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SOMMARIO: Vuoi ricevere Partecipare per posta elettronica? Segnala a: [email protected] oppure [email protected] Speciale N. Anno 2015 UN UOMO DI NOME GIOBBE —————— Direttore Responsabile: SIILVIO DI PASQUA Proprietario: BENIAMINO MICHIELETTO Autorizz. Del Tribunale di Treviso n.463 del 5/11/1980 Redazione e stampa: 31029 VITTORIO VENETO Via Carlo Baxa, 13 tel. 0438-57319 fax: 0438/946028 ………e-mail: [email protected] “Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale – 70% NE/TV” Hanno collaborato: Le Segreterie Nazionale, Regionale e Territoriale della FLAEI-CISL, Bazzo Giorgio, Griguolo Tiziano, De Luca Adelino, Fontana Sergio, De Bastiani Mario, Perin Rodolfo, Budoia Angelo, Tolot Margherita, Dal Fabbro Edgardo, Battistuzzi Lorenzo, Sandrin Giuseppe, Faè Luciano, Piccin Livio, Da Ros Remigio, Carminati Giovanni, Pilutti Aldo

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Vuoi ricevere Partecipare per posta elettronica? Segnala a: [email protected] oppure [email protected]

SpecialeN.

Anno 2015UN UOMO DI

NOMEGIOBBE

——————

Direttore Responsabile: SIILVIO DIPASQUAProprietario: BENIAMINOMICHIELETTOAutorizz. Del Tribunale di Trevison.463 del 5/11/1980Redazione e stampa:31029 VITTORIO VENETO

Via Carlo Baxa, 13tel. 0438-57319 – fax:

0438/946028………e-mail: [email protected]“Poste Italiane SpA - Spedizione inabbonamento postale – 70% NE/TV”

Hanno collaborato: Le Segreterie Nazionale, Regionale e Territorialedella FLAEI-CISL, Bazzo Giorgio, Griguolo Tiziano, De Luca Adelino,Fontana Sergio, De Bastiani Mario, Perin Rodolfo, Budoia Angelo, TolotMargherita, Dal Fabbro Edgardo, Battistuzzi Lorenzo, Sandrin Giuseppe,Faè Luciano, Piccin Livio, Da Ros Remigio, Carminati Giovanni, PiluttiAldo

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Offriamo una buona lettura per rinfrancare il cuore, il cervello e lo spiritoFLAEI-CISL di Belluno e Treviso

Indice

Pagina Testo3 C OSA E’ AVVENIRE5 CHI E’ LUIGINO BRUNI7 Nudo è il dialogo con Dio10 La risposta dell'intoccabile13 L’arca del duro canto16 La responsabilità di Dio19 Attenti ai ruffiani di Dio22 La memoria viva della terra25 La parola che vince la morte28 La rivoluzione dell’ascolto31 Il veleno della falsa misericordia34 Fedeli al Dio del non ancora37 La miniera della sapienza40 L'attesa dell'innocente43 l vero senso della sofferenza46 L'altra mano dell'Onnipotente49 Un Dio che sa imparare52 Nell'incontro non c'è maledizione55 Il canto che non può finire

Scritti pubblicati dal quotidiano AVVENIRE

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COSA E’ AVVENIREAvvenire è un quotidiano italiano a diffusione nazionale fondato nel 1968 a Milano. È nato dalla fusionedi due quotidiani cattolici: l'Italia di Milano e L'Avvenire d'Italia di Bologna (da cui ha mutuato il nome).Tra i quotidiani italiani, si piazza all'ottavo posto nelle classifiche di diffusione[1].Il quotidiano si muove nel rispetto della dottrina della Chiesa cattolica ma in piena autonomia dallagerarchia: infatti può prendere una sua posizione "per difendere e sostenere valori sulla base dimotivazioni umane, morali, solide e profonde"[2].Si autodefinisce «quotidiano di ispirazione cattolica» nel senso che è un giornale fatto da cattolici ma chevuole essere interessante anche per coloro che non sono credenti[3].

*°*°*°La fondazione[modifica | modifica wikitesto]L'idea di una testata d'ispirazione cattolica che si rivolgessea tutti gli italiani venne alla metà degli anni sessanta a Papa Paolo VI. Il pontefice, prevedendo l'evolversidei tempi, giudicava ormai "indispensabile" uno "strumento di evangelizzazione, di dialogo con il mondomoderno e quindi di missione"[3].Paolo VI pensò ad uno strumento culturale comune per i cattolici italiani, un giornale nazionale che desseun'idea dell'Italia non come mera unità geografica, ma come comunità dotata di una coscienza unitaria.Negli anni sessanta esistevano in Italia diversi quotidiani cattolici regionali o locali. I principali eranoL'Italia, che si pubblicava a Milano e L'Avvenire d'Italia, di Bologna. Paolo VI chiese ai vescovi dichiudere i loro giornali per unire le forze in un nuovo giornale nazionale.Il progetto fu esaminato da una specifica commissione "Italia-Avvenire", che si riunì tra l'autunno el'inverno del 1966. Nel 1967 si procedette alla fusione delle due società editrici, l'ITL di Milano el'I.Ce.Fi. di Bologna, che diventarono le componenti, in quote uguali, di una nuova società editoriale, laNuova Editoriale Italiana (NEI), con sede a Milano. Nel novembre di quell'anno la ConferenzaEpiscopale Italiana (CEI) si pronunciò a favore della fusione delle due storiche testate e si accinse apredisporre le linee d'indirizzo del nuovo giornale.La CEI assumeva il compito di favorire la diffusione del giornale nelle diocesi, raccogliendo i fondinecessari per mantenerlo in vita. Inoltre si riservava il diritto/dovere di indicare la linea del giornale, «purriconoscendo l'opportuna libertà di determinazione della Direzione nei singoli atti e considerando ilgiornale come uno strumento di comunicazione sociale aperta, e attento segno dei tempi[4]» Avvenire,nelle intenzioni dei suoi fondatori, non avrebbe dovuto sembrare un quotidiano ufficiale della Chiesaperché così sarebbe risultato un doppione dell'Osservatore Romano.La scelta del primo direttore fu quindi molto ponderata. Dopo aver considerato i nomi di VincenzoCecchini (direttore del Giornale di Brescia, già collaboratore di Alcide De Gasperi); Giorgio Vecchiato(direttore della Gazzetta del Popolo); dell'esponente democristiano Guido Gonella e di GuglielmoZucconi, alla fine la scelta cadde su Leonardo Valente, proveniente da Il Popolo. Il direttore sarebbe statocoadiuvato da un comitato editoriale e da un comitato ristretto di vescovi. Il primo numero di Avvenireuscì nelle edicole il 4 dicembre 1968.I primi anni di vita[modifica | modifica wikitesto]Il primo anno di vita fu difficile: il giornale non erafacile da trovare nelle edicole, la quota abbonamenti era bassa, e poi la sua zona di diffusione coincidevaquasi completamente con quella dei due quotidiani precedenti. Il pericolo della cessazione dellepubblicazioni era concreto. Da Paolo VI, tenace sostenitore del quotidiano, giunsero pressanti moniti aivescovi affinché lo tenessero in vita. Su suo diretto invito fu deciso di creare un "Ufficio di promozione"appositamente per il quotidiano cattolico, la cui direzione venne affidata, per esplicita volontà delpontefice, a Carlo Chiavazza, l'ultimo direttore de L'Italia.Nel 1969 Valente venne sostituito da Angelo Narducci, proveniente anch'egli dal "Popolo". Narducciguidò il giornale per dieci anni, consolidandone in maniera determinante il profilo e la diffusione[3]. Allametà degli anni settanta Avvenire aveva allargato la propria presenza su tutta la penisola, raggiungendo,grazie agli sforzi dei vescovi del Sud, anche le regioni meridionali d'Italia. Nel 1972, infatti, era statoaperto un centro stampa a Pompei, per facilitare la distribuzione del quotidiano nel Mezzogiorno.Negli anni settanta il quotidiano si dovette confrontare con una società sempre più laicizzata: ilreferendum sul divorzio (1974) dimostrò per la prima volta che la componente cattolica era diventataminoritaria nel Paese. In questo diverso contesto, la nuova missione del quotidiano diventò la "difesadell'identità dei credenti". Il quotidiano doveva rappresentare "la coscienza critica dei cattolici impegnatinella sfera politica"[3]. Tale indirizzo fu esposto dal direttore Narducci nel 1975. Il giornale inoltre sischierava politicamente contro ogni ipotesi di collaborazione tra DC e PCI.

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Durante il periodo della cosiddetta "Solidarietà nazionale" (1976-79), Avvenire mantenne una posizionecritica verso la democrazia cristiana, pronto a rilevarne ogni segno di cessione a ideologie distanti dallasua matrice cristiana-popolare. Nel 1978 moriva Paolo VI, il pontefice che aveva voluto fortementeAvvenire e ne aveva seguito da vicino i primi passi. Con la sua morte si conclude la prima fase della vitadel quotidiano. Nel 1980 Angelo Narducci lasciava la direzione del giornale; cambiavano anche i verticidella società editrice, la Nuova Editoriale Italiana (NEI).Dagli anni novanta ad oggi[modifica | modifica wikitesto]A partire dalla metà degli anni novanta, con ladirezione di Dino Boffo, Avvenire ha ampliato l'attenzione alla società civile ed ha rafforzato la sezionededicata al dibattito culturale. Sono state lanciate nuove iniziative: dal febbraio 1996 esce Popotus,inserto bisettimanale pensato esclusivamente per ragazzi, strutturato come giornale d'informazione, macon temi e forma dedicati ai piccoli, a cui si aggiungono tre inserti mensili: Luoghi dell'Infinito (itinerarituristici, religiosi e culturali), Noi Genitori & Figli, Non Profit.Dal 1998 Avvenire si può leggere anche su internet. Il sito è stato rinnovato in occasione del 40ºcompleanno del quotidiano, celebrato il 4 dicembre 2008. Il 7 maggio 2002 Avvenire ha attuato unariforma grafica che ha reso l'impaginazione più ariosa, con un impatto positivo sulla leggibilità. Inoltrenel colophon è stata inserita, su suggerimento del direttore Boffo, la frase «Per amare quelli che noncredono», che è presto diventato il motto del quotidiano.Il rinnovamento grafico ha consentito un progressivo aumento delle copie vendute, piccolo masignificativo perché in controtendenza rispetto alla generale contrazione del mercato in Italia. Il 3settembre 2009 il direttore Dino Boffo si dimette a causa di una polemica innescata dal quotidiano ilGiornale di Vittorio Feltri che ha pubblicato notizie infamanti su Boffo poi rivelatesi infondate e ritrattatedallo stesso Feltri.[5][6]. A Boffo è succeduto il vicedirettore Marco Tarquinio[7].Nel corso del 2011 Avvenire ha preso posizione in difesa delle istituzioni ecclesiastiche sul temadell'esenzione dall'ICI (imposta comunale sugli immobili) a favore degli enti destinati al culto, accusatidai radicali di eludere il fisco. Attraverso servizi e inchieste, il quotidiano ha messo in evidenza che"l'esenzione non è un'elusione e non è un privilegio della Chiesa, ma riguarda tutti gli enti non profit."Dal 27 febbraio 2015 il quotidiano espone, nel tamburino di gerenza, il bollino PEFC che certifica lasostenibilità della carta utilizzata per stampare il giornale.[8]

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CHI E’ LUIGINO BRUNI

Luigino Bruni, nato ad Ascoli Piceno nel 1966, è Professore Associato in Economia Politica alDipartimento di Economia Politica dell’Università Milano Bicocca edall’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI). Dopo la Laurea inEconomia ad Ancona nel 1989, ha conseguito un dottorato nel 1998 inStoria del Pensiero Economico presso l’Università di Firenze, ed unsecondo PhD nel 2004 in Economics presso l’ Università di East Anglia(UK).E’ vicedirettore del Centro interdisciplinare e interdipartimentaleCISEPS; e’ vicedirettore del Centro interuniversitario di ricercasull'etica d'impresa Econometica; è coordinatore del progetto Economiadi Comunione e membro del comitato etico di Banca Etica Negli ultimi15 anni il campo di ricerca di Luigino Bruni ha coperto molti ambiti,dalla Microeconomia, all’Etica ed Economia, alla Storia del Pensiero

Economico e dalla Metodologia in Economia alla Socialità e Felicità in Economia. Recentemente i suoiinteressi si sono rivolti all’Economia Civile ed alle categorie economiche ad essa collegate qualiReciprocità e Gratuità. Su questi argomenti Luigino Bruni ha scritto molti libri e vari di questi sono statitradotti in altre lingue. Nel 2008 il suo libro “Civil Happiness” ha vinto il secondo premio del“Templeton Enterprise Awards”. Questo premio è assegnato ogni anno ai migliori libri e articoli sullacultura d’impresa scritti da autori con meno di 40 anni al momento della pubblicazione. Attualmente laricerca di Luigino Bruni si è focalizzata sul ruolo della motivazione intrinseca nella vita civile eeconomica.

*°*°*°Opere principaliLuigino Bruni, Vilfredo Pareto. Alle radici della scienza economica del Novecento, Polistampa, 1999.Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, 2004.Luigino Bruni, Il prezzo della gratuità, Città Nuova, Roma, 2006.Luigino Bruni, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione, economia e società civile, Bruno Mondadori,2006.Luigino Bruni, Civil Happiness: Economics and Human Flourishing in Historical Perspective, Routledge,2006.Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Peter Lang, Civil Economy, Oxford, 2007.Luigino Bruni, La ferita dell'altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007.Luigino Bruni, D.Canestrini, L. Boella, Economia e felicità. Scrivere d'arte. Parlare della speranza, IRSE,2008Luigino Bruni, Alessandra Smerilli, Benedetta Economia, Città Nuova, Roma, 2008.Luigino Bruni, Reciprocity, altruism and civil society, Routledge, London, 2008.(A cura di) Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Dizionario di Economia Civile, Città Nuova, Roma, 2009.Luigino Bruni, L'ethos del mercato, Bruno Mondadori, Milano, 2010.Luigino Bruni, Impresa civile (L'): Una via italiana all'economia di mercato, Università Bocconi Editore,Milano, 2010.Luigino Bruni, Stefano Zamagni e Leonardo Becchetti, Microeconomia, Il Mulino, Bologna, 2010.Luigino Bruni, Stefano Zamagni e Leonardo Becchetti, Dall'homo oeconomicus all'homo reciprocans IlMulino, Bologna, 2010.Luigino Bruni, Antonio Maria Baggio, Piero Coda, La crisi economica. Appello a una nuovaresponsabilità, Città Nuova, Roma, 2011.Luigino Bruni e Alessandra Smerilli, La leggerezza del ferro, una introduzione alla teoria economicadelle Organizzazioni a Movente Ideale, Vita e Pensiero, Milano, 2011.Luigino Bruni, Le nuove virtù del mercato, nell’era dei beni comuni, Città Nuova, Roma, 2012Luigino Bruni, The Genesis and the Ethos of the market, Palgrave Macmillan, Houndmills, Basingstoke,2012.Luigino Bruni, Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato, Il Margine, Trento, 2012.Luigino Bruni, Economia con l’anima, Emi, Milano, 2013.

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Luigino Bruni, N. Riccardi, P. Rota Scalabrini, L'uomo spirituale e l'homo oeconomicus. Il cristianesimoe il denaro, Glossa, Milano, 2013.Luigino Bruni, Ricchezze. Beati quelli che investiranno in economie di comunione, San Paolo, Milano,2014.Luigino Bruni e Alessandra Smerilli, L'altra metà dell'economia. Gratuità e mercati, Città Nuova, Roma,2014.Luigino Bruni, Fondati sul lavoro, Vita e Pensiero, Milano, 2014.Luigino Bruni, Lessico del ben-vivere sociale, Ecra, Roma, 2014.

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/1IN CAMMINO, OLTRE LA VISIONE «RETRIBUTIVA» DELLA FEDENudo è il dialogo con Dio

«Che cosa state facendo? Ditemelo, voglio sapere».Non le ho risposto. Il cieco ha detto: «Stiamo disegnando una cattedrale. Ci stiamolavorando insieme, io e lui. Premi più forte», ha detto, rivolto a me.«Sì, così. Così va bene», ha aggiunto. «Certo. Ce l’hai fatta, fratello. Si capisce bene,adesso.Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte.

Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro». Raymond Carver, Cattedrale.La sventura degli altri non dice nulla sulla loro rettitudine, come non dice nulla la loro ricchezza. Perpoter attraversare il libro di Giobbe, dobbiamo affrontare una lotta durante la notte. Il tema a cuore delPrologo è la gratuità. La storia di Giobbe è un insegnamento non solo sull'etica della sventura delgiusto, è anche una riflessione radicale sul senso dell'esistenza umana, e quindi è un grande mito diiniziazione alla vita

Avvenire 15 marzo 2015

Il mondo è popolato da un numero sterminato di Giobbe. Pochissimi, però sono quelli che hanno il donodi attraversare le proprie sventure in compagnia del libro di Giobbe. La lettura e la meditazione di questocapolavoro assoluto di tutte le letterature, è anche una compagnia spirituale ed etica per chi si trova nellavita a rivivere l’esperienza di Giobbe: una persona giusta, integra e retta, che nel pieno della sua felicitàviene colpito da una grande sventura, senza nessuna spiegazione. Anche i giusti possono cadere indisgrazia. Ma anche oggi, come ai tempi di Giobbe, gli amici, la saggezza popolare, la filosofia e lateologia cercano spiegazioni delle sventure, e ancora oggi si fa molta fatica a pensare che un uomo, unadonna, possano essere caduti in rovina senza avere una qualche colpa.Come il dono ha bisogno di una buona ragione per essere spiegato, capito e accettato, così anche per larovina che si abbatte sugli esseri umani, abbiamo bisogno di trovare un perché che sazi la nostra sete diequilibrio, che appaghi il nostro senso di giustizia. Il nostro buon senso non riesce a convivere con ledisgrazie senza ragioni. Il libro di Giobbe, questo monumento dell’etica e della religiosità universale, cidice invece che la sventura e la rettitudine possono convivere, e che anche chi è giusto e buono puòprecipitare nel baratro più grande e profondo. Allora la sventura degli altri non dice nulla sulla lororettitudine, come non dice nulla la loro ricchezza. E in un tempo che sta facendo del merito un nuovoculto, Giobbe ci ricorda che la vita vera è molto più complessa e viva delle nostre meritocrazie. Oggi piùdi ieri ci sono persone ricche senza alcun merito e con molti demeriti, e persone impoverite perché cadutein sventura sebbene buone.Ma se la sventura colpisce giusti e ingiusti, buoni e cattivi, allora la grande tentazione è pensare che ilmondo sia governato dal caso, dalla dea bendata, negare che valga la pena coltivare la virtù, perché è lafortuna a vincere. Dio, Elohim, YHWH, il Signore dell’Alleanza, la voce buona dei patriarchi, di Mosè edegli altri profeti, è lo stesso Dio di Giobbe o è un altro? O non c’è alcun Dio e siamo destinati a esseredivorati da idoli sempre più sofisticati e affamati? Il libro di Giobbe non è solo un grande trattato di eticaper salvarsi nei tempi delle grandi prove; è anche un testo che ci mostra un volto diverso del Dio biblico.Quello che attacca Mosè per ucciderlo subito dopo avergli parlato sull’Oreb ( Esodo, 4 ), quello che inviaun suo angelo a fermare Balaam ( Numeri 22 ), l’avversario di Giacobbe-Israele nel guado notturno delloYabboq ( Genesi, 32 ). Per poter attraversare il libro di Giobbe, dobbiamo affrontare una lotta durante lanotte. Un guado rischioso, che potremo dire di aver superato solo allo spuntare dell’aurora, quando illottatore notturno ci lascerà il segno, insegnandoci una nuova dimensione della vita.In ogni incontro col testo biblico, se vogliamo sperare di sentirci chiamare un giorno per nome da unavoce vera, dobbiamo leggerlo come fosse la prima volta, perché solo così ci si apre e ci sorprende. Loabbiamo detto molte volte. Per incontrare e amare Giobbe questo esercizio spirituale e morale è peròindispensabile e assoluto. Dobbiamo perdere figli, figlie, beni, salute, maledire con lui la vita seduti sulmucchio di letame, e soprattutto non dobbiamo accontentarci di facili spiegazioni per tornarevelocemente a benedirla. Per questo la lettura di Giobbe è ardua e pochi la portano a termine. Giobbe cicostringe a prendere sul serio le contraddizioni della vita, le non risposte, i silenzi, e tentare il paradosso:iscriverli tutti dentro il libro buono della vita. Se Giobbe, le sue urla di dolore e le sue maledizioni, sono

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parola di Dio, allora non ci sono parole umane che sono per natura escluse dalla salvezza. Giobbe haallargato per noi l’orizzonte dell’umano amico di Dio e della vita, inserendoci tutta quell’umanità che

conosce solo il linguaggio del dolore e della disperazione, dicendociche anche le parole mute possono comporre un dialogo vero tra cielo eterra, forse il più vero di tutti. «Non vado più in chiesa, dopo che èmorta la mia nipotina di cinque anni. Sono troppo arrabbiato con Dio»,mi disse un giorno un mio amico, un amico di Giobbe.Giobbe è un libro per la vita adulta. Per leggerlo e amarlo c’è bisognodi aver assaggiato qualche boccone di sciagura, nella propria esistenzao almeno in quella di una persona molto cara. Solo chi riesce asporgersi sul mistero della vita e guardarla con libertà assoluta puòsperare di penetrare qualcosa del messaggio di Giobbe; ma occorresaper osare fino a chiedere le risposte più difficili, anche quelle cheappaiono assurde e impossibili. Senza chiedere l’impossibile, il

possibile non è mai buono né vero. Il tema a cuore del Prologo è la gratuità. La prima scena del libro cimostra un uomo felice, Giobbe. Ci viene presentato senza padre né madre, come un nuovo Adam, unuomo. È nelle prime parole che si trova il messaggio universale di questo libro: «Giobbe, un uomo, delpaese di Uz» (1,1). Il nome Job, dall’etimologia incerta, non è nome ebreo: Giobbe non è un figliod’Israele, ma solo un uomo, come Adam. Senza padre né madre.Abitante di un paese straniero, forse nella terra degli edomiti, un popolo straniero, nemico e idolatra.Ogni uomo. Ma Giobbe era anche un uomo «giusto e retto», come Noè. All’inizio del dramma, Giobbe èun uomo felice: «Sette figli e tre figlie aveva generato, settemila pecore, tremila cammelli...» (1,2-3). Eraricco anche per le relazioni felici tra figli e figlie: «I suoi figli si recavano a turno a banchettare nelleresidenze di ciascuno e mandavano inviti anche alle tre sorelle perché pranzassero con loro» (1,4). Eraanche un uomo pio e devoto: «Concluso un ciclo di visite e banchetti, Giobbe convocava i figli perpurificarli» (1,5). Era un uomo 'perfetto', una umanità compiuta e fiorente.Nella seconda scena ci ritroviamo all’interno di una assise celeste, Dio insieme ai suoi 'figli'. Tra questi sitrova anche Satana (che nel libro di Giobbe è uno dei membri della corte celeste, forse uno dei figli diDio).Questi era tornato da un giro sulla terra, e aveva notato la rettitudine di Giobbe. E qui inizia il dialogocentrale. Satana insinua un dubbio, presentato a Dio come una tesi: «Satana rispose al Signore: 'Forse cheGiobbe teme Dio per nulla? ... Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e i suoi possedimenti siespandono sulla terra. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha, e vedrai come ti malediràapertamente!'» (1,9-11). L’espressione «teme Dio per nulla», può anche essere tradotta 'senzaricompensa', 'senza essere pagato'. Per questo al cuore del racconto di Giobbe c’è anche una rivoluzionereligiosa e antropologica che cerca di superare la visione retributiva della fede (la nostra ricchezza e lanostra felicità sono il premio per una vita fedele, nostra o dei nostri padri), che è stata centrale anchenell’etica del capitalismo.Ma la domanda sulla gratuità è il centro dell’esistenza dell’umana. Siamo capaci di liberarci dal registrodelle reciprocità di cui si compone la grammatica delle nostre relazioni sociali e affettive, e agire solo perpuro amore? Giobbe non ci darà risposte facili alla domanda sulla gratuità che sembra essere all’originedella scommessa tra Dio e il suo angelo Satana, e forse non può darcela perché più grande dello stessograndissimo Giobbe. La storia di Giobbe è allora un insegnamento non solo sull’etica della sventura delgiusto, è anche una riflessione radicale sul senso dell’esistenza umana, e quindi è un grande mito diiniziazione alla vita. I figli e le figlie non sono nostri, il corpo lo lasceremo, il dolore nostro e degli altri èpane quotidiano, la terra dove nasciamo e viviamo non è nostra, i beni non sono per sempre. I nemici e lecalamità naturali uccidono prima gli animali (1,14-17), e infine la sciagura più grande: «Mentre egliancora parlava, entrò un altro e disse: 'I tuoi figli e le tue figlie stavano mangiando e bevendo vino incasa del loro fratello maggiore, quand’ecco un vento impetuoso si è scatenato da oltre il deserto: hainvestito i quattro lati della casa, che è rovinata sui giovani e sono morti'» (1,18-19). Allora Giobbe «sialzò e si stracciò il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: 'Nudo uscii dal grembo dimia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome delSignore!'». (1,20-21). Da questa nudità inizia il suo dialogo, la sua lotta in cerca della benedizione oltrele grandi ferite. Per imparare, senza facili consolazioni, il mestiere del vivere, Giobbe è un incontrodecisivo, forse necessario. I suoi amici più intimi sono Qoelet, Leopardi, e alcune grandi pagine di

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Dostoevskij, Kafka, Nietzsche, Kierkegaard. Se un senso religioso è possibile, questo deve sapereascoltare fino in fondo le domande di Giobbe e cercare di rispondere.Se seguiremo Giobbe in profondità, senza sconti e fino alla fine, potremo fare un’esperienza simile aquella che ci narra Raymond Carver nello splendido racconto 'Cattedrale'. Un cieco prende la mano delsuo ospite, che vedeva con gli occhi del corpo ma non aveva mai visto, o aveva dimenticato, unacattedrale, e mano nella mano riescono a disegnarla insieme. Lasciamoci prendere per mano da Giobbe, einsieme potremo disegnare un capolavoro.

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/2RESISTERE SENZA MALEDIRE, SCOPRIRE LA 'LIBERTÀ DEL LETAME'La risposta dell'intoccabileLa nostra civiltà attuale, scesa dal Nord e dall’Occidente, ha visto il sole e l’azzurro; non ha visto le

tenebre del mare, il fango secco, i deserti di sabbia gialla, le rocce spaccate, le fiumaneasciutte, il groviglio dei cespugli polverosi, la crudeltà della luce, il sale e il sudore, igridi e il silenzio, la rapida putrefazione. In questo veder male, in questa illusione, stala nostra cultura, che è per questo – di fronte alla morte e quindi alla vita – il ritrattodell’impotenza -Sergio Quinzio, Cristianesimo dell’inizio e della fineGiobbe sul mucchio di letame raggiunge le periferie esistenziali più distanti, gli scarti

degli scarti, tutti i 'vinti' e tutte le scorie E lì lo possiamo ancora incontrare Il poema di Giobbe è larivelazione della immensa profondità dello spessore morale dell'uomo, capace di continuare a benedireDio nella sventura radicale e immeritata, senza la sua reciprocità

Avvenire 22 marzo 2015-03-22

La ricchezza, ogni ricchezza umana, tutta la nostra ricchezza, è prima di tutto dono.Veniamo al mondo nudi, e iniziamo il nostro cammino sulla terra grazie alla gratuità di due mani che ciraccolgono quando ci affacciamo sul mondo. Riceviamo in dono l’eredità di millenni di civiltà, digenialità, di bellezza, che ci vengono donati senza alcun merito nostro. Nasciamo dentro istituzioni chec’erano prima che arrivassimo, che ci accudiscono, proteggono, amano. Il nostro merito è sempresussidiario al dono, ed è molto più piccolo. E noi invece continuiamo a creare ingiustizie crescenti innome della meritocrazia, e a vivere come se la ricchezza e i consumi potessero cancellare la nudità dallaquale veniamo e che ci attende sempre fedele nei crocicchi di tutte le strade della vita.Satana ('l’oppositore') perde la sua prima sfida, perché nonostante il suo vento impetuoso che spazzò viatutti i beni di Giobbe, questi non maledisse Dio: «In tutta questa vicenda Giobbe non peccò né mai lanciòattacchi contro Dio» (1,22). Ma il Satana non è ancora convinto della gratuità della fede di Giobbe, e cosìchiede a Dio il permesso di provarlo nell’ultimo bene rimasto: il corpo. E così, in una nuova assise dellacorte celeste, prende la parola e chiede ancora: «Pelle per pelle: per salvarsi la vita l’uomo è disposto atutto. Perciò prova un po’ a stendere la tua mano e a colpirlo nelle ossa e nella carne: scommetto che tiscaglierà in faccia maledizioni» (2,4-5). Dio gli risponde ancora: «Ecco, lo metto nelle tue mani». Satanaallora «colpì Giobbe con un morbo maligno che lo avvolse dalla pianta dei piedi fino alla testa. Giobbeprese un coccio per grattarsi e sedette in mezzo all’immondizia» (2,7-8). La sventura di Giobbe giungefino al limite del possibile. Gli rimane sola la nuda vita. Ma, come Giobbe, solo quando siamo dentro iltracollo totale scopriamo risorse sconosciute che ci fanno capaci di sopportare sofferenze che prima diviverle pensavamo fossero insopportabili. Una fortezza che ci potrà sorprendere anche quando ciscopriremo capaci di morire, quando per tutta la vita avevamo pensato di non esserne capaci.Con il secondo capitolo del libro di Giobbe l’orizzonte dell’umano buono amico di Dio continua adallargarsi, e nessuna condizione umana resta simbolicamente fuori. Giobbe sul mucchio di letame, inmezzo alla spazzatura del villaggio, tocca il punto più basso della condizione umana, le periferieesistenziali più distanti, gli scarti, tutti i 'vinti', tutte le scorie della storia.Le discariche si trovavano fuori dalle mura, perché la malattia della pelle di Giobbe (forse qualcosa disimile alla lebbra) lo marchia come impuro, e quindi deve essere cacciato via, con gli 'scomunicati'.Nessuna malattia più di quelle infettive della pelle erano per l’uomo medioorientale segno dellamaledizione che Dio riserva solo ai peccatori. Nelle religioni 'economiche' del tempo (e, oggi, anche inquella delle nostre grandi imprese e banche) la sventura e l’impurità vengono considerate come gli effettidi una vita da peccatore. È questa equivalenza che Giobbe non vuole accettare – per lui, e per noi.Giobbe da ricco e potente si ritrova sventurato, impuro, e quindi intoccabile, fuori da tutte le castesociali. È questa ancora oggi la triste sorte di imprenditori, dirigenti, lavoratori, politici, sacerdoti, checaduti in rovina si ritrovano non solo impoveriti, ma seduti su un cumulo di macerie che include anchefamiglia, amici, salute. E subito finiscono anche tra gli impuri fuori dal villaggio, allontanati e emarginatida club, associazioni, circoli, confinati in discariche sociali e relazionali, scansati da tutti e non toccatiper il terrore di restare anch’essi contagiati dalla loro rovina.

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Ma Giobbe, sulla cenere e il letame, con il coccio, non maledì Dio. Continuò a essere giusto. Non c’ègratuità più grande di chi spera e vuole che Dio esista e che sia giusto anche quando nella sua vita

personale non vede più né i segni della sua presenza né quelli dellasua giustizia. Giobbe continua a cercare la verità e la giustizia.Una ricerca disperata, che ha un valore etico e spirituale immensoquando pensiamo che nell’Antico Testamento (Giobbe incluso)l’idea dell’esistenza di una vita dopo la morte è molto rarefatta,quasi inesistente. Il luogo dove YHWH vive e dove si puòincontrare la sua benedizione è questa terra, non un altro. La lotta diGiobbe abbraccia allora ogni essere umano che voglia apprendere ilmestiere del vivere senza accontentarsi delle risposte semplici,neanche di quelle semplicissime dell’ateismo. Giobbe, in ognitempo, continua a lottare anche per loro.Se la vita funziona e fiorisce arriva inevitabilmente la tappa delmucchio di letame. È l’appuntamento con la povertà non scelta.Finché siamo noi a scegliere di essere poveri, siamo forse nel campo

delle virtù ma non siamo ancora in quello di Giobbe. La povertà scelta, che ha generato e genera moltevite buone, non è la povertà di Giobbe: Giobbe è un ricco e felice che diventa povero senza averlo scelto,e per questo la sua condizione abbraccia le povertà di tutti, soprattutto quella di chi non l’ha scelta, ma visi ritrova dentro. Una povertà radicale e universale, perché mentre sono stati sempre pochi coloro chehanno scelto la povertà come stile di vita (ancora meno sono quelli che riescono a liberarsi dallaricchezza di aver liberamente scelto la povertà), molti, potenzialmente tutti, possiamo fare l’esperienza didiventare poveri senza averlo né chiesto né scelto. E lì incontrare Giobbe, che ci attende e combatte con eper noi. Come quando, dopo aver speso una vita per costruire una ricchezza spirituale, un giorno, quasisempre all’improvviso, ci si ritrova nudi su un mucchio di letame, privati di tutti i 'beni' che avevamoaccumulato. Ho avuto il dono di conoscere alcune persone grandi, che hanno trovato la radicale libertàdel letame solo preparandosi a morire, quando liberi da tutte le ricchezze, soprattutto da quelle spirituali,hanno spiccato un nuovo volo finalmente libero, anche quando è durato solo pochi anni, mesi, a voltegiorni o ore. Questa povertà radicale e non-scelta ci fa diventare quei 'piccoli' che riescono ad entrare inun altro regno, perché prima lo riescono a vedere e a desiderare.Giobbe sul letame non è totalmente solo. Da lui arrivano prima la moglie e poi alcuni amici. La mogliefa una rapida, infelice ed unica comparsa, mentre gli amici saranno i protagonisti di tutto il dramma diGiobbe. «La moglie gli gridò: 'Continui a persistere nella tua integrità?Maledici Dio e crepa'» (2,9). Parole misteriose e dalle molte possibili spiegazioni, ma che non sono rarenella vita dei giusti caduti in sventura, quando al culmine di una grande prova succede che siano propriole persone più vicine a diventare le più distanti, perché oltre a non capire che cosa stanno vivendo mogli,padri, mariti, finiscono per dare i consigli meno saggi e veri, anche se spinti dall’amore o dalla pietà.Dalla moglie giunge a Giobbe un invito ad arrendersi, a suicidarsi, a lasciarsi morire. Ma Giobbe nonl’ascolta: «Parli come una stupida: se da Dio accettiamo i beni perché non dovremmo accettare anche imali?» (2,10). Giobbe non scelse la morte, e anche se (lo vedremo) sentirà la tentazione di voler morire,continuerà a vivere, a lottare e a cercare un senso: «Anche in tutta questa vicenda, Giobbe non peccò conle sue labbra» (2,10).Giobbe non maledì Dio. Però maledì se stesso e la propria vita, un’auto-maledizione di una poesia e diuna umanità che ci lasceranno senza fiato, e che dopo migliaia di anni sono capaci di commuoverci, diconvertirci, di spingerci a cercare almeno un Giobbe attorno a noi, e accompagnarlo su queste pagineimmense. È così scoprire una nuova preghiera, forse quella più bella di tutte. Ogni volta che rileggiamoGiobbe, Qoelet, Marco, possiamo donare parole ai tanti ammutiti dal dolore e dalla vita, che nonpossono, non riescono, non vogliono gridare i loro dolori più grandi e veri. Si può cominciare oricominciare a pregare – a pregare si dimentica e si reimpara molte volte nella vita – prendendo inprestito le parole estreme di Giobbe, fino a farle diventare le nostre parole e quelle di chi non ne ha più.Il poema di Giobbe è la rivelazione della immensa profondità dello spessore morale dell’uomo, capace dicontinuare a benedire Dio nella sventura radicale e immeritata senza la sua reciprocità. Giobbe cercheràin tutto il suo dramma di trovare un senso a questa mancanza di reciprocità di Dio, e con lui ogni lettoreche legge il libro di Giobbe all’interno di una Bibbia fondata sulla reciprocità 'contrattuale' dell’Alleanzae della Legge ( Torah). Quale sarà la reciprocità di Dio? La scommessa tra Satana e Elohim non è vintada nessuno dei due: il vero vincitore è Giobbe, che 'costringerà' Dio stesso a liberarsi a sua volta dalla

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logica retributiva, economica, contrattuale. A chiedergli di diventare ai suoi occhi d’uomo ciò che è:Altro. Grazie a Giobbe, uomo fedele anche senza reciprocità, Dio deve allora continuare ad amarci anchequando noi smettiamo di farlo. Può, e deve, essere presente in un mondo che non lo vuole, non lo vede,non lo desidera più.

Immagine - Sieger Köder, «Giobbe attende risposta da Dio»

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UN UOMO DI NOME GIOBBE - 3LA SOFFERENZA DELL'INNOCENTE INIZIO DI RESURREZIONEL’arca del duro canto

Stordito, Giobbe si rivolge a Dio e gli dice: «Padrone dell’universo, non può essere cheuna tempesta abbia infuriato davanti a te e ti abbia fatto confondere Iyov (Giobbe) conOyév (nemico)?» Per quanto strano possa sembrare, di tutte le domande poste daGiobbe questa è l’unica a meritare una risposta Elie Wiesel Personaggi bibliciattraverso il Midrash

Giobbe era stato un maestro di fortezza e di etica, ma ora dentro la prova non riesce a utilizzare per sestesso quelle risorse morali che aveva per anni donato agli altri.La forza di Giobbe sta nella sua condizione di vittima, che dà carne alle parole che dice. È la sua carneferita che dà forza alla sua parolaAvvenire 29 marzo 2015

I discorsi più alti e veri che si levano dalla terra sono quell i dei poveri, le cui carni ferite contengono unaverità che i trattati dei professori non possono conoscere. È la verità di Giobbe, che dà forza ai suoidiscorsi di maledizione e di imprecazione. Le sue grandi domande senza risposta sono molto più

convincenti e vere delle risposte senza grandi domande degliesperti del suo tempo e del nostro. Se oggi fossimo capaci diascoltare le domande, spesso mute, dei poveri feriti dalla vitae dalla nostre «strutture di peccato», potremmo avere qualchebarlume di luce per rischiarare le tante crisi del nostro tempo,che non capiremo finché non reimpareremo a leggere leparole incise nelle pelle delle vittime.Dopo il Prologo, con il capitolo tre entriamo nel cuore delpoema di Giobbe, costruito sui suoi dialoghi con gli amici,con se stesso, con la vita, con Dio. «Tre amici di Giobbevennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute sudi lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman,Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono perandare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Alzarono gliocchi da lontano, ma non lo riconobbero. Levarono la lorovoce e si misero a piangere» (2,11-12). Tutto fa pensare chesono amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vannoa trovare, siedono e piangono con lui. Amici che non loriconobbero da lontano, perché Giobbe, per le pene che

pativa, stava diventando altro, troppo lontano dal primo Giobbe, e da loro.È Giobbe a prendere per primo la parola. Maledice la vita con parole sconcertanti e scandalose: «Periscail giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: 'È stato concepito un maschio!'. Quel giorno divengatenebra, non se ne curi Dio dall’alto, né brilli mai su di esso la luce … Perché non sono morto fin dalseno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia mi hanno accolto, e duemammelle mi allattarono?» (3,1;11-12). La sventura attuale gli fa guardare indietro e maledire la suaorigine. Poi gli fa agognare la fine, desiderare di giungere finalmente liberato nel regno dei morti, dove«anche i prigionieri hanno pace, non odono più la voce dell’aguzzino. Il piccolo e il grande là sonouguali, e lo schiavo è libero dai suoi padroni» (3,18-19). I patriarchi della Genesi erano giunti alla morte'sazi di giorni'; Giobbe, sazio di dolore, desidera solo la morte.Gli amici di Giobbe si impauriscono e si scandalizzano delle sue parole. E così il primo degli amici,Elifaz, rompe i sette giorni di silenzio e di lutto, e prende la parola: «Sei stato maestro di molti e a manistanche hai ridato vigore; le tue parole hanno sorretto chi vacillava e le ginocchia che si piegavano hairafforzato. Ma ora che questo accade a te, ti è gravoso; capita a te e ne sei sconvolto» (4,3-5). Elifazsembra rimproverare a Giobbe una mancanza di coerenza morale. Giobbe era stato un maestro difortezza, aveva consolato e aiutato altre persone che si trovavano in una situazione simile a quella nellaquale è precipitato lui; ma ora non riesce ad utilizzare per se stesso quelle risorse morali che aveva peranni donato agli altri.

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Quando si cade in una sventura vera, sono di poco aiuto i princìpi etici e i valori sui quali avevamocostruito la nostra morale nei tempi della prosperità, che avevamo raccontato nei convegni o scritto suilibri. Il vento impetuoso della disgrazia, insieme ai beni, ai figli, alla salute spazza via anche le certezzemorali di ieri. Sta qui la difficoltà delle prove vere e grandi della vita. La notte avvolge tutto, e l’animanon possiede più né un vocabolario né una grammatica per scrivere frasi di vita.Le parole del tempo della gioia e delle certezze appaiono ora come menzogna, come inganno, non verità.Finché non si raggiunge questa povertà assoluta, siamo ancora nella terra dei ricchi. Ma è da questadelusione radicale che può iniziare una nuova vita, tutta diversa, certamente più vera. I maestri di vitaspirituale sanno che è al culmine di questa notte (che può durare anche decenni) che può cominciare lavera vita spirituale, della quale i tempi del dono e della luce erano stati soltanto la sala d’attesa dove cieravamo trastullati con balocchi, e con qualche idoletto. Ma Giobbe tutto questo non lo sa, non lo può enon lo deve sapere – e noi dobbiamo essere ignoranti come lui, se vogliamo seguirlo nella sua esperienzaradicale, e provare a rinascere.Non stupisce allora che la logica del (bel) discorso di Elifaz, che pur contiene molte verità della miglioreetica del tempo (la vita virtuosa porta, prima o poi, alla felicità), non è di alcun conforto a Giobbe. E così,dopo aver ribadito la profondità dell’abisso nel quale è sprofondato, Giobbe inizia una amara e stupendariflessione sull’amicizia e sulla solitudine dell’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente,come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi dellaneve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19). Gli amicisvaniscono nel tempo della sventura. Li cerchiamo, e come una carovana che lascia la pista battuta neldeserto in cerca di quelle oasi che in passato erano ricche di acque dolci, andiamo da loro arsi dalla setedel dolore e della solitudine, ma dopo la lunga corsa troviamo solo alvei vuoti di torrenti pieni di sassi(6,19-22).Siamo soli nei grandi attraversamenti della vita; in mezzo a quelle acque tumultuose nessuna compagniapuò affiancarci e pareggiarci. Nemmeno la mano più cara che stringerà la nostra nell’ultimo guado dellavita potrà seguirci fino alla fine della lotta, quando, con la sola nostra mano mendicheremo labenedizione finale.Giobbe continua il suo combattimento con la vita. Non smette di cercare e chiedere nuove ragioni, sullamorte di quelle antiche. Da questi primi dialoghi emerge un Giobbe forte nella sua debolezza estrema.Non vede più le coordinate del cammino, è smarrito. Nelle sue parole c’è però una forza di verità assentein quelle dei suoi dotti interlocutori. La sua è la sapienza di chi vive concretamente sulle proprie carni lasventura, una 'competenza' unica e intrasmissibile che nessun esperto fuori dall’esperienza può avere. Laforza di Giobbe sta nella sua condizione di vittima, che dà verità alle parole che dice. È la sua carneferita che dà forza alla sua parola. La carne che diventa verbo.Il diluvio della Genesi aveva annullato l’ordine della creazione, ri-confuso luce e tenebre, acqua e terra;il diluvio che si è abbattuto sulla vita di Giobbe ha cancellato ogni ordine etico, trasformato il suo cosmonel caos. Giobbe era giusto come Noè, ma mentre Noè fu salvato da Elohim, Giobbe è la vittima dellegrandi acque. Sommerso e inondato da un diluvio ingiusto, non vede più la luce, l’armonia, la felicità, labellezza e l’ordine della vita. E la maledice, in un canto di maledizione radicale e scandaloso, senza peròmai arrivare a maledire Dio (anche se arriva sulla soglia).Ma se leggiamo il suo poema con 'l’intelligenza delle scritture', facciamo una scoperta sbalorditiva: il suocanto di maledizione è anche la costruzione di una nuova e diversa arca di salvezza. Nell’arca di Giobbenon salgono i suoi figli e gli animali, ma tutti i disperati, gli sconsolati, i depressi, gli abbandonati, ifalliti, gli scomunicati, tutte le vittime inconsolabili e inconsolate della storia. È così che la Bibbia ci amae ci salva, paradossalmente e realmente. Come, analogamente, ci salvano la grande poesia e la grandeletteratura, che riscattano e salvano il principe Myskin, Cosette e Jean Valjean, il 'pastore errantedell’Asia', mentre li raggiungono, li incontrano, abitano la loro sventura. La 'resurrezione' di questimiserabili arriva quando vediamo, descriviamo, amiamo le loro sofferenze. Se non fosse così le nostrepoesie, l’arte e i capolavori letterari sarebbero solo finzione, e non conterrebbero nessuna verità enessuna salvezza. E invece non è così, lo sappiamo e lo sentiamo tutti i giorni, quando nei dolori grandi enelle sventure della vita continuiamo ad essere amati dai poeti e dalle scritture, che ci prestano i lorosalmi e le loro parole per accompagnare le nostre notti mute. E ci accompagnano e ci amano anchequando non possiamo leggere né le poesie né la Bibbia, perché non le capiamo, non abbiamo maiimparato a leggere, o perché le abbiamo dimenticate.L’autore del libro di Giobbe ha incluso tutti i vinti e i disperati nel libro della vita e di Dio solo perché hapronunciato le loro stesse parole. La resurrezione è dentro la passione, l’abbandonato è già risorto. Sta

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anche qui la speranza non vana che nella storia, questa infinita processione di innocenti sofferenti, possaessere iscritta una giustizia, misteriosa ma vera.Tutti possiamo entrare nell’arca di Giobbe. L’arcobaleno dell’alleanza si estende fino a colorare tutto ilcielo e tutta la terra.Immagine - GUSTAVE DORÈ. Giobbe e i tre amici molesti (Fototeca)

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/4IL GIUSTO PUÒ DIRLO: NESSUN FIGLIO MERITA DI MORIRELa responsabilità di DioTu non scendesti dalla croce quando, per schernirti e per deriderti, ti gridavano: «Scendi dalla croce eallora crederemo che sei tu».

Tu non scendesti perché ancora una volta non volesti rendere schiavo l’uomo con unmiracolo e bramavi la fede libera … Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più viledi quanto tu pensassi … Se lo avessi stimato di meno, avresti preteso anche meno da lui,perché più lieve sarebbe stato il suo fardello.Fëdor Dostoevskij, I fratelli KaramàzovGiobbe ha continuato a credere nella propria innocenza perché noi, meno giusti di lui,

potessimo credere nella nostra. Nasce così il “processo” di Giobbe a Dio, e con esso entriamo inun’autentica rivoluzione religiosa: anche Dio deve dar conto delle sue azioni. Cristo ce lo ha resodefinitivamente chiaro, e la storia umana dopo la Rivelazione ha fatto crescere la “difesa” di Giobbe,cioè di ogni innocente, umiliato, perseguitatoAvvenire 5 marzo 2015

L’umanesimo biblico non assicura la felicità ai giusti. Mosè, il profeta più grande di tutti, muore solo efuori délla terra promessa. Per i giusti ci deve essere qualcosa di più vero e profondo délla ricerca déllapropria felicità.Alla vita chiediamo molto di più, soprattutto il senso delle infelicità nostre e di quelle degli altri. Il librodi Giobbe è dalla parte di chi ostinatamente cerca un senso vero per la delusione delle promesse grandi,la sventura degli innocenti, la morte delle figlie e dei figli, la sofferenza dei bambini.Dopo il primo dialogo con Elifaz, ora è il secondo degli amici a prendere la parola: «Bildad di Suachprese a dire: 'Fino a quando dirai queste cose e vento impetuoso saranno le parole délla tua bocca? Puòforse Dio sovvertire il diritto o l’Onnipotente sovvertire la giustizia? Se i tuoi figli hanno peccato controdi lui, li ha abbandonati in balia delle loro colpe'» (8,1-4). Bildad per non mettere in discussione lagiustizia di Dio è costretto a negare la rettitudine di Giobbe e dei suoi figli. Per la sua etica, astratta esenza umanità, se i figli (e Giobbe) sono stati puniti dovevano avere peccato. La sua idea di giustiziadivina e di ordine lo porta cosi a condannare e a tradire l’uomo. E invece sono molti i figli a morire senzanessuna colpa, ieri, oggi, sempre. Sulle Alpi francesi, in Kenya, sul Golgota. Ovunque. Non esiste nessunpeccato che per essere espiato richieda la morte di un figlio, a meno di voler negare ogni differenza traElohim e Baal, tra YHWH e gli idoli affamati.Il poema di Giobbe è un test sulla giustizia di Dio, non su quella di Giobbe (che ci viene rivelata già dalleprime righe del prologo). È Elohim che deve dimostrarci che è veramente giusto nonostante il doloredegli innocenti. Per rispondere al suo 'amico', due sono le strade che si aprono davanti a Giobbe. Laprima, che è sempre la più semplice, è ammettere che nel mondo non ci sia nessuna giustizia: Dio nonc’è o è troppo lontano per svolgere il mestiere di giudice giusto degli uomini. La seconda via è tentarel’impensabile per il suo tempo (e per i credenti di tutti i tempi): mettere in questione la giustizia di Dio,chiedergli ragione dei suoi atti. Giobbe nel rispondere a Bildad attraversa queste due possibilité estreme:«Benché innocente, non mi euro di me stesso, detesto la mia vita! Per questo io dico che è la stessa cosa:egli fa perire l’innocente e il reo! Se un flagello uccide all’improvviso, délia sciagura degli innocenti egliride. La terra è lasciata in balia del malfattore» (9,21-24). Non gli intéressa la sua vita (questa è puragratuità), ma la giustizia nel mondo; e cosi Giobbe osa il non-osabile, arrivando a negare la possibilitàdell’esistenza di qualsiasi giustizia divina. Qui Giobbe continua ad allargare l’orizzonte dell’umanoincluso nell’umanesimo biblico, prendendo sulla sua arca i tanti che continuano a chiedersi se un Diobuono e giusto ci puo essere in un mondo dal dolore e dal maie inspiegabili. Giobbe ci dice che unadomanda senza risposta puo essere più religiosa di risposte troppo semplici, e che anche un 'perché' puoessere preghiera. Dopo Giobbe non c’è sulla terra un rosario più vero di quello composto da tutti i'perché' disperati e senza risposta che si levano verso un cielo che continuano a volere abitato e amico.Giobbe continua a chiedere un fondamento della terra più profondo del caos e del nulla. Ma per cercare evolere un Dio vero al di là dell’apparente 'banalità del bene', Giobbe con la forza della sua fragilitàchiede a Dio di rispondere delle sue azioni, vuole un Dio responsabile.In realtà, ci sarebbe stata una strada più semplice: imboccare la scorciatoia consigliatagli dai suoi amici,ammettendo la sua colpevolezza. Ma Giobbe per una misteriosa fedeltà a se stesso e alla vita non seguequesta terza via. Giobbe avrebbe potuto riconoscere di essere peccatore (quale uomo giusto non ha la

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coscienza di esserlo?), implorare il perdono e la misericordia divina, e cosi salvare la giustizia di Dio esperare anche di guadagnare un proprio riscatto personale. Ma non lo fece, e continuo a chiedere ragioni,a dialogare, ad attendere un volto di Dio diverso. A credere nella propria rettitudine.Una difficoltà grande che si trova a vivere una persona giusta durante le lunghe ed estenuanti prove dellavita é non perdere la fede nella verità e giustizia. 'Non era vero che l’ho fatto per il bene...', 'Sono stato unsuperbo propria ...', 'In fondo sono un bluff...'. Ma quando le nostre colpe (che sempre ci sono) ci

suggeriscono una lettura della nostra vita che diventa via via lapiù convincente, perdiamo ogni aggancio con la veritá e ciperdiamo, anche se per una disperazione diversa e meno verachiediamo perdono e imploriamo la misericordia di Dio e deglialtri. Questo cedimento non é umiltà, ma solo l’ultima grandetentazione. Possiamo sperare di salvarci dalle prove simili aquelle di Giobbe finché la storia della nostra innocenza erettitudine ci convince di più della storia dei nostri peccati edella nostra cattiveria. É la fede-fedeltá in quella 'cosa moltobella e molto buona' (Gen 1,31), che nonostante tutto siamo erestiamo, che può salvarci nei momenti delle grandi e lungheprove. É a questa sua (e nostra dignità) che si aggrappa ancheGiobbe: «Ricordati che come argilla mi hai plasmato» (10,9).Una fede che include anche i figli, le persone che amiamo, eche un giorno potrà arrivare a includere ogni essere umano.Giobbe ha continuato a credere nella sua innocenza perché noi,meno giusti di lui, potessimo oggi continuare a credere nellanostra.Giobbe, poi, non può credere che i figli avessero meritato la

morte. Nessun figlio merita di morire. Sulla terra c’é molta verità e bellezza perché le madri e i padricontinuano a credere, a volte contro ogni evidenza, che i figli e le figlie non sono colpevoli. Tante volteci siamo salvati e continuiamo a salvarci solo perché almeno una persona ha continuato a credere che lanostra bellezza e bontà fossero più grandi dei nostri errori. Che luogo molto più triste sarebbe la terrasenza gli sguardi di resurrezione delle madri e dei padri? L’estrema fedeltà di Giobbe a se stesso lospinge poi all’atto più sovversivo. Non vuole negare la giustizia di Dio, ma non può negare neanche lasua propria verità. Cosi, dalla morsa nella quale sembra schiacciato, ecco emergere inattesa una terzapossibilità, impensata e impensabile. Giobbe chiama in giudizio Dio stesso. II suo letamaio si trasformain un’aula di tribunale.L’imputato é Elohim, i suoi avvocati gli amici di Giobbe, l’inquisitore é Giobbe: «lo sono stanco dellamia vita! Darò libero sfogo al mio lamento, parlerò nell’amarezza del mio cuore. Dirò a Dio: 'Noncondannarmi! Fammi sapere di che cosa mi accusi. É forse bene per te opprimermi, disprezzare l’operadelle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?'» (10,1-4).Ma - si chiede - come é possibile chiamare in giudizio Dio, denunciarlo, se l’imputato é anche il giudice?«Poiché non é uomo come me, al quale io possa replicare: 'Presentiamoci alla pari in giudizio'. Non c’éfra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi» (9,32-33). In realtà c’é un giudice-arbitro in tutto illibro di Giobbe: il lettore, che durante lo svolgimento del dramma é chiamato a prendere parte, aesprimersi per l’uno o per l’altro dei contendenti.Un lettore-arbitro contemporáneo di Giobbe lo avrebbe condannato, considerando la sua arringa un attodi superbia e di indolenza. La difesa di Giobbe é cresciuta con la storia, con i profeti, i vangeli, Paolo, imartiri, e poi la modernità, i lager, il terrorismo, l’eutanasia dei bambini.Giobbe é più contemporáneo a noi di quanto non lo fosse all’uomo del suo tempo, e lo sará ancora di piünei secoli che verranno. Con il 'processo a Dio' siamo allora dentro una autentica rivoluzione religiosa:anche Dio deve dar conto delle sue azioni se vuole essere il fondamento della nostra giustizia. Deve farsicapire, dire altre parole oltre alie tante che aveva giá detto. Se vuole essere all’altezza del Dio biblicodell’Alleanza e della Promessa, e affrancarsi dai culti idolatrici, stupidi come i loro feticci. II libro diGiobbe, allora, incastonato nel cuore della Bibbia, ci porta su un’alta vetta e da fi ci invita a guardaretutta la Torah, i profeti, e poi il Nuovo testamento, le donne e gli uomini di tutti i tempi. E rappresentauna prova della verità dei libri che lo precedono e di quelli che lo seguono.Un’altra volta fu celebrato un processo che aveva Dio come imputato. Le parti pero si ribaltarono.L’uomo era il forte, quasi onnipotente, che interroga e giudicava. Dio era fragile, condannato, crocifisso.

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Tra questi due processi estremi si inscrivono tutta la giustizia, l’ingiustizia, le speranze del mondo.Questo Giobbe non lo sapeva, non poteva saperlo. Ma sarà stato il primo a far festa per il sepolcro vuoto.Solo i crocifissi possono capire e desiderare le resurrezioni. Buona Pasqua.

Immagine - Georges de La Tour, «Giobbe schernito dalla moglie»

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/5IL FALSO AMORE DI CHI DIFENDE IL SIGNORE PER LODARE SÉAttenti ai ruffiani di Dio

Usciamo. Chiediamo che passi tutto lo star male.A chi chiediamo?Alla vigna che è tutta uno scoppio di foglie nuove al ramo dell’acacia con gli spiniall’edera e all’erba sorelle imperatrici che sono manto disteso e potentissimo trono.Mariangela Gualtieri, da 'Ai miei maestri immensi'

Ogni teologia non ideologica è prima di tutto umanesimo, parla a Dio bene dell'uomo prima di parlareall'uomo bene di Dio.Giobbe è immagine della esperienza della scoperta della nuda verità della vita, quando fiorisce unafraternità diversa e più vera anche con l'erba, il fringuello, la roccia, la stella. E quando si sa tornare aigrandi 'perché' chiesti a padre e madreAvvenire 12 aprile 2015

Sono molti gli economisti, i filosofi, gli intellettuali che costruiscono teorie per legittimare la miseria nelmondo, che ci viene raccontata come conseguenza della pigrizia dei poveri, e magari iscritta nei lorogeni. Giobbe e le sue grandi richieste di spiegazioni sono emarginate, non ascoltate, ridicolizzate, e chiprova a difendere la verità dei poveri e le loro ragioni si trova circondato da mille 'amici di Giobbe' chelo condannano e lo sbeffeggiano. I falsi amici di Giobbe non si sono estinti, e continuano con le loroideologie, a umiliare, a disprezzare, a condannare i poveri.L’accusa di Sofar, il terzo 'amico', è chiara e spietata: Giobbe è un falso innocente, un millantatore chenasconde sotto una cortina di parole i suoi peccati «Sofar di Naamat parlò a sua volta e disse: rimarràsenza risposta un tale sproloquio? Deve proprio aver ragione il ciarlatano?» (11,1-2). Giobbe risponde:«Che gente tanto importante siete. Con voi si estinguerà la sapienza! Ma anche io ho intelligenza e nonsono meno di voi» (12,1-3).Giobbe vuole risposte diverse e nuove da Dio, non gli servono quelle dei teologi consumatori disapienza: «Quello che voi sapete lo so anche io, e non sono meno di voi.Ma io voglio rivolgermi all’Onnipotente» (13,2-3). Vuole sentire la versione dei fatti direttamente daDio. Non vuole ascoltare i difensori per mestiere, vuole udire la voce dell’imputato.Sofar per celebrare l’infinita e insondabile sapienza di Dio, aggredisce, condanna e umilia l’uomoGiobbe. Giobbe, invece, resta dalla parte della terra, è totalmente solidale con l’umanità (con l’Adam, ilterrestre). Non loda Dio contro l’uomo, non è un ruffiano. E invece, ieri e oggi, sono legione i ruffiani diDio come Safar e gli altri amici che difendono Dio per lodare se stessi, senza amare veramente né Dio négli uomini. I tre amici per difendere Dio offendono l’uomo e negano l’evidenza (conoscevano Giobbe esapevano che era giusto). La loro è la teologia fredda dei teoremi, che loda Dio per lodare se stessa. Èideologia, e quindi idolatria. Ogni teologia non ideologica è invece prima di tutto umanesimo, parla a Diobene dell’uomo prima di parlare all’uomo bene di Dio. La verità, la bontà, la bellezza divine non possonoessere difese contro la verità, la bellezza e la bontà umane. E chi lo fa nega l’umano, la terra, Dio.L’esperienza concreta e incarnata di Giobbe giusto ingiustamente sventurato è il primo dato di realtà dacui doveva partire Sofar. E invece, come tutti i falsi profeti e i falsi sapienti, difende Dio che non ne habisogno per salvare se stesso e la propria 'verità' teologica. I dialoghi tra Giobbe e i suoi amici sono allorauna critica alle religiosità nemiche dell’uomo (e di Dio), alle ideologie, alle filosofie, alla religioneridotta a etica. Giobbe denuncia tutti i moralisti che non guardano il mondo a partire dal mucchio diletame, e diventano aggressivi, come Sofar. È impressionante, se si dà uno sguardo alla storia e alpresente, la smisurata schiera di teologi, filosofi, moralisti che hanno usato e usano (la loro idea di) Dioper costruire una piramide al solo scopo di potervisi collocare in cima, accanto o al di sopra di Dio (inquanto suoi architetti e costruttori). È Giobbe allora il vero teologo, colui che chiede a Dio di 'svegliarsi'per essere all’altezza della sofferenza del mondo.Dalla meditazione di questi capitoli posti nel cuore del libro di Giobbe, scopriamo allora che l’uomo dinome Giobbe è simbolo di tante realtà, e tutte decisive.Innanzitutto ci rivela alcune dimensioni essenziali del mistero della verità. La vittima, il povero, hannouna via privilegiata alla sapienza, possono accedere a una verità più vera. Quando si raggiunge lacondizione umana estrema, dove tutti i ponti dietro le spalle sono caduti e davanti non si intravvede più

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alcuna terra promessa, si può cercare solo la verità per la verità - e spesso la si trova, o, meglio, ci siritrova immersi in essa. È questa verità, forsesoltanto questa verità, che consente a chi la 'possiede' (o, meglio, a chi è da essa abitato) di non usarla a

proprio vantaggio, di non consumarla;come quando, scoperto un raro fiore dimontagna, invece di coglierlo perprofumare e abbellire la nostra casa, lolasciamo nel prato di tutti. È questa gratuitàche rende la verità, ogni verità, umile,casta, pura, preziosa. Agape.Giobbe è icona altissima anche della fedebiblica: una continua e incessante domandadi verità, che se vuole essere autentica, sevuole essere amore, deve essere gridatacon Giobbe, seduti sui mucchi di letamedella terra, senza cessare mai di sentirsifratelli e sorelle di tutti e tutto. Ma Giobbeè anche paradigma di chi ha ricevuto una

vocazione vera - religiosa, laica, artistica. Quando ci si incammina dietro una voce buona che chiama (dafuori e da dentro) arriva inevitabilmente la tappa di Giobbe: ci si ritrova seduti sulla spazzatura propria edella città, e nasce un bisogno assoluto di verità, sulla propria storia, su Dio, sulla vita, che non siaccontenta più delle piccole verità e delle risposte semplici. Avendo dato tutto, si può e si deve chiederetutto. E con Giobbe si capisce che le risposte alle proprie domande di verità non sono per sé, ma per tutti,e nasce un’amicizia con gli uomini, le donne, la natura che non è il frutto delle virtù, ma solo e tuttodono.È splendido, infine, il canto cosmico di Giobbe. Nella sua condizione di amante povero e disinteressatodella verità, Giobbe sperimenta nella sua carne ferita l’unità e la comunione con tutta la creazione.Include nel suo canto gli animali, la terra, le piante, la paglia; li capisce, li ama, li affratella: «Interroga lebestie e t’istruiranno, gli uccelli del cielo e t’informeranno, i rettili del suolo e ti ammaestreranno, te loracconteranno i pesci del mare» (12,7-9). Visto dal mucchio di letame tutto diventa vivo, tutto ci parla,tutto prega. Ma per vedere questa vita e questa preghiera più profonda dell’universo c’è bisogno di amarela verità per se stessa. Si arriva così, solo così, a scorgere una fraternità cosmica, e dal dolore del mondofiorisce una comunione con l’erba, il fringuello, la roccia, la stella, l’onagro, col vecchio che si spegne inun letto di ospedale. Si impara a vedere e a contemplare l’innocenza e la verità degli animali e di tutta lavita non-umana - solo gli uomini sanno essere falsi, adulatori e idolatri, non gli animali né le piante. Nelmondo vero di Giobbe c’è una verità più radicale del cosmo: rocce, acque, alberi, radici, fogliecompongono un unico canto della terra, che diventa parola nella gola sfiatata, ma vivissima di Giobbe.La fragilità della condizione umana effimera fa sentire Giobbe ancora più creatura. La morte dell’uomo èpiù disperata di quella dell’albero (che tagliato può sperare di tornare a germogliare e a innovare: 14,7), èsorella povera della morte del fiume e del lago che seccano per mancanza di acqua (14,11). Tutta lacreazione è vulnerabile e caduca (la montagna che frana, la roccia corrosa dall’acqua: 14,19-20); cometutto, come noi. Questa vulnerabilità cosmica, però, questa specie di dolore universale per le sofferenzeinspiegate di animali, piante, terra, dona a Giobbe una base più solida per il suo contraddittorio con Dio:diventa il portavoce estremo e vero della terra, e chiede a Dio che dia ragione di un mondo da lui creatodove c’è troppa sofferenza senza ragioni. Siamo di fronte a una mirabile reciprocità tra Giobbe e lanatura: la terra gli offre altra evidenza e più forza per il suo processo con Dio, e Giobbe dà voce allanatura, chiedendo all’Eterno spiegazioni anche per conto delle rocce, degli animali, degli alberi. È forte,se sappiamo ascoltarla, la domanda di giustizia e di verità che si innalza ogni giorno dalle piante, daglianimali, dagli uomini.La presenza di Giobbe o di qualcuno che indossa bene la sua maschera nel dramma della vita, èimprescindibile per ogni persona comunità, società, popolo che non voglia cadere nelle ideologie equindi nei regimi, che sono sempre costruiti sulla base di ragionamenti del tipo di quelli degli 'amici diGiobbe', che usano grandi ideali e Dio stesso per opprimere i poveri e giustificare tali oppressioni. Sono,invece, fratelli veri di Giobbe quei (rari) poeti e artisti che, per vocazione e carisma, non hanno paura dispingere fino in fondo le loro domande sulla verità della vita, senza arrestarsi di fronte alla quasiinvincibile tentazione di cercare e trovare consolazioni diverse dalla consolazione della verità. Se nella

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vita non si incontra mai Giobbe o un poeta amante come lui della nuda verità (Leopardi ad esempio), nonsi riesce a liberarsi dalle ideologie, e ci si asservisce a qualche idolo dalle risposte semplici alle nostredomande semplicissime.Stiamo vivendo una profonda indigenza di domande grandi. Ci stiamo abituando velocemente ai dialoghidei talk show, e così abbiamo dimenticato che siamo diventati grandi chiedendo mille 'perché' ai nostrigenitori, e che diventiamo bene adulti e vecchi se siamo capaci di tornare ai grandi 'perché' dei bambini.Dio tornerà a parlarci quando, con e come Giobbe, sapremo interrogarlo con nuove domande capaci di'svegliarlo'.

Immagine - Giobbe riconosce i suoi errori, illustrazione di scuola tedesca, coll. privata ( Alinari)

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/6GIUSTIZIA QUANDO NON SI 'COPRE' LA SOFFERENZA DEI GIUSTILa memoria viva della terra

Sfinito dal dolore, dalle non risposte, dai discorsi accademici degli amici, Giobbe alzaun nuovo grido a Dio: fammi tu da garante, alza la tua mano per me. Ci dimostra cosìche il Dio biblico è un Dio diverso dal Dio dei filosofi, che non ha nulla da impararedalla storia ed è quasi sempre inutile alla vita dei poveri. E chiede, Giobbe, in unasplendida preghiera, che la terra non assorba il suo sangue, che il suo grido innocente

non abbia mai fineLaudato si’, mi Signore, per sora nostra madre terra. Laudato si’ mi Signore per sora nostra mortecorporale San Francesco, Il cantico delle creatureAvvenire 19 aprile 2015

La colpa e il debito sono grandi temi della vita di tutti. In tedesco sono quasi la stessa parola:schuld e schuldig. Nasciamo innocenti, e possiamo restarci tutta la vita. Come Giobbe. La morte di ognibambino è morte innocente, ma anche molte morti di vecchi sono altrettanto innocenti. E Dio,diversamente dagli idoli, deve essere il primo ad 'alzare la sua mano' in nostra difesa, a credere nellanostra innocenza contro tutte le accuse dei nostri amici, delle politiche , delle religioni, delle teologie. Leprigioni continuano ad essere piene di schiavi accusati di debiti inesistenti, e i carcerieri ad arricchirsitrafficando con le loro vittime innocenti anelanti liberazioni.Dopo il primo ciclo di dialoghi tra Giobbe e i suoi tre 'amici', entriamo ora in un nuovo atto del libro,quando ciascun amico a turno riprende la parola per ripetere, esasperandole, le proprie critiche, accuse,teorie, prediche. E Giobbe, al centro della scena sul mucchio di letame, continua a fare domande piùgrandi, ad attendere risposte diverse. La sua pazienza non la esercita verso Dio (nei cui confronti èradicalmente impaziente) ma verso i suoi 'amici'. Dopo aver assistito alle risposte di Giobbe, ancheElifaz, l’amico che aveva preso per primo la parola (cap. 4), diventa aggressivo e attacca: «Con sproloquidi vento, con ventre gonfio di vento di levante, ammucchiando parole vuote, blaterando.Parla così un saggio?» (15,1-3). Esplicita la sua accusa: «Tu distruggi il timor di Dio, tu annulli lapreghiera» (15,4). E aggiunge: «Può mai essere puro un uomo? Può essere giusto chi è nato da donna?»(15,14). Giobbe risponde: «Quante cose ho sentito come queste, mi stomacate consolatori.Parole di vento, e basta» (16,1). E ribadisce il suo capo d’accusa: «Ero felice e mi hai fracassato, mi hapreso per il collo e mi ha hai spaccato in due» (16,12).In questa nuova variante del tema dominante del canto disperato di Giobbe – io sono innocente, è Dioche deve spiegare che cosa sta facendo con me e con tutta la ingiusta sofferenza della terra – troviamoincastonate delle perle preziosissime. Giobbe, non pago ed esasperato dalle risposte banali finora ottenutedagli amici sul silenzio di Dio, continua a chiedere un arbitro e giudice neutrale che possa provare la suainnocenza e quindi emanare la sentenza giusta: «Se c’è nelle altezze di Dio il mio testimone, e nellealtezze il mio difensore… giudichi lui tra un uomo e Dio, come si giudica tra due pari» (16,19-21). Ecosì, dopo aver fatto ricorso al linguaggio del diritto processuale, ora Giobbe passa al registrocommerciale. Invoca la figura del mallevatore, chiede a Dio di fargli una fideiussione: «Designami ungarante presso te stesso, chi, altrimenti, sarà il mio mallevatore?» (17,3). Il mallevatore era colui che conla propria reputazione o patrimonio garantiva un debitore di fronte al suo creditore, associandosi alla suaresponsabilità in caso di insolvenza – un istituto simile alla nostra fideiussione. Il mallevadore siimpegnava in solido col debitore, garantendo per lui, con un’alzata di mano ( manum levare: mallevare).È allora molto forte e tremenda questa preghiera di Giobbe – il libro di Giobbe offre molte preghierediverse e splendide, soprattutto per coloro che hanno esaurito le proprie e ne cercano altre più vere.Sfinito dal dolore, dalle non risposte, dai discorsi accademici degli amici, Giobbe alza un nuovo grido aDio: fammi tu da garante, alza la tua mano per me! Ma come è possibile che Dio, il creditore, possaessere anche il garante per il debitore (Giobbe)?Ci troviamo qui di fronte ad un altro passaggio stupendo. Con i suoi occhi appannati ma che avevanoguadagnato una vista diversa, Giobbe prova a intravvedere dentro il Dio di tutti un Dio più nascosto, piùprofondo e vero di quello che aveva imparato da giovane. Ci deve essere un volto di Elohim che sta dallaparte del povero ingiustamente oppresso, disposto ad alzare la mano per lui.Giobbe sta chiamando Elohim a diventare ciò che non sembra ancora. Se il Dio biblico è chiamatogiusto, buono, lento all’ira, misericordioso, è allora possibile rivolgersi a un volto di Dio senza negare gli

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altri. E cercare un nuovo volto – «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Salmo 27). Ogni preghiera, se non èmagia né frutto della paura di Dio o del vivere, è chiamare qualcuno per nome, chiedergli di diventarequalcosa che non è ancora – e noi con lui. Giobbe è accusato di insolvenza, e stato messo sul lastrico da

debiti inesistenti imputati a lui. Nel mondoantico (e ancora oggi) per debiti non pagatisi diventava schiavi, e non raramente simoriva in prigione. Dal fondo del suocarcere, Giobbe grida verso il cielo: Tu sai– almeno un lembo di te deve sapere – chel’accusa che mi ha condotto qui non èvera, che i miei debiti sono solo falseaccuse. Lo dimostrerò, anzi tu dirai a tuttile ragioni vere della mia bancarotta; maora, nell’abbandono, ti prego: fammi tu dagarante. Alza la tua mano per me. Almenotu – volto diverso dell’unico Dio – dammifiducia!È forte questa richiesta estrema di fiducia,

che molti giusti elevano ogni giorno. Il mondo, fuori e dentro le carceri, è pieno di innocenti che ripetonola preghiera di Giobbe: se sono giusto – e io so di esserlo, e non voglio smettere di credermi innocenteperché lo sono – ci deve essere, sulla terra o in cielo, qualcuno che mi crederà, qualcuno che mi daràcredito! Troppe volte questo mallevatore delle vittime giuste non c’è, o non si trova, non risponde.Giobbe grida, continua a gridare, anche per chi il garante non lo ha mai trovato. Mentre sfinito si trovanel fondo del pozzo dell’umiliazione estrema, Giobbe risente dentro quella antica voce: «Eppure non c’èviolenza nelle mie mani, ed è sincera la mia preghiera» (16,17). Se Giobbe avesse ceduto alle richiestedegli amici e ammesso la sua colpevolezza, non avrebbe consentito a Dio di poter diventare il garante diultima istanza dei poveri e delle vittime. La fede di Giobbe in un Dio diverso e più umano ha costrettoDio, attraverso tutti i libri della Bibbia e lungo la storia, a mostrare un suo volto diverso e nuovo. Giobbenon sta, allora, allargando soltanto l’orizzonte dell’umano buono amico di Dio: ha allargato anchel’orizzonte di Dio con gli uomini. Se è vero che l’uomo nel rapporto con il Dio biblico ha imparato adiventare più uomo, è anche vero, paradossalmente, che nel rapporto con gli uomini il Dio biblico ha'imparato' a mostrarsi all’altezza delle sue promesse più alte. Il Dio dei filosofi non ha nulla da impararedalla storia, ed è quasi sempre inutile alla vita dei poveri. Il Dio biblico è un Dio diverso. Chiediamolo aGiobbe, o a Maria, che ha visto un bambino diventare uomo, un crocifisso risorgere.Ma le perle di questi capitoli non finiscono qui. Mentre invoca quella garanzia estrema, Giobbe senteormai la morte molto prossima: «Ho il volto arrossato di pianto, e l’ombra mi vela le palpebre» (16,16).Dalla sua anima fiorisce una preghiera nuova, tra le più belle di tutta la Scrittura. Una frase, una frecciatadi luce racchiusa in un solo versetto: «Il Rabbino che mi insegnava l’ebraico non riusciva per l’emozionea leggere questo versetto» (Guido Ceronetti, Il libro di Giobbe). Alcuni versi della Bibbia si possonocapire solo non riuscendoli a pronunciare per il dolore: «Terra il mio sangue non ricoprire, il mio gridonon abbia mai fine» (16,18). Nel momento in cui Giobbe sente certa la sconfitta e la morte, abbassa gliocchi, guarda la terra e la chiama per nome. Schiacciato e fracassato, impara a pregare la terra. Questapreghiera – che è l’opposto dei culti fuori stagione alla dea madre – è il canto del terrestre, dell’adam chegettato col muso sulla polvere riesce a parlare alla terra ( adamah), a vederla e sentirla diversamente,come un’amica leale. E chiama sorelle le marmegge e fratelli i vermi che si nutriranno del suo corpo,abitanti, come lui, della stessa terra. Ci vogliono le stimmate per sentire e chiamare veramente sorelle laterra e la morte.La terra ha ascoltato la preghiera di Giobbe. Non ha ricoperto il sangue di molti giusti, e continua aconservare la memoria del grido di Giobbe e dei suoi fratelli. Ogni persona, ogni comunità, ogni culturaha i suoi luoghi che continuano il grido di Giobbe e degli innocenti. Le steli, i monumenti, la stanza delfiglio, molta poesia e arte che custodiscono le grida dell’anima – anche se troppo sangue spirituale vienedisperso, ricoperto e assorbito dalla terra, per mancanza di poeti e di artisti, o perché troppo segreto egrande per essere visto da qualcuno. Questi luoghi li conosciamo e li riconosciamo, e ringraziamo la terrae i suoi abitanti per non averli ricoperti, per aver consentito al canto-grido di Giobbe di non spegnersinella gola del mondo. Alla terra va chiesto, va supplicato, di non ricoprire il sangue dei giusti, perché lavita vorrebbe e dovrebbe ricoprirlo. L’amore umano chiede alla terra di dimenticare, seppellendolo, il

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grande dolore – e Giobbe lo dissotterra per un amore più vero. La terra non assorbì il sangue di Abele,quando un fratello 'alzò la mano' non per custodire, ma per uccidere, e l’odore di quel giusto giunse finoa Dio (Genesi, cap. 4). Giobbe, un altro giusto, chiede alla terra di non assorbire il suo sangue, perchévuole che il suo odore giunga fino a noi. Il suo grido vivo ci chiede di diventare garanti, responsabili esolidali con le tante vittime innocenti. Sapremo alzare la nostra mano per salvarle?

Immagini - Maerten van Heemskerck, «Il trionfo di Giobbe», 1559

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/7IL RISCATTATORE DEL POVERO SERVE IL FRATELLO E IL DIO DEI VIVILa parola che vince la morte

L’ultimo mio anelito sarà per te, nel tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita. Sonosereno e innocente.Del motivo che muoio vai a testa alta e dì pure che il tuo bambino non ha tremato e cheè morto per la libertà e ora perdono a tutti, ciao mamma, papà, Stefano, Alberto, ciao atutti, tutto è pronto sono sereno. Addio mamma, mamma, mamma, mamma...«Lettere dei

condannati a morte della resistenza», Domenico, 29 anniRimasto solo al mondo, Giobbe aveva pregato la terra (16,18), e ora prega gli amici. Spera nel suo«goel», qui e ora La Bibbia è un umanesimo, che ci invita a cercare di rispondere alle donne e agliuomini quando le risposte di YHWH non ci sono perché lui le mette nelle nostre maniAvvenire 26 aprile 2015

Sono molte le fedi rinate da fraternità solidali capaci di accompagnare fino al fondo del suo buio l’uomoche grida verso un cielo che gli appare vuoto o ostile. Ma attorno ai disperati seduti sui mucchi di letamedel mondo, non sono meno frequenti le chiacchiere e le persecuzioni di 'amici' non solidali, che nonvedono la verità che spesso si nasconde dentro i silenzi della fede e i ’litigi’ con Dio, e vogliono riempireil cielo vuoto degli altri con le loro parole vuote. E così continua a riecheggiare sulla nostra terra illamento di Giobbe: «Perché mi perseguitate con le vostre chiacchiere?» (Giobbe 19, 2).Anche nel suo secondo dialogo-accusa, Bildad di Shukh ribadisce, con maggiore aggressività, le sue tesiperfette come tutti i teoremi senza carne e sangue. Tu, Giobbe, non puoi cambiare l’ordine del mondo. Ilgiusto vive ed è premiato, il malvagio perisce e soffre: «Forse per causa tua la terra si spopolerà, o larupe si sposterà dal suo posto?» (18, 4-6). Gli descrive nei dettagli la sorte dell’empio e del peccatore,che coincide perfettamente con la situazione in cui si trova Giobbe. Con una sola, radicale, differenza:Giobbe è un giusto.Equindi ritorna, con sempre maggiore forza e convinzione, la grande, pazzesca e mirabile ipotesi diGiobbe: «Ebbene, sappiate che è stato Dio a schiacciarmi, catturandomi nella sua rete» (19,6). AncheGiobbe, come Bildad, crede nell’ordine divino del mondo, e per evitare l’ateismo prende Dio talmentesul serio da addebitargli la sua sventura. E urla, in cerca di aiuto: «Ecco, grido: 'Violenza!', ma non horisposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia!» (19,7). «Violenza» ( hamas) era un grido, un urlo, con unaspecifica valenza giuridica. Quando una persona in estrema difficoltà gridava «giustizia!», creava neglialtri un obbligo di soccorso - qualcosa di simile alla nave che lancia un Sos che obbliga chi lo intercettaad intervenire in suo aiuto. Ma Dio continua a tacere anche di fronte al Sos estremo di Giobbe, perché èlui stesso l’autore della violenza. Dio - per Giobbe - ha udito il grido e non fa nulla.Diversamente da molte lamentazioni dentro e fuori la Bibbia, il Dio di Giobbe non è sordo, ma suonemico: «Ha acceso contro di me la sua ira e mi considera come suo nemico» (19,11). A chi gridareallora? Resta la speranza negli amici: «Pietà, pietà di me amici miei, perché mi ha ferito la mano di Dio»(19,21). Rimasto solo al mondo, Giobbe aveva pregato la terra (16,18), e ora prega gli amici. La sua èuna preghiera tutta terreste, che sotto un cielo chiuso ostile, diventa un ultimo appello alla solidarietàdegli uomini. Una preghiera che assomiglia a quella che il condannato rivolge ai suoi carcerieri,ricordando loro la comune condizione umana. L’appello alla fraternità come ultima risorsa.Molte solidarietà umane sono nate e rinascono da preghiere orizzontali, da grida disperate di aiutoraccolte da altri compagni, quando il cielo sembrava chiuso, o quando gli 'avvocati' di Dio erano riusciti aconvincerci che le loro risposte scontate e accademiche fossero veramente quelle di Elohim. Anchequando sembra l’unico, il grido verso l’altro uomo è quasi sempre un grido secondo, che viene lanciatodal povero quando il primo grido verso l’alto resta senza risposta. Queste fraternità che nascono dal saperraccogliere le urla di dolore non possono essere nemiche di Dio, anche quando non sanno pronunciare ilsuo nome e non riconoscono la sua voce. Il nemico della preghiera non è l’altro uomo solidale, ma ilnarcisismo di chi parla solo con se stesso, con gli idoli, con le merci. Anche una preghiera in cerca di unamico può essere alta preghiera, e la solidarietà umana che nasce dal silenzio di Dio può essere più vera espirituale delle preghiere al dio banale dei ruffiani di Dio e quindi nemici di Giobbe.Anche l’urlo di pietà umana di Giobbe resta senza risposta. Anche gli amici tacciono. Ma la sua ricercaestrema di giustizia continua, spalancandoci un altro cielo: «Magari si scrivessero le mie parole, magari

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si incidessero su rame» (19,23). Giobbe desidera che le sue parole siano incise «con scalpello di ferro econ piombo» (19,24), che vengano scolpite nella roccia, che non muoiano con lui.Vuole lasciare il suo testamento, come ultimo messaggio c’è un immenso amore per l’umanità in tutto il

suo dramma. La Bibbia è stata questa roccia. Sta anche qui ilmistero della parola: mentre Giobbe pronunciava quel suogrido – «Magari si scrivessero le mie parole» – le sue parolesi stavano realmente scrivendo, perché noi potessimoraccoglierle. Ci si svela allora una chiave di lettura profondadi tutto il libro di Giobbe: gli amici capaci di pietas ai qualiGiobbe implora solidarietà siamo noi, i lettori destinatari delsuo canto, che possiamo raccogliere oggi il suo Sos erispondere. Ogni grido inascoltato custodito nella Bibbia –compreso il grande grido del Golgota – è rivolto a noi. LaBibbia non è soltanto una grande raccolta di salmi, di veritàdivine, di preghiere, e non è neanche soltanto un racconto diDio agli uomini. Prima di tutto questo la Bibbia è un granderacconto dell’uomo all’uomo sotto un cielo abitato.La Bibbia è un umanesimo, che ci invita a cercare dirispondere alle donne e agli uomini quando le risposte diYHWH non ci sono. Tutta la Scrittura è un Sos lanciato allanostra umanità, una chiamata a diventare veramente umani, a

raccogliere il grido di giustizia dell’uomo di nome Giobbe e di tutti i suoi fratelli e sorelle che continuanoa gridare nella storia, che hanno arricchito il suo primo canto e che invocano la nostra pietà.All’umanesimo biblico non bastano le risposte di Dio, che spesso tace per far spazio alla nostraresponsabilità. Se Elohim non avesse taciuto per quasi tutto il libro, non avremmo avuto le grandidomande di Giobbe, e il suo grido anelante giustizia non avrebbe abbracciato e raggiunto tutta ladisperazione della terra, salvandola. Dio deve saper tacere se vuole uomini responsabili e capaci didomande non banali.Ma la Bibbia non è l’unico scrigno custode dei messaggi ultimi dell’umano vero. Molta letteratura è natae continua a nascere come testamento – forse tutta la grande letteratura nasce così. Molte parole ultime, emolte grida verso il cielo e verso gli uomini, sono state scritte in cerca di fraternità dentro i fratricidi.Molte di queste parole sono andate perdute, ma molte altre le abbiamo saputo raccogliere e custodire. Ilager, le carceri, le morti nelle solitudini, sono stati mucchi di letame capaci di generare anchemeravigliosi fiori. Migliaia di poesie, diari, lettere dal fronte, musica, canzoni, arte, persino le lapidi,hanno continuato il grido mendicante di Giobbe. Quando un condannato a morte affida il suo messaggioultimo alla carta perché possa raggiungere qualcuno, la sua speranza vive.Allora anche una lettera o una poesia possono fissare per sempre quell’ultimo momento di speranza.Rendono la speranza eterna e non la fanno morire - la morte può essere sconfitta anche dalla nostraparola.Al culmine di queste preghiere-urlo di Giobbe, ecco allora fiorire, inatteso e stupendo, un autentico cantodi speranza: «Io so che il mio riscattatore [ goel] è vivo e che alla fine si alzerà sopra la polvere!»(19,25). Una speranza che arriva come un arcobaleno mentre ancora infuria la tempesta. Le speranze verearrivano sempre così: non sono frutto delle nostre virtù né del merito, ma tutto e solo grazia,charis, dono. E quindi ci sorprendono sempre, lasciandoci senza fiato – e se non ci sorprendono e civengono preannunciate, sono speranze piccole o vane. Chi è il riscattatore, il goel, che Giobbe desidera,anela e chiama dal fondo della sua speranza disperata? Non lo sappiamo. Ma forse è un altro Dio, un Diopiù vero di quello che sente come nemico. È la speranza dentro la disperazione che fa risorgere la fede,perché la chiama a trascendersi, a diventare ciò che ancora non è. E sperando nel goel, il riscattatore delpovero innocente, lo vede già avvicinarsi sulla linea dell’orizzonte.Nelle notti della fede, di ogni fede, si ricomincia sempre dalla speranza, reimparando a sperare, ereimparandolo molte volte (la speranza-dono come un arcobaleno arriva splendente, e come unarcobaleno svanisce).Non sappiamo in quale goelGiobbe spera. Ma sappiamo che a Giobbe non basta il riscatto in paradiso,anche perché non lo conosce. Il Dio di questi libri biblici è il Dio dei vivi, non dei morti. Non può esserevero un Umanesimo biblico che rimandi tutto il riscatto delle vittime innocenti all’eschaton, oall’oltretomba. Il goel in cui spera Giobbe deve arrivare e alzarsi sulla polvere della nostra condizione

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umana di viventi. La terra promessa è la nostra terra. Ogni promessa di riscatto delle vittime che nondiventa impegno concreto a liberarle qui ed ora, finisce per essere disumanesimo e speranza ingannatrice.Giobbe vuole vedere il suo goel giungere nella polvere del suo letamaio, vederlo con i suoi stessi occhi:«Io lo vedrò, io in persona, e non da estraneo, i miei occhi lo vedranno» (19,27). Il goel non è un idolo sesa arrivare fino alla polvere delle vittime, se lo incrociamo sotto casa, se lo intravvediamo in donne euomini della nostra città capaci di ascoltare l’urlo di Giobbe, e rispondere. Troppi poveri non hanno maivisto arrivare il goel sui loro mucchi di letame, e attendono. E Giobbe continua a chiamare la terra, gliuomini, Elohim. Per loro. Per noi.

Immagine - «Giobbe in preghiera» di Marc Chagall

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/8LA VERITÀ DELLA VITA STA NELLE DOMANDE GIOVANI E POVERELa rivoluzione dell’ascolto… E non aspetto nessuno: / fra quattro mura / stupefatte di spazio / più che un deserto / non aspetto

nessuno: / ma deve venire; / verrà, se resisto, / a sbocciare non visto, / verràd’improvviso, / quando meno l’avverto: / verrà quasi perdono / di quanto fa morire, /verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, /verrà, forse già viene il suo bisbiglio. Clemente Rebora, Canti AnonimiSiamo noi i sentenziosi “amici di Giobbe” e, avanzando nella lettura, intuiamo di non

possedere le categorie culturali essenziali per capire la stupefacente radicalità di proposta di questogrande libro della Bibbia Siamo sfidati a uscire dagli schemi in cui rinchiudiamo teologia e religione

Avvenire 3 maggio 2015

Nelle persone, nelle comunità, nelle civiltà, nelle fedi, esiste un ciclo che alterna fede e ideologia,religione e idolatria. All’inizio del cammino si è sedotti da una voce che ci chiama: si crede, si parte. Ma

dopo aver percorso un certo tratto di strada, a volte molto lungo,ci si ritrova quasi sempre dentro una ideologia, se non unaidolatria. È un esito molto probabile, forse inevitabile, perchél’ideologia e l’idolatria sono prodotti naturali delle fedi e dellereligioni. La lettura onesta e nuda del libro di Giobbe – non acaso posto al centro di una Bibbia che ha nell’idolatria il suoprincipale nemico – è una potente cura di queste gravi malattiedelle religioni, perché costringe ad abbandonare le risposte cheabbiamo maturato e conquistato a fatica per buona parte di vita,per tornare, umili e veri, alle prime domande della giovinezza.Stiamo arrivando nel centro del libro di Giobbe, nel mezzo delsuo guado notturno (21 capitoli su 42). Avanzando nella letturaci rendiamo sempre più conto che non possediamo le categorieculturali essenziali per capire veramente la proposta radicale e

stupefacente dell’autore di questo grande libro. Rischiamo di banalizzare i dialoghi tra Giobbe e i suoi'amici', perché troppo ampio ci appare il divario tra la grandezza delle parole di Giobbe e quelle dei suoiinterlocutori. Ci sfugge, così, che le posizioni degli 'amici' erano espressione della teologia migliore delloro tempo, come sapevano molto bene l’autore del libro e i suoi primi lettori-ascoltatori. Diversamenteda quanto accade oggi alla maggior parte di noi, il primo processo di identificazione che avveniva in chiascoltava il poema di Giobbe era con le teologie degli amici, non con la vittima. L’eretico era l’uomo sulletame. Il grande e rivoluzionario scopo del libro era allora condurre gli ascoltatori ad abbandonare, oalmeno provare a mettere profondamente in crisi, la loro teologia e la loro religione, e iniziare acamminare verso una nuova idea di Dio e di giustizia.Per noi, i lettori di oggi, che conosciamo l’intera Bibbia e magari la leggiamo dalla prospettiva deiVangeli, di Paolo, dell’Umanesimo e della Modernità, è quasi impossibile non perdere la tensionedrammatica del racconto. Per entrare nel cuore di questo libro – ed è giunto il momento di farlo –dovremmo almeno tentare una operazione difficile e decisiva: non identificarci troppo velocemente conGiobbe senza aver prima sentito sulla nostra carne l’insufficienza delle nostre risposte alle domande cheoggi ci giungono dai Giobbe che abitano le periferie della nostra storia. A Giobbe si deve approdare dopoaver capito che le nostre risposte sono radicalmente inadeguate che continuano a 'tormentare' le vittimedel nostro tempo. Non possiamo capire le domande di Giobbe senza attraversare la povertà delle nostrerisposte. Gli amici di Giobbe siamo noi. Qui e oggi. E Giobbe è sempre lontano e dimenticato sui mucchidi letame che continuiamo a produrre. Giunti alla metà del libro, la tesi dei tre interlocutori di Giobbediventa sempre più essenziale e sintetica. Sofar gli dice: «Non sai che è così da sempre, da quando poserol’uomo sulla terra, che il giubilo dei malvagi è effimero, e il gaudio dell’empio dura un attimo?» (Giobbe20,4-5). Gli viene ricordata la sola spiegazione possibile della sua condizione di sventurato: la logicaretributiva. Se sei caduto in disgrazia devi essere colpevole, devi essere malvagio. Giobbe non ha maiceduto a questa spiegazione, perché contraria alla sua verità di giusto e di sventurato.

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Nel cuore del suo dialogo con Dio e con gli uomini, Giobbe prende di petto questa teologia 'economica'del suo tempo. Per smontarla chiede aiuto alla storia, ai 'viaggiatori' della terra che conoscono veramentela vita e gli uomini. Prima però invoca l’ascolto: «Ascoltate bene la mia parola e sia questo almeno ilconforto che mi date».(Giobbe 21,2). Sa di essere vicino al culmine del suo processo a Dio e alla religione, e per questo chiedeai suoi interlocutori di mettersi la «mano sulla bocca» (21,5), per prepararsi allo stupore e allo scandaloche le sue parole estreme provocheranno in loro – non è da escludere che il redattore di questi capitolicentrali abbia emendato e censurato alcune parti del libro, dove più estreme e scandalose dovevanoessere le domande di Giobbe. Ma Sofar, Elifaz e Bildad non furono capaci di ascoltarlo, continuando anon tacere, a parlare, ad accusare. L’ascolto vero e profondo è amore, agape, richiede benevolenza,fiducia, amicizia, ingredienti assenti nei tre 'amici'. Giobbe lo sa, ma chiede ugualmente ascolto perché isuoi veri ascoltatori siamo noi. Siamo noi gli invitati a tacere, ad ascoltare, a metterci la mano sullabocca. Il primo segnale che la fede è già ideologia è il non essere più capaci di tacere di fronte al doloredel mondo.E così, dopo aver chiamato in causa la terra, e dopo aver desiderato di affidare il suo grido infinito allapietas delle future generazioni incidendolo sulla roccia, per confutare i suoi 'amici' chiama in causal’evidenza storica, la vita della gente reale non quella immaginata da chi ragiona su Dio senza conosceree ascoltare gli uomini: «Perché non avete chiesto a chi ha viaggiato e non avete considerato attentamentele loro prove?» (21,29). È sulla terra di tutti che Giobbe trova le prove per mostrare che le teologie delsuo tempo sono false: «Perché i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e piùricchi?... Le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro. Il loro toromonta senza mai fallire, la loro vacca figlia senza abortire... Finiscono nel benessere i loro giorni escendono tranquilli nel regno dei morti». (21,7-13). È la vita vera la base della non verità dei teoremi deisuoi amici. Occorre conoscerla, vederla, e imparare una religione e una teologia più vere. Ieri, oggi,sempre. È fin troppo semplice essere dalla parte di Giobbe e dimostrare, con la sua evidenza e con lanostra, che il mondo non risponde alla troppo semplice logica retributiva. Sono troppi i malvagi cheaccumulano molte ricchezze inique e poi le lasciano ai loro figli, e sono ancora di più i giusti impoveritidalla sventura. Ma siamo sicuri che Giobbe abbia ragione? È vero che non c’è nessun nesso tra la nostracondotta etica e la felicità nostra e quella dei nostri figli? Non è questo il piano sul quale Giobbe vuolecondurre il suo dialogo con noi. Lui sa che se interroghiamo veramente i viaggiatori e gli osservatori delmondo questi ci raccontano di malvagi felici, di malvagi infelici, di giusti felici, di giusti infelici. AGiobbe non interessa sostenere la tesi opposta a quella dei suoi 'amici', perché sa che è altrettanto fragile.La sua argomentazione è diversa e molto più interessante: punire i malvagi e ricompensare i giusti suquesta terra non può essere il 'mestiere' di Dio. Sarebbe un dio troppo banale, sarebbe solo un idolo,perché costruito a nostra immagine e somiglianza.Il mondo non è lasciato al caso, la Provvidenza deve essere all’opera, Giobbe non lo nega; ma ci invita acercare registri diversi da quelli della teologia del suo tempo (e del nostro). Giobbe cerca un altro Dio, elo cerca anche per difenderlo dalla verità della storia. Giobbe ci ricorda allora che chi crede in Dio e loama non deve raccontare teologie che non reggono di fronte all’evidenza storica. Eppure sono molti,troppi, i nostri racconti su Dio che non fanno altro che associarlo alla nostra banalità, che vengononecessariamente smentiti dalla verità delle domande di Giobbe e dei racconti dei viaggiatori. Giobbechiede solo più silenzio, più mani sulla bocca, per lasciarsi stupire dalla verità che accade nella storia chenon può essere contro la verità di Dio. Il suo è un appello a una religione che sappia dar conto delle gioiee dei dolori veri della gente reale. Il resto è solo vanità e falsa consolazione: «E voi vorreste consolarmicon argomenti vani! Nelle vostre risposte non c’è altro che inganno» (21,34). Saper tacere e trattenere ingola le nostre risposte certe per ascoltare le grida dei Giobbe del proprio tempo è stato importante in ogniepoca, ma è stato ed è essenziale nei grandi momenti di passaggio, quando le risposte ufficiali dellereligioni, delle culture e delle filosofie non bastano più per rispondere alle domande più difficili dei giustie delle vittime innocenti, quando le spiegazioni convenzionali del dolore, della morte, della fede, nonappagano più Giobbe. È soprattutto in questi momenti che occorre mettersi all’ascolto profondodell’uomo di Uz, e lasciarsi convertire. Perché se non lo facciamo le religioni restano bloccate dentro leideologie, gli idoli prendono il posto della fede.Anche oggi Giobbe non capisce più le nostre risposte, non lo consolano, lo tormentano. E ci invitaalmeno a tacere, ad ascoltarlo. Ci sono troppe grida anelanti un Dio diverso che si alzano verso il cielo,che vengono ammutite dalla nostre risposte troppo semplici, poco solidali, lontane dalla gente, che nonsanno ascoltare i viaggiatori del nostro tempo. La Bibbia fu capace di ascoltare l’urlo scandaloso e

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scomodo di Giobbe, lo incise per sempre sulla sua roccia, e così gli diede la dignità più grande. Saremonoi capaci oggi di fare altrettanto con le grida e le domande che mandano in crisi le nostre teologie?Sapremo riscrivere nuovi poemi ascoltando la voce delle nostre vittime? O continueremo a indossare neldramma del vivere le maschere degli amici di Giobbe? Le nuove primavere delle religioni e delle civiltàcominciano quando, gli amici di Giobbe, imparano a tacere, abbandonano le vecchie e inadeguatecertezze, e si mettono ad ascoltare le grida delle vittime, dei lontani, dei poveri, seduti sugli stessi mucchidi letame.Immagine - Georges de La Tour, «Giobbe e la moglie»

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/9LO SGUARDO DEI POVERI, OLTRE LA NOTTE DELL'UOMO E DI DIOIl veleno della falsa misericordiaSono un uomo ferito. / E me ne vorrei andare / E finalmente giungere, / Pietà, dove si ascolta / L’uomo

che è solo con sé. / […] Una traccia mostraci di giustizia. / La tua legge qual è? /Fulmina le mie povere emozioni, / liberami dall’inquietudine. / Sono stanco di urlaresenza voce - Giuseppe Ungaretti, La pietà

Quando una persona, una comunità, una organizzazione, una corrente di pensiero vienecatturata dall'ideologia, arriva non solo a negare l'evidenza, ma, quasi sempre, a inventare fatti, storie,parole. Se è vero che non c'è giustizia senza misericordia, Giobbe ci dice che non può essere veraneanche una misericordia senza giustizia Ogni dono strumentalizzato diventa velenoAvvenire 10 maggio 2015

Ogni generazione produce il suo scarto tra le domande nuove e difficili delle vittime e le risposteinsufficienti degli amici di Giobbe.Qualche volta, questo scarto è diventato una feritoia dove abbiamo appoggiato lo sguardo per cercare discorgere un orizzonte umano più largo e un cielo più alto. Molte altre volte, lo spazio dello scarto vienenegato e annullato, cancellando le domande dolorose e feconde dei poveri. Per sperare di incontrare'Giobbe e i suoi fratelli' dovremmo, semplicemente, imparare ad abitare, in silenzioso ascolto, questoinevitabile vuoto. Potrebbe fiorirvi una solidarietà nuova con il nostro tempo; forse, finalmente, lafraternità. Elifaz di Tema, nel suo secondo attacco a Giobbe, di fronte all’ostinazione con la qualeGiobbe si dichiara innocente e nega la teologia 'retributiva' degli amici, abbandona il ragionamentoastratto (se soffri devi essere peccatore e malvagio), e arriva ad accusarlo di gravi crimini specifici,concreti, storici, attribuendogli i peggiori delitti: «Pignoravi per niente i beni al tuo fratello, strappavi ilvestito all’ignudo, non davi acqua all’assetato, e negavi il pane all’affamato. Come uomo potente …rimandavi le vedove a mani vuote, spezzavi le braccia degli orfani» (22, 6-9). Ma Elifaz non è ancoraappagato, e accusa Giobbe di aver commesso questi crimini «per niente» (22,6), senza alcun motivo,'gratuitamente'. Una gratuità opposta a quella vera di Giobbe, che il Satana aveva fatto oggetto della suascommessa con Dio («forse che Giobbe ama Dio per niente?»: 1,9). La realtà viene interamente ribaltata:Giobbe il giusto «per niente», per pura gratuità, è ora accusato di essere un potente malvagio capace dicattiveria gratuita, un’accusa peggiore di quella del Satana che metteva in dubbio solo la gratuità diGiobbe, non la sua giustizia.E così, continuando la sua inquisizione, Elifaz arriva a evocare persino la condizione perversadell’umanità prima del diluvio (22,14-20). Giobbe come Lamek. Giobbe come Caino. Elifaz sa che queidelitti efferati Giobbe non li ha mai commessi. Noi sappiamo (dal Prologo del libro) che Giobbe era unuomo giusto e onesto, l’uomo più retto sulla faccia della terra («sulla terra non c’è un altro come lui»:2,3).Come Noè, il salvatore dell’umanità dal diluvio. Anche Elifaz e gli altri amici sapevano tutto questo.Eppure ribaltano completamente la realtà. Perché? Qui ci troviamo di fronte a una descrizione perfetta dicosa sia una ideologia. Quando una persona, una comunità, una organizzazione, una corrente di pensieroviene catturata dall’ideologia (che, non dimentichiamolo, è sempre idolatria: si adorano feticci fabbricatidalle proprie mani), arriva non solo a negare l’evidenza, ma, quasi sempre, a inventare fatti, storie,parole.All’inizio l’inventore di questa realtà virtuale riesce ancora a distinguere i fatti inventati da quelli reali;ma arriva presto il momento in cui sono gli stessi inventori che iniziano a credere nella realtà che hannocreato.L’ideologia ha la sua prima forza in questa capacità di inventare una realtà diversa e poi credere nelleproprie invenzioni. Una forza che la rende inconfutabile e invincibile sul piano del discorso e del dialogo– Giobbe ce lo sta mostrando. Si costruiscono artificialmente storie, eroi, vittime, che un giorno esconodalla fiction e diventano reali per chi li ha prodotti. Così la persona malata di ideologia vive realmente inun altro mondo, vede altre cose, abita una realtà parallela.La storia continua a mostrarci mostri ideologici, che finiscono per divorare le persone reali e quasisempre anche i loro stessi autori. Ogni pensiero ideologico si presenta sempre come una uscita

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progressiva dalla ambivalente realtà della vita vera di tutti per entrare in un’altra diversa più semplice,con risposte perfette a tutte le domande.

Giobbe è invece l’anti-ideologo, perché tutta la sua fatica èrestare ancorato alla verità propria e della terra, senza cadereanche lui dentro l’ideologia che, sistematicamente etenacemente, i suoi amici gli propongono come via di uscitadal buco nero in cui è precipitato. Ciò che nei dialoghi diGiobbe è tremendo e meraviglioso è la sua ostinazione a nonaccettare neanche la misericordia di Dio che gli vienesistematicamente ripresentata dagli amici («Se ti rivolgeraiall’Onnipotente, verrai ristabilito»: 22,23), perché sente chenon incontrerebbe Dio ma una ideologia, un idolo. Anche lamisericordia ha bisogno di verità. Non è misericordioso chiperdona una colpa inesistente o creata ad arte per suscitarenell’altro una richiesta di perdono. Accettare questamisericordia significherebbe soltanto entrare nella stessaideologia di chi la propone. Le offerte di misericordia perrimettere colpe inventate, sono forme comuni e sottili didominio dei potenti sui poveri e sulle vittime, di cui la storia cioffre un ampio tristissimo ventaglio. Giobbe non chiede névuole questa misericordia, anche a nome di chi, prima e dopodi lui, l’ha dovuto fare. Quanti poveri, quante donne, hannodovuto chiedere scusa per delitti mai commessi, implorareperdoni per peccati mai fatti, addossarsi colpe al posto di altriche dovevano restare coperti e ’innocenti’. Giobbe continua a

gridare anche per loro, per tenere viva la loro memoria cancellata e dare eco alle loro urla strozzate. Legrida degli innocenti non vanno ammutite con offerte di falsa misericordia: il più grande atto dimisericordia che ci viene chiesto è lasciarli continuare a gridare, nell’attesa che qualcuno, o Dio, leascolti e le raccolga. Forse non esiste un atto di non-misericordia più grave di chi impedisce al povero diurlare, convincendolo di essere colpevole. Se è vero che non c’è giustizia senza misericordia, Giobbe cidice che non può essere vera neanche una misericordia senza giustizia. Ogni dono strumentalizzatodiventa veleno, e avvelena le relazioni.Giobbe non vuole il patteggiamento della pena, vuole ottenere unicamente la sua assoluzione piena, e la'condanna di Dio' per il suo comportamento ingiusto verso di sé e verso i tanti innocenti del mondo. Così,capitolo dopo capitolo continua a chiedere solo una cosa: poter incontrare Dio, alla pari, e farsi spiegarele ingiustizie della terra: «Potessi sapere dove si trova, andrei fino al suo trono» (23,3). Giobbe – è qui lagrandezza sconvolgente di questo libro – cerca un volto di Dio che accetti di ammettere le sue colpe, eche sia disposto a poter perdere in tribunale nel confronto con la giustizia dell’uomo. Ma può esistere untale Dio? Quale Elohim è disposto ad accettare un contraddittorio con gli uomini, e poi sottomettersi alverdetto di colpevolezza? «Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni» (23,4).Ma Giobbe non trova il trono di Dio, non vede Elohim sulla sua terra, né lo intravvede arrivare sullalinea dell’orizzonte: «Ma se vado a oriente, egli non c’è, se vado a occidente, non lo sento.A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo» (23,8-9). La sua è una'notte di Dio' perfetta. E continua a cercarlo, oltre le chiacchiere dei suoi amici. E così la sua onesta notteprepara un’alba per l’uomo. I cieli troppo luminosi, chiari, limpidi finiscono inevitabilmente per abbuiarele terre umili, sassose e aride dei poveri.Ed a questo punto che arriva un colpo di scena. Giobbe usa le stesse immagini di peccato e di malvagitàche Elifaz gli aveva attribuito (pane e acqua negati, vedove, orfani, pegni, vestiti …), ma per donarci unquadro, realissimo e verissimo, delle vittime dei crimini dei potenti: «Ecco, come onagri nel desertoescono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli.Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. Nudi passano la notte, senza vestiti, nonhanno da coprirsi contro il freddo. ... Sopportando la fame portano i covoni. Sulle terrazze delle vignefrangono le olive, pigiano l’uva e soffrono la sete» (24,5-11). I poveri lavorano come asini selvatici(onagri): portano sulle loro spalle covoni di grano per i padroni e loro muoiono di fame, pigiano olive euva e loro bruciano di sete. Il povero è costretto a dare in pegno ai suoi creditori il suo mantello, e invecedi riaverlo indietro la notte per coprirsi viene lasciato nudo lungo le strade (Esodo, 22 ,26 ). Sono troppe

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le persone diventate atee di fronte alle risposte insufficienti alla loro domanda sull’ingiustizia e sul maledel mondo.Elifaz, con la sua teo-ideologia, aveva inventato un Giobbe potente e crudele che perpetrava angherie edelitti verso poveri immaginari. Giobbe, vero povero e innocente, guarda lo stesso mondo di Elifaz, malo vede diversamente. Si mette, solidale, dalla parte delle vittime, e dice: «La gente delle città grida, lagola dei feriti implora. Dio non sente preghiera» (24,12). Visto dal mucchio di letame di Giobbe, ilmondo non può non apparirci come lo spettacolo di una grande, sistematica, universale ingiustizia. Ipoveri continuano a dormire di notte senza mantello, sotto le serrande chiuse delle vetrine dell’alta moda.Giobbe muore di fame, e accanto i suoi amici filosofano sul cibo. E torna sempre più forte la tentazionedi costruirci nuove e sempre più sofisticate ideologie per zittire i poveri, non vederli, convincerci econvincerli che sono solo colpevoli e che meritano la loro triste sorte. Giobbe continua la sua lotta,generazione dopo generazione. E attende risposte solidali e vere, non falsa misericordia. Dagli uomini, danoi, e da Dio.

Immagine - Fra Bartolomeo (1472-1517), «Giobbe»

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UN UOMO DI NOME GIOBBE - 10NON CI SI SALVA ACCETTANDO LOGICHE E PAROLE SBAGLIATEFedeli al Dio del non ancoraNel giorno del giudizio sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza del mondo Ermanno Olmi,

CentochiodiGiobbe denuncia un reato grave compiuto dagli amici, forse il più grave dentrol'umanesimo biblico: avevano tradito la parola. Giobbe nello sviluppo del suo drammaci sta dicendo allora qualcosa di grande importanza: la prima gratuità è quella dellaparola

Avvenire 17 maggio 2015

Un giorno un passero finì all’interno di una grande casa luminosa, e vi volò libero e felice.Ad un certo punto qualcuno chiuse la finestra dalla quale era entrato, e tutte le altre finestre della casa.L’uccellino vedeva oltre i vetri trasparenti il suo cielo: cercava di raggiungerlo ma picchiava solo la testasulle finestre chiuse. Provò più volte, finché non vide, sul lato opposto, una porta che dava in uncorridoio buio, buissimo. Preso dalla disperazione intuì che se c’era una via di salvezza per tornare nelsuo cielo quella doveva trovarsi solo dentro quel buio, al di là della porta scura. E così si gettò giù per ilnero delle scale. Urtò per molti spigoli, si ferì, spezzò la punta di un’ala, ma non smise di continuare asprofondare, non si fece vincere dalla paura del buio e dal dolore. Finché, in fondo al grande buio,intravvide una luce: era la stessa luce dalla quale era venuto.Siamo arrivati alla fine dei dialoghi tra Giobbe e gli 'amici'. Imprigionati dentro le loro etiche e teologieideologiche non riescono a vedere il vero uomo Giobbe, e continuano a biasimare e a condannare il suofantasma, disegnato perfettamente al fine di confermare le loro teorie. Giobbe non si è accontentato dellerisposte perfette alle domande facili e banali, avrebbe voluto che qualcuno prendesse sul serio, anchesenza rispondere, le sue domande difficili e disperate. Ma soprattutto non può accettare un’idea di Dioche per affermare la propria grandezza umilia e denigra gli esseri umani, negando la loro verità einnocenza, come invece continua a sostenere Bildad: «Neppure la luna è pura, neppure le stelleimmacolate. E il verme uomo, la larva uomo, è la cosa più impura» (25,5-6). E Giobbe rispose:«Bell’aiuto hai prestato al debole! Bel sostegno a un braccio sfinito!Bei consigli hai suggerito all’ignorante, che belle prove di sottigliezza! A chi hai rivolto le tue parole?Quale spirito parla in te?» (26,1-4). È come se Giobbe chiedesse a Bildad: a chi parlavi veramentementre dicevi di parlare con me? Catturati dalla loro ideologia, Bildad e i suoi amici avevano via viaperso lungo la strada Giobbe, e i dialoghi si erano trasformati in monologhi: non avevano più incrociatogli occhi della vittima, e così avevano parlato di Giobbe non a Giobbe. È forte questa domanda di Giobbealla fine dei 'dialoghi', perché denuncia un reato grave compiuto dagli amici, forse il più grave dentrol’umanesimo biblico: avevano tradito la parola. Come i maghi, gli idolatri e gli aruspici avevanostrumentalizzato le parole svuotandole della loro verità.Per ogni persona che parla, soprattutto quando parla e scrive pubblicamente, deve arrivare il momento incui chiedersi: 'A chi sto, veramente, parlando? Per chi sto, veramente, scrivendo? E che posto ha la veritànella mia parola?'. Sentire l’urgenza dell’onestà della parola è una tappa fondamentale nella vita di chiparla e scrive, e quindi praticamente nella vita di tutti; perché è sempre forte la tentazione di usare estrumentalizzare la parola e sganciarla dall’umile e difficile verità, zittire l’unico 'spirito' vero per adoraregli spiriti falsi e mortiferi degli idoli. Una tappa decisiva, che può anche non arrivare mai. La letturaonesta di Giobbe è un grande aiuto per far emergere la possibilità di questa tappa. Quando invece questomomento decisivo non arriva, o quando posti davanti al bivio scegliamo di dar voce allo spirito sbagliato,la parola perde la sua forza creativa ed efficace, diventa esercizio formale, tecnica da usare a propriovantaggio. La parola usata e non rispettata è sempre parola abusata, perché smarrisce la sua natura piùprofonda e vera, la gratuità, che è la posta in gioco nella scommessa tra Elohim e il Satana, con cui siapre il libro e che lo informa interamente.È dentro questa 'economia' della parola e delle parole che si capisce, con tutta la sua forza scandalosa, ilgiuramento di Giobbe, uno dei capolavori del libro: «E alzando il tono della sua profezia, Giobbe dice:'Per il Dio vivo che mi nega giustizia, e per Shaddai funesto alla mia vita. Finché il respiro mi resterà,finché avrò nel mio naso il soffio di Elohim, le mie labbra non mentiranno. Dalla mia lingua non usciràimpostura. Dio mi guardi dal darvi ragione. Fino alla morte mi dirò innocente. … Il mio cuore non havergogna di me. Chi mi è nemico sia condannato. Chi è contro di me sia incolpato'» (27,1-7). Giobbe può

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fare ora questo giuramento perché ha custodito fin qui la verità delle sue parole. Solo chi è fedele alleparole può chiedere tutto.Questo tipo di giuramento era la forma più solenne di confessione di innocenza, che veniva pronunciatosolo in casi di particolare gravità. Quando l’accusato faceva questo giuramento di innocenza, sisospendeva il processo e l’imputato si rimetteva direttamente al giudizio di Dio ( Deuteronomio 17 ,17 -19 ), sapendo di andare incontro alla pena di morte se Dio confutava la sua innocenza. La pazziameravigliosa e disperata di Giobbe sta nel paradosso che continua a spingere fino alle sue estreme

conseguenze.Pronuncia il suo giuramento estremo innome di Dio, ma lo chiama «il Dio vivoche mi nega la giustizia, Shaddai funestoalla mia vita». Chiede di essere liberato datutti gli avvocati, sciolto da tutti i giudiciumani, per ottenere finalmente giustizia daquel Dio che gliela sta negando, poiché nelsuo processo grandioso Elohim non è ilgiudice imparziale di ultima istanza, ma ilsuo avversario: «Sia il mio nemico arisultare colpevole, e ingiusto il mioavversario» (27,7). Da questo paradossonon riusciamo a uscire, e se dovessimouscirne perderemmo la dimensione più

rivoluzionaria e liberatrice del libro di Giobbe. Se Giobbe è l’immagine e la voce delle vittime innocentidella storia, e se Dio è quello buono e giusto dell’Alleanza, il paradosso di Giobbe non ha soluzione, equalsiasi teologia amica dell’uomo e della verità deve trovare il proprio posto dentro il paradosso diGiobbe, senza tentare scorciatoie (delle quali, purtroppo, è piena la terra).Giobbe nello sviluppo del suo dramma ci sta dicendo allora qualcosa di grande importanza: la primagratuità è quella della parola. Per sospendere o alleviare le sue sofferenze avrebbe potutostrumentalizzare e non rispettare la verità della sua parola, e seguendo i consigli dei suoi amici chiedereuna misericordia falsa. Se avesse fatto questo, il Satana avrebbe vinto la sua scommessa. La gratuità dellavita, del cuore, dell’anima è sempre gratuità della parola. Se si perde contatto con la verità della parola edelle parole si perde contatto con la verità della vita, e quindi tutto diventa strumentale, utilitaristico,'economico', proprio come le teologie dei suoi amici, false perché senza gratuità. E così, quandoproviamo a chiamare le cose, gli altri, noi stessi per nome, ci torna indietro soltanto una eco muta.Qui ci si apre un orizzonte di grande significato. Capiamo, ad esempio, perché molte persone hannoperso la vita quando, sotto tortura (come e più di Giobbe) si sono rifiutate di dire parole (rinnegare lapropria fede, tradire un amico) che le avrebbero salvate ma avrebbero tradito qualcosa di più grande e disacro: la loro verità dentro le verità custodite dalle parole. YHWH-Elohim è una voce, solo una voce chenon si vede, e tutta la sua forza sta nella sua parola. Allora la verità della fede e della vita si giocainteramente sulla verità delle parole di Dio e delle parole umane.L’Alleanza è un incontro di parole umane e divine, e se vuole essere vera e non solo rito magicoidolatrico, ha un bisogno radicale di gratuità da ambo i lati del patto. La nostra età fa una enorme, a volteinvincibile, fatica a capire la Bibbia e le altre grandi parole del mondo perché abbiamo perso contatto conla verità e gratuità delle nostre parole umane. In un mondo di chiacchiere anche la parola biblica vieneassociata all’infinito nulla delle nostre parole tradite. E non capiamo più i poeti, che sulla terra delleparole svuotate e usate senza gratuità, diventano novelli Giobbe, torturati dagli 'amici' e dall’ideologia'economica' che domina anche il nostro tempo: «Si battono le mani contro di lui e si fischia di scherno sudi lui» (27,23). Dove regna il disprezzo per la verità delle parole, prosperano i falsi poeti, che siimpadroniscono delle parole a scopo di lucro, e le fanno morire. Giobbe può pronunciare questogiuramento solenne sulla base di due fedi. La fede-fedeltà nel Dio vivo che dovrà un giorno rivelarequalcosa di sé che ancora non appare, e la fede-fedeltà alla voce vera che gli parla dentro, alla sua ruah, aquello spirito-soffio che gli dice la sua innocenza. È dentro la sua coscienza sincera e vera che intuisce lapossibilità della rivelazione di un Dio che non vede ancora: è lì che Giobbe attende il messia, e noiinsieme a lui. La terra promessa può incominciare dentro il suo cuore che 'non ha vergogna' di lui. Innessuna notte si muore veramente finché riusciamo a non vergognarci del nostro cuore.

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Se siamo stati capaci di continuare a credere alla possibilità di un 'Dio vivo' dopo i campi diconcentramento, dopo le morte dei figli e dei bambini, è perché sulla terra ci sono state e ci sono personeche, come Giobbe, hanno continuato a cercare volti diversi di Dio ancorati alla verità della lorocoscienza, perché la sentivano abitata dal 'Dio del non ancora'. Ma soltanto la fedeltà estrema allagratuità delle nostre parole ci può far capaci di vedere un cielo più alto e più vero.

Immagine - Vladimir Borovikovskij, «Giobbe con i suoi amici», 1810

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/11CERCHIAMO IL CIELO CHE È IN NOI, FEDELI ALLA VERITÀ CHE CI ABITALa miniera della sapienza

Il profeta sofferente nega la legge che lega giustizia a ricchezza, e crede che ci sia unalogica della sapienza. Il canto di Giobbe è un inno alla verità dell'essere umano vivente.Se Dio è vero anche l'uomo è vero, e la sua coscienza retta non è auto-inganno. Ognivolta che separiamo queste due sapienze-verità religioni e umanesimi si smarriscono

Giobbe continua ad interrogare il cielo. Per merito suo noi sappiamo che all’uomo èdato trasformare l’ingiustizia divina in giustizia umana. C’era una volta, in un paese lontano, un uomoleggendario, giusto e generoso, che, nella solitudine e nella disperazione, trovò il coraggio di affrontareDio. E di obbligarlo a guardare la sua Creazione. Elie Wiesel, Personaggi biblici attraverso il Midrash

Avvenire 24 maggio 2015

La storia delle religioni e dei popoli è il dispiegarsi di una vera e propria lotta tra chi imprigiona Diodentro le ideologie e chi cerca di liberarlo. I profeti appartengono alla categoria dei liberatori di Dio, chesvolgono la funzione essenziale di critica di tutti i poteri che in ogni epoca subiscono il fascinoinvincibile di usare le religioni e le ideologie per rafforzare le proprie posizioni di dominio. Giobbe è unodi questi profeti, quello che più di tutti ci costringe ad andare al cuore del meccanismo del potere,criticando e attaccando direttamente l’idea di Dio costruita dalle ideologie del suo tempo. Non si limitaquindi a criticare i potenti, i sacerdoti e i re, ma come e più dei grandi profeti della Bibbia vuole smontarel’idea di Dio che sostiene artificialmente l’intero edificio del potere. La sua richiesta ostinata diprocessare il Dio ideologico dei suoi “amici” è la pre-condizione per liberare la possibilità di un altroDio.Quando in una comunità religiosa Giobbe è eclissato o ammutolito, proliferano le risposte in nome diDio e spariscono le domande a Dio. E quando smettiamo di fare domande nuove e difficili a Dio, gliimpediamo di parlare alla nostra storia e di crescere in essa, lo imbrigliamo all’interno di categorieastratte che non capiscono più le parole e le grida delle vittime. I profeti sono indispensabili perchéchiamano l’uomo a morire e risorgere per liberarsi dalle idolatrie, e perché costringono Dio a morire erisorgere per essere all’altezza dell’umano vero.Al termine dei loro discorsi a Giobbe, i tre amici non hanno ottenuto nulla. Giobbe è sempre più convintodella sua innocenza, e quindi sempre più deciso ad attendere Dio in un processo equo dal quale spera diessere scagionato da un Dio diverso che non vede ancora, ma sente possibile. Le teoideologie dei suoiinterlocutori invece di avvicinargli le ragioni di Dio gli hanno solo rafforzato la convinzione della suapropria giustizia. Quei dialoghi hanno però avuto il grande merito di farci conoscere Giobbe e la suaradicale rivoluzione religiosa e antropologica. E così, quel grande dolore e quell’infinita sventura cheall’inizio ci apparivano come una alta siepe di sofferenza che ci occludeva l’orizzonte degli uomini e diDio, ci hanno via via aperto interminati spazi al di là di quella, nuovi orizzonti dell’uomo e nuoviorizzonti di Dio.Come cerniera tra la prima e la seconda parte del libro, incontriamo ora un Inno alla Sapienza, forse unpoema preesistente inserito dall’autore del libro per spezzare il ritmo narrativo, e farci prendere fiato. Uninterludio difficile da decifrare ma ricco di poesia, l’ennesimo dono di questo immenso libro. «L’argentoha la sua miniera, l’oro il suo crogiolo», gli uomini esplorano «gli antri più profondi, le grotte piùlugubri», perforano gallerie nel sottosuolo, e per raggiungere i preziosi metalli «penzolano sfiniti». Èl’uomo della tecnica che usa la sua intelligenza per dominare il mondo: «Nella roccia trivella gallerie, incerca di ogni prezioso, sbarra le sorgenti dei fiumi, porta alla luce ciò che è occulto» (28,1-11). Ci vieneperò mostrata l’ambivalenza della tecnica.Come ogni uomo antico, anche l’autore del libro di Giobbe è stupito e ammirato dalla capacità che gliuomini hanno sviluppato nel dominare la materia, le cose, il mondo. Ma dentro la tecnica vede nascosto ereale anche il rischio di abuso: «La terra che ci dà il pane è turbata con un fuoco sotterraneo. … L’uomopone mano alla selce, sovverte le montagne dalle radici» (28;5,9). La tecnica ha una sua legge intrinsecache spinge gli uomini a scavare gallerie sempre più profonde, a rovesciare le montagne in cerca dimateriali preziosi, affamando così i contadini che vivevano su quelle terre, ieri e oggi. Se vogliamocapire allora il messaggio biblico sul rapporto tra l’uomo e la natura, dobbiamo leggere il comando di

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“sottomettere la terra” contenuto nella Genesi (1,28) assieme a questo inno del libro di Giobbe, doveviene riconosciuto il valore dello spirito della tecnica ma viene distinto dallo spirito della sapienza: «Lasapienza da dove si estrae? Dov’è il giacimento dell’intelligenza?» (28,12). La sapienza non si estraenelle miniere, né la si può acquistare sui mercati barattandola con i metalli preziosi: «Non si scambia con

oro massiccio, né si pesa con l’argento comesuo prezzo.(…) Non la equivale il topazio di Nubia, né sicompara con l’oro più puro» (28,17-19).Per cogliere la portata innovativa di questeparole dobbiamo tenere presente la culturadel tempo, tutta intrisa di teologia“economica”. Per quel mondo mediorientaleantico era certo che l’oro, l’argento, il topazioe le perle non compravano la sapienza; questierano tuttavia segni inequivocabili dibenedizione di Dio, di quello stesso Dio dacui proviene la sapienza. Ed era comunepensare che non si diventa ricchi senzasapienza. Lo spirito della ricchezza e quello

della sapienza erano considerati l’uno lo specchio dell’altro. Lo stolto non diventa ricco, e se nasce riccodiventa povero se non possiede la sapienza. Come anche l’ingegnere e lo scienziato non sono“intelligenti” senza sapienza.Questo inno, invece, separa la ricchezza (e la tecnica) dalla sapienza, e così facendo si pone dalla parte diGiobbe, che ci ha ripetuto che non esiste alcun rapporto tra ricchezze e giustizia, perché sulla terra cisono giusti ricchi e giusti sventurati, e viceversa. L’oro e l’argento di una persona non dicono nulla sullasua rettitudine: Giobbe era giusto da ricco e continua a esserlo da povero e sventurato. I beni passano esono mutevoli, la giustizia e la sapienza sono per sempre, e quindi sono un investimento molto piùintelligente. Potremmo quindi leggere questo interludio come una conferma e un’approvazione della“teologia” di Giobbe e una critica alle teologie economiche e retributive degli amici. Questo inno allasapienza ci ricorda poi l’antica e importante verità che la sapienza è dono, è gratuità,charis, non è una merce da acquistare né con oro né tramite indovini o maghi. Anche in questo Elohim-YHWH si distingue dagli idoli, che danno ai loro adulatori la loro “sapienza” se pagano il prezzo intermini di sacrifici e sottomissione. Il Dio biblico non è un idolo perché non vende la sapienza, ma ladona liberamente – ogni religione retributiva è, nella sostanza, una religione idolatrica e commerciale.Parole che potevano essere pronunciate anche da Giobbe.Ma – e qui sta il mistero e l’interesse di questo capitolo – l’autore ci dice qualcos’altro che complica ildiscorso, e ci costringe a scavare di più. Ci dice che la sapienza è inconoscibile e irraggiungibiledall’uomo: «Dio solo ne discerne la via, Lui solo ne conosce il giacimento» (28,23).E qui si allontana decisamente da Giobbe. Non tutto il libro di Giobbe è all’altezza di Giobbe.Dobbiamo salvare le parole di Giobbe dalle altre molte parole del suo libro, incluse quelle di Elohim chetra poco ascolteremo.Giobbe nega la legge che lega giustizia a ricchezza, ma crede che c’è, che ci deve essere, una logica dellasapienza. Il Dio che egli chiama e attende non è un contabile che assegna i beni agli uomini in base ailoro meriti, perché sarebbe un dio banale come tutti gli idoli. Ma non accetta l’idea che non ci sia alcunlegame tragiustizia e sapienza: il giusto è sapiente, anche se povero e sventurato. E la prova di questo sono la storiae la vita di tutti, dove la sapienza non coincide con l’intelligenza della tecnica, ma dove esiste ed è veroun rapporto tra rettitudine e sapienza. Conosciamo persone sapienti e ignoranti, sapienti e povere,sapienti e non molto intelligenti. L’homo faber e l’homo oeconomicus possono essere sciocchi, e soventelo sono. L’uomo giusto no, perché Dio, se non è un idolo, deve donare la sapienza a chi segue lagiustizia, anche quando la segue (come sta facendo Giobbe) negando la giustizia di Elohim.Una persona falsa, iniqua, malvagia non è mai sapiente: questa legge non è meno vera di quella chemuove il sole e le altre stelle. L’uomo iniquo può sperare in tutti gli altri beni, non in quello dellasapienza. Giobbe conosce questa legge perché la vede nel mondo, ma soprattutto perché la porta iscrittanella sua coscienza. E anche noi la conosciamo e la riconosciamo fuori e dentro di noi (sta qui lasperanza di poterci convertire sempre, fosse anche nell’ultimo soffio di vita). Allora la miniera della

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sapienza esiste: si trova dentro di noi, e per scoprirla occorre solo restare fedeli alla verità che ci abita.Questo è il messaggio principale di Giobbe.Questo Inno alla Sapienza contiene allora una mezza verità.Ci ricorda che la sapienza è dono, ma non ci dice che questo dono lo riceviamo venendo al mondo, e cheabita dentro di noi. È lì dove possiamo scavare per raggiungerlo, e raggiunto scopriamo che è la partemigliore di noi. È lì che possiamo incontrare, scoprire, ascoltare, seguire la sapienza. È lì che possiamoriconoscere anche la voce di Elohim, una voce che non potremmo riconoscere se non fosse già dentro dinoi, magari coperta o ferita. Se l’adam è impastato a immagine di Elohim, la sapienza divina è anche lasapienza umana. Il cielo dentro di noi non è diverso dal cielo sopra di noi, e se si abbuia il cielo dentroanche quello in alto si spegne o si riempie di idoli.Il canto di Giobbe è un grande inno alla verità dell’essere umano vivente, che è più vera di tutte le suenotti. Se Dio è vero anche l’uomo è vero, e la sua coscienza retta non è autoinganno. Se Dio è sapienza,anche l’uomo è sapienza. Se separiamo queste due sapienze-verità – lo abbiamo fatto molte volte, econtinuiamo a farlo – le religioni diventano inutili, gli umanesimi si smarriscono, e Giobbe termina il suocanto.

Immagine - GIOBBE. Opera di Luca Giordano conservata nel Museo Civico di Padova

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/12NOSTALGIA DI FUTURO, UNIONE DI CIELO DI DIO E ORIZZONTE UMANOL'attesa dell'innocente

Io ti sbircio / come una scacchiera / di battaglia navale / non so ancora dove / miaffonderai / segnerai una fenditura / con la biro nera / degli occhi / e mi porterai in salvo/ su una terra consegnata. Chandra Livia CandianiÈ la menzogna il grande peccato contro il Dio di Giobbe. Si possono perciò commetterepeccati e persino delitti restando giusti se non si esce dalla verità su di sé e dalla verità

sulla vita. Certo, i poveri conoscono spesso un Dio muto. Ma se la Bibbia ci ha voluto mostrare un Dioche non risponde, è perché possiamo e dobbiamo cercare Dio dove non c'èAvvenire 31 magio 2015

Le grida delle vittime aumentano la loro forza quando sono ripetute. Nel suo discorso finale Giobbecontinua a ripetere le sue domande e le sue grida, difende per l’ennesima volta la sua innocenza, lanciaancora una volta il suo urlo verso il cielo: il povero non è povero perché è colpevole. Un uomo può

essere povero, sventurato e innocente. E se èinnocente, qualcuno deve aiutarlo a rialzarsi. Dioper primo, se vuole essere diverso dagli idoli. Ilvero delitto di cui si sono spesso macchiate anchele religioni è uccidere i poveri convincendoli chesono colpevoli e che hanno meritato le lorocondizioni sventurate; e così noi siamo giustificatinella nostra indifferenza, alla quale cerchiamo diassociare anche Dio.Girando per Nairobi (da dove sto scrivendo questerighe) l’urlo di Giobbe è assordante; le nostremancate risposte mascherate dalle ideologieriecheggiano ovunque. Solo in compagnia diGiobbe si può camminare nelle 'periferie delcapitalismo' sregolato sperando di restare un po’giusti. Riconoscerlo lungo le strade, accostarsi allesue ferite, e tentare almeno di fare silenzio perascoltare fino in fondo il suo grido.Gli amici di Giobbe hanno smesso di parlare.Lui resta di nuovo solo sul suo mucchio di letame,ferito nel corpo e affondato dentro un buio delcuore che solo Elohim potrebbe rischiararepronunciando parole diverse da quelle che glihanno attribuito i suoi interlocutori, i ruffiani diDio, i nemici della vittima e dello sventurato.Elohim, però, non arriva. La sua assenza sta

diventando la presenza più ingombrante al centro del dramma. Giobbe lo ha invocato, lo ha querelato, loha chiamato in causa come giudice di ultima istanza per difenderlo da Dio stesso, ha persino pronunciatoun primo giuramento di innocenza; ma Elohim non arriva nell’aula del 'tribunale', non parla, nonrisponde. E in questa attesa di un Dio diverso che tarda a venire, sul mucchio di letame di Giobbe giungela nostalgia: «Potessi tornare com’ero ai mesi andati … quando Dio proteggeva la mia tenda, quandol’Onnipotente stava ancora con me e i miei ragazzi mi circondavano» (29,2-5). È una nostalgia cheacuisce il suo dolore. È gioioso ricordare la primavera durante l’inverno quando si crede o si spera che laprimavera di ieri sta per ritornare domani. Ma quando l’inverno non sboccia in una nuova primavera,quando la notte non genera una nuova alba perché è l’ultima notte, il ricordo dei tempi della luce e deigermogli aumenta solo la sofferenza nel freddo di quell’ultimo inverno. È doloroso il ricordo dellagiovinezza nella vecchiaia se non abbiamo accanto almeno un bambino nel quale sentiamo rivivere unanostra futura giovinezza, tutta diversa, tutta e solo gratuità. La nostalgia che salva è solo la nostalgia difuturo.

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Ma in quell’ultimo ricordo dei giorni delle benedizioni ci sono molte altre cose. Innanzitutto Giobbe citrova una un’ulteriore ultima prova della sua innocenza e giustizia: «Io ero gli occhi per il cieco, ero ipiedi per lo zoppo. Padre io ero per i poveri». E con la poesia a cui ci sta abituando, aggiunge: «Hostretto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo su nessuna ragazza» (29,15-16; 31,1). E cometesi gemella a quella della sua innocenza, rincontriamo poi la sua accusa a Dio, sempre più chiara,sempre più forte, sempre più scandalosa e mirabile: «Mi ha gettato nel fango: sono diventato comepolvere e cenere. Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta» (30,19-23). Il Diobiblico è un Dio vicino al povero, che risponde all’innocente che lo invoca; è prossimo alle vittime, correin aiuto di chi grida. Il Dio che sta conoscendo Giobbe no: Giobbe grida e Dio non arriva.Se la Bibbia ci ha voluto mostrare un Dio che non risponde a Giobbe, è possibile trovare una verità nelDio che non risponde quando dovrebbe farlo. Se guardiamo bene il mondo scopriamo che Dio continua anon rispondere a Giobbe che grida. È questo Dio muto quello che i poveri della terra conoscono. Allora,forse, se vogliamo sperare di incontrare veramente lo spirito di Dio nel mondo, e non restare catturati daqualche idolo fuori e dentro le religioni, dobbiamo scoprirlo dentro le grida senza risposta, dobbiamocercarlo dove non c’è. Le ultime parole di Giobbe contengono poi un immenso 'giuramento di innocenza'(se ho fatto questo delitto, mi colga questo male …). Giobbe lo aveva già pronunciato (27,1-7), ma oradiventa più solenne, finale, estremo. Un ultimo giuramento che contiene una perla, uno dei messaggi piùgrandi e rivoluzionari di tutto il libro e di tutti i libri. Nelle sue ultime parole scopriamo in che cosaconsista veramente per Giobbe l’innocenza : -«Se il mio cuore si lasciò sedurre da una donna, altri sicorichino con mia moglie … Se ho rifiutato ai poveri quanto desideravano, se ho lasciato languire gliocchi della vedova, se da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l’orfano… mi si stacchi la scapola dalla spalla e si rompa al gomito il mio braccio … Se ho riposto la miasperanza nell’oro e all’oro fino ho detto: 'Tu sei la mia fiducia'’… Se, vedendo il sole risplendere e laluna avanzare smagliante, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la mano alla bocca homandato un bacio ...» (31,5-10;16-28). Maltrattare e non soccorrere i poveri, l’adulterio, e le molte formedi idolatria (ricchezza e astri): sono questi i reati e i delitti più gravi per Giobbe, per tutti.Ma a un certo punto Giobbe aggiunge qualcosa che a prima vista ci lascia molto perplessi, stupiti, turbati.Sembra che Giobbe alla fine della sua arringa pronunci una ammissione di colpevolezza: «Non honascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato nel mio petto il mio delitto» (31,33-34). Proprionell’ultimo atto della sua difesa, a pochi passi dal traguardo si arrende, e seguendo i consigli degli amiciammette di essere colpevole, nega la sua innocenza che era stata il solo bene che aveva salvato neltracollo totale. È questo il senso di queste parole? No. Giobbe qui ci sta dicendo qualcosa di diverso emolto importante, come sua ultima parola, come un testamento.Riconoscendo la colpa , Giobbe conclude i suoi discorsi allargando il territorio dell’innocenza umanafino a comprendervi anche il peccato.L’uomo giusto non è chi non pecca, chi non compie delitti, perché peccare è parte della condizioneumana. Giobbe ha sempre negato la teologia economica degli amici che associavano la sua condizione disventurato al suo peccato.Ora capiamo in pienezza che la giustizia e l’innocenza di Giobbe non consistono nell’assenza di peccati,di cadute morali. Anche Giobbe ha peccato. Si possono commettere peccati e persino delitti restandogiusti se non si esce dalla verità su di sé e dalla verità sulla vita.È la menzogna il grande e unico peccato contro il Dio di Giobbe, il peccato di chi sa di sbagliare e tiene'celata nel petto la colpa', perché ammettendola e riconoscendola pubblicamente dimostrerebbe la volontàdi conversione, e resterebbe giusto. Ci sono persone ingiuste e non innocenti che ricevono lodi pubblichee onorificenze civili, e le carceri sono piene di giusti come Giobbe. Dio, se non è un idolo, non è libero dinon perdonare il peccato dei giusti. Allora con le sue ultime parole Giobbe ci sta dicendo qualcosa didecisivo per ogni esperienza di fede: anche il peccatore può restare innocente. E se anche il peccatoreresta dentro il territorio dell’innocenza, allora ci si può sempre risollevare dopo ogni caduta: innocenti sipuò tornare. Giobbe lo sa, perché crede e spera solo in questo Dio.È con questa innocenza sincera, vera, onesta, che Giobbe termina il racconto della sua storia. Ha svolto ilsuo compito, ha terminato la sua missione. Ha combattuto una buona battaglia. Ha conservato la fedenell’uomo, in Elohim, nella propria dignità, nel proprio onore, nell’innocenza dell’uomo, di ogni uomo.E lo ha fatto per noi, continua a farlo per noi, per includere nel regno degli innocenti anche i peccatoriche continuano a essere giusti. Ora può solo attendere che anche Dio faccia la sua parte, aspettare la suacomparsa nell’aula del tribunale della terra. È lì che lo aspetta: «Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mirisponda! … mi presenterei a lui come un principe» (35,35-37). Giobbe ha terminato la sua prova con la

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dignità dell’uomo libero e vero. E si sente un re, «un principe», e può aspettare Dio a testa alta. Giobbe ènel tempo di avvento, attende ancora Dio; ma ora sa che se verrà sarà diverso da quello della gioventù.Quel primo Elohim è stato spazzato via dallo stesso vento impetuoso che ha cancellato i suoi beni. Manon ha smesso di attenderlo, continua ad avere nostalgia di Dio, una nostalgia di futuro.Nelle prove della vita, anche in quelle grandi e tremende, la cosa importante, la sola cosa veramenteimportante, è arrivare fino alla fine della notte, non smettere di attendere un altro Dio, e giungere aquesto incontro decisivo a testa alta. Non tutte le attese di Dio avvengono a testa alta, perché per tenere latesta alta e poter guardare Elohim negli occhi quando arriverà occorre vivere le prove della vita comeGiobbe, non accontentandosi di un dio minore e di un uomo peggiore per salvarsi. Giobbe giungendocome un principe alla fine della sua difesa ha continuato ad allargare l’orizzonte dell’umano buono fino afarlo coincidere, sulla linea dell’orizzonte, con il cielo buono del suo Dio.

Immagine - Scene dalla vita di Giobbe, Anonimo fiammingo (1480-90)

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/13IL DIALOGO, ANCHE IL PIÙ INASPETTATO, AIUTA A CAPIRE LA VITA E DIO

Il vero senso della sofferenza

Iob dice che i buoni non vivono e che Dio li fa ingiustamente morire Gli amici di Iobdicono che i cattivi non vivono e che Dio li fa giustamente morire La verità è che tuttimuoiono -Guido Ceronetti Il libro di Giobbe

Al termine delle parole di Giobbe, non entra in scena Dio, ma arriva un nuovo personaggio: Elihu.Cerca di convincerci che la spiegazione dei mali di Giobbe sia il ruolo salvifico della sofferenza.Ma nessuna lettura autentica della Bibbia può far di Dio la causa della sofferenza degli uomini, tantomeno degli innocenti.

Avvenire 7 giugno 2015Giobbe ha terminato i suoi discorsi. I suoi “amici” lo hanno umiliato e deluso, ma gli hanno ancheconsentito di trovare ragioni via via più profonde della sua innocenza. Nei momenti di discernimentoprofondo sulla giustizia della nostra vita e di quella del mondo, il dialogo è strumento essenziale.Riusciamo a capire le domande più profonde sulla nostra esistenza, a penetrare le profondità più buiedella nostra anima, solo in compagnia, dialogando. Anche quando gli interlocutori non sono nostri amici,non ci capiscono e ci fanno male, la verità su di noi emerge dialogando con altri umani, con Dio, con lanatura. Le solitudini sono buone solo quando rappresentano una pausa tra due dialoghi. Per conoscere chisiamo veramente, per raggiungere gli angoli più nascosti e veri del nostro cuore, c’è bisogno soprattuttodi parlare e di ascoltare.Nelle notti della vita è meglio essere maleaccompagnati che soli.Giobbe è giunto a testa alta al termine del suo processo. Come “un principe” attende Dio, ma non sa searriverà, e se sarà il Dio vecchio dei suoi “amici” o un Dio nuovo. E noi, ignoranti come lui, attendiamocon lui. La Bibbia è viva e vera finché è capace di sorprenderci. Se riavvertiamo qui ed ora lo stupore peril mare che si apre davanti a noi mentre siamo inseguiti dall’esercito del faraone; se assistiamo disperatialla morte di un uomo in croce e poi restiamo senza fiato quando lo sentiamo, vivo, pronunciare il nostronome.La prima sorpresa che giunge al termine delle parole di Giobbe, avvocato di se stesso, è l’arrivo di unnuovo personaggio: Elihu. Non si capisce se è un carattere previsto nel copione iniziale del dramma etenuto fin qui intenzionalmente nascosto, uno spettatore che irrompe improvvisamente sulla scena, omagari il direttore del teatro che vuol far sentire la sua voce diversa. Ciò che è certo è che nessun lettoreche si accosti al libro per la prima volta si aspetta a questo punto Elihu. Non c’era nel Prologo, e latensione drammatica del testo ci aveva preparati per incontrare soltanto un ultimo personaggio: Elohim.E invece questo libro è grande anche per i suoi colpi di scena, per i continui salti che ci costringe a fareper tenere vivo il desiderio delle parole di Elohim, che tutti vorremmo grandi almeno come quelle diGiobbe.Forse una prima stesura del libro terminava con il capitolo 31, quando Giobbe ha risposto a tutte leaccuse dei suoi interlocutori e li ha fatti tacere. Il silenzio di tutti i protagonisti poteva essere laconclusione più antica del libro. Giobbe aveva portato a termine la sua prova, e ilSatan non aveva vinto la sua scommessa. Forse non c’era bisogno né di Elihu, né delle parole di Elohim,perché – a pensarci bene – Dio aveva già detto tutto nel Prologo del libro. Ma i grandi libri, certamente ilibri biblici, sono ancora vivi perché, come nelle città più antiche, i primi templi vengono trasformati inchiese, le nuove case usano le pietre delle vecchie, attorno alle prime costruzioni ne nascono altre connuovi stili architettonici. Il poemetto di Elihu è una nuova piazza della città di Giobbe, più recente deiprimi grandi fori e templi, artisticamente meno originale, e troppo larga per non disturbare l’armoniadell’antico paesaggio. Un luogo che dobbiamo comunque attraversare. Camminandoci sopra scopriremoalcuni cantucci interessanti, e arrivando in cima a qualche sua scalinata ci si apriranno prospettive nuovesulle antiche ed eterne bellezze di questa città.«Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe, perché egli si riteneva giusto. Allora si accese losdegno di Elihu, figlio di Barachele, il Buzita, della tribù di Ram. Si accese di sdegno contro Giobbe,perché si considerava giusto di fronte a Dio; si accese di sdegno anche contro i suoi tre amici, perché nonavevano trovato di che rispondere, sebbene avessero dichiarato Giobbe colpevole» (32,1-4).

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Un primo elemento di interesse di Elihu sta nel suo nome, molto simile a quello del profeta Elia: «Egli èil mio Dio». Elihu è l’unico personaggio del librocon una chiara connotazione israelitica. Inoltre soloElihu ha una genealogia: è della regione di Buz.Dalla Genesi (22,22-24) sappiamo che due nipoti diAbramo si chiamano Us e Buz, e Us è la regione diGiobbe. Due dati che collocano Elihu moltoprossimo a Giobbe e alla cultura di Israele. Elihu cidice che si vuole porre sullo stesso piano di Giobbe,in un dialogo alla pari fra terrestri: «Ecco, io sonocome te di fronte a Dio, anch’io sono stato formatodal fango» (33,6).I primi 31 capitoli del libro di Giobbe sono moltoradicali ed estremi per ogni lettore e in ogni tempo.Se siamo onesti non possiamo non andare in crisi,perché questo canto del giusto innocente cicostringe a ripensare profondamente le nostreteologie, religioni, ideologie. Ci obbliga a mettercidalla parte delle vittime e delle loro domande chesmascherano le nostre idolatrie, a guardare il mondodal basso verso l’alto, a interrogare Dio partendodai poveri e non viceversa (come siamo abituatidalle stesse religioni). Nel corso della lettura,quando le domande di Giobbe iniziano a farci male,può così facilmente nascere la tentazione diemendarlo, di smorzare la radicalità del suomessaggio per starci più comodi dentro. Un giorno,

una generazione di intellettuali, quando il testo si trovava ancora in una fase permeabile e precedente allaredazione finale, ha forse avuto il coraggio e l’ardire di rimettere mano a quell’antico canto di uninnocente sventurato, e ha introdotto nel testo originario una lunghissima digressione (capp. 32-37), perrendere meno scandalosa la sconfitta della teologia tradizionale e meno netta la vittoria di Giobbe – emagari per migliorare gli stessi discorsi di Dio: «Non venite a dire: Abbiamo trovato noi la sapienza, Diosolo può vincerlo, non un uomo!» (32,13). Gli autori di Elihu non accettano la sconfitta sul pianodell’argomentazione dialogica: vogliono tentare un’ultima arringa, mostrare che esistono altre ragionitutte umane per confutare le “bestemmie” di Giobbe.Il risultato è comunque modesto. Di argomenti nuovi se ne trovano molto pochi, anche se non mancanoalcuni versi degni delle migliori pagine di Giobbe (es. 33,15-18;27-29).La tesi di Elihu più originale – ben nota alla tradizione sapienziale di Israele ma quasi del tutto assentenelle argomentazioni dei tre amici di Giobbe – riguarda il ruolo salvifico della sofferenza, che Dio mandaper migliorare e convertire le creature: «Talvolta egli corregge l’uomo con dolori nel suo letto e con latortura continua delle ossa» (3 3,19-22). Qui ritroviamo un’idea che attraversa l’intero universo ebraico-cristiano, che è affascinante perché contiene anche una verità. Una tesi, però, che pone troppi problemi insé e che certamente non funziona per Giobbe.Non possiamo negare che nella tradizione biblica esista una linea teologica secondo la quale Dio mandaagli uomini varie forme di sofferenza per ottenere la loro conversione (basterebbe pensare alle “piaghed’Egitto”). Quando però nelle religioni prevale una lettura salvifica della sofferenza e del dolore, apparesempre la tentazione di non fare di tutto per alleviare la sofferenza umana e dei poveri. E possono ancheinsinuarsi l’idea e la prassi che sia bene lasciare le persone nelle loro sofferenze perché alleviarle oeliminarle potrebbe far perdere al sofferente la possibilità di salvarsi. Giobbe, invece, sta aspettando unaltro Dio, che non sia la causa della sofferenza degli uomini – e noi con lui. Un volto di Elohim che ècompagno di viaggio di chi soffre, che ha compassione di lui, e se ne prende cura.La sofferenza fa parte della condizione umana, è nostro pane quotidiano; e se Elohim è il Dio della vitalo possiamo senz’altro trovare anche in fondo alle sofferenze nostre e degli altri. Qualche volta la nottedel dolore consente di vedere stelle più lontane, e di sentire “abitato” il vuoto creato dalla sofferenza.L’incontro con la sofferenza ci può far accedere a dimensioni più profonde della nostra vita, quando nellanudità dell’esistenza possiamo incontrare un io più vero che ancora non conoscevano. Altre volte, invece,

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la sofferenza peggiora le persone, toglie la luce del giorno e non riusciamo più a vedere neanche il sole amezzodì.Troppi poveri sono schiacciati da sofferenze che non li fanno più umani. I primi capitoli della Genesi cidicono che la sofferenza dell’Adam non era nel progetto originario di Dio, e che la sua sorgente è esternaad Elohim. La Bibbia sa che gli dèi che si nutrono della sofferenza degli uomini si chiamanoidoli.Ma Elihu non può usare il suo argomento per spiegare la sofferenza di Giobbe. Giobbe è giusto einnocente, non si trovava né si trova in nessuna condizione di peccato mortale da cui uscire grazie allasofferenza. Allora pur dovendo riconoscere il valore antropologico e spirituale che la sofferenza qualchevolta può produrre, nessuna lettura umanistica e quindi vera della Bibbia può far di Dio la causa dellasofferenza degli uomini, tanto meno degli innocenti.Quale Dio può associare alla sua azione la sofferenza dei bambini, l’annientamento dei poveri, l’urlo deitanti Giobbe della storia? E chi lo fa costruisce religioni disumane e dèi troppo piccoli per essereall’altezza della parte migliore di noi che continua a patire quando incontra la sofferenza umana. Qualesenso religioso avrebbe un mondo dove gli esseri umani migliori combattono le sofferenze che Diostesso procurerebbe? Nessuno. I crocifissi senza resurrezione non salvano né gli uomini né Dio, echiunque cerchi di bloccare le religioni al venerdì santo sta impedendo la fioritura degli uomini e di Dio.La solidarietà e la fraternità sono nate e rinascono dalla nostra capacità di soffrire per la sofferenza altrui,dalla nostra compassione per il dolore di ogni donna e di ogni uomo. È questo Dio solidale che Giobbecerca: un Dio che sia il primo a soffrire per la sofferenza del mondo, il primo ad agire per ridurlariscattando i poveri e le vittime.

Immagine - Bartolo di Fredi, «Giobbe ringrazia Dio», 1367, San Gimignano ( Alinari)

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/14NEL CIELO DELLA FEDE ANCHE LE NUBI AIUTANO A SENTIRE DIOL'altra mano dell'Onnipotente

L’ordine sacro, separando mediante il sacrificio espiatorio l’infezione della colpa, chesempre accompagna l’uomo, dalle sue catastrofiche conseguenze, rende possibile l’ideadi una colpa che non è male reale, malattia della vita, ma imputazione morale. La colpadiventa allora un disperato artificio, una gabbia per poter far coesistere l’Onnipotenteclemente e misericordioso con il dolore Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia

Se oggi le fedi vogliono fare casa all'uomo e alla donna del nostro tempo dal cielo vuoto, devonorecuperare l'ombra dentro la luce di Dio, abitandola e attraversandola insieme ai tanti Giobbe chepopolano il mondo Se Dio non vuole essere un motore immobile né un idolo, 'deve' soffrire per il male danoi compiuto, 'deve' rallegrarsi per la nostra giustizia, 'deve' morire con noi sulle nostre croci. Se noi lofacciamo, anche Dio 'deve' saperlo fare

Avvenire 14 giugno 2015

La felicità e il dolore di una civiltà dipendono molto dalla sua idea di Dio.Questo vale per chi crede ma anche per chi non crede, perché ogni generazione ha un suo ateismoprofondamente legato alla sua ideologia dominante. Credere in un Dio all’altezza della parte miglioredell’umano, è un grande atto di amore anche per chi in Dio non ci crede. La fede buona e onesta è unbene pubblico, perché essere atei o non credenti in un dio reso banale dalle nostre ideologie, rende menoumani tutti. Nello sviluppo del suo poema all’interno del Libro di Giobbe, Elihu approfondisce ildiscorso sul valore salvifico della sofferenza. E pur seguendo una linea teologica che non convince néGiobbe né noi, ci suggerisce comunque nuove domande: «Ma se vi è un angelo sopra di lui, un mediatoresolo fra mille, che mostri all’uomo il suo dovere, che abbia pietà di lui e implori: «Scampalo dalloscendere nella fossa, io gli ho trovato un riscatto», allora la sua carne sarà più florida che in gioventù, edegli tornerà ai giorni della sua adolescenza» (33,19-26).Il monoteismo biblico è una realtà tutt’altro che semplice e lineare.Assieme alla grande parola sull’unicità di Dio del Sinai, antidoto per l’eterna tentazione idolatrica,scavando nelle scritture ritroviamo viva e feconda anche una falda che ci dona un Dio con una pluralitàdi volti. Anche Giobbe, nei momenti più drammatici del suo processo, ha invocato un Dio diverso daquello che gli presentava la fede del suo tempo e che lui stesso aveva conosciuto in gioventù. Giobbecerca continuamente e con tenacia un Dio oltre Dio, un 'Goel', un fideiussore, capace di garantire edifendere la sua innocenza e di riconoscere la sua giustizia nei confronti di quel Dio che lo stavauccidendo ingiustamente. Qui anche Elihu ci indica, tra i mille angeli di Dio, un 'angelo riscattatore' chemosso a misericordia dal dolore dell’uomo possa intervenire con la sua mano misericordiosa liberandolodall’abisso dove lo aveva fatto precipitare l’altra mano di Dio. È bella e ricca questa varietà di mani e divolti all’interno dell’unico Elohim (che in ebraico è il plurale di Elohah, e dell’arcaico El), che latradizione cristiana ha in un certo senso salvato definendo Dio uno e trino, riconoscendo che YHWH èunico ma non è solo, anche se nella dottrina cristiana è scomparso troppo presto il volto oscuro diYHWH, che era ancora presente nei Vangeli (dove un Dio-padre abbandona sulla croce un Dio-figlio).Una divinità tutta e solo luce non può capire le domande di Giobbe né quelle disperate delle altre vittimedella terra. Se oggi le fedi vogliono fare casa all’uomo e alla donna del nostro tempo dal cielo vuoto,devono recuperare l’ombra dentro la luce di Dio, abitandola e attraversandola insieme ai tanti Giobbe chepopolano il mondo (innumerevoli Giobbe ruotano attorno alle nostre religioni). Giobbe oggi non risentiràDio parlare dal tuono se eliminiamo le nubi dal cielo delle fedi.Elihu continua a ripetere la giustizia di Dio, e a difenderlo contro Giobbe. Anche lui sente urgente ilbisogno di svolgere il mestiere di avvocato difensore di Dio, una professione di cui c’è sempre statoun’offerta molto abbondante in tutte le religioni, a fronte di unadomanda modesta o inesistente: «Certamente Dio non agisce male, l’onnipotente non viola la giustizia»(34,12). Giobbe aveva invece negato la giustizia di Elohim, partendo non da teoremi teologici, ma dallasua condizione concreta di vittima. Nel suo processo a Dio, ha cercato di difendere soprattutto la suainnocenza, dimostrando di non meritare le sue pene, che egli interpreta come punizioni divine. Giobbeavrebbe potuto vincere la sua causa nel tribunale divino negando che fosse Dio la ragione del suo male, e

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quindi salvandolo dal dover rispondere dell’ingiustizia del mondo. Ma non lo ha fatto, e ha continuato acredere in un Dio responsabile del male e del dolore innocente. A questo punto, aiutati da Elihu,

dobbiamo però chiederci: perché Giobbe nonha voluto sganciare Dio dal male del mondo?Nella cultura di Giobbe, le gioie, i dolori, ledisgrazie, sono espressioni dirette dellaprovvidenza divina nel mondo.Nel mondo suo in quello dei suoi amici ciòche succede è voluto intenzionalmente da Dio,e se accadono cose ingiuste (onesti sventuratie cattivi felici), è Dio che le vuole oquantomeno le permette. La teologiaretributiva – presente in quasi tutte le religioniantiche – era il meccanismo più semplice, mamolto potente e rassicurante, per spiegare lapresenza divina dentro la storia: gli eventipositivi nella nostra vita sono premi per la

nostra giustizia, quelli negativi punizioni per le nostre colpe (o per quelle dei nostri padri). «Elihuproseguì: ti pare ragionevole dire... 'A che cosa mi è servito, che cosa ho guadagnato a non peccare?'»(35,1-3). Giobbe, in linea di principio, avrebbe potuto trovare una prima via per salvare la propriagiustizia e quella di Dio: avrebbe dovuto semplicemente negare fino in fondo la teologia economico-retributiva. Ma, nel suo universo, il prezzo altissimo di questa negazione sarebbe stato il riconoscimentodi una ingiustizia sulla terra nei confronti della quale anche Dio doveva ammettere la sua impotenza. Unprezzo impagabile in quella cultura.L’operazione etica compiuta da Giobbe, di portata rivoluzionaria, è consistita allora nel dimostrarel’innocenza della vittima del male, una rivoluzione di cui noi lettori moderni abbiamo perso il significatopiù profondo (le nostre fedi e le nostre non-fedi sono troppo diverse e lontane). Arrivati a questo puntodel suo libro, dobbiamo però riconoscere anche qualcosa che potrebbe sorprenderci: neanche Giobbe si èliberato completamente dalla teologia retributiva, perché nella sua cultura questa liberazione avrebbesignificato semplicemente l’ateismo, o rendere la religione irrilevante. Giobbe, infatti, accusando Dio diingiustizia nei suoi confronti e nei confronti delle vittime, continua a salvare la cornice culturale dellavisione retributiva o economica della religione e della vita. E dentro l’orizzonte della fede retributiva,neanche lui (che è quello che più ha tentato di mettere in crisi questa teoria religiosa), riesce ariconoscere una duplice innocenza: quella del giusto sventurato e quella di Dio. Giobbe ha allorapreferito querelare Dio piuttosto che perdere la fede nel Dio che stava querelando. Solo la scoperta di unDio fragile avrebbe potuto salvare la sua innocenza insieme alla sua fede in un Dio innocente. Soltantoun Dio che diventa anche lui vittima del male del mondo poteva affermare la propria giustizia e quelladei poveri giusti. Forse in quella sua attesa di un Elohim diverso che attraversa l’intero libro e permarràanche dopo la risposta di Dio, c’era in Giobbe la domanda di un Dio ancora sconosciuto capace diaccettare la propria impotenza nei confronti del male del mondo. Insieme alla propria innocenza avrebbedovuto ammettere un Dio debole, un Onnipotente impotente di fronte al male e al dolore.Ma Elihu indica a Giobbe una seconda strada: l’indifferenza di Dio: «Contempla il cielo e osserva,considera le nubi, come sono più alte di te. Se pecchi, che cosa gli fai? Se aumenti i tuoi delitti, chedanno gli arrechi? Se tu sei giusto, che cosa gli dai o che cosa riceve dalla tua mano?» (35,5-7). Il Diobiblico, però, non è indifferente alle azioni umane: si commuove, si pente, si rallegra, si adira. Elihuallora non può avere ragione, perché Elohim-YHWH si è rivelato un Dio interessato a quanto accadesotto il suo cielo. E Giobbe lo sapeva, lo sa, continua a saperlo. Se per salvare Dio dal male del mondo dalui creato dovessimo negare il contatto tra le nostre azioni e il suo 'cuore', perderemmo tutto delmessaggio biblico. Giobbe non si è arreso nel suo combattimento anche per salvare un Dio dal cuore dicarne. Non si è accontentato, per salvarsi, di un Dio inutile o utile soltanto per le disquisizioni teologicheche finiscono quasi sempre per condannare i poveri. Se le azioni degli uomini sono inutili per Dio è Diostesso che diventa inutile per gli uomini - non dimentichiamo che l’operazione di Elihu è al centro delprogetto della modernità. Giobbe, lo abbiamo visto molte volte, attende e chiama un Dio che assomiglialla migliore umanità e la superi. Noi siamo capaci di soffrire per le ingiustizie e le cattiverie degli altri, egioiamo per l’amore e la bellezza attorno a noi, anche quando non ne traiamo alcun danno o vantaggiopersonali. È questa compassione umana il primo luogo dove possiamo scoprire la compassione di Dio.

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L’antropologia è il primo banco di prova di ogni teologia che non voglia essere ideologia-idolatria. SeDio non vuole essere un motore immobile né un idolo, deve soffrire per il male da noi compiuto, deverallegrarsi per la nostra giustizia, deve morire con noi sulle nostre croci. Se noi lo sappiamo fare – quantipadri e madri si inchiodano sui legni dei figli? – deve saperlo fare anche Dio.La logica retributiva non è scomparsa dalla terra. La ritroviamo forte e centrale nella 'religione' del nostrocapitalismo globale. Il suo nuovo nome è meritocrazia, ma gli effetti e la funzione sono gli stessi delleantiche teologie economiche: trovare un meccanismo astratto (mai concreto) che riesca a garantire, allostesso tempo, l’ordine logico del sistema e rassicurare la coscienza dei suoi 'teologi'. Così, di fronte agliscarti e alle vittime del Mercato, il circuito 'morale' si chiude riconoscendo la mancanza di qualchemerito nei vinti, nei perdenti ( loosers), nei 'non-smart', che si ritrovano sempre più scartati e incolpatiper la loro sventura. Al termine del monologo di Elihu, il Libro di Giobbe non ci riporta nessuna rispostané di Giobbe né degli amici. Giobbe continua a restare muto, a chiamare un altro Dio. Un Dio che néElihu, né Giobbe, né l’autore del dramma conoscono ancora – e forse neanche noi. Ma questo Dio nuovoverrà? E perché tarda così tanto a venire, mentre il povero continua a morire innocente?

Immagine- Mattia Preti, «Giobbe nel letamaio», secolo XVII

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/15L'ANIMA È VIVA FINCHÉ CERCHIAMO COLUI CHE NON CI HA RISPOSTOUn Dio che sa imparare

Alla fine della sua lotta, che sa essere perduta in partenza – come può l’uomo sperare divincere Dio? – Giobbe scopre un metodo ingenuo per perseverare nella sua resistenza:farà finta di cedere prima ancora di essersi impegnato nella battaglia. ...

Così noi comprendiamo che, malgrado le apparenze, o a causa di esse, Giobbe continua a interrogare ilcielo Elie Wiesel, Personaggi biblici attraverso il Midrash

Il Dio biblico apprende dalle nostre domande grandi e disperate, e si sorprende quando gliele poniamoper la prima volta. Le risposte di Dio nel Libro di Giobbe non riescono però a eguagliare le domande diGiobbe E le sue parole non sono all'altezza morale delle parole dell'innocente. Ma è proprio qui che sirivela l'alleanza tra le parole del Signore e quelle dell'uomo

Avvenire 21 giugno 2015

Quando, dopo averlo atteso e desiderato tanto e per lungo tempo, arriva l’incontro decisivo, è normaleche ci deluda. Quell’incontro immaginato e sperato era troppo grande per poter essere appagatodall’incontro reale. Lo avevamo sognato, 'visto' mille volte nella nostra anima. Avevamo pronunciato nelpetto le prime parole nostre e dell’altro-a, scelto il vestito nostro e intravisto il suo, sentiti gli odori e uditii suoni. Non ci sono parole, vestiti, odori, colori, suoni reali che possano eguagliare quelli immaginati mastampati nel nostro cuore anelante. Anche la fede, ogni fede, si nutre di questi scarti tra gli incontrisognati e gli incontri accaduti, e la sorpresa, anche la delusione, è la prima esperienza di ogni autenticavita spirituale, il primo segno che il Dio che attendevamo non era né un idolo né soltanto un sogno.Perché se chi viene è troppo simile a chi abbiamo sognato, è certo che da quell’incontro non usciremocambiati. L’anima è viva e non si spegne finché non smettiamo di bramare quel Dio diverso che non si èpresentato all’appuntamento.E così, dopo un’attesa estenuante, stiamo per assistere alla comparsa nell’aula del tribunale del teste piùimportante, quello invocato senza tregua da Giobbe. Il Libro di Giobbe è grande anche perché è statocapace di trattenersi e trattenerci nel silenzio di Dio per trentasette capitoli. Non entrando in scena,Elohim ha consentito a noi di spingere fino in fondo le nostre domande, e a Giobbe di terminare il suopoema. Troppe volte i nostri canti non diventano capolavori perché gli avvocati di Dio lo fanno entraretroppo presto sulla scena. La presenza più vera di Elohim nel dramma di Giobbe è stata la sua assenza, lesue parole più belle quelle non dette quando gli amici gli chiedevano di parlare e far sentire la sua vocepotente. Un cielo muto ma vero salva di più di un cielo popolato di parole troppo poco umane per esserevere.Dio inizia a parlare dal mezzo della tempesta, ma non risponde alle domande di Giobbe, non scende sulpiano dove lo aspettavamo. Perché? Nessuna teologia può rispondere in astratto alle domande piùradicali che salgono dal dolore innocente del mondo. Gli uomini sanno fare a Dio più domande dellerisposte che Egli può darci, perché un Dio che abbia risposte pronte e perfette per tutti i nostri perchégrandi e disperati è soltanto una ideologia o, nei casi peggiori ma molto comuni, un idolo stolto cheabbiamo costruito a nostra immagine e somiglianza.Il Dio biblico impara dalle nostre domande grandi e disperate, si sorprende quando gliele poniamo per laprima volta. Se non fosse così, la creazione, la storia, noi e il tempo sarebbero finzioni, e saremmo tuttidentro un set televisivo con Dio come unico spettatore annoiato. Solo gli idoli non imparano nulla dagliuomini, perché sono morti senza essere mai stati vivi. Gli scarti tra le nostre domande e le risposte di Diosono lo spazio per l’esperienza vera della fede, e quando le teologie cercano di ridurre o azzerare questiscarti non fanno altro che allontanare il loro uomo e il loro Dio dalla Bibbia.«Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: Chi è mai costui che oscura il mio piano condiscorsi da ignorante? Cingiti i fianchi come un combattente: io t’interrogherò e tu mi istruirai! Quandoponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le suedimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi haposto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli diDio?» (38,1-7). Elohim non accetta il dialogo alla pari che gli aveva chiesto Giobbe, e non risponde alle

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sue domande. Lo rimprovera e gli ricorda l’abisso infinito che separa il creatore dalla creatura - un abissoche Giobbe conosceva ma che non gli ha impedito di querelare Dio. Non chiama Giobbe per nome ma'censore' e 'accusatore' (40,2). Il libro di Giobbe non conosce un Dio capace di lottare alla pari con

Giobbe, e forse nessun libro sacro lo conosce. Solo un Dioestremo poteva stare accanto all’umanità estrema di Giobbe. IlDio del libro, infatti, riesce solo a zittire Giobbe, a riportarlodentro le coordinate di creatura, ma così facendo riconduceanche se stesso dentro le barriere teologiche dalle quali Giobbeaveva tentato per tutto il suo canto di disincagliarlo. Giobbeaveva chiesto un Dio più grande di quello che aveva conosciuto;ma, alla fine del suo poema, ritrova lo stesso Elohim della suagiovinezza, come se il dramma di Giobbe non avesse insegnatonulla al cielo. Forse al libro non potevamo chiedere di più. Manoi a Elohim possiamo e dobbiamo chiedere di più, dobbiamochiedergli di essere diverso da come ce lo presenta questo grandelibro biblico, forse il più grande di tutti.Dobbiamo continuare, con Giobbe, a fare domande più grandidelle risposte che otteniamo, a non accontentarci di un Diotroppo simile a quello che conoscevamo e che la teologia ci haraccontato: creatore, onnipotente, sapiente, magnifico. Tuttoquesto lo sapevamo già prima di conoscere Giobbe. Ora, dopoaverlo ascoltato e pianto con lui di fronte al dolore innocentedella storia, non ci basta più il Dio-prima-di-Giobbe. Non è ildiscorso di Elohim preso a sé che delude (se lo estrapoliamo daquesto libro ci troviamo molta poesia e bellezza): è il discorso diDio che arriva alla fine del grido di Giobbe che ci lasciainsoddisfatti. Possibile che solo noi siamo cambiati, e cheElohim sia invece rimasto quello della scommessa con il Satanche abbiamo incontrato nel Prologo del libro (capitoli 1-2)? Ma

allora il dolore innocente del mondo non svela anche a Dio qualcosa di nuovo sull’universo? E se è così,a che cosa serve restare fedeli e onesti fino alla fine, nelle solitudini infinite?Abbiamo allora il dovere spirituale ed etico di chiedere di più, di continuare a implorare Dio di dirciqualcosa che non ci ha ancora detto. Perché se non lo facciamo perdiamo definitivamente contatto con ipoveri e con le vittime, con chi continua a gridare, con chi è troppo impotente di fronte allo spettacolodel male per essere consolato dall’onnipotenza di Dio. I poveri e le vittime non si zittiscono mai in nomedi Dio, neanche quando imprecano contro il cielo. Quando si guarda il mondo assieme alle vittime,quando si frequentano veramente le periferie esistenziali, sociali, economiche, morali del mondo,l’onnipotenza e la forza di Dio appaiono troppo lontane, e, soprattutto, non ci spingono a far di tutto perridurre con la nostra libertà la sofferenza del mondo. Nessuna narrazione delle mirabilie dell’universo,nessuna descrizione magnifica dei terribili Behemot («Rizza la coda come un cedro, i nervi delle suecosce s’intrecciano saldi, le sue vertebre sono tubi di bronzo, le sue ossa come spranghe di ferro» (40,17-19), e Leviatàn («Il suo dorso è formato da file di squame, saldate con tenace suggello: l’una è così unitacon l’altra che l’aria fra di esse non passa ...» (41,7-8), possono consolare e amare chi urla mentreaffonda nel mare, né chi muore solo in un letto di un elegante ospedale. Solo il Dio atteso da Giobbepotrebbe incontrarli e raccogliere le loro grida. Ma questo Dio non lo troviamo nel libro di Giobbe: «Chiha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubie lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo il chiavistello e dueporte dicendo: 'Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde'?» (38,8-11).All’orecchio e al cuore di Giobbe, solo sul letamaio, nel guado della sua disperazione, queste parole, insé perfette, avranno prodotto gli stessi effetti delle parole sapienti e sagge dei suoi 'amici': hanno soloaumentato la sua solitudine e il suo abbandono. Infatti, anche questo Dio cerca la conversione di Giobbee chiede la sua resa – che otterrà: «Il Signore prese a dire a Giobbe: 'Il censore vuole ancora contenderecon l’Onnipotente?L’accusatore di Dio risponda!'. Giobbe prese a dire al Signore: 'Ecco, non conto niente: che cosa ti possorispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato,ma non continuerò'» (40,3-5). Giobbe, come tante vittime innocenti, è azzittito, ammutolito. Questo

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Elohim, avvocato difensore della propria insondabile onnipotenza, non è il Dio che i poveri e gliinnocenti come Giobbe cercano, e meritano.Le risposte di questo Dio non riescono a eguagliare le domande di Giobbe. Le sue parole non sonoall’altezza morale delle parole di Giobbe. Ma – e sta qui il mistero straordinario della Bibbia – anche leparole di Giobbe sono parole di Dio, perché incastonate dentro l’unica scrittura. Possiamo alloraascoltare la voce di Dio facendo parlare Giobbe che lo denuncia e lo attacca.Definendo 'sacro' l’intero libro di Giobbe (e gli altri libri) la tradizione biblica ha realizzato un’alleanzameravigliosa ed eterna tra le parole di YHWH-Elohim e quelle degli uomini. La parola di Dio nel Librodi Giobbe, e in tutta la Scrittura, va cercata anche nelle pagine dove parla e grida Giobbe; dove parlanogli uomini, nelle loro domande estreme senza risposte. Possiamo pregare Dio anche con le parole senzaDio di Giobbe. È questo Dio meticcio, che ha voluto impastare le sue parole con le nostre, il solo capacedi parlarci dai roveti della terra, e da lì chiamarci ancora per nome.

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/16FINCHÉ SIAMO CAPACI DI DOMANDE SIAMO LIBERI, ANCHE CON DIONell'incontro non c'è maledizione

Av venire 28 giugno 2015

Non è raro che i poveri vengano privati anche della dignità di interrogarci sul perché della loro povertà.Li convinciamo che l’errore non sta nella nostra mancanza di risposte, ma nelle loro domande sbagliate,impertinenti, superbe, peccaminose.L’ideologia della classe dominante persuade le vittime che chiedere ragioni sulla loro miseria e sullaricchezza degli altri è illecito, immorale, magari irreligioso. Quando i poveri, o chi dà loro voce,smettono di porre a loro stessi, agli altri e a Dio le domande più vere e radicali, che nascono dalla lorocondizione oggettiva e concreta, e si tacciono o ne formulano di più gentili e innocue, la loro schiavitù

inizia a diventare irreversibile. Si puòsempre sperare di liberare noi stessi oqualcuno da una “trappola di povertà”materiale, morale, relazionale, spirituale,finché continuiamo a chiederci e achiedere: “perché?”Dopo che Elohim da dentro la tempesta hamagnificamente descritto animali e mostrimarini, zittendolo con lo spettacolo della

sua onniscienza e onnipotenza, «Giobbe prese a dire al Signore: “Comprendo che tu puoi tutto e chenessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero hoesposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo”» (Giobbe 42,1-4).Come interpretare queste parole? Dio non gli ha detto nulla sul perché dell’ingiusta sofferenza degliinnocenti e sul benessere sbagliato dei cattivi, che erano le vere domande cui Giobbe attendeva rispostedurante il suo incredibile processo a Dio. Cercava una nuova giustizia ed Elohim gli ha risposto con undiscorso astratto, che somigliava troppo a quelli dei suoi “amici” che lo avevano umiliato e addolorato intutta la prima parte del suo libro. Come è possibile, allora, al termine della sua infinita attesa, Giobbesenta appagata la sua fame e sete di giustizia dalle non-risposte di Elohim, e addirittura ammetta di averfatto le domande sbagliate («ho esposto cose che non capisco»)? No, questo Giobbe non può esserequello che abbiamo conosciuto lottando come un leone nella sua querela a Dio. Come e dove possiamotrovare una coerenza tra il primo e l’ultimo Giobbe?Ogni tanto nella vita degli scrittori succede qualcosa di sublime, quando il personaggio del libro diventapiù grande dell’autore che gli sta dando vita. Gli sfugge di mano, inizia a vivere una sua vita propria, acrescere fino ad arrivare a pronunciare parole e a scoprire verità che lo stesso autore non pensava néconosceva. L’autore diventa allievo del suo personaggio. Questa vera e propria estasi si verifica in ogniautentica opera letteraria – e se uno scrittore non ha mai fatto questa esperienza si è semplicementefermato nell’anticamera della letteratura –, ma negli autori veramente grandi la trascendenza delloscrittore nei suoi personaggi produce i capolavori. È però necessario che l’autore abbia la forza spiritualedi morire molte volte per rinascere ogni volta in modo diverso, e di resistere a lungo senza cedere allatentazione di possedere e controllare le sue “creature” impedendo loro di crescere nella loro libertà ediversità. Sono queste esperienze letterarie (e artistiche in generale) che rendono la vera letteratura el’arte non fiction ma scoperta del reale più vero. Se non fosse così, i romanzi e i racconti sarebbero soloproiezioni dei loro autori, scrittura di ciò che esisteva già. È invece grazie a questa capacità trascendentedegli scrittori – che è soprattuttocharis, dono – che Edmond Dantes, fra’ Cristoforo, Zosima, Pietro Spina, Katjuša Maslova, sono piùreali e veri delle persone che incontriamo sotto casa, e ci amano come e più dei nostri amici, delle nostremadri, dei nostri figli. Gli scrittori fanno più bello il mondo popolandolo di creature vere più grandi diloro.Credo che a quel lontano autore senza nome del Libro di Giobbe sia accaduto qualcosa del genere. E cosìè nato il capolavoro, forse il più grande di tutta la Bibbia. Quando l’antico scrittore di questo libro – omagari, non possiamo saperlo, una comunità di saggi – ha iniziato il suo poema, non poteva sapere che

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Giobbe sarebbe arrivato a rivolgere a Dio e alla vita quelle domande così radicali e rivoluzionarie.Giobbe è cresciuto immensamente lungo il suo dramma, e la grandezza morale del suo grido ha superatodi gran lunga la teologia e la saggezza del suo autore. Così quello scrittore, dopo aver seguito Giobbesulle cime delle sue vette più alte, dopo averlo fatto parlare anche quando diceva cose e poneva domandeche lui stesso non capiva né avrebbe mai osato pensare e scrivere, ha forse fatto l’esperienza reale di nonavere più a disposizione un Dio (una teologia) capace di dialogare veramente con quel Giobbe. Elohimnon era cresciuto durante il suo poema – anche perché la crescita di Dio su questa terra può avvenire soloassieme alla crescita degli uomini. E così quando si trovò a dover dare finalmente la parola a Dio, sentìl’enorme scarto tra un Giobbe cresciuto durante tutto il libro e un Dio rimasto fermo dentro di lui. Perquesta ragione è plausibile e affascinante pensare – insieme ad alcuni esegeti – che la prima stesura dellibro terminasse nel capitolo 31 («Sono finite le parole di Giobbe»: 40b), senza Elihu e senza nessunarisposta di Elohim.Ma possiamo provare ad attribuire allo stesso autore anche questi ultimi capitoli difficili e scomodi,osando un’altra interpretazione, la cui chiave di lettura è contenuta nel Prologo del libro (1-2), nellascommessa tra il Satan e Elohim sulla natura della giustizia di Giobbe. Il libro si era aperto con il Satanche sfidava Dio a mettere alla prova Giobbe per verificare se fosse egli giusto per interesse o per puroamore gratuito per Dio, se quindi di fronte alla distruzione di tutti i suoi beni e della sua pelle avrebbesmesso di benedire Dio, maledicendolo.Giobbe inizia la sua prova, resiste fino alla fine aggrappato a una sola speranza: poter vedere comparireDio sul banco degli imputati. Alla fine del suo cantico e della sua prova, entra in scena Dio: non si siedeperò nell’aula del tribunale, non risponde alle domande di Giobbe e lo ammutolisce con la suaonnipotenza.È forse in questo momento che Giobbe arriva al culmine della sua prova. In nome del suo Dio-del-non-ancora atteso e che non era comparso Giobbe poteva condannare e maledire quel Dio che era arrivato. Eil Satan avrebbe vinto la sfida. Giobbe invece pur non trovando il Dio che attendeva e sperava, continuòa benedire Elohim: «Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai! Io ti conoscevo solo persentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere»(42,5-6).Giobbe supera l’ultima tentazione e Dio vince la sua scommessa contro Satan. Non maledice il Dio chenon ha risposto alle sue domande, che non gli si è mostrato capace di prendere veramente sul serio iperché più difficili e più veri dell’uomo e dei poveri innocenti.Giobbe “vede” finalmente Dio, ma in realtà rivede il Dio che già aveva conosciuto in gioventù, non vedequel volto nuovo e diverso che aveva anelato. Il Goel, il mallevatore che aveva disperatamente pregatonon è arrivato, Dio non ha mostrato un altro volto ancora ignoto.Ma ora Giobbe non si ribella più e si placa. Finché era ancora nel tempo dell’attesa, quando si poteva edoveva chiedere tutto nella speranza che arrivasse un Dio diverso, avrebbe potuto protestare e imprecaresenza maledire Dio. E lo fa fatto. Ora che il tempo dell’attesa è finito e Dio ha parlato, se Giobbe avessecontinuato la sua protesta, questa sarebbe diventata necessariamente bestemmia. Soltanto un Dio che nonsi era ancora rilevato poteva accogliere le urla dissacratorie di Giobbe, non il Dio che è alla fine arrivato.Se Giobbe avesse ripetuto al Dio-arrivato le denunce e le accuse che aveva rivolto al Dio-atteso, questesarebbero state solo maledizione.Giobbe parlava e gridava a un volto di Dio oltre Elohim, e non essendo arrivato si è trovato di fronte auna sola drammatica scelta: maledizione o resa incondizionata. E scelse la resa.Ci sono nella vita dei momenti decisivi quando il bivio “maledizione-resa” si presenta in tutta la suadrammaticità. Per molti la morte arriva sotto la forma di questo bivio drammatico. Quando dopo averlottato a lungo, impiegato tutte le energie proprie, della famiglia, della medicina, giunge finalmente ilgiorno in cui capiamo che ci resta ancora un’ultima scelta tra due sole possibilità: quella suggerita dallamoglie di Giobbe («Maledici Dio, poi crepa»: 2,9) o la resa docile. E anche in questa ultima scelta èmolto probabile che l’angelo di Dio che viene non è quello che abbiamo atteso, che la vita che stafinendo non ha risposto alle grandi domande che le abbiamo fatto dal giorno dei primi perchédell’infanzia. E anche in quell’ora dovremo decidere se morire benedicenti e miti o maledicenti earrabbiati.Ma il bivio tra la resa e la maledizione ci si pone puntualmente di fronte anche nelle relazioni importantidella nostra vita, quando davanti alla delusione per un figlio o un amico che ci dà risposte inferiori aquelle che ci aspettavamo e che doveva darci, invece di maledirlo e perderlo scegliamo di arrenderci e

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benedirlo così come ci appare, accogliendo quella delusione per salvare la fede-fiducia in quel rapporto.E magari da questo momento il nostro “personaggio” può iniziare a sorprenderci.Giacobbe ( Jacob) ricevette la benedizione dall’angelo di Elohim insieme alla ferita all’anca, nel grandecombattimento nel letto dello Yabboq (Genesi 32).Giobbe ( Job), nel guado del suo fiume di sofferenza, viene ferito da Elohim ma è lui a benedirlo. Il Diodi Giacobbe ferisce e benedice, quello di Giobbe ferisce e viene benedetto. E grazie a Giobbe, eall’autore del suo libro, la terra e cielo si rincontrano in una nuova reciprocità, dove anche Elohim ci sipuò rivelare bisognoso della nostra benedizione.

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UN UOMO DI NOME GIOBBE/17NEL POEMA DELLA VITA, LA PRIMA E L’ULTIMA ORA SONO DONOIl canto che non può finireSono io, in Giobbe, che canto, è l’uomo che esiste e, se si vuole, è l’uomo stesso, che può guardareattraverso questo libro – il più suo – per trovare la luce che va cercando. Perché, dopo Giobbe, sul

problema della nostra vita, da parte dell’uomo, non si è detto più nulla di nuovo DavidMaria Turoldo, Da una casa di fango - Job

L'autore del Libro di Giobbe ha lasciato l'Epilogo dell'antica leggenda di Giobbe, come icostruttori delle prime chiese cristiane, che utilizzarono le pietre e le colonne dei

precedenti templi romani e greci. Come in tutti i racconti più belli, la vera conclusione è quella nonscritta e che il lettore ha il diritto e il dovere di scrivere.Grazie all'antico autore senza nome. Grazie per il libro. Ma soprattutto grazie per GiobbeAvvenire 5 luglio 2015C’ era una volta un uomo giusto di nome Giobbe, con molti beni, figlie e figli, benedetto da Dio e dagli

uomini. Un giorno una terribile sciagura si abbattésu di lui e sulla sua famiglia, e quell’uomo accettòcon pazienza il suo destino sventurato: «Nudovenni al mondo, nudo lo lascerò».Amici e parenti, saputa della sua disgrazia econoscendo la sua giustizia, vennero da lui percelebrare il lutto, consolarlo e aiutarlo. Alla fineperò fu Dio stesso a intervenire in suo favore,ridonandogli il doppio di quanto aveva perso,perché Giobbe si era dimostrato fedele e rettodurante la prova. Era questa, o qualcosa di simile,la primitiva leggenda di Giobbe, nota in antico nelVicino Oriente e nella terra d’Israele. L’autore delLibro di Giobbe partì da questa storia. Ne conservòi materiali e con essi scrisse il Prologo (Capp. 1-2)e l’Epilogo: «Il Signore ristabilì la sorte diGiobbe... Raddoppiò quanto Giobbe avevaposseduto. (…) Così possedette quattordicimila

pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. Alla primamise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Argentea. In tutta la terra non si trovarono donnecosì belle come le figlie di Giobbe» (42,10-15).Quando però l’autore si mise a comporre il suo poema, quell’antica leggenda divenne qualcosa di moltodiverso. Nacquero i meravigliosi canti di Giobbe, i dialoghi con gli amici, e forse le parole di Elihu equelle di Dio. E si ritrovò con un’opera che conservava molto poco dell’originaria e pur affascinanteleggenda. Giobbe si mostra tutt’altro che paziente, aveva protestato e gridato contro Dio e la vita. Gliamici da consolatori diventano aguzzini e avvocati di un Dio banale. E lo stesso Dio quando entrafinalmente in scena delude, non arriva per consolare Giobbe, né per rispondere alle sue domande.Quell’antica leggenda divenne il contenitore di una vera rivoluzione teologica e antropologica e di unautentico capolavoro letterario. Così quando arriviamo alla fine del libro, all’Epilogo, siamo stupiti nelleggere: «Dopo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz di Teman: 'La mia ira siè accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servoGiobbe'». (42,7-8). Qui, Dio diventa giudice tra Giobbe e i suoi 'amici', in un processo che Giobbe vincema che non aveva mai chiesto né desiderato (lui aveva processato Elohim, non gli amici). E così Giobbe,prima rimproverato e zittito dal Dio onnipotente, ora diventa improvvisamente 'il suo servo', l’unico cheha detto cose 'rette'. Nessun cenno alla malattia di Giobbe, alla sua ribellione, alla scommessa con ilSatan.Evidentemente ci troviamo di fronte a materiali provenienti da tradizioni diverse, ma dobbiamo tentare,anche questa ultima volta, un’interpretazione.Certo, anche qui potremmo risolvere facilmente il problema dicendo che l’Epilogo lo ha aggiunto untardo redattore finale, magari lo stesso che ha aggiunto il Prologo. Sono, infatti, in molti a proporre

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questa soluzione. Ma non tutti. Alcuni pensano invece che sia stato lo stesso autore del grande poema diGiobbe a voler lasciare i materiali dell’antica leggenda, come quei costruttori delle prime chiesecristiane, che utilizzarono le pietre e le colonne, a volte anche i perimetri, dei precedenti templi romani egreci. E così, incastonati dentro la sua cattedrale, l’antico autore ci ha tramandato anche magnifichecolonne e meravigliosi capitelli. Ma quegli antichi materiali, insieme alla loro bellezza, lasciarono ineredità anche qualche vincolo architettonico e stilistico in più. Chi scrive partendo da altre storie ricevutein dono (e ogni scrittore lo fa, fossero solo i racconti e le poesie che lo hanno nutrito: ogni parola scritta èprima parola ricevuta), sa che se vuole che quel dono fruttifichi deve rispettarlo. Non può solo usarlo perla propria costruzione senza ubbidire allo 'spirito' che quella storia gli ha donato inciso nel dono stesso.Sta anche qui quel continuo ed essenziale esercizio di verità e di gratuità cui è chiamato chi non a scopodi lucro, ma per servire il daimon che lo abita, e che in lui abita la terra.Tutte le storie, anche le più grandi, nascono sopra colonne erette da altri.«Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni.Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (42,16-17). È questo l’ultimo verso del Libro di Giobbe. Lestorie hanno un profondo, quasi invincibile bisogno del lieto fine. La domanda di giustizia, il desiderio divedere alla fine il bene trionfare e gli umili innalzati, sono troppo radicati e radicali in noi e nel mondoper poterci accontentare di drammi e di racconti che terminano con i 'perché' del penultimo capitolo. Noiperò sappiamo che i Giobbe della storia non muoiono come i patriarchi 'vecchi e sazi di giorni'. I Giobbevivi muoiono troppo presto, a volte non diventano neanche adulti; non gli vengono restituiti beni e figli(anche perché nessun figlio può essere sostituito dal dono di un altro figlio), la salute è persa per sempre,le ferite non vengono sanate, i potenti hanno sempre ragione, Dio non risponde, la loro sventura nonfinisce mai, il loro grido non si placa. Ma, più radicalmente, i figli e i beni che la vita ci dona non sonoper sempre, la buona salute prima o poi finisce, e se abbiamo il dono di guardare in faccia l’angelo dellamorte, quasi sempre spiriamo con un 'perché', che se pronunciato insieme a un 'amen' e magari a un'grazie' si ammansisce, ma non scompare.Allora mentre leggiamo questo Epilogo, che ci è arrivato come il dono di un’antica perla, non dobbiamodimenticare il canto di Giobbe e, anche grazie ad esso, il canto-grido dei tanti Giobbe che non conoscononé sarebbero aiutati da quell’ultimo capitolo – che ci riporta dentro la teologia retributiva degli 'amici' diGiobbe. E poi non terminiamo il libro con la lettura del capitolo 42. Torniamo indietro alla preghiera allaterra («Terra il mio sangue non ricoprire, il mio grido non abbia mai fine»: 16,18), alla querela di Giobbea Dio («Se c’è nelle altezze di Dio il mio testimone […] giudichi lui tra un uomo e Dio, come si giudicatra due pari»: 16,19-21), alle sue proteste disperate («Io grido a te, ma tu non mi rispondi, insisto, ma tunon mi dai retta»: 30,23).Sono queste le parole con cui possiamo e dobbiamo pregare tutti, anche quelli che pregano solo perchiedere che il cielo non sia vuoto. Il Giobbe amico degli uomini, solidale con ogni creatura e con ognivittima, è quello che si ferma un passo prima dell’Epilogo. È questa la strada di ogni vera solidarietàumana, quella che parte dalla sventura e finisce con la sventura, e che si sorprende, insieme allosventurato, se e quando arriva il paradiso, in terra o in cielo. Il paradiso è sempre il capitolo donato,quello che nessun libro può scrivere per noi, neanche gli immensi libri della Bibbia, perché se fosse giàscritto non saremmo ancora usciti dal libro ed entrati nel mistero della nostra vita, che è vita proprioperché i capitoli ultimi possono essere solo i penultimi.Ma forse c’è un altro messaggio nascosto dentro questo Epilogo donato. Non siamo noi gli scrittori delnostro finale. Non siamo noi i creatori delle aurore e dei tramonti più belli della nostra vita, perché sefossero nostre creature non ci sorprenderebbero, non sarebbero meravigliosi come il primoinnamoramento o come l’ultimo sguardo della nostra sposa. Come nei racconti più belli, dove la veraconclusione è quella non scritta e che ciascun lettore ha il diritto e il dovere di scrivere (i romanzi eternisono quelli in-finiti). Anche noi veniamo al mondo dentro un orizzonte che ci accoglie e che modella ilpaesaggio che andremo ad abitare. Scriviamo il poema della nostra vita, ma il prologo e l’epilogo ci sonodonati, e il capolavoro nasce quando siamo capaci di inscrivere il nostro canto all’interno di una sinfoniapiù antica e più grande. Possiamo e dobbiamo scrivere le molte ore della nostra giornata, ma la prima el’ultima sono dono – e forse per questo sono le più vere. È stato difficile iniziare Giobbe, e ora è ancorapiù difficile lasciarlo. Si vorrebbe restare, tanto è stupendo il paesaggio che si contempla dalla cima doveci ha condotti, tenendoci per mano nel cammino. Grazie antico autore senza nome. Grazie per tutto il tuolibro. Ma soprattutto grazie per Giobbe. Il commento della Genesi è stata un’avventura grande del cuoree dello spirito.

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L’Esodo la scoperta della forza della voce di YHWH sulla terra e di quella dei profeti, che non sonofalsi-profeti se liberano gli schiavi e i poveri. Ma Giobbe è stata la scoperta più inattesa, il dono piùgrande che ho ricevuto da quando scrivo. Grazie a chi mi ha seguito - per tutto il cammino o per untratto. Molti commenti che ho ricevuto sono entrati nella riflessione, molte parole sono diventate le mieparole. Di questi grandi testi si può parlare solo insieme, cantandoli in coro.C’era una volta un uomo di nome Giobbe. Il Dio che Giobbe cercava, sperava, amava, però non èarrivato. Gli innocenti continuano a morire, i bambini a soffrire, il dolore dei poveri ad essere quello piùgrande che la terra conosca. Giobbe ci ha insegnato che se c’è un Dio della vita deve essere il Dio delnon-ancora. E che quindi può venire in qualsiasi momento, quando meno ce lo aspettiamo, lasciandocisenza fiato. Vieni!Immagine - INSIDIA. Il diavolo tenta Giobbe

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Dopo due domeniche di riposo, necessario dopo l’attraversamento del 'continente Giobbe', il 26 luglioriprenderanno i nostri dialoghi, grazie al direttore Marco Tarquinio che continua a credere a questainsolita 'pagina tre' della domenica di 'Avvenire'.E grazie a Luigino Bruni, economista e scrittore, che continua a credere, come noi, che il duro esplendido tempo che ci tocca vivere si possa capire, amare e salvare incontrando profondamente laParola che ci ha pronunciati e che non cessa di dirsi e di dirci per amore. (mt)