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L'omicidio di un rettore universitario è solo una piccola parte di un terribile ricatto. Il corpo di un senzatetto conduce la polizia a indagare in luoghi oscuri. L'improvvisa diminuzione dei pazienti di una clinica potrebbe nascondere qualcosa di molto più cupo. Tre racconti lunghi ambientati in un mondo che potrebbe essere il nostro, se solo non fosse del tutto differente...

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DESCRIZIONE:

L'omicidio di un rettore universitario è solo una piccola parte di un terribile ricatto. Il corpo di un senzatetto conduce la polizia a indagare in luoghi oscuri. L'improvvisa diminuzione dei pazienti di una clinica potrebbe nascondere qualcosa di molto più cupo. Tre racconti lunghi ambientati in un mondo che potrebbe essere il nostro, se solo non fosse del tutto differente...

L'AUTORE:

Impiegato, traduttore a tempo perso, Carmelo Massimo Tidona è da sempre un avido lettore e scrive da quando ne ha memoria. In tempi recenti si è dedicato con maggiore impegno a questa attività , dando vita al mondo di Anthuar, in cui questo libro è ambientato. Oltre a diversi racconti, pubblicati in varie antologie, ha scritto anche “Riflessi d’ombra” (2009, Zerounoundici Edizioni)

Titolo: Trittico oscuro Autore: Carmelo Massimo TidonaEditore: 0111edizioni Collana: Gli IneditiPagine: 158 Prezzo: 13,00 euro

11,90 euro su www.ilclubdeilettori.com

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- Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]

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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO)

ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI

Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'!

Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione.

TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA

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Decine di libri in versione integrale da leggere online, liberamente.

EasyReader è una vastissima raccolta di libri da leggere online, in versione integrale oppure in versione "trailer", comunque sempre molto "corposa" (da un minimo di 30 pagine a un massimo di 50). Tutti i libri proposti in versione e-book su questo sito sono coperti da copyright e sono disponibili anche in formato libro, regolarmente pubblicati (e quindi muniti di codice ISBN) e disponibili anche in libreria. Il catalogo viene aggiornato MENSILMENTE.

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Carmelo Massimo Tidona

TRITTICO OSCURO

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TRITTICO OSCURO 2009 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2009 Carmelo Massimo Tidona ISBN 978-88-6307-246-4

In copertina: Immagine di Federica Di Tizio

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da Digital Print

Segrate - Milano

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SOMMARIO

NOTTURNO ...............................................................................5 RUBACUORI..............................................................................53 SOLITARIO ...............................................................................103 POSTFAZIONE..........................................................................155

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NOTTURNO

CAPITOLO 1 Era mattina. Ultimamente sembrava essere sempre mattina. Non nel senso di "non è ancora ora di pranzo", piuttosto come "buttati giù da quel dannato letto e cerca di tenere su le palpebre perché devi andare a lavorare". Amanda odiava quella sensazione. Sebbene non si potesse considerare una nottambula, negli ultimi tempi aveva l’impressione di non riuscire mai a dormire abbastanza. No, non era corretto... non riusciva a riposare abbastanza, come se dormire la stancasse piuttosto che toglierle la stanchezza di dosso. Si rigirò nel letto, reprimendo uno sbadiglio e tirandosi dietro gran parte delle coperte, col risultato di scoprirsi la schiena. Un brivido improvviso le tolse la già poca voglia di alzarsi che aveva, ma con uno sforzo supremo di volontà riuscì a scoprirsi del tutto, combattendo contro il desiderio di tirare di nuovo su le coltri e lasciarsi sprofondare nel tepore del letto, concedendosi qualche altro minuto di sonno. Purtroppo sapeva benissimo che se l’avesse fatto i minuti si sarebbero trasformati in ore e sarebbe stata costretta a spiegare al rettore il motivo della sua assenza. Nessuno voleva essere costretto a spiegare nulla a quell’uomo, e Amanda non rappresentava un’eccezione. Non a questo. Dopo un caffè riscaldato ingoiato in fretta, e dopo essersi lavata con dell’acqua che definire fredda sarebbe stato eufemistico, riusciva se non altro a tenere gli occhi aperti senza l’aiuto delle dita. Indossati gli occhiali e degli abiti pescati a caso tra la roba pulita, il tutto rigorosamente in ordine inverso, cosicché si era ritrovata il maglione incastrato nella montatura e aveva perso cinque minuti in contorsioni volte a evitare che questa finisse sul pavimento o, peggio, sotto i suoi piedi, si era messa in marcia verso la stazione, rallegrandosi di non essere particolarmente in ritardo.

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In quel periodo pressoché chiunque aveva un mezzo di trasporto privato. Anche lei ci aveva pensato, ma aveva decretato che se anche avesse potuto permettersene uno avrebbe preferito non averlo, dopo tutto. In fin dei conti i trasporti pubblici erano perfettamente funzionanti ed economici, l’unico problema era evitare l’ora di punta, cosa che le riusciva... quasi sempre. La stazione non era molto lontana da casa sua, dieci minuti al massimo usando le strade principali. Ovviamente non li aveva, per cui, come accadeva quasi ogni giorno, aveva deciso di tagliare per i vicoli che attraversavano come una rete il quartiere antistante la sua destinazione. Non erano un luogo che godesse di una buona fama, ma a quell’ora del mattino erano sempre pressoché deserti... il che, a ben pensarci, non avrebbe dovuto essere un incentivo per trovarvisi. Tuttavia, fino a quel momento non le era mai accaduto nulla di spiacevole, e fu proprio questo il pensiero che le attraversò la testa quando l’impatto con un ostacolo che non avrebbe dovuto esserci la fece finire, letteralmente, con il sedere per terra. L’impatto con il suolo fu attutito in gran parte dalla voluminosa borsa che si portava dietro, per lo più piena di documenti, ma fu comunque sufficiente a farle saltare gli occhiali, che per fortuna si limitarono a finirle di traverso sulla punta del naso, dandole un aspetto, nel complesso, piuttosto comico. Il suo primo pensiero non fu quello di risistemarli, piuttosto alzò la testa per cercare di capire chi avesse deciso di mettere un muro nel bel mezzo della strada, e scoprì che il muro in questione aveva gambe, braccia e una pettinatura a dir poco orripilante. L’espressione sul volto del ragazzo mentre le si avvicinava lasciava pochi dubbi sul fatto che l’urto non fosse stato per nulla accidentale. «Muoviamoci!» La voce era arrivata dalle spalle del suo aggressore, quindi o questi era un bravo ventriloquo o aveva un compagno che la sua mole le stava nascondendo. Optò per la seconda ipotesi, che poco dopo venne confermata dall’avvicinarsi di un secondo ragazzo. Questo era molto più snello del primo, in effetti sembrava uno spaventapasseri montato male e si muoveva come se in realtà stesse solo oscillando al vento, ma in quanto a pettinatura... sarebbe stato arduo decidere chi dei due fosse messo peggio. «Molla il bracciale.»

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Stavolta era stato il muro semovente a parlare. Amanda guardò il semplice bracciale rigido di cristallo che aveva al polso sinistro come se lo stesse vedendo in quel momento per la prima volta. «Scherzi?» domandò per tutta risposta. «Cosa te ne faresti?» O quei due avevano vissuto per gli ultimi cinquant’anni fuori dal mondo, cosa improbabile perché a giudicare dall’aspetto non dovevano averne quaranta in due, o erano degli irrecuperabili imbecilli. Questo però non li rendeva meno pericolosi. «Chiudi il becco e molla il bracciale!» insistette il muro, sfoderando un coltello. Amanda lo guardò. Non c’era più dubbio: erano due imbecilli. Certo non si aspettava delle armi da fuoco, ma quel coltellino era quasi... patetico! «Va bene, va bene, un attimo», replicò conciliante mentre si spingeva indietro gli occhiali con la punta di un dito e poi afferrava il bracciale con la mano destra tentando di sfilarlo, forzando come se fosse incastrato e non avesse intenzione di venir via. Il muro le si avvicinò con un movimento nervoso, fin quasi a toccarla. Il gesto lo riassegnò dalla categoria degli imbecilli a quella degli idioti senza speranza. «Allora? Non farci perdere tempo!» grugnì «Un momento... ci sono quasi...» stava cercando di sembrare spaventata, o almeno preoccupata, ma era una fatica notevole. Diede un ultimo strattone e il bracciale, che in effetti non aveva mai opposto la minima resistenza, le rimase nella mano sinistra mentre l’altra sfruttava il movimento per protendersi in direzione dell’aggressore e afferrare saldamente i suoi testicoli attraverso la stoffa della tuta che indossava. "Se vuoi proprio fare questo mestiere almeno mettiti dei jeans robusti" non riuscì a fare a meno di pensare lei mentre il coltello abbandonato rimbalzava tintinnando sulla strada e l’omone si piegava in due. Grossi o piccoli, tutto stava a saperli prendere... «TroOOOOooooooooooo...» l’imprecazione si trasformò in un ululato che si spense man mano che l’intensità della presa di Amanda aumentava. «Maleducato!» commentò la ragazza lasciandolo andare e sdraiandosi rapidamente sulla schiena, con le gambe piegate. L’energumeno non ebbe il tempo di gioire per essere rientrato in possesso dei suoi gioielli di famiglia prima che i piedi uniti della sua presunta vittima subissero un impatto con il suo mento spedendolo all’indietro, a investire il suo

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compare che era rimasto attonito a osservare la scena senza capire cosa stesse succedendo. "Ritieniti fortunato che non ho messo i tacchi stamattina", pensò Amanda mentre si rialzava in piedi e si spolverava alla meglio i pantaloni. «Ammazzala!» strillò il muro, in un involontario acuto, tenendosi entrambe le mani sotto la cintura, come se avesse paura che i suoi testicoli potessero staccarsi e rotolare via se non li avesse trattenuti. Lo spaventapasseri si fece avanti. Nonostante l’aria minacciosa sembrava non volersi avvicinare troppo, e non era difficile comprenderne la ragione. Amanda si portò una mano al fianco e si accorse in quel momento che le mancava qualcosa. Represse l’istinto di voltarsi a guardare sulla strada, per quanto i due avessero dimostrato di non essere delle cime non le sembrava il caso di offrire loro la schiena, e cercò di pensare in fretta a cosa era meglio fare in quel momento. Si risolse a lasciar scivolare via la tracolla della sua borsa dalla spalla e afferrarla a metà delle cinghie nella mano, facendola dondolare lievemente. Era stata costretta a lasciare il bracciale in terra e per un microsecondo sperò che nessuno glielo rubasse mentre era impegnata... ma chi a parte quei due poteva essere tanto deficiente da provare a prenderlo? Fece fare un giro completo alla borsa, pur conscia che ritrovare qualcosa là dentro dopo quel trattamento avrebbe richiesto l’intervento di un detective, come minimo. Lo spaventapasseri si produsse in una risata roca, per dimostrare quanto poco fosse spaventato da quell’arma impropria. A chi volesse dimostrarlo esattamente era tutto da stabilire. «O ti decidi o ti levi di mezzo, sto facendo tardi», lo apostrofò lei. «Mi prendi in giro?» ringhiò quello in risposta «Se ti dico di sì te ne vai?» Evidentemente il ragazzo decise di averne avuto a sufficienza, perché le si lanciò contro agitando in aria i pugni. In realtà per come si muoveva sembrava più che altro che le stesse cadendo addosso. La borsa fece un altro giro e questa volta colpì in pieno l’aggressore all’altezza del collo. Questi indietreggiò, poi si agitò per un istante come se fosse stato colpito da una scarica elettrica e si afflosciò al suolo in una posa scomposta. Amanda lo guardò sbalordita, non riuscendo a capire cosa potesse essere accaduto. Non lo aveva colpito così forte. Ripensandoci, non

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sarebbe riuscita a ottenere quell’effetto neanche se lo avesse colpito molto più forte di così. Poi sollevò lo sguardo e il mistero si risolse da solo. Un uomo in uniforme blu le si avvicinò tendendole, per qualche ragione incomprensibile, una mano. «Tutto bene, signorina.» La polizia. WOW. Qualcuno aveva veramente chiamato la polizia. Ora sì che avrebbe fatto tardi al lavoro.

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CAPITOLO 2 Si era già preparata a un’interminabile lavata di capo quando lasciò la stazione per dirigersi all’università, avendo già perso ormai metà della mattinata. Certo, non era stata colpa sua, e sarebbe stato ovvio per chiunque che non poteva certo rifiutarsi di rispondere alle domande di un agente di polizia per arrivare in orario al lavoro. Chiunque l’avrebbe capito. Chiunque avrebbe accettato la giustificazione come valida. Quello che era al di là della portata di "chiunque", ma che il rettore non si sarebbe fatto mancare, era farle notare che se si fosse messa in moto solo qualche minuto prima avrebbe potuto evitare "certe scorciatoie" e l’intero problema non si sarebbe mai presentato. Punto. Fine del discorso. Avrebbe affrontato più volentieri altri due o tre teppistelli come quelli di poco prima piuttosto che doversi giustificare anche solo una volta con Parker. Quell’uomo aveva il potere di farla sentire in colpa anche quando la sua coscienza era perfettamente pulita. Il che, a onor del vero, capitava abbastanza di rado. Era talmente in ansia per l’inevitabile confronto che, anche se poi se ne sarebbe pentita, quando vide il cordone di polizia intorno all’edificio e tutti i suoi colleghi tenuti fuori dagli agenti non poté fare a meno di sentirsi sollevata. Ci volle qualche secondo prima che si chiedesse che cosa stava vedendo esattamente, e perché. Quando il dubbio che potesse essere accaduto qualcosa a uno dei suoi amici, per quanto fossero tali in senso piuttosto lato, si fece strada nella sua mente, era già a ridosso dell’area limitata, e venne prontamente fermata da uno degli agenti che ne sorvegliavano il perimetro. «Non può passare.» Secco, conciso, autoritario quanto un macaco e altrettanto educato. «Io lavoro qui. Sono una docente.» L’agente la guardò come se la parola "docente" fosse stata un neologismo coniato sul momento. «Aspetti qui. Detective!» Rimase a guardarla, neanche ci fosse il rischio che scappasse via se solo si fosse voltato un attimo. Dopo poco vennero raggiunti da un secondo uomo in abiti civili. "Civili", in effetti, era un’esagerazione: indossava un paio di pantaloni di tessuto verde sotto una giacca e un dolcevita di due tonalità differenti di marrone. Nell’insieme, sembrava un albero al contrario.

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«Lei sarebbe?» domandò senza neppure pensare di presentarsi. Sarebbe? Amanda era ragionevolmente certa di essere, senza condizioni, ma riuscì a evitare di farglielo notare. «Amanda Sheldon. Insegno biologia comparata.» «Umana?» «Io o la biologia?» Il detective parve perdere interesse nella risposta e continuò formulando una nuova domanda «Conosceva Trey Parker?» Perché parlava al passato? «Naturalmente.» Il contrario sarebbe stato difficile. Nessuno poteva essere alle dipendenze di Trey Parker e non conoscerlo. «Quando l’ha visto l’ultima volta?» «Ieri mattina. Di sfuggita.» L’aveva incrociato in un corridoio una sola volta in tutta la giornata, e si erano scambiati solo un saluto. Una delle migliori conversazioni che avessero mai avuto, dal suo punto di vista. «Sa dirmi se aveva dei nemici?» Amanda si fermò un istante prima di rispondere "tutto il personale della facoltà", e non solo perché si rese conto per tempo di essere inclusa in tale novero. In realtà nessuno di loro sopportava Parker, e in particolare la sua estrema precisione e la rigidità portata al parossismo, ma nemici era una parola grossa, e antipatia a parte tutti quanti lo rispettavano, nessuno lo odiava, meno che mai al punto di... Si accorse che l’informazione era rimasta in sospeso nell’aria, come la tensione elettrica prima di un fulmine. Le sembrava che la risposta fosse ovvia, ma doveva sentirselo dire a voce. «Gli è successo qualcosa?» Ancora una volta il sentirsi rispondere a una domanda con un’altra domanda parve distogliere il detective dai suoi personali processi mentali e fargli cambiare direzione dell’interrogatorio. O forse non stava ascoltando una sola parola di quello che Amanda diceva. Avete il diritto di restare in silenzio; se rinunciate a questo diritto, qualunque cosa diciate verrà ignorata. «Dove si trovava questa mattina tra le otto e le dieci?» Amanda sospirò. «Alla centrale di polizia.» Questa risposta l’uomo parve sentirla. I suoi occhi si aprirono appena un po’ di più, e per la prima volta parve guardare direttamente verso di lei. «A fare cosa?» «Ho subito un’aggressione questa mattina mentre venivo qui. Ho dovuto andare in centrale per la deposizione», spiegò.

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«Possiamo verificare» asserì lui. Amanda lo guardò sgranando gli occhi. Fu sul punto di rispondergli "No, guardi, in realtà ero qui a fare qualunque cosa sia stata fatta, ma pensavo che dire di essere stata in centrale fosse una buona scusa che nessuno sarebbe riuscito a smentire." Tacque. «Può raggiungere i suoi colleghi. Si tenga a disposizione» disse il detective, per poi aggiungere all’indirizzo dell’agente che l’aveva fermata al suo arrivo «Falla passare.» Superando il limite dell’area, Amanda si chiese come avrebbe potuto non tenersi a disposizione visto che sarebbe stata lì a cento metri. Ancora una volta evitò di dare voce ai suoi appunti mentali. Mentre si avvicinava al gruppetto di insegnanti che già aveva notato arrivando, non riuscì a trattenersi dallo sbirciare oltre il capannello di agenti che circondava qualcosa al centro del cortile. Un lenzuolo era stato gettato su quello che con ogni probabilità era stato Trey Parker, magnifico rettore della facoltà di Scienze. Il lenzuolo era pulito. Non si vedeva nulla di anomalo nei dintorni, se si riusciva a non tenere conto della quantità di estranei presenti nel cortile, per lo più con addosso un’uniforme di qualche genere. Si avvicinò a Damon, uno dei suoi colleghi, più perché era quello meno distante che per un atto deliberato, e formulò la domanda a cui finora nessuno, tranne l’evidenza del fatti, aveva risposto. «Che è successo?» Damon la guardò, inevitabilmente, dall’alto in basso. Di rado riusciva a guardare un collega in altro modo a meno di inginocchiarsi, considerati i suoi due metri abbondanti di altezza, uniti a un fisico scolpito che si sarebbe detto più appropriato per un culturista che per un professore universitario. Capelli neri, occhi scuri e una corta barba completavano il quadro, finendo regolarmente per ricordare ad Amanda il lupo della fiaba dei tre porcellini, quello che buttava giù le case a forza di soffi. Almeno finché non parlava... «Non lo sai?» Appunto. La sua voce era in netto contrasto con tutto il resto. Morbida, acuta, ma soprattutto terribilmente effeminata. Se avessero parlato entrambi in una stanza buia, sarebbe passata più facilmente lei per un uomo. «Parker è stato ucciso. Stamattina, o almeno così hanno detto.» Sì, quadrava con quella specie di interrogatorio a cui era stata sottoposta.

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«Si sa come?» chiese con poca speranza. Damon scosse la testa in segno di diniego. Inutile chiedergli se sapesse di possibili sospetti. Anche se ne avesse avuti, la polizia non gliel’avrebbe certo detto. Non che lei credesse che ne avessero. «Dici che se ne avranno a male se faccio un salto nel mio ufficio?» Lui si strinse nelle spalle. «Non ci hanno detto di non entrare. Ma dentro non c’è niente da fare.» Perché, fuori sì? «OK, ci vediamo dopo» si limitò a rispondere incamminandosi verso l’edificio, e aspettandosi a ogni passo che qualcuno la richiamasse dicendole che doveva restare con gli altri. Nessuno lo fece. Una volta dentro non si avvicinò neppure al suo ufficio, dirigendosi invece verso quello di Parker. Il detective senza nome aveva lasciato intendere che l’omicidio fosse avvenuto tra le otto e le dieci, una cosa che aveva ben poco senso. Con il viavai di gente che c’era la mattina all’università, un cadavere non avrebbe potuto restare nel cortile più di qualche minuto prima che qualcuno ci inciampasse. Letteralmente. Quindi, quale che fosse il momento in cui qualcuno aveva trovato il corpo e dato l’allarme, si poteva star certi che fosse arrivato lì poco prima. E se davvero esisteva un motivo logico per pensare che fosse morto tra le otto e le dieci, questo poteva significare una cosa soltanto: non era morto lì. Del resto, Parker non sarebbe uscito dall’edificio prima dell’ora di pranzo, e quasi certamente era entrato parecchio prima dell’inizio delle lezioni. O qualcuno l’aveva attirato all’esterno in qualche modo, cosa di per sé poco probabile per come la vedeva lei, o era stato ucciso in un luogo più consono, per così dire, e poi portato fuori. E la scena del crimine più accreditata, considerando le abitudini della vittima, era proprio il suo ufficio, dove trascorreva la maggior parte della sua giornata. Si avvicinò alla porta con cautela, aspettandosi che la polizia l’avesse sigillata, o almeno fosse impegnata a perquisire la stanza, ma sembrava che non ci fosse nessuno dentro o nei paraggi. Provò la maniglia. La porta si aprì docilmente. Un vago senso di colpa la assalì quando passò oltre la soglia. Non era compito suo cercare di scoprire cosa fosse accaduto, c’era la polizia per quello. Aveva promesso che non si sarebbe più lasciata tentare da indagini e misteri, invece ci stava puntualmente ricascando.

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D’altra parte, si trattava di una promessa fatta a Parker... e lui non era nella posizione per risentirsene. L’ufficio appariva ordinato. Non "maniacalmente ordinato", e questo era strano. Anche se non riusciva a capire cosa fosse... fuori posto sarebbe stata un’esagerazione... meno a posto del solito... non sentiva la solita sensazione opprimente che quella stanza era in grado di trasmettere, quel senso di estraneità che si provava entrandoci, come se si fosse appena passati oltre la soglia che portava a un altro mondo. Forse dipendeva solo dall’assenza del proprietario, che in quanto a trasmettere sensazioni simili non era mai stato secondo a nessuno, ma no, non poteva essere solo quello. Si mise a studiare con attenzione ogni dettaglio, anche quelli apparentemente più insignificanti. La carta geografica appesa alla parete a destra della porta, perfettamente parallela alla linea di demarcazione che separava la parte verde chiaro della parete da quella bianco panna sovrastante. La scrivania, di fronte alla porta, sulla quale l’ordine regnava sovrano, e dove un granello di polvere si sarebbe vergognato a posarsi. Le sedie per gli ospiti posizionate simmetricamente. La libreria, con i libri in ordine di altezza. L’armadio... la libreria! Si avvicinò per controllare meglio. Non si era sbagliata: un libro era fuori posto. Non lo sarebbe stato per lei, né in effetti per qualunque altra creatura senziente, ma per Parker era assolutamente fuori posto, svettante di due centimetri buoni tra altri due che avevano più o meno la stessa altezza. Allungò la mano per estrarlo ma si fermò. Meglio essere prudenti. Infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un fazzoletto, che usò poi per prendere il libro senza toccarlo con le dita. Era alto e sottile, con una copertina rigida che lasciava spazio a ben poche pagine. Su uno sfondo celeste scuro campeggiava il disegno dallo stile volutamente infantile di una ragazza distesa – sembrava si appoggiasse al bordo destro della copertina per sostenersi – avvolta in una massa di capelli biondi. In alto c’era il titolo, in caratteri dalla foggia antiquata: "La principessa dormiente". Una fiaba per bambini. Che cosa ci faceva lì, in mezzo a seri trattati di scienze? Cosa avrebbe dovuto significare? Lo aprì, poggiandolo sulla scrivania in modo da poter continuare a toccarlo con una sola mano, e sfogliandolo con più delicatezza di quanta ne fosse necessaria, ma non vi trovò nulla di diverso da ciò che l’esterno lasciava supporre. Testo a grandi lettere, illustrazioni ancora più grandi che occupavano la maggior parte dello spazio nelle pagine,

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la versione edulcorata di un’antica leggenda dai toni ben più truci, con tanto di lieto fine. Non aveva senso. Dopo aver controllato che la copertina non nascondesse nulla, rimise il libro dove l’aveva trovato. Si voltò e lo sguardo le cadde su qualcosa che sporgeva da sotto la scrivania. Una penna. Non una penna qualsiasi, in effetti, ma la penna di Parker, quella che immancabilmente spuntava dal taschino della sua giacca. L’avrebbe riconosciuta ovunque, ma l’ultimo posto dove si sarebbe aspettata di trovarla era il pavimento. Non la raccolse – sarebbe stato difficile rimetterla proprio dove e come l’aveva trovata – ma si piegò sui talloni per controllare meglio il punto in cui era. Doveva essergli caduta, ma se così fosse stato l’avrebbe raccolta, perché lasciarla lì? A meno che non fosse in condizioni di riprenderla. Poco distante c’era una macchia sulla moquette, poco più di un’ombra ma nulla che sarebbe sfuggito all’occupante della stanza. Troppo chiara per essere sangue. Acqua? La sfiorò con un dito, certo non c’era il rischio di lasciare impronte su quel tessuto, trovandola asciutta. L’acqua non sarebbe più stata visibile a quel punto, si sarebbe asciugata e basta, senza lasciare tracce. Provò ad annusare il dito, sentendo solo l’odore del tappeto, o del prodotto usato per pulirlo. Tre indizi facevano una prova. Ma una prova di cosa? C’era qualcosa di sbagliato in quell’ufficio, ma niente che provasse senza ombra di dubbio che vi era accaduto qualcosa di serio... meno che mai cosa. Di sicuro non avrebbe trovato risposte lì dentro, né probabilmente in tutta l’università. Per quanto la cosa non le facesse piacere, esisteva solo un posto dove andare quando si possedevano così tante domande e nessuna risposta accettabile. L’Underdark.

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CAPITOLO 3 Data la situazione, le lezioni erano state sospese, con grande sollievo da parte degli studenti. Meno del corpo docente. In effetti dividersi tra le inutili domande della polizia e le interminabili riunioni straordinarie per discutere dell’accaduto non coincideva con il concetto di Amanda di giornata piacevole. Quando potette infine lasciare l’università, la sera era già scesa, e una tenue luce azzurra la accompagnò per tutto il tragitto fino alla stazione, che trovò praticamente deserta. Raggiunse il banco dell’addetto e gli comunicò la propria destinazione, tendendo il polso sinistro. L’uomo sfiorò il suo braccialetto con un lungo e sottile cilindro metallico. Una lieve luminosità passò dall’uno all’altro oggetto, e solo allora l’impiegato si concesse l’ombra di un sorriso di circostanza. «Prego, può partire subito», le annunciò. Amanda percorse la piccola sala d’aspetto vuota, animata solo dal riverbero di una voce che chiamava la sua destinazione. Entrò nella stanza principale della stazione, un locale quadrato il cui pavimento era occupato per oltre metà da un elaborato disco di pietra levigata, trovandovi altri due uomini. Il primo, che le dava le spalle, doveva essere un altro passeggero diretto nello stesso luogo. Sebbene avesse un’aria vagamente familiare, non le sembrava di conoscerlo. Probabilmente si erano già incrociati per caso nella medesima situazione. Il secondo, dai marcati tratti elfici, indossava la divisa da smistatore. Un lavoro che Amanda aveva sempre ritenuto estremamente noioso. Questi annunciò nuovamente a gran voce la destinazione. Probabilmente era tenuto a farlo per contratto, ma questo non rendeva la cosa meno stupida. Certo, i distratti c’erano sempre, ma con solo due persone presenti si sarebbe dovuti essere davvero stupidi per non aver già capito. Alla fine lo smistatore si decise a fare quello che doveva. Il familiare alone lattiginoso comparve perpendicolarmente al disco sul pavimento, e Amanda attese che l’altro passeggero procedesse, per poi seguirlo. Questi invece si fece da parte, invitandola a passare per prima, cosa che lei fece con un mezzo sorriso di ringraziamento.

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Un istante dopo stava lasciando la stazione nei pressi di casa sua, fermamente intenzionata a fare il giro più lungo questa volta. In fin dei conti, l’Underdark non era un posto dove fosse facile arrivare in ritardo. Dislocato ai margini della periferia, in quella terra di nessuno dove i palazzi del centro lasciavano spazio alle case più basse e vissute, da alcuni definita zona del crepuscolo poiché stava a metà tra i luoghi più popolati durante il giorno e quelli in cui la maggior parte della gente si ritirava per la notte, l’Underdark era il luogo di ritrovo di un’ampia e variegata popolazione di nottambuli. Il termine, in questo caso, andava inteso con un maggior numero di connotazioni di quante ne avesse di solito, e molte più di quante Amanda ne gradisse. Il locale era circondato da una cancellata, intervallata da colonnine di marmo nero, che aveva un qualcosa di cimiteriale. Un vialetto di irregolari pietre lisce attraversava un giardinetto ben curato e portava direttamente alla facciata, anche questa rivestita di piastrelle di marmo nero che ne ricoprivano tutta la superficie, interrompendosi solo per lasciare spazio all’ingresso: un arco costeggiato da colonne spiraliformi, nere con venature argentee, chiuso soltanto da pesanti tendaggi in tinta con tutto il resto. Poco al di sopra di esso torreggiava un’insegna nera e anonima. Nella luce giusta era possibile vedervi il nome del locale, scritto in caratteri antichi e arzigogolati. Amanda aveva sempre sospettato che gran parte dei clienti non avesse bisogno di luci particolari per riuscirvi, ma si era sempre guardata dal cercarne conferma. Se Amanda si fosse presentata lì così come era andata al lavoro, probabilmente non l’avrebbero neanche fatta avvicinare al cancello, perciò prima di recarvisi si era cambiata. I jeans e il maglione erano stati sostituiti da un vestito nero non troppo aderente, aveva indossato calze velate e un paio di scarpe dal tacco alto sulle quali avanzava come se la cosa mettesse a dura prova le sue facoltà psicomotorie. I capelli rosso mogano le ricadevano in cascate di ricci sulle spalle. Ogni volta che qualcuna le confessava quanto invidiasse quei ricci, Amanda rispondeva invariabilmente con un sorriso che celava l’irrefrenabile impulso di replicare "Prova a gestirli tu per un paio di settimane e poi ne riparliamo". Ai lati del cancello, come improbabili statue, stavano in piedi due uomini a cui solo la pelle chiara del viso e delle mani impediva di mimetizzarsi con il marmo retrostante. Per il resto indossavano

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completi interamente neri, così come neri erano i loro capelli e gli occhiali, indossati a dispetto del fatto che il sole fosse tutt’altro che visibile già da tempo. Da lontano li si sarebbe potuti scambiare per gemelli, tanto erano simili. Se il passaggio di Amanda destò in loro un qualche genere di interesse, esteriormente non ve ne fu alcun segno. Diversa fu la reazione della ragazza all’ingresso, che osservò il suo incedere con dissimulata attenzione e le aprì la tenda con una cortesia professionale. Oltre l’arco si trovava un corridoio che terminava poco dopo in un secondo passaggio del tutto simile, tenda compresa. Sulla destra c’era un guardaroba, dove dato il clima Amanda non aveva nulla da depositare, sul lato opposto una sorta di salottino – con dei divanetti in stile retrò, alcuni tavolini rotondi e una specchiera – e un’ulteriore tenda che celava l’accesso ai bagni, per i pochi clienti che potevano averne bisogno. L’architetto del locale doveva aver pensato che fosse più fine stare seduti a chiacchierare in attesa del proprio turno, piuttosto che fare la fila davanti alla porta. Il locale vero e proprio era immerso in un gioco di luci e ombre che rendeva l’atmosfera assai più intima di quanto Amanda desiderasse. Da un lato l’ampio bancone del bar, nero e lucido, dove ben tre baristi, due uomini e una donna, facevano del loro meglio per accontentare le richieste dei clienti seduti sugli alti sgabelli, molto più comodi di quanto apparissero. Dall’altro un piccolo palco dal quale una pianista allietava la clientela suonando un qualche pezzo d’atmosfera. Nel mezzo tutta una serie di tavoli, sedie e divanetti, disposti in maniera tale che ogni gruppetto di avventori potesse avere un certo grado di privacy. Chi l’avesse ritenuto insufficiente aveva sempre la possibilità di appartarsi in una delle salette private al piano superiore. A condizione, ovviamente, di poterselo permettere. Non era cambiato nulla dall’ultima volta in cui Amanda aveva messo piede lì dentro, sebbene le sembrasse passata una vita. Emise un sospiro prima di inoltrarsi nella sala, guardandosi intorno in maniera casuale, come se non stesse cercando qualcuno ma piuttosto osservando distrattamente l’ambiente che la circondava. Conosceva almeno un paio di persone da cui avrebbe potuto cercare di ottenere delle informazioni, nessuna delle quali era in vista. Il che, considerata la scarsa illuminazione e il fatto che non aveva indosso gli occhiali, significava meno di quanto sembrasse. Non le piaceva essere lì. Non le era mai piaciuto, neanche prima, quando lo frequentava molto più assiduamente. Allora come adesso era

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stata solo una questione di lavoro, se così lo si poteva chiamare. E allora come adesso la cosa non bastava a farla sentire a suo agio. Certo, aveva un’ottima ragione per indagare per conto suo. Era sicura che la polizia, specie vista la dimostrazione di quella mattina, non sarebbe riuscita a cavare un ragno dal buco. E Parker dopo tutto era stato un suo... amico era una parola grossa, molto, ma collega valeva quasi altrettanto. E poi... e poi sapeva benissimo che tutto questo era essenzialmente una validissima scusa per rimettersi a scavare nelle vicende altrui. Non che la cosa la divertisse, però doveva ammettere che le riusciva bene. Si diresse verso il bar e prese posto su uno sgabello, avendo cura di sceglierne uno tra altri due liberi. Se qualcuno dei suoi vecchi contatti fosse stato lì, o fosse arrivato in seguito, l’avrebbe vista e avvicinata, ma l’attesa avrebbe potuto essere lunga: l’Underdark era aperto dal tramonto all’alba, e il primo era al momento molto più vicino della seconda. Stava sorseggiando un cocktail quando un movimento delle ombre le fece capire che qualcuno le stava alle spalle. Prima che potesse voltarsi, le sue orecchie vennero raggiunte da un educato colpetto di tosse, del tipo con cui un perfetto estraneo cerca di attirare l’attenzione di qualcuno a cui, volente o nolente, deve dire qualcosa. Non esattamente l’atteggiamento che avrebbe potuto aspettarsi da una sua vecchia conoscenza. Ruotando lentamente si ritrovò a fissare un petto robusto coperto da una giacca scura, rigida e con più bottoni di quanti ne avesse mai avuti un suo vestito. Fu costretta a sollevare la testa per capire a chi appartenesse. L’uomo, un perfetto sconosciuto, era alto e massiccio, due caratteristiche che cozzavano con la sua pelle color ebano e i corti capelli bianchi, a malapena visibili sotto un cappello da portiere di albergo. No. Da autista era la definizione corretta. Quell’uomo indossava una perfetta livrea da autista e se ne stava lì rigido come se aspettasse di poterle aprire la portiera di una carrozza. «La mia padrona si chiede se sarebbe così gentile da farle compagnia al suo tavolo. Avrebbe piacere di parlarle.» Il tono era rigido e affettato come la sua posa, sembrava quasi stesse ripetendo dei versi imparati a memoria. E poi... padrona?

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Con uno sforzo non indifferente, Amanda cercò di guardare oltre il suo interlocutore per capire da chi provenisse quell’insolito invito. Si ritrovò a incrociare lo sguardo di una donna in abiti eleganti, che le rivolse un sorriso enigmatico. Era forse un tentativo di abbordaggio? In tal caso avrebbe dovuto ammettere che era di sicuro il più originale a cui avesse mai assistito. Si strinse mentalmente nelle spalle. A suo modo, l’Underdark poteva essere un posto pericoloso, ma sedere a un tavolo e parlare non aveva mai ucciso nessuno. O comunque nessuno di cui lei avesse mai sentito. L’autista dovette comprendere le sue intenzioni, perché quando si alzò le fece strada verso il tavolo della donna, con un atteggiamento da guardia del corpo che, considerata la situazione, appariva piuttosto ridicolo. Non c’era certo il rischio che qualcuno l’aggredisse nel tragitto dal bancone al tavolo... o sì? Probabilmente, potendo, le avrebbe scostato la sedia e l’avrebbe fatta accomodare, ma dato che accanto al tavolo c’era solo un divanetto semicircolare, questo Amanda non l’avrebbe mai saputo per certo. «Vivienne Blanchard» si presentò di punto in bianco la sua ospite mentre le faceva cenno di sedersi di fronte a lei. Le porse una mano ma non come se volesse stringergliela, sembrava piuttosto volerle mostrare il dorso, o magari l’anello elaborato sul suo anulare. Cosa avrebbe dovuto farci? Nel dubbio non fece nulla, e se non altro lei non sembrò prendersela a male, limitandosi a esibire un sorriso di condiscendenza. «Amanda Sheldon» disse di rimando. «Oh, certo, lo so. L’ho invitata per questo.» Il suo accento aveva un qualcosa di esotico, indefinibile. Le sue erre in particolare sembravano aristocraticamente incomplete, impalpabili, come se avesse elaborato un modo del tutto personale di pronunciarle senza che vibrassero. «Non pensavo di essere famosa» rispose Amanda senza dare l’impressione di essere sorpresa. Chi era esattamente quella donna? Il suo volto non le diceva nulla. Aveva labbra piene, di un rosso carminio che spiccava come un faro sulla pelle candida del viso, incorniciato da lunghi capelli corvini. Gli occhi erano scuri, quasi neri, e le ciglia lunghe e incurvate li ritagliavano dal volto, quasi lasciandoli a galleggiare per conto proprio nelle ombre della sala. «La fama è un concetto astratto. E non sempre una cosa positiva. Quello che conta è essere noti alle persone giuste.» «Che includono lei, immagino.»

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«A volte.» Sorrise, mostrando per un istante una serie di denti bianchi e fin troppo perfetti, poi sollevò un bicchiere a calice dal tavolo e se lo portò alla bocca tenendolo per lo stelo con le punte delle dita. Le sue unghie erano dello stesso colore delle labbra. «So che sta cercando qualcuno» riprese dopo aver a malapena bagnato le labbra nel contenuto del bicchiere, qualcosa che Amanda non era riuscita a identificare. «Sa molte cose.» «Più di quante immagina mia cara.» «Questa però non è corretta. Non cerco nessuno.» «Dovrebbe.» E questo cosa significava? Amanda non volle darle la soddisfazione di chiederlo e rimase in silenzio. Vivienne rispose comunque alla domanda inespressa. «A volte è meglio trovare che essere trovati.» «Parla sempre per enigmi?» «Ci sono cose che non si possono dire apertamente.» «Lo prenderò per un sì.» «Arguta. Mi piace. Ma non esageri, qualcuno potrebbe non apprezzare il suo atteggiamento. Dopotutto non crederà veramente che girare armata basti a non correre rischi, vero?» Amanda si augurò che il suo volto non stesse mostrando quello che provava. Come faceva quella donna a sapere che era armata? La bacchetta era fissata con cura alla sua gamba, si era accertata che fosse pressoché invisibile sotto il vestito. Dovette resistere alla tentazione di voltarsi e guardare in basso per assicurarsi che lo fosse ancora, e costringersi a un sorriso il più possibile neutro. «È una minaccia?» «Cara, se avessi voluto minacciarla l’avrei fatto. O più probabilmente l’avrei fatta uccidere e l’avrei minacciata dopo, per risparmiare tempo. Invece, che ci creda o no, sto tentando di tenerla in vita.» «E che avrei fatto per meritare questo onore?» «Ancora niente. Ragione di più per cercare di farla vivere abbastanza a lungo da poter cambiare la situazione.» Questa volta Amanda non fece nulla per dissimulare la confusione che provava. «Lei non è una persona comune, Amanda.» Innegabile. Per quanto ne sapeva lei, era addirittura unica. Non che questo le avesse mai portato alcun genere di vantaggio. «È passata dalle minacce ai complimenti, vedo.»

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«Sa cosa voglio dire», replicò la donna con un gesto stizzito della mano. «Per alcuni lei è come un faro nella notte, anche senza volere prima o poi verranno da lei, se non l’hanno già fatto.» «Continuo a non capire di che cosa stia parlando.» «Meglio così.» «Quindi mi ha fatto venire qui da lei al solo scopo di darmi informazioni incomprensibili che è meglio che io non capisca?» «No. L’ho fatta venire qui per dirle che potrebbe non essere l’unica creatura poco comune in questa città, e che farebbe bene a cercare l’altra prima che l’altra trovi lei.» «E chi... cosa sarebbe quest’altra creatura?» «Io l’ho messa in guardia, il resto sta a lei.» «Spero non si aspetti che io pensi di doverle un favore per i suoi indovinelli...» «Le cose sono molto più semplici di così, mia cara. O lei farà quello che mi aspetto che faccia, e dunque avrà saldato il suo debito, o ben presto sarà morta, nel qual caso la cosa diverrebbe del tutto irrilevante.» «Ancora minacce.» «Mi sembrava di averlo già detto, non sono incline a minacciare. Stavo solo esponendo la situazione, non ho mai detto che sarei stata parte in causa nella sua morte. Ash, prepara la carrozza, sto uscendo.» L’ultima frase era evidentemente rivolta all’uomo dalla pelle nera, che in effetti si mosse subito per lasciare il locale. Quella donna aveva davvero una carrozza. Incredibile. «Le carrozze non sono un po’ fuori moda di questi tempi?» «Basta perseverare e tutto torna di moda, prima o poi.» «E suppongo che lei stia perseverando da molto.» «Più di quanto immagina, cara, più di quanto immagina.» La donna si alzò scivolando tra il tavolino e il divanetto con un movimento fluido e aggraziato che Amanda non sarebbe mai riuscita a imitare. «Qual è il suo ruolo in questa storia?» riuscì a domandarle prima che fosse fuori portata. «Non amo la concorrenza» fu la sua risposta, quasi sussurrata, un istante prima che varcasse la soglia del locale e svanisse oltre le pesanti tende. Inutile alzarsi e seguirla. Vista la qualità della conversazione, non ne avrebbe ottenuto comunque nulla. A parte, forse, scoprire se la famosa carrozza esisteva davvero, ma era qualcosa di cui poteva benissimo fare a meno.

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Il resto della nottata trascorse in una lunga e inutile attesa. Nessuna delle persone che avrebbe voluto incontrare si fece vedere. Mancavano ancora un paio d’ore all’alba, e alla chiusura del locale, quando la stanchezza iniziò a prendere il sopravvento e Amanda decise che era giunto il momento di fare ritorno a casa, anche se questo significava che avrebbe dovuto tornare lì la notte successiva. Non aveva fatto che pochi passi fuori dal cancello quando qualcosa di freddo e umido le sfiorò il viso, quasi una lieve puntura. Si portò automaticamente le dita a sfiorare la guancia, sorpresa. Acqua. D’istinto alzò gli occhi al cielo come se avesse potuto scorgere qualcosa di diverso dalla notte e dalle stelle. Non vide nulla, ma un’altra goccia la colpì in quell’istante sul sopracciglio destro, seguita da un'altra alla radice del naso. Una dopo l’altra, innumerevoli gocce d’acqua iniziarono a tamburellare sul manto stradale. Per quanto la cosa apparisse assurda e impossibile, stava piovendo.

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CAPITOLO 4 Il mattino dopo si alzò in condizioni ancora più pietose di quelle a cui si era suo malgrado abituata negli ultimi tempi. L’aver fatto tardi la notte precedente non era di certo stato d’aiuto. Fortunatamente le lezioni all’università erano ancora sospese, e questo le avrebbe permesso di prendersela comoda e di andare a cercare di ottenere qualche informazione più utile altrove. Quando fu sveglia a sufficienza, uscì di casa e si diresse alla stazione di polizia. Sebbene fosse stata lì poco più di ventiquattr’ore prima, la sensazione che ebbe fu l’esatto opposto di quella provata entrando all’Underdark: sembrava un luogo del tutto diverso rispetto a quello che aveva visitato la volta precedente. L’edificio in sé non era cambiato, ovviamente, ma sembrava preda di un attività frenetica, eccessiva perfino per quel posto. «Posso esserle utile?» le chiese un agente strappandola alle sue considerazioni. Strano che avesse fatto caso a lei in tutta quella confusione. Strano ma utile. «Avrei bisogno di parlare con il detective...» già, come si chiamava? «... che si occupa dell’omicidio di Trey Parker.» «Aspetti qui.» E attese. Dovette trascorrere più tempo di quanto ne aveva preventivato prima che l’agente si rifacesse vivo. «Mi dispiace, signora, ma non sembra che ci sia in corso un’indagine del genere.» Amanda lo guardò stranita. Avrebbe voluto ribattere che era certa che ce ne fosse una, tuttavia sapeva che se le era stato detto il contrario non sarebbe stata una sua replica a cambiare la situazione. Fortunatamente, aveva un piano di riserva. «Potrei parlare con il detective Stonehand, cortesemente?» «Credo che sia impegnato» rispose l’agente con aria contrita. Sembrava fosse davvero dispiaciuto della cosa. «Posso attendere. Gli dica soltanto che Amanda Sheldon è qui, grazie.» «Come vuole.» L’agente si allontanò di nuovo, e lei andò a sedersi su una delle sedie lasciate a disposizione di chi stava attendendo il suo turno per effettuare

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una denuncia, o per qualunque altra ragione che l’avesse condotto lì. Erano di una scomodità tale che aveva sempre pensato fossero state scelte di proposito in modo da far scoraggiare più in fretta chi si recava lì e ridurre le perdite di tempo. Nessuno che non avesse un motivo davvero valido avrebbe desiderato restare seduto lì sopra per più di una decina di minuti. Lei aveva un motivo valido, o almeno ci sperava, e si costrinse a restare lì, pressoché immobile, per un tempo che le parve interminabile. Era quasi giunta a superare la soglia della sua sopportazione, già sul punto di alzarsi e rinunciare, quando un ometto poco più alto di un metro comparve in fondo al corridoio e si diresse verso di lei. «Manda.» Che lei ricordasse era l’unica persona al mondo a chiamarla così. «Non è una buona giornata. Se volevi salutare un vecchio amico, avresti potuto farlo quando sei stata qui ieri.» Amanda lo guardò. Indossava giacca e pantaloni grigio perla, fatti su misura, e una camicia celeste pallido. La cravatta, in tinta con la giacca, era allentata e pendeva sghemba sul petto. Bruttissimo segno. «Scusa Shim, avrei voluto ma ero terribilmente in ritardo.» «Non abbastanza da non fermarti a pestare due poveri delinquenti che facevano soltanto il loro lavoro» grugnì lui. Amanda si strinse nelle spalle. Sapeva che sotto il tono burbero e l’espressione di rimprovero si celava un sorriso compiaciuto. Dopotutto era stato lui il primo a insegnarle a fare a pugni. «Che sta succedendo di così drammatico?» domandò, guadagnandosi uno sguardo attonito in risposta. «Devi essere l’unica in tutta la città a non saperlo ormai. Stanotte è piovuto.» Bella novità. Probabilmente era stata una delle prime a venirne a conoscenza, visto il suo incontro ravvicinato con la pioggia all’uscita dal night club, e non aveva dubbi che la cosa fosse stata estremamente anomala, ma non capiva come questo potesse riguardare la polizia. Soprattutto, non capiva come potesse riguardare lui, anche se a ben pensarci era ovvio che un coinvolgimento della polizia in un affare del genere lo vedesse in prima linea. Shim Stonehand era da anni a capo del dipartimento di controllo della magia. Essenzialmente indagavano sul traffico di oggetti proibiti e sulle infrazioni al codice magico. Un errore nella programmazione del tempo non sembrava adatto alle sue competenze. Del resto, se proprio qualcuno doveva indagare, non poteva che essere lui.

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«Sì, ho notato» rispose senza scendere troppo in dettagli «Non dovrebbe essere un problema del Controllo Meteorologico? Da quando gli errori di programmazione sono un reato?» «Quand’è stata l’ultima volta che si è verificato un errore di programmazione del tempo?» domandò lui di rimando. «Vediamo... otto anni fa non c’era stato quel fulmine che aveva colpito un’abitazione del centro?» «Era l’alto prelato di Oon che aveva litigato con sua moglie. E comunque non stiamo parlando di un evento isolato, Manda. Ieri notte ha piovuto su tutta la città.» «Va bene, va bene, è assurdo, ma cosa c’entra la polizia? Non starete certo pensando che sia stato un atto deliberato, sarebbe...» «Non è che lo pensiamo. Lo sappiamo.» Amanda lo guardò ricacciando dentro la fine della sua frase. "Impossibile", stava per dire. Il controllo meteorologico era una delle attività meglio protette dell’intera nazione. Pochissimi maghi venivano selezionati ogni anno per andare a rinfoltire i ranghi dei controllori, e venivano sottoposti a ogni genere di indagini per impedire l’ingresso di mele marce, oltre a firmare un patto di riservatezza che impediva loro, in senso letterale, di parlare del loro lavoro o anche solo accennare a quale fosse. Nessuno a parte loro sapeva dove fossero dislocate le postazioni di controllo, i luoghi nei quali i cristalli appositamente preparati amplificavano e dirigevano il loro potere verso il responsabile che determinava e dirigeva l’evento atmosferico vero e proprio, e comunque a ognuno era nota solo la propria postazione e non le rimanenti. In tal modo, se anche qualcuno avesse lasciato il lavoro e fosse riuscito in qualche modo a passare l’informazione prima che venisse rimossa dalla sua mente, una sola postazione sarebbe stata compromessa, e avrebbe potuto facilmente essere sostituita da una delle riserve, o bypassata per il tempo necessario a rimediare. Alterare il tempo su scala molto ridotta era possibile, possedendo le cognizioni e il potere necessario. Entro certi limiti si poteva perfino farlo senza infrangere la legge. Ma per poter alterare il tempo sull’intera città sarebbe stato necessario controllare l’intera rete, e questo era impossibile, non c’erano altri termini adatti a definirlo. Se anche uno solo dei controllori non avesse incanalato correttamente il potere necessario per ottenere un dato risultato, il responsabile non avrebbe potuto ottenerlo, si sarebbe accorto del problema e avrebbe fatto in modo che chi di dovere corresse ai ripari, cosa che per inciso non era mai accaduta per quanto lei potesse saperne. Tutti i maghi

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coinvolti dovevano operare di comune accordo perché le cose funzionassero. Che avessero deciso tutti insieme di sconvolgere la programmazione, considerato che neppure si conoscevano tra loro, era impensabile. Anche ammesso che qualcuno fosse riuscito a scoprire l’identità di ognuno di loro e controllarlo in qualche modo, non avrebbe ottenuto nulla. I cristalli non funzionavano se chi cercava di usarli era sotto costrizione, ed erano in grado di rilevare la presenza di ogni genere di influenza esterna. «Di che stai parlando?» riuscì infine a domandare. Lui la guardò torvo. «Andiamo nel mio ufficio.» Lo seguì lungo il corridoio. Nonostante le gambe corte, era sempre stato più veloce di lei, e per stargli dietro non ebbe il tempo di soffermarsi su quanto stava accadendo attorno a lei. Si chiese se stesse andando così di fretta apposta per evitare che ficcanasasse in giro. Shim entrò nel suo ufficio, attese che lei avesse fatto altrettanto e chiuse la porta, tirando anche la tendina che copriva il pannello di vetro. Quindi raggiunse la sedia dietro la sua scrivania e vi si arrampicò riuscendo a non farla sembrare una cosa ridicola. L’amministrazione non gli aveva mai fornito della mobilia a misura di nano, e lui non l’aveva mai chiesta. «Sai che questi non sono affari tuoi» le disse non appena anche lei si fu seduta. Il tono era a metà tra l’affermazione e la domanda. «So anche che non ti saresti fatto inseguire fin qui per non dirmi nulla.» Lui sospirò. «Qualche giorno fa, il governatore ha ricevuto una minaccia. Roba da esaltati. Diceva che la città sarebbe stata colpita da un uragano se...» «Un uragano?» «Un uragano. A meno che...» «Quanto voleva?» «Non era una richiesta di soldi.» «Ah no? Strano.» «Strano?» «No, in effetti no. Artefatti? Documenti?» «Qualcosa del genere.» «Sarebbe a dire?» «Diciamo che in cambio della salvezza della città voleva che gli venisse consegnata una data cosa della quale non ti dirò altro.» «Qualcosa del tipo che sarebbe di tua competenza?» Lui annuì. «Sembrava la solita roba da mitomani. Non hai idea di quante ne ricevano ai piani alti. Questo fino a oggi.»

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«Ma non c’è stato nessun uragano, ha solo piovuto. E neanche tanto.» «Era una dimostrazione, Manda. L’aveva annunciata. E aveva detto che dopo avremmo avuto dodici ore per pagare, il che ci lascia...» «Fino alle diciotto di oggi» concluse lei dopo un breve calcolo «Esattamente» grugnì Shim in risposta, senza sottolineare apertamente che lei sembrava saperne più di quanto avesse lasciato intendere, ma lasciandolo capire. «E pensate che possa riuscirci sul serio?» «Non ne siamo certi, ma non possiamo essere certi del contrario. Non dopo stanotte.» «Quindi?» «Quindi niente, io torno al mio lavoro, risolvo la cosa, e se tutto va bene nessuno dovrà mai saperne nulla.» «Io però non ero venuta qui per questo.» «Ah no?» «Hai presente Trey Parker?» «Il rettore? Quello morto?» «Mmm. Lui. Volevo parlare col detective che sta seguendo il caso. Mi hanno detto che non c’è...» «Sarà fuori a indagare.» «... un caso» terminò lei. «Mi hanno detto che non c’è nessuna indagine in corso.» «Se te l’hanno detto deve essere vero. Non credo che quelli della omicidi siano diventati così pigri da chiudere le indagini prima ancora di iniziarle. Probabilmente è venuto fuori che non c’era niente di strano.» «Come esattamente essere trovati morti nel bel mezzo di un cortile corrisponde al tuo "niente di strano"?» «Ancora non lo so. Mi informerò. Ti farò sapere. Ma non ti prometto nulla. Al momento ho cose più urgenti per le mani.» «Capisco. Grazie dell’aiuto.» «Per te questo e altro...» «Purché ti lasci lavorare.» «Qualcosa del genere.»

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CAPITOLO 5 C’era da dire che, di fronte a una crisi meteorologica, un omicidio diventava improvvisamente di seconda categoria. Non da dimenticare, certo. Da far aspettare fin dopo le diciotto, magari. D’altra parte, Shim sapeva il fatto suo, e non c’era modo in cui lei potesse aiutarlo a venire a capo della cosa, era un po’ fuori scala, perciò tanto valeva non preoccuparsi più del minimo indispensabile e continuare le sue indagini, magari in modo da ottenere un po’ più risposte e un po’ meno domande. Nelle ultime ore aveva accumulato una tale quantità delle seconde che sarebbe potuto non bastare il resto della sua vita per rispondere a tutte. Specie se doveva dar retta a quella Vivienne. A pensarci bene, se Shim non riusciva a impedire che la città venisse colpita da un uragano, probabilmente Vivienne avrebbe avuto ragione, dopotutto. Ma non c’era molto che potesse fare per impedirlo. Per adesso, tutto quello che poteva fare era rivolgersi a qualcun altro in attesa di scoprire se sarebbe sopravvissuta alle prossime ore ed eventualmente di poter tornare all’Underdark. C’era solo un’altra persona a cui poteva fare visita, e tra tutte era di sicuro quella meno informata sui fatti. Qualcosa a cui lei stessa poteva rimediare, fortunatamente. I veggenti non erano una categoria vista di buon occhio dalla maggioranza della popolazione, per una serie di motivi più o meno opinabili. Il primo tra questi era di certo il fatto che, al contrario della magia, la veggenza non si potesse propriamente definire una scienza esatta. Ogni premonizione, ogni vaticinio, anche il più accurato, poteva rivelarsi del tutto inutile se interpretato nella chiave sbagliata. I veggenti in grado di fornire informazioni precise e prive di ambiguità si contavano sulla punta di una mano, e anche loro diventavano molto meno precisi quando si trattava di consultare il futuro che, a quanto dicevano, era in continuo mutamento e non poteva mai essere previsto con precisione assoluta. Non era poi da escludere il fatto che gran parte dei veggenti, specie i più famosi, fossero in realtà dei ciarlatani, il cui vero lavoro consisteva nel dire alla gente ciò che desiderava sentirsi dire in cambio di compensi spropositati.

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Amanda però era ben conscia di una terza ragione, molto più importante: i maghi erano tra le persone di maggior rilievo della società, ed erano assolutamente, irrimediabilmente incapaci di prevedere il futuro o scrutare il passato. Ammettere che qualcuno fosse in grado di riuscire dove loro fallivano, qualcuno che oltretutto non aveva alle spalle il potere della taumaturgia o gli anni di studio necessari a eccellere in una qualunque delle arti, che semplicemente era ciò che era per un qualche insondabile schema del destino, avrebbe minato alla base la loro credibilità. Ottimo motivo per distruggere quella dei veggenti e prevenire prima di essere costretti a dover curare. In questo modo, i ciarlatani riuscivano, con le loro abilità da imbonitori, a mettere comunque in piedi giri d’affari notevoli, senza trovare particolari intralci dato che nessun mago si sarebbe impegnato più di tanto per screditare qualcuno che aveva effettivamente dei motivi per dover essere screditato, e a cui nessuno credeva sul serio. I veggenti veri finivano con l’operare quasi in sordina, più per amore del prossimo e per mettere a frutto dei doni di cui comunque non potevano liberarsi che per ricavarci qualcosa. Amanda conosceva diversi esponenti della prima e della seconda categoria, ma solo una di cui si fidasse. Nel senso di avere abbastanza fiducia in lei da averci a che fare senza temere che cercasse di tirar fuori qualche oscuro segreto dalla sua mente. Quei pochi che aveva, preferiva tenerli per sé. Si fermò a prendere qualcosa da mangiare lungo la strada, poi si diresse allo studio di Kate. Si trattava, in concreto, di un appartamentino al pianterreno composto di tre soli ambienti: una sala d’aspetto, uno studiolo e una terza stanza che Amanda non aveva mai visto, e che aveva sempre pensato essere il bagno o uno sgabuzzino, o entrambe le cose. Non che la cosa la riguardasse. Spinse la porta, aperta, che fece tintinnare una campanella a malapena udibile. La sala d’aspetto era vuota, ma le tende dello studio erano tirate, il che significava che qualcuno era già dentro e che era necessario attendere. Nella stanza, di per sé abbastanza anonima e del tutto priva delle bislacche decorazioni e degli strani ammennicoli che non di rado si vedevano negli studi di veggenti di altro genere, c’erano quattro file di sedie, due a destra e due a sinistra della porta, e due tavolini portariviste, con una ragguardevole collezione di queste ultime che spaziava dalle classiche riviste di gossip a pubblicazioni specialistiche

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del settore. Una volta Amanda aveva provato a sfogliarne una e le era parso di aver aperto per sbaglio un giornale proveniente da un altro mondo. Da allora non ci aveva riprovato e si era limitata a sbirciare saltuariamente qualche cosa di meno astratto e non troppo pettegolo. Non era lì da molto quando le tende si aprirono e ne venne fuori un ometto basso, grasso e quasi del tutto calvo, che dava l’idea di essere la versione extralarge di uno gnomo. L’espressione sul suo viso era indecifrabile. Aveva ricevuto cattive notizie? Buone? Niente di tutto questo? Amanda si strinse virtualmente nelle spalle. Aveva altro a cui pensare al momento. Si alzò e si diresse nella stanza accanto, registrando distrattamente la campanella che annunciava l’uscita dell’omino. Lo studio di Kate era grande meno della metà della sala d’aspetto. Le pareti erano coperte da drappi celeste chiaro, che creavano un’atmosfera in qualche modo rilassante. C’erano diverse librerie, ma sarebbe stato necessario spostare i drappi per poterne osservare il contenuto. I pochi titoli che occhieggiavano tra un tendaggio e l’altro riguardavano quasi tutti studi sulla veggenza, e Amanda non faticava a immaginare che il contenuto fosse ancora più alieno di quello delle riviste in anticamera. Un tavolino rotondo stava al centro della sala, coperto anch’esso da una tovaglia azzurra. Davanti c’era una sedia, dietro c’era Kate, seduta e intenta a raccogliere delle carte sparse sulla superficie dinnanzi a lei. Il suo aspetto rifletteva la sobrietà della sua sala d’aspetto, e non aveva nulla in comune con la tipica figura del veggente commerciale. Niente veli, niente abiti ridicolmente larghi o pomposi, niente gioielli appariscenti, niente colori che aggredissero l’osservatore. Indossava un semplice tailleur beige, il cui collo veniva appena sfiorato dai capelli castani, lunghi giusto quanto bastava per coprire la nuca e poco più. Quando alzò la testa per vedere chi fosse entrato, il suo volto si illuminò di un sorriso. «Mandy! Che piacere!» esclamò, poi uno sguardo perplesso le apparve sul volto per un attimo «Dormito poco?» «Poco e male. L’hai visto nelle carte?» «No, nelle tue occhiaie.» Amanda sorrise. «È da un po’ che mi alzo più stanca di quando sono andata a letto. Sarà la stagione.» «Strana come stagione. Hai saputo della pioggia di ieri notte?»

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«In anteprima direi. Sono tornata a casa che ero quasi fradicia.» «Tu? Sul serio?» «Perché?» chiese lei, non capendo dove l’amica volesse andare a parare «Che c’è di strano? Ti risulta che io sia impermeabile?» «Impermeabile no. Pantofolaia sì. Cosa ci facevi in giro di notte così tardi? Anzi... cosa ci facevi in giro di mattina così presto? C’è un uomo di mezzo? Vediamo...» fece il gesto di scoprire una delle carte che aveva davanti «Giù le mani!» la apostrofò Amanda, quasi ridendo «Un’altra volta, magari, ti racconterò i dettagli... oggi sono qui per motivi professionali.» «Tuoi o miei?» «Tuoi.» «Meno male. Non avevo studiato.» Rise. «Allora... siediti e dimmi tutto. Di che vuoi parlare? Amore? Lavoro? Soldi?» strizzò un occhio «... sesso?» «Morte.» Il viso di Kate si rabbuiò. «Sicura di non aver sbagliato persona?» «Hai presente Trey Parker.» «Trey... Parker... e chi è? No, aspetta, aspetta, devi avermelo nominato... un tuo collega?» «Più o meno. È morto.» «Ah, mi dispiace. Come è successo?» «È quello il problema. Penso sia stato ucciso, ma non ne so molto, e la polizia non sembra essere molto interessata.» «Capisco... però non credo di poterti essere molto d’aiuto. Oltretutto non è neppure qualcosa che ti riguarda direttamente...» «Non vorrai farmi una ramanzina adesso...» «No, affatto. Intendevo dire che è più difficile vedere qualcosa per interposta persona. Sarebbe più semplice se ci fosse lui qui... ma in tal caso non ci sarei io, non ho molta voglia di fare un consulto a un morto.» Amanda si strinse nelle spalle. «Qualunque cosa riuscirai a dirmi, sarà sempre più di quanto so adesso.» «Come vuoi» replicò Kate mescolando il mazzo di carte e posandolo sul tavolo «Conosci la procedura.» Amanda allungò istintivamente la destra per alzare il mazzo, fermandosi a mezz’aria senza averlo ancora sfiorato. Ritirò la mano e tagliò con la sinistra prima che Kate potesse correggerla.

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La veggente riunì i due mazzetti e iniziò a disporre alcune carte sul tavolo. Amanda cercò, come faceva sempre, di decifrare le espressioni che man mano comparivano sul suo viso. Come sempre non ebbe successo. «A quanto pare, un uomo c’è» disse d’un tratto Kate. «Ehi! Non cambiare discorso! Non è quello che ti ho chiesto!» «Infatti non intendevo quello. ... ah ma allora c’è sul serio?» ghignò «... possiamo tornare alle carte?» «Già, già... stavo dicendo che c’è un uomo... anzi più di uno. È possibile che il tuo collega avesse a che fare con la magia? Intendo in prima persona.» «Parker? No... non credo almeno. Non è che lo conoscessi così bene, ma non mi sembrava il tipo.» «Strano. Eppure...» «Cosa vedi?» «Qualcuno che è morto o sta per morire. Ma si direbbe un mago. E poi una figura nell’ombra, un manipolatore. Non ti sono di molto aiuto, vero?» «Sempre meglio di niente.» «È che la lettura non è molto chiara, c’è qualcosa di confuso in queste carte.» Amanda non stentava a crederci. Non era il primo consulto che aveva con Kate, e di solito era tutt’altro che vaga. «Credo che il tuo collega sapesse qualcosa che non avrebbe dovuto sapere» disse lei all’improvviso, come colta da un’illuminazione. «Potrebbe essere stato ucciso per questo?» «È possibile. Non posso esserne certa. Però sono quasi certa che tu ti stia cacciando in una faccenda molto complicata.» «E avevi bisogno delle carte per scoprirlo?» Amanda sorrise come un bambino preso con le mani nel barattolo della marmellata. «Non fa mai male avere una conferma. Sul serio» aveva cambiato discorso senza soluzione di continuità «se fosse stato un mago queste carte avrebbero avuto molto più senso.» «Direi proprio che non lo era... ma fingiamo che lo fosse, che avrebbero significato?» «Che ha perso il controllo di qualcosa... di qualcuno... e non era pronto ad affrontarne le conseguenze.» «Qualcuno? Ipnosi? Controllo mentale?» «Direi più un’evocazione.» «Le evocazioni sono proibite.»

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«Questo ha mai fermato qualcuno?» «Potrebbe avere un senso.» «Ti sei appena ricordata che il tuo Parker evocava gli studenti quando marinavano le lezioni?» «Non era il mio Parker, e non faceva lezione quindi penso che non gli sarebbe servito... Grazie di tutto, scappo?» «C’è qualcosa che non mi vuoi dire...» «Forse. Forse no. Devo verificare. Quanto ti devo?» «Ma scherzi? Anzi, aspetta un attimo, non ti muovere da lì.» Senza che Amanda avesse il tempo di replicare, Kate si alzò e scomparve nel retro, lo sgabuzzino-bagno o bagno-sgabuzzino o quel che era. Amanda stava alzandosi quando la vide tornare tenendo tra le mani una cordicella dalla quale pendeva un oggetto piatto e rotondo, largo non più di una decina di centimetri. Era un cerchietto di legno al cui interno erano legate numerose cordicelle sottilissime che formavano un disegno complesso, quasi una ragnatela. Sui lati esterni pendevano alcune piume e delle perline. Un vero acchiappasogni. Non se ne vedevano molti in giro. «Tieni.» le disse Kate porgendoglielo «Dovrebbe aiutarmi a scoprire l’assassino?» «No, a dormire meglio. Me l’ha regalato un cliente tempo fa... ora come ora credo serva più a te che a me.» «Be’... grazie. Te lo riporterò.» Kate si strinse nelle spalle. «Probabilmente dormirò bene anche senza.» Amanda prese l’oggettino e lo rimirò, perdendosi per un attimo nei suoi intrecci. Era troppo delicato per rischiare di infilarlo in una tasca. Fortunatamente la cordicella era doppia, e poté metterlo al collo, facendolo scivolare sotto il maglione.

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CAPITOLO 6

Non era ancora in strada quando iniziò a frugare nella sua borsa in cerca del cristallo di comunicazione. Ci mise un po’ prima di ripescarlo. Era una pietra ovale, piatta, larga più del suo palmo e di uno stupido colore rosa. Anche se sapeva che gli ultimi modelli erano in grado di immagazzinare la stessa quantità di energia in un cristallo parecchio più piccolo, e anche se non sopportava quel colore, non si era mai decisa a cambiarlo. Per quanto un cristallo nuovo potesse essere più leggero e comodo da trasportare, non sarebbe stato altrettanto semplice da recuperare tra le cianfrusaglie che si portava dietro, meno che mai quando aveva fretta... né altrettanto efficace se sorgeva la necessità di usare la borsa come corpo contundente. Se mai fossero riusciti a crearne uno che poteva essere attivato senza il contatto fisico di sicuro si sarebbe decisa. Peccato che, per quel poco che ne capiva di magia, la cosa fosse altamente improbabile. Aveva finalmente iniziato a farsi un’idea, per quanto vaga, di cosa stava accadendo, e a questo punto non poteva andare avanti da sola, non senza un piccolo aiuto almeno. Strinse il cristallo nella mano, un po’ più del necessario, e focalizzò i suoi pensieri verso la persona che voleva raggiungere, augurandosi che non avesse disattivato il proprio nonostante la situazione. Un detective doveva essere sempre reperibile, no? "Shim, sono Amanda." Niente. "Forza, Shim, rispondi!" "Manda, non è il momento", la voce del nano le risuonò chiara e forte nella testa come se fosse stato lì a due passi "Qualunque cosa tu stia facendo lasciala perdere, chiuditi in casa e stai al sicuro, si sta mettendo tutto per il peggio." "Solo un momento, Shim..." "Un altro? A proposito, il tuo rettore, quel Parker... attacco cardiaco, nessun omicidio." "Ne sei sicuro?" Amanda era pressoché certa che Parker fosse morto nel suo ufficio e poi fosse stato portato fuori. Se la sua fosse stata una morte naturale, chi si sarebbe preso la briga di scaricarlo nel cortile, piuttosto che chiamare soccorsi? "Non può essere stato provocato?"

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"No. L’autopsia non ha rilevato tracce di droghe, veleni o incantesimi. Ora se permetti avrei da..." "Aspetta, aspetta, aspetta... tu hai una lista dei controllori meteorologici, vero?" Silenzio. Almeno non aveva troncato la conversazione. "Lo prendo per un sì. E immagino che non me la daresti." "Nemmeno se ne andasse della mia vita." "E se ne andasse di quella di un mucchio di gente?" "Manda..." "Ascolta, bisogna tenerli sotto sorveglianza, sono..." "E cosa credi che abbiano fatto i miei uomini da quando è arrivata la prima minaccia?" Vero anche questo. Shim non aveva bisogno di sicuro dei suoi suggerimenti in materia di indagini poliziesche. Il problema è che lui non sapeva cosa stava cercando. Lei neanche, a onor del vero, però stava cominciando ad arrivarci. "Potresti dirmi almeno se tra di loro c’è qualcuno che pratichi evocazioni?" "Scherzi? Sarebbe già stato espulso da un pezzo!" "E allora qualcuno che è stato espulso per questo...?" Silenzio. Amanda stava per insistere quando Shim la precedette. "Uno." Evidentemente aveva controllato da qualche parte prima di risponderle. "E lui puoi dirmi chi è." Non era una domanda "Potrei, ma che avresti intenzione di fare? Comunque non ricorda nulla, sai come funziona." "So come dovrebbe funzionare. Su, Shim, che ti costa?" "Va a casa Manda." "Come sai che non ci sono?" "Sono un detective, ricordi?" "Dammi nome e indirizzo e ti prometto che ci vado." "Che vai a casa tua." "Sì." "No, voglio sentirtelo dire." "Ti prometto che se mi dai quel nome e l’indirizzo vado a casa mia e mi chiudo dentro, va bene?" Anche se i sospiri non potevano essere trasmessi col la telepatia, Amanda era certa che Shim ne avesse fatto uno subito prima di trasmetterle il nome e l’indirizzo che doveva aver recuperato dagli archivi.

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"Splendido, mi è proprio di strada" mentì. "Ci farò un salto mentre rientro a casa. Ci sentiamo!" Ributtò distrattamente il cristallo nella borsa, interrompendo la comunicazione, e si avviò. "Manda! Man..." «Maledizione!» Shim sbatté il palmo della mano sul piano della scrivania, facendolo vibrare. Quella ragazza si sarebbe cacciata in un guaio. Di nuovo. Non lo preoccupava tanto il fatto che stesse andando a fare la figura della pazza con un mago, pregiudicato, sì, ma fondamentalmente innocuo. Quello era niente. Il problema era che se... quando... quel pazzo avesse messo in atto le sue minacce, lei sarebbe stata in mezzo alla strada ad affrontare la furia degli elementi. Non poteva mandare qualcuno dei suoi uomini a cercarla, erano già fin troppo presi a cercare di risolvere la situazione, o almeno limitare i danni. Doveva andarci di persona, o l’avrebbe avuta sulla coscienza per il resto della sua vita. E anche se non sapeva dove si trovava ora, sapeva dove si sarebbe trovata a breve. Usare il portale della centrale era escluso, avrebbe dovuto dare un mucchio di spiegazioni, e anche così non c’erano giustificazioni sufficienti. A piedi ci avrebbe messo troppo tempo. Questo lasciava una sola possibilità. «Questa me la pagherai Manda. Cara.» Saltò giù dalla sedia e uscì dal suo ufficio, avvisando senza neppure fermarsi che si stava allontanando. Raggiunse in fretta il deposito e abbaiò «Biposto, e sbrigati» all'agente di turno, che rimase per un attimo a osservarlo, sgomento. Shim Stonehand era un detective, aveva tutte le autorizzazioni necessarie per richiedere un mezzo della polizia in qualunque momento. Non era certo questo a impensierire il magazziniere. Il punto era che, da quando chiunque avesse potuto ricordarlo, Shim non ne aveva mai, mai, per nessuna ragione, richiesto uno. Uno sguardo torvo del detective riscosse l’agente dal suo torpore, e fece sì che si affrettasse a porgergli un involto azzurrino, simile a un materassino da ginnastica arrotolato. Shim lo prese borbottando qualcosa di incomprensibile e si diresse verso il terrazzo dell’edificio. Lì giunto srotolò l’involto, che si distese pigramente al suolo, e vi si sedette sopra, faticando a trovare una posizione che gli sembrasse adatta. Alla fine si mise in ginocchio, chinato in avanti e coi palmi poggiati in terra. «Forza, muoviti vecchia carretta!» Non accadde nulla.

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Sospirò di nuovo. Sapeva che non funzionava così, ma gli avrebbe dato più soddisfazione. Senza parlare, si concentrò sul ritaglio di lattice sotto di lui, che all’improvviso parve irrigidirsi e si sollevò di qualche centimetro nell’aria. Shim deglutì, poi diresse il mezzo verso il cielo aperto. Anche se sapeva di non poter cadere, sentiva la mancanza di qualcosa a cui potersi aggrappare. Sperò sinceramente che tutto ciò sarebbe servito a impedire ad Amanda di farsi ammazzare. Così poi avrebbe potuto ammazzarla lui per averlo costretto a volare in suo soccorso. Aveva sempre pensato che se gli dei avessero voluto che i nani volassero, li avrebbero fatti nascere con le ali. L’indirizzo che le aveva dato Shim non era molto lontano dallo studio di Kate, anche se era nella direzione opposta rispetto a casa sua. D’altra parte era sicura che Shim non si aspettava che mantenesse davvero una promessa estorta a quel modo. O sì? No, la conosceva troppo bene per credere a una cosa del genere. Una volta arrivata, si ritrovò a guardare un edificio che doveva aver visto tempi migliori. Non sembrava che potesse abitarci qualcuno. Che Shim l’avesse presa in giro? Entrò comunque nel vialetto che attraversava un cortile dall’aria abbandonata, dirigendosi verso la facciata di un palazzo basso e tozzo, le cui mura scrostate apparivano sul punto di poter crollare da un momento all’altro. No, Shim non l’aveva presa in giro. Se avesse voluto mandarla a caccia di farfalle, si sarebbe assicurato di non farla finire in un postaccio del genere. Il portone del palazzo sembrava una lastra di ruggine tenuta in piedi dal volere divino. Nonostante questo, era chiuso. Amanda provò ad aprirlo e questo emise un rumore orribile, come una bestia malamente sgozzata. Poi cedette all’improvviso, ruotando di una manciata di gradi e lasciando cadere una pioggia di scagliette rossastre e friabili. Amanda spinse ancora, senza risultato, a quanto pareva non si sarebbe mosso più di così. Fu costretta a strisciare tra il telaio e il portone, schiacciandosi il più possibile al primo. Il maglione si impigliò più volte, sfilandosi e coprendosi di ruggine. Alla fine di quella storia avrebbe dovuto gettarlo via. Infine riuscì nell’impresa e potette constatare che l’interno del palazzo non era affatto meglio dell’esterno. Nel piccolo atrio regnava un odore

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di muffa quasi nauseante. Acqua mista a intonaco cadeva dal soffitto a intervalli irregolari, e le pareti erano ricoperte di peluria biancastra che formava strani disegni. Da un lato si vedeva la tromba di un ascensore. Il cristallo che lo regolava era al suo posto. Spento. Non provò nemmeno ad azionarlo, l’ultima cosa che voleva era provare a salire e scoprire troppo tardi che l’energia residua bastava solo per arrivare a metà percorso, vedendosi sparire il disco sotto i piedi e ritornando al piano terra nel modo più rapido e meno salutare. Si arrese dunque alla necessità di usare le scale e raggiunse in breve tempo la porta dell’appartamento in cui voleva recarsi. Nessuno rispose quando bussò. Nessun rumore proveniva dall’interno. Non era certo arrivata fin lì per arrendersi alla prima difficoltà, perciò, dopo aver bussato ancora un paio di volte senza ottenere miglior risultato, si piegò a osservare la serratura. Non era una scassinatrice provetta, ma in caso di necessità qualche trucchetto lo conosceva, e non riteneva che un palazzo così vecchio e decadente potesse avere delle serrature degne di tal nome. In realtà non dovette neanche provare a fare qualcosa: non appena si appoggiò alla porta per guardarla meglio, questa scattò con un rumore metallico e si aprì, quasi facendola cadere lunga distesa oltre la soglia. «Signor Marsten?» si ritrovò a chiamare senza neanche sapere il perché. Se quell’uomo era nascosto da qualche parte con pessime intenzioni, non si sarebbe di sicuro addolcito solo perché lo stava chiamando, né si sarebbe fermato ad aspettarla se per qualche ragione stava cercando di tagliare la corda. L’interno dell’appartamento era a malapena migliore del resto del palazzo. Un po’ più pulito, forse, sicuramente un po’ più ordinato. L’odore non era affatto più gradevole però. Vi aleggiava un misto di fragranze tutt’altro che apprezzabili. Era l’odore di una casa che non prendeva aria molto spesso, ma non soltanto quello. Si poteva sentire un nauseante aroma dolciastro che comunque copriva solo in parte altri effluvi non meno disgustosi, e in sottofondo qualcosa che avrebbe potuto definire solo come "odore di sesso". La stanza principale era una sorta di tinello, occupato da un tavolo con una sola sedia, alcuni pensili e un piano cottura. Una credenza era aperta per tre quarti e ai suoi piedi stava un mucchietto di cibarie andate a male, ammonticchiate come se qualcuno le avesse spinte fuori a forza. Evidentemente la credenza non era stata ricaricata e aveva espulso tutto il suo contenuto. Se ci fosse stata dentro più roba avrebbe invaso mezza

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stanza. Del resto, qualcuno che teneva molto cibo conservato difficilmente dimenticava di effettuare ricariche regolari. Amanda attraversò la stanza con più cautela del necessario. Nessuno avrebbe potuto nascondersi là dentro a meno di essere estremamente piccolo o invisibile, e in quel caso tutta la cautela del mondo non sarebbe comunque servita a nulla. Una porta a soffietto separava il tinello dal resto della casa. La aprì e si ritrovò a osservare una piccola stanza da letto maleodorante. La sua attenzione fu inevitabilmente attratta dal padrone di casa, sdraiato nudo su quello che con un po’ di ottimismo si poteva definire un letto. Anche a quella distanza poteva vedere i suoi occhi sbarrati, che lasciavano pochi dubbi sul fatto che non stesse esattamente dormendo. Ecco il mago morto di Kate. Diede una rapida occhiata in giro. La stanza era pressoché vuota. Su un lato due porte conducevano rispettivamente a un piccolo bagno e a un armadio. Erano entrambe spalancate ed era assai improbabile che qualcuno si stesse nascondendo lì, a meno di stare proprio dietro una delle porte. In tal caso però non avrebbe potuto venir fuori senza prima chiuderla e poi riaprirla, cosa che le avrebbe lasciato tutto il tempo di reagire a dovere. La sua mente rifiutò l’idea che potesse esserci qualcuno nascosto sotto il letto. In un’altra situazione, forse, se ne sarebbe pentita, ma così non fu. Si avvicinò con calma al cadavere e gli mise due dita sul collo per accertarsi che fosse davvero tale. Non fu un contatto piacevole. La pelle era cedevole e vagamente umidiccia, e anche se il processo di decomposizione non era ancora iniziato, non sembrava che ci avrebbe messo molto a subentrare. L’espressione del volto era quel misto di stanchezza e piacere tipico di chi ha appena terminato un rapporto sessuale molto ben riuscito, almeno per quanto lo riguardava. Non c’erano tracce di ferite sul corpo, niente che potesse giustificarne la morte. Cercò con cura eventuali segni di morsi, non aspettandosi di trovarne. Perfino nelle sue attuali condizioni, era troppo florido per poter essere stato vittima di un vampiro. Kate aveva parlato di un’evocazione fuori controllo, ma cosa mai poteva aver evocato che lo avesse ridotto in quel modo? C’era un’immagine che cercava di formarsi nella sua testa, troppo vaga per poterle dare una risposta. Eppure una risposta doveva esserci, e non poteva essere lontana. Un mago non si separava mai dai suoi strumenti di lavoro, e a meno che quel particolare mago non avesse un altro luogo

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dove operare – e, visto dove viveva, l’idea che potesse permettersi un laboratorio sembrava quantomeno improbabile – era in quell’appartamento che avrebbe dovuto trovarle. Si diresse all’armadio. Nessuno saltò fuori da dietro la porta, e lei non poté che esserne lieta. Dentro c’erano pochi vestiti e una tonaca cerimoniale, sicuramente la cosa meglio tenuta di tutta la casa. Un ripiano ospitava alcuni libri, dei barattoli e una scatola di quelle solitamente usate per conservare le camicie ripiegate. Aveva già allungato la mano per tirare giù i volumi quando si rese conto di cosa stava facendo e si immobilizzò. Nessun mago degno di rispetto avrebbe lasciato i suoi libri senza qualche protezione, e il fatto che lei non potesse vederne era solo un motivo in più per essere sicura che ce ne fossero. Avrebbe dovuto chiamare Shim e dirgli di andare lì con un esperto. Ammesso che ci fosse il tempo per farlo. Aprì la borsa, ci mise dentro una mano e a quel punto la finestra dell’appartamento esplose, scagliando schegge di vetro in tutta la stanza. Amanda urlò, balzò all’indietro e urtò la testa contro il fondo dell’armadio, un colpo fortunatamente attutito dagli abiti che non le avrebbe lasciato neppure un bernoccolo. Se non fosse stata lì dentro non riusciva a immaginare cosa avrebbe potuto accaderle. Anzi, ci ripensò guardando il corpo sul letto – trasformato in una sorta di bizzarro porcospino dai vetri che gli si erano conficcati nelle carni – poteva immaginarlo fin troppo bene. Azzardò un’occhiata fuori, sporgendosi appena dalla sua posizione relativamente sicura. Un contorto oggetto di lamiera era comparso poco sotto il davanzale, dopo aver sfondato il vetro. Non riusciva a capire cosa fosse, ma non faticava a immaginare come fosse giunto fin lì. Per capirlo le bastava sentire il furioso ululato del vento che entrava attraverso la finestra. Non aveva mai sentito nulla di simile, e sembrava che stesse aumentando di minuto in minuto. Le parve di cogliere una lieve vibrazione sotto i suoi piedi. Era possibile che il palazzo non reggesse alle raffiche? Forse no... o più probabilmente sì viste le condizioni in cui versava. In ogni caso, non aveva la benché minima intenzione di restare lì a scoprirlo.

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CAPITOLO 7 Corse giù lungo le scale come se ne andasse della sua vita, il che poteva anche essere vero per quanto ne sapeva. Una volta nell’atrio, scoprì che il vento era riuscito là dove lei aveva fallito, e ora il portone arrugginito era spalancato e quasi scardinato. Raffiche gelide spazzavano la polvere ululando come lupi affamati. Amanda si gettò di peso verso l’uscita e quasi venne respinta dentro dalla forza del vento. Dovette aggrapparsi al telaio del portone per restare in piedi e tirarsi fuori a forza, ma una volta superato il passaggio la situazione non migliorò. Si ritrovò schiacciata al muro, col fiato mozzato, e per un interminabile istante le parve di soffocare, finché non riuscì a voltare la testa in modo da poter prendere un respiro. Era evidente che in quelle condizioni non sarebbe andata lontano. Pensò che forse sarebbe stato meglio rientrare e sfruttare almeno la pur scarsa protezione di quelle mura pericolanti. Stava quasi per farlo quando uno schianto dall’interno attirò la sua attenzione mentre un grosso pezzo di intonaco pioveva dal soffitto invadendo l’atrio di una nube biancastra, che scomparve alla successiva folata. Cos’era meglio: farsi portare via dal vento o farsi seppellire viva da un palazzo abbandonato? Un’ardua scelta. Il braccio, piccolo ma robusto, che l’afferrò da sotto un’ascella sollevandola di peso la fece trasalire. Il suo urlo si perse inizialmente nel vento, ma fu poi ben udibile quando di colpo si ritrovò in una piccola oasi di calma. «Smetti di urlare o ti ributto di sotto» grugnì una voce familiare. Amanda si voltò a guardare Shim che la osservava torvo. Nonostante il sibilo costante del vento tutto attorno a loro, la sua voce le era arrivata chiaramente, grazie alla bolla invisibile che li circondava e attutiva gli effetti del maltempo. «Credevo che odiassi volare» gli disse, confusa, sorpresa, ma soprattutto lieta di vederlo. «Spero che te ne ricorderai quando ti dirò cosa penso esattamente di questa tua bravata» replicò lui. «Ora dobbiamo andarcene da qui, alla svelta.» Aveva ragione. I tappeti volanti erano incantati in modo da proteggere i loro passeggeri dalle condizioni atmosferiche avverse, ma non erano stati creati per volare in un uragano, e la protezione si sarebbe esaurita ben presto vista la dura prova a cui stava venendo sottoposta.

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«Dove andiamo?» gli chiese «Alla centrale!» replicò lui riprendendo a concentrarsi sulla guida. Presero quota, anche se in maniera tutt’altro che sicura. Il tappeto sbandava violentemente, e anche se in realtà la magia li tratteneva su di esso sembrava che potessero esserne sbalzati via da un momento all’altro, tanto che Amanda si appiattì il più possibile come se questo potesse in qualche modo proteggerla da ciò che stava accadendo. Intorno a loro, l’uragano infuriava. Non ricordava di aver mai visto niente del genere. Aveva iniziato a piovere, e ora il vento portava verso di loro delle compatte masse d’acqua che sembravano quasi onde. Il tappeto dava l’idea di navigare, più che volare, come una strana tavola da surf alle prese con cavalloni più grossi di quanto fosse in grado di affrontare. Il cielo era nero, ingolfato di nubi che si ammassavano come spettatori di un concerto che lottassero per guadagnarsi un posto in prima fila, solo che lo spettacolo a cui volevano assistere era di tutt’altra natura. Una violenta raffica fece quasi ribaltare il tappeto, lasciando Amanda a chiedersi cosa sarebbe successo se si fosse rivoltato. Non credeva che la magia li avrebbe protetti dalla forza di gravità in quel caso, probabilmente si sarebbero schiantati al suolo, o sarebbero stati scagliati chissà dove dalla forza del vento. Shim sembrava tranquillo e sicuro di sé, in realtà era solo estremamente concentrato su quello che stava facendo, ogni suo sforzo proteso a cercare di assicurare stabilità al loro mezzo di trasporto e a impedire al contenuto del suo stomaco di ripercorrere al contrario la strada che l’aveva portato lì. Non avrebbe fatto una gran figura se si fosse messo a vomitare, ma soprattutto non credeva di riuscire a guidare mentre lo faceva, ed era questo pensiero ad aiutarlo a trattenere il pranzo. «Attento!» L’urlo di Amanda richiamò la sua attenzione verso qualcosa di scuro che si muoveva verso di loro. Cabrò all’improvviso, giusto in tempo per evitare lo scontro con una porta che doveva essere stata strappata a qualche abitazione e che ora fluttuava libera in attesa di schiantarsi contro qualcosa, o qualcuno. Si udì un tonfo attutito quando questa sfiorò l’estremità posteriore del tappeto, che sterzò inaspettatamente rischiando di fargli perdere il controllo. L’atmosfera aveva iniziato a farsi umida anche lì, e qualche goccia d’acqua stava riuscendo a oltrepassare la barriera che li proteggeva, segno che di lì a poco avrebbe cessato di esistere.

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Raggiungere la centrale era impensabile, dovevano trovare un posto più vicino dove fermarsi e rifugiarsi finché le condizioni non fossero migliorate. Ammesso che l’avrebbero mai fatto. «Laggiù!» urlò ancora Amanda, cercando di mostrargli qualcosa che sulle prime non riuscì a individuare. Poi lo vide. Verso destra c’era un punto in cui le nubi sembravano diradarsi, come se vi fosse una zona non colpita dalla furia degli elementi. Deviò immediatamente verso quella direzione, pregando che fosse davvero così, e che potessero arrivare in tempo, prima che la protezione li abbandonasse del tutto. Quando arrivarono, fu come oltrepassare una barriera tra due mondi. Il tappeto si affacciò oltre la tempesta in un’area che sembrava non esserne stata minimamente influenzata, che il vento neppure sfiorava. Lì sarebbero stati al sicuro, se non fossero arrivati un istante troppo tardi. La magia del tappeto cedette del tutto, e un colpo di vento lo afferrò scagliandolo lontano, verso la salvezza che avevano cercato ma non certo nel modo in cui desideravano giungervi. Shim fece del suo meglio per mantenere il controllo e quasi vi riuscì, ma non fu abbastanza. Il tappeto si schiantò al suolo, facendo rotolare via Amanda e mandando il nano a sbattere contro un albero. Lei fu la prima a riprendersi. Era contusa e confusa, doveva avere lividi in posti di cui mai aveva immaginato l’esistenza fino a quel momento, ma era viva. Si guardò intorno per cercare Shim e solo allora si rese conto di dove si trovava: era davanti all’università. Poi vide il nano accasciato contro il tronco di uno degli alberi che delimitavano il cortile. Si affrettò a raggiungerlo per controllare come stesse. Era privo di sensi e aveva un brutto taglio sulla fronte, l’impatto doveva essere stato tremendo per riuscire a danneggiare la sua testa dura, se non altro però respirava. Non c’era molto che potesse fare per lui, a parte trascinarlo in un luogo chiuso prima che vento e pioggia arrivassero anche lì. Né aveva molta scelta sul dove portarlo: l’università sembrava essere l’unico edificio che l’uragano avesse deciso di risparmiare. Il problema, al massimo, era come riuscire a entrare, ma ci avrebbe pensato una volta arrivata. Afferrò il nano da sotto le ascelle, tentando di non scuoterlo troppo, e iniziò a tirare sorprendendosi per quanto fosse pesante. Fece solo

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qualche metro prima di doversi arrendere all’evidenza: così non ci sarebbe mai riuscita. Poi lo sguardo le cadde sul tappeto, abbandonato poco distante. Corse a prenderlo e riuscì in qualche modo a mettervi sopra Shim, quindi ne afferrò con forza il bordo e cominciò a tirare. Il peso non era certamente diminuito, ma in questo modo riusciva a spostarlo più agevolmente e riuscì a raggiungere la scalinata che conduceva al portone. A quel punto il sistema divenne inutile e fu costretta a sollevare il nano un po’ alla volta, scalino per scalino, fino all’ingresso. Arrivò con il fiatone, pronta a cercare qualcosa per sfondare una finestra ed entrare di là. Con sua somma sorpresa, non ce ne fu bisogno. Il portone non era chiuso ma accostato. Anche se non ne capiva la ragione, non le sembrava il caso di lamentarsi. Lo aprì del tutto e portò dentro Shim, che non accennava a svegliarsi. Gli mise il tappeto arrotolato sotto la testa. Ora doveva trovare qualcosa per coprirlo. Nel seminterrato c’erano dei teli che venivano usati di quando in quando per coprire i mobili e le scrivanie. Non erano il massimo, ma non riusciva a pensare a niente di meglio, perciò si diresse alle scale, aprì la porta del seminterrato e rimase attonita, trovandosi davanti a una scena che non avrebbe mai potuto immaginare. Il centro della stanza era stato quasi del tutto sgombrato, e ora vi si trovava una strana struttura metallica nella quale erano incastonati numerosi cristalli. Al centro di questa vi era un uomo che indossava una tonaca cerimoniale. Stava in piedi, con le braccia allargate verso l’alto e le mani aperte, ed era quasi possibile sentire l’energia che gli crepitava intorno mentre mormorava a un volume a malapena udibile delle parole del tutto incomprensibili. I cristalli reagivano a ciò che stava facendo, pulsando di una luce scura e regolare, come un immane cuore che batteva nel petto di un gigante. Qualcosa che sembrava un inedito ibrido tra luce e fumo si innalzava dalla struttura in volute spiraliformi elevandosi verso il soffitto della stanza, dove sembrava scomparire. Anche se non aveva mai assistito a nulla del genere, Amanda non ebbe bisogno che qualcuno le suggerisse di che cosa si trattava. Dopotutto non poteva essere un caso che proprio l’università si trovasse al centro dell’area di calma. L’uomo sembrava talmente assorto in ciò che stava facendo da non essersi accorto della sua presenza. Amanda rimase per un attimo incerta sul da farsi. Non sapeva cosa sarebbe potuto succedere se avesse

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interrotto il mago, però non pensava che le cose sarebbero potute diventare molto peggio di come già erano. Si portò la mano al fianco e sfilò dal fodero la sua bacchetta, che questa volta era riuscita a non perdere. Era simile a quelle in dotazione agli agenti di pattuglia: i suoi colpi stordivano senza causare alcun danno permanente. La puntò e stava per usarla quando una voce sensuale le sussurrò «Non farlo.» CONTINUA...