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IL TRITTICO DI PUCCINI: FONTI E LIBRETTISTI a cura di LUCIANA DISTANTE 02 VOLUME

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IL TRITTICO DI PUCCINI:

FONTI E LIBRETTISTI

a cura di

LUCIANA DISTANTE

02 VOLUME

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1 GIACOMO PUCCINI

1.1 Brevi cenni sulla vita.

Nato a Lucca il 22 dicembre 1858, Giacomo fu il sesto dei nove figli di Michele Pucci-ni e Albina Magi. Da molte generazioni i Puccini erano maestri di cappella del Duomo di Lucca e anche Giacomo, perduto il padre all’età di cinque anni, fu mandato a studia-re presso lo zio materno. L’aneddotica ce lo descrive tuttavia come uno scavezzacollo. Lasciata Lucca, dal 1880 al 1883 Puccini studiò al Conservatorio di Milano, grazie ad una borsa di studio di cento lire al mese, per un anno, fattagli avere dalla regina Mar-gherita su supplica della madre.Durante questi anni di gaia miseria, divise una camera con l’amico Mascagni. Tra i suoi insegnanti spiccano i nomi di Amilcare Ponchielli e Antonio Bazzini. Nel 1883 partecipò al concorso per opere in un atto indetto dall’edito-re Sonzogno con Le Villi, su libretto di Ferdinando Fontana e non vinse il concorso, ma nel 1884 fu rappresentata al Teatro dal Verme di Milano sotto il patrocinio dell’editore Giulio Ricordi, concorrente di Sonzogno.Nel 1884 Puccini aveva messo su famiglia, iniziando una convivenza destinata a durare tra varie vicissitudini tutta la vita con Elvi-ra Bonturi, moglie del droghiere lucchese Narciso Gemignani.Nel 1891 Puccini si tra-sferì a Torre del Lago (ora Torre del Lago Puccini, frazione di Viareggio): ne amava il mondo rustico e lo considerava il posto ideale per coltivare la sua passione per la caccia e per le baldorie tra artisti. Di Torre del Lago il maestro fece il suo rifugio, prima in una vecchia casa affittata, poi facendosi costruire la villa che andò ad abitare nel 1900. Qui furono composte le sue opere di maggior successo. Puccini la descrive così:Dopo il mezzo passo falso di Edgar, la terza opera – Manon Lescaut – fu un successo straordi-nario, forse il più autentico della carriera di Puccini. Essa segnò inoltre l’inizio di una fruttuosa collaborazione con i librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, il primo su-bentrato a Marco Praga e Domenico Oliva nella fase finale della genesi, il secondo in un ruolo più defilato. Illica e Giacosa avrebbero scritto poi i libretti delle successive tre opere, le più famose e rappresentate di tutto il teatro pucciniano. La prima, La bohème (basata sul romanzo a puntate di Henri Murger Scènes de la vie de Bohème), è forse la sua opera più celebre. Tra i capolavori del panorama operistico tardoromantico, La bohème è un esempio di sintesi drammaturgica, strutturata in 4 quadri (è indicativo l’uso di questo termine in luogo del tradizionale “atti”) di fulminea rapidità. La succes-siva, Tosca, rappresenta l’incursione di Puccini nel melodramma storico a tinte forti. Il soggetto, tratto da Victorien Sardou, può richiamare alcuni stereotipi dell’opera verista, ma le soluzioni musicali anticipano piuttosto, specie nel secondo atto, il nascente e-spressionismo musicale. Madama Butterfly (basata su un dramma di David Belasco) è la prima opera esotica di Puccini. Il suo debutto alla Scala nel 1904 fu un solenne fia-sco, probabilmente almeno in parte orchestrato dalla concorrenza. Dopo alcuni rima-neggiamenti, l’opera fu presentata al Teatro Grande di Brescia, dove raccolse un suc-cesso pieno, destinato a durare fino ad oggi.La collaborazione con Illica e Giacosa fu

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certamente la più produttiva della carriera artistica di Puccini. L’ultima parola spettava comunque a Puccini, al quale Giulio Ricordi aveva affibbiato il soprannome di «Doge».L’eclettismo pucciniano, e insieme la sua incessante ricerca di soluzioni origi-nali, trovarono piena attuazione nel cosiddetto Trittico, ossia in tre opere in un atto rap-presentate in prima assoluta a New York nel 1918. I tre pannelli presentano caratteri contrastanti: tragico e verista Il tabarro, elegiaca e lirica Suor Angelica, comico Gianni Schicchi. Turandot è la prima opera pucciniana di ambientazione fantastica, Puccini si entusiasmò subito al nuovo soggetto e al personaggio della principessa Turandot, algi-da e sanguinaria, ma fu assalito dai dubbi al momento di mettere in musica il finale, coronato da un insolito lieto fine, sul quale lavorò un anno intero senza venirne a capo. L’opera rimase incompiuta perché Puccini morì a Bruxelles nel 1924, per complicazio-ni sopraggiunte durante la cura di un tumore alla gola. Le ultime due scene, di cui non rimaneva che un abbozzo musicale discontinuo, furono completate da Franco Alfano sotto la supervisione di Arturo Toscanini; ma la sera della prima rappresentazione lo stesso Toscanini interruppe l’esecuzione sull’ultima nota della partitura pucciniana, ossia dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù. Nel 2001 vide la luce un nuovo finale composto da Luciano Berio, basato sul medesimo libretto e sui medesimi abboz-zi. La tomba del maestro si trova nella cappella della villa di Torre del Lago. 1.2 Puccini e il verismo musicale.

Sotto l'influsso letterario del verismo, nell'ultimo decennio del XIX secolo i composito-ri italiani privilegiarono soggetti legati alla classe proletaria trattati con gusto realistico, talvolta evidenziando la brutalità e le ingiustizie di alcune situazioni messe in scena. I critici degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento accomunarono con l'appellativo “Giovane scuola” un gruppo di compositori (Ruggero Leoncavallo, Pietro Mascagni, Umberto Giordano, Francesco Cilea e Giacomo Puccini) dediti al melodramma, che venne chiamato da allora “verista”.1 Questi musicisti non ebbero una formazione musi-cale omogenea: Leoncavallo, Giordano e Cilea frequentarono il Conservatorio di Napo-li, mentre Puccini e Mascagni si perfezionarono al Conservatorio di Milano sotto la guida di Amilcare Ponchielli. Tutti i compositori erano legati alla Casa Sonzogno, e-scluso Puccini, che aveva come editore Ricordi. Ciò che interessava ai compositori veristi era promuovere l'identificazione del pubblico dell'epoca con i personaggi e le situazioni emotive messe in scena. Un ruolo importante in questo senso fu svolto dai letterati della “scapigliatura” movimento letterario d'avanguardia che contribuì ad ag-giornare la cultura italiana al più avanzato romanticismo d'oltralpe negli ultimi decenni del XIX secolo.2 Nutriti di un gusto particolare per il grottesco, il sinistro e l'eccentrico,

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1. Per un quadro generale sull’opera verista si consulti Guido Salvetti, La nascita del Novecento, nuova ed., Torino, EDT, 1991, cap. V. 2. Sul movimento della Scapigliatura si veda Pazzaglia, Letteratura italiana cit., pp. 532-534.

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essi posero l'attenzione sulla necessità di una letteratura non aulica, più vicina al parlato quotidiano. Alcuni esponenti di questo movimento, tra cui Arrigo Boito ed Emilio Pra-ga, si interessarono fortemente alla musica, cimentandosi anche nella professione di librettista (soprattutto Boito).3 Gli scapigliati, che criticavano il melodramma tradizio-nale, si mossero in direzione sia di una migliore qualità letteraria dei libretti, sia di un forte sperimentalismo linguistico. Si avvertiva inoltre il bisogno di inglobare nel lin-guaggio operistico il parlato quotidiano. I personaggi dei drammi veristi si esprimono in un linguaggio semplice e concreto, la lingua di ogni giorno. I testi divengono poli-metrici e flessibili, tanto che il sistema metrico che aveva governato il libretto dell'ope-ra italiana per circa due secoli, ossia l'architettura in numeri musicali funzionali al di-scorso drammatico, viene rivoluzionato. La rigida struttura a numeri (ognuno dei quali composto da due sezioni cinetiche e due statiche) fu sostituita da forme più flessibili e dinamiche.4 Assunsero un'importanza determinante le sonorità locali - esotiche, gli inserti di danza (in precedenza il ballo era separato totalmente dall'azione dell'opera) e il dispiegamento di masse corali. Per questo tipo di opera fu coniata la nuova definizio-ne di “opera-ballo”, di cui sono celebri esempi Aida di Giuseppe Verdi, La Gioconda di Amilcare Ponchielli e Le Villi di Giacomo Puccini. Puccini sviluppa in modo molto personale le innovazioni wagneriane. Naturalmente è molto legato alla tradizione italiana, ma risente di molte influenze che in qualche modo lo attirano senza mai convincerlo del tutto. Risente del verismo, ma in qualche maniera le sue opere si distaccano dal movimento portato avanti da Mascagni, e si dirigono ver-so sentieri diversi, più indirizzati sul microcosmo della coppia, del quale parleremo, che alla realtà circostante. È vicino anche all’estetismo dannunziano (e la loro collabo-razione fu vicina a realizzarsi), ma l’immobilità estetica dello scrittore mal si combina con la dinamica sentimentale che sviluppa Puccini. Un compositore fuori dagli schemi e dalle tradizioni, quindi, così particolare da risultare alla fine unico e inimitabile: Puc-cini, appunto. Ogni opera è affrontata da Giacomo Puccini con una attenzione e una dedizione che nel mondo della composizione ha ben pochi riscontri. Altri compositori, non meno noti al grande pubblico, hanno prodotto una quantità incredibile di partiture, approfittando di vantaggiosi contratti e lavorando sulla scia di una fama senza confron-ti. Leggendo lettere e dichiarazioni di compositori o contemporanei possiamo appren-dere che alcune opere, che potremmo pensare essere il frutto di mesi di duro lavoro, con il compositore alla ricerca dell’ispirazione e della migliore forma stilistica, sono invece il risultato del frenetico lavoro di poche settimane, a volte pochi giorni. In Gia-como Puccini, notiamo una certa riflessione, una cura a volte esasperata sia nella ricer-

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3. Rubens Tedeschi, Addio fiorito asil. Il melodramma italiano da Boito al verismo, nuova ed., Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1992. 4. Una sintesi efficace della storia del melodramma si legge nel volume di Lorenzo Bianconi, Il teatro

d’opera in Italia. Geografia, caratteri, storia, Bologna, Il Mulino, 1993.

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ca del tema che della forma. Naturalmente anche Puccini ha spesso attinto a temi melo-dici preesistenti, soprattutto quando si trattava di dover caratterizzare in modo appro-priato una delle sue opere dal gusto esotico (Madama Butterfly, Turandot), però dietro c’è tutta una preparazione atta a integrare nella trama melodica della sua opera questi estratti esotici. 1.3 Il linguaggio musicale.

Amato dal pubblico. Rinnegato dalla critica. Nessun operista in passato, tranne forse Donizetti, ha subito al pari di Puccini una così tenace avversione da parte degli “addetti ai lavori”. In Butterfly le giapponeserìe, il sentimentalismo svenevole, la leziosaggine di alcuni episodi incidentali, il tono operettistico di alcune situazioni, certa fanciullag-gine di atteggiamenti nella protagonista (una quindicenne, peraltro), l’apparente facilità delle idee musicali, hanno incontrato e ancora incontrano l’ostilità di critici e studiosi, fuorviando la comprensione dell’opera e allontanando indagini non superficiali. Facile sembra infatti la Madama Butterfly, almeno al primo ascolto, a onta di tutta la comples-sità che vi si cela nel profondo. Proprio per il fatto che questa musica ammantata di splendore strumentale esercita nella sua apparente facilità un fascino denso di moltepli-ci significati, sorge spontaneo l’impulso di comprenderne la vera natura, studiarne il segreto dispositivo che ce la rende ancora oggi così seducente. L’apparente banalità della Butterfly sembra derivare da quel tono ‘operettistico’, specie nel primo atto, tante volte biasimato dai commentatori. Attraverso una rilettura più attenta e consapevole dello spartito ci si rende conto che lo scarto stilistico che si stabilisce fra l’ingresso della protagonista e tutto quanto lo precede si rivela operazione non casuale bensì pre-determinata. Quel tono ‘operettistico’ non vuole affatto svolgere una funzione narrati-va, bensì esprimere una funzione per così dire alienante: musica di sfondo, una sorta di tappezzeria sonora, si direbbe, insomma un espediente volutamente calcolato per il suo stile “basso” al fine di lasciar emergere, isolandola in primo piano ed elevandola a un livello stilistico superiore, la figura della protagonista. La tecnica compositiva di Pucci-ni nel rapporto fra canto e orchestra si fonda sul procedimento sintattico della musica

di conversazione, che a sua volta discende per via diretta dal parlante dell’opera otto-centesca. Attraverso tale procedimento egli fa ampiamente tesoro di una delle conqui-ste più rilevanti della tradizione melodrammatica perseguita e realizzata da Verdi: la fusione degli stili espressivi. In Puccini tale fusione, espressa con grandissima abilità per transizione (vedi il primo atto di Tosca) o per sovrapposizione (vedi il quartetto di Bohème) di elementi musicali — dal comico al patetico, dal brillante al tragico, dall’u-moristico al descrittivo, dal lirico al grottesco — viene ulteriormente consentita dalla riduzione della melodia in termini di durata. In Puccini il procedimento a mosaico che ne risulta è solo apparente, poiché l’impiego di brevi cellule melodiche rivela a un’attenta analisi un comportamento mai casuale ma sempre meditato che non lascia traccia di suture. Tale procedimento si basa

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principalmente (ma non esclusivamente) sull’uso di temi ricorrenti.5 Nel teatro di Puc-cini la nuova valutazione della consistenza del tempo nella genesi e nello sviluppo di caratteri e situazioni, e il senso della durata psicologica si ricollegano per certi aspetti alla celebre distinzione della memoria volontaria e della memoria involontaria. I Leit-

motiven pucciniani non tengono al guinzaglio la memoria dell’ascoltatore, ma al con-trario vi si insinuano lentamente, come per via inconscia. Non invocano, come in Wa-gner, un ascolto cosciente, riflessivo, ma implicano piuttosto un ascolto subcosciente, emozionale. Nel presentarsi quasi accidentalmente, come tessere di un mosaico, o me-glio come cellule connettive del tessuto narrativo del discorso musicale, i temi ricorren-ti in Puccini non sembrano denunciare a tutta prima una valenza drammaturgica imme-diatamente percepibile. Appaiono e scompaiono per riaffiorare fugacemente nel corso della vicenda drammatica, acquistando in corso d’opera referenze sempre più esplicite, fino a caricarsi, verso la catastrofe, di una densità di sensazioni e di significati che ci rivelano solo alla fine la loro vera funzione espressiva. L’etichetta di “verismo” appli-cata al teatro di Puccini risulta dunque del tutto impropria. Il teatro pucciniano è meno teatro dell’osservazione (conforme i canoni dell’estetica naturalista, che pure Puccini sembra apparentemente applicare) e assai più teatro dell’emozione (in direzione di tan-ta estetica simbolista di quegli anni). L’ascolto, in particolare l’ascolto globale, vale a dire effettuato direttamente dal vivo, in teatro, è in grado di rivelare elementi strutturali che lo spartito a tutta prima non sembra denunciare. Si è accennato alla mobilità dei ritmi e delle transizioni armoniche. All’interno di questa mobilità agiscono altre com-ponenti che rivelano nella melodrammaturgìa pucciniana, un’importanza sostanziale e decisiva. Un aspetto dell’arte di Puccini che finora non è stato preso in debita conside-razione riguarda l’espansione in senso verticale della struttura compositiva e al suo interno l’uso del timbro in rapporto ai parametri di altezza, di intensità e di durata. A differenza di un’armonia compatta e del colore strumentale ‘globale’ che ne consegue, la struttura compositiva di Puccini si basa prevalentemente su un’armonia instabile a disposizione larga che si apre in ampiezza, in modo da valorizzare i singoli colori tim-brici. A livello di struttura compositiva i valori armonici e quelli strumentali si compe-netrano pertanto fra loro in modo tale che non è possibile scinderli come entità autono-me. L’uno argomenta l’altro. Lo strumentale non è dunque ‘veste’ esteriore o abbelli-mento del pensiero melodico - armonico, né mero esercizio virtuosistico fine a se stes-so, ma risponde alle esigenze della struttura compositiva stessa, è sostanza del discorso musicale, una sostanza peraltro dagli effetti così squisitamente armoniosi, dai risultati così seducenti da trarre in inganno sulla sua vera natura e funzione. La disposizione larga delle armonie in senso verticale e l’alternanza di contrazioni e distensioni foniche che Puccini opera per scelte armonico - timbriche sembrano smentire la tanto concla-

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5. A tal proposito le analogie con il Leitmotiv wagneriano sono state più volte sottolineate dagli studiosi.

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mata consanguineità del suo teatro con l’opéra - lyrique francese (Bizet, Massenet, ecc.), ma ne rivelano semmai i debiti verso Wagner, successivamente verso Debussy, e ne denunciano una certa consonanza con l’arte di Mahler. Una tecnica e una tendenza estetica, quelle di Puccini, che già partecipano alla nuova sensibilità musicale dei gran-di compositori del Novecento, da Strawinsky a Bartók, da Schönberg a Webern. Se mai un addebito è possibile imputare a Puccini è forse quello di troppa modestia, di aver cioè talvolta sottovalutato le potenzialità che la sua stessa sensibilità musicale era in grado di esercitare in rapporto all’espressione drammatica, non sposando (lo dico sotto-voce e senza troppa convinzione) soggetti meglio adeguati per ricchezza e complessità di contenuti alla magistrale tecnica compositiva di cui era fornito e allo straordinario intuito teatrale, tutto orientato verso orizzonti d’avanguardia. 2 IL TRITTICO

2.1 Genesi del Trittico

Il trittico viene rappresentato per la prima volta al Teatro Metropolitan di New York il 14 dicembre 1918. Il tabarro – Luigi Montesanto (Michele); Giulio Crimi (Luigi), Claudia Muzio (Giorgetta); Suor Angelica - Geraldine Farrar (Suor Angelica), Flora Perini (Zia Principessa); Gianni Schicchi - Giuseppe de Luca (Gianni Schicchi), Flo-rence Easton (Lauretta), Giulio Crimi (Rinuccio); direttore d'orchestra Roberto Moran-zoni. La prima italiana ha luogo, meno d'un mese dopo, al Teatro Costanzi (odierno Teatro dell'opera di Roma) l'11 gennaio 1919, sotto la prestigiosa direzione di Gino Marinuzzi, fra gli interpreti principali: Gilda dalla Rizza, Carlo Galeffi, Edoardo de Giovanni, Ma-ria Labia, Matilde Bianca Sadun. L'idea d'un "Trittico" - inizialmente Puccini aveva pensato a tre soggetti tratti dalla Commedia dantesca, poi a tre racconti di autori diversi - si fa strada nella mente del Maestro almeno un decennio prima, già a partire dal 1905, subito a ridosso di Madama Butterfly. Tuttavia, sia questo progetto sia quello d'una "fantomatica" Maria Antonietta (che, come si sa, non fu mai realizzata) vengono per il momento accantonati in favore della Fanciulla del West (1910). La fantasia pucciniana è rivisitata dall'immagine d'un possibile "trittico" nel 1913, proprio mentre proseguono - gli incontri con Gabriele D'Annunzio per una possibile Crociata dei fanciulli...... In-fatti, proprio nel febbraio di quello stesso anno Puccini è ripreso dall'urgenza del "trittico": immediatamente avvia il lavoro sul primo dei libretti che viene tratto da La

Houppelande, un atto unico, piuttosto grandguignolesco, di Didier Gold, cui il compo-sitore aveva assistito, pochi mesi prima, in un teatro parigino: sarà Il tabarro, abilmente ridotto a libretto da Giuseppe Adami. In effetti, Puccini era rimasto affascinato, quasi morbosamente attratto, non solo dall'atmosfera cupa e disperata del dramma, ma anche, dal suo "colore" davvero parigino: la Senna, i personaggi grigi, violenti e senza speran-

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za, la vita errabonda sul barcone di Michele..... Nel 1915 - l'Italia è già entrata in guerra - Puccini, precisamente il 30 ottobre, scrive a Tito Ricordi (il padre di Tito, Giulio, era morto nel 1912): "Mi sono messo a tradurre in note l'Houppelande, ma anche per que-sta occorre una revisione, per rendere più canagliesco il linguaggio che ora è troppo dolciastro, e così mi trovo un po' arenato in un lavoro che prendeva buona piega. Ada-mi (Giuseppe, il librettista) però sa tutto questo e mi ha promesso di venire da me dopo il 10 novembre (.........) vado avanti coll' Houppelande in tutto e per tutto. Non so come spedirla questa partitura di cui non ho copia. Non mi fido di affidarla alla posta (.........) P.S. - Adami mi scrisse che aveva un'idea ottima per una piccola opera in due atti da unire ad Houppelande, fosse vero! Io sono senza far niente e questo mi secca moltissi-mo". Secondo le intenzioni del compositore, Il tabarro, così ultimato, dovrebbe essere rap-presentato da solo (quindi l'idea d'un "trittico" parrebbe, a tutta prima e almeno per il momento, abbandonata e accantonata) a Montecarlo o a Roma. Già all'inizio dell'anno seguente (29 gennaio), però, Puccini scrive all'amico Alfredo Vandini: "(......) Suor

Angelica, altra opera che sto maturando"; si tratta di un progetto scaturito da una con-versazione con Giovacchino Forzano, a Viareggio, verso la fine del 1916 e l'inizio del 1917. E il 3 marzo Puccini può addirittura scrivere a Tito Ricordi – e siamo così alla terza e conclusiva opera del futuro trittico: "Ho anche finita una breve trama su Gianni

Schicchi"; così, almeno sul solo versante librettistico, il "trittico" prende forma e risulta strutturalmente completato. La musica per Suor Angelica e per Gianni Schicchi – quel-la per il Tabarro era già pronta da un pezzo - viene ultimata in ogni sua parte nell'aprile 1918. Con parole commosse lo stesso Puccini ricorderà più tardi l'audizione, in antepri-ma assoluta, di Suor Angelica, avvenuta del 1917 nel monastero di Vicopelago, sulle colline lucchesi, fra ulivi e cipressi: il convento ospita una comunità di monache agosti-niane, delle quali è camerlenga, cioè amministratrice (e ne era già stata badessa), suor Maria Enrichetta, all’epoca Iginia Puccini, sorella del Maestro : "Raccontai loro, con incerta trepidazione e con tutte le precauzioni e le delicate sfumature inspirate dall'am-biente e dall'auditorio, l'intreccio alquanto scabroso del libretto. Erano tutte attente, tutte commosse e con qualche lacrimuccia esclamavano compunte e timide ma sincere: - Poverina, poverina! Come fu disgraziata! Dio misericordioso certo l'ha accolta in cie-lo e le ha perdonato. Cattiva quella zia così dura...... Oh, la mamma che non ha veduto il suo bambino prima che quello morisse! Si direbbe quasi che le anime dei bimbi indu-gino a volare in Paradiso, se non ricevono prima il bacio della loro mamma! - Ed altre frasi tenere e commoventi. Io credevo che si scandalizzassero e che mi venissero fuori con qualche uscita di stupore, mi aspettavo anzi, col riserbo di quelle anime pure e ti-mide, un qualche cosa che sapesse di rimprovero, di riprovazione per il troppo ardi-mento dell'intreccio...... Invece trovai soltanto della pietà, della generosa simpatia cri-stiana aulente di verace ed edificante sentimento religioso. E quando finalmente mi congedai, le monache mi fecero ala, ed arrivato in fondo alla scala, volsi lo sguardo e le

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vidi tutte in fila in una spontanea disposizione scenografica, quale nessun coreografo sarebbe mai capace di immaginare, e le nostre coriste e ballerine (Dio mi perdoni la profanazione) tanto meno di eseguire.” Puccini comincia subito a progettare l'esecuzione, interessandosi più intensamente del solito anche del lato scenografico. Si susseguono a distanza ravvicinata le due prime (mondiale e italiana). In particolare, a New York, dove Il trittico viene diretto da Roberto Moranzoni, pubbli-co e critica sono concordi nell'esaltare soprattutto Gianni Schicchi; dei tre "quadri" quello che persuade meno è Suor Angelica, ma anche Il tabarro non va esente da criti-che. In particolare, lo spunto della trama di Gianni Schicchi è dantesco (Inferno XXX 31, 42-45): "(......) sostenne,/Per guadagnar la donna de la torma, (cioè la mula più bella della stalla/Falsificare in sé Buoso Donati/Testando e dando al testamento norma". Ma non va ignorata un'altra fonte, più minuziosa e dovi-ziosa di particolari - tutti finti nel libretto, pressoché sconosciuta e che risulta di estre-mo interesse. Si tratta di un brano tratto dal Commento alla Divina Commedia D'Ano-

nimo fiorentino del secolo XIV ora per la prima volta stampata a cura di Pietro Fanfani, tomo I (Bologna, Romagnoli, 1866).6 L'idea del Trittico risponde a una tripartizione che, attraverso il verismo (Il tabarro) e il dramma borghese e sentimentale (Suor Ange-

lica) perviene al comico (Gianni Schicchi); ovvero si modella sulla Commedia dante-sca: Il Tabarro = Inferno; Suor Angelica = Purgatorio; Gianni Schicchi = Paradiso. Forma, cioè, una sorta di grande arco che in una specie di graduale ascesa passa dal

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6. Questo Sticchi fu de’ Cavalcanti da Firenze, et dicesi di lui che, essendo messer Buoso Donati aggravato d’una infermità mortale, volea fare testamento, però che gli parea avere a rendere assai dell’altrui. Simone il suo figliolo il tenea a parole, perch’egli nol facesse; et tanto il tenne a parole ch’elli morì. Morto che fu, Simone il tenne celato, et avea paura ch’elli non avessi fatto testamento, mentre ch’egli era sano; et ogni vicino dicea ch’egli l’avea fatto. Simone, non sappiendo pigliare consiglio, si dolse con Gianni Sticchi et chiesegli consiglio. Sapea Gianni contraffare ogni uomo, et colla voce et cogli atti, et massimamente messer Buoso, ch’era uso con lui. Disse a Simone: Fa venire uno notajo, et di’ che messer Buoso voglia fare testa-mento: io enterrò nel letto suo, et cacceremo lui dirietro, et io mi fascerò bene, et metterommi la cappellina sua in capo, et farò il testamento come tu vorrai: è vero che io ne voglio guadagnare. Simone ne fu in concor-dia con lui: Gianni entra nel letto et mostrasi appenato, et contraffà la voce di messer Buoso che parea tutto lui, et comincia a testare et dire: io lascio soldi xx all’opera di santa Reparata, et lire cinque a’ Frati Minori, et cinque a’ Predicatori, et così viene distribuendo per Dio, ma pochissimi danari. A Simone giovava del fatto: et lascio, soggiunse, cinquecento fiorini a Gianni Sticchi. Dice Simone a messer Buoso: questo non bisogna mettere in testamento; io gliel darò come voi lascerete - Simone lascerai fare del mio a mio senno: io ti lascio sì bene che tu dèi essere contento - Simone per paura si stava cheto. Questi segue: Et lascio a Gianni Sticchi la mula mia; chè avea messer Buoso la migliore mula di Toscana. Oh, messer Buoso, dicea Simone, di co-testa mula si cura egli poco et poco l’avea cara: io so ciò che Gianni Sticchi vuole meglio di te. Simone si comincia adirare et a consumarsi; ma per paura si stava. Gianni Sticchi segue: Et lascio a Gianni Sticchi fiorini cento, che io debbo avere da tale mio vicino: et nel rimanente lascio Simone mio reda universale con questa clausula, ch’egli dovesse mettere ad esecuzione ogni lascio fra quindici dì, se non, che tutto il reditag-gio venisse a’ Frati Minori del convento di Santa Croce; et fatto il testamento, ogni uomo si partì. Gianni esce del letto, et rimettonvi messer Buoso, et lievono il pianto, et dicono ch’egli è morto.

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buio alla luce. Buffa, divertente, ma altrettanto significativa d'un clima di "anni perdu-ti", è la nascita del nome stesso di "Trittico". Guido Marotti, intimo amico di Puccini, nel suo Giacomo Puccini intimo, racconta una serie di episodi curiosi e poco noti della vita del Maestro. Riguardo al nome il Marotti pronunciò una frase: "E questo nome ormai, con buona pace dei puristi, non lo toglie più nessuno, perché i mutamenti ana-grafici sono vietati dalla legge". Questa conclusione del Marotti è piuttosto discutibile. In verità, il titolo di Trittico non risulta del tutto appropriato. Infatti, a differenza dei pannelli del trittico di un pittore, le tre opere pucciniane non formano una sequenza narrativa, e non esiste nessuna connessione fra di esse. Piuttosto, come nella Commedia

dantesca, l'opprimente e tetro Tabarro può collegarsi con l’Inferno; Suor Angelica, che narra di un peccato mortale e della salvezza finale per mezzo della grazia divina, arieg-gia il Purgatorio; infine, in Gianni Schicchi spira un senso liberatorio e vitalistico, pro-prio come in certi canti del Paradiso. Puccini ha concepito le tre opere del suo Trittico come un tutto unico, inscindibile; è facile quindi immaginare la sua giusta costernazione quando, poco dopo la "nascita" del suo lavoro a New York e Roma, lo vide praticamente "fatto a pezzi" in quasi tutti i teatri. Ricordi aveva addirittura steso un contratto col Metropolitan, naturalmente a insaputa del Maestro, dove venivano fissate differenti quote per rappresentazioni sepa-rate dalle tre singole opere. Nel periodo fra le due guerre mondiali, l'opera più frequen-temente rappresentata da sola fu Gianni Schicchi che di solito veniva abbinata a Caval-

leria rusticana di Mascagni o a Pagliacci di Leoncavallo (a Londra con Salome di Ri-chard Strauss). Il Tabarro era considerato un " Puccini rechauffe" dalla critica del tem-po, mentre Suor Angelica veniva definita un' " opera anemica". Altro ostacolo, di non lieve entità, a un'esecuzione integrale dell'impegnativo Trittico è costituito dal ricco, e soprattutto costoso, cast indispensabile per la sua rappresentazione scenica. Fin dalle prime esecuzioni soltanto i due "primi" tenori del Tabarro (Luigi) e di Gianni Schicchi

(Rinuccio) vengono perlopiù impersonati da un medesimo e unico interprete; mentre i due "primi" baritoni del Tabarro (Michele) e di Gianni Schicchi (Gianni Schicchi) esi-gono due diversi interpreti e, addirittura, i tre "primi" soprani del Tabarro (Giorgetta), di Suor Angelica (Suor Angelica) e di Gianni Schicchi (Lauretta) ne pretendono ben tre. Ben diversa è la situazione del Trittico dopo la seconda guerra mondiale, quando esso cominciò a essere rappresentato intero, rispettando così l'espressa volontà del Ma-estro. 2.2 Forma dell’Atto unico: Tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi. L'effettiva unità estetica del Trittico è indispensabile premessa a quella formale, poiché la struttura dei singoli atti unici è determinata dall'esigenza di dar loro un respiro unita-rio che percorra l'intera serata. Il compositore riuscì inoltre a concentrare il materiale drammatico di un'opera a largo respiro in limiti più ristretti, e affrontò il problema del tutto nuovo di accostare, sulla base di uno specifico progetto, tre generi differenti - il

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‘drammatico', il ‘sentimentale' e il ‘buffo' (sia pure in accezione lata) - valicando di slancio la prassi diffusa in tutta Europa a quel tempo. Egli intese realizzare un organi-smo dalle ‘tinte' adeguatamente diversificate, per unificarle anche sulla base del loro contrasto. La violenza espressiva di Tabarro interessa e sorprende, la musica delicata e la natura del dramma vissuto dalla protagonista di Suor Angelica commuove infallibil-mente, dal canto suo Gianni Schicchi diverte moltissimo, anche se l'elemento macabro sporca la risata. Puccini era solito stabilire pregnanti relazioni fra la vicenda e il luogo in cui si svolge, ma qui intese dedicare uno spazio qualitativamente diverso all'atmosfera dell'opera: l'attiva interazione musicale e drammatica tra vicende e luogo gli avrebbe consentito di realizzare le nuove strutture musicali che aveva in mente sin da quando, agli inizi del nuovo secolo, aveva avvertito i sintomi della crisi novecentesca. Dopo avere stabilito il proprio modello nel Tabarro, già composto prima di trovare gli altri due soggetti, Puc-cini concertò con Forzano le opere seguenti. La pièce iniziale gli offriva un punto d'at-tacco perfetto: il passo monotono della Senna, realizzato con mezzi musicali, presuppo-neva un analogo scorrere di eventi legati a situazioni sociali vissute ai margini della metropoli e, al contempo, influiva sul comportamento dei protagonisti. Siamo poi con-dotti a un asettico convento di clausura, dove preghiere, rintocchi di campane, inni in latino, scrittura modale, timbri sfumati ed algidi marcano un distacco completo dal mondo degli affetti terreni frutto della costrizione e della rinuncia. Altrettanto accade nello Schicchi. Tramite la lingua cruscante dei personaggi e lo stornello di Rinuccio dove sono celebrati tutti i grandi artisti toscani del tempo, a mano a mano il ritratto di Firenze prende corpo, fino a rivelarsi in modo liberatorio dietro all'immagine finale degli amanti abbracciati che spalancano la porta della terrazza. E grazie allo strapotere del ritmo si rivivono qui tutti i meccanismi della tradizione realistica dell'italico genere comico, dalla farsa sino all'opera buffa settecentesca. La coerenza con cui Puccini con-cepì il Trittico emerge da questi diversi equilibri tra musica d'ambiente e vicende indi-viduali, dall'unità ottenuta mediante funzionale giustapposizione tra un atto e l'altro, tutti ulteriormente accomunati dall'importanza del fattore tempo. Sfogliando la partitura del Tabarro ci si rende conto di come l'articolazione del dramma in rapporto alla musi-ca segua proporzioni auree. La prima parte è dedicata alla presentazione dei personaggi che popolano i bassifondi parigini. Nella seconda, focalizzata sull'amore clandestino e sulla nostalgia di Michele, si avvia l'azione che porterà alla conclusione, dominata dal-l'omicidio e siglata da un finale a sorpresa. La novità di scrittura emerge se si esamina la sua struttura in rapporto alla trama, chiaramente articolata secondo lo schema: espo-sizione, peripezia, catastrofe. Ad esso corrispondono tre ampie sezioni in partitura (un ampio Maestoso iniziale, un Allegretto centrale, un Allegro conclusivo con introduzio-ne sostenuta), dove i temi sembrano quasi sottomettere l'azione alle esigenze della for-ma musicale. Questo procedimento risolve brillantemente il problema della concentra-zione (postulato dall'atto unico) e inoltre assicura alla partitura un'unità sonora mai

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raggiunta da Puccini grazie a un trattamento che riaggiorna fattezze classiche. An-che Suor Angelica è sorretta da una solida struttura, organizzata per giustapposizione di episodi attraversati da temi e reminiscenze. La traccia è chiaramente indicata nel libretto di Giovacchino Forzano rispettata dal compositore con precisi stacchi: si tratta di una Via Crucis in sette stazioni vissuta dalla protagonista. Ognuna di queste parti ha un carattere che la rende episodio a sé stante, ma c'è una studiata omogeneità di fondo del materiale melodico che lega le stazioni da uno a quattro, seguita da uno stacco note-vole che isola la quinta, dove il clima di consuetudini del convento viene traumatica-mente spezzato. Questo episodio crea le premesse del finale (stazioni sei e sette), dove la temperatura drammatica cresce sino al miracolo conclusivo. Lo Schicchi è forse la più riuscita delle tre partiture, senza dubbio almeno dal punto di vista tecnico. Per rivivere la tradizione dell'opera buffa Puccini fece del ritmo l'elemen-to unificatore della sua musica. A sipario chiuso i bassi dell'orchestra attaccano frago-rosamente un pedale di dominante mentre gli altri strumenti si proiettano con slancio verso l'acuto, dando vita a un movimento ostinato di crome. I due temi generati dall'im-peto iniziale reggono per circa due terzi della partitura, incarnando a meraviglia il flus-so inarrestabile della trama. Nell'assolo «Avete torto!» Rinuccio si stacca dal contesto replicando con senno all'isterica protesta dei parenti. Il brano è uno dei più lunghi scrit-ti da Puccini per un tenore, ed è il primo di ben quattro numeri chiusi affidati ai tre per-sonaggi principali, cui si sommano duetti, terzetti e concertati. A ben guardarne la co-struzione (recitativo-arioso e stornello tripartito) si direbbe quasi che Puccini abbia voluto liberamente ricreare modelli settecenteschi, dove l'aria faceva parte integrante dell'azione drammatica alla stregua del recitativo. Non altrimenti il grande assolo del protagonista (in cui scorrono anticipi tematici e reminiscenze) che, come l'aria di Lau-retta e gli altri ‘numeri', non rappresentano dunque una soluzione di continuità rispetto al sistema di narrazione per Leitmotive e reminiscenze: sulla loro funzionale compene-trazione, anzi, si fonda la forma dello Schicchi. Gianni Schicchi chiude il Trittico con una risata, effetto della travolgente trama, ma anche dal punto di vista formale ha tutti i connotati, pensandola in termini sinfonici, di un Presto conclusivo, quasi come avessi-mo assistito a una recita in tre movimenti, a partire dall'Allegro sostenuto del Tabarro, seguito da un delicatissimo e lirico Andante. Per interrompere il flusso continuo delle tre partiture, intessute di opposizioni solo apparentemente radicali tra genere sinfonico e operistico, forma chiusa e forma aperta, Puccini è dovuto ricorrere a un gesto d'effet-to: la licenza declamata dallo Schicchi è teatro del Novecento europeo, perché le parole del protagonista rompono l'illusione della messa in scena restituendoci il dominio della finzione. Indietro, fino all'ansa della Senna da cui eravamo partiti.

2.3 Diverse tematiche del Trittico. Il Trittico, nome che ricorda più una pala d'altare che un'opera lirica, racchiude tre ge-neri diversi in una sola serata: Il Tabarro, un noir, dove incontriamo personaggi di bas-

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so stato, socialmente oppressi; Suor Angelica, l'opera prediletta da Puccini fra le tre, la più criticata per la sua drammaturgia e vicina ai canoni di Madama Butterfly nell'af-frontare il tema della maternità; Gianni Schicchi, la più felice nella sua realizzazione, che prende spunto da un commento ottocentesco alla Divina Commedia di Dante, che a sua volta riportava un'esegesi quattrocentesca delle vicende di questo personaggio real-mente esistito. Se da una parte la diversità dei soggetti trattati è lampante, in tutti e tre gli atti è possi-bile riscontrare come determinati motivi musicali ricorrano per identificare un ambien-te o un'atmosfera. L'inizio de Il Tabarro, con i richiami sonori tipici del luogo (scorrere del fiume, sirene da rimorchiatore, clacson estramamente moderni per l'epoca), indivi-dua immediatamente il ciclo continuo che invade i personaggi: l'ambiente è dominante e segna lo scorrere della vicenda, ovvero l'adulterio, che diventa centrale nella seconda parte. Nell'incipit di Gianni Schicchi la musica contiene in sé già tutta la vicenda, anti-cipa momenti chiave come quello dell'arrivo del "deus ex machina", in ritardo come tutti i personaggi principali pucciniani: il motivo iniziale viene qui ripreso, siamo in presenza di una recita, di teatro nel teatro, le parti ritornano e si percepiscono molto chiaramente fino allo scioglimento della vicenda, favorevole per il protagonista. In Suor Angelica l'impatto è differente, la vicenda implica un trattamento diverso: l'o-pera inizia dentro la frase della Suora Zelatrice che rimprovera le altre e gli elementi musicali presenti ritornano più volte a legare tutto. E' inoltre interessante notare l'ambientazione temporale dei tre atti: ne Il Tabarro tro-viamo il mondo "di oggi", in Suor Angelica ci spostiamo indietro di circa tre secoli, mentre Gianni Schicchi, ambientato nella Firenze del 1299, è la più lontana nel tempo, sebbene proprio lì risiedano i più importanti aspetti di modernità. L'opera nella sua interezza costituisce per Puccini un momento importante di riflessio-ne sul suo percorso: il richiamo a Mimì de La Bohème ne Il Tabarro è quasi il segno del suo prendere le distanze dai canoni naturalisti presenti in questo atto, come a riven-dicare le istanze principali del suo teatro; la presenza di Mimì costituisce inoltre il pre-sagio di morte che viene consegnato alla vicenda di Giorgetta e Luigi, di cui l'oboe costituisce un indizio che permette di entrare nella vera orbita del racconto. La morte è del resto sempre presente nei tre atti, perfino in Gianni Schicchi, che non indugia a infilarsi sotto le coperte di un uomo morto da poco. In Suor Angelica la musi-ca ricrea l'ambiente che circonda e stringe la protagonista, la cui sofferenza individuale esplode durante il colloquio con la Zia Principessa: la suora chiede notizie di suo figlio, ma l'altra tace e qui subentra quell'intervallo di tre toni interi a dare vita a un ostinato ciclo di dolore, che prenderà forma successivamente. Tale intervallo ha un peso nel silenzio a cui segue una dei rari momenti di "forte", poiché la drammaticità vera risiede nelle sonorità ovattate che caratterizzano la maggior parte dell'atto. Girardi conclude sottolineando come Puccini compia con Il Trittico un lavoro su se stesso, come se tutta l'opera costituisse un richiamo alla sua arte. Egli racconta storie

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che non hanno a che vedere con lui, ma lo fa da narratore non neutrale: fa sentire al pubblico la fatica degli scaricatori sulle rive della Senna, il dramma di Angelica che perde suo figlio, il riso suscitato dalla vicenda della famiglia Donati (forse occasione per ridere pure di se stesso?). Nello stesso tempo, tutto ciò significa per Puccini proseguire nella sua ricerca, andando sempre avanti per creare modelli che poi saranno universalmente riconosciuti: così come Gianni Schicchi esce dalla finzione scenica per divenire un uomo come gli altri, così il Maestro, grazie a questa straordinaria operazione artistica, chiede solo un ap-plauso al suo pubblico. 2.4 IL TABARRO: fonti e librettista.

Come detto in precedenza, fu il dramma di Didier Gold La Houppelande a risolvere i dubbi, le incertezze del musicista sulla scelta del soggetto. Esso sarebbe servito per la composizione del primo atto del Trittico, quello passionale e tragico. Puccini cercò la collaborazione di Ferdinando Martini, letterato di fama, e dello stesso commediografo, Dario Niccodemi, ma entrambi non realizzarono poi il libretto, che fu infine scritto da Adami. Laureatosi in giurisprudenza, portando avanti parallelamente anche studi lette-rari, si avviò alla carriera giornalistica a Verona, dove fu critico teatrale all’Arena, in sostituzione del Simoni che si era trasferito a Milano. Intanto inizia a scrivere comme-die in dialetto veneto. Dopo i primi successi, si trasferì anche lui a Milano. La sua pro-duzione di commedie, comprende opere di genere sentimentale, borghese, storico-passionale, e perfino vaudeville. Ma la maggior parte della sua produzione è centrata sulla commedia comico-sentimentale, con la quale ottenne molti successi: alcune di queste commedie videro perfino la realizzazione cinematografica, come Felicita Co-

lombo (1935) e il “sequel” Nonna Felicita (1936). Dal punto di vista della narrativa, la sua produzione è esigua, di livello non troppo elevato e centrata comunque sulla vita teatrale: profili biografici di attori, cantanti, ballerini famosi e di editori, un romanzo e una raccolta di novelle. Tra questi ricordiamo il libro Giulio Ricordi e i suoi musicisti

(1933), e Poeti alle prese coi musicisti (1942). La partecipazione alla vita teatrale si estese anche al teatro musicale a partire dagli anni intorno alla prima guerra mondiale dedicandosi alla scrittura di copioni per riviste, commedie per ragazzi, addirittura ridu-zioni e soggetti cinematografici. In particolare ci preme segnalare la sua attività di li-brettista non solo di operette e balli, ma anche di teatro d’opera, con la collaborazione esclusiva per Puccini, per il quale si occupò dei libretti della Rondine (1917), del Ta-

barro (1918) e, con Simoni, della Turandot (1926). L’amicizia sincera che lo legava a Puccini, si concretizzò dopo la morte del musicista in una serie di opere commemorative, scritte più col cuore che con la ratio dello stori-co, nei quali Adami tende a idealizzare la figura di Puccini. Del 1932 è la prima versio-ne del romanzo Giacomo Puccini, e Ricordi pucciniani apparsi nella Nuova Antologia, mentre l’Epistolario risale al 1928.

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Puccini cominciò a comporre il Tabarro nel 1913, poi interruppe il lavoro per dedicarsi esclusivamente alla scrittura della Rondine e solo alla fine dell’estate 1915 lo riprese, per terminarlo il 25 novembre del 1916. L’11 gennaio 1919, il Trittico approdò a Ro-ma, (Teatro Costanzi) con la direzione di Gino Marinuzzi. In quel periodo i rapporti tra Toscanini e Puccini erano piuttosto tesi, e tali da non consentire la presenza sul podio del direttore parmense. Il motivo dell’attrito non era soltanto di natura politica, ma ri-guardava anche il Tabarro: con un aspro giudizio Toscanini condannò apertamente il libretto per il suo “spregevole tono da grand-guignol” e la partitura per la cupa mono-tonia e per la violenza di un realismo volgare. Puccini rimase talmente offeso che, quando le tre opere furono rappresentate a Londra al Covent Garden, rifiutò la direzio-ne del grande maestro e optò per Gaetano Bavagnoli. Il soggetto da cui fu tratta l’opera, il dramma in un atto La Houppelande di Didier Gold (1910), appartiene al genere nero, ambientato nei bassi fondi di Parigi, sulle rive della Senna. I protagonisti sono degli scaricatori che vivono in uno sfondo sociale di profon-da miseria. Il dramma è nel suo insieme assai più violento del Tabarro; non solo Mar-cel- Michele nell’opera pucciniana - uccide il rivale in amore, ma anche Gujon, il “Tinca” di Adami e Puccini, si vendica dell’adulterio della moglie pugnalandola. Il librettista Adami mantiene il delitto di cui si macchia il padrone della barca, mentre accenna soltanto all’infelicità coniugale del Tinca, che beve per non uccidere la consor-te. Diverso è poi il “taglio” dato alla figura di Giorgetta che nell’opera appare meno colpevole di quanto non sia nel dramma di Gold. La protagonista non è una predatrice d’amore, ma semplicemente una donna che insegue il suo sogno di felicità per dimenti-care un passato di sofferenza; inoltre Adami riesce ad accentuare gli accenni di denun-cia sociale contenuti nel dramma originale. Gold rimase così entusiasta dell’opera puc-ciniana, da diventarne il traduttore per l’edizione francese.

2.5 SUOR ANGELICA: fonti e librettista.

Non è sorprendente che, alla ricerca del pannello centrale del suo trittico - un pezzo che avrebbe dovuto contrastare con il realismo brutale de Il tabarro e la commedia conclu-siva (non ancora scelta) - i pensieri di Puccini si siano rivolti ad una trama mistica o religiosa. In un primo momento si rivolse a Gabriele D'Annunzio: ma il poeta, memore senza dubbio dei loro precedenti dissidi, fu assai evasivo. Una Margherita da Cortona

concentrata sembrò per un momento un’altra possibilità; ma alla fine fu il librettista Forzano che venne fuori con il soggetto che doveva infiammare l'immaginazione di Puccini. Giovacchino Forzano, nato a Borgo San Lorenzo nel 1884, era a quell’epoca un com-petente ed esperto uomo di teatro, la cui carriera si era curiosamente svolta parallela-mente a quella di Antonio Ghislanzoni, il poeta dell'Aida di Verdi. Dopo gli studi di medicina e legge, si era dapprima proposto al pubblico come baritono, prima di dedi-carsi alla letteratura ed al giornalismo (fu per molti anni il direttore de La Nazione di

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Firenze). Puccini lo incontrò per la prima volta a Viareggio nel 1915, dove gli effetti personali della scrittrice Louise de la Ramée, più conosciuta con lo pseudonimo Ouida (Puccini si era interessato al suo Two little wooden shoes, Due zoccoletti), stavano per essere venduti all'asta, e Forzano era stato coinvolto quale perito letterario. Fu un in-contro fortunato. Il compositore deve aver riconosciuto in lui uno spirito affine, dal momento che lo invitò a scrivere il libretto de Il tabarro. Forzano comunque rifiutò, adducendo la motivazione che, come autore originale, non gradiva lavorare su trame di altri (anche se questo non gli impedì di adattare proprio quel romanzo di Ouida per Mascagni, con il titolo di Lodoletta). La sua Suor Angelica, intesa originariamente co-me 'dramma in prosa' per qualche compagnia itinerante, la offrì a Puccini probabilmen-te all'inizio del 1917. "Il soggetto gli piacque moltissimo - ci dice nelle sue memorie, Come li ho conosciuti - Il finale della suora che beve il succo di erbe velenose per rive-dere il figlio in cielo lo commosse. Mi disse di cominciare a scrivere i versi e corse a Milano a raccontare all'editore Tito Ricordi il soggetto". Ed ecco come Puccini riferì a Forzano dell’incontro con Tito Ricordi: "Dissi angelicamente [un tipico gioco di parole pucciniano] a Tito del veleno nell'insalata con pioggia di marenghi e ne rimase sbalor-dito. […] Ormai per me è indifferente tutto ciò che non sia angelico." Mentre il lavoro andava avanti lungo la primavera e l'estate del 1917, anche Forzano si entusiasmava sempre più. Scrisse a Tito Ricordi il 3 marzo, "Sono lieto di dirle che la prima scena è già avanti musicalmente, e che il Maestro ha trovato degli accenti così semplici, così nobili, così chiaramente…francescani, tali che il lavoro più felice inizio non potrebbe avere". E poche settimane dopo "Il lavoro procede celermente e son certo che ella divi-derà il mio entusiasmo quando sentirà la musica che Puccini sta scrivendo!. Non è u-n'impressione causata dal fatto che il libretto è mio, no; è proprio perché a me sembra - e non solamente a me - esser questa (almeno fino ad ora) la musica più alta e più sem-plice […] scritta da Puccini." E ancora più avanti "Suor Angelica minaccia di diventare una Gran Madre badessa delle opere!" Come nel caso di Tosca, Don Pietro Panichelli si rivelò un'utile fonte di informazioni. "Per metterti in trance - Puccini gli scrisse - ti dirò che c'è un'apparizione della Madon-na, la quale è preceduta da canti d'angeli da lontano, e voglio le litanie e alcune frasi delle medesime. Dunque niente prega per noi. Ci vuole un Nostra Regina, oppure San-

ta delle Sante; ma una cosa da ripetersi uguale in latino. Pensa che sono gli angeli che magnificano Maria. Poi, al momento del miracolo, vorrei la Marcia Reale della Ma-

donna. Non mi va tanto l'Ave Maria Stella che ho già fatto cantare dalle monache. Ti prego di aiutarmi." Dopo due mesi l'aiuto, sotto forma di versi che cominciavano con O

gloriosa Virginum, Sublimis inter sidera, stava per arrivare. " Presi il treno - ci dice Panichelli - e andai subito a Torre del Lago, portando con me il Breviario. Gli dissi: "Giacomo, sono certo di aver trovato ciò che fa per te. Considera bene il senso di squi-sita e dolce maternità che contengono questi versi e nello stesso tempo la chiara allu-sione alle debolezze umane delle figliole di Eva e ti convincerai che questo inno alla

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Vergine sembra composto appositamente per Suor Angelica". E Puccini: "Bravo Prete! L'hai proprio indovinata. È quello che cercavo e che fa per me"." I versi apparvero co-me previsto nello spartito pubblicato. Un altro modello fu il convento di Vicopelago, dove la sorella di Puccini, Iginia, aveva raggiunto la posizione di Madre Superiora. Una dispensa speciale fu concessa a suo fratello per avere accesso al convento, in modo da assorbirne l'atmosfera: si dice che abbia suonato brani della sua "opera claustrale" alle monache, che furono profondamente commosse da quello che udirono. Suor Angelica fu rappresentata per la prima volta insieme a Il tabarro e Gianni Schic-

chi il 14 dicembre 1918 al Metropolitan Opera House di New York con la direzione di Roberto Moranzoni, con Geraldine Farrar nel ruolo della protagonista e Flora Perini nel ruolo della sua formidabile antagonista, la Zia Principessa. Non volendo rischiare l'az-zardo di un viaggio transatlantico subito dopo la fine della guerra, Puccini si occupò di più della prima italiana, che ebbe luogo al Teatro Costanzi di Roma l'11 gennaio 1919 alla presenza della famiglia reale. Gilda Dalla Rizza era Angelica, Matilda Blanca Sa-dun la Principessa, il direttore Gino Marinuzzi. Come al solito, Puccini, era molto inte-ressato all'aspetto visivo: le tonache delle suore, la fontana che diventava d'oro al tra-monto del sole, la scena del miracolo ("…domanda all'Ansaldo e compagni della Scala, che potrebbero avere qualche idea in proposito."). Durante le prove a Roma, venne provato un cambio di scena introducendo un 'parlatorio' per il dialogo di Angelica con la zia, ma l'idea fu abbandonata perché risultò impraticabile. Come capita per la maggior parte delle opere di Puccini, la composizione di Suor Ange-

lica non finì con la sua prima rappresentazione. L'aria "Senza mamma" fu ampliata con una ripresa vocale della lunga melodia fa maggiore/la minore che si trova nel momento decisivo dell'azione. Ci fu un'ulteriore modifica. La versione originale dell'opera com-prendeva un'aria per Angelica (" Amici fiori, voi mi compensate"), rivolta ai fiori con cui ella intende preparare una pozione velenosa. Un'azzardata escursione nell'armonia moderna con implicazioni politonali, che fu regolarmente tagliata da Gilda Dalla Rizza, con grande dispiacere del compositore. Alla fine Puccini la rimpiazzò con un'estensione di sedici battute dell’ intermezzo pre-cedente, sulla quale Angelica canta un testo modificato: le sue prime parole ("Suor Angelica ha sempre una ricetta buona fatta con i fiori") citano direttamente la suora infermiera, che aveva prima cercato l'aiuto di Angelica per curare una sorella punta da un vespa. Vista la durata de Il trittico, Puccini si era preparato al sacrificio dell'episodio della 'vespa' considerandolo un 'taglio facoltativo', insistendo comunque che rimanesse nello spartito "anche per ragione estetica". Nella versione definitiva il taglio diviene non solo non necessario, ma indesiderabile, dato che nel suo nuovo contesto il riferi-mento all'esperienza di Angelica con i fiori prende un significato fortemente ironico. Nello smembramento de Il trittico che risultò dalla riluttanza degli impresari ad oppri-mere un pubblico con tre drammi musicali densamente affollati in un’unica serata, Suor

Angelica ebbe la peggio, anche se Puccini la difese fermamente come la sua preferita.

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Quale opera di un atto per sole voci femminili, è certamente una novità, anche se può vantare un precedente vicino/prossimo tutto maschile ne La Jongleur de Notre Dame di Massenet (1902), che finisce nello stesso modo con un miracolo, e che Puccini eviden-temente conosceva, dal momento che ne parla in una delle sue lettere. C'è una certa somiglianza anche con il Mese Mariano di Giordano (1910, riveduta nel 1913) che tratta pure di un bambino nato fuori dal matrimonio e poi morto. Tutte e tre le opere condividono un'ambientazione religiosa; ma se in quelle di Giordano e Massenet il mondo secolare si intromette, Suor Angelica è sempre racchiusa nell'atmosfera del con-vento. E in ogni caso Puccini comunque non tenta di comunicarla attraverso un elegante pa-sticcio di contrappunto liturgico, alla maniera di Massenet. Un semplice rintocco di campana di quattro battute è ripreso da archi con la sordina e dalla celeste in un model-lo/disegno di morbide dissonanze pucciniane, con il quale un’ Ave Maria cantata dalle monache dall'interno della cappella forma un discanto. Vedere partitura Un frammento di canto di uccelli con un ottavino fuori scena completa il quadro di una bella serata di primavera fuori da un luogo di preghiera. Nel primo libretto stampato Forzano svilup-pava la trama come una 'Via crucis' in sette stazioni. È più probabile che l’ascoltatore la recepisca come una variante della struttura in due parti preferita da Puccini nelle sue opere più recenti: una serie di episodi irrelati che tendono ad un’azione implacabilmen-te sostenuta. La cosa da notare qui è la precisione con cui ognuna delle scene della prima parte fa il paio con una corrispondente nella seconda: la punizione delle monache inadempienti con la ben più grande punizione inflitta ad Angelica; il desiderio di Genovieffa del suo agnellino con quello ancora più struggente di Angelica del suo bambino, entrambi rite-nuti peccati veniali; i fiori che devono lenire la pena di Suor Chiara con quelli che de-vono guarire Angelica da una sofferenza molto più profonda. Anche il 'miracolo' della fontana che diventa d'oro grazie ai raggi del sole può essere visto come un presagio del miracolo che farà calare il sipario. Il momento in cui il dramma diventa azione è ancor più elettrizzante per la sua mancanza di enfasi immediata. Fino all'arrivo delle suore cercatrici la musica ha proceduto in una delicata catena di motivi orchestrati con leggerezza, interrotta soltanto da un breve sfogo lirico di Suor Angelica ("I desideri sono i fiori dei vivi"). Quando le due cercatrici distribuiscono le loro provviste, il movimento armonico giunge ad un’immobilità virtuale per 20 battute, fino a che, alla notizia di un nuovo arrivo al convento, l'orchestra inizia una lunga me-lodia (la più lunga mai scritta da Puccini) sulla quale le suore chiaccherano, dapprima casualmente, poi con crescente eccitazione. Improvvisamente ci accorgiamo che un punto vitale del dramma è stato toccato. L'articolazione dell'azione per mezzo di mezzi puramente melodici è, ovviamente, eredità di Bellini. È una coincidenza che, come Elvira ne I puritani, Angelica è inizialmente fuori scena durante un inno? La Zia Principessa è una figura unica nella galleria di personaggi femminili di Puccini.

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Tutta la sua frigida austerità si trova nel suo motivo che si avvolge verso l’alto, mentre l'accordo irrelato/incoerente suonato da quattro corni sui cui il motivo si ferma ci dà il senso del cuore di pietra. La studiosa americana Helen Greenwald ha fatto qui un para-gone con il Grande Inquisitore del Don Carlos di Verdi. Come in molti dei duetti pre-cedenti del compositore, l'effetto deriva dal fatto che una parte mantiene un atteggia-mento fisso, mentre l'altra passa attraverso vari gradi di emozione. Qui per la prima e unica volta Puccini si serve della piena autorità della voce di contralto. Rimane il problema del miracolo finale. La maggior parte dei critici hanno spesso rite-nuto che, a dispetto dell'esplosione di colori corali e orchestrali nelle pagine conclusive di Suor Angelica, la fiamma della trasfigurazione non si accenda. Ma, date la forza e la suggestione dell'opera nel suo insieme, questo è un piccolo prezzo da pagare. Almeno ci rimane l'impressione che un’anima tormentata sia finalmente in pace.

2.6 GIANNI SCHICCHI: fonti e librettista.

Per la stesura del libretto della terza parte del trittico dapprima Puccini si rivolse allo scrittore francese Tristan Bernard, autore di numerosi lavori teatrali di successo e noto in Francia anche come romanziere, il quale gli suggerì come soggetto una sua favo-la.Tuttavia tale progetto andò in fumo, quando Giovacchino Forzano attirò l’attenzione del compositore sulla Divina Commedia e sulla bizzarra figura di Gianni Schicchi. Se-condo alcuni, invece, il merito della fortunata scelta aspetta a Puccini, che leggeva spesso Dante e aveva sempre con se un’edizione tascabile del capolavoro. Il Maestro era contento di musicare un argomento vivace e divertente e per comunicare il suo stato d’animo indirizzò a Forzano una strofetta comica “dopo il Tabarro di tinta nera/ sento

la voglia di beffeggiare./Li non si picchi/ se faccio prima quel Gianni Schicchi”.

La fonte primaria del soggetto dell’opera è dunque in un breve episodio contenuto nel XXX canto dell’inferno, dove il protagonista viene condannato in quanto “falsatore di persone”. A sua volta anche Dante si era ispirato a un fatto realmente accaduto: lo Schicchi, appartenente alla famiglia Cavalcanti, sostituendosi al cadavere di Buoso Donati, dettò un falso testamento in favore del figlio di costui, Simone, diseredato dal padre, lasciando per sé una cavalla di pregio. Tuttavia Forzano poté sicuramente di-sporre per la composizione del suo libretto anche di un testo ben più esteso e articolato rispetto ai pochi versi danteschi: il Commento alla Divina Commedia d’Anonimo Fio-

rentino del secolo XIV, stampato a cura di Pietro Fanfani nel 1866, che riporta molti particolari (la beneficenza di Buoso per guadagnarsi un posto in paradiso, l’occulta-mento del cadavere, il timore di essere scoperto che frena la ribellione di Simone, “la cappellina”, “l’opera di santa reparata”, “la migliore mula di toscana”, ecc…) ampia-mente ed efficacemente sfruttati dal nostro librettista. Inoltre il tema dell’avidità degli eredi, ricorrente in molte farse e commedie di ogni tempo e luogo, richiama alla memo-ria il Volpone (1605) di Ben Jonson, drammaturgo del teatro elisabettiano, con il quale la trama del Gianni Schicchi presenta evidenti analogie.

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INDICE

IL TRITTICO DI PUCCINI:

FONTI E LIBRETTISTI.

1.0 GIACOMO PUCCINI 1.1 Brevi cenni sulla vita 1.2 Puccini e il verismo musicale 1.3 Il linguaggio musicale 2.0 IL TRITTICO 2.1 Genesi del Trittico 2.2 FORMA DELL’ATTO UNICO: il Tabar-

ro, Suor Angelica, Gianni Schicchi 2.3 Le diverse tematiche del Trittico 2.4 IL TABARRO: fonte e librettista 2.5 SUOR ANGELICA: fonte e librettista 2.6 GIANNI SCHICCHI: fonte e librettista

Indice Bibliografia

Pag. 2 Pag. 2 Pag. 3 Pag. 5 Pag. 7 Pag. 7 Pag. 10 Pag. 12 Pag. 14 Pag. 15 Pag. 19 Pag. 20 Pag. 21

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Indice della collana, pubblicata con la rivista ASSODOLAB del 20

dicembre 2013. 1. Giuseppe Verdi: L’uomo, l’artista e le sue Opere. 2. Il trittico di Puccini: Fonti e Librettisti 3. Il superamento dell’opera: L’Otello di Giuseppe Verdi. 4. La Cenerentola di Gioacchino Rossini. 5. Le folli donne di Gaetano Donizetti. 6. L’Orientalismo di Giacomo Puccini. 7. Pietro Mascagni e i suoi librettisti. 8. Romeo e Giulietta: L’opera di un amore impossibile. 9. Voce e registri nell’Opera Lirica. 10. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart.

Volume n. 2

Allegato alla rivista ASSODOLAB - Anno XIV n. 3 del 20.12.2013.

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02 VOLUME