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Proposta presentata dall’Osservatorio Ambientale
Comunale di Tortona
Vietare l’incenerimento
e il processo di pirolisi
nel territorio del
Tortonese
e-mail: [email protected]
Tortona, 08.03.2016
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Gli inceneritori sono grossi impianti concepiti per ridurre il volume visibile dei rifiuti da conferire in discarica. Questi impianti producono ingenti quantità di ceneri, fumi e polveri che causano inquinamento ambientale e danni alla salute. Gli inceneritori rientrano nella normativa italiana fra le industrie insalubri di classe prima e, indipendentemente dalla tecnologia adottata, danno origine a diverse centinaia di inquinanti.(1) La formazione di tali inquinanti dipende dai materiali combusti, dalla loro combinazione casuale nei forni, dalle temperature di esercizio.(2) Fra le principali categorie di inquinanti distinguiamo:
- particolato inalabile (PM10), fine (PM2,5) ed ultrafine (PM0,1) - metalli pesanti, - diossine, - composti organici volatili, - ossidi di azoto e zolfo, - ozono. Tali sostanze esplicano i loro effetti nocivi o per inalazione o per contatto cutaneo, o per contaminazione alimentare. Molte fra esse sono tossiche, mutagene, persistenti, bioaccumulabili, con distruzione dell’equilibrio endocrino ed alcune sono già classificate dall’ International Agency for the Research on Cancer (IARC) come cancerogeni certi, probabili e possibili per l’uomo. Ricordiamo: Arsenico, Benzene, Berillio, Cadmio, Cromo, Diossine, Furani, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), Mercurio, Nichel, Piombo, Policlorobifenili. Nel momento stesso in cui risulta accertata la presenza nelle emissioni degli inceneritori di sostanze classificate come cancerogeni certi per l’uomo, il rischio oncogeno non dovrebbe essere posto in discussione, soprattutto se si considera che tali emissioni sono costituite da una miscela di sostanze che, combinate tra loro, sono in grado di moltiplicare l’effetto del singolo componente. Esistono numerosi studi sperimentali ed epidemiologici pubblicati dal 1987 al 2009, reperibili nel database PUBMED del National Library of Medicine (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed). A questi sono stati aggiunti due recenti studi prodotti da agenzie pubbliche, (24 e 25) caratterizzati da risultati per molti aspetti sovrapponibili a quelli precedenti. I risultati di questa ampia e numerosa rassegna di studi, mirati soprattutto all’insorgenza delle neoplasie relazionate con il funzionamento degli inceneritori, vengono distinti in due diversi raggruppamenti: 1) studi antecedenti il 2004 sugli effetti neoplastici indotti dall’inceneritore e 2) studi successivi al 2004. STUDI ANTECEDENTI IL 2004 Studi antecedenti il 2004 hanno evidenziato un’associazione statisticamente significativa in 2/3 dei risultati concernenti l’insorgenza del cancro in termini di mortalità, incidenza, prevalenza.(9)
Alcune pubblicazioni hanno evidenziato incrementi di mortalità per tumore al polmone in relazione alla vicinanza inceneritori. Uno studio caso-controllo condotto a Trieste (10), ha mostrato un aumento statisticamente significativo del rischio di morte per tumore polmonare associato alla vicinanza con un inceneritore rispetto ad altre fonti di rischio presenti nel territorio. Un altro studio condotto a Prato (11) ha evidenziato una diminuzione d’incidenza e mortalità per cancro al polmone, statisticamente significativa per i maschi, all’allontanarsi da un inceneritore di fanghi di depurazione. Uno studio geografico-ecologico, condotto in Inghilterra (12) su 72 inceneritori e su una popolazione di 14 milioni di persone, ha evidenziato che, all’allontanarsi dagli impianti, diminuiva significativamente l’incidenza dell’insieme dei tumori attribuibili particolarmente al cancro di
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polmone, stomaco, colon e fegato. Questo studio appare particolarmente importante per numerosità della casistica e tipologia delle neoplasie esaminate. La relazione tra tumori pediatrici ed esposizione ad emissioni di inceneritori è stata esaminata da KNOX (13): è stato analizzato il ruolo svolto nell’insorgenza dei tumori infantili dall’esposizione precoce alle emissioni prodotte da impianti di incenerimento (70 inceneritori di rifiuti solidi urbani (RSU) e 307 piccoli inceneritori ospedalieri). Analizzando i decessi per cancro infantile (0 - 14 anni) dei soggetti che avevano trasferito la loro residenza durante il periodo compreso tra la nascita e la morte, si è visto che il rischio di ammalarsi diminuisce allontanandosi dagli inceneritori per cerchi concentrici di 4, 5, 6 KM. Alcuni studi hanno poi associato l’emissione di diossine da parte di inceneritori con linfomi non Hodgkin (LNH) e sarcomi dei tessuti molli (STM). Nel 2003, uno studio caso-controllo condotto a Mantova (16) ha valutato il rischio d’incidenza per sarcomi dei tessuti molli associato alla residenza nei dintorni di un inceneritore di rifiuti industriali. Lo studio ha esaminato 37 casi e 171 controlli ricostruendone la storia residenziale per circa 30 anni ed ha trovato un elevato rischio entro 2 KM dalla sorgente. STUDI SUCCESSIVI AL 2004 Gli studi pubblicati dopo il 2004 hanno confermato i risultati precedenti specie quelli riferiti all’ associazione tra emissioni di diossine, linfomi non-Hodgkin e sarcomi di tessuti molli, ed hanno fatto emergere nuove evidenze. Prenderemo in considerazione i più recenti risultati per quanto riguarda i LINFOMI NON-HODGKIN, i SARCOMI, i TUMORI DELL’INFANZIA, studio dell’ INSTITUT DE VEILLE SANITARIE (2008), studio ENHANCE HEALT (2007). - LINFOMI NON-HODGKIN: due studi francesi hanno proseguito le precedenti indagini. Il primo ha escluso che gli effetti trovati nel precedente studio potessero essere attribuiti a diossine provenienti da fonti diverse dall’inceneritore. Il secondo studio ha indagato l’associazione tra emissioni di diossina e linfomi non-Hodgkin estendendo lo studio a quattro dipartimenti in cui operavano 13 inceneritori di rifiuti solidi urbani. Anche altri studi italiani hanno confermato eccessi di linfomi per esposizione a diossine. - SARCOMI: un ampio studio caso-controllo effettuato in provincia di Venezia, particolarmente rigoroso per quanto riguarda la stima delle emissioni, la ricostruzione della storia abitativa, la validazione dei casi e la revisione diagnostica, ha confermato i risultati dei precedenti studi. (21) Lo studio ha considerato 33 impianti (inceneritori di RSU, industriali e ospedalieri) e ha preso in esame 186 casi e 588 controlli. E’ stata ricostruita la storia abitativa dei soggetti sia quella emissiva degli impianti. E’ emerso un rischio statisticamente significativo correlato sia all’integrità che alla durata delle emissioni degli inceneritori di rifiuti solidi urbani. - TUMORI DELL’INFANZIA: la rarità di questi tumori rende difficile realizzare studi epidemiologici in grado di evidenziare con sufficiente potenza statistica la correlazione di tali tumori con le emissioni degli impianti di incenerimento. Restano in questo settore particolarmente significativi i molteplici studi di KNOX, che hanno messo in relazione il rischio di morte per cancro dell’infanzia con l’esposizione precoce a fonti emissive di vari inquinanti, compresi inceneritori per rifiuti. In uno studio del 2005 l’Autore ha valutato il rischio di morte per tutti i tumori infantili (solidi e leucemie) e l’ esposizione alla nascita a numerose sostanze chimiche emesse da sorgenti ad alta intensità, tra cui inceneritori. Evidenziati rischi statisticamente significativi per distanze alla nascita entro 1 KM da sorgenti emissive di monossido di carbonio, particolato PM10, composti organici volatili (COV), ossidi di azoto, benzene, 1-3butadiene, diossine e benzo(a)pirene. Le emissioni degli inceneritori sono caratterizzate dalla presenza di tutte le sostanze di cui sopra, a cui è associato un rischio statisticamente significativo.
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STUDIO DELL’ INSTITUT de VEILLE SANITARIE (2008) (23) Questo studio ha considerato 135.567 casi di cancro morti nel periodo 1990-1999 nelle popolazioni residenti nell’area di ricaduta degli inquinanti emessi da 16 inceneritori di rifiuti solidi urbani attivi tra il 1972 ed il 1990. Lo studio di tipo geografico-ecologico, ha considerato l’esposizione a diossine, stimata con un modello di dispersione atmosferica e sono state considerate l’insieme delle neoplasie ed i tumori che avevano già evidenziato un’associazione positiva con le emissioni degli inceneritori. L’elemento di maggiore novità di questo studio è quello di aver messo in evidenza l’incremento di un rischio statisticamente significativo particolarmente nelle femmine, sia per l’insieme dei tumori, sia per alcuni tumori specifici come quello della mammella e i linfomi non-Hodgkin. Invece risultano elevati per entrambi i sessi e prossimi alla soglia di significatività statistica i sarcomi, tumori al fegato e mieloma multiplo. STUDIO ENHANCE HEALT (2007) L’aumento di rischio per tutti i tumori nella popolazione femminile si osserva anche in uno studio condotto in Italia (24) sulla popolazione residente (dal 1990 al 2003) nel raggio di 3,5 KM da due impianti di incenerimento (rifiuti urbani e ospedalieri) strettamente contigui. Pur trattandosi di uno studio su piccola area, la metodologia adottata e l’impianto generale dello studio rendono i risultati particolarmente degni di nota. Ci soffermiamo in particolare su questo studio perché è ancora del tutto ignorato nelle review esistenti. L’esposizione a metalli pesanti (cadmio, nichel, mercurio e piombo) assunta come indicatore dell’inquinamento da inceneritori, è stata valutata in base a un modello di dispersione in aria e suddivisa in 4 livelli crescenti rispetto ai quali è stata georeferenziata la popolazione residente. Lo studio ha calcolato i rischi di ammalarsi nei diversi livelli rispetto a quella a più bassa esposizione, evidenziando danni importanti specie nel sesso femminile. Quasi tutti gli studi hanno trascurato l’esposizione per via alimentare, fonte prioritaria di assimilazione delle diossine e di altri inquinanti persistenti e bioaccumulabili, di cui gli inceneritori sono indiscutibili sorgenti. Attraverso la catena alimentare anche soggetti residenti fuori dalle aree di ricaduta degli inquinanti possono subire una esposizione con conseguenze per la salute. Comunque vi è sufficiente accordo nel riconoscere i danni alla salute, specie tumorali, originati dai vecchi impianti di incenerimento. Ciò è confermato dalla posizione dell’Associazione Italiana di Epidemiologia (AIE) che afferma: ”gli impianti di vecchia generazione hanno certamente comportato l’esposizione ambientale della popolazione residente con livelli elevati di sostanze tossiche. Studi metodologicamente robusti e difficilmente contestabili hanno messo in evidenza eccessi di tumori riconducibili all’esposizione a diossine. (26) Attualmente è aperto il dibattito circa i rischi rappresentati dai nuovi impianti che per alcuni sarebbero del tutto trascurabili, per altri viceversa degni di nota. (27) La maggior sicurezza dei nuovi impianti si fonda su due argomentazioni: 1) i nuovi limiti imposti alle emissioni dalle normative attuali sono molto più restrittivi dei limiti precedenti. Ciò tuttavia non tiene conto del fatto che, ad esempio, per le diossine, i nuovi limiti comportano modalità di misura e di calcolo delle concentrazioni nettamente diversi rispetto a prima. Ciò rende estremamente difficile la comparazione dei valori emissivi misurati in precedenza con quelli attuali. L’effettiva riduzione delle diossine nelle emissioni può risultare nettamente inferiore a quanto può apparire dal semplice confronto tra le due diverse misurazioni. 2) l’applicazione delle migliori tecnologie disponibili (Best Available Tecnology, BAT) riduce le emissioni inquinanti a livelli trascurabili.
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Nuove ricerche e studi sistematici evidenziano che anche con le metodiche BAT rimangono aperti numerosi aspetti critici legati alle caratteristiche dei sistemi di abbattimento, alla composizione dei rifiuti, al controllo delle fasi critiche di accensione e spegnimento dei forni dell’inceneritore. (28) Inoltre la maggior efficacia delle BAT comporta il trasferimento degli inquinanti più pericolosi e persistenti dai fumi alle ceneri, aspetto troppo spesso trascurato. (29)
CONCLUSIONI: Possiamo concludere con le seguenti affermazioni: a) esistono evidenti conoscenze circa l’aumento del rischio di cancro e patologie non neoplastiche connesse con l’esposizione alle emissioni dei vecchi inceneritori ed in particolare circa gli eccessi di tumori riconducibili all’esposizione a diossine (26)
b) sul piano scientifico epidemiologico non esistono certezze in grado di far ritenere che gli inceneritori attualmente in funzione comportino minore impatto sanitario, in particolare a lungo termine sulle patologie cronico degenerative, incluso quelle neoplastiche
c) le dimensioni e il numero degli impianti tende a crescere costantemente e ciò potrà dare un contributo non trascurabile su scala globale a gas serra e a inquinanti persistenti come segnalato anche da un recente Report dell’OMS (30)
d) L’INCENERIMENTO NON RISOLVE I PROBLEMI DEI RIFIUTI, sia perché lo sposta in atmosfera e in discarica dove vengono conferiti i residui tossici della combustione e della depurazione dei fumi sia perché confligge con la riduzione dei rifiuti ed il riciclo dei materiali, in quanto una volta costruiti questi impianti molto costosi, i gestori necessitano di una fonte continua di rifiuti per alimentarli. (31)
E’ assolutamente raccomandabile che, in sostituzione della combustione, vengano implementate pratiche quali RIDUZIONE,RECUPERO,RICICLO: ciò darebbe un sostanziale contributi alla prevenzione primaria e ad un corretto utilizzo delle risorse.
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Nel 1976 un incidente nell’industria chimica ICMESA di Seveso rese familiare il nome di una
classe di composti chimici, fino ad allora sconosciuta ai non addetti ai lavori: le diossine. Il volto
deturpato dall’acne d’una bambina di Seveso fece il giro del mondo e mise tutti davanti agli effetti
devastanti prodotti dall’esposizione acuta a questi composti.
Dopo Seveso ci sono voluti 20 anni per porre fine all’accesa polemica sui danni prodotti dalle
diossine a seguito di una esposizione cronica a dosi basse, quale quella prodotta dagli
inceneritori di rifiuti urbani.
Nel 1997 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC), pubblicava i risultati sulla
valutazione della tossicità della tetraclorodibenzoparadiossina (TCDD), ovvero la più pericolosa
tra le circa 30 molecole appartenenti alla classe chimica denominata DIOSSINA. Il verdetto
formulato dagli esperti indipendenti dell’Agenzia (IARC) non lasciava dubbi: LA DIOSSINA E’
CANCEROGENA PER L’UOMO e l’esposizione a questo composto aumenta il rischio
d’insorgenza di particolari tumori quali i sarcomi dei tessuti molli e le leucemie.
A seguito di questo autorevole giudizio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1998
riuniva i suoi consulenti per riesaminare il valore della dose giornaliera tollerabile di diossina, che
la stessa Organizzazione, nel 1991, aveva fissato a 10 picogrammi (*) prefisso moltiplicativo (p-)
pari a 10-12) per Kg. di peso corporeo.
I nuovi dati sulla cancerogenicità delle diossine suggeriscono l’opportunità di un ulteriore
abbassamento di questo limite tra 1 e 4 picogrammi per Kg. di peso corporeo (pg/Kg).
In via teorica questa norma significa che, giornalmente una persona di 70 Kg. può assorbire al
massimo 280 pg di diossine (70 Kg. di peso corporeo x 4 pg valore limite), mentre per un
bambino di 5 Kg. la dose giornaliera di diossine non dovrebbe superare i 20 picogrammi.
E’ utile precisare che la dose tollerabile giornaliera proposta dall’OMS non corrisponde a una
dose sicura (rischio zero) ma è il giusto compromesso tra un rischio aggiuntivo – estremamente
basso – e la concentrazione “naturale” nel cibo, nell’acqua e nell’aria di questi composti che si
formano anche a seguito di eventi naturali quali, ad esempio, gli incendi dei boschi.
Il pericolo delle diossine non deriva da quanto se ne respira, ma quanta se ne mangia. Pertanto
una corretta valutazione dell’impatto sanitario ed ambientale deve calcolare la quantità
complessiva di diossina emessa nel tempo e valutarne l’accumulo nei diversi ecosistemi e
in particolare negli alimenti. Occorre quindi calcolare le concentrazioni in equilibrio, ossia la
quantità di diossina immessa nell’ambiente in un determinato tempo e quella che scompare per
degradazione nello stesso tempo. Le diossine sono molto stabili in particolare nei tessuti umani e
hanno una emivita di 7 anni. Questo significa che anche interrompendo del tutto l’assunzione di
cibi contaminati occorrono 7 anni perché le concentrazioni di diossine accumulate nei tessuti
grassi umani si riducano della metà.
Quanti metri cubi di fumi emette un inceneritore? Dipende dalle caratteristiche specifiche del
progetto. Prendiamo il caso dell’inceneritore di Genova, che dovrebbe trattare 800 tonnellate di
rifiuti al giorno che corrisponde alla capacità minima di trattamento per rendere economica
l’intera operazione. Ruzzenenti ci ha insegnato di chiedere sempre la capacità di combustione del
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progetto. I costruttori tendono a ridimensionare o nascondere questo dato perché ci fornisce subito
un’idea della irrazionalità della scelta.
Un inceneritore che tratta 800 tonnellate al giorno di rifiuti emette, ogni ora, dal proprio camino
210.000 metri cubi di fumi. Questo grande volume di fumi è inevitabile, in quanto corrisponde alla
quantità d’aria che occorre immettere nelle caldaie per distribuire l’ossigeno sufficiente a bruciare
completamente i rifiuti.
La Comunità Europea al fine di contenere l’immissione di diossina negli stati membri , ha
fissato un limite all’emissione di diossina degli inceneritori 0,1 nanogrammo(**) per metro
cubo.
Di conseguenza la quantità di diossina emessa in 24 ore da un moderno inceneritore si può
calcolare: 0,1 nanogrammi x 210.000 metri cubi x 24 ore = 504.000 nanogrammi al giorno.
Pertanto un moderno inceneritore capace di incenerire 800 tonnellate di rifiuti al giorno, emette in
atmosfera, nel pieno rispetto delle norme, 504.000 nanogrammi di diossine ogni 24 ore. E’
difficile per un comune cittadino rappresentarsi a quanto corrisponda questa quantità di diossina.
Secondo calcoli degli scienziati 504.000 nanogrammi corrispondono all’emissione giornaliera di
70.000.000 di auto catalizzate dopo che ciascuna ha percorso circa 10 KM. Quindi le quantità di
diossine emesse da un grande e moderno impianto di incenerimento possono avere effetti
indesiderati se incautamente immessi nella catena alimentare.
Infine bisogna ricordare che:
1) un inceneritore funziona per almeno 20 anni;
2) le esperienze in atto dimostrano che la politica degli inceneritori incrementa la produzione di rifiuti e ne disincentiva il riciclaggio. Il motivo è ovvio: i grandi investimenti, necessari per la costruzione e gestione degli inceneritori richiedono, per realizzare profitti, la costruzione di grandi impianti (capaci di smaltire più di 800 tonnellate al giorno) e l’afflusso costante di materiale ad alto potere calorico;
3) nei cassetti degli Enti Locali si trovano già i progetti di costruzione di nuovi inceneritori, anche
grazie a generosi incentivi statali per la produzione di elettricità dai rifiuti (una forma occulta di
tassa sui rifiuti) e alle procedure semplificate per le autorizzazioni alla costruzione di questi
impianti;
4) infine ricordare che “in natura, nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. Con i nuovi
inceneritori pochissima diossina viene immessa in aria, quasi tutta viene captata e trattenuta nelle
ceneri che rappresentano una quantità non trascurabile, circa un terzo delle 800 tonnellate di rifiuti
al giorno sottoposte a incenerimento (circa 270 tonnellate di cenere al giorno).
(*) Picogrammo : Unità di misura di peso (simbolo: pg), sottomultiplo del grammo: 1 pg = 10-12 g.
mille volte più piccola del nanogrammo che è la miliardesima parte del grammo.
(**) Nanogrammo : Unità di misura di peso (simbolo: ng), sottomultiplo del grammo: 1 ng = 10-9 g.
che è la miliardesima parte del grammo.
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Questo breve scritto esprime una posizione ambientalista e politica totalmente contraria al
processo di pirolisi, è stato concepito con il cervello per quanto riguarda le argomentazioni contro il
progetto, è pieno di solidarietà ed empatia per la popolazione, le associazioni e le forze politiche di
Retorbido, che sono contrarie all’assurdità di questa iniziativa.
Il processo di pirolisi consiste in una degradazione termica in atmosfera inerte concepito
soprattutto per il recupero di risorse da rifiuti.
Durante il processo della pirolisi, per effetto della temperatura, la componente organica subisce il
“cracking termico” scindendosi in una frazione solida (char) ed una frazione volatile; quest’ultima
può subire raffreddamento e condensazione portando all’ottenimento di una frazione liquida e di
una gassosa incondensabile.
Il processo di pirolisi fornisce quindi come prodotti:
1) una frazione gassosa, costituita essenzialmente da idrogeno, metano, etilene, ossido di
carbonio ed altri gas combustibili;
2) una frazione liquida, costituita da catrame, acqua ed una varietà di sostanze organiche (oli);
3) una frazione solida, costituita dal residuo carbonioso, oltre che da ceneri, inerti, metalli.
Le percentuali delle tre frazioni e la proporzione relativa dei vari prodotti all’interno delle frazioni
dipende dal modo in cui si realizza il processo e dai parametri di reazione (temperatura, pressione,
tempo di residenza, temperatura di condensazione dei vapori).
La strategia comunitaria per la gestione dei rifiuti incoraggia in primo luogo la riduzione alla fonte
(minimizzazione tramite prevenzione).
In alternativa :
1) il riutilizzo in forma originale,
2) il riciclaggio ed il recupero di materiali ed energia,
3) lo smaltimento appropriato (solo come ultima alternativa)
Per i pneumatici usati, il riutilizzo in forma originale (diretto o a seguito di pretrattamenti di
ricostruzione) viene attualmente considerata come “Best Praticable Enviromental Option” (BPEO).
Tuttavia, a causa della sempre maggiore diffusione dei pneumatici a basso profilo e ad alta
prestazione, la vita media dei pneumatici sta notevolmente diminuendo ed una sempre maggiore
porzione di pneumatici usati risulta essere inadeguata alla ricostruzione.
Un altro aspetto: contrariamente ad altri tipi di rifiuti (ad esempio, vetro, imballaggi, metalli e
carta) i pneumatici usati sono difficili da riciclare. Il riciclaggio completo (processare i pneumatici
usati per produrne di nuovi) non è attualmente ottenibile. La produzione di pneumatici in Europa si
attesta a circa 2,5 milioni di tonnellate/anno; di questi 350.000 tonnellate/anno sono prodotti in
Italia.
Il conferimento in discarica è ancora la soluzione più diffusa. Essa risulta poco vantaggiosa per
la perdita di materiali che in precedenza possedevano un alto valore aggiunto e in termini di
impatto ambientale. Problemi associati con lo smaltimento in discarica sono:
1) resistenza alla degradazione,
2) occupazione di elevati volumi di discarica,
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3) alto potere calorifico,
4) emissione di inquinanti.
Trattamenti alternativi alla discarica prevedono la ricostruzione e il riutilizzo oppure il recupero
di materia e/o energia mediante processi di trattamento termico che è il concetto con il quale
è stato iniziato questo scritto sulla pirolisi. Incenerimento e pirolisi sono processi diversi, il primo ha
bisogno di grandi quantità di ossigeno, il secondo agisce in un’atmosfera inerte. Entrambi sono
fratelli gemelli nel danno all’ambiente e alla salute umana.
Ben sono gli argomenti che destano perplessità e interrogativi nella proposta della pirolisi per il
recupero di risorse dai rifiuti: carenze documentative del progetto, analisi delle alternative, bilancio
di massa del processo, quadro economico, ecc.. Tutte queste considerazioni appesantirebbero la
trattazione, c’è il rischio di perdersi in tecnicismi e non sottolineare con efficienza gli aspetti sociali
e le ripercussioni sulla salute del progetto.
Ci limiteremo perciò a menzionare l’Analisi dei rischi, le garanzie di sicurezza e i controlli.
1) esiste la possibilità di fenomeni di combustione diretta degli PFU all’interno del forno di pirolisi.
In parole semplici, possibilità d’incendio fuori controllo;
2) potenziale di atmosfere esplosive causate da fuoruscita accidentale dei gas di pirolisi;
3) rilascio consistente di azoto liquido durante le operazioni di riempimento del serbatoio;
4) sversamenti di sostanze chimiche utilizzate per la rigenerazione delle resine a scambio ionico;
5) gestione delle emergenze: per fare fronte non solo alle suddette emergenze estreme, ma
anche a disfunzioni meno gravi e più frequenti (surriscaldamento di un reattore, sovrappressione di
un serbatoio), rese possibili dall’elevata complessità dell’impianto, non troviamo nel progetto alcun
piano di sicurezza che possa tranquillizzare le popolazioni della zona;
6) Principio di precauzione: nell’Unione Europea vige il Principio di Precauzione (vedi trattato di
Maastricht) che, in sintesi, richiede di evitare di intraprendere ogni genere di iniziative (processi e
prodotti) per le quali si possano ragionevolmente temere conseguenze gravi per la salute dei
cittadini. Questo progetto, a nostro avviso, disattende gravemente il Principio di Precauzione
dell’Unione Europea;
7) Controlli della qualità dell’aria: le sostanze chimiche da controllare sono 17: biossido di
azoto (NO2), biossido di zolfo (SO2), monossido di carbonio (CO), acido cloridrico (HCl), acido
fluoridrico (HF), + 12 metalli pesanti. Per 10 delle sostanze chimiche esistono limiti di legge, ma
per le rimanenti 7, cioè per acido cloridrico, acido fluoridrico, antimonio, cromo, manganese,
rame, vanadio, non esistono limiti di legge. Se non esistono limiti di legge vuol dire che il limite
pratico di queste sostanze deve essere zero, cioè non devono essere immesse nell’ambiente.
Inoltre i controlli sono demandati alla stessa ditta proponente, un caso di controllore-
controllato. I controlli dovrebbero essere eseguiti da un ente pubblico come l’ARPA con un criterio
di monitoraggio continuo. Invece le ditte proponenti in genere propongono un controllo una volta
l’anno: ciò è assolutamente insufficiente a garantire la salute dei cittadini;
8) Controllo dell’accumulo degli inquinanti ricaduti sul suolo e della qualità dell’acqua e
della falda freatica. Quante delle tonnellate/anno di inquinanti emessi dal processo di pirolisi
ricadranno al suolo, nei dintorni dell’impianto? Quante sostanze inquinanti entreranno nella
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costituzione delle coltivazioni presenti nella zona? Quale sarà il danno provocato alla salute dei
cittadini e all’economia della zona? I controlli dovrebbero riguardare anche lo scarico delle acque
meteoriche e delle acque di lavaggio dopo trattamento, oltre ai controlli della falda freatica.
CONCLUSIONI:
Esistono forti perplessità sulla fattibilità dell’intero progetto. In sintesi, i principali aspetti negativi
sono:
1) i numerosi fallimenti di analoghi impianti di pirolisi in Europa, di cui citiamo l’impianto di
Verbania, chiuso nel 1999 per inquinamento ambientale, e quello di Karlsruhe (RFT) chiuso nel
2004. Ricordiamo inoltre l’impianto di Aosta, il cui progetto è stato bocciato da un referendum
popolare nel dicembre 2012. Il fatto che oggi in Europa non esiste neppure un impianto di pirolisi
funzionante e l’inesperienza della ditta proponente nel settore specifico sono argomenti che
accrescono perplessità e timori;
2) scarsa garanzia sul rifornimento della materia prima (pneumatici fuori uso – PFU),con il
rischio di utilizzo di altri rifiuti di caratteristiche e origine incerte;
3) poca chiarezza del processo di pirolisi: non è chiaro se il processo produce prodotti rendibili
con relativo ricavo oppure trasforma un rifiuto in altri rifiuti (carbon black e olii), per di più difficili da
smaltire;
4) scarsa chiarezza del quadro economico, per quanto riguarda sia i ricavi che i costi;
5) forte impatto ambientale, scarsamente documentato e ampiamente sottostimato;
6) elevato livello di rischio incidenti ed insufficiente garanzia circa la gestione emergenze;
7) sfavorevole localizzazione dell’impianto, sia nei riguardi della popolazione che della
vocazione prevalentemente agricola del territorio;
8) dubbia fattibilità finanziaria del progetto: l’elenco di tutti i punti d’incertezza sopra menzionati,
che affliggono il progetto in questione, ci inducono ad avanzare seri dubbi che la ditta proponente
possa trovare banche disposte ad accollarsi gli elevati rischi di questa iniziativa imprenditoriale;
9) dobbiamo segnalare che non è stata eseguita una seria e approfondita analisi del rapporto
costi-benefici, che va compilata con l’ottica dell’interesse collettivo. Proviamo ad abbozzare
alcune osservazioni:
a) benefici:
creazione di alcuni (poche unità) di lavoro non qualificato;
b) costi (danni):
- inquinamento chimico dell’intera area, non solo il territorio del Comune, ma anche l’area dei
Comuni vicini;
- inquinamento acustico dell’intera area;
- problemi sanitari correlati;
- alto rischio di incidenti gravi, soprattutto rischio di incendi;
- deprezzamento degli attuali immobili;
- disincentivazione alla costruzione di nuovi immobili residenziali.
Tortona, 08 – Marzo- 2016
Carmelo Ciniglio Presidente Osservatorio Ambientale Comunale di Tortona
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