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QUADERNI DI SEMANTICA Rivista internazionale di semantica e iconomastica An International Journal of Semantics and Iconomastics Anno XXVIII, n. 2, dicembre 2007 Vol. XXVIII, n° 2, December 2007 Saggi Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ’ndranghe- ta: un esperimento di Archeologia Etimologica, di Mario Alinei ... 247 Studio iconomastico dei nomi della ‘pupilla’ nelle lingue indoeuropee e nei dialetti romanzi, di Rita Caprini e Rosa Ronzitti ............ 287 L’escargot, avec sa maison sur le dos, et images analogues. Essai autour d’une matrice sémantique, de Stella Medori .................. 327 Zana, di Franco Benucci .................................... 359 Sull’ortografia del siciliano. Considerazioni in margine a uno scritto re- cente, di Salvatore C. Trovato ............................. 397 La expresión (intransitiva) del sentimiento en gallego, de Xosé Soto Andión .............................................. 405 Il movimento e il sacro: sul significato di ≤erÒj, di Rossana Stefanelli ... 427 Radici celtiche tardo-neolitiche della cavalleria medievale, di Francesco Benozzo ............................................. 461 Recensioni La fiaba e altri frammenti di narrazione popolare. Convegno internazio- nale di studio sulla narrazione popolare (Padova 1-2 aprile 2004), a cura di L. Morbiato, Firenze, Olschki, 2006, di Francesco Benozzo .. 487

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QUADERNI DI SEMANTICARivista internazionale di semantica e iconomastica

An International Journal of Semantics and Iconomastics

Anno XXVIII, n. 2, dicembre 2007 Vol. XXVIII, n° 2, December 2007

Saggi

Origini pastorali e italiche della camorra, della mafia e della ’ndranghe-ta: un esperimento di Archeologia Etimologica, diMario Alinei . . . 247

Studio iconomastico dei nomi della ‘pupilla’ nelle lingue indoeuropee enei dialetti romanzi, di Rita Caprini e Rosa Ronzitti . . . . . . . . . . . . 287

L’escargot, avec sa maison sur le dos, et images analogues. Essai autourd’une matrice sémantique, de Stella Medori . . . . . . . . . . . . . . . . . . 327

Zana, di Franco Benucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359

Sull’ortografia del siciliano. Considerazioni in margine a uno scritto re-cente, di Salvatore C. Trovato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 397

La expresión (intransitiva) del sentimiento en gallego, de Xosé SotoAndión . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 405

Il movimento e il sacro: sul significato di ≤erÒj, di Rossana Stefanelli . . . 427

Radici celtiche tardo-neolitiche della cavalleria medievale, di FrancescoBenozzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 461

Recensioni

La fiaba e altri frammenti di narrazione popolare. Convegno internazio-nale di studio sulla narrazione popolare (Padova 1-2 aprile 2004), acura di L. Morbiato, Firenze, Olschki, 2006, di Francesco Benozzo . . 487

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di FRANCO BENUCCI

Occasione prossima di questo contributo è il bel volume che Alberto Rizzi– già funzionario di varie Soprintendenze ai Beni Artistici e Storici e quindiattaché culturale presso l’Ambasciata italiana a Varsavia, nonché accanito ‘cac-ciatore di leoni di pietra’1 – ha dedicato recentemente a Casto, Comune dellabresciana Valsabbia dove, dopo il rientro dalla missione diplomatica, ha fissatola propria residenza secondaria [Rizzi 2004]. Benché condotta con l’occhio e ilcuore di uno storico dell’arte2, l’opera mantiene fede all’ambizione espressanel sottotitolo e fornisce quindi una completa panoramica anche sulla storia el’ambiente delle sette borgate Savallesi che formano oggi il Comune di Casto,fornendo per ognuna un breve ma efficace ‘profilo’ caratterizzante e soffer-mandosi – oltre che su chiese e oratori (di cui sono pubblicati gli aggiornatiinventari degli oggetti e arredi liturgici e alcuni importanti documenti storici),santelle e affreschi devozionali – anche sulle epigrafi presenti nelle varie frazio-ni, le antiche case superstiti, gli itinerari escursionistici che collegano i diversinuclei demici tra loro e con l’esterno, le personalità salienti della storia locale,i testi giornalistici che dal 1892 al 1988 hanno trattato diffusamente del Co-mune, l’antica documentazione cartografica e fotografica, le leggende locali, i‘fasti’ civili ed ecclesiali delle varie comunità, ecc.Particolare attenzione è posta in vari punti del volume, ma specialmente

nelle sezioni dedicate agli itinerari, ai toponimi e microtoponimi locali, di cuisono spesso presentate e discusse le varie versioni e ipotesi etimologiche: nel-l’estate del 2005, nel preparare prima (con tale guida e con le tavolette IGMdella zona) e nel realizzare poi una visita ‘a piedi’ ad Alberto Rizzi nel suo buen

QUADERNI DI SEMANTICA / a. XXVIII, n. 2, dicembre 2007, pp. 359-396.

1 La definizione, di matrice giornalistica, allude alla sua impresa di maggior respiro, allaquale mi onoro di collaborare da vari anni quale informatore (e di recente coautore) per Padovae il padovano: il censimento e lo studio degli innumerevoli esemplari antichi e moderni delsimbolo veneto, che dopo una nutrita serie di pubblicazioni preliminari, avviata nel 1981 e arti-colata per aree territoriali e per tipologie, ha dato luogo a una monumentale edizione del corpusmarciano [Rizzi 2001] e ancora prosegue con numerosi interventi di aggiornamento, incremen-to e messa a punto.

2 Peraltro ben integrati dall’introduttivo saggio storico di Alfredo Bonomi, che, per le variecontrade del Comune, segue dal 1253 a oggi «lo scorrere della storia tra assestamenti istituzio-nali e religiosi in una quotidianità di continua operosità».

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retiro di Alone di Casto – vero finis terrae a poca distanza dallo spartiacquecon la Valtrompia, da cui allora provenivo (cfr. Rizzi [2004: 169]) – la mia at-tenzione era attirata da «la cosiddetta “Casa delle Streghe”, […] un cóvoloaprentesi su di un alto sperone calcareo posto alla confluenza tra il torrenteche scende da Alone ed il suo affluente Pissòt», circa a tre quarti della stradache unisce la frazione al capoluogo: «localmente è conosciuta come Corna del-la Zana, toponimo di oscuro significato» [Rizzi 2004: 72]. Per quanto «oscu-ro», il toponimo locale non mancava di evocare curiose consonanze, forse al-trettanto oscure o comunque non in grado di illuminarne direttamente il si-gnificato, ma sufficienti ad accendere e mantenere il fuoco dell’interesse, con-cretizzatosi poi nella più ampia ricerca di cui è frutto il presente scritto. SeCorna è, in area lombarda, nome generico di cime e spuntoni rocciosi3, noncorrispondente quindi ad alcun elemento del toponimo ‘ufficiale’ ma per il re-sto del tutto privo di oscurità, rimaneva da verificare se la misteriosa Zana po-tesse corrispondere alla Casa della versione italiana, o piuttosto (salvo la dis-cordanza di numero, ma tenuto conto che la caverna in questione è «chiamatacosì anche per il carattere terrifico della forra in cui si trova», localmente an-che «conosciuta come valle delle streghe» [Rizzi 2004: 72, 74 n. 22]) alle Stre-ghe della stessa versione.Nella prima ipotesi (‘*cima della casa’), si potrebbe pensare a stabilire un

confronto tra la nostra Zana [·zana] e il chiavennasco zána [·tsana] ‘improntanell’erba, gen[eralmente] lasciata da un animale che vi ha riposato’, zanè[tsa·nE] ‘calpestare, lasciare l’impronta’ [Scuffi 2005: 395] il cui etimo è palese-mente lo stesso dei termini italiani zana ‘culla, avvallamento, conca, bacino,cesta’, zanella ‘fossetta, canaletta’, zaino, zangola (‘da burro’ e ‘da ventre’), cioèil longobardo zaina ‘cesta’. Malgrado la differenza fonetica dell’iniziale (peral-tro non irrilevante: [z-] ~ [ts-]) e la non perfetta corrispondenza dell’immagineevocata (cóvolo = casa ~ cunetta avvolgente), sembrerebbe deporre a favore diquesta ipotesi la vicinanza culturale e geografica (pur nella secolare diversa ap-partenenza politica) tra la Valsabbia e la Valchiavenna: l’ipotesi parrebbe ulte-riormente rafforzata dall’esistenza, nella stessa area valtellinese, in una lateraledella Valmalenco (Val Torreggio, nel gruppo del monte Disgrazia, Comune diTorre S. Maria) di un complesso oronimico quasi omonimo della nostra Cor-na della Zana e costituito da Corna di Zana, Bocchetta di Zana (2417 m.),Colma di Zana, Lago di Zana (2280 m.) e Alpe di Zana (2100 m.). La lettera-tura alpinistica consultata lascia però intendere che il nome dell’intero com-plesso deriva da quello de «l’ampia conca denominata Colma di Zana», in cuisi trovano il Lago e l’Alpe con la malga, che costituisce la parte sommitale diuna valle altrimenti stretta, scoscesa e «non adatt[a] al pascolamento del be-stiame» ed è a sua volta dominata dalla Corna e dall’adiacente «stretta porta»(Bocchetta) che la mette in comunicazione col versante valtellinese: in altre

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3 Esatto corrispondente quindi del più diffuso Corno (cfr. Gnaga [1937: 200-1]): nel raggiodi pochi chilometri da Casto si incontrano la Corna di Savallo, la Corna di Mura, la Corna diConolino, la Corna Rossa, la Corna di Caspai, ecc.

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parole, si tratta di un ampio bacino pensile che, visto dalle montagne circo-stanti, offre l’immagine di una grande zána ‘impronta nell’erba, cunetta’4.Nulla di tutto ciò si riscontra invece nel caso della Corna della Zana di Casto,che costituisce un tozzo spallone della montagna Carpella, bruscamente preci-pitante nella valle sottostante e nella cui parete si apre la «Casa delle Streghe»:l’ostacolo fonetico (superabile solo a patto di assumere come origine della for-ma bresciana una scorretta ricezione dell’italiano (scritto) zana ([ts] > [dz] >[z]) e quindi una datazione abbastanza recente della formazione toponomasti-ca, che sembrerebbe però contrastare con la sua oscurità semantica) e l’invero-simiglianza geomorfologica spingono quindi a scartare questa ipotesi. Lo stes-so termine zana, nella forma e nell’accezione italiana e valtellinese, sembra in-fatti ignoto al bresciano d’ancien régime, come suggerisce la serie di traduzioniproposte da Pellizzari [1759: s.v.]: «Zana - Cavàgn, cuna, sesta», cioè ‘canalet-ta, culla, cesta’.Nettamente più percorribile, alla luce della fonetica storica del bresciano,

appare invece la seconda ipotesi (‘*cima della strega’): in bresciano infatti, co-me in altre varietà padane, una delle possibili origini di [z] nei termini di deri-vazione popolare è il nesso latino [dj] (cfr. DEORSUM > zó ‘giù’, HORDEOLUS >orzœl ‘orzaiolo’, MEDIU(S)DIES > mezdé ‘mezzodì’, TRE(S)MODIA > tramòza ‘tra-moggia’; e con regolare assordimento in posizione finale: HORDEUM > órs ‘or-zo’, LAPIDEUS > laés ‘laveggio, vaso di pietra ollare’, MEDIUS > mès ‘mezzo’, ME-RIDIES > merés ‘meriggio’)5, il che permette di analizzare la nostra zana [·zana]come regolare esito popolare di DIANA, teonimo pagano reinterpretato in epo-ca di cristianizzazione (al pari di altri) come sinonimo di dèmone, e che ha da-to poi luogo in tutta la Romània, con una facile serie di slittamenti semanticie con le regolari evoluzioni fonetiche caratteristiche delle diverse varietà, ai

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4 Cfr. per tutti: Gli alpeggi della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, disponibile al sitohttp://www.cmsondrio.it/libri/libro_alpeggi.htm e Massimo Dei Cas, Il Sasso Bianco, fra Valma-lenco e media Valtellina, al sito http://www.webalice.it/massimodeicas/medialtavaltellina.htm,da cui citiamo nel testo. Per la vicina area orobica, Boselli [1990: 331] riporta del resto i topo-nimi Zangone (BG) e Zancone (lago, SO), entrambi ipoteticamente ricondotti a zana, zangolacon un’interpretazione di ‘conca profonda’.

5 Cfr. Rohlfs [1966: 247], che peraltro non accenna specificamente al bresciano, AIS[I.195, II.253, 338, IV.662-4, 698, V.958, VI.1186, VII.1447]. Anche il termine zágo, nell’e-spressione fá de zágo ‘far cotenne, far superbia’ riportata da Pellizzari [1759: s.v.], è riconducibi-le a DIAC(ON)US (con facile slittamento semantico: ‘darsi arie, comportarsi come un chierico’),come in veneto e come altrove in Lombardia (cfr. Meyer-Lübke [19353: 239 nr. 2623]), e non aSEBUM (cfr. italiano > sevo > sego) il cui esito bresciano (e lombardo in genere) è séf (localmentehéf: cfr. AIS [V.910]). Altre possibili origini del bresciano [z] sono [j], [li], [dz] (z greco), [dJ](antico francese o latino ‘volgare’), il che stabilisce una sistematica corrispondenza tra [z] bre-sciano e [dJ] italiano (e milanese): cfr. Rohlfs [1966: 212-5], Melchiori [1817: lettera Z] e Rosa[1877: lettera Z] (zachèt ‘giacchetta’, zei ‘giglio’, zel ‘gelo’, zelusìa ‘gelosia (serramento)’, zenèr‘ginepro’, zenér ‘gennaio’, zenöcél ‘ginocchietto, ginocchiera’, zèrla ‘gerla’, zigol(ér) ‘giunc(aia)’,zìzola ‘giuggiola’, zónta ‘(ag)giunta’, zœdé ‘giudeo’, zög ‘gioco’, zœgn ‘giugno’, zömelà ‘gemellare,raddoppiare’, zuf ‘giogo’, ecc.) e le corrispondenti voci in AIS. Come altrove, il termine autoc-tono per ‘giorno’ è dé (< DIES), mentre la serie diámber, diánser ‘diamine!’, diana ‘spuntar delgiorno’, diáol ‘diavolo’, diaolì ‘diavoletto, bimbo irrequieto’, diaolère ‘diavoleria’, diaolù ‘diavoli-ni, zuccherini speziati’, (erba) diaolùna ‘menta’ (Rosa [1877: lettera D]) è evidentemente di ori-gine dotta o semidotta.

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termini per ‘strega’, ‘maga’, ‘ninfa’, ‘fata’, ‘incubo’, ecc.6 Particolare interesse ri-vestono, in questo panorama panromanzo (v. n. 6) i casi della Sardegna e della

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6 L’interpretazione di Diana (da cui anche Dianus) come ‘demonio’ è ampiamente docu-mentata in numerosi testi bassolatini, dai quali emerge anche una relativa specializzazione deltermine per designare i dèmoni delle zone boschive e montuose (come è quella che stiamo con-siderando: per le citazioni seguenti cfr. Du Cange [1883-87: III.99], Wesselofsky [1888: 328-9], Huet [1901: 35 n. 1], Thomas [1905: 201-2], Serra [1954-58: I.265-6]): «In civitate [Ticini…] nequissimi idolorum cultores […] habebant templum compositum, ubi Dianae et Sathanaesacrificabant» (Passio Ambrosiana di S. Dalmazzo, martire sotto Diocleziano), «Dæmonium,quod rustici Dianum vocant» (Vita di S. Cesario d’Arles, 470-542 c.), «nullus nomina dæmo-num aut Neptunum, aut Orcum, aut Dianam, aut Minervam, aut Geniscum […] credere autinvocare præsumat» (Vita di S. Eligio di Noyon, 588 c.-660), «Multi dæmones ex illis qui decælo depulsi sunt […] homines ignorantes Deum quasi deos colunt et sacrificia illis offerunt. Etin mari quidem Neptunum appellant, in fluminibus Lamias, in fontibus Nymphas, in silvisDianas, quæ omnia maligni dæmones et spiritus nequam sunt, qui homines infideles, qui si-gnaculo crucis nesciunt se munire, nocent et vexant» (S. Martino di Braga, 515-580 c., De cor-rectione rusticorum). L’ulteriore passaggio di Diana dal valore di ‘demonio’ a quello di ‘strega’ –mediato forse dal termine dianaticus ‘stregone, Dianæ cultui addictus’, attestato nei Sermones diS. Massimo di Torino, † 466 («Cum […] videris saucium vino rusticum, scire debes quoniam,sicut dicunt, aut Dianaticus aut aruspex est; insanum enim numen insanum solet habere ponti-ficem: talis enim sacerdos parat se vino ad plagas Deæ suæ, ut dum est ebrius, pœnas suas miseriste non sentiat»), e già implicito in brani come il seguente: «Quædam sceleratæ mulieres retropost sathanam conversæ dæmonum illusionibus et phantasmatibus seductæ, credunt se et profi-tentur nocturnis horis cum Diana paganorum dea et innumera multitudine mulierum equitaresuper quasdam bestias, et multa terrarum spatia intempestæ noctis silentio pertransire» (da unCapitolare di Ludovico II dell’867: testi analoghi sono assai frequenti nella patrologia latina enei testi sinodali fino al XIV sec.), dove è descritto il ‘volo delle streghe’ («mulier[es] quae va-dunt ad cursum cum Diana», secondo gli Acta del b. Giacomo da Bevagna, 1220-1301) chetanta fortuna ebbe poi nell’immaginario collettivo e nelle arti visive di età medievale e moderna– sembra compiuto in un noto passo di una bolla di papa Giovanni XXII, del 1317: «Divina-tionibus et sortilegiis se immiscuerunt perperam, Dianis nonnunquam utentes», dove il conte-sto e il plurale Dianis orientano chiaramente verso tale interpretazione (cfr. già Huet [1901: 34n. 1]). La progressiva affermazione del nuovo significato nel latino cristiano e medievale è con-fermata, come accennato nel testo, dalla molteplice evoluzione della forma e del correlato signi-ficato nelle varie lingue romanze che, come da molto tempo riconosciuto (cfr. Meyer-Lübke[19353: 239 nr. 2624]), presentano il seguente ‘spettro’ formale e semantico: portoghese jã [J-],algarvio zã [z-], galego xan [P-] ‘fata, filatrice notturna, strega, ninfa’ (cfr. anche galego xaira <xaneira ‘fantasma, apparizione notturna’ [Corominas-Pascual 1980-91: V.849-50]); antico casti-gliano jana [(d)J-] ‘fata’ (cfr. santanderino onjana ‘maga, strega’ [Corominas 1954: IV.766]);asturiano xana [P-] ‘fata, ninfa’ [Menéndez Pidal 1900: 376-3]; catalano jana [dJ-] ‘fata, stre-ga’; antico francese gene [dJ-] ‘strega’ (cfr. anche engineauder ‘stregare’ [FEW: III.66, con indi-cazione di molte varianti locali moderne]; il riferimento all’ambiente montuoso è esplicito inDolopathos, 8720-4: «les genes ne tarderent mie […]: des montaignes les vi dessandre, anvirondrues et espesses; je cuidai ce fussent singesses»); antico provenzale jana [dJ-] ‘incubo’ [Thomas1905: 201-2]; milanese gian(a) ‘mago, strega’ (cfr. anche dass a gian ‘darsi al diavolo, alle stre-ghe, disperarsi’, gibigian ‘ammaliato, fissato’, gibigiana ‘balenìo riflesso, riverbero, fantasma, dia-voleria’ [Cherubini 1839: II.216, 218], [Migliorini 1927: 312], [DELI: II.494]; per quest’ulti-mo termine v. anche sotto, n. 9); antico toscano jana ‘strega, maga’ (così Novati [1906], emen-dando ms. nana ‘maga’ di un passo di Brunetto Latini: logica grafica e fonetica storica del tosca-no suggeriscono forse una migliore restituzione grafica jiana e una corrispondente resa fonetica[·dJana]; cfr. anche ciociaro aggianà ‘terrorizzare’ [Rohlfs 1925: 156]); abruzzese jana ‘strega,maga’, janura ‘stregone’ (cfr. anche lupêjanaru ‘licantropo’ [Giammarco 1986: 277-8]); molisa-no e campano janárê ‘mago, strega, arpia’ (cfr. anche janarirê ‘ammaliare’, janarutê ‘stregato’,janarízio ‘conventicola di streghe’ [Altamura 1956: 131]); salentino sciana ‘umore, luna’ (cfr.anche scianarê ‘lunatico’ [Merlo 1920: 139], [Rohlfs 1966: 247]); logudorese dzána [dz-], sardocentrale yána [j-], campidanese &gána [dJ-] ‘fata’ (localmente anche ‘strega’, cfr. anche ir&ganadu‘sfortunato, colpito dal malocchio’ [Wagner 1960-62: II.707-8]); rumeno zîn&a [z-], moldavo e

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Catalogna, le cui forme linguistiche (pur in mancanza di significativi rapportistorico-culturali antichi tra quelle aree e la Valsabbia) presentano con la nostraZana un parallelo non solo formale e semantico (DIANA > log. dzána [dz-], sar-do centr. yána [j-], camp. &gána [dJ-]; cat. jana [dJ-], žána [J-], yana [j-], ‘fa-ta, strega’), ma anche fattuale, etnografico e toponimico: fate e streghe sonoinfatti ritenute in Sardegna «abitatrici dei nuraghi e delle caverne preistoriche,chiamate per l’appunto dòmos ≥ de yánas […] dòmor de sar yánas e sim.» [Wag-ner 1960-62: II.707-8]7 e analogamente, in ambito catalano, il termine janasi utilizza perlopiù «per a les fades que habiten en coves, sovint vora les fonts»ed è spesso passato nella toponimia a designare le grotte stesse o i monti in cuiqueste si aprono (cfr. Corominas-Pascual [1980-91: V.849], Coromines[1980-2001: IV.876-7]8). Non è del resto escluso che analoghi sviluppi se-mantici, etnografici e toponimici si possano individuare in altre aree linguisti-che, di cui ci manca però la documentazione.Se, da un lato, l’ipotesi interpretativa di Corna della Zana come ‘cima della

strega’ sembra ben fondata sui numerosi paralleli (sia formali che sostanziali)di ambito panromanzo e sulla stessa tradizione toponomastica locale, dall’altroè innegabile che il nostro toponimo costituisca fino ad oggi un’attestazione deltutto isolata (e peraltro anche localmente «oscura») di un esito di DIANA ‘stre-ga’ nell’area lombarda orientale, caratterizzata sul piano fonetico dal passaggiodiacronico [dj] > [z]. Proprio una considerazione di fonetica storica, già accen-nata a n. 5, offre tuttavia una possibile spiegazione di tale isolamento: con ilconguaglio degli originari [dj] e [j] (o, se si vuole, con la precoce riduzione a[j] dell’originario [dj]: cfr. la citatissima glossa «Jana - dea silvarum», cioè Dia-na, del Corpus glossarum latinarum, V.459.55), accomunati in bresciano (cosìcome in veneto, ecc.) nell’esito [z] (e analogamente in toscano, milanese, ecc.> [dJ], e così via nelle varie lingue romanze), ogni ipotetica zana (o rispettiva-mente giana, ecc.) < DIANA era potenzialmente esposta a una convergenza congli esiti di JOHANNA (in prima istanza Zoanna o rispettivamente Gioanna,ecc.), che poteva giungere fino all’identità in funzione della tendenza della va-rietà locale a ridurre, in quest’ultimo termine, lo iato a dittongo (e a monot-tongo) e a scempiare le consonanti (come in veneto > Zuana > Zana e rispetti-vamente in toscano > Gianna, milanese e piemontese > Giana, ecc.).

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macedorumeno dzîn &a [dz-], meglenorumeno zon &a ‘fata’ (cfr. anche z &an &atic ‘maniaco, fissato,stregato’ e macedorumeno dzîn ‘spirito cattivo, demonio’; inoltre albanese zanë [z-] ‘fata selvati-ca’ [Papahagi 1963: 435], [Cioranescu 1966: 915]).

7 Cfr. anche Guarnerio [1891: 68] che definisce domos de janas «quella specie di piccolegrotte scavate nella roccia, che si incontrano nella Sardegna, in ispecie presso Bonorva», nel Lo-gudoro, e correla l’alternanza jana/&gana a «la posizione sintattica» del termine piuttosto che allavarietà diatopica (non accenna peraltro a dzána).

8 Tra i toponimi più significativi citati da quest’ultimo riportiamo ad es. (tutti di area pire-naica) «Las Yanas […] en els cingles plens de cavitats […] de l’Isàvena», i due «Forat(s) desŽánes, […] rocam[s] ple[ns] d’avencs» e la «Casa la žána, nom d’un camp […] on hi ha pas capcasa però sí una cova», tutti nell’alto Pallars (Flamicell), e l’antico (1518) «Rochayano a la Rochade la Trapa», nel basso Pallars: «el nom d’aqueixa Trapa fa creure que hi havia algun avenc o fo-rat a terra, i l’altre nom d’aquestes cingleres es deu haver de descompondre en Roca-Yano […]‘roca de les Janes’».

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I possibili equivoci prodotti da una simile convergenza degli esiti formali,che poteva raggiungere anche in bresciano l’assoluta identità tra zana < DIANA

e Zana < JOHANNA, se da un lato esponevano alla possibilità di incomprensio-ne (e di progressiva perdita) del valore originario del termine in un dato con-testo, dall’altro si prestavano anche a essere intenzionalmente ‘coltivati’ a fini‘eufemistici’ o di aggiramento della censura ecclesiastica e sociale che indub-biamente gravava sull’invocazione di Diana come nome del ‘demonio’ e delle‘streghe’ (v. n. 6)9; nel caso del nostro toponimo, tale concorso di fattori acci-dentali e intenzionali deve aver portato in progresso di tempo alla reinterpre-tazione del significato originario di Zana (da ‘Diana-strega’ a ‘Gi(ov)anna’),con un primo oscuramento del suo valore complessivo, destinato ad aggravarsiulteriormente e definitivamente in tempi relativamente recenti, anche a causadella diffusione della versione ‘milanese’ (e poi ‘italiana’) del nome Gian(n)a(ciò è probabilmente avvenuto nel corso del XIX sec., dopo la formazione delRegno Lombardo-Veneto, che espose l’area alle dirette influenze linguistiche eculturali del milanese sottraendola a quelle di Venezia: cfr. già AIS [I.84] perla quasi uniforme presenza del maschile Gio/uàn anche nell’area lombardaorientale e veneta anticamente caratterizzata da Z(u)ane): un’evoluzione cuinon è più sufficiente a recare rimedio la locale tradizione relativa alla valle del-

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9 Si noti che tale equivoco non sembra né isolato né postulato ad hoc: analoghi casi di pro-babile fraintendimento o sostituzione tra una ‘Diana-strega’ e una ‘Gianna’, anche in lingue incui le due forme non presentano identità assoluta, sono segnalati infatti in catalano e in proven-zale (secondo Coromines [1980-2001: IV.877], per il catalano esempi del probabile equivocosarebbero «una copla popular menorquina» in cui si tratta di una «“Joana, guillana [leggiadra],an es cap de cantó, […] que fila cotó”. Però una dona que fila en un “cap de cantó” ens fa pen-sar més aviat en alguna filadora mítica» (cioè una jana, v. n. 6) e il proverbio dell’Alta Catalo-gna «“El temps passa i la Joana balla!”» riferito a «la durada excessiva i perillosa d’una cosa», incui ritiene che in origine si alludesse non a una sconosciuta Joana, ma a «la dansa fatídica i alar-mant d’una jana (dona d’aigua o bruixa) a la manera de les Naiades tripudiantes i les B£kcai co-reÚousai dels clàssics. […] Molts han pres, doncs, aquesta jana per una Joana»; analoga situa-zione si presenterebbe nel proverbio provenzale moderno «“sabe mounte dor Jano”, que Mistral[…] explica “je sais la cachette de Jeanne”, però com tot seguit aclareix que és com dir “je saisoù il y a de l’argent”, més que en el nom d’una Joana qualsevol fa pensar que es refereixi a unamagatall de tresors en una “casa de jana”»), in rumeno (il nome delle Sînziane, fate che le bal-late popolari celebrano per la loro bellezza e presentano come personificazioni della luna, sareb-be risultato da un incrocio tra gli esiti di DIANA ‘Luna’ (> zîn&a ‘fata’) e SANCTUS JOHANNES passa-to al femminile (SANCTA JOHANNA > Sînzian&a): «quando con l’introduzione del Cristianesimoparecchi miti pagani ricevettero un’impronta cristiana, avvenne un incrocio tra Diana e SanGiovanni […] e si attribuì alla prima il nome del secondo, tanto più che gli esiti rumeni sonoassai simili»; cfr. Tagliavini [1928: 180-2], Cioranescu [1966: 915-6]), in milanese (dove il gia-na ‘strega’ di gibigiana è stato spesso ortografato e interpretato come gianna < JOHANNA: cfr. Mi-gliorini [1927: 312]; per il rapporto tra i riflessi luminosi e le streghe, presente in gibigiana, cfr.anche Corominas-Pascual [1980-91: V.849] a proposito del termine catalano «janes para las ha-das que habitan en cuevas, […] con muchas historias de ropa lavada y tendida, resplandecientedesde lejos a la luz del sol») e in abruzzese («è probabile che le voci [derivate da DIANA] si sianoincr[ociate] con Joana n[ome] pers[onale] ‘Giovanna’» [Giammarco 1986: 277]). Un dubbiointerpretativo analogo è sorto anche per il piemontese giana ‘donna furba’, che lo stesso Miglio-rini [1927: 233] colloca tra gli esiti di JOHANNA sulla base di una tradizione lessicografica risa-lente al XVI sec., aggiungendo però «ma ciò non basta a togliermi il sospetto che in questo gia-na si possa invece vedere una sopravvivenza di DIANA […], raccostata tardivamente a JOHANNA»(v. però sotto, n. 25, per una nostra diversa valutazione, più vicina alla tradizione).

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le streghe, che «sia pure confusamente, affiora» ormai solo presso gli ultraottua-genari del capoluogo Casto (ma non della frazione Alone: cfr. Rizzi [2004: 74n. 22]), e la stessa versione italiana del toponimo «Casa delle Streghe».Se l’analisi qui sviluppata dell’originario significato del toponimo Corna

della Zana (e delle probabili cause e dinamiche del suo oscuramento) coglienel segno, essa lascia tuttavia irrisolto un aspetto non secondario e apparente-mente altrettanto oscuro delle vicenda semantica ricostruita: cioè, se la proba-bile reinterpretazione di Zana ‘strega’ come ‘Gi(ov)anna’, resa possibile dallaconvergenza fonetica dei due etimi, rispondeva a esigenze ‘eufemistiche’ e so-ciali, su cosa giocava in effetti tale trapasso? Quali erano gli elementi culturalie comunicativi che lo rendevano possibile? L’oscurità e l’isolamento del nostrotoponimo, in fondo perduranti malgrado quanto detto finora, spingono alloraa collegare il misterioso Zana di Casto a un’altra oscura occorrenza dello stessotermine, da lungo tempo osservata, attestata nell’araldica veneziana e precisa-mente nella blasonatura dell’arma gentilizia dei Zane, una delle più facoltose«case vecchie» del patriziato veneto, che secondo la tradizione10 «venero daMoncelese à Malamoco vechio e da quel luogo pasa à Rialto insieme con altremolte fameglie de Zentilhomeni […] et fureno acettadi al governo del GranConseglio con li Bembi, Bragadini, et altre casade avanti del 800 […] furonoTribuni antiquissimi, et è una delle 24 fameglie tribunitie». Secondo Freschot[1707: 438], la Casa Zane «porta d’azurro, diviso [troncato] d’argento conuna Zana, ò Volpe rampante de colori opposti. Altera di colori la seconda diquest’Arma, che in un campo tutt’azurro forma una Volpe tutta bianca»: zanasignificava dunque un tempo ‘volpe’ e l’insegna dei Zane va perciò considerataun’arma ‘parlante’, alla stessa stregua di quella dei Capello (un cappello), deiCicogna (una cicogna), dei Da Ponte (un ponte), dei Dolce (una pantera, det-ta appunto ‘dolce’ dai bestiari medievali), dei Dolfin (uno o più delfini), deiMolin (una ruota di mulino), ecc. Se l’araldista settecentesco si premurava di‘tradurre’ il termine, all’epoca probabilmente già oscuro, minore scrupolo siponevano i suoi predecessori del XVI sec. (mss. BUP 167: 48v e BCP CM739: s.v.), per i quali (a prescindere dalle varianti figurative descritte a com-mento di più esplicite rappresentazioni iconografiche dell’arma di famiglia)esso doveva avere significato del tutto scontato: «Alcuni portano la Zana insbara [banda], et alcuni in rampante con una gorziera rossa al collo, et questoper certe sue fantasie […] e ben che portano due Arme pur sono una casa me-desma». Chiaro in questo caso (anche se opaco forse già all’inizio del XVIIIsec.) il significato di zana, resterebbe da chiarire la varietà linguistica a cui iltermine apparteneva, evidentemente nota nella Venezia rinascimentale (e pre-

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10 Cfr. ad es. i mss. 167 (Cronica di nobili famiglie venete, sec. XVI: 48v), 206 (Casade vene-ziane, 1566-67: 149v) e 825 (Origine & armi de nobili fameglie Venete, sec. XVII: 161v) dellaBiblioteca Universitaria di Padova, recanti l’ex libris di Lorenzo Antonio Da Ponte, da cui sonotratte le citazioni che seguono, e analogamente (salvo qualche discrepanza di date) il ms. CM739 della Biblioteca Civica di Padova (Tutte le case che son state dal Prencipio di Venetia per finaall’M.D.LX: s.v.).

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sumibilmente medievale), ma altrettanto evidentemente non identificabilecon il veneziano né con alcuna varietà veneta, almeno a giudicare dagli esitimoderni, e ciò malgrado la dichiarata origine veneto-euganea della casata11.Anche se nulla sembra collegare l’origine dei Zane a Brescia e alla Valsab-

bia12, e anche se Pellizzari [1759: s.v.], Melchiori [1817: s.v.], Bettoni [1884:175] e Gnaga [1937: 646] riportano come nomi della volpe nel Bresciano(«comune in tutto il territorio») solo le varianti volp, ólp e golp, riconoscere an-che nella interpretazione recenzione del valsabbino zana un termine per ‘vol-pe’ sembrerebbe costituire una suggestiva ipotesi di lavoro in vista della gene-rale comprensione e assegnazione linguistica del termine stesso e offrire inoltreuna plausibile spiegazione della reinterpretazione ‘eufemistica’ del toponimoCorna della Zana (allora ‘*cima della volpe’), in considerazione sia della mor-fologia della zona che della sua verosimile frequentazione faunistica, confer-mata anche dall’esplicito Ca de volpi indicato dalla cartografia militare sull’op-posto versante della valle di Alone, in corrispondenza di un’area della costieraa Nordovest della borgata e a circa 2,5 km. dalla «Casa delle Streghe». La ri-flessione sulla comune forma fonetica della zana veneta e di quella valsabbina([·zana]) offre un indizio in questo senso e permette inoltre un aggancio ad al-tre occorrenze del termine, passate finora inosservate, e a un più ampio oriz-zonte culturale, di respiro europeo e verosimilmente di spessore storico piùche bimillenario.Come si è già ripetutamente accennato, sia in veneto che in bresciano (e

più in generale nel lombardo orientale), infatti, [z-] corrisponde all’italiano[dJ-]: tenuto conto anche del sistematico scempiamento delle geminate in talivarietà, la forma zana è quindi l’esatto corrispondente di gianna, forma sinco-pata di Giovanna13. Ora, se è evidente che Gi(ov)anna non significa di per sè

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11 Né la situazione cambierebbe pensando a un’origine greca della parola – ipotesi nonescludibile a priori e puntualmente verificata per molti termini e toponimi veneziani (cfr. Pelle-grini G.B. [1987: 125-51]), ma ovviamente non percorribile nel caso di zana ‘volpe’ – o volen-do dare credito alle antiche Croniche citate da Marco Barbaro, Arbori de’ Patritii Veneti, ante1536 (ma copia 1733-34: ms. Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea Codici I, Storia Veneta17: VII.319), che riconducono le origini della famiglia a Eraclea (e quindi all’antica Oderzo) oaddirittura a Capua.

12 I primi rapporti della famiglia Zane con Brescia sembrano risalire ai due episcopati suc-cessivi di Lorenzo (1478-1481) e Paolo (1481-1531) Zane, cui fece seguito nel XVI e XVII sec.l’esercizio di numerose magistrature civili e militari sia a Brescia che a Salò, da parte di varimembri del casato (cfr. Montini-Valetti [1987: 10], Tagliaferri [1978: LXXIII-LXXV], [1978a: LI-LV, 192, 203]).

13 Fin troppo noti sono i Zan(n)i (in origine bergamaschi: v. n. 25) della Commedia del-l’Arte e gli agionimi veneziani San Zan Degolà ‘San Giovanni Decollato’, San Zanipòlo ‘SantiGiovanni e Paolo’, San Zan Grisostomo ‘San Giovanni Crisostomo’, ecc.: allo stesso riguardovanno ricordati, tra i macrotoponimi, almeno il feltrino Sanzan, il vicentino Zanè (forma latinaZanade, lungamente discusso per una supposta derivazione da *(TERRAE) DIANATAE ‘esposte amezzodì’, ma saldamente ricondotto a un derivato di Johannes (*JOHANNATE o altro: v. sotto neltesto) dal decisivo confronto col San Zanè istriano: cfr. Olivieri [1903: 145], [1914: 119 n. 2,217], [1961: 39-40, 79], Gravisi [1909: 628], Prati [1914-15: 190 n. 2], Beltrame [1992: 255-6]; ancora dubbiosi Pellegrini G.B. [1990: 242] e Marcato [1990: 717] che ipotizza, con pocaconvinzione, un «riferimento a diana ‘luna’, nel senso di ‘lunat[e], a forma di luna’»), i trentiniZanon (di Fiemme e di Rabbi), Zanolin (di Fiemme) e Zanolli (di Vallarsa [Mastrelli Anzilotti

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‘volpe’, è anche ben noto che in molte culture regionali, anche transalpine, iltipo (comare/compare/zia/zio) Giovanna/i era il nome tabuistico della volpestessa – utilizzato al duplice scopo di evitare di nominarla esplicitamente (colrischio che sentendosi evocata venisse a razziare il pollaio) e, per contro, di in-graziarsela stabilendo con lei una sorta di parentela elettiva – e che in alcunicasi tale denominazione alternativa è giunta a obliterare quasi del tutto il no-me specifico dell’animale. Il caso più noto, perché entrato anche nelle Parità estorie morali di Serafino Guastella (nr. VII), e nelle Fiabe italiane di Italo Cal-vino (nr. 185), è forse quello della siciliana (palermitana e ragusana) cummariGgiuvannedda/Ggiuvannuzza (cfr. anche Pitrè [1944: 463-4]), ma l’elencazio-ne può comprendere anche l’ennese zzà Ggiuvanna, i sardi compare Giomma-ria (logudorese) e thiu Juanne (barbaricino), lo stiriano Hanserl ‘Giovannino’,gli altoaustriaci pfiffiger Hansl ‘Giovannino l’astuto’ e Holzhansl ‘Giovanninodella legna (del bosco)’, ecc.14 La Zana veneta e lombarda si colloca quindi in

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2003: 110, 320, 404]) e in area lombarda il cremonese Zanengo (di Grumello, anticamente Ioa-ningo, «aggett[ivo], con suff[isso] -engo, del n[ome] pers[onale] JOHANNES» [Olivieri 1961:587]) e i bergamaschi Zanelli, Zanetti, Zanino, Zanni e Zanola (tutti in vario modo da Zane‘Gi(ov)anni’ o da cognomi derivati [Boselli 1990: 331]). La stessa eziologia proposta negli Ar-bori di Marco Barbaro [VII.319] per il cognome Zane riconduce del resto la forma alla stessaorigine: «dice un antica Cronica […] che son disesi da un ser Zanetto Zen [di Eraclea, v. n. 11]uomo famoso à quel tempo, per l’eccelenzia del quale lasciorono il cognome Zeno, e si fecerodir Zanni».

14 Cfr. Alinei [1981: 366], Blasco Ferrer [2001: 199], Migliorini [1968: XLI-XLII], Piccitto-Tropea [1985: 263], Riegler [1933], Rolland [1908: 113-4], Wagner [1960-62: I.608]. Il feno-meno è più generale e comprende sia le denominazioni totemico-tabuistiche di molti altri ani-mali (v. n. 56) che quelle pure riferite alla volpe ma derivate da altri antroponimi, quali zi/cum-mari Rosa in Calabria,Mariane/i, Lodde (< Lollo < LAURENTIUS) e Gioseppe in altre aree della Sar-degna (che con i precedenti hanno ormai sostituito l’etimologico gúrpe quasi dovunque, sal-vo una piccola area al centro dell’isola e alcuni residui zoo-fito-toponomastici e tecnici: cfr. Wag-ner [1960-62: I.596-7, II.75]), amia Catarina a Poschiavo (Grigioni), Pedro in Spagna, (ger-mana) Guineu (< Winidhild) e Guilla (< Wisila) in Catalogna (del tutto lessicalizzati sostituen-do quasi ovunque l’etimologico volp; cfr. anche Ghèy’né e Guilha/Ghîlio in alcune zone del do-minio d’Oc: Coromines [1980-2001: IV.734-9, VII.24-5, IX.383], Rolland [1908: 112, 123]),Bastien in Francia (in origine gergo dei cacciatori, ma tutt’ora usato per ironia: cfr. «officielle-ment, je suis un renard […] officieusement, je m’appelle Bastien et j’ai 19 ans» al sito http://www.rpgkingdom.net/articles/Interviews-croisees--23-1.html), Löinl (< Leonhard) nel Palati-nato e in Baviera [Frazer 1922: 396], Pierre o Alanik in Bretagna [Sébillot 1906: 19-20], Mariain Grecia, García, Luki (< LUCIUS) e Azeari (< ASINARIUS) nei Paesi Baschi, Abu Hassan pressogli arabi, ecc. Il caso di Giovanna/i ‘volpe’ – stranamente del tutto ignorato da Garbini [1920],che cita, quale unico nome di mammifero basato su Giovanni, la parmigiana zana/zäna ‘scrofa,troia’ (e quindi ‘puttana’: [dz-]) – ci sembra però particolare, come diremo nel testo. Diverso è ilcaso del francese (compère) Renard (> Rinaldo, Reinhart), che pure ha completamente sostituitol’etimologico goupil (< VULPECULA), in quanto tale denominazione è frutto del successo ‘lettera-rio’ del medievale Roman de Renart, in cui il nome proprio del protagonista è semanticamentemotivato a partire dall’etimo germanico Reginhardt ‘forte nel giudizio, astuto’: del tutto analogoè il nome tabuistico frisone Renke (< Reineke ‘acuto nel giudizio’), mentre tipologicamente com-parabili, all’insegna della descrizione delle caratteristiche e abitudini dell’animale, sono lo spa-gnolo e portoghese raposo/a (valenciano, mallorchino e aragonese raboso/a) ‘dalla grande coda’(lessicalizzati a spese degli etimologici gulpeja/golpelha [Corominas 1954: III.1003-4, IV.765,865-6]), il sardo (settentrionale) mazzone ‘dalla coda a mazza’, il germanico Fuchs/fox in origine‘coda folta’ (cfr. sanscrito púcchah, ceco o-puš [Pokorny 19943: I.849]), l’islandese (e scandinavoantico) skaufi/skaufhali ‘(coda a) pennacchio’, il bassotedesco Unkel Dickstart/Dickschwanz ‘ziocoda grossa’, il tedesco Langschwanz ‘coda lunga’ («nach einem deutschen Volksglauben kann

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questo quadro onomasticamente coerente, ma variegato e curiosamente pola-rizzato sull’area alpina e sulle grandi isole, apportandovi nuovi tasselli territo-riali e linguistico-culturali.Le due attestazioni di zana ‘volpe’ fin qui considerate non sono infatti

emergenze isolate e relativamente lontane del fenomeno in esame, ma rappre-sentano piuttosto gli estremi di un continuum culturale documentato, sia purea maglie larghe e con la naturale variazione dialettale, da altre occorrenze e ri-chiami del termine nella stessa macroarea linguistica. Particolarmente espliciteci sembrano le testimonianze araldiche, raramente considerate nell’ambitodella ricerca dialettologica e linguistica, ma assai significative dal punto di vi-sta che qui ci interessa, almeno per quanto riguarda le c.d. ‘armi parlanti’, cherinviano direttamente alle forme di lingua documentate dai cognomi. Nellastessa Venezia, oltre al caso dei patrizi Zane, è interessante quello della cittadi-nesca famiglia Zancani, per la quale è documentata una ricca varietà di armi,tutte però riconducibili a due tipi iconografici: su campo partito di diversismalti e metalli, i vari rami del casato alzavano infatti in palo o un cane o unavolpe al naturale, rispecchiando così sul piano iconico la possibile (sebbeneprobabilmente paraetimologica: le forme Zancan(er) sembrano infatti da acco-stare all’etimologicamente oscuro sanco ‘mancino’) scomposizione della formalinguistica del cognome (zan(a)+can: ‘volpe+cane’); a Verona, invece – dovel’esito fonetico di [j-] alterna tra [dJ-], [ð-] e [j-] e si hanno quindi (accanto alveneto Zuàn(a)) le forme Gioàn(a), Dhuàn(a), Joàn(a)15 – la nobile famigliaGiona o Jona16 portava «di rosso al ponte di tre archi d’argento posto in banda

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der Fuchs seinen Schwanz nicht bergen» [Riegler 1933: 408], cfr. il proverbio veneto Ła coamasa łonga xé queła che copa ła volpe, il nizzardo Lou rainart si counouïssé à la quoua [Rolland1908: 127], il francese Le renard cache sa queue, il latino Cauda de vulpe testatur, riportato negliAdagia di Erasmo da Rotterdam [I.9.35], e il greco H k◊rkoj tÁ ¤lèpeki marture√, presente ne-gli Adagia optimorum utriusque linguae scriptorum di Paolo Manuzio (Oberursel, C. Sutorius,1603: 381); il tema della coda che tradisce la presenza dell’animale è presente anche in numero-se fiabe russe e slave: cfr. De Gubernatis [1874: II.136-8]), l’asturiano rapiega ‘ladra’, il neogre-co k∂faroj/kÒquroj ‘danneggiatore’ (cfr. il favolistico Rovel), il bavarese Henading ‘Hühnerding,quella delle galline’ o Henabou ‘Hühnerbauch, pancia da galline’ e l’occitano manjo-galinos, illettone loss e lo slavo lis(ica) ‘fulv(ett)a’ (ai quali, oltre al favolistico Rosseel, va forse avvicinato lostesso calabrese zi Rosa), lo svedese skog-gangare ‘che va nel bosco’ e l’altoaustriaco Rennad ‘Ren-nende, la corrente’ (cfr. Isidoro di Siviglia, Etymologiae, XII: «vulpis dicta, quasi volupis, estenim volubilis pedibus et […] tortuosis anfractibus currit»; v. qui fig. 1 per l’impiego del con-cetto a fini astrologici e morali), l’altoaustriaco Holzhund e lo svedese skoghund ‘cane del bosco’(cfr. anche sardo kalleddu/kalluttsu, albanese skile < neogreco skÚla ‘cagnetto’), il galego animalbravío ‘selvatico’, lo spagnolo e portoghese zorro/a ‘strisciante’ (onomatopeici e pure lessicalizzaticon ulteriore sostituzione di raposo/a) e il neogreco skafèrh ‘scavatore’ (cfr. il favolistico Perce-haie), l’occitano màndro/é e il castigliano antico gulfara (< golp farona) ‘pigra’ (cfr. il proverbiofrancese Renard qui dort la matinée n’a pas la langue emplumée, con varianti, e il marsigliese Rei-nard qué sé lèvo tard aganto gés dé galino [Rolland 1908: 124]), ecc.

15 Cfr. Beltraminelli-Donati [1963: 94, 280], Rigobello [1998: 211], Coltro [1980: 124-5].16 Secondo Cartolari [1854: I.115-6, II.131, 133, 139], i Giona/Jona erano titolari della

giurisdizione feudale su Asparedo (presso Cerea) e furono presenti nel Consiglio nobile dellacittà almeno dal 1490 al 1797; nel XVII e XVIII sec. alcuni esponenti del casato furono inoltreinsigniti del «Cavalierato di giustizia d’Ordini illustri» o ascritti al Sovrano Ordine Militare diS. Giovanni Gerosolimitano. La famiglia, già di rango comitale, fu insignita nel 1693 da Ferdi-nando Carlo di Gonzaga-Nevers anche del titolo marchionale di Palazzolo: il titolo nobiliare fu

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(variante: in sbarra), gettato sopra un fiume al naturale e caricato di una volpecorrente di rosso»: in questo caso si ha solo assonanza tra il cognome e la for-ma locale per ‘Gianna’, ma non per questo l’araldista ha rinunciato alla tipolo-gia (anche in questo caso paraetimologica) dell’arma ‘parlante’, chiamando incausa ancora una volpe, evidentemente nota in loco col tabuistico Gioàna/Joà-na. La presenza della volpe nelle insegne delle famiglie Zane (un cui ramo erainsediato anche a Treviso), Zancani e Giona/Jona ha quindi funzione del tuttoanaloga a quella che si riscontra nel caso delle armi, pure ‘parlanti’, dei trevisa-ni Rinaldi (Renard, v. n. 14) e dei vari Volpe (di Venezia, Padova, Treviso e Vi-cenza), dalla Volpe (di Vicenza e Este), Volpini (di Verona) e Volpati/o (di Tre-viso e Castelfranco)17: l’animale da cui deriva o a cui può essere avvicinato ilcognome delle varie famiglie vi è semplicemente evocato con la tradizionaledenominazione alternativa, di carattere tabuistico, che in origine doveva essereben nota a chiunque si trovasse a ‘leggere’ le varie armi gentilizie, in quantoelemento di cultura e di prassi linguistica condivisa.

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poi confermato, in epoca austriaca, con Sovrana Risoluzione del 15 maggio 1825, ma il casatosembra essersi estinto alla fine del XIX o all’inizio del XX sec. (cfr. Schröder [1830: I.372] eCrollalanza [1886: I.479], ultima attestazione rinvenuta). A un ramo della famiglia appartenevail pittore Gasparo Giona (1563 c.-1631), dal 1590 assai attivo a Padova come frescante (v. sche-da biografica in Lucco [2001: 834-5]), e dal luglio 1690 alla morte (1695) un «comes Franci-scus Jona veronensis, medendi usu & exercitatione magis quam doctrina notus» fu docente dimedicina pratica ordinaria in primo loco presso l’Università di Padova, «simul impositum illionus […] disserendi in Nosocomio de pulsis & urinis; sed tribus tantum in singulos annos die-bus majoris hedbomadae» (cfr. Papadopoli [1726: I.171], Facciolati [1757: III.335, 384]).

17 Per la documentazione araldica di area veneta, si vedano in prima istanza Morando diCustoza [1976: s.v.], [1979: s.v.] e [1985: s.v.], con indicazione delle fonti originali.

Fig. 1 – Vulpis velociter currens:homo semper laborans erit.

Pietro d’Abano (1257-1315 c.),Astrolabium planum (Augusta,

G. Engel, 1488): tema di nascita peril diciottesimo grado dei Gemelli(da Bozzolato-Berti [1992: 78]).

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Se consideriamo ora le testimonianze di ordine toponomastico, possiamorilevare ulteriori tasselli che contribuiscono a delineare l’accennata continuitàculturale veneto-lombarda all’insegna della denominazione tabuistica dellavolpe come ‘Gianna’. Presso Arquà Petrarca, sui Colli Euganei, la strada che«dall’incrocio della Montà piccola sale […] verso il valico tra monte Castèo emonte Bignago, collegandosi con via Fontana» porta ancora il nome tradizio-nale di strada dée Zane, che Mazzetti [1999: 178] spiega correttamente come«Zane, dal nome veneziano di Giovanni»18 senza però notare la particolaritàdella forma, che la presenza della preposizione articolata dée (< de+łe) rivela es-sere un femminile plurale, quindi letteralmente una ‘strada delle Gi(ov)anne’,da intendere a questo punto non come luogo di passeggio di locali villane dital nome, ma verosimilmente come percorso usuale delle volpi, che certo nondovevano mancare su quei monti (sia pure date per «ormai estremamenterar[e]» già da Marcuzzi [1963: 47-8]), almeno a giudicare dalla frequenza dimicrotoponimi come i vari buso/a déa Volpe (4), calto (‘rio’) déa/e V/Bolpara/e(2), fontana o possa (‘pozza’) déa Volpe, pria (‘pietra’) déa Volpe, salto déa Volpe,tana déa Volpe, vasca dée Volpare nei territori comunali di Abano Terme, Bao-ne, Teolo e Vo19.Ancora sui Colli Euganei, a Monselice, il «pendio cespuglioso sul fianco

sudovest di monte Rico, sotto la cava delle More» è localmente noto come Xa-navèra [zana·vEra], toponimo in apparenza oscuro che il confronto con le dueUsilièra di Baone e di Calaone «luog[hi] famos[i] per la cattura con le reti diuccelli da passo» (da usiłìti, plurale metafonetico di osełéto ‘uccellino’) e con laXenevara [zene·vara] di Arquà Petrarca «zona ricca di ginepri» (cfr. Mazzetti[1999: 179, 185, 216, 290])20 permette di interpretare come ‘luogo infestatodalle Zane’ cioè dalle volpi (e dove è eventualmente facile catturarle), o più ingenerale come sinonimo tabuistico di volpara/volpèra «‘luogo dove abbondanole volpi’ […], spesso usato già nel senso di ‘luogo abbandonato e selvaggio’»([Olivieri 1965: 375-6]; cfr. francese renardière, spagnolo e portogheserapose(i)ra ‘tana delle volpi, volpaia’ e, per il significato traslato, il biblico «me-stum factum est cor nostrum […] propter montem Sion, quia desolatus est:vulpes ambulant in eo»: Lam. 5: 17-8)21.

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18 Così, non del tutto esplicitamente, già in Olivieri [1914: 119], che riporta però erronea-mente «Zane (str. del-), Arquà, Pad.» e lo elenca tra i toponimi derivati da JOHANNES.

19 Cfr. Mazzetti [1999: 19, 37, 66, 80, 197, 222, 234, 291, 305, 309], Grandis [2001: 15],Cusin [s.d.: 39]. Cfr. anche una contrà della Volpara a Torreglia, citata in una polizza d’estimodel 1797 (Archivio di Stato di Padova, Estimo 1797, b. 16, pol. 1399). La diffusione dell’ani-male e dei relativi toponimi in area euganea ben si accorderebbe con la dichiarata origine mon-selicense dei veneziani Zane (v. sopra nel testo).

20 Cfr. anche le alternanze locali carbonèra/carbonara ‘magazzino del carbone’, cunicèra/cuni-ciara ‘conigliera’, saresèra/saresara ‘ciliegeto’, ecc.

21 Sempre sugli Euganei, sul versante sud del monte Venda (erroneamente assegnato al terri-torio di Arquà Petrarca), Olivieri [1914: 217 n. 2] e [1961: 79 n. 3] segnala la presenza di unalocalità Zanàica o Zanàiga, anch’essa ipoteticamente riportata a *DIANATICA ‘esposta a mezzo-giorno’ (cfr. n. 13): il toponimo ci sembrerebbe invece più verosimilmente derivato da Zana‘Gi(ov)anna’ con il suffisso di ‘relazione’ -ica > -iga (> -ega: cfr. betòniga/ega ‘erba vettona > in-grediente fisso dei preparati farmaceutici > donna onnipresente’, cèrega ‘tonsura clericale’, domé-

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Nella pedemontana vicentina, infine, anche il già accennato Zanè (v. n.13), la cui forma latina Zanade è attestata in documenti almeno fin dal126222, potrebbe rinviare a un *(TERRAE) JOHANNATAE (allora in origine con lostesso suffisso participiale-aggettivale presente in Arcade (TV, ‘arcate’, forse didifesa spondale), Biancade (TV, ‘terre con calcare bianco’), Falcade (BL, < FAL-CARE ‘falciare’), Listolade (BL, < USTULARE ‘bruciare’), Pertegada/e (VI, VR, UD,‘terra/e perticata/e, misurata/e’), Roncade (TV, < RUNCARE ‘mettere a coltu-ra’)23, ecc., non raramente evoluto in -è [E] nelle varietà venete di pianura a se-guito del completo dileguo della -d- e della riduzione dello iato)24 che non sa-rebbe impossibile interpretare come ‘infestate dalle Zane, volpi’, corrispon-dente per il significato ai vari Volparo/a/e (PD, PV, AL, BI, PC, PR, TE), Vol-pèra/e (BL, VR, BG, BS, LO, RA), Volpaio/a/e (AR, GR, LU, PI, SI), Volpina-ra/aia (VI, FI), Volparolo/a/e (MO, AL, NO), Volpino (VR, BG), Volpeglino(AL), ecc. (cfr. Olivieri [1914: 205-6], [1961: 74], [19612: 585], [1965: 375-6], Gnaga [1937: 646], Pellegrini G.B. [1990: 363]), e in particolare all’inten-sivo (e pure participiale) Volpente (VI). Se tale interpretazione è corretta, essacontribuisce a ulteriormente rinforzare la continuità territoriale, estesa almenoda Venezia (e Treviso) a Brescia – e corrispondente quindi a gran parte dell’an-tico territorio dello stato da tera della Repubblica veneta – delle aree linguisti-co-culturali in cui la volpe era tabuisticamente designata come ‘Gianna’ (Zana,J/Gioana), aree che si ponevano a loro volta come ‘ponte’ tra la zona alpina equella mediterranea in cui è attestata la stessa denominazione25.

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nega, ługàniga/ega ‘salsiccia lucana’, mànega, ecc.), e interpretabile forse come ‘(costa/tana?) dellavolpe’: il toponimo è tuttavia assente in Mazzetti [1999] e la sua apparente scomparsa nel corsodel XX sec. (così come la pronuncia con [dz-] indicata da Olivieri e la forma semicolta del suf-fisso) impedisce di raggiungere ogni ragionevole grado di sicurezza al riguardo. Si noti che Za-nàica è oggi cognome assai diffuso nell’area euganeo-berica e polesana, portato anche da due in-formatori locali dello stesso Mazzetti (cfr. Simionato [1999: 344], incerto circa la derivazioneda Zane). Incerto è anche il valore dell’oronimo Forcella Zana (m. 1675), presente nell’Agordi-no, sui Monti del Sole, accanto al Monte Pizzon.

22 «Unum campum a Valbocemolo quem tenent presbyteri de Zanade» (Archivio di Stato diVicenza, Codice A, f. 103v: cfr. Daniele [1973: 755], con molte attestazioni successive).

23 Cfr. Olivieri [1914: 219, 240, 307 n. 2, 337], [1961: 80, 89, 121 n. 2, 135-6], PellegriniG.B. [1987: 194, 197, 221, 356], [1990: 199, 209, 227, 239-40, 244], Marcato [1990: 265, 553].

24 Cfr. Tomasin [2004: 112-5]. Il frequente esito -ÀTE > -àde > -àe > -è è confermato, incampo toponomastico, dai casi di Scorzè (VE, VR, < scorzade < SCORZATE, da CORTEX ‘cortecciadi rovere usata nella concia delle pelli’: cfr. Olivieri [1914: 158], [1961: 55 n. 5], Marcato[1990: 613]) e, con «trasformazion[e] fonetic[a] più profond[a]» per la caduta anche di [t] pro-tonica, di Civè (PD, < CIVITATE: cfr. Olivieri [1914: 317], [1961: 126], Pellegrini G.B. [1987:299], [1990: 381], Beltrame [1992: 58]; documenti di XII e XIII sec. con Civitate > Cividate >Civiade > Civè citati in Daniele [1973: 212]).

25 Un’eco letteraria dell’antico (e forse già opaco) uso tabuistico di Zana ‘volpe’ sembragiungere anche dal Veneto centro-settentrionale di fine XVI sec., almeno a giudicare da dueversi (148-9) della coneglianese Egloga pastorale di Morel (su cui v. Pellegrini G.B. [1964],[1977: 375-412]), in cui il protagonista spiega come avrebbe desiderato per fantesca una nonmeglio specificata ‘zia Giovanna’ (si noti anche il titolo parentale), paradossalmente apprezzata,a quanto pare, per la sua capacità di ripulire il pollaio: «voleve deda Zana per massera, parché laè monda e netta muò un poner» (per dèda ‘zia’, v. Pellegrini G.B. [1977: 179-80, 387]). Alla lu-ce dell’uso di zana come denominazione della volpe, animale dalla furbizia proverbiale, nonstupisce che nella Commedia dell’Arte zan(n)i (v. n. 13) sia nome collettivo per la categoria dei

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Considerando ora tale uso linguistico da un punto di vista più generale,osserviamo che esso si inquadra in una rete di usi analoghi – ben analizzati dal

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servi astuti (poi individualmente designati con nomignoli diversi: Zan Falopa, Zan Fritata, ZanSalziza, Gianduja, Giancola, ecc.), responsabili dello sviluppo della trama (cfr. Brighella da bri-gare) e contrapposti quindi ai servi sciocchi quali Arlecchino o Pulcinella (e peraltro un Volpi-no), dediti invece alle digressioni burlesche (cfr. DEI [s.v.]): l’origine bergamasca dei Zani delleprime commedie (XV e primo XVI sec.) sembra quindi indicare che l’area in cui la volpe eradesignata con un nome tabuistico derivato da JOHANNES (da cui l’ulteriore passaggio di Zane alvalore di ‘(servo) astuto’ per antonomasia: cfr. catalano guill e rabosí, valenciano raboser ‘astuto’,rispettivamente da guilla e rabosa ‘volpe’, v. n. 14 e Coromines [1980-2001: IV.739, VII.26]) siestendeva un tempo fino all’estremità occidentale dello stato veneto. Alcuni curiosi indizi lessi-cali e letterari permettono forse di estendere ulteriormente a occidente tale area, includendovi ilPiemonte (dove giana < JOHANNA è termine antonomastico per ‘donna furba’: cfr. Migliorini[1927: 233] e v. sopra, n. 9) e almeno parte della Francia (oitanica) medievale, dove pure il no-mignolo di Renard < Reginhardt, in origine meramente descrittivo (cfr. n. 14), si è imposto aidanni dell’antico goupil. Nella branche XI (Renart empereur) del Roman de Renart, una di quelleaggiunte in epoca successiva (1196-1200) e da mano diversa al nucleo originale della raccolta (iprimi racconti, già di tradizione orale, furono messi per iscritto da Pierre de Saint-Cloud intor-no al 1171-77), Renart – chiamato a corte da re Noble, il leone, desideroso di partire per la cro-ciata, e da questi nominato luogotenente del regno durante la sua assenza, con giuramento difedeltà prestatogli da tutti i baroni rimasti in patria – approfitta della situazione a lui favorevoleper propalare la falsa notizia della morte in partibus del leone e proclamarsi re al suo posto, sal-vo venire poi smascherato, sconfitto e catturato dal legittimo sovrano rientrato in patria e rag-giungere comunque con lui un accordo di pacificazione. Secondo l’unanime commento degliesegeti (cfr. Dufournet [1985: I.5, 23], Pastré [1987: 81]), si tratta di una rappresentazione sati-rica del mondo cortese e dell’epopea cavalleresca, in cui il ritratto di Renart, «baron féodal,grand seigneur, hardi et ambitieux, brutal et sans scrupules» – antagonista del leone già nellabranche Ia del Roman (pure datata agli anni ’90 del XII sec.), dove si libera dall’assedio di que-st’ultimo con un crimine di lesa maestà, il lancio di una pietra che ferisce gravemente il re allatesta – e perciò «symbole d’une noblesse rebelle, arrogante et rapace, [image du] mépris que cer-tains grands, au XIIe siècle, affichaient à l’égard de leur suzerain», costituisce «sans doute [une]critique virulente de Jean sans Terre qui, en 1193, se saisit du royaume de son frère RichardCœur de Lion en répandant la fausse nouvelle de sa mort», salvo fare poi atto di sottomissionee ottenerne il perdono al suo rientro dalla crociata e dalla prigionia nella Germania di EnricoVI (e adire infine alla successione legittima nel 1199, alla morte effettiva di Riccardo). Se l’e-quazione re-leone è di tradizione antica e sembra esser stata ulteriormente facilitata in questocaso dal nomignolo Cuor di Leone di cui Riccardo si fregiava, è invece singolare, e forse non ca-suale, il fatto che alla volpe Renart venga così chiaramente assegnato il ruolo dell’usurpatoreGiovanni, mai esplicitamente nominato nel testo medievale, quasi che questo (Jehan) fosse co-munque il nome con cui, anche nella cultura popolare francese dell’epoca, si designava normal-mente il goupil, il che poneva quindi quest’ultimo nella posizione di candidato naturale a im-personare le vicende del pretendente al trono inglese. «La célébrité de Reynart, de l’astucieux etmalhonnête personnage qui cause tant de souci au Roi Noble» fu poi probabilmente all’originedella scelta del nome di Renaud de Montauban, uno dei quattro fils Aymon, che nell’omonimoromanzo dell’epica medievale francese è fiero avversario di Carlomagno (cfr. Castets [1909:108]), e il nome del protagonista del romanzo fu a sua volta ripreso nell’elaborazione popolaredi temi narrativi tratti da antiche leggende celtiche e scandinave (cfr. Doncieux [1900]), avviataforse in terra occitana (presso Montauban, appunto: cfr. Canteloube [1951: II.288]; superata èinvece la posizione di Doncieux [1900: 233], che fissava in area bretone l’inizio di tale elabora-zione e definiva «secondaires» le versioni occitane), che diede origine alla celebre Chanson du roiRenaud, ben presto diffusa anche nel dominio d’Oïl e in tutta Europa con numerose variantilinguistiche, testuali e onomastiche (v. n. 40): come notava Nigra già nel 1888 [19572: 167];cfr. anche Doncieux [1900: 224]), mentre la maggior parte (e le «meno guaste») delle versionifrancesi presentano il protagonista semplicemente come roi Renaud, fils Renaud, comte Arnaud,Arnaud l’Infant, ecc., le «meno pure» di tali versioni presentano il «bastardo germoglio» (ovvero«pléonasme fautif») di denominare il protagonista come Jean Renaud (la versione basca e unabretone semplicemente Jean, mentre le più lontane presentano addirittura Louis, Pedro, Carlino,

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punto di vista totemico-tabuistico da Alinei [1981] e [1984] (v. qui n. 56) –che Serafino Guastella così sintetizzava, già nel 1884 e con riferimento alla si-tuazione siciliana del tempo, in nota alla sua Parità nr. VII: «i nostri villanichiamano coi nomi dei santi quasi tutti gli animali domestici e qualcuno chenon è domestico. Il porco è Antonio, la gatta è Marcuccia, il bove è Luca, ilcavallo è Giorgio, il mulo è Aloi, il montone è Martino, il cane è Vito, la vol-pe è comar Giovanna o comar Giovannuzza, il lupo è Silvestro, e via dicen-do». Come è facile vedere, tali assegnazioni di nome corrispondono in granparte allo stretto rapporto tra i vari santi e i relativi attributi iconografici, di-rettamente accessibili ai popolani più o meno analfabeti dell’800 e dei secoliprecedenti: così nei casi delle coppie maiale-S. Antonio (abate: cfr. anche Pitrè[1944: 419]), gatto (in quanto piccolo leone)-S. Marco (cfr. anche Pitrè[1944: 456]), bue-S. Luca, cavallo-S. Giorgio26; in altri casi, ai quali si riferi-sce estensivamente lo stesso Guastella sempre in nota alla sua Parità su Gio-vannuzza, la causa dell’assegnazione di nome all’animale va ricercata nel pa-tronato esercitato dal santo in questione su (o contro) l’animale stesso, an-ch’esso ben presente alla cultura popolare: così, secondo Guastella, S. Giorgiosarebbe protettore del cavallo, S. Aloi (Eligio) del mulo27, S. Erasmo degli asi-

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Angiolino, ecc.); dal nostro punto di vista, ciò sembra suggerire che in determinate aree geogra-fiche (Parigino, Vandea, Poitou, Bourbonnais, Nivernais, Ginevrino, ecc.) fosse avvertita l’esi-genza di rideterminare il valore ‘volpino’ del nome del protagonista, ormai sentito come aulico(forse anche per la sua qualifica nobiliare, che è infatti eliminata in tali versioni), affiancandoglila corrispondente denominazione popolare, che (almeno in quelle aree) dovremmo allora nuo-vamente postulare come Jehan. Questa ipotesi può forse trovare conferma nel detto francese(dal Vendômois) être de la Saint-Jean «intelligent, frühreif sein[:] les enfants nés à la Saint-Jeanpassent pour être plus avancés que les autres» [Cramer 1931: 90] (per i ‘miracoli’ della notte diS. Giovanni v. n. 33), anche se, contraddittoriamente, il nome Jean(ne) sembra essere stato spes-so applicato in Francia a personaggi ritenuti «doués de peu de finesse» o decisamente Dumm-kopf (tra cui, con curioso rovesciamento rispetto ai zanni della Commedia dell’Arte, molti per-sonaggi teatrali e marionettistici: cfr. Cramer [1931: 14-62, 75-98], Sébillot [1906: 20]). Vatuttavia segnalato che lo stesso Cramer [1931: 62-6], tra i molti animali popolarmente denomi-nati in Francia come ‘Jean(ne)’, non riporta la volpe ma indica piuttosto, tra le denominazionipiù evidentemente tabuistiche (v. n. 56), il lupo (Djã di bô/Jean du bois in Svizzera romanda ein una filastrocca angevina, Jean de lignolle ‘riproducentesi’ (< se ligner ‘accoppiarsi, darsi discen-denza’) in una canzone popolare dell’Alta Bretagna: tali denominazioni sono sconosciute a Rol-land [1908], ma cfr. Sébillot [1906: 20]: Yann nome bretone del lupo nel Trégorrois), la puzzo-la (Jann bitoch in bretone) e il rospo (Jano in Poitou).

26 Cfr. anche Mastrelli [1989: 734, 737, 752] e Cortelazzo [2006] per le espressioni francesil’oiseau saint Luc ‘bue’ e compagnon de St. Antoine ‘maiale’ (cfr. anche «il “porco sant’Antonio” initaliano antico») e per il toscano e padovano Nino, il bolognese Ninéin e l’emiliano Ninin/òn‘maiale’ (questi ultimi da (Anto)nino e non «di formazione elementare, per il modo usato per ri-chiamare questi animali», né da (Giovan)nino come riteneva Migliorini [1968: XLII]). La deno-minazione del gatto come ‘Marco’ è attestata anche in Francia oitanica con Marcou (e varianti)‘gatto maschio’ eMarcotte (e varianti) ‘petite chatte’ (cfr. Rolland [1881: 82], [1906: 118]). Pla-cucci [18852: 195] riferisce che in Romagna «in alcune ville è così grande la venerazione deicontadini verso S. Luca evangelista, che si astengono dal lavorare coi bovi nel giorno della suafesta, credendo di fare peccato».

27 In Pitrè [1881: XX], S. Eligio è indicato piuttosto come patrono dei cavalli (e in BS[IV.1069-73] anche di tutte le professioni connesse: maniscalchi, carrettieri, vetturini, sellai,fabbricanti di speroni, commercianti di cavalli), ma non è difficile ipotizzare un’estensione delsuo patronato ai muli, specie in un contesto socio-economico come quello della Sicilia del XIX

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ni, ecc., mentre è noto che S. Vito era tradizionalmente invocato a protezionedell’uomo da numerose malattie nervose (genericamente indicate come ‘ballodi S. Vito’), tra cui il morso dei cani idrofobi28. Tra i casi in cui le ragioni del-l’assegnazione di nome all’animale non sono immediatamente evidenti29, rien-tra anche quello della volpe che, come si è visto, è designata con derivati diJOHANNES in un’area assai più vasta della Sicilia, pur non risultando costituireattributo iconografico né rientrare nel patronato di alcun santo di tale nome(né, peraltro, di nome diverso, almeno in area italiana)30: in quanto segue cisoffermeremo su questo aspetto, cercando di individuare le origini di tale as-

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sec. Documenta il facile scambio di patronati tra cavalli, asini e muli anche Pitrè [1944: 432,434, 444].

28 Su S. Vito protettore degli arraggiati (‘arrabbiati’), e sulle invocazioni di S. Vito per ligari(‘affascinare’) i cani minacciosi, cfr. già Pitrè [1881: 276-82], [1944: 470-3]. Sulla ‘genesi’ e lalocalizzazione specifica del culto di S. Vito, che la tradizione vuole nato a Mazara del Vallo,quale cristianizzazione di quello di Crimiso, antica divinità elima della caccia «che gli antichirappresentavano seguito da una muta di cani», cfr. Pace [1949: 77].

29 Considerando la denominazione popolare del lupo quale ulteriore caso di assegnazione dinome basata sull’attributo iconografico di un santo, essa sembrerebbe riferirsi non a S. Silvestropapa, ma a S. Silvestro Gozzolini da Osimo (c. 1177-1267), fondatore, verso il 1231, della con-gregazione benedettina detta appunto dei ‘Silvestrini’, a cui l’aneddotica, ripresa dall’iconogra-fia, attribuisce la costante compagnia di un lupo che obbediva ai suoi ordini e faceva guardia al-la sua cella (cfr. Cahier [1867: II.532]): tuttavia – oltre a non risultarci che in Sicilia siano maiesistiti monasteri aderenti alla congregazione Silvestrina in grado di promuovere a livello popo-lare il culto e l’immagine del santo marchigiano – ci sembra insolito il ricorso a un santo ‘mo-derno’ per la denominazione di un animale. Riteniano quindi preferibile pensare a un riferi-mento al generale patronato di S. Silvestro papa sugli animali domestici (cfr. BS [XI.1080-1]),intendendo allora tale denominazione quale ‘deterrente’ nei confronti dell’azione predatoria dellupo: sulle invocazioni a S. Silvestro per preservare dal lupo uomini e animali, cfr. infatti Pitrè[1944: 477-80, 484]. Sul rapporto di S. Martino con montoni, caproni e ‘cornuti’ in genere(compresi i mariti traditi), variamente attestata in molte aree di Francia e Italia, hanno indaga-to, con esiti non del tutto soddisfacenti, Migliorini [1927: 132-3, 260-6] e Mastrelli [1989:738]; al riguardo merita una segnalazione lo scongiuro friulano contro i lupi (dal protocollo del1431 di pré Nicolò da Ceresetto, cappellano dei Battuti di Udine), che si conclude con l’invo-cazione a Dominidio e’l bon Sent Martin (cfr. Ostermann [19402: I.210-2], Pellegrini R. [1987:75]). Su Martinu, nome del caprone (soggetto però al patronato di S. Erasmo), cfr. anche Pitrè[1944: 429-30].

30 Cfr. già Pitrè [1881: 318]: «Giuvannuzza, diminutivo di Giuvanna, è detta […] la volpe,né saprei, se non per ragione di qualche favoletta ora dimenticata, darne la ragione». In ambitofrancese e tedesco la volpe è associata, a livello aneddotico e iconografico, a un gruppo di santidi III-VII sec. localmente assai popolari (pur se in parte leggendari: cfr. BS [s.vv.]), ma ciò nonsembra aver dato luogo ad alcuna associazione onomasiologica: si tratta di S. Ginolfo (Genou)del Berry, S. Erveo (Hervé), S. Condedo (Condé), S. Giuniano (Junien) del Poitou e S. Bonifa-cio di Tarso (ai quali tutti una volpe avrebbe miracolosamente riportato viva una gallina prece-dentemente sottratta), i Ss. Ferreolo e Ferruccio (Fargeau et Fergeon) di Besançon (una volpe sa-rebbe sfuggita ai cani nascondendosi nella grotta in cui erano sepolti i loro corpi, permettendo-ne così l’inventio dopo molti secoli) e S. Magno di Füssen in Baviera (una volpe lo avrebbe gui-dato alle miniere di ferro con cui la popolazione della zona avrebbe potuto sostentarsi: si trattaforse di un calembour tra il nome della località e quello tedesco della volpe; cfr. Cahier [1867:II.595, 728-9], Réau [1955-59: III.1523]). La volpe sembra figurare occasionalmente anchenell’iconografia di S. Patrizio d’Irlanda, tra gli altri animali dannosi (cani, serpenti, ecc.) da cuiavrebbe liberato l’isola e i cui morsi avrebbe miracolosamente guarito (cfr. Kaftal [1985: 532,536 fig. 750]; il testo trecentesco corrispondente a tale immagine parla però solo della liberazio-ne «da morsicature di vipere, di serpenti, di cani, di lupi, o da morbo epidemico»: cfr. Baggi[1928: 145]).

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sociazione onomastica, profondamente radicate nella tradizione popolare eu-ropea.Un primo punto da chiarire riguarda il referente ultimo di tale denomina-

zione, cioè, assumendo preliminarmente che essa si fondi sullo strato più anti-co dell’agionomastica cristiana, quale dei due Johannes della tradizione biblicaabbia prestato il proprio nome al canis vulpes: S. Giovanni Battista o S. Gio-vanni Evangelista? L’intuizione a tal riguardo, anche se dovuta forse a una me-ra valutazione soggettiva, è che sia più probabile un riferimento al Battista, lacui popolarità nel medioevo sembra essere stata molto maggiore di quella del-l’Evangelista e che, a differenza di quest’ultimo (stabilmente associato, nel-l’ambito del tetramorfo apocalittico, al simbolo dell’aquila), non gode di unastabile associazione iconografica a un attributo animale31, essendo quindi libe-ro da vincoli di identificazione determinati a priori. Tale ipotesi di lavoro in-contra, già allo stadio preliminare della ricerca, numerosi elementi di contattoe di mutuo richiamo tra le fonti e le tradizioni popolari riferite alla volpe e aS. Giovanni Battista, che ne confermano la bontà: presenteremo qui, in brevema in forma sistematica, gli elementi rinvenuti che, come vedremo, sembranostabilire tra il santo e l’animale rapporti oscillanti tra l’antagonismo e l’identi-ficazione (mediati entrambi da fenomeni di sincretismo religioso), tali comun-que da giustificare la denominazione popolare in esame.Il rapporto di antagonismo tra il Battista e la volpe sembra topicamente

stabilito fin dal testo evangelico (Lc. 13: 31-2), laddove riporta un breve dialo-go tra i farisei e Gesù, alle porte di Gerusalemme: «In ipsa hora accesseruntquidam pharisaeorum dicentes illi: “Exi et vade hinc, quia Herodes vult te oc-cidere”. Et ait illis: “Ite, dicite vulpi illi…”». Va infatti ricordato che l’Erode inquestione, che Gesù qualifica di volpe, è il tetrarca Erode Antipa, che era statoa suo tempo rimproverato dal Battista per la sua relazione con la cognata Ero-diade e che perciò, istigato da quest’ultima, l’aveva fatto arrestare e decapitare(cfr. Mt. 14: 1-12, Mc. 6: 14-29, Lc. 9: 7-8): secondo la lettera del Vangelo,l’avversario di Giovanni Battista è dunque una ‘volpe’. Tale antagonismo si ri-trova poi, con varie accezioni, nelle tradizioni popolari riferite alla celebrazio-ne del solstizio d’estate, la cui antica ritualità pagana di matrice agraria, legataall’inversione del ciclo stagionale, venne sussunta e cristianizzata dalla Chiesafacendone coincidere il culmine con la notte (e il giorno, 24 giugno) dedicatoalla natività del Battista: in Francia, «plusieurs fermières de la Brie portaient,le jour saint Jean, la plus belle de leurs poules dans la forêt: avant le lever du

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31 L’agnello, richiamato dall’evangelico ecce Agnus Dei (Jo. 1: 36), oltre a essere propriamen-te riferito a Gesù e non al Battista che lo pronunciò, è solo raramente presente nelle raffigura-zioni del santo (sia adulto che bambino) ed è perlopiù semplicemente evocato dal cartiglioiscritto retto da quest’ultimo, certamente di non immediata comprensibilità testuale per il po-polo analfabeta. Quanto alla denominazione logudorese della volpe come compare Giommaria(v. sopra), cfr. De Gubernatis [1878-82: I.185-6, 217-8] per l’interpretazione popolare di S.Giovanni Battista e della Vergine quali fratelli e per i conseguenti vari casi di erbe denominateora ‘di S. Giovanni’ ora ‘di S. Maria/della Madonna’ (iperico, felci, crassula, ecc.), oppure con-giuntamente (come nel nostro caso) ‘di Giovan-Maria’.

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soleil, elles conjuraient le renard de respecter leur enclos et lui abandonnaientleur volatile chérie»; in Romagna, «nella notte di San Giovanni, il colono, fat-to un mazzolino di tre spiche di grano marcio o carbone, discendeva al fiumee quindi il gittava, stimando con ciò di aver liberato e purgato dalla carie ovolpe32 […] il grano che stava per mietere»; ancora in Francia (Charente), «lesvieillards se chauffent les reins au feu de Saint-Jean pour être préservés du re-nard, maladie des reins, pendant le reste de l’année»33.È evidente che in tutti questi aspetti della tradizione popolare i pur nume-

rosi patronati esercitati dal Battista non sono affatto coinvolti e che tutto vi sisvolge piuttosto all’insegna dell’aura di ‘magia purificatoria e profilattica’ cheriveste la notte solstiziale, trovando la sua più concreta ed evidente manifesta-zione nei roghi che ancor oggi la caratterizzano in tutta Europa e rivolgendonecosì la forza contro gli spiriti maligni di cui, con altri animali dannosi per l’e-conomia agricola, la volpe era ritenuta incarnazione34. A un analogo intento

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32 La carie del grano, detta anche volpe, golpe, buffone o carbone puzzolente, è dovuta all’azionedi parassiti fungini (specie di Tilletia) che sporificano nel frutto giovane, rovinando le cariossidi.Essa è a volte confusa con altra malattia, detta carbone, per la quale «la spiga del grano rassomigliaa una coda di volpe spelacchiata», dovuta al parassitismo di funghi Ustilaginali germinanti nel fio-re aperto del frumento e caratterizzata dalla formazione di una massa nera polverulenta, data daimilioni di spore del micelio sviluppatosi nel seme infetto, che si manifesta al momento della for-mazione della spiga, costituita allora dalla sola rachide coperta dalla massa scura (cfr. DEI [s.v.]).

33 Le tre citazioni sono rispettivamente da Sébillot [1906: 30], http://www.comune.san-gio-vanni-in-marignano.rn.it/public: s.v. (la notizia, di ignota fonte forse ottocentesca, si riferisce alromagnolo ‘Granaio dei Malatesta’), Rolland [1908: 136]. Quest’ultima usanza, fondata evi-dentemente sulla semplice assonanza reins-renard (a causa di un analogo calembour paraetimolo-gico tra René e reins, il leggendario San Renato d’Angers era altrove «censé guérir les maux dereins et par suite l’impuissance des maris esrenés ou érénés: son intervention était souverainepour engrosser les femmes stériles» [Réau 1955-59: III.1148]), è però funzionalmente identicaa quelle, assai diffuse e documentate in tutta Europa, di saltare sopra al falò della vigilia di S.Giovanni (o di far passare gli animali sulle sue ceneri) a scopo curativo o profilattico, di esporrealla rugiada di quella notte (o di raccogliere all’alba del 24 giugno) cipolla, aglio, camomilla,malva, felci, edera, iperico, artemisia, dente canino, veriola, mèdego maestro, menta, verbena, ti-mo, tiglio, melitoto, sambuco, cicoria (e molte altre erbe commestibili e medicinali, collettiva-mente designate come ‘erbe di S. Giovanni’) perché abbiano più «aroma e forza contro i dolo-ri», oppure di raccogliere quella stessa rugiada, da utilizzare poi per lavacri, impacchi e cibi rite-nuti medicamentosi, o ancora di bagnare direttamente nell’erba fradicia, all’alba del giorno diS. Giovanni, membra e corpi malati o doloranti, a scopo curativo (cfr. EC [VI.525-7], Pitrè[1881: 309], De Gubernatis [1878-92: I.185-92], Sébillot [1906: 474-9], Frazer [1923: I.209-10], Tagliavini [1928: 180-1] (con curioso scambio, «giacché il popolo facilmente li confonde»,tra S. Giovanni Battista e l’Evangelista), Cramer [1932: 8-30], Coltro [1980: 124-5], [1982:I.192, 218, II.181-4], Marcato [1991: 73], Centini [1998] e v. sotto, n. 43).

34 Esplicito in questo senso, sotto la patina allegorica, ci sembra il testo della duecentesca Le-genda aurea di Jacopo da Varazze (LXXXI. De Sancto Iohanne Baptista, qui citata secondo l’edizio-ne Maggioni: Firenze, SISMEL-Galluzzo, 1998: 550): «Ossa mortuorum animalium undecum-que collecta in hac die ab aliquibus comburuntur […] ex antique institutionis obseruantia. Suntenim quedam animalia que dracones uocantur que in aere uolant, in aquis natant, in terra am-bulant. Quandoque autem […] ad libidinem concitabantur et in puteis et in aquis fluuialibussperma iactabant et inde sequebatur letalis annus. Contra hoc ergo istud fuit inuentum reme-dium ut de ossibus animalium rogus fieret et sic talia animalia fumus fugaret; et quia istud maxi-me hoc tempore fiebat, ideo adhuc istud ab aliquibus obseruatur». Anche secondo il teologo pro-testante zurighese Ludwig Lavater (1527-86), «die divi Joannis, quidam fasciculum herbarumconsecraturum incenderunt, ut fumo earum daemones fugarent» (cfr. De Gubernatis [1878-82:I.185 n. 1]). Si noti che l’affumicazione delle tane è uno dei sistemi classici utilizzati dai contadi-

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di lotta agli spiriti maligni, o alle streghe (in area romanza, ricordiamo, spessooriginariamente designate con gli esiti locali di DIANA: gene, jana, xana, giana,zana, ecc.) che in veste di volpi recavano danno ai campi di grano, era dovuta– nell’interpretazione di Frazer [1923: II.39-44], [1929: III.331-2], [1949:656-7], che vi vedeva una sopravvivenza di lungo periodo di costumi e cre-denze druidiche (cfr. anche Mannhardt [19052: 515]) – l’usanza francese diancien régime, ma ancora viva nella Savoia del XIX sec., di bruciare nel grandefalò di San Giovanni (fino al 1648 a volte acceso dal re in persona sulla parigi-na Place de Grève) una o più volpi vive, rinchiuse in una cesta legata all’alberoal centro della catasta. In quanto precede si può quindi riscontrare una chiaracontrapposizione tra la ‘magia buona’ del solstizio, attribuita al Battista persincretismo con la ritualità agraria precristiana, e la ‘nefaria stregoneria’ simbo-leggiata dalla volpe.Più sottile e controverso, forse in bilico tra l’antagonismo e la piena identi-

ficazione simbolica, appare invece il rapporto tra S. Giovanni Battista – araldodi vita in quanto annunciatore di Cristo, ma al tempo stesso, per la sua asso-ciazione al solstizio d’estate (vero ‘giro di boa’ stagionale del ciclo solare e diquello agrario: dalla massima crescita alla progressiva diminuzione della duratadel giorno35, dalla piena maturazione dei frutti della terra al raccolto, ecc.), ri-chiamo costante all’ineluttabilità della morte – e la volpe (tradizionalmente ri-tenuta incarnazione dell’astuzia diabolica e quindi immagine di morte), qualeè simbolicamente rappresentato dalla decorazione scultorea dei portali di variechiese romaniche in diverse zone d’Europa, indipendentemente dall’effettivadedicazione delle chiese stesse. Tali portali costituiscono sul piano simbolico lamaterializzazione delle ianuae coeli solstiziali (cioè i ‘passaggi’ celesti attraversocui il sole entra nelle fasi rispettivamente ascendente o discendente del suocorso annuale: cfr. n. 40 «eth sorelh en gran portau»), ovvero la ‘traduzione’concreta delle cesure cicliche del tempo36, e sono perciò correntemente defini-

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ni per allontanare le volpi dal loro territorio. Sébillot [1906: 31-2] descrive nei dettagli l’uso ri-tuale e ‘magico’ dei tizzoni del falò di S. Giovanni, che erano condotti per tre volte in un ampiogiro attorno ai poderi da liberare dalla presenza delle volpi, durante ognuno degli scongiuri adhoc che si effettuavano tre volte all’anno (Pasqua, Assunta e Ognissanti) nell’Albret (Aquitania).

35 Esplicito, anche in questo caso, è il testo della Legenda aurea, che riprende S. Agostino:«[In hac die] feruntur etiam facule ardentes, quia Iohannes fuit lucerna ardens et lucens; et rotauertitur, quia sol tunc in circulo descendit, ad significandum quod fama Iohannis qui Christoputabatur descendit secundum quod ipse testimonium perhibuit dicens: “Me oportet minui, il-lum autem crescere”. Hoc significatum est secundum quod dicit Augustinum in eorum ortibuset in eorum mortibus. In eorum ortibus, quia circa natiuitatem Iohannis incipiunt dies decre-scere, circa natiuitatem Christi crescere […]. Item in eorum mortibus, quia corpus Christi incruce est exaltatum, corpus Iohannis capite minoratum» (ed. Maggioni 1998: 551).

36 Le porte del tempio cristiano medievale, come già di quello pagano (si ricordi per tutti ilcaso paradigmatico del tempio di Giano), rispondono cioè a un simbolismo cosmico in cui «ilpassaggio da un mondo a un altro è più d’ordine temporale e ciclico che non d’ordine spaziale»[Burckhardt 1976: 90] (cfr. anche la frequente presenza sugli stipiti o gli arconi di tali portalidei cicli dei mesi, dello zodiaco, delle età della vita, ecc.). Tali cesure cicliche sono a loro voltarichiamo della grande cesura del tempo storico, costituita dalla prima venuta di Cristo, il qualedisse di sè «Ego sum porta ovium, […] ego sum ostium; per me si quis introierit salvabitur» (Jo.10: 7-9), e anticipazione escatologica della seconda e definitiva cesura che, alla fine dei tempi,sarà data dalla Parusia: «ingredietur et egredietur, et pascua inveniet».

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ti in architettura quali ‘porte solstiziali’ (cfr. Burckhardt [1976: 89-96], conricca bibliografia): pare quindi significativa la frequente comparsa sui loro ele-menti architettonici di raffigurazioni della volpe che si finge morta per poterpiù facilmente catturare gli uccelli di cui nutrirsi37 (accompagnate a volte daaltre immagini animali di uguale procedenza), direttamente ispirate dai bestia-ri morali dell’epoca e dalle relative illustrazioni miniate, che la presentavanoquale animal dolosum et nimis fraudolentum et ingeniosum, […] vero figuramhabet diaboli38. Si tratterebbe cioè di una rappresentazione simbolica del solsti-zio estivo, posto sotto l’egida di S. Giovanni Battista, con un’immagine di tra-dizione ‘favolistica’ ben nota al popolo: gli uccelli, animali celesti e ‘solari’, so-no divorati dalla volpe, animale che vive in tane sotterranee e caccia nell’oscu-rità, allo stesso modo in cui dopo il culmine solstiziale, il giorno solare, arriva-to al massimo della sua lunghezza, sarà progressivamente ‘divorato’ dalle tene-bre (salvo la ciclica inversione delle parti al successivo solstizio invernale)39.

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37 È il caso, pur con varianti iconografiche, dell’architrave e dello stipite destro della porta‘della Pescheria’ del Duomo di Modena (dedicato a S. Geminiano: cfr. Frugoni [1999: I.24,258, II.345, 358]), degli archi dei portali della chiesa di S. Giovanni (Battista) Profiamma pres-so Foligno e di quella di S. Pietro a Spoleto (cfr. http://spazioinwind.libero.it/iconografia/Pro-fiamma.htm, Pardi [2000: 286, 394, 401, 404],), del timpano di St. Ursin a Bourges (cfr. Beig-beder [1989: 133, 288-9 e tav. 7]), dell’arco e della base della colonna di destra del portale dellachiesa di St. Mary ad Alne nello Yorkshire (cfr. Muratova [1987]), ecc.

38 Così il Physiologus di Isidoro di Siviglia (XV. De vulpe), al cui seguito tutti i bestiari latini evolgari del Medioevo. Riportiamo per tutti il testo del quattrocentesco bestiario ‘tosco-veneto’conservato alla Biblioteca Civica di Padova, edito da Goldstaub-Wendriner [1892: 58-9]: «Labolpe si è una bestia maliziosa con molti volpini, et à una natura si fata, che quando ela à fame,si se inpega tuta et va in (n)un canpo et metese roversa in tera et cava fuora la lengua; e li corbie le cornachie che la vede, si crede che la sia morta, et vali adosso per becarla, et ela apre la bocaet pigliale e si le manza, e in cotal manera se pase, quando ele ano fame. Questa volpe significalo demonio, lo qual se briga et inpensa, com’elo posa inganare la zente, et altro no pensa né dedì né de note, e senpre va tanto inpegandose et involupandose de pecadi, et con questi suò viziva piando li omeni del mondo et menali con si in lo inferno». Per altre versioni latine e volgari eper ampia bibliografia sul tema, cfr. Carrega-Navone [1983: 49-50, 310-3, 364-5, 511-2]. Perun’illustrazione dell’astuzia della volpe affamata e per l’impiego astrologico e morale del concet-to, v. qui fig. 2 e fig. 3.

39 Il tema era già stato identificato da De Gubernatis [1874: II.129-30] nella tradizione in-diana, sia pure in termini più generali e relativi al solo ciclo giornaliero: «Le renard de la légen-de […] a, comme presque toutes les figures mythiques, un double aspect. Comme il représentele soir et que le soleil a pour image un oiseau (le coq), le renard, ennemi proverbial des poulets,est aussi dans le ciel le maraudeur et le mangeur du coq et, comme tel, l’ennemi de l’homme oudu héros, qui finit par se montrer plus habile que lui et par causer sa perte. Le soir, le renardsurprend le coq par la ruse, et le matin, il est la victime de la ruse du coq. Il est donc un animalde nature démoniaque, quand on le considère, soit comme dévorant ou trahissant le soleil (sousla figure d’un coq […] ou d’un homme) […] soit comme tué ou mis en fuire par le soleil luimême (coq […] ou homme)». La stessa ambiguità della figura mitica della volpe «tantôt l’ami,tantôt l’ennemi du héros» sembra collegata, nelle fonti sanscrite, all’interpretazione simbolicadell’astuzia e del colore rossiccio dell’animale, inteso quale «image de la teinte rougeâtre du cielqui tient le milieu entre l’éclat du jour et l’obscurité de la nuit» e quindi quale incarnazione siadel crepuscolo («moment des incertitudes et des supercheries» all’ora del quotidiano ‘spegnersi’del sole) che dell’aurora (momento della giornaliera ‘rivincita’ del sole sulle tenebre, a volte raf-figurata dal temporaneo ruolo della volpe quale «auxiliaire du héros ou de l’animal solaire con-tre le loup des ténèbres nocturnes»): cfr. De Gubernatis [1874: II.128, 130 (e 144-5 per il rico-noscimento del tema nelle fiabe russe)].

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Fig. 2 – Vulpis est animal dolosum et nimis fraudolentum et ingeniosum… Oxford, Bod-leian Library, ms. Laud. Misc. 247, f. 149 (De vulpe et quam dolose capit aves: da Mu-ratova [1987: fig. 11]).

Fig. 3 – Duo vulpes gallinascomedentes: homo gulosus erit etavarus. Pietro d’Abano (1257-1315 c.), Astrolabium planum

(Augusta, G. Engel, 1488): temadi nascita per il quattordicesimogrado dei Gemelli (da Bozzolato-

Berti [1992: 77]).

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Se quanto detto finora sembra mostrare chiaramente come il punto diconvergenza ‘ideologica’, e quindi di contrapposizione-identificazione simbo-lica, tra la volpe e il Battista è costituito, ben al di là del dettato evangelico, dalsolstizio d’estate e dalla relativa ritualità popolare, culminante nei ‘fuochi di S.Giovanni’40, esso lascia però privo di spiegazione l’accostamento tra la volpe eil periodo solstiziale: per una piena comprensione di questo passaggio, crucialeai fini della possibilità di identificare la volpe come doppio di S. Giovanni (equindi di denominarla tabuisticamente come ‘Gi(ov)anna’), riteniamo che sidebbano osservare con più attenzione alcuni aspetti specifici della tradizionepopolare europea legata alle celebrazioni solstiziali, cercando quindi di risalirenel tempo fino alle origini, per quanto attingibili, delle tradizioni e ritualità diorigine pagana che vennero poi sussunte, almeno in un loro filone principale,dalla progressiva cristianizzazione dello ‘spazio romano’, movente dall’Urbe.Osserviamo innanzitutto che il 24 giugno, data solstiziale dedicata poi dal-

la Chiesa alla natività di S. Giovanni Battista (Natale d’estate), è concorde-mente indicato dagli antichi agronomi romani (Plinio, Varrone, Columella,Palladio) come giorno d’inizio della mietitura del grano (ritardabile in alcuneregioni fino a fine mese: cfr. Le Bonniec [1958: 126], con indicazione dellefonti). In Sicilia (e altrove) ciò costituisce ancora la norma e la festa di S. Gio-vanni coincide quindi con l’inizio della terza fase del ciclo del grano41: nella

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40 Lo stretto rapporto tra la volpe (Guineu, alla catalana) e la ritualità popolare della nottedi S. Giovanni compare, senza alcuna apparente sfumatura di contrapposizione (e, anzi, connostalgica immedesimazione), anche in una recente e anonima lirica aranese di emigrazione(Polifonies occitanes 1. Val d’Aran, al sito della Federación de Asociaciones Culturales del AragónOriental: http://rimat.blogspot.com): «Quan ix de la Vall d’Aran, repassa mots la Guineu […] iescolta els adius de Joan. Com en els adius de Joan, fa molt temps […] esta Guineu va estimarla Vall d’Aran. Enten, enten, l’accordeon, dus pas de dança, ua cançon, eth haro [il falò] que s’aalugat, Sant Joan, Sant Joan, se n’ei tornat. Era passejada, un ser d’estiu, e com te va? adiu, adiu![…] Non se pot estancar eth temps, més Aranés, tostemp, tostemp. Tornar a pujar enquià eranheu, un darrèr còp eth cap en cèu, setiat dessús eth gran calhau, guardar eth sorelh en granportau. Companhs […], brembatz-vo’n plan deth praube Joan qui a estimat tant era Val d’A-ran. Val d’Aran, cap de Gasconha, luenh de tu, que’m cau partir. Val d’Aran, cap de Garona,luenh de tu, que’m vau morir.» Per la corretta comprensione del testo e della situazione evocata,va ricordato che la Valle d’Aran, che coincide con l’alto corso della Garonna, sul versante set-tentrionale dei Pirenei, ed è linguisticamente ascrivibile all’area occitana (varietà guascone), ap-partiene in realtà alla Spagna, trovandosi in territorio da secoli catalano, presso il confine conl’Aragona. Il testo riprende peraltro alcuni elementi presenti nella versione occitana della Chan-son du roi Renaud (Jean Renaud in alcune varianti «meno pure»: cfr. n. 25), raccolta proprio inBas Quercy (regione di cui è capoluogo Montauban, feudo di Renaud nel romanzo epico fran-cese) e ritenuta «peut-être l’une des plus près de son origine» medievale, in cui il counte Arnaudpromette, nel partire per combattere in Piemonte, di tornare «mort ou vif […] vers la Saint-Jean», quando la moglie gli avrebbe partorito un erede: tornerà, in effetti, all’epoca promessa,accolto dalla madre che gli annuncia la nascita del bambino, ma essendo gravemente ferito do-vrà rinunciare a vedere la moglie e figlio e morirà la notte stessa del suo arrivo (quest’ultimaparte è comune a tutte le varianti): cfr. Canteloube [1951: II.288]; testi e musiche di varie ver-sioni della Chanson, tra cui quella occitana in parte tradotta, sono disponibili ai siti http://htdig.prato.linux.it/~lmasetti/antiwarsongs/canzone.php?id=2499 e http://www.rassat.com/tex-tes s.v.

41 Buttitta [2006: 42-3, 84-9] ripartisce correttamente l’anno agrario e «l’attuale calendariocerimoniale siciliano […] in tre periodi solo parzialmente riconducibili alla scansione delle sta-gioni e più evidentemente connessi al ciclo del grano»: un primo periodo autunnale-invernale,

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tradizione popolare siciliana il Battista appare perciò spesso come ‘patrono’ delgrano e della mietitura42. Tenendo presente questa stretta associazione tra S.

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avviato dal ciclo festivo di Ognissanti-Commemorazione dei defunti (1-2 novembre) e conclu-so dal Carnevale, legato alla dimensione ctonia del grano (seminato appunto in novembre), chegermina e sviluppa l’apparato radicale, con il «movimento interno/esterno del seme di frumen-to»; un secondo periodo primaverile-estivo, avviato dal ciclo festivo di S. Giuseppe (19 marzo)-Settimana santa e concluso dalla festa di S. Antonio di Padova (13 giugno: in tutta la Sicilia«Sant’Antuninu […] ha cura diretta delle campagne e della granigione del frumento […], lo siprega che ogni spiga dia tanto grano da riempire un munniu» [Pitrè 1944: 152-3] e cfr. Pitrè[1881: 271]), legato alla dimensione uranica del germoglio di frumento che cresce e della spigache si forma e matura, con il «passaggio dall’interno all’esterno della pianta germinata»; infineun terzo periodo estivo-autunnale, avviato dal ciclo festivo di S. Giovanni Battista-S. Calogero(18 luglio), legato «alla sottrazione della pianta alla terra, […] dalla raccolta alla successiva semi-na», caratterizzato dalle varie feste patronali (di ringraziamento per la ricchezza conseguita e dicelebrazione dell’identità comunitaria) che si susseguono durante l’estate, in coincidenza con leoperazioni di mietitura (che sembrerebbe conclusa entro il 2 luglio – a Enna festa tradizionaledell’Assunta, di sicura discendenza antica legata al ciclo demetriaco – anche nelle zone montuo-se dell’interno dell’isola: cfr. Bayet [1971: 118 n. 5], Pace [1949: 75]), trebbiatura, selezione eimmagazzinamento del grano. Come osservava già De Gubernatis [1878-82: II.161-2], «le fro-ment suit le sort du soleil dans le mythe […]: le soleil fécondateur […] fait germer le blé et puisse cache […], pour reparaître au retour du printemps. […] L’hiver, ainsi que la nuit, représente[la] disette, et l’été, ainsi que le jour, l’abondance». La mietitura tradizionale aveva inizio a S.Giovanni anche in Romagna (v. n. 33 per la citazione dell’usanza relativa alla prevenzione delgrano dalla golpe o carie, da effettuarsi nell’imminenza della mietitura, proprio nella notte tra il23 e il 24 giugno) e in Provenza (lo documenta una frase di Mistral di aspetto proverbiale, trat-ta dall’Armana prouvençau del 1882 e riportata da Cramer [1932: 17]: «sant Jan adus [porta] lameissoun»), e analoga anche sembra la situazione della Borgogna, almeno a giudicare dalla loca-le usanza popolare (fraintesa e riportata con ironia da Sébillot [1906: 533]) di collocare le statuedel santo a protezione delle messi troppo battute dai venti, il cui forte ondeggiare faceva temereai contadini la perdita del raccolto non ancora giunto a completa maturazione.

42 Le fonti etnografiche segnalano infatti l’usanza dei mietitori siciliani (indipendente dalfatto che S. Giovanni sia o meno patrono dei paesi indagati) di acclamare S. Giovanni dopoaver raccolto la prima gregna di frumento («al caporale che invocava “E cu na vuci ranni tutti:Viva San Giuvanni!”, la squadra coralmente rispondeva alzando le falci: “Viva San Giuvanni!”»[Buttitta 2006: 82]: da Giarratana, dove è patrono S. Corrado) e alla ripresa della mietitura do-po ogni pausa di ristoro («Tutti gridamu cu ‘na vuci granni: Via Diu e S. Giuvanni» [Pitrè1944: 161]: da Noto, dove è patrono S. Bartolomeo), oppure di condurre in chiesa, per la festadel Battista, parte del grano di prima mietitura, con «esplicito riferimento all’avvento dell’ab-bondanza e alla necessità di ringraziarne l’artefice primo, […] il santo» [Buttitta 2006: 86-7,150 n. 3] (da Campobello di Licata, dove il Battista è anche patrono; analoghe offerte del maz-zuni di spighe o di sacchi di grano sono però ricordate altrove in occasione di feste mariane opatronali). In Veneto, secondo le zone e le varietà di grano coltivato, la mietitura tradizionaleera leggermente anticipata – iniziando comunque dopo il 13 giugno (termine di definitiva ma-turazione delle spighe e di inizio della loro essicazione: A Sant’Antonio del segheto ghe more lagamba al fromento, cfr. n. 41), spesso intorno al 18-20, per concludersi entro il 29 del mese (S.Piero del cavaión [covone]) – oppure leggermente ritardata, iniziando quello stesso 29 giugno:in entrambi i casi, la data di riferimento era quella terminale del ciclo ‘magico’ e rituale iniziatola notte di S. Giovanni, il che conferma, sia pure in modo meno evidente che nel caso romanoe siciliano (e romagnolo, provenzale, borgognone, ecc.: v. n. 41), la centralità del rapporto tra ilBattista, in quanto ‘nume tutelare’ del periodo solstiziale, e il grano che in quello stesso periodova mietuto (cfr. Coltro [1980: 31, 36, 66, 122-3, 128-9], [1982: I.218, 239-40, II.171, 185-6],Marcato [1991: 63, 73, 109 nn. 235, 239]). Per una migliore comprensione di quanto sopra,va ricordato che il ciclo festivo avviato il 23-24 giugno proseguiva il 25 (S. Eurosia patrona deifrutti della terra e S. Eligio patrono dei contadini) e il 26 (SS. Giovanni e Paolo, consideratispesso ‘repliche’ del Battista e di S. Paolo apostolo) per concludersi il 29 giugno (SS. Pietro ePaolo, con preminenza del primo, patrono dei mietitori): cfr. EC [V.240, VI.525, 633], BS [In-dice dei patronati]. Il legame rituale tra i due estremi del ciclo è esplicitato nella tradizione po-

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Giovanni e il grano, sembra significativo, per i nostri fini, richiamare il fattoche la volpe – genericamente considerata in varie zone d’Europa (dalla Lappo-nia al Portogallo e dalla Scozia alla Stiria) quale Seelentier (volta a volta psico-pompa, messaggera dei morti, portatrice di bambini, strega, spirito, demonedella malattia, Wetterzauber, ecc.: cfr. Riegler [1933: 405-6]) – compare piùspecificamente in veste di ‘spirito del grano’ (corn-spirit, nei termini di Frazer[1925: I.268, 286-7, 296-7], [1949: 447-8]) nella tradizione popolare di mol-ta parte della Francia, della Germania e della Svizzera43.Il corn-spirit, dopo il rituale passaggio di «a dead or living fox from house

to house in spring, […] perhaps to diffuse the refreshing and invigorating in-fluence of the reawakened spirit of vegetation», risiederebbe sotto forma divolpe nel campo di grano determinandone l’ondeggiamento con i propri an-dirivieni, proteggendolo dalle incursioni giocose dei bambini44, difendendosi

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polare veneta anche dalla c.d. ‘barca de S. Piero’ (che si formava durante la notte dal 28 al 29giugno per separazione delle componenti di un uovo sbattuto in una caraffa d’acqua e dalla cuiconformazione venivano tratti gli auspici per il resto dell’anno), per la quale si doveva utilizzareacqua che era stata esposta durante la notte di S. Giovanni (v. n. 33). Analogamente, gli auspicimatrimoniali per le ragazze erano tratti, a Venezia e in Sicilia, sulla base delle modalità di ger-minazione e crescita di alcuni chicchi di grano seminati in vaso la vigilia di S. Giovanni e verifi-cati a S. Pietro [De Gubernatis 1978-82: II.165-6]. Nel Gargano, dove la mietitura inizia puredopo il 29 giugno, «gli stessi esperimenti dell’uovo, del piombo e del cardone», già effettuati ascopo auspicale nella notte di S. Giovanni, si ripetevano in quella di S. Pietro [Tancredi 1940:43-5].

43 Cfr. anche Mannhardt [1884: 108-10]. Lo stretto rapporto esistente tra la volpe e i variesseri mitici della tradizione popolare, in particolare le streghe (v. anche sopra, in testo e a n.34), sembra anche dare ulteriore fondamento all’ipotizzata antica reinterpretazione del toponi-mo bresciano da cui abbiamo preso le mosse (Corna della Zana), da ‘cima della strega’ a ‘cimadella volpe’. Significativo, in chiave sia comparatistica che di complementarietà alimentare, èanche il fatto che in Giappone la volpe sia attributo costante della divinità scintoista del riso,Inari, e compaia spesso, in forma di statue accoppiate, davanti ai templi a lei dedicati (cfr. Fra-zer [1925: I.297]). Un rapporto, di non chiaro inquadramento (cfr. già Fowler [1899: 78-9]),tra la volpe e i cereali compare anche nel racconto livornese riportato da De Gubernatis [1874:II.145-6 n. 1], dove una volpe maremmana, dopo aver lungamente atteso, per cibarsene, la gal-lina con la sua nidiata, fugge davanti ai cento pulcini, novantanove dei quali recanti nel beccouna spiga di miglio che la chioccia spiega essere «toutes queues de renard» (mentre l’ultimo pul-cino aveva il becco ancora libero, evidentemente per raccogliere la coda della volpe in questio-ne). Secondo le testimonianze raccolte da Sébillot [1906: 476-9], in alcune regioni dell’area oc-citana, i rituali profilattici della notte di S. Giovanni (v. n. 33), erano finalizzati specialmentealla prevenzione dei «douleurs de reins» (il c.d. renard) e alla conservazione della forza dei mieti-tori (ma anche a scopi diversi, a volte nettamente magici) e prevedevano l’uso di alcune spighedi frumento raccolte all’alba del 24 giugno o passate varie volte nel falò benedetto di quellastessa notte.

44 Funzione analoga aveva nella tradizione popolare del Veneto il martoreło, un folletto ros-so (o dal pelo fulvo, simile a quello della martora, ma dai «lievi tratti somatici umani» e «dotatodi velocità e scaltrezza soprannaturali») «che vegliava sulle messi e sui raccolti e si divertiva aspaventare i bambini che si fossero avventurati per giocare nei campi» (Tonin [2005: 138],http://spaces.msn.com/fatadellafantasia/PersonalSpace.aspx). Si noti che martoreło è anche ilnome popolare della faina (che è in effetti una martes di taglia inferiore; per la diffusione del ti-po in Veneto, Trentino meridionale, Lombardia orientale, Emilia e Romagna settentrionali,Montefeltro e Umbria, cfr. AIS [III.437]) e, in Polesine, epiteto scherzoso per «l’emigrante cheritorna al paese d’origine per trascorrere le ferie ospite di parenti o amici», in quanto «il suocomportamento ha le stesse conseguenze di quello della faina […], perché, per dovere d’ospita-lità, fa vuotare il pollaio» [Cortelazzo-Marcato 1998: 274]; cfr. anche l’espressione vicentina «ti-

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durante la mietitura col provocare la malattia o il ferimento di qualche conta-dino col proprio falcetto e rintanandosi fino nell’ultimo fascio di spighe (chene rappresenterebbe la coda e, una volta tagliato, si conserva tutto l’anno sulcamino della fattoria), dando quindi il proprio nome a chi riesce a tagliare la‘coda’ con un abile lancio della falce (nonché alle feste, balli e cene di fine rac-colto, dove il posto d’onore è dato alla ‘coda’ stessa) e la propria forma ai pu-pazzi celebrativi che vengono issati sull’ultimo carro che rientra con le messi oa quelli derisori (in Alsazia una vera volpe impagliata) che vengono gettati neicampi o nella casa di altri contadini rimasti indietro con la mietitura, ecc. Co-me si nota, la volpe (in quanto ‘spirito del grano’, che viene considerato vivofintanto che, e ovunque, vi siano spighe da mietere) è concepita di volta involta come benefica (vivificatrice, protettrice, da onorare e conservare, ecc.)oppure come malefica (fonte di malattia o ferite, da passare al vicino, ecc.: cfr.Frazer [1925: I.267]), con la stessa ambivalenza già osservata sopra, a proposi-to delle sue relazioni con S. Giovanni (e degli stessi esseri mitici – fate, ninfe,maghe o streghe – denominate nelle varie lingue romanze con gli esiti di DIA-NA, spesso omofoni o assai simili al nome tabuistico della volpe di cui stiamooccupandoci: v. sopra nn. 6, 9): da questo punto di vista, anche la citata anti-ca usanza francese di bruciare volpi vive nei fuochi di S. Giovanni, potrà quin-di essere interpretata come sacrificio finale di un corn-spirit ritenuto maligno,evidentemente a conclusione di una mietitura un po’ anticipata rispetto alledate romane, siciliane, ecc. (cfr. Bayet [1971: 101-2]).Interrogandosi circa le possibili origini della concezione della volpe come

‘spirito del grano’45, sembra a questo punto legittimo accostare tale credenza al

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rarse el martoreo en casa», riferita a «la presenza di persona poco gradita» [Cappellari 1986:109-10]. Martora e faina condividono con la volpe anche molti aspetti morfologici, cromatici edi abitudini alimentari e comportamentali (che inducono al contadino uguali danni e analoghimetodi di caccia, quali cani, trappole, affumicazione delle tane, ecc.), tanto da essere spessoconfuse (cfr. l’espressione francese prendre Marc/Marthe/martre pour R/renard ‘confondersi’, cita-ta da Rolland [1908: 126]). Come si vedrà subito nel testo, lo scambio della volpe con animalidi aspetto simile pare presente già nell’antico rituale romano, e certamente lo è nelle fonti lette-rarie vediche e sancrite (v. n. 46).

45 Tale concezione non riguarda peraltro solo la volpe: il folklore europeo annovera infattinella stessa funzione anche il lupo e vari animali domestici (cane, gallo, oca, gatto, capra, bue,maiale, cavallo, ecc.: cfr. Frazer [1925: I.270-1, 304], [1949: 447]). Anche il gatto, animalespesso ritenuto stregato, era vittima tipica dei fuochi di S. Giovanni francesi, mentre i tedeschiusavano allo scopo una testa di cavallo e i russi un gallo bianco (cfr. Frazer [1923: II.39-40],[1949: 656], Rolland [1881: 85, 115], che riporta il detto vallone chétif comme un chat d’aprèsla Saint-Jean). L’accostamento o la sostituzione del gatto alla volpe (certo sulla base delle comu-ni caratteristiche di abilità e astuzia: cfr. l’espressione veneta el xé gato, quasi sinonima di el xéna volpe ‘è un furbastro’) sono del resto assai frequenti nella tradizione popolare europea, finoalla celeberrima coppia di imbroglioni, ‘il Gatto e la Volpe’, di Collodi (poi musicata da Edoar-do Bennato): ricordiamo in proposito (oltre alle avventure ‘Renardiane’ del gatto Tibert) le nu-merose varianti, spazianti dalla Russia alla Toscana, Sardegna e Sicilia (queste ultime poi con-fluite nelle Fiabe italiane di Calvino, con la già citata nr. 185: Giovannuzza la volpe), della fiabadel Gatto con gli stivali, in cui il ruolo di benefattore dell’eroe povero è svolto da una volpe (cfr.De Gubernatis [1874: II.141-3], Calvino [19702: 872-3]), e un’altra fiaba russa in cui la volpecompare quale moglie del gatto (cfr. De Gubernatis [1874: II.140]); nell’appendice a Fedro delmarchigiano Nicolò Perotti (1429-80), una volpe avverte un gallo, trasportato in lettiga da duegatti, delle cattive intenzioni di questi ultimi nei suoi confronti, poi puntualmente verificatesi

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poco che le fonti letterarie latine lasciano trasparire del più antico fondo delrituale romano (sopravvivenza forse di un più antico strato italico) relativo alciclo cererio: secondo l’isolata testimonianza di Ovidio (Fasti IV.679-82), levolpi comparivano a Roma quali vittime rituali (ma non propriamente sacrifi-cali), consumate dal fuoco delle torce che portavano sul dorso in un’insolitavenatio nel Circo Massimo, l’ultimo (ma in origine unico) giorno delle Ceria-lia, il 19 aprile (cfr. in merito Le Bonniec [1958: 115-23], [1966], Bayet[1971: 89-129]). Festo (358 L), ripreso poi da Paolo Diacono (39 L), ricordainvece come delle «rufae» ovvero «rutilae canes, id est non procul a rubro co-lore» (che per il colore del manto possiamo verosimilmente considerare qualifacili sostitute delle volpi (cfr. Fowler [1899: 91 n. 2], Bayet [1971: 100 n. 1,103 n. 1])46 erano immolate «pro frugibus deprecandae saevitiae» e «ut fruges

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appena essi ebbero fame (una complessa variante del ‘Renardiano’ funerale della volpe fintamorta da parte dei galli, altrove reinterpretato quale funerale del gatto finto morto da parte deitopi: per la documentazione di queste ed altre varianti della fiaba, che pure mostrano la pienafungibilità del gatto e della volpe, nella scultura romanica europea, cfr. Beigbeder [1979: 133,288], Cocchiara [1981: 190-1], Frugoni [1999: I.24, 258]); nel XIII sec. l’inglese Oddone diCheriton, ripreso poi da La Fontaine, proponeva un confronto tra il gatto e la volpe (conclusosia tutto vantaggio del primo) circa l’efficacia dei rispettivi trucchi e astuzie per sfuggire ai cani;lo stesso Oddone e il bizantino Gregorio Nicefora (1296-1360) riportano varianti del noto epi-sodio del Renart moine (cfr. De Gubernatis [1874: II.145] per la presenza del tema anche nellafiaba russa e Cocchiara [1981: 192] per la sua fortuna nella scultura romanica europea), in cui afingersi religioso è un gatto che riesce così a carpire la fiducia dei topi e a catturarli con più faci-lità e maggior ferocia che allo stato ‘laicale’ (cfr. Engels [2001: 100, 104, 205-6]; Rolland[1881: 120] segnala anche la siciliana munachedda, una «gattarella» che voleva fare amicizia coitopolini); sul piano linguistico, cfr. forse il marchigiano fiyine < FELINUS ‘volpe’ [Meyer-Lübke19353: n. 3235], della cui errata zootassonomia si stupiva Riegler [1933: 408] (ma la voce sem-bra semplicemente la forma picena meridionale (‘pretuzia’) per ‘faina’: cfr. AIS [III.437, punti578, 569, 608, ecc.]) e il francese (ironico) «officiellement, je suis un renard, membre félé duclan félin» al già citato sito Internet http://www.rpgkingdom.net/articles/Interviews-croisees--23-1.html. Il gatto sembra figurare anche, quale compagno di furfanterie della volpe (in abitoda pellegrino, ma con bisaccia piena di galline e cesto di uova rubate), in una celebre xilografiadei modenesi Soliani (da incisione della seconda metà del XV sec.) dominata dal cartiglio CHIVIRA MECO IN COMPAGNIA TRIVMPHAREMO PER LA VIA (cfr. Toschi [1964: 22, 178, 181], Milano[1986] (che corregge precedenti equivoci di identificazione iconografica, ma ritiene che il com-pagno di razzie della volpe sia un cane), Pianta [1989: 29-30, 32 n. 11], con la postilla di Sanga[1989], qui non rilevante): v. qui fig. 4.

46 Già nel Rigveda e nella letteratura sanscrita si ha frequente scambio tra la volpe (canis vul-pes) e lo sciacallo (canis aureus), basato sul comune aspetto rossiccio e su abitudini comporta-mentali e alimentari simili: oltre che nel mito e nelle fiabe (dove allo sciacallo sono attribuitetutte le classiche astuzie della volpe), ciò ebbe riflesso anche a livello linguistico, nello stesso no-me indiano dell’animale (lopâças ‘volpe, sciacallo’ e lopâçikâ ‘volpicina, femmina dello sciacallo’:cfr. greco ¨lèphx ‘volpe’, latino vulpecula) e negli attributi di vancaka e mrgadhûrtaka ‘l’ingan-natore degli animali’, riferiti dai lessici sanscriti allo sciacallo (cfr. De Gubernatis [1874: II.128-9]). Interessante dal nostro punto di vista è anche l’osservazione di De Gubernatis [1874:II.144], riferita alla volpe che sostituisce il ‘Gatto con gli stivali’ nella variante russa (siciliana,ecc.: v. n. 45, Giovannuzza la volpe) della fiaba: «ici le canis-vulpes, la chienne rousse, le renardparaît remplir une partie du rôle de la chienne messagère des Védas». Il frequente riferimento,per la datazione del sacrum canarium, a Sirio, la stella più luminosa del cielo, situata nella co-stellazione del canis maior (v. sotto nel testo), il cui sorgere eliaco a fine luglio determinava l’ini-zio della rubra canicula, suggerisce un ulteriore motivo di possibile conguaglio o confusione trala volpe e le rufae canes, specie in epoca di forte ellenizzazione culturale di Roma: secondo unadelle versioni della leggenda di origine greca riportata da Igino (Astr. II.35, ma presente già in

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flavescentes ad maturitatem perducerentur» in occasione di un mal definitocanari[um] sacrifici[um]47, rito a data mobile che si svolgeva in un periodoambiguamente espresso dalle varie fonti (v. n. 47) in termini astronomici (Fe-sto, Servio e Paolo Diacono, con riferimento male espresso a «Sirius, stella inore canis» e «caniculae sidus») o di sviluppo della pianta (Plinio: «dies consti-tuantur priusquam frumenta vaginis exeant et antequam in vaginis perve-niant»): dopo molte erranze della critica storica e filologica, Prosdocimi[1996: 595-605] ha ora convincentemente collocato tale periodo ai primi dimaggio (epoca del tramonto eliaco di Sirio) e adeguatamente inquadrato il ri-to stesso (in base alla sua definizione difficilior, e come tale significativa e

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Ovidio, Met. VII.763-93), il canis maior e il canis minor rappresenterebbero rispettivamente ilcane di Cefalo (Lelape) e la volpe del Teumesso, trasformati da Zeus in statue per risolvere l’im-passe determinatasi al loro incontro a Tebe, a causa dei precedenti e immutabili decreti del Fato,secondo cui a quel cane non sarebbe sfuggita alcuna bestia e quella volpe sarebbe stata così velo-ce sfuggire a tutti i cani.

47 Così Festo, a sua volta da Verrio Flacco e in base a una perduta testimonianza di AteioCapitone; Paolo Diacono non dà invece alcuna definizione del rito, mentre Servio (auct., Georg.IV.424) lo definisce come sacrum canarium, senza però specificare la vittima prevista, e Plinio(Nat. hist. 18.14), più esplicito (sebbene ambiguo, v. sotto nel testo) quanto alla datazione (ri-presa dai Commentarii pontificum) ma ugualmente reticente quanto alla vittima sacrificale, parladi auguri[um] canari[um], con una definizione che, come si vedrà subito, va ritenuta la più cor-retta: si vedano le fonti riunite e discusse in Prosdocimi [1996: 589-94].

Fig. 4 – Chi vira meco in compagniatriumpharemo per la via. Milano,

Civica raccolta di stampe A.Bertarelli: xilografia Soliani

(stampatori granducali a Modena,1640-1870), da incisione della

seconda metà del XV sec.: il gatto ela volpe «furfanti trionfanti» (daToschi [1964: 181], cfr. [Pianta

1989]).

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«principio di spiegazione», di auguri[um] canari[um]) come «intimamenteconness[o] col concetto di ‘crescita’», nel caso specifico crescita del grano48.Malgrado le ambiguità delle fonti riferite all’augurium canarium e l’inge-

nua eziologia proposta da Ovidio (Fasti IV.683-712) per il sacrificio volpinodelle Cerialia (evidentemente non più bene inteso già nel I sec. a.C.)49, che,volendo spiegare Roma con Carseoli, lo collega vestit[is] messibus agr[is] (v.707), è quindi chiaro che i due riti si collocano calendarialmente nel periodo– cruciale per il ciclo del grano e quindi per le prospettive alimentari della po-polazione50 – della formazione e fuoriuscita della spiga dal germoglio di fru-mento e dell’inizio del suo accrescimento (nei termini di Buttitta [2006], èquesta la fase centrale del periodo ‘uranico’ dell’anno agrario: v. n. 41)51: sitratta quindi di riti propiziatori per il buon esito del futuro raccolto, prope-deutici alla stessa esistenza di fruges da mietere a suo tempo (cfr. Le Bonniec[1958: 123-8]) e perciò «considérés comme indispensables au renouvellementcyclique de la prosperité publique» (Bayet [1971: 120]).Qualunque sia l’interpretazione specifica della corsa delle volpi in fiamme

alle Cerialia (rito magico-religioso di fertilità, legato anche ai numerosi cultiagrari antichi che si concentravano nel Circo Massimo, come sostiene Bayet[1971: 99-103, 119] sulla scia di Mannhardt [1884: 108-10]; oppure rito ‘ra-zionalista’ di purificazione dei campi da ogni possibile presenza nociva oparassita, come vorrebbe Frazer [1925: I.297-8 n. 5], [1929: III.331]; o anco-

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48 Augurium dunque non in senso ‘auspicale’, ma direttamente collegato al valore etimologi-co di augeo «che arriva a produrre augustus per Ottaviano: è una forza carismatica, […] una visdi crescita (diversa dalla crescita per cibo che si ha con olesco, adoleo, *magere in mactus)»: ritoquindi perfettamente adeguato (e quasi antonomastico) al ciclo cererio, ove si tenga presentel’etimologia, già antica, di Ceres «a creando dicta»: «una dea della crescita […] per nascita (creo)ed evoluzione (cresco) per una forza ‘miracolosa’; è il ‘miracolo’ di tutto il ciclo del grano, dallasemina al raccolto, ma specificamente è il miracolo della formazione della spiga» (Prosdocimi[1996: 548, 555, 599 e cfr. 547-87]).

49 Soprattutto a causa della progressiva ma incoerente ellenizzazione cui era soggetta, già dasecoli, la ritualità cereria romana: cfr. Bayet [1971: 100, 105-9, 125-8]. La ‘spiegazione’ propo-sta da Ovidio è la seguente: «Frigida Carseolis nec olivis apta ferendis terra, sed ad segetes inge-niosus ager; […] hoc […] in campo […] habebat rus breve cum duro parca colona viro. […]Filius huius erat primo lascivus in aevo, addideratque annos ad duo lustra duos. Is capit extremivolpem convalle salicti: abstulerat multas illa cohortis aves. Captivam stipula fenoque involvitet ignes admovet: urentes effugit illa manus: qua fugit, incendit vestitos messibus agros; damno-sis vires ignibus aura dabat. Factum abiit, monimenta manent […] utque luat poenas, genshaec Cerialibus ardet, quoque modo segetes perdidit ipsa perit».

50 Cfr. anche i rituali banchetti cerealicoli, ricordati da Gellio (N. A. XVIII.2.11) e da Plau-to (Men. 100), che si svolgevano durante il periodo delle Cerialia: «promesse d’abondance» e«joie de la plèbe» [Bayet 1971: 95 n. 1, 123].

51 Come ha già osservato Le Bonniec [1958: 117-8], [1966: 607, 611], il diverso dato ca-lendariale (e di riflesso la diversa fase di crescita del frumento: imminente formazione della spi-ga vs. campi coperti di messi vs. mietitura in corso), la diversa finalità del fuoco appiccato allevolpi (rituale vs. eliminazione di un predatore del pollaio vs. vendetta privata) e quindi la diver-sa sede della corsa degli animali in fiamme (Circo vs. campi di grano vs. campi, vigneti e ulive-ti) sono ragioni più che sufficienti per distinguere il rito delle Cerialia sia dall’aition Carseolanoaccostatogli da Ovidio (v. n. 49) che dal racconto biblico (Idc. 15: 1-5) relativo alla vendetta diSansone contro i Filistei (e di riflesso dalle favole ellenistiche di III-II sec. a.C. a cui quest’ulti-mo è stato avvicinato), malgrado il comune ‘ingrediente’ della fuga delle volpi in fiamme.

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ra rito polivalente che univa magia fecondatrice e virtù apotropaiche e catarti-che, come suggerisce Le Bonniec [1958: 122])52 e quindi la valutazione delruolo simbolico dell’animale stesso in tale rito (amplificatore del potenziale dicrescita e maturazione del grano, tramite il fuoco e il suo stesso colore fulvoche avrebbero stimolato e sostenuto l’opera del sole e della terra, o piuttostopotenziale distruttore del raccolto), è chiaro che i romani (e gli italici?) conce-pivano la volpe (e forse le rufae canes, sue verosimili surrogate: v. n. 46)53 co-me incarnazione del corn-spirit, attivo fin dagli ‘antefatti’ del grano stesso, cioèdal momento della formazione della spiga: l’ambivalenza interpretativa che daoltre un secolo nutre il dibattito specialistico non è del resto stupefacentequando si tenga presente la sistematica ambiguità di tale concezione e del ruo-lo dello ‘spirito del grano’, su cui ci siamo soffermati sopra. L’eziologia Ovidia-na della venatio delle Cerialia, benché priva di effettivi rapporti col rito chepretende di spiegare (v. nn. 49, 51), è tuttavia significativa ai nostri fini perché

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52 La valenza fecondatrice, oltre che purificatrice, del fuoco è del resto ben presente nellatradizione romana e latina, come mostrano da un lato l’uso del fuoco, insieme all’acqua, nei ritinuziali (in una simbolica unione dei due principi generativi opposti ma complementari, rispet-tivamente maschile e femminile: cfr. Varrone, L. L. 5.61) e il fatto che il focolare costituisse ilcentro della casa, sede dei Lari e luogo del talamo nuziale (allo stesso modo in cui il fuoco pe-renne dell’aedes Vestae nella regia costituiva il centro della vita della comunità politica e la garan-zia della sua continuità: dal punto di vista che più direttamente ci interessa qui, si noti che spet-tava alle Vestali la preparazione della mola, uno sfarinato (successivamente salato in date pre-scritte) realizzato tra l’8 e il 14 maggio tostando e macinando «le giovani spighe in fiore», anco-ra prive di chicchi formati ma gonfie di lattice e di promesse di futura abbondanza – quindi inpiena continuità con il momento di formazione della spiga, alla cui propiziazione erano finaliz-zati i riti delle Cerialia e dell’augurium canarium, e con gli auspici di prosperità della comunità– con cui venivano poi cosparsi gli animali sacrificali: cfr. Prosdocimi [1996: 607-20]) e dall’al-tro gli episodi leggendari, di matrice socioculturale indoeuropea sebbene rivestiti di una patinaambientale etrusca, delle nascite di Romolo e Remo da una schiava fecondata da un fallo appar-so nel focolare di Tarchetios, re di Alba (Plutarco, Rom. 2.4-8), di Servio Tullio da Ocresia,donna di stirpe reale divenuta schiava dei Tarquini, fecondata da Vulcano o dal Lar familiariscon un tizzone uscito dal focolare (Dionys. 4.2; Plinio, Nat. hist. 36.204; Livio I.39), e di Ce-culo, fondatore di Preneste, da una fanciulla pure fecondata da Vulcano con una favilla del fo-colare presso cui sedeva (Servio, auct., Aen. 7.678): quest’ultimo caso è particolarmente signifi-cativo perché Ceculo, abbandonato dopo la nascita, sarebbe poi stato ritrovato da due vergini(forse comparabili alle Vestali romane) presso un fuoco non lontano dal pozzo dove andavano aprendere acqua, con il ritorno degli stessi elementi che humanam vitam maxime continent (Pao-lo Diacono 3 L), nella sua generazione come nella sua conservazione (cfr. De Francisci [1959:247-50], Boulianne [2001: 66-70], Bremmer-Norsfall [2005: 49-61]). Bayet [1971: 99 n. 4]sottolinea come la duplice valenza purificatrice e generatrice del fuoco, contraddittoria solo inapparenza, sia rimasta «tenace jusque dans les feux de la Saint-Jean»: essa si ritrova peraltro, nel-la prassi agricola medievale e moderna, nell’uso di roncare ‘ridurre a coltura con il fuoco i terre-ni boschivi’, di bruciare stoppie e brughiere per pulire e fertilizzare i campi, ecc. (per i riflessitoponomastici, cfr. Pellegrini G.B. [1987: 197, 356]).

53 Così già Fowler [1899: 91], pur nell’errata prospettiva dell’epoca, che tendeva a congua-gliare (o comunque collegare) l’augurium canarium alle Robigalia del 25 aprile: «we may per-haps see in the [rufae canes] an animal representation of the corn, and in the rite a piece of‘sympathetic magic’, the object of which was to bring the corn to its golden perfection, or tokeep off the robigo, or both. […] The occurrence of red colour in victims cannot well be alwaysexplained in this way, […] but in this rite, occurring so close to the Cerialia, where, as we haveseen, foxes were turned out in the circus maximus, the colour of the puppies must have had so-me meaning in relation to the growing crops».

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sembra indicare un precoce trasferimento (o estensione) dell’associazione trala volpe e il grano dal momento della ‘concezione’ della spiga (cfr. Le Bonniec[1958: 128], Prosdocimi [1996: 601-2]) a quello della piena maturazione del-le messi e quindi della mietitura (come la si ritrova in seguito nelle tradizioniagrarie associate al periodo solstiziale)54.Nonostante le inevitabili ‘sfocature’ e le non perfette sovrapposizioni e co-

incidenze tra i diversi elementi presentati e discussi, ci sembra che il quadro fi-nora delineato sia abbastanza chiaro e coerente nell’indicare come l’originedello stretto rapporto tra la volpe e il grano possa essere fatta risalire quantomeno al periodo della Roma monarchica o protorepubblicana55: successivi svi-luppi e ‘oscuramenti’ del rituale originario (di cui già l’eziologia Ovidiana recatraccia) avranno poi esteso (o trasferito) l’associazione volpe-grano dal periodoprimaverile della formazione della spiga a quello solstiziale della mietitura edelle grandi feste popolari legate alla stagione dei raccolti e all’inversione delcorso del sole, che secondo Frazer [1923: II.40] «must on the whole have beenthe most widely diffused and the most solemn of all the yearly festivals cele-brated by the primitive Aryans in Europe». La cristianizzazione degli antichiriti, con la sovrapposizione della festività di S. Giovanni Battista alle celebra-zioni solstiziali, ha poi fatto il resto, spostando ulteriormente l’associazionedella volpe dal grano in quanto tale al nuovo ‘nume tutelare’ dell’epoca dellamietitura, quasi come suo ‘doppio’ animale, e ponendo così le basi della deno-minazione tabuistica della volpe stessa come ‘Gi(ov)anna/i’: Ggiuvannedda/uz-za, Juanne, Zana, Hans(er)l, ecc., il che ne faceva a sua volta una possibile basedi reinterpretazione ‘eufemistica’ degli esiti di DIANA ‘strega’ in molte aree dellaRomània, specialmente dove questi si presentavano come omofoni (o quasiomofoni) delle forme locali per ‘Gi(ov)anna’ (v. n. 9).Se quanto abbiamo proposto è corretto, sembra curioso il fatto che la de-

nominazione della volpe come ‘Gi(ov)anna’ sia attestata nell’antico territorioveneto (compresa la Lombardia orientale) e in area austriaca (e forse in Pie-

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54 Del resto, già il forzato circuito ellissoidale, lungo la pista del Circo Massimo, delle volpiin fiamme delle Cerialia poteva forse evocare il corso del sole «en contraste ou en accord […]avec les courses de chevaux du même jour» (cfr. Bayet [1971: 98 n. 5]: i cavalli alludono qui aloro volta al carro solare, come è ovvio e contestualmente suggerito da Ovidio stesso nell’intro-duzione dell’aition Carseolano (Fasti: IV.688): dempserat emeritis iam iuga Phoebus equis).

55 Nell’esaminare e ricostruire le tappe della «altération d’un culte latin [les Cerialia] par lemythe grec», Bayet [1971: 98, 110, 114-5, 119, 126-8] riconduce la venatio volpina del 19aprile, «seul résidu du culte le plus ancien à nous saisissable», all’originaria concezione religiosalatina «de révérence animiste devant toute puissance naturelle», la cui «tradition royale» fu poiereditata dagli edili plebei (in epoca repubblicana promotori e supervisori del culto di Cererepresso il Circo Massimo e, sul piano civile, delle connesse attività annonarie di approvvigiona-mento, conservazione e commercio del grano): una ritualità legata quindi all’antico sentimentomagico-religioso dei latini – ben antecedente all’ellenizzazione del culto cererio ufficiale (docu-mentata già dai primi anni del V sec. a.C. e poi progressivamente cresciuta fino alla prima etàimperiale: ricordiamo che il trapasso di Roma dalla forma monarchica a quella repubblicana ètradizionalmente datato al 509 a.C.) e proiettato invece verso verosimili (ma inattingibili) origi-ni italiche e indoeuropee – che rimase ben radicato e «très fréquent dans les milieux populaires,surtout paysans», almeno fino all’evangelizzazione dell’Occidente, in epoca barbarica, ma ancheoltre.

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monte e in Francia: v. n. 25) e poi in Sicilia e Sardegna e che essa non risultiinvece documentata in alcun modo nell’area geograficamente intermedia, alcui centro è Roma, dove ci si attenderebbe invece una diffusione più intensaed efficace della catena di associazioni volpe-(grano-solstizio-)Giovanni, irra-diante dall’Urbe. Un’osservazione analoga può tuttavia farsi a proposito dellealtre denominazioni tabuistiche degli animali, riferite sia alla volpe (sotto di-versi nomi ed etichette: v. n. 14) che ad altre specie56: anche estendendo inquesto modo il campo di osservazione, la documentazione raccolta permettedi notare una curiosa distribuzione del fenomeno, dalle più lontane zone del-l’Europa fino all’area veneto-padana e alla Toscana (v. n. 26) e poi in Sicilia,Sardegna e Italia meridionale (Calabria, Campania, Sannio, Abruzzo: v. n.56), con esclusione delle regioni centrali della penisola e in particolare di Ro-ma e Lazio, Umbria, Marche e Romagna, cioè di tutti i territori che fino al1860 costituivano lo Stato della Chiesa. Un’ipotesi ovvia per rendere contodei fatti osservati sembra allora essere che solo nelle aree direttamente soggettealla secolare ‘politica culturale’ ecclesiastica – tesa a contrastare le credenze su-perstiziose e paganeggianti che sono alla base di ogni denominazione tabuisti-ca e in particolare a impedire di nominare gli animali coi nomi dei santi, cosìcome a censurare la letteratura favolistica che sulle antiche credenze e tradizio-ni in gran parte si basava57 – tale politica abbia avuto successo, mentre altrove

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56 Oltre al caso notissimo del veneto-padano barbagianni ‘zio Gianni’, passato in italiano edel tutto lessicalizzato, e a quelli siciliani di lupo, cavallo, bue, maiale, mulo, montone, cane,gatto, ecc. già citati, va qui ricordato (limitandosi, tra le moltissime denominazioni animali diorigine antroponimica, ai casi di più evidentemente tabuistici) che il lupo è zi Nicola o za Laurain Calabria, Gabriel in Auvergne, Dzã di bô (Jean du bois) nella Svizzera romanda, Glôme/Guil-lou (Guillaume) o Yann in Bretagna e ‘il caro Cristiano’ in Irlanda; la donnola è in Sardegna ‘co-mare Anna’; la rana (o il rospo) è zi Dominicu o Giuanell/dda in Calabria, Martina in Lombar-dia, Carleto in Veneto e Jano nel Poitou; la locusta è ‘zia Maria’ a Gorizia, Catarina, Margarita osiora Beta in Veneto e Catainetta a Genova; il ramarro è Vannuzzu in Sicilia e Catarenella a Na-poli; la lepre è zu Filippo in Calabria e ‘fratel Martino’ in basso tedesco; l’orso è Bernardo nelBellunese eMarti nei Pirenei, la foca è in Svezia bruder Lars; in Bretagna la puzzola è Jann bitoch‘puzzone’ e la faina è Jacques; la gazza è commère Margot in Francia; la procellaria è Petrel in Fran-cia; innumerevoli sono in tutta Europa gli uccelli, insetti, bachi e vermi denominati con una va-riante di Gi(ov)anni, ecc. A questi vanno aggiunti molti altri casi di denominazioni tabuistichedi tipo ‘descrittivo’ o ‘parentale’: il lupo è sa bestia in Sardegna, compère guette grise o bête grise inFrancia, pé-déscaou o court d’aouréyos nei paesi occitani, Ki-nos ‘cane di notte’ o Ki-coat ‘cane delbosco’ in Bretagna, ‘dente d’oro’, ‘silenzioso’ o ‘zampa grigia’ in Svezia, ‘veste grigia’ o ‘cognato’in Estonia, ‘il piccolo’ presso gli huculi dei Carpazi e ‘zio’ presso i turchi; il topo è Boenlöper(Beinlaufer, ‘piéveloce’) in Mecklemburgo e ‘corpolungo’ o ‘piccolo grigio’ in Svezia; la gazza ècomaruccia in Abruzzo e Calabria; la donnola è la bête in Francia, nonna de mele o (co)maramèlein Sardegna, comarella in Campania e Calabria, comadreja in Spagna, ‘comarella’ in Slesia, brud‘sposa’ in Danimarca e nev&astu(î)c&a ‘fidanzata’ in Romania; l’orso è ‘nonno’ in Svezia, ‘il vecchio’,‘zampa di miele’, ‘gloria del bosco’ o ‘mela del bosco’ in Finlandia, ‘piede largo’ in Estonia, ‘ziet-to’ o ‘il grande’ presso gli huculi, ‘padre’ in turco e ‘madre’, ‘nonna’ o ‘genero’ presso alcune po-polazioni ugrofinniche della Russia europea; la lince è ‘gatto della foresta’ in Finlandia; ecc. (perla volpe cfr. n. 14 e inoltre i parentali compère, mon oncle o mon cousin in Francia). Cfr. Rolland[1908: 2], Garbini [1920: passim], Frazer [1922: 397-8], [1929: 334-5], Cramer [1931: 63-4],Riegler [1933: 407-9], Migliorini [1927: passim], [1968: passim], Sébillot [1906: 19-21], Alinei[1981: 366-9], Mastrelli [1989: 734-5, 738-9], Blasco Ferrer [2001: 199].

57 Coromines [1980-2001: IV.735-6], nell’indagare sulle possibili cause della mancanza didocumentazione circa le tappe e le modalità con cui nelle diverse regioni catalofone il nome

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(ivi compresi gli altri stati cattolici dell’Italia d’ancien régime) le antiche tradi-zioni popolari solo superficialmente cristianizzate (in primis quelle legate alperiodo solstiziale) e con esse la fioritura di denominazioni tabuistiche, deriva-te o meno da agionimi, poterono avere corso più o meno libero.Significativo ci pare allora ciò che potrebbe altrimenti sembrare una mera

casualità: la prima volpe chiamata ‘Gianni’ di cui abbiamo rinvenuto attesta-zione compare a Roma con il romanzo «storico politico» (e dichiaratamenteanticlericale) di Giuseppe Garibaldi Clelia: il governo dei preti58, in cui è messoin scena «quel messo di delitti che si chiamava il Gianni», «servo prostituto»del «cardinale Procopio, factotum e favorito di Sua Santità», cui sono ripetuta-mente attribuite fattezze e movenze volpine («strisciando a terra il suo muso divolpe», «col piglio simulatore della volpe», «alza quegli occhi di volpe», ecc.)59,tanto da poterlo considerare veramente una volpe in sembianze umane, quali-ficato dalle sue gesta come emissario diabolico. Se, come detto, non si trattaqui di una mera coincidenza onomastica, ciò potrebbe significare che anchenella cultura popolare della contea di Nizza, verosimilmente a suo tempo co-nosciuta dal giovane Garibaldi (o forse più generalmente in quella provenzalee/o ligure, con ulteriore estensione dell’area linguistico-culturale sopra deli-neata), la denominazione tabuistica della volpe era ‘Gi(ov)anni/a’, facendoquindi di tale termine il naturale nome da imporre a un personaggio letterariocaratterizzato da aspetto e comportamento volpini (cfr. n. 25 per il caso appa-rentemente analogo della Chanson du roi Renaud e quello forse speculare delRenart empereur).

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ereditario della volp fu sostituito nel corso del medioevo da quello di Winidhild (> guineu) eWisila (> guilla), mogli dei due Guifre fondatori delle dinastie comitali di Barcellona e di Cer-danya, avanza un’ipotesi assai prossima alla nostra, appoggiata da alcune prove documentarieche possiamo ritenere valide anche per il nostro caso: «sospito que això [i.e.: l’aplicaciò directa,per parte del poble, del nom de la sobirana, més coneguda que cap altra dona com a personaprudent, a la reina dels animals prudents i astuts, la guineu] fou consagrat en alguna mena d’o-bra de literatura popular [com el epos de Renard], en el cas d’aquests dos noms nostres, i quetals obres foren després suprimides, per la censura de literats massa seriosos per tolerar l’esperitdel poble, o per clergues intolerants, temerosos de reminiscències bruixesques, esconjuradores ifins paganes que devien entreveure fluctuan-hi. […] No en manca, però, algun testimoni, simés no indirecte [… com,] en un inventari de llibres de l’any 1383, l’entrada “alium librum Dela Guineu e de la Cabra” (InvLC). […] El valencià Fra Antoni Canal (fi s. XIV), en el prefaci dela versió de l’epístola “De modo bene vivendi”, de Sant Bernat, ve a confessar aqueixa supressiódient “hom deu legir libres aprovats, no pas libres vans, axí com les […] Romans de la Guineu”(CoDoACA XIII, 420)». Una parziale ammissione in tal senso è anche in EC [VI.527]: «la Chie-sa ha cercato di inquadrare, fin dove ha potuto, le principali manifestazioni [giovannee] entroforme liturgiche, con processioni, benedizione dei fuochi e delle fonti, ecc.»

58 Milano, Rechiedei, 1870: il romanzo è ambientato a Roma all’epoca di Pio IX e dei ten-tativi insurrezionali e militari per la sua conquista da parte sabauda, culminati nell’autunno1867 con il fallito colpo di mano dei fratelli Cairoli a Villa Glori, cui fecero seguito le battagliegaribaldine (pure fallite) di Monterotondo e Mentana.

59 Va peraltro segnalato che nel contesto del romanzo sono occasionalmente definiti ‘volpi’anche vari membri del clero («il prete volpone», «le volpi pretine di porto d’Anzo»), tra cui lostesso card. Procopio («il volpone»), un gruppo di suore («turba di rantolose vecchie volpi») e ipolitici sabaudi («le volpi di corte che governano l’Italia» in «connubio liberticida» col papato).

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