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TRjcIoL1 DI BOTrEGA 3 83 V. IL BARBONCINO 1. Gli avvocati, si sa, sono tutti dotati del dono della parola (ho conosciuto qualche avvocato afono, ma di avvocati muti non ne ho conosciuti mai). La lingua è indubbiamente per essi un ferro del mestiere. Tuttavia alla professione avvocatesca l'eloquenza, cioè la parola forbita e scorrevole, non è indispensabile affatto. Accanto ad avvocati stupendamente eloquenti (penso tuttora all'allucinante incisività delle ar- ringhe di Alfredo De Marsico) vi sono avvocati poco o punto oratorii, eppure altret- tanto egregi, che affidano il successo delle loro difese all'acutezza delle intuizioni, alla profonda conoscenza del diritto, alla vasta esperienza della vita, alla bravura negli in- terrogatori incrociati, aIl'abilità della schermaglia con l'avversario, alla chiarezza delle comparse e delle memorie scritte. Guai, anzi, se le virtü oratorie non sono integrate da tutte queste altre doti e fa- coltà. L avvocato <trombone>>, oggi che sono fortunatamente scomparsi in Italia i giu- rati dalle cord di Assise, e buono solo per un certo pubblico che ne ascolta i vocalizzi alle spalle. Ma per i giudici che gli stanno di fronte, credetemi, anche se parla sei giorni sudando camicie su camicie, è solo un buono a nulla. Noioso, per giunta. 2. Ii punto cui volevo arrivare è proprio questo. Spesso, troppo spesso l'avvo- cato è costretto o indotto a parlare, oltre che per i giudici, per il pubblico stanziato in aula, e in particolare per i clienti. Ma tutto ciô che si dice a beneficio del pubblico serve assai poco alla causa, anzi talora e controproducente perché l'attenzione del giu- dice anziché mantenersi in tensione, viene meno e il successo della difesa e posto in pericolo. Lo posso confessare per esperienza personale, avendo avuto I'onore, in un ion- tano periodo della mia vita, di far parte della magistratura. In un'aula del tribunale penale di Roma (eravamo un presidente e due giudici) ascoltavamo noi tre, ricordo, per ore, oltre ai brevi e densi interventi di avvocati veramente egregi, le lunghe chiac- chiere di molti professionisti meno provveduti. E se anche Vera un senso nelle pieghe dei discorsi di questi ultimi, il guaio era che non ci riusciva di coglierlo. Inevitabil- mente passavamo a pensare ad akro, sotto la maschera della piiI riguardosa attenzio- ne. No, lo ripeto, il buon avvocato deve parlare soloper i giudici e deve studiarsi, parlando loro, di non sommergerli con l'onda del suo eloquio, di non illudersi di in- segnargli o inculcargli qualcosa. Deve studiarsi di stare rispettosamente al loro fianco per aiutarli a capire la questione ed a risolverla nel migliore dei modi. Chi aiza smisu- ratamente la voce e batte il pugno sul tavolo, chi tira in ballo citazioni di filosofi e let- terati (spesso conosciuti di scorcio il giorno prima) per <<épaten> il buon giudice che lo ascolta, chi tratta il giudice con la sufficienza del docente universitario illustre (si fa per dire) che impartisca lezioni ai suoi studenti, turd coloro che non si avvicinano al giudicante, che non coilaborano con lui, che non gli danno una mano, in reakà po- lemizzano. E quindi psicologicamente creano un'atmosfera che, nella migliore delle ipotesi, si pub definire dell'incomunicabilità. 3. Certo, l'attenzione dei giudici bisogna anche saperla sollecitare e concentrate possibilmente sulla propria tesi a detrimento dell'avversario. Ma anche in quest'opera

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Page 1: V. IL BARBONCINO · 2016-12-30 · coltà. L avvocato >, oggi che sono fortunatamente scomparsi in Italia i giu-rati dalle cord di Assise, e buono solo per un certo

TRjcIoL1 DI BOTrEGA 3 83

V. IL BARBONCINO

1. Gli avvocati, si sa, sono tutti dotati del dono della parola (ho conosciuto qualche avvocato afono, ma di avvocati muti non ne ho conosciuti mai). La lingua è indubbiamente per essi un ferro del mestiere. Tuttavia alla professione avvocatesca l'eloquenza, cioè la parola forbita e scorrevole, non è indispensabile affatto. Accanto ad avvocati stupendamente eloquenti (penso tuttora all'allucinante incisività delle ar-ringhe di Alfredo De Marsico) vi sono avvocati poco o punto oratorii, eppure altret-tanto egregi, che affidano il successo delle loro difese all'acutezza delle intuizioni, alla profonda conoscenza del diritto, alla vasta esperienza della vita, alla bravura negli in-terrogatori incrociati, aIl'abilità della schermaglia con l'avversario, alla chiarezza delle comparse e delle memorie scritte.

Guai, anzi, se le virtü oratorie non sono integrate da tutte queste altre doti e fa-coltà. L avvocato <trombone>>, oggi che sono fortunatamente scomparsi in Italia i giu-rati dalle cord di Assise, e buono solo per un certo pubblico che ne ascolta i vocalizzi alle spalle. Ma per i giudici che gli stanno di fronte, credetemi, anche se parla sei giorni sudando camicie su camicie, è solo un buono a nulla. Noioso, per giunta.

2. Ii punto cui volevo arrivare è proprio questo. Spesso, troppo spesso l'avvo-cato è costretto o indotto a parlare, oltre che per i giudici, per il pubblico stanziato in aula, e in particolare per i clienti. Ma tutto ciô che si dice a beneficio del pubblico serve assai poco alla causa, anzi talora e controproducente perché l'attenzione del giu-dice anziché mantenersi in tensione, viene meno e il successo della difesa e posto in pericolo.

Lo posso confessare per esperienza personale, avendo avuto I'onore, in un ion-tano periodo della mia vita, di far parte della magistratura. In un'aula del tribunale penale di Roma (eravamo un presidente e due giudici) ascoltavamo noi tre, ricordo, per ore, oltre ai brevi e densi interventi di avvocati veramente egregi, le lunghe chiac-chiere di molti professionisti meno provveduti. E se anche Vera un senso nelle pieghe dei discorsi di questi ultimi, il guaio era che non ci riusciva di coglierlo. Inevitabil-mente passavamo a pensare ad akro, sotto la maschera della piiI riguardosa attenzio-ne.

No, lo ripeto, il buon avvocato deve parlare soloper i giudici e deve studiarsi, parlando loro, di non sommergerli con l'onda del suo eloquio, di non illudersi di in-segnargli o inculcargli qualcosa. Deve studiarsi di stare rispettosamente al loro fianco per aiutarli a capire la questione ed a risolverla nel migliore dei modi. Chi aiza smisu-ratamente la voce e batte il pugno sul tavolo, chi tira in ballo citazioni di filosofi e let-terati (spesso conosciuti di scorcio il giorno prima) per <<épaten> il buon giudice che lo ascolta, chi tratta il giudice con la sufficienza del docente universitario illustre (si fa per dire) che impartisca lezioni ai suoi studenti, turd coloro che non si avvicinano al giudicante, che non coilaborano con lui, che non gli danno una mano, in reakà po-lemizzano. E quindi psicologicamente creano un'atmosfera che, nella migliore delle ipotesi, si pub definire dell'incomunicabilità.

3. Certo, l'attenzione dei giudici bisogna anche saperla sollecitare e concentrate possibilmente sulla propria tesi a detrimento dell'avversario. Ma anche in quest'opera

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le parole valgono poco. Molto pid valgono le buone maniere e la simpatia che nei giudici, uomini anch'essi, si riesca a determinate. Del resto, su quest'argomento delle buone relazioni tra giudici e avvocati esiste un'opera ormai classica, che fu scritta e riveduta in successive edizioni, come frutto di un'esperienza acqiisita in lunghi anni di memorabili difese, da un avvocato tanto egregio quanto (lui fortunato) simpatico: Piero Calamandrei.

Questo è il motivo (uno dei tanti motivi) per cui io, lo confesso, ho sempre de-testato, e detesto, quel gran concionatore di Marco Tullio Cicerone, in cib adeguan-domi at giudizio autorevolmente manifestato, tra gli altri, da Teodoro Mommsen. Le orazioni giudiziarie di Cicerone (per limitarmi ad esse) ridondano troppo per essere vere, per essere state veramente pronunciate di fronte ad una giuria popolare; ed in-fatti (come tutti sanno) vere non sono, ma sono tutte pbI o meno ampiamente riscrit-te, rimpolpate e abbellite, in sede di edizione, ad uso di un pubblico coko sul quale l'autore vuol far presa con le sue qualità positive e solo con quelle. Ne il male cicero-niano sarebbe tanto smisurato quanto e, se il nostro mondo occidentale (particolar-mente ii nostro amato paese) non rigurgitasse di ammiratori dello stile di Cicerone e di suoi cattivi imitatori. Si Iimitassero questi ultimi alle aule giudiziarie, alle sale di conferenze, alla camera dei deputati e al senato, <<all right), (cosi si espresse Al Capone quando i suoi uomini eseguirono, la strage di San Valentino del 14 febbraio 1929). II fatto e che non sta bene, che sta molto male che essi esorbitino da queste sedi e si in-seriscano proditoriamente nelle trasmissioni teleradiofoniche,giornalistiche e non giornalistiche, culminando in quei messaggi alla nazione che nel decennio novanta un nostro capo dello Stato (ottima persona per tutto il resto) Si sentiva in dovere (e in

Fiacere) di propinarci a red unificate I'ultimo giorno dell'anno. Non nego che esasperazione del San Silvestro 1998 mi abbia indotto a proporre pubblicamente, su

un giornale napoletano, una modifica dell'articolo 81 della Carta costituzionale, nel senso che ai requisiti per diventare presidente della repubblica sia aggiunto quello di <<essere muto o perlomeno cacaglio (parola, quest'ultima, che designa in lingua napo-letana le persone accentuatamente balbuzienti).

4. Basta. Torniamo al tema degli avvocati, eloquenti e non eloquenti che siano. Se mi è concesso di rifarmi alla mia personale esperienza di avvocato dei nostri tempi, la buona resa di un patrocinatore in dibattimento è in rapporto diretto con tre ele-menti: la semplicità dell eloquio, 1 aderenza at fatto di cui si tratta, la rispettosa cor-dialità nei confronti del giudice o dei giudici.

La semplicità dell'eloquio consiste in cib che ho già detto: nell'evitare il <cice-ronismox e nd concentrare le proprie argomentazioni in frasi brevi, limpide e fra bra connesse. Non si pub parlare di tutto, ma si deve parlare dell'essenziale, a meglio di cib che si desidera che i giudici siano portati a ritenere essere l'essenziale. La punti-gliosita, sia nel difendere le proprie ragioni sia nel replicare alle deduzioni avversarie, non paga. Anzi mette a repentaglio l'attenzione e la memoria di chi giudica.

L'aderenza al fatto di cui si tratta non risiede (e ovvio) nel narrarlo minuziosa-mente per come è accaduto, ma sta nel presentarlo opportunamente per come va in-terpretato al lume del diritto vigente, nell'additare e nel mettere in evidenza le valenze

fiuridiche che pii gli si addicono o che phi è opportuno, entro i confini del verosimi- e del ragionevole, attribuirgli. Se si accompagna la ricostruzione con 1 indicazione

della pagina degli atti processuali in cui sono registrati i particolari che man mano si

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indicano, non è raro che IIgiudice si segni quei numeri, i quali lo aiuteranno nella ri-lettura degli atti (che sono di solito una valanga di carte mal scritte) e lo influenze-ranno, entro i limiti del giusto, nel decidere.

Vi è infine l'importante parametro della rispettosa cordialità. Di regola, l'avvo-cato parla in piedi cli fronte al giudice seduto (si fa eccezione solo nei dibattiti in ca-mera di consiglio), e cib indubbiamente significa che gil deve rispetto. Ma rispetto non significa umiltà, non vuol dire star sull'attenti, soldatescamente, davanti al magi-strato. Una chiara e franca e cordiale atmosfera di collaborazione, se non addirittura di temperata simpatia reciproca, si pub creare anche quando non si abbiano le don innate di Piero Calamandrei, delle quali ho fatto cenno poc'anzi. Riuscire nell'intento è molto importante, non dico per ottenere i favori del giudicante, ii quale difficilmen-te si lascia influenzare da simpatie e antipatie nella sua delicata funzione, ma per evi-tame la musoneria o quando meno la noia, ii tedio.

Mi sento di dire quaicosa di piü. La dote numero tre del buon avvocato facilita, se giunge a buon fine, I'esercizio e la rilevanza delle doti numero uno e numero due. Ma attenzione a non peccare per eccesso. I rischi che si corrono non sono da sottova-lutare.

A proposito di che, eccovi, caido caido, un episodio di mold anni fa che avrè raccontato finoggi non phi di una ventina di yoke.

5. La causa era difficile e si discuteva davanti alla prima sezione civile della Cor-te di appello di Napoli. Ii mio avversario ed io ci eravaino scambiate voluminose comparse e memorie, sviscerando un'infinità di cose che erano, o che forse non erano tutte, da sviscerare. Tra le mie preoccupazioni vi erano appunto le sovrabbondanti comparse e memorie dell'avversario, ii quale era un collega dottissimo, devoto ammi-ratore di ancora pits dotti, ancorché defunti, trattatisti italiani e tedeschi. Possibile che i consiglieri si lasciassero impressionare da questi uitimi e daila loro fama indiscussa?

Nei dubbio, chiesi, com'era mio diritto, un dibattimento orale che precedesse la decisione. Mi fu concessa, come era nell'uso della Corte, la discussione in camera di consiglio, cioè nella stanza stessa in cui ii collegio avrebbe poi dovuto decidere. Prima avrei parlato io, l'appellante, poi I'avvemsario: andata. Fedele ai miei principi, lasciai deliberatamente da parte le disquisizioni teoriche, in cui si sarebbe sicuramente ingolfato ii mio sapiente collega, e puntai tutto sul <fatto>. E, non dimentico del-l'impomtanza del fattore cordialità, esordii dicendo qualcosa di questo tipo: <<Il caso e veramente complesso ed io non presume, affatto di riuscire a chiarirlo. Anzi confesso candidamente che mi pare, inquesto momento, di essere come un tosacani cui sia stato affidato un pelosissimo barboncino col compito di metterne allo scoperto il ca-po. To ml proverb in questa delicata impresa. Ma non posso escludere che ii mio sfor-zo di portare alla luce la testa del barboncino fallisca, o per meglio dire sortisca 1 effetto contrarlo)>.

I consiglieri sorrisero divertiti, mi seguirono con moka attenzione ed ascoltaro-no, ovviamente, con altrettanta (almeno apparente) attenzione i fitti argomenti espo-sti dall'eminente collega che ml stava processualmente contro. Fatto sta che, dopo che noi <parti>> uscimmo dalla ioro presenza, parlottarono a lungo, ma infine rinviarono la decisione ad altra riunione collegiale. Piccolo successo per me, ma del tutto provvi-sorio. Ii seme del dubbio era stato gettato, ma quale samebbe stata la futura decisione?

La futura decisione ritardô parecchio. Pareva (erano gli uscieri a rivelarlo) che

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nemmeno in successive camere di consiglio l'accordo fosse stato trovato. Finalmente (sempre a dire degli uscieri) la conclusione fu raggiunta, ma con I'impegno di un grandissimo riserbo, da mantenersi fin che ii relatore non avesse steso l'abbozzo della complessa motivazione. Non succede spesso, ma succede.

Fu allora che io, avendo occasione di incontrarmi per un altro processo con uno dei membri di quel famoso collegio, gli chiesi se potesse confermarmi che la deci-sione, non importa se in un senso o nell'altro, fosse stata fInalmente conseguita.

- <Quafe causa?>, esith ii giudice. - <Quella di Tizio contro Caio>>, precisai. Siccome ii magistrato era ancora perplesso, gli descrissi sommariamente la que-

stione giuridica che era stata dlibattuta. Silenzio. Allora gli ricordai che vi era stata di-scussione in camera di consiglio. E finalmente si illuminô.

- <Ora sf, che ricordo>, disse. La causa del barboncino>>.