel secolo anche gli svedesi spiaggiarono da queste parti, cercando di battere i russi dello zar e finendo per perderci il loro re Carlo xii.

Smirnov è orgoglioso di tutte queste storie e ha deciso di far sgombrare i militari da quella che è ancora per metà una loro base per iniziare restauri faraonici alle lunghe mura e alle otto torri su-perstiti, finanziando anche la creazione di un museo e l’erezione di busti e statue a tutti i grandi generali. E il barone s’è conquistato un suo angolo nel sacrario del Grande Capo, compreso di busto e la-pidi che spiegano le sue gesta di allucinato soldato finito sulla luna e non solo. Ma i resti delle migliaia di soldati che perirono qui per difendere o conquistare questo avamposto strategico per commer-ci e domini (alla foce del Nistro, settanta chilometri da qui, sorge il castello di Moncastro o Maurocastro, ex colonia di Venezia sul Mar Nero) sono stati piazzati all’inizio della città, in un sacrario con tombe di tante guerre, anche dell’ultima che produsse 486 “marti-ri”, almeno stando alla fanfara del regime. Civili e soldati che com-batterono ex fratelli comunisti riuscendo a scamparla grazie a fra-telli russi, quella xiv armata che oggi sembra essere stata in gran parte sgomberata, ne rimangono solo cinquecento di soldatini.

suo sì qui non puoi far niente, per questo tutto è ordinato, in regola. Qui la corruzione non esiste». In compenso potrebbero furoreggiare traffici di armi, droga, donne, organi, adozioni illegali. Ma lui fa spal-lucce, non ci crede: «Tutta propaganda negativa, come i servizi delle Iene in tv, girati in Moldova». Sergio Luciano è un italiano del Sud sulla quarantina che con Lenin ha in comune una bella pelata e che tre anni fa ha deciso di trasferirsi a vivere a Tiraspol dopo aver baz-zicato per anni in Moldova, a Chişinău. Ebreo osservante, scorrazza tra Ucraina, Transnistria e chissà quanti altri posti di quest’Europa di confine a caccia di affari (lavora nel campo dell’abbigliamento, c’entra con la produzione a Tiraspol della Moncler, ma non solo) e anche di fidanzate: «Ne ho un paio a Chişinău, una a Tiraspol, un’al-tra a Odessa», dice questo maschio italiano vero accarezzandosi la pancia accentuata. «Qui hai davanti a te solo tre risposte se vuoi fa-re affari: no, sì, e partecipo anch’io» spiega infervorato. «Perché qui sono pronti a metterci i soldi se credono nel progetto, non come in Moldova che ti dicono investi e poi cercano di fregarti l’affare o di prosciugarti con bustarelle varie. È semplice: se a lui [cioè a Smirnov, n.d.A.] vai bene entri, altrimenti sei out. E ora vuole aprirsi al mon-do, vuole che arrivino gli investitori dall’estero, anche dall’Italia».

Per questo ci ha portato a visitare una vecchia fabbrica di car-ri armati poi diventata di camion e oggi di semoventi per grana-glie: la Dhecmp Aemo (tradotto dal cirillico), Dnestrauto. Un po-sto cadente che lui magnifica: «Vedi è tutto pulito, ti sfido a trova-re una carta per terra, le macchine sono pulite, olio e ruggine sono banditi». Effettivamente tranne nell’ultima ala della fabbrica, do-ve i vetri rotti ci sono, il resto sembra in ordine. In ordine e an-che in gran parte vuoto. «Vent’anni fa lavoravano duemila persone, ora siamo rimasti in duecento», spiega Petr Kirilovich, vice diret-tore della fabbrica, un bulgaro di qui (c’è anche questa minoranza in questo lenzuolo di Stato incuneato tra Ucraina e Moldova). E i

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Le immagini

Chissà che questi vecchietti timidi sotto il testone di Lenin non fossero dei suoi vent’anni fa. Abbiamo cercato di scoprirlo con do-mande e gesti finendo per essere quasi arrestati dagli agenti di guar-dia al Soviet Transnistro. Per fortuna eravamo stati ben indottrinati: «Rispondete sempre che siete turisti», ci aveva detto Luciano. E noi lo ripetemmo a tutti quelli che ce lo chiesero, anche al baffone che doveva decidere della nostra sorte: guardina o libertà? Decise che eravamo troppo stupidi, lì, sotto Lenin e il sole con macchina foto-grafica e videocamera, per essere veramente pericolosi. Meglio così. E il traffico d’armi descritto in un servizio delle Iene di alcuni anni fa non c’è mai stato: «Perché dovrebbe sporcarsi le mani Lui con que-gli affari? Controlla già metà del pil della Pridnestrovie, ha un patri-monio personale stimato in tre o quattro miliardi di dollari (l’altra valuta che conta da queste parti), volete che si sporchi le mani con queste inezie? La verità è che a tutti, Moldova, Ucraina, Russia, Eu-ropa, fa comodo che Lui comandi e che questo Stato esista, perché qui la gente vive, studia, fa figli, affari, quindi a differenza di quello che pensano tutti, la Transnistria c’è». E combatte insieme a Lui con le sue ragazze dal tacco dodici anche per comprare il pesce dai ca-mion cisterna. Ma hai voglia a mostrarti altera e sculettante tra vec-chie auto zigulì e nuovi suv neri. Questo posto sospeso nel limbo dell’ultimo Soviet rimane una gabbia grigia sull’orlo del disfacimen-to, con i ragazzi costretti a pascolare le pecore in periferia in mezzo a un ex bunker sovietico e alla sporcizia, le fabbriche che stanno in piedi per miracolo e gli imprenditori come Vyacheslav Driglov che non vede l’ora di trovare sponde occidentali per far decollare la sua software house, e i sindaci di campagna che devono implorare i preti italiani come il padovano don Sergio di creare strutture sociali, ora-tori, mense, ospedali nei loro paesi perché il Grande Fratello pensa ad altro. Forse invidia il barone di Münchausen e vorrebbe finire in orbita con una Soyuz come hanno già fatto altri ricconi prima di lui.

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Il Grand Canyon del Danubio.Arcobaleno oltre la Cortina di Ferro.L’Istria dove c’è ancora Venezia.

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Sulle strade della Bucovina.Sulle strade rumene.

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Monastero in Bucovina. Transilvania, la fortezza di Râşnov.

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Facce d’Ungheria rumena.

dall’alto da sinistraTiraspol e Bender: grazie al Soviet.Lenin è ancora qui.Le cantine sotterranee della Moldova.Moldova, in viaggio.

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Chişinău: la rivoluzione perduta.Devozione in Bucovina.

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dall’alto da sinistraPasqua ortodossa.Il Baron tzigano guarda lontano.Transnistria, mercatini.

nelle pagine seguentiTiraspol: falce e martello più uva e cartello.Transnistria, nostalgia canaglia.

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Introduzione

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Verso EstLa badanteFiumeL’uomo del NordestInfine al confineLa prostitutaIncubo e AlexMaschere per un curdoMiniere a cielo apertoL’operaio serboRitorno al passatoIl rumantiromPorte di FerroLo zioDanubioIl poetaEmigrazione e nuvoleIl contadinoVerso NordIl rivoluzionarioCraiovaIl rom Matrimonio zingaro

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Indice

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nella stessa collana

Maurizio CremaViaggio ai confini dell’Occidente

in moto sulle strade dell’Albania

Emilio RigattiYo no soy gringo

taccuini sudamericani di coincidenze, truffe e piccoli miracoli

Maurizio CremaSulle ali del leone

a vela da Venezia a Corfù navigando lungo le rotte della Serenissima

Luca De Giglio, Fausto RovereiPedalando verso Est

in bicicletta da Venezia a Mosca

Mauro BuffaSulla Transiberiana

Sette fusi orari, 9200 km, sul treno leggendario da Mosca al Mar del Giappone

cartoline d’altri viaggi a est

L’avventura continua

[Romania]Sogno e incuboConfine chiusoTransilvania e nuvole ungheresiL’altra Italia e l’ottava provincia del Veneto La terra promessa e il signor Geox Nuova Cina e vecchie ristrettezze Il Delta e la memoria storica

[Moldova] Nella cantina degli gnomi di Bacco Ai confini dell’Europa Il Paese delle noci Preti di frontiera L’ultima fermata del Nordest Florida d’ItaliaBaron tziganoTerra e cielo

[Transnistria]Il Paese che non c’è Nostalgia canaglia

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